Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2019

 

IL GOVERNO

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

 

         

 

  

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

IL GOVERNO

PARTE PRIMA

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

I neoborbonici tra sovrani e sovranisti.

I Borbone da sempre sotto attacco sulle spinte straniere.

Garibaldi, dalla spedizione dei Mille ai partigiani.

Alla ricerca dei garibaldini scomparsi.

11 Maggio 1860, mille avanzi di galera, comandati da un bandito, sbarcarono a Marsala.

L’esercito piemontese d’invasione del Meridione d’Italia: razzista ed analfabeta.

Battaglie e sofferenze degli italiani: un secolo di guerre.

Sud, un errore lungo 70 anni.

I predoni stranieri dell'Italia.

La Cina alla conquista dell'Italia.

Venezuela, la Russia accusa gli Stati Uniti all'Onu: "Un golpe contro Maduro".

La retorica degli Europeisti.

Italia trattata come la vacca da mungere.

Francia e Germania, ecco il patto d’acciaio.

Italia, colonia Franco-Tedesca.

La grande globalizzazione? Cose già viste.

L’Ordine Liberale.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

Fatta l’Italia si sarebbero dovuti fare gli italiani.

I Fobo, ossia: gli indecisi. Cioè: gli italiani.

Italia. La Repubblica umiliata, fondata sui brogli al referendum Repubblica-Monarchia.

L’imprudenza dei socialisti.

Il Piano Marshall ha salvato gli Stati Uniti.

Giugno 1944: gli Italiani in Normandia nei giorni dello sbarco.

Prigionieri militari italiani in Russia: Il Pci nascose tutto.

Così l'Italia è entrata nella Grande guerra contro nemici e alleati.

4 novembre 2018: una data divisiva. Una inutile carneficina o una grande vittoria per l’Unità d’Italia?

Quando Calamandrei voleva collegare politica e magistratura.

11 gennaio 1948, Mogadiscio: la strage degli Italiani.

C'era una volta uno Stato.

Lo Stato che non rispetta i patti (senza sensi di colpa).

La Società signorile? Comunisti e non Capitalisti.

Sfaticati e contenti.

Italiani sfiduciati.

Senza prospettive, sogni, giovani e anziani (che se ne vanno).

E’ un paese per vecchi.

La memoria del criceto. Le amnesie italiane.

Le code ed il richiamo del mare.

Gli impegnati.

SOLITA LADRONIA.

Italia, terra di scandali dimenticati.

I pirati della strada.

I Topi d’appartamento.

Test del portafoglio.

I Furbetti del Cartellino.

I furbetti della bolletta fanno sparire 10 miliardi.

I falsi invalidi.

Le pensioni eterne.

Le 11 truffe online più sofisticate in giro in questo momento.

Il Paese della corruzione percepita. Gli italiani e il senso civico: per uno su tre è giustificabile non pagare le tasse e farsi raccomandare.

Evasori ed indigenti.

Viaggio nelle feste dei collettivi: un cocktail a 5 euro (in nero).

La mancia per gli evasori.

Il governo dei condoni: ecco tutti i regali a evasori e furbetti.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

Dai tiranni al popolo: radiografia del potere.

Il costo della democrazia: se la politica diventa un passatempo per ricchi.

Perché la democrazia rappresentativa è in crisi.

In che giorno si vota?

I Picconatori.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

Democrazie mafiose. «La sinistra è una cupola».

1, 2, 3… Politica: a quale repubblica siamo arrivati.

L'Astensionismo al voto.

Le colpe dei padri non ricadano sui figli e viceversa.

Benedetto Croce riannodò i fili  dell’Italia ferita e divisa in due.

Prima Repubblica, le due anime dei «partiti laici».

Dal civilizzato Civil Law al barbaro Common Law. Inadeguatezza Parlamentare e legislazione giudiziaria.

Un Parlamento di "Coglioni" voterà leggi del "Cazzo".

La maledizione dei Presidenti della Camera dei Deputati.

Il Governo del rinvio e del posticipo.

Il Governo “Salvo Intese” e “Varie ed eventuali”.

Le Metafore della Politica.

La politica degli strafalcioni.

Mattarella agli studenti: "La politica non è un mestiere.

Governi la Regione e poi vai in galera…

Gli Assessori alla "Qualunque".

Comuni in fallimento.

Da Citaristi a Centemero e Bonifazi, il rischioso mestiere del tesoriere di partito.

Maledizione quaranta per cento…

Referendum Propositivo. Perché questo silenzio?

Rissa di Stato. Nel 1994 toccò a Tatarella, oggi a Conte. Ed i media, con l'opposizione, sono sempre contro le istituzioni.

Parlamento: Guerra, Peace e Love.

Paese che vai, guerriglia che trovi.

Perché il populismo?

Basta sparare sulle élites.

L’élite: La Politica con le Facce da Culo.

L'Italia non è per gli Uomini soli al Comando.

Prove tecniche di ribaltone.

Le Querele portano bene...al Governo.

Il Governo Calabrone.

Conflitto d'interessi e memoria corta.

La Perdita di Sovranità.

E la chiamano Democrazia...

Quando i ribaltoni erano una cosa seria.

Don Sturzo ed il Partito popolare. I “liberi e forti” cent’anni dopo.

Il Contropotere: I Dorotei.

Sui reati dei Ministri non c’è certezza.

"Il denaro ha sostituito la politica".

Come parla la politica.

In principio c’era la tribuna politica.

I Rapporti Gay in politica.

 

PARTE SECONDA

SOLITA APPALTOPOLI.

La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».

Consip e la sindrome del ricorso e dell’indagine.

Gli Iter farraginosi dei malpensanti provocano ad ogni appalto una tangente.

5 ragioni per cui la corruzione blocca l'economia italiana.

Caselli: ''Cene e nomine di giudici: una rogna preoccupante''.

Corruzione: Cananzi (magistrato) “il peggior peccato è l’omissione”.

Appalti puliti, cantieri chiusi.

L'Italia è un paese fondato sulla mazzetta. Micro corruzione, la vera piaga italiana: ogni otto ore un caso di mazzette e favori illeciti.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

I moralizzatori di sinistra anti Trump.

Test di medicina: ecco le ricerche Google degli studenti furbetti!

Le lungaggini dei concorsi pubblici.

La beffa del concorso per anestesisti annullato perché «i quiz erano sbagliati».

Il Futuro a Numero Chiuso.

Scandalo doppio ai concorsi Inps.

Il Concorso in Polizia e gli aspiranti poliziotti.

I concorsi pubblici dei Presidenti del Consiglio dei Ministri.

Concorsi su Misura: Ad Personam.

I bandi per addetti stampa, «fatti su misura».

I Navigator nominati.

Un concorso truccato per aspiranti magistrati.

Processati 6 noti avvocati. Avrebbero truccato il loro esame di Stato per l’abilitazione alla professione.

Avvocatura: “Assegnazioni clientelari”.

Polizia Penitenziaria, concorso truccato: 3 arresti e ben 160 indagati.

Concorsi truccati nella sanità.

L’Università dei Baroni.

Università, si uccide per un concorso truccato.

In Ateneo. Tra moglie e marito non mettere il concorso.

Concorso dirigenti scolastici: «troppe differenze nei voti».

Concorso prof 2018: gli ultimi saranno i primi.

Lauree facili per i poliziotti.

La maturità (a buon mercato).

La grande menzogna della meritocrazia.

Per i magistrati i figli e gli amici so’ piezz’ ‘e core.

Competizioni sportive truccate.

SOLITO SPRECOPOLI.

Mose, la storia infinta.

Rimini, ecco la questura mai nata.

Addio (d'oro) dei commissari Ue.

Le polemiche d'aria fritta sui voli di Stato.

Governo che va, Auto Blu che resta.

Alitalia, in due anni erogati  900 milioni di prestito pubblico. 

L’Europa Matrigna ed i soliti coglioni.

Le Scorte. Sprechi presidenziali emeriti.

Forze dell’ordine: si spende in statue e scorte ma mancano le divise.

La voragine nell’Erario: tra ticket, doppi lavori e truffe sulle pensioni.

Quanto costano gli europarlamentari?

Si tagliano un po' di parlamentari, ma non si toccano i dipendenti di Camera e Senato.

Sei milioni in avvocati. Puglia sotto inchiesta.

Beppe Grillo è lapidario: "La Tav? È morta..."

Lo spreco degli ammortizzatori sociali per foraggiare l’elettorato comunista.

I Finanziamenti ai Kompagni Comunisti.

L’Unità. Un giornale sul groppone.

Finanziamenti agli amici sportivi.

Legge di Bilancio- Legge Omnibus- – Legge Marchetta.

Il Costo della Politica. 

Il Costo della Burocrazia.

Il Costo delle Opere Incompiute.

Fondazioni, lo spreco è all'Opera.

Ancitel: un carrozzone pubblico.

Dipendenti pubblici, in Valle d'Aosta quasi uno ogni dieci abitanti.

Gli imboscati e la guerra agli sprechi.

La voragine consulenze: in fumo 27 milioni l'anno.

Pensioni: gli sprechi dell'Inps.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Keynes fece rinascere l’economia perché la restituì all’umanesimo.

La Questione Industriale Italiana.

Dove si ruba il TFR.

Lo Stato moroso.

Gettoni d'oro mai coniati, truffa da 700mila euro.

I tesori di lady Eni.

Signoraggio: "Su che libri avete studiato?"

Quando la Dc ordinò l’assalto a Bankitalia.

Il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità).

Quell’errore di Bruxelles che ha fatto fallire le banche italiane.

Quando le banche truffano ed i truffati ci stanno.

Banche e Fisco. Lasciate ogni speranza voi che versate...

Mediobanca, così conquistò il Belpaese.

38 assicurazioni fallite: 500 mila in coda per i rimborsi. 

La dolce vita dei Bancarottieri.

Il debito che piace ai partiti.

La Tassa Rossa. Tassa patrimoniale: la storia dell'imposta che colpisce i risparmi.

Fisco e presunti evasori. Italia prima in Europa per evasione fiscale. E’ vero?

Il business delle lezioni private: vale quasi un miliardo ed è quasi tutto in nero.

La Tassa sulla Fortuna.

Slot, lotto, gratta e vinci:  gli italiani giocano tanto.  

 

 

 

 

IL GOVERNO

PARTE PRIMA

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

       ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Sono un guerriero e non ho paura di morire.

Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Che governi l'uno, o che governi l'altro, nessuno di loro ti ha mai cambiato la vita e mai lo farà. Perchè? Sono tutti Comunisti e Statalisti. Sono sempre contro qualcuno. Li differenzia il motto: Dio, Patria e Famiglia...e i soldi.

Gli uni sono per il cristianesimo come culto di Stato. Gli altri sono senza Dio e senza Fede, avendo come unico credo l'ideologia, sono per l'ateismo partigiano: contro i simboli e le tradizioni cristiane e parteggiando per l'Islam.

Gli uni sono per la Patria e la difesa dei suoi confini. Gli altri sono senza Patria e, ritenendosi nullatenenti, sono senza terra e senza confini e, per gli effetti, favorevoli all'invasione delle terre altrui.

Gli uni sono per la famiglia naturale. Gli altri sono senza famiglia e contro le famiglie naturali, essendo loro stessi LGBTI. E per i Figli? Si tolgono alle famiglie naturali.

Gli uni sono ricchi o presunti tali e non vogliono dare soldi agli altri tutto ciò che sia frutto del proprio lavoro. Gli altri non hanno voglia di lavorare e vogliono vivere sulle spalle di chi lavora, facendosi mantenere, usando lo Stato e le sue leggi per sfruttare il lavoro altrui. Arrivando a considerare la pensione frutto di lavoro e quindi da derubare.

Alla fine, però, entrambi aborrano la Libertà altrui, difendendo a spada tratta solo l'uso e l'abuso della propria.

Per questo si sono inventati "Una Repubblica fondata sul Lavoro". Un nulla. Per valorizzazione un'utopia e una demagogia e legittimare l'esproprio della ricchezza altrui.

Ecco perchè nessuno si batterà mai per una Costituzione repubblicana fondata sulla "Libertà" di Essere e di Avere. Ed i coglioni Millennials, figli di una decennale disinformazione e propaganda ideologica e di perenne oscurantismo mediatico-culturale, sono il frutto di una involuzione sociale e culturale i cui effetti si manifestano con il reddito di cittadinanza, o altre forme di sussidi. I Millennials non si battono affinchè diventino ricchi con le loro capacità, ma gli basta sopravvivere da poveri.

Avvolti nella loro coltre di arroganza e presunzione, i Millennials, non si sono accorti che non sono più le Classi sociali o i Ceti ad affermare i loro diritti, ma sono le lobbies e le caste a gestire i propri interessi.  

Qualcuno la notizia la dà, la maggior parte dei giornalisti la fa. Io le notizie le cerco e le raccolgo, senza metter bocca. Sarà poi il lettore a estrapolarne la verità.

Imparare ad imparare. Ci ho messo anni a capire l’importanza del significato di questa frase. L’arroganza e la presunzione giovanile dapprima me lo ha impedito. Condita da una buona dose di conformismo. Poi con il passare del tempo è arrivata la saggezza.

Capire di dover capire significa non muoversi  a casaccio, senza una meta, senza un fine, senza un programma. Capire di dover capire significa chiedersi che senso ha ogni passo che ci indicano di compiere e che compiamo, ogni prova che superiamo, ogni giorno che spendiamo insieme a delle persone. Quante volte approcciamo un problema con la reale convinzione di risolverlo con indicazioni di altri, senza chiederci se davvero esiste una strada differente per arrivare ad una conclusione sensata.

Ecco, capire di dover capire. Non muoversi a caso, per sentito dire, parlando con le persone sbagliate, non valutando attentamente ogni passo che si deve compiere. Per fare questo dobbiamo essere pronti ad “imparare ad imparare” ovvero lasciare da parte nozioni acquisite e preconcetti e ad aprirci al nuovo.

Imparare ad imparare significa creare un percorso.

Serve leggere libri? Se la risposta è positiva dobbiamo adottare un metodo per selezionare quali libri leggere perché la mole dei libri in circolazione è tale che non potremmo reggere il passo, ne, tantomeno, compararne logica e verità.

Come era ieri, è oggi e sarà domani.

Libro di Qoelet. Prologo:

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità.

Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?

Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa.

Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà.

Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna.

Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia.

Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire.

Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole.

C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità»? Proprio questa è gia stata nei secoli che ci hanno preceduto.

Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito.

Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana cattocomunista.

La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. (.)

La magistratura per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").

Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità. Affinchè, cane non mangi cane.

Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega conferma.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

Il nuovo comunistambientalismo combatte una battaglia retrograda, coinvolgendo le menti vergini degli studenti che assimilano tutto quanto la scuola di regime gli propini.

L'intento è quello di far regredire una civiltà secolare, sviluppata con conquiste sociali ed economiche.

Il progresso tecnologico ed industriale irrinunciabile è basato sullo sfruttamento delle risorse. Le auto per spostarci, il benessere con gli elettrodomestici e le forme di comunicazione.

Il progresso tecnologico ed industriale ha prodotto benessere, con lavoro e sviluppo sociale, con parificazione dei censi.

 Il Benessere ha fatto proliferare l’umanità.

L'uguaglianza sociale ha portato allo sviluppo sociale con svago e divertimento con il turismo e lo sfruttamento dell'ambiente.

Per gli ambiental-qualunquisti o populisti ambientali il progresso va cancellato. La popolazione mondiale ridimensionata.

Si torna alla demografia latente e gli spostamenti a piedi, nemmeno a cavallo, perchè gli animali producono biogas. Oltretutto, per questo motivo, non si possono allevare gli animali. La nuova religione è il veganismo.

Si comunicherà con le nuvole di fumo. E si torna nelle grotte dove fa fresco l'estate e ci si sta caldi e riparati d'inverno.

Inoltre bisogna che la foresta ed i boschi invadano la terra. Pari passo a pale eoliche e campi estesi di pannelli solari. La natura e l’energia alternativa al primo posto, agli animali (all'uomo per ultimo) quel che resta. Vuoi mettere la difesa di un nido di uccello palustre, rispetto alla creazione di posti di lavoro con un villaggio turistico eco-sostenibile sulla costa? E poi il business delle rinnovabili come si farà?

Come sempre i massimalisti dell'ecologia non mediano: o è bianco o è nero. Per loro è inconcepibile l'equilibrio tra progresso e rispetto della natura e degli affari.

Avv. Mirko Giangrande:

Produci? Tasse!

Lavori? Tasse!

Compri? Tasse!

Vendi? Tasse!

Studi? Tasse!

Inventi? Tasse!

Erediti? Tasse!

Muori? Tasse!

Non fai nulla? Sussidio!!!

Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.

L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.

Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.

Noi non siamo poveri. Ci vogliono poveri. Non siamo in democrazia. Siamo in oligarchia politica ed economica.

Perchè i regimi cosiddetti democratici ci vogliono poveri? Per incentivare lo schiavismo psicologico che crea il potere di assoggettamento. Nessun regime capitalistico o socialista agevola il progresso economico delle classi più abbienti e numerose, che nelle cosiddette democrazie rappresentative sono indispensabili alla creazione ed al mantenimento del Potere.

Il Regime capitalista è in mano a caste e lobby che pongono limiti e divieti al libero accesso ed esercizio di professioni ed imprese.

Il regime socialista è in mano all'élite politica che pone limiti alla ricchezza personale.

Tutti i regimi, per la loro sopravvivenza, aborrano la democrazia diretta e l'economia diretta. Infondono il culto della rappresentanza politica e della mediazione economica. Agevolano familismo, nepotismo e raccomandazioni.

Muhammad Yunus, l’economista bengalese settantottenne, Nobel per la pace nel 2006, che con l’invenzione del microcredito in 41 anni ha cambiato l’esistenza di milioni di poveri portandoli a una vita dignitosa, non ha avuto esitazioni, giovedì 17 maggio 2018 all’Auditorium del grattacielo di Intesa San Paolo a Torino, nell’indicare la via possibile verso l’impossibile: eliminare la povertà. E contestualmente la disoccupazione e l’inquinamento. Come riferisce Mauro Fresco su Vocetempo.it il 24 maggio 2018, tutto il sistema economico capitalistico, nell’analisi di Yunus, deve essere riformato. A partire dall’educazione e dall’istruzione, immaginate per plasmare persone che ambiscono a un buon lavoro, a essere appetibili sul mercato; ma l’uomo non deve essere educato per lavorare, per vendere se stesso e i propri servizi, deve essere formato alla vita; l’uomo non deve cercare lavoro, ma creare lavoro, senza danneggiare altri uomini e l’ambiente. Perché ci sono i poveri, si domanda Yunus, perché la gente rimane povera? Non sono gli individui che vogliono essere poveri, è il sistema che genera poveri. Ci stiamo avviando al disastro, sociale e ambientale: oggi, otto persone possiedono la ricchezza di un miliardo di individui, questi scenari porteranno, prima o poi, a uno scenario violento: dobbiamo evitarlo. La civiltà è basata sull’ingordigia. Dobbiamo invece mettere in atto la transizione verso la società dell’empatia.

Yunus ha dimostrato, con il microcredito prima e con la Grameen Bank poi, che quella che a economisti e banchieri sembrava un’utopia irrealizzabile è invece un’alternativa concreta, che dal Bangladesh si è via via allargata a più di 100 Paesi, Stati Uniti ed Europa compresi. Con ironia, considerando la sede che lo ospitava, Yunus ha ricordato che, quando qualcuno gli ribadiva che un progetto non era fattibile, «studiavo come si sarebbe comportata una banca e facevo esattamente il contrario». Fantasia, capacità di rischiare e, soprattutto, conoscenza e fiducia nell’umanità, in particolare nelle donne, sono i segreti che hanno permesso di dar vita a migliaia di attività imprenditoriali, ospedali, centrali fotovoltaiche, sempre partendo dal basso e da progettualità diffuse. L’impresa sociale, che ha come obiettivo coprire i costi e reinvestire tutti profitti senza distribuire dividendi, sostiene Yunus, è l’alternativa possibile e molto concreta per vincere «la sfida dei tre zeri: un futuro senza povertà, disoccupazione e inquinamento», titolo anche del suo ultimo lavoro pubblicato da Feltrinelli. L’impresa sociale può permettersi di produrre a prezzi molto più bassi, non ha bisogno di marketing pervasivo, campagne pubblicitarie continue, packaging attraente per invogliare il consumatore. Così anche le "verdure brutte", quel 30 per cento di produzione agricola che l’Europa butta perché di forma ritenuta non consona per essere proposta al consumatore – «la carota storta, la patata gibbosa, la zucchina biforcuta una volta tagliate non sono più brutte» ha ricordato sorridendo Yunus – possono essere utilizzate da un’impresa sociale e messe in vendita per essere cucinate e mangiate.

«Il reddito di cittadinanza per tutti? È questo che intendiamo per dignità della persona? Ai poveri dobbiamo permettere un lavoro dignitoso, la carità non basta».

Il premio Nobel Yunus: "Il reddito di cittadinanza rende più poveri e nega la dignità umana". Scrive il HuffPost il 13 maggio 2018. L'economista ideatore del microcredito intervistato dalla Stampa: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo e senza creatività". "Il reddito di cittadinanza rende più poveri, non è utile a chi è povero e a nessun altro, è una tipica idea di assistenzialismo occidentale e nega la dignità umana". Parola di Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2006 per aver ideato e creato la "banca dei poveri". In un'intervista a La Stampa, l'inventore del microcredito boccia tout court il caposaldo del programma M5S: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo, ne cancellano la vitalità e il potere creativo".

Secondo Yunus l'Europa ha un grande limite. "L'Asia avrebbe bisogno di molte cose che in Europa ci sono e ci sono da tanto tempo, ma trovo che da voi ci sia un pensiero unico che limita gli slanci. Mi spiego meglio: le società europee sono ossessionate dal lavoro, tutti devono trovare un lavoro, nessuno deve rimanere senza lavoro, le istituzioni si devono preoccupare che i cittadini lavorino... Invece in Asia la famiglia è il luogo più importante e non c'è questo pensiero fisso del lavoro: esiste una sorta di mercato informale, in cui gli uomini esercitano loro stessi come persone. Penso che la lezione positiva che viene dall'Asia sia quella di ridisegnare il sistema finanziario attuale, privilegiando la dignità delle persone e il valore del loro tempo".

Durissimo il giudizio sul reddito di cittadinanza. "è la negazione dell'essere umano, della sua funzionalità, della vitalità, del potere creativo. L'uomo è chiamato a esplorare, a cercare opportunità, sono queste che vanno create, non i salari sganciati dalla produzione, che per definizione fanno dell'uomo un essere improduttivo, un povero vero".

Noi abbiamo una Costituzione comunista immodificabile con democrazia rappresentativa ad economia capitalista-comunista e non liberale.

I veri liberali adottano l'economia diretta con la libera impresa e professione. Lasciano fare al mercato con la libera creazione del lavoro e la preminenza dei migliori.

I veri democratici adottano la democrazia diretta per il loro rappresentanti esecutivi, legislativi e giudiziari, e non quella mediata, come la democrazia rappresentativa ad elevato astensionismo elettorale, in mano ad un élite politica e mediatica.

Ci vogliono poveri e pure fiscalmente incu…neati.

Quanto pesa il cuneo fiscale sui salari in Italia? E in Europa? Nell'ultimo anno la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà, scrive l'Agi.

Che cos’è il cuneo fiscale e quanto pesa in Italia. Il cuneo fiscale – in inglese Tax wedge – è definito dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) come «il rapporto tra l’ammontare delle tasse pagate da un singolo lavoratore medio (una persona single con guadagni nella media e senza figli) e il corrispondente costo totale del lavoro per il datore».

Nella definizione dell’Ocse sono comprese oltre alle tasse in senso stretto anche i contributi previdenziali. Quindi se per un datore il costo del lavoratore è pari a 100, il cuneo fiscale rappresenta la porzione di quel costo che non va nelle tasche del dipendente ma nelle casse dello Stato. Nel caso dei contributi, i soldi raccolti dallo Stato vengono poi restituiti al lavoratore sotto forma di pensione (ma, come spiega l’Inps, nel nostro sistema “a ripartizione” sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono oggi erogate: non è che il pensionato incassi quanto lui stesso ha versato nel corso della propria vita, come se avesse un conto personale e separato presso l’Inps).

Secondo il più recente rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 – pubblicato l’11 aprile 2019 – nel 2018 in Italia la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà. Ma come siamo messi in Europa da questo punto di vista?

La situazione in Europa. Il rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 contiene anche una classifica dei suoi Stati membri, in base al peso del cuneo fiscale. Andiamo a vedere come si posizionano l’Italia e il resto degli Stati Ue presenti in classifica. Roma arriva terza, con il 47,9 per cento. Davanti ha il Belgio, primo in classifica con un cuneo fiscale (e contributivo) pari al 52,7 per cento, e la Germania con il 49,5 per cento. Subito sotto al podio si trova la Francia, con il 47,6 per cento, appaiata con l’Austria. Seguono poi Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia, Lettonia e Finlandia. Gli altri Stati comunitari grandi e medio-grandi sono nettamente più in basso in classifica: la Spagna è sedicesima nella Ue con il 39,6 per cento, la Polonia ventesima con il 35,8 per cento, e il Regno Unito ventitreesimo con il 30,9 per cento. Londra è poi, dei Paesi Ue che sono anche membri dell’Ocse, quello con il cuneo fiscale minore.

Altri Paesi Ocse. In fondo alla classifica dell’Ocse non troviamo nessuno Stato dell’Unione europea. La percentuale più bassa è infatti attribuita al Cile, appena il 7 per cento di cuneo fiscale. Davanti, staccati, arrivano poi Nuova Zelanda (18,4) e Messico (19,7). Degli Stati europei, ma non Ue, quello con la percentuale più bassa è la Svizzera, con un cuneo fiscale del 22,2 per cento. Gli Stati Uniti, infine, hanno un cuneo pari al 29,6 per cento. La media Ocse è del 36,1 per cento.

Conclusione. In Italia il cuneo fiscale è pari al 47,9 per cento. Questa è la terza percentuale più alta tra i Paesi dell’Ocse. Davanti a Roma si trovano solamente Berlino e Bruxelles.

E la chiamano Democrazia…

"In fila per tre", dall'album "Burattino senza fili" di Edoardo Bennato. Testo

Presto vieni qui ma su non fare così

ma non li vedi quanti altri bambini

che sono tutti come te

che stanno in fila per tre

che sono bravi e che non piangono mai...

E' il primo giorno però domani ti abituerai

e ti sembrerà una cosa normale

fare la fila per tre, risponder sempre di sì

e comportarti da persona civile...

Vi insegnerò la morale e a recitar le preghiere

e ad amare la patria e la bandiera

noi siamo un popolo di eroi e di grandi inventori

e discendiamo dagli antichi romani...

E questa stufa che c'è basta appena per me

perciò smettetela di protestare

e non fate rumore e quando arriva il direttore

tutti in piedi e battete le mani...

Sei già abbastanza grande

sei già abbastanza forte

ora farò di te un vero uomo

ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l'onore

ti insegnerò ad ammazzare i cattivi...

E sempre in fila per tre marciate tutti con me

e ricordatevi i libri di storia

noi siamo i buoni perciò abbiamo sempre ragione

e andiamo dritti verso la gloria...

Ora sei un uomo e devi cooperare

mettiti in fila senza protestare

e se fai il bravo ti faremo avere

un posto fisso e la promozione...

E poi ricordati che devi conservare

l'integrità del nucleo famigliare

firma il contratto non farti pregare

se vuoi far parte delle persone serie...

Ora che sei padrone delle tue azioni

ora che sai prendere le decisioni

ora che sei in grado di fare le tue scelte

ed hai davanti a te tutte le strade aperte...

Prendi la strada giusta e non sgarrare

se no poi te ne facciamo pentire

mettiti in fila e non ti allarmare

perché ognuno avrà la sua giusta razione...

A qualche cosa devi pur rinunciare

in cambio di tutta la libertà che ti abbiamo fatto avere

perciò adesso non recriminare

mettiti in fila e torna a lavorare...

E se proprio non trovi niente da fare

non fare la vittima se ti devi sacrificare

perché in nome del progresso della nazione

in fondo in fondo puoi sempre emigrare...

Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo. 

A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva "quantistica". Libro di Roberto Bin edizione  2014 pp. 114, Franco Angeli Editore. Ci può essere una teoria dell’interpretazione giuridica che riduca la discrezionalità dei giudici? Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l’inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Questo libro, rivolto agli operatori del diritto e a tutti i lettori colti, suggerisce un’altra strada.

Presentazione del volume. La discrezionalità del giudice nell'applicazione delle leggi è un problema noto a tutti i sistemi moderni, specie ora che i giudici si trovano ogni giorno ad applicare direttamente principi tratti dalla Costituzione e persino da altri ordinamenti. Sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell'alveo dei criteri fissati dal legislatore. Ogni sistema giuridico ha il suo metodo per scegliere e istituire i giudici, ma in nessun sistema è ammesso che essi operino in piena libertà, liberi di creare diritto a loro piacimento. Il legislatore è l'unica autorità che può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile. Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l'inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Ma la fisica quantistica ci suggerisce di procedere per altra via, di inseguire altri obiettivi e di accettare una visione diversa della verità oggettiva.

Roberto Bin si è formato nell'Università di Trieste e ha insegnato in quella di Macerata. Attualmente è ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. È autore di alcuni fortunati manuali universitari e di diversi libri e saggi scientifici.

Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare li ci sono loro: i sinistri.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Toglierli ai genitori naturali e legittimi è criminale.

Il Civil Law, ossia il nostro Diritto, è l’evoluzione dell’intelletto umano ed ha radici antiche, a differenza del Common Law dei paesi anglosassoni fondato sull’orientamento politico momentaneo.

Il Diritto Romano, e la sua evoluzione, che noi applichiamo nei nostri tribunali contemporanei non è di destra, né di centro, né di sinistra. L’odierno diritto, ancora oggi, non prende come esempio l’ideologia socialfasciocomunista, né l’ideologia liberale. Esso non prende spunto dall’Islam o dal Cristianesimo o qualunque altra confessione religiosa.

Il nostro Diritto è Neutro.

Il nostro Diritto si affida, ove non previsto, al comportamento esemplare del buon padre di famiglia.

E un Buon Padre di Famiglia non vorrebbe mai che si uccidesse un suo figlio: eppure si promuove l’aborto. 

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe avere dei nipoti, eppure si incoraggia l’omosessualità.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe difendere l’inviolabilità della sua famiglia, della sua casa e delle sue proprietà, eppure si agevola l’invasione dei clandestini.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe che la Legge venisse interpretata ed applicata per soli fini di Giustizia ed Equità e non per vendetta, per interesse privato o per scopi politici.

Mi spiace. Io sono un evoluto Buon Padre di Famiglia.

L'Astensionismo al voto ed i fessi e gli indefessi della sinistra: La Democrazia è cosa mia...

Maledetta ideologia comunista. Con tutti i problemi che attanagliano l'Italia, i sinistri, ben sapendo che nessun italiano più li voterà, pensano bene di farci invadere per raggranellare dai clandestini i voti che, aggiunti a quelle delle altre minoranze LGBTI,  gli permettono di mantenere il potere.

I berlusconiani e la cosiddetta Destra, poi, per ammaliare l'altra sponda elettorale, scimmiottano rimedi che nulla cambiano in questa Italia che è tutta da cambiare. Da vent'anni denuncio quelle anomalie del sistema, che in questi giorni escono fuori con gli scandali riportati dalle notizie stampa. Tutte quelle mafie insite nel sistema.

Si fa presto a dire liberali, dove liberali non ce ne sono. Se ci fossero cambierebbero le cose in modo radicale, partendo dalla Costituzione Catto comunista, fondata sul Lavoro e non sulla Libertà. Libertà, appunto, bandiera dei liberali.

Nei momenti emergenziali in tutti gli altri Paesi v'è un intento comune, anche se solo in apparenza. Politica e media accomunati da un interesse supremo. Invece, in Italia, ci sono sempre i distinguo, usati dall'estero contro noi stessi per danneggiarci sull'export, dando un'immagine distorta e denigratoria. Così come fanno i polentoni italiani rispetto al Sud Italia, disinformazione attuata dai media nordisti e dai giornalisti masochisti e rinnegati meridionali. In una famiglia normale si è sempre solidali nei momenti del bisogno e traspare sempre un'apparente unità. Solo in Italia i Caini hanno la loro rilevanza mediatica, facendoci apparire all'estero come macchiette da deridere ed oltraggiare.

Gli italiani voltagabbana. Al tempo del fascismo: tutti fascisti. Dopo la guerra: tutti antifascisti.

Prima di Tangentopoli: tutti democristiani e Socialisti. Dopo Mani Pulite: tutti comunisti.

E il perché lo ha spiegato cinquecentosei anni fa Niccolò Machiavelli in un passaggio del Principe: «El populo, vedendo non poter resistere a' grandi, volta la reputazione ad uno, e lo fa principe, per essere con la sua autorità difeso». Ecco quello che vogliono gli italiani. Vogliono qualcuno che li salvi, che li assista, che li difenda. Ed al contempo il popolo italiano ha l' attitudine a diffidare del Governo, a non parlarne mai bene, e tuttavia ad affidarsene, non avendo la forza di fare da sé, e di aspettarsi che il governo si occupi di ogni cosa e risolva ogni cosa. Si buttano immancabilmente a obbedire - questa è di Giuseppe Prezzolini - al prestigio personale e alle capacità di interessare sentimentalmente o materialmente la folla. E come si erano incapricciati, così si annoiano e poi si imbestialiscono, perché infine nessuno è capace di salvargliela la pelle. Lo diceva il più bravo di tutti: l'adulatore sarà il calunniatore.

In questo momento è bene ricordare la teoria politica di Cicerone (106 a.C.43)

1 il povero lavora

2 il ricco sfrutta il povero

3 il soldato li difende tutti e due

4 il contribuente paga per tutti e tre

5 il vagabondo si riposa per tutti e quattro

6 l’ubriacone beve per tutti e cinque

7 il banchiere li imbroglia tutti e sei

8 l’avvocato li inganna tutti e sette

9 il medico li accoppa tutti e otto

10 il becchino li sotterra tutti e nove

11 il politico campa alle spalle di tutti e dieci.

Il grande filosofo e uomo politico romano con la sua sagacia e ironia ha in poche ma efficaci parole, riassunto l’opinione che molti oggi hanno della politica.

E nel caso la teoria politica non fosse sua, allora la faccio mia.

Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.

Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao 

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti. 

«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.» — Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio

I fratelli coltelli del Socialismo:

I Comunisti-Stalinisti per l’apologia dello statalismo extraterritoriale (mondialismo);

I Fascisti-Leninisti-Marxisti come classisti-nazionalisti (sovranismo).

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

Nella sua canzone "La razza in estinzione" (2001), l'artista italiano Giorgio Gaber (Milano, 1939 - Montemagno di Camaiore, 2003) critica tutto e tutti e afferma: "la mia generazione ha perso".

La Razza In Estinzione testo Album: La Mia Generazione Ha Perso.

Non mi piace la finta allegria

non sopporto neanche le cene in compagnia

e coi giovani sono intransigente

di certe mode, canzoni e trasgressioni

non me ne frega niente.

E sono anche un po' annoiato

da chi ci fa la morale

ed esalta come sacra la vita coniugale

e poi ci sono i gay che han tutte le ragioni

ma io non riesco a tollerare

le loro esibizioni.

Non mi piace chi è troppo solidale

e fa il professionista del sociale

ma chi specula su chi è malato

su disabili, tossici e anziani

è un vero criminale.

Ma non vedo più nessuno che s'incazza

fra tutti gli assuefatti della nuova razza

e chi si inventa un bel partito

per il nostro bene

sembra proprio destinato

a diventare un buffone.

Ma forse sono io che faccio parte

di una razza

in estinzione.

La mia generazione ha visto

le strade, le piazze gremite

di gente appassionata

sicura di ridare un senso alla propria vita

ma ormai son tutte cose del secolo scorso

la mia generazione ha perso.

Non mi piace la troppa informazione

odio anche i giornali e la televisione

la cultura per le masse è un'idiozia

la fila coi panini davanti ai musei

mi fa malinconia.

E la tecnologia ci porterà lontano

ma non c'è più nessuno che sappia l'italiano

c'è di buono che la scuola

si aggiorna con urgenza

e con tutti i nuovi quiz

ci garantisce l'ignoranza.

Non mi piace nessuna ideologia

non faccio neanche il tifo per la democrazia

di gente che ha da dire ce n'è tanta

la qualità non è richiesta

è il numero che conta.

E anche il mio paese mi piace sempre meno

non credo più all'ingegno del popolo italiano

dove ogni intellettuale fa opinione

ma se lo guardi bene

è il solito coglione.

Ma forse sono io che faccio parte

di una razza

in estinzione.

La mia generazione ha visto

migliaia di ragazzi pronti a tutto

che stavano cercando

magari con un po' di presunzione

di cambiare il mondo

possiamo raccontarlo ai figli

senza alcun rimorso

ma la mia generazione ha perso.

Non mi piace il mercato globale

che è il paradiso di ogni multinazionale

e un domani state pur tranquilli

ci saranno sempre più poveri e più ricchi

ma tutti più imbecilli.

E immagino un futuro

senza alcun rimedio

una specie di massa

senza più un individuo

e vedo il nostro stato

che è pavido e impotente

è sempre più allo sfascio

e non gliene frega niente

e vedo anche una Chiesa

che incalza più che mai

io vorrei che sprofondasse

con tutti i Papi e i Giubilei.

Ma questa è un'astrazione

è un'idea di chi appartiene

a una razza

in estinzione.

Classifica popoli più ignoranti al mondo, Italia prima in Europa, scrive Alessandro Cipolla sumoney.it il 23 Agosto 2018. Secondo l’annuale classifica di IPSOS Mori sull’ignoranza dei popoli, l’Italia risulta essere la dodicesima al mondo e la prima in Europa. Continuano a non sorridere le classifiche all’Italia. Dopo quella sulla corruzione redatta da Transparency International che ci vede al 54° posto (tra le peggiori in Europa), anche sul tema dell’ignoranza il Bel Paese occupa una posizione poco onorevole. Ma veramente gli italiani sono un popolo di ignoranti? La storia in teoria ci insegnerebbe il contrario, ma ogni anno la classifica stilata da IPSOS Mori ci vede ai primi posti di questa speciale graduatoria che si basa sulla distorta percezione della realtà che ci circonda.

Italia nazione più ignorante d’Europa. Ogni anno IPSOS Mori, importante azienda inglese di analisi e ricerca di mercato, stila puntualmente una classifica su quelli che sarebbero i popoli più ignoranti al mondo chiamata “Perils of Perception”, letteralmente “Pericoli della Percezione”. L’indagine si basa su delle interviste a campione a 11.000 persone per ogni nazione, alle quali vengono sottoposte delle domande su delle statistiche comuni che riguardano il proprio paese. Per esempio nella ricerca del 2017, l’ultima pubblicata, veniva chiesto se gli omicidi nel proprio paese fossero aumentati o diminuiti rispetto al 2000. Oppure se gli attacchi terroristi siano aumentati dopo l’11 Settembre o quanta gente soffra di diabete. In base al grado di errore nel dare le risposte, IPSOS Mori stila la sua classifica che nel 2014 ci vedeva come il popolo più ignorante al mondo. In quella del 2017 invece l’Italia è al dodicesimo posto, prima tra le nazioni europee.

Una percezione distorta della realtà. Leggendo la classifica e guardando i criteri di indagine, si capisce che non si deve confondere il termine “ignorante” con poco istruito o analfabeta, ma invece che ignora la realtà che lo circonda. Il termine “misperceptions” infatti con cui viene presentata la classifica generale significa “percezione erronea”. Gli italiani quindi secondo IPSOS Mori non conoscono a sufficienza quello che realmente accade nel proprio paese. Prendiamo a esempio la domanda sugli omicidi che rispetto al 2000 sono diminuiti in Italia del 39%. Per il 49% degli intervistati invece il numero sarebbe aumentato, per il 35% sarebbe lo stesso mentre solo l’8% ha risposto in maniera giusta. Non è un caso che, stando ai numeri forniti dal Viminale a ferragosto, i reati nel nostro paese sono in diminuzione così come gli sbarchi degli immigrati, ma al contrario la percezione di insicurezza e l’idea della “invasione” prendono sempre più piede tra gli italiani. Nell’epoca delle fake news gli italiani quindi sembrerebbero conoscere sempre meno cosa succede nel proprio paese, una situazione che poco si addice a un popolo che con la sua intelligenza ha avuto un ruolo fondamentale nella storia del mondo. Mala tempora currunt.

Bisogna studiare.

Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.

Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.

Bisogna sapere il vero e non il falso.

Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.

Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.

Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).

Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!

Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.

E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.

Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.

Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.

LE IDEOLOGIE ANTIUOMO.

SOCIALISMO:

Lavoro ed assistenzialismo, ambiente, libertà sessuale e globalizzazione sono i miti dei comunisti. Moralizzatori sempre col ditino puntato

Dio, Patria e Famiglia sono i miti dei fascisti. Oppressori.

Sovranismo e populismo sono i miti dei leghisti.

Assistenzialismo, populismo e complottismo sono i miti dei 5 stelle.

LIBERALISMO (LIBERISMO):

Egoismo e sopraffazione sono i miti dei liberali.

ECCLESISMO:

Il culto di Dio e della sua religione è il mito degli ecclesiastici.

MONARCHISMO:

Il culto del Sovrano.

Nessuna di queste ideologie è fattrice rivoluzionaria con l'ideale della Libertà, dell'Equità e della Giustizia.

Per il Socialismo le norme non bastano mai per renderti infernale la vita, indegna di essere vissuta.

Per il Liberalismo occorrono poche norme anticoncorrenziali per foraggiare e creare l'elìte.

Per Dio bastano 10 regole per essere un buon padre di famiglia.

Per il sovrano basta la sua volontà per regolare la vita dei sottoposti.

Noi, come essere umani, dovremmo essere regolati dal diritto naturale: Libertà, Equità e Giustizia.

Liberi di fare quel che si vuole su se stessi e sulla propria proprietà.

Liberi di realizzare le aspettative secondo i propri meriti e capacità.

Liberi di rispettare e far rispettare leggi chiare che si contano su due mani: i 10 comandamenti o similari. Il deviante viene allontanato.

Il Papa: per eliminare la fame nel mondo non bastano gli slogan. Francesco ha inaugurato il Consiglio dei governatori del Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo a Roma (Ifad) e incontra una delegazione di popolazioni indigene, scrive il 14/02/2019 Iacopo Scaramazzi su La Stampa. Il Papa ha caldeggiato lo «sviluppo rurale» per combattere la fame e la povertà, sottolineando la necessità di «garantire che ogni persona e ogni comunità possano utilizzare le proprie capacità un modo pieno, vivendo così una vita umana degna di tale nome», e facendo appello affinché i popoli e le comunità siano «responsabili della proprio produzione e del proprio progresso» poiché «quando un popolo si abitua alla dipendenza, non si sviluppa».

Questo vale per tutte quelle categorie di lavoratori che protestano per avere aiuti e sostegno anticoncorrenziale che porta al demerito improduttivo. E vale anche per i meridionali d’Italia. Insistere nel pretendere aiuto e non far nulla per migliorarsi.

L’assistenzialismo socialista ha prodotto gli statali, che dalla loro privilegiata posizione improduttiva, impongono stili di vita utopistici e demagogici. Questi dipendenti pubblici, spesso scolastici o sanitari, da capipopolo, fomentano le masse per inibire l’industrializzazione sostenibile e lo sviluppo turistico tollerabile, che portano sviluppo economico e sociale, in nome di un fantomatico ecologismo talebano, per poi costringer le masse ideologizzate, paradossalmente, ad essere costrette ad emigrare in posti altamente inquinati, o a villeggiare in posti meno allettanti.

Papa Francesco: "È il lavoro a dare speranza, non l'assistenzialismo", scrive il 15 giugno 2018 La Repubblica. "La speranza in un futuro migliore passa sempre dalla propria attività e intraprendenza, quindi dal proprio lavoro, e mai solamente dai mezzi materiali di cui si dispone. Non vi è alcuna sicurezza economica, né alcuna forma di assistenzialismo, che possa assicurare pienezza di vita e realizzazione". Lo ha detto papa Francesco nell'udienza con i Maestri del Lavoro. "Non si può essere felici - ha aggiunto Bergoglio - senza la possibilità di offrire il proprio contributo, piccolo o grande, alla costruzione del bene comune". Per questo "una società che non si basi sul lavoro, che non lo promuova, e che poco si interessi a chi ne è escluso, si condannerebbe all'atrofia e al moltiplicarsi delle disuguaglianze". Mentre la società che cerca di mettere a frutto le potenzialità di ciascuno è quella che "respirerà davvero a pieni polmoni, e potrà superare gli ostacoli più grandi, attingendo a un capitale umano pressoché inesauribile, e mettendo ognuno in grado di farsi artefice del proprio destino".

La dittatura dell’ignoranza. «Uno uguale uno» significa annullare la competenza. E si finisce come in Venezuela..., scrive Francesco Alberoni, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale. L'altra sera ho assistito ad un dibattito televisivo che mi ha molto impressionato. Non dirò dove l’ho visto, ma sarebbe potuto avvenire su qualunque rete. Erano presenti quattro persone, due grandi giornalisti esperti di economia e due donne (ma potevano essere due uomini) che non ne sapevano niente, assolutamente niente. Il risultato è stato che le persone che non sapevano niente sono riuscite a surclassare, rendere muti, quelli che sapevano. In che modo? Gridando le loro stupidaggini come verità incontrovertibili e scartando tutte le obiezioni serie con un gesto di rifiuto. Poi citavano fatti inesistenti, cifre inventate, con la sicurezza dogmatica che solo l’ignorante fanatico può avere. Ripetevano slogan detti dai loro capi, luoghi comuni che circolano su internet dove ciascuno racconta le frottole che vuole. Ed ho pensato che il popolo da solo non può governarsi perché da solo finisce in balia di demagoghi spregiudicati, di fanatici, talvolta di squilibrati e viene istupidito con menzogne, false notizie. Come è successo col comunismo, col nazismo e col fascismo. Mi viene in mente il fascismo quando il Duce chiedeva: «Volete burro o cannoni?» e la gente rispondeva ottusamente «Cannoni» o, alla domanda «Volete la vita comoda?» rispondeva «No!». Ed è successo lo stesso quando la folla gridava «Barabba» al posto di Gesù Cristo, o quella che applaudiva quando ghigliottinavano Lavoisier, il padre della chimica moderna. Il popolo ha bisogno di gente che sa, di studiosi, di giornalisti, di politici esperti che insegnano a ragionare e garantiscono una informazione corretta. Allora il popolo può decidere liberamente. Ma non può farlo quando viene informato da gente che non sa, che mente. Pericle aveva saggiamente evitato la guerra con Sparta, ma dopo la sua morte, il popolo ateniese seguì gli esaltati che la scatenarono e Atene fu sconfitta. Noi oggi in Italia non siamo in una situazione diversa. Si è diffusa l’idea che «uno è uguale a uno» cioè che abbia lo stesso valore l’idea del più ignorante rispetto a chi sa. E si è prodotta una confusione mentale pericolosa. Sono le situazioni in cui i Paesi prendono strade folli, e vanno in malora come è successo in Venezuela.

Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.

Se questi son giornalisti...

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra  è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri.

Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica. Per gli effetti ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza. All’uopo ho scritto decine di libri con centinaia di pagine cadauno, basandomi su testimonianze e documenti credibili ed attendibili, rispettando il diritto al contraddittorio, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di migliaia di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere, pubblicizzati, riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati da terzi in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

La dottrina e la giurisprudenza interpretano tassativamente, restrittivamente e non analogicamente tale articolo, al pari delle altre fattispecie di libere utilizzazioni. Ciò non toglie che la norma possa essere interpretata estensivamente (in tal senso dottrina e giurisprudenza sono sostanzialmente unanime).

Secondo il parere dell'Avv. Giovanni D'Ammassa, su Dirittodautore.it,  limiti individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiane alla facoltà di citazione ex art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sono i seguenti:

la sussistenza della finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica;

l’opera critica deve avere fini del tutto autonomi e distinti da quelli dell’opera citata, e non deve essere succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate. La ricorrenza dello scopo di critica non è pregiudicata dal fatto che la citazione sia fatta nella realizzazione di un’opera immessa sul mercato a pagamento;

l’utilizzazione dell’opera deve essere solo parziale e mai integrale, deve avvenire nell’ambito delle finalità tassativamente indicate e nella misura giustificata da tali finalità;

l’utilizzazione non deve essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti, non deve avere un rilievo economico tale da poter pregiudicare gli interessi patrimoniali dell’autore o dei suoi aventi causa. A questo proposito va ricordato che il concetto di concorrenza espresso dall’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore è ben più ampio e diverso dal concetto di concorrenza sleale espresso dall’art. 2598 cod. civ.: l’assenza dell’elemento della concorrenza è condizione perché possa parlarsi di libera utilizzazione dell’opera. Una recente dottrina sostiene che bisogna avere riguardo esclusivamente alla portata della utilizzazione in relazione alla sua capacità di incidere sulla vita economica dell’opera originale; da ciò la valorizzazione dell’assenza di concorrenza dell’opera citante con i diritti di utilizzazione economica sull’opera citata, in modo da consentire anche citazioni integrali dell’opera dell’ingegno purché non si pongano in concorrenza con i diritti di utilizzazione economica dell’opera;

devono essere effettuate le menzioni d’uso (indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione, del nome dell’autore e dell’editore);

infine si sostiene che l’interpretazione di tale articolo deve tenere conto anche del progresso tecnologico. È indubbio che l’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sia applicabile anche in caso di messa a disposizione online delle opere.

Secondo l'Avv. Alessandro Monteleone, su Altalex.com, tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Potrebbe ad esempio costituire concorrenza alla utilizzazione economica la riproduzione che, ancorché parziale, svii i potenziali acquirenti dall’acquistare l’originale perché avente ad oggetto le parti di maggiore interesse. Interessante è la pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2007 n° 149: Con l’espressione "a fini di lucro" contenuta nella fattispecie criminosa di cui all’art. 171 ter della legge sul diritto d’autore (L. 633/41) deve intendersi "un fine di guadagno economicamente apprezzabile o di incremento patrimoniale da parte dell’autore del fatto, che non può identificarsi con un qualsiasi vantaggio di altro genere; né l’incremento patrimoniale può identificarsi con il mero risparmio di spesa derivante dall’uso di copie non autorizzate di programmi o altre opere dell’ingegno, al di fuori dello svolgimento di un’attività economica da parte dell’autore del fatto, anche se di diversa natura, che connoti l’abuso". Lo ha precisato la Sezione Terza penale della Cassazione, con la sentenza n. 149 del 9 gennaio 2007, estensibile all'art. 70.  

Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.

Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che  sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.

Mi vogliono censurare su Google.

Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.

Ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza.

Io sono un giurista ed un giornalista d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.

Quando parlo di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o dipressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa su su articoli di terzi. Vedi  “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news.

Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Io sono il segnalatore di illeciti (whistleblower) più ignorato ed  oltre modo più perseguitato e vittima di ritorsioni del mondo. Ciononostante non mi batto per la mia tutela, in quanto sarebbe inutile dato la coglionaggine o la corruzione imperante, ma lotto affinchè gli altri segnalatori, che imperterriti si battono esclusivamente ed inanemente per la loro bandiera, non siano tacciati di mitomania o pazzia. Dimostro al mondo che le segnalazioni sono tanto fondate, quanto ignorate od impunite, data la diffusa correità o ignoranza o codardia.

Segnalatore di illeciti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il segnalatore o segnalante di illeciti, anche detto segnalatore o segnalante di reati o irregolarità (termine reso a volte anche con la parola anglosassone e specificatamente dell'inglese americano whistleblower) è un individuo che denuncia pubblicamente o riferisce alle autorità attività illecite o fraudolente all'interno del governo, di un'organizzazione pubblica o privata o di un'azienda. Le rivelazioni o denunce possono essere di varia natura: violazione di una legge o regolamento, minaccia di un interesse pubblico come in caso di corruzione e frode, gravi e specifiche situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza pubblica. Tali soggetti possono denunciare le condotte illecite o pericoli di cui sono venuti a conoscenza all'interno dell'organizzazione stessa, all'autorità giudiziaria o renderle pubbliche attraverso i media o le associazioni ed enti che si occupano dei problemi in questione. Spesso i segnalatori di illeciti, soprattutto a causa dell'attuale carenza normativa, spinti da elevati valori di moralità e altruismo, si espongono singolarmente a ritorsioni, rivalse, azioni vessatorie, da parte dell'istituzione o azienda destinataria della segnalazione o singoli soggetti ovvero organizzazioni responsabili e oggetto delle accuse, venendo sanzionati disciplinarmente, licenziati o minacciati fisicamente.

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). In inglese viene invece utilizzata la parola whistleblower, che deriva dalla frase to blow the whistle, letteralmente «soffiare il fischietto», riferita all'azione dell'arbitro nel segnalare un fallo o a quella di un poliziotto che tenta di fermare un'azione illegale. Il termine è in uso almeno dal 1958, quando apparve nel Mansfield News-Journal (Ohio). L'origine dell'espressione whistleblowing è tuttavia ad oggi incerta, sebbene alcuni ritengano che la parola si riferisca alla pratica dei poliziotti inglesi di soffiare nel loro fischietto nel momento in cui avessero notato la commissione di un crimine, in modo da allertare altri poliziotti e, in modo più generico, la collettività. Altri ritengono che si richiami al fallo fischiato dall'arbitro durante una partita sportiva. In entrambi i casi, l'obiettivo è quello di fermare un'azione e richiamare l'attenzione. La locuzione «gola profonda» deriva da quella inglese Deep Throat che indicava l'informatore segreto che con le sue rivelazioni alla stampa diede origine allo scandalo Watergate.

Definizione. Il segnalatore di illeciti è quel soggetto che, solitamente nel corso della propria attività lavorativa, scopre e denuncia fatti che causano o possono in potenza causare danno all'ente pubblico o privato in cui lavora o ai soggetti che con questo si relazionano (tra cui ad esempio consumatori, clienti, azionisti). Spesso è solo grazie all'attività di chi denuncia illeciti che risulta possibile prevenire pericoli, come quelli legati alla salute o alle truffe, e informare così i potenziali soggetti a rischio prima che si verifichi il danno effettivo. Un gesto che, se opportunamente tutelato, è in grado di favorire una libera comunicazione all'interno dell’organizzazione in cui il segnalatore di illeciti lavora e conseguentemente una maggiore partecipazione al suo progresso e un'implementazione del sistema di controllo interno. La maggior parte dei segnalatori di illeciti sono "interni" e rivelano l'illecito a un proprio collega o a un superiore all'interno dell'azienda o organizzazione. È interessante esaminare in quali circostanze generalmente un segnalatore di illeciti decide di agire per porre fine a un comportamento illegale. C'è ragione di credere che gli individui sono più portati ad agire se appoggiati da un sistema che garantisce loro una totale riservatezza.

La tutela giuridica nel mondo. La protezione riservata ai segnalatori di illeciti varia da paese a paese e può dipendere dalle modalità e dai canali utilizzati per le segnalazioni.

Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Nell'introdurre un nuovo art. 54-bis al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si è infatti stabilito che, esclusi i casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile italiano, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria italiana o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Inoltre, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Si è tuttavia precisato che, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato, con conseguente indebolimento della tutela dell'anonimato. L'eventuale adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata al Dipartimento della funzione pubblica per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le discriminazioni stesse sono state poste in essere. Infine, si è stabilito che la denuncia è sottratta all'accesso previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241; tali disposizioni pongono inoltre delicate problematiche con riferimento all'applicazione del codice in materia di protezione dei dati personali. Nel 2014 ulteriori rafforzamenti della posizione del segnalatore di illeciti sono stati discussi con iniziative parlamentari, nella XVII legislatura. In ordine alla possibilità di incentivarne ulteriormente l'emersione con premi, l'ordine del giorno G/1582/83/1 - proposto in commissione referente del Senato - è stato accolto come raccomandazione; invece, è stato dichiarato improponibile l'emendamento che, tra l'altro, puniva con una contravvenzione chi ne rivelasse l'identità. Nel 2016 la Camera dei deputati, nell'approvare la proposta di legge n. 3365-1751-3433-A, «ha scelto, tra l'altro, la tecnica della "novella" del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» per introdurre una disciplina di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro. Il testo pende al Senato come disegno di legge n. 2208 Il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90 afferma che - a decorrere dal 4 luglio 2017, data di entrata in vigore del predetto decreto - i soggetti destinatari della disposizioni ivi contenute (tra i quali intermediari finanziari iscritti all'Albo Unico, società di leasing, società di factoring, ma anche dottori commercialisti, notai e avvocati) sono obbligati a dotarsi di un sistema di segnalazione di illeciti, l'istituto di derivazione anglosassone per le segnalazioni interne di violazioni.

Stati Uniti d'America. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Non si è colti, nè ignoranti: si è nozionisti, ossia: superficiali.

Nozionista è chi studia o si informa, o, più spesso, chi insegna o informa gli altri in modo nozionistico.

Nozionista è:

chi non approfondisce e rielabora criticamente la massa di informazioni e notizie cercate o ricevute;

chi si ferma alla semplice lettura di un tweet da 280 caratteri su twitter o da un post su Facebook condiviso da pseudoamici;

chi restringe la sua lettura alla sola copertina di un libro;

chi ascolta le opinioni degli invitati nei talk show radio-televisivi partigiani;

chi si limita a guardare il titolo di una notizia riportata su un sito di un organo di informazione. 

Quel mondo dell'informazione che si arroga il diritto esclusivo ad informare in virtù di un'annotazione in un albo fascista. Informazione ufficiale che si basa su news partigiane in ossequio alla linea editoriale, screditando le altre fonti avverse accusandole di fake news.

Informazione o Cultura di Regime, foraggiata da Politica e Finanza.

Opinion leaders che divulgano fake news ed omettono le notizie. Ossia praticano:  disinformazione, censura ed omertà. 

Nozionista è chi si  abbevera esclusivamente da mass media ed opinion leaders e da questi viene influenzato e plasmato.

Il Diritto di Citazione e la Censura dei giornalisti. Il Commento di Antonio Giangrande.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri. Su uno di questi “L’Italia dei Misteri” di centinaia di pagine, veniva riportato, con citazione dell’autore e senza manipolazione e commenti, l’articolo del giornalista Francesco Amicone, collaboratore de “Il Giornale” e direttore di Tempi. Articolo di un paio di pagine che parlava del Mostro di Firenze ed inserito in una più ampia discussione in contraddittorio. L’Amicone, pur riconoscendo che non vi era plagio, criticava l’uso del copia incolla dell’opera altrui. Per questo motivo ha chiesto ed ottenuto la sospensione dell’account dello scrittore Antonio Giangrande su Amazon, su Lulu e su Google libri. L’intero account con centinai di libri non interessati alla vicenda. Google ed Amazon, dopo aver verificato la contronotifica hanno ripristinato la pubblicazione dei libri, compreso il libro oggetto di contestazione, del quale era stata l’opera citata e contestata. Lulu, invece,  ha confermato la sospensione.

L’autore ed editore Antonio Giangrande si avvale del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Nei libri di Antonio Giangrande, per il rispetto della pluralità delle fonti in contraddittorio per una corretta discussione, non vi è plagio ma Diritto di Citazione.

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto. 

La vicenda merita un approfondimento del tema del Diritto di Citazione.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola.

Alcuni giornalisti contestavano a Saviano l’uso di un copia incolla di alcuni articoli di giornale senza citare la fonte.

Da Wikipedia: Nel 2013 Saviano e la casa editrice Mondadori sono stati condannati in appello per plagio. La Corte d'Appello di Napoli ha riconosciuto che alcuni passaggi dell'opera Gomorra (lo 0.6% dell'intero libro) sono risultate un'illecita riproduzione del contenuto di due articoli dei quotidiani locali Cronache di Napoli e Corriere di Caserta, modificando così parzialmente la sentenza di primo grado, in cui il Tribunale aveva rigettato le accuse dei due quotidiani e li aveva anzi condannati al risarcimento dei danni per aver "abusivamente riprodotto" due articoli di Saviano (condanna, questa, confermata in Appello). Lo scrittore e la Mondadori in Appello sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. Lo scrittore ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza e la Suprema Corte ha confermato in parte l'impianto della sentenza d'Appello e ha invitato alla riqualificazione del danno al ribasso, stimando 60000 euro una somma eccessiva per articoli di giornale con diffusione limitatissima. La condanna per plagio nei confronti di Saviano e della Mondadori è stata confermata nel 2016 dalla Corte di Appello di Napoli, che ha ridimensionato il danno da risarcire da 60.000 a 6.000 euro per l'illecita riproduzione in Gomorra di due articoli di Cronache di Napoli e per l'omessa citazione della fonte nel caso di un articolo del Corriere di Caserta riportato tra virgolette.

Conclusione: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Cosa hanno in comune un giurista ed un giornalista d’inchiesta; un sociologo e un segnalatore di illeciti (whistleblower); un ricercatore o un insegnante e un aggregatore di contenuti?

Essi si avvalgono del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il Diritto di Citazione si svolge su Stampa non periodica. Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Il diritto di cronaca su Stampa non periodica diventa diritto di critica storica.

NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

L’art. 21 della Costituzione permette di esprimere liberamente il proprio pensiero. Nell’art. 65 della legge l. n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).

A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.

Quando si parla di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Diritto di citazione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il diritto di citazione (o diritto di corta citazione) è una forma di libera utilizzazione di opere dell'ingegno tutelate da diritto d'autore. Infatti, sebbene l'autore detenga i diritti d'autore sulle proprie creazioni, in un certo numero di circostanze non può opporsi alla pubblicazione di estratti, riassunti, citazioni, proprio per non ledere l'altrui diritto di citarla. Il diritto di citazione assume connotazioni diverse a seconda delle legislazioni nazionali.

La Convenzione di Berna. L'articolo 10 della Convenzione di Berna, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: Articolo 10

1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore.

Le singole discipline.

Stati Uniti. Negli Stati Uniti è il titolo 17 dello United States Code che regola la proprietà intellettuale. Il fair use, istituto di più largo campo applicativo, norma generalmente anche ciò che nei paesi continentali europei è chiamato diritto di citazione.

Italia. L'art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.». Con il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003 è stata introdotta l'espressione di comunicazione al pubblico, per cui il diritto è esercitabile su ogni mezzo di comunicazione di massa, incluso il web. Con la nuova formulazione c'è una più netta distinzione tra le ipotesi in cui “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera" viene effettuata per uso di critica o di discussione e quando avviene per finalità didattiche o scientifiche: se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. L'orientamento giurisprudenziale formatosi in Italia sul vecchio testo dell'art. 70 è stato in genere di restringerne la portata. In seguito a successive modifiche legislative, è stata fornita tuttavia una diversa interpretazione della normativa attualmente vigente, in particolare con la risposta ad un'interrogazione parlamentare nella quale il senatore Mauro Bulgarelli chiedeva al Governo di valutare l'opportunità di estendere anche in Italia il concetto del fair use. Il governo ha risposto che non è necessario intervenire legislativamente in quanto già adesso l'articolo 70 della Legge sul diritto d'autore va interpretato alla stregua del fair use statunitense. A parere del Governo il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003, ha reso l'articolo 70 della legge sul diritto d'autore sostanzialmente equivalente a quanto previsto dalla sezione 107 del copyright act degli Stati Uniti. Sempre secondo il Governo, sono quindi già applicabili i quattro elementi che caratterizzano il fair use:

finalità e caratteristiche dell'uso (natura non commerciale, finalità educative senza fini di lucro);

natura dell'opera tutelata;

ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all'intera opera tutelata;

effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione.

Sempre a parere del governo, la normativa italiana in materia del diritto d'autore risulta già conforme non solo a quella degli altri paesi dell'Europa continentale ma anche a quello dei Paesi nei quali vige il copyright anglosassone.

A rafforzare il diritto di corta citazione è nuovamente intervenuto il legislatore, che all'articolo 70 della legge sul diritto d'autore ha aggiunto il controverso comma 1-bis, secondo il quale «è consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro [...]». La norma, tuttavia, non ha ancora ricevuto attuazione, non essendo stato emanato il previsto decreto ministeriale. Altre restrizioni alla riproduzione libera vigono nella giurisprudenza italiana, come, per esempio, quelle proprie all'assenza di libertà di panorama.

Francia. In Francia la materia è regolata dal Code de la propriété intellectuelle.

Unione europea. L'Unione europea ha emanato la direttiva 2001/29/CE del 22 maggio 2001 che i singoli Paesi hanno applicato alla propria legislazione. Il parlamento europeo nell'approvare la direttiva Ipred2, in tema di armonizzazione delle norme penali in tema di diritto d'autore, ha approvato anche l'emendamento 16, secondo il quale gli Stati membri provvedono a che l'uso equo di un'opera protetta, inclusa la riproduzione in copie o su supporto audio o con qualsiasi altro mezzo, a fini di critica, recensione, informazione, insegnamento (compresa la produzione di copie multiple per l'uso in classe), studio o ricerca, non sia qualificato come reato. Nel vincolare gli stati membri ad escludere la responsabilità penale, l'emendamento si accompagnava alla seguente motivazione: la libertà di stampa deve essere protetta da misure penali. Professionisti quali i giornalisti, gli scienziati e gli insegnanti non sono criminali, così come i giornali, gli istituti di ricerca e le scuole non sono organizzazioni criminali. Questa misura non pregiudica tuttavia la protezione dei diritti, in quanto è possibile il risarcimento per danni civili.

Citazioni di opere letterarie. La regolamentazione giuridica delle opere letterarie ha una lunga tradizione. La citazione deve essere breve, sia in rapporto all'opera da cui è estratta, sia in rapporto al nuovo documento in cui si inserisce. È necessario citare il nome dell'autore, il suo copyright e il nome dell'opera da cui è estratta, per rispettare i diritti morali dell'autore. In caso di citazione di un'opera tradotta occorre menzionare anche il traduttore. Nel caso di citazione da un libro, oltre al titolo, occorre anche menzionare l'editore e la data di pubblicazione. La citazione non deve far concorrenza all'opera originale e deve essere integrata in seno ad un'opera strutturata avendo una finalità. La citazione inoltre deve spingere il lettore a rapportarsi con l'opera originale. Il carattere breve della citazione è lasciato all'interprete (giudice) ed è perciò fonte di discussione. Nell'esperienza francese, quando si sono posti limiti quantitativi, sono stati proposti come criterio i 1.500 caratteri. Le antologie non sono giuridicamente collezioni di citazioni ma delle opere derivate che hanno un loro particolare regime di autorizzazione, regolato in Italia dal secondo comma dell'articolo 70. Le misure della lunghezza dei brani sono fissati dall'art 22 del regolamento e l'equo compenso è fissato secondo le modalità stabilite nell'ultimo comma di detto articolo.

Citare, non copiare! Attenzione ai testi altrui. Scrive il 2 Giugno 2016 Chiara Beretta Mazzotta. Citare è sempre possibile, abbiamo facoltà di discutere i contenuti (libri, articoli, post…) e di utilizzare parte dei testi altrui, ma quando lo facciamo non dobbiamo violare i diritti d’autore. Citare o non citare? Basta farlo nel modo corretto! Si chiama diritto di citazione e permette a ciascuno di noi di utilizzare e divulgare contenuti altrui senza il bisogno di chiedere il permesso all’autore o a chi ne detiene i diritti di commercializzazione. Dobbiamo però rispettare le regole. Ogni testo – articoli, libri e anche i testi dal carattere non specificatamente creativo (ma divulgativo, comunicativo, informativo) come le mail… – beneficia di tutela giuridica. La corrispondenza, per esempio, è sottoposta al divieto di rivelazione, violazione, sottrazione, soppressione previsto dagli articoli 616 e 618 del codice penale. Le opere creative sono tutelate dalla normativa del diritto d’autore e non possono essere copiate o riprodotte (anche in altri formati o su supporti diversi), né è possibile appropriarsi della loro paternità. Possono, però, essere “citate”.

È consentito il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica…L’art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscono concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera». Vale a dire che – a scopo di studio, discussione, documentazione o insegnamento – la legge (art. 70 l. 633/41) consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o parti di opere letterarie. Lo scopo deve essere divulgativo (e non di lucro o meglio: il testo citato non deve fare concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera stessa).

Dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione. Per rispettare il diritto di citazione dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione.  Quindi, se per esempio state facendo la recensione di un testo, il diritto di citazione vi consente di “copiare” una piccola parte di esso (il diritto francese prevede per esempio 1500 caratteri; in assoluto ricordate che la brevità della citazione vi tutela da eventuali noie) purché diciate chi lo ha scritto, chi lo ha pubblicato, chi lo ha tradotto e quando. Nessun limite di legge sussiste, invece, per la riproduzione di testi di autori morti da oltre settant’anni (questo in Italia e in Europa; in Messico i diritti scadono dopo 100 anni, in Colombia dopo 80 anni e in Guatemala e Samoa dopo 75 anni, in Canada dopo 50; in America si parla di 95 anni dalla data della prima pubblicazione). Se volete citare un articolo, avete il diritto di riassumere il suo contenuto e mettere tra virgolette qualche stralcio purché indichiate il link esatto (non basta il link alla home della testata, per dire). Va da sé che no, non potete copia-incollare un intero pezzo mettendo un semplice collegamento ipertestuale! Questo lo potete fare solo se siete stati autorizzati. Tantomeno potete tradurre un articolo uscito sulla stampa estera o su siti stranieri. Per pubblicare un testo tradotto dovete infatti essere stati autorizzati. Quindi, se incappate in rete in un post di vostro interesse che non vi venga in mente di copiarlo integralmente indicando solo un link. Aggregare le notizie, copiandole totalmente, anche indicando la fonte, non è legale: è necessaria l’autorizzazione del titolare del diritto. E poi, oltre a non rispettare le leggi del diritto d’autore, fate uno sgarbo ai motori di ricerca che penalizzano i contenuti duplicati.

Prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. E se scoprite un plagio in rete? Dal 2014 non c’è più bisogno di ricorrere alla magistratura. Cioè non c’è più bisogno di un processo, né di una denuncia alle autorità (leggi qui). C’è infatti una nuova procedura “accelerata”, introdotta con il recente regolamento Agcom, e potete avviare la pratica direttamente in rete facendo una segnalazione e compilando un modulo (per maggior informazioni su come denunciare una violazione leggi la guida: “Come denunciare all’Acgom un sito per violazione del diritto d’autore”).

Volete scoprire se qualcuno rubacchia i vostri contenuti? Basta utilizzare uno tra i tanti motori di ricerca atti allo scopo. Per esempio Plagium. È sufficiente copiare e incollare il testo e analizzare le corrispondenze in rete. Spesso, ahimè, ne saltano fuori delle belle… Mi raccomando, prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. Quando fate una citazione – che si tratti di una grande poetessa o dell’ultimo cantante pop – usate le virgolette e mettete il nome dell’autore e del traduttore. È una questione di rispetto oltre che legale. E se volete essere presi sul serio, fate le cose per bene.

LO SPAURACCHIO DELLA CITAZIONE DI OPERA ALTRUI. Avvocato Marina Lenti Marina Lenti su diritto d'autore. A volte mi capita di rispondere a dei quesiti postati su Linkedin e siccome quello che segue ricorre spesso, colgo l’occasione per trattarlo,in maniera molto elementare (niente legalese! ), anche in questa sede. Si tratta di una delle maggiori preoccupazioni di chi scrive: la citazione. Può trattarsi della citazione di una dichiarazione rilasciata da qualcuno, oppure la citazione di un titolo di un libro o di un film, o similia. Spesso gli autori sono paralizzati perché pensano che ogni volta sia necessaria l’autorizzazione del titolare dei diritti connessi alla dichiarazione o all’opera citata. Ovviamente non è così perché, in tal caso si arriverebbe alla paralisi totale e tutta una serie di generi morirebbe: manualistica, saggistica, biografie… Bisogna ricordare sempre che il diritto d’autore, oltre a proteggere la proprietà intellettuale, deve contemperare anche l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui, a certe condizioni, in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. E’ per questo che si ricorre al concetto di fair use, che nella nostra Legge sul Diritto d’Autore si ritrova al primo comma dell’art. 70: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.

In aggiunta, il concetto è più chiaramente formulato nella Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, cui l’Italia aderisce, all’art. 10 comma 1: “Sono lecite le citazioni tratte da un’opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo”.

Dunque, non c’è bisogno di autorizzazioni se, per esempio, se in un dialogo, un personaggio riferisce all’altro di aver letto il libro X, o aver visto il film Y, o aver letto l’intervista rilasciata dal personaggio famoso Z. Diverso sarebbe, ovviamente, se ci si appropriasse del personaggio X dell’altrui opera Y per farlo agire nella propria (e se state pensando alle fan fiction, ebbene sì, a stretto rigore le fan fiction sono illegali, solo che alcuni autori, come J.K. Rowling, le tollerano finché restano sul web e sono messe a disposizione gratuitamente; altri, come Anne Rice, le combattono invece in tutti i modi). Lo stesso vale se si riporta la dichiarazione di un’intervista, oppure un brano di un’altrui opera. In questo caso basterà citare in nota la fonte: nome dell’autore, titolo dell’intervista/opera, data, numeri di riferimento (a seconda della pubblicazione), editore, anno. Oltretutto, riportare la fonte dà maggiore autorevolezza alla vostra opera perché dimostra che le citazioni riportate non sono "campate in aria". Ovviamente la citazione deve constare di qualche frase, non di mezza intervista o mezzo libro, altrimenti va da sé l’uso non sarebbe più "fair", cioè "corretto".

Bisogna tuttavia fare attenzione al contenuto di ciò che si cita, per non rischiare di incorrere in altri possibili problemi legali diversi dalle violazioni del diritto d’autore: se, ad esempio, si cita una dichiarazione di terzi che accusa la persona X di essere colpevole di un reato e questa dichiarazione è priva di fondamento (perché, ad esempio, non c’è stata una sentenza di condanna), ovviamente potrà essere ritenuto responsabile della diffamazione alla stregua della fonte usata.

Il concetto di fair use, a differenza che in Italia, è stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale molto sofisticata in Paesi come l’America. Magari in un prossimo post esamineremo i quattro parametri di riferimento elaborati dai giudici statunitensi per discernere se, in un dato caso, si verta effettivamente in tema di fair use. Tuttavia, nonostante questa lunga elaborazione, va tenuto presente che si tratta sempre di un terreno molto scivoloso, che ha volte ha dato luogo pronunciamenti contraddittori.

La riproduzione e citazione di articoli giornalistici. Di Alessandro Monteleone.

La normativa.

La materia trova disciplina nei seguenti testi di legge: art. 10, comma 1, Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche (ratificata ed eseguita con la L. 20 giugno 1978, n. 399); artt. 65 e 70, Legge 22 aprile 1941, n. 633 (di seguito anche “Legge sul Diritto d’Autore”).

L’opera giornalistica.

Come noto, l’opera giornalistica che abbia il requisito della creatività è tutelata dall’art. 1 della Legge sul Diritto d’Autore. Il quotidiano (ovvero il periodico) è considerato pacificamente opera “collettiva”, in merito alla quale valgono le seguenti considerazioni. In base al combinato disposto degli artt. 7 e 38, Legge sul Diritto d’Autore l’editore deve essere considerato l’autore dell’opera. L’editore – salvo patto contrario – ha il diritto di utilizzazione economica dell’opera prodotta “in considerazione del fatto che […] è il soggetto che assume su di sé il rischio della pubblicazione e della messa in commercio dell’opera provvedendovi per suo conto ed a sue spese”. L’editore è titolare “dei diritti di cui all’art. 12 l.d.a. (prima pubblicazione dell’opera e sfruttamento economico della stessa). E ciò senza alcun bisogno di accertare […] un diverso modo ovvero una distinta fonte di acquisto del diritto sull’opera componente, rispetto a quello sull’opera collettiva”, inoltre “il diritto dell’editore si estende a tutta l’opera, ma includendone le parti”.

Disciplina normativa in materia di citazione e riproduzione di articoli giornalistici.

Con riferimento alla possibilità di riprodurre articoli giornalistici in altre opere si osserva quanto segue:

La Convenzione di Berna contiene una clausola generale che disciplina la fattispecie della citazione di un’opera già resa accessibile al pubblico. In particolare, in base all’art. 10 della Convenzione di Berna, la libertà di citazione incontra quattro limiti specifici:

1) l’opera deve essere stata resa lecitamente accessibile al pubblico;

2) la citazione deve avere carattere di mero esempio a supporto di una tesi e non deve avere come scopo l’illustrazione dell’opera citata;

3) la citazione non deve presentare dimensioni tali da consentire di supplire all’acquisto dell’opera;

4) la citazione non deve pregiudicare la normale utilizzazione economica dell’opera e arrecare un danno ingiustificato agli interessi legittimi dell’autore. Per essere lecite, altresì, le citazioni devono essere contenute nella misura richiesta dallo scopo che le giustifica e devono essere corredate dalla menzione della fonte e del nome dell’autore.

Art. 10, Convenzione di Berna: “1)Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”.

Con riferimento alla normativa nazionale l’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore recita testualmente: “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato […]”.

L’articolo appena citato è considerato in dottrina una norma eccezionale non suscettibile di applicazione analogica con riguardo al carattere degli articoli, pertanto, l’elencazione sopra proposta ha natura tassativa. (R. Valenti, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza). Si deve comunque evidenziare che una parte della dottrina (R. Valenti, nota a Trib. Milano, 13 luglio 2000, in Aida, 2001, 772, 471) ritiene che una corretta interpretazione dell’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore porti a ritenere lecita solo la riproduzione di articoli di attualità a carattere politico, economico e religioso (con esclusione pertanto degli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico) che avvenga in altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite.

Ulteriore disciplina è dettata nell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore che fa salva la libera riproduzione degli articoli giornalistici, a prescindere dall’argomento trattato, purché sussista una finalità di critica, discussione od insegnamento. Questa norma dà prevalenza alla libera utilizzazione dell’informazione, proteggendo la forma espressiva e lasciando libera la fruibilità dei concetti. Art. 70 LdA: “1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica odi discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. 1-bis. E' consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell'università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all'uso didattico o scientifico di cui al presente comma 2. Nelle antologie ad uso scolastico la riproduzione non può superare la misura determinata dal regolamento, il quale fissa la modalità per la determinazione dell'equo compenso. 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. (R. Valenti, cit.). Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie anche questa norma ha carattere eccezionale e si deve interpretare restrittivamente. (Da ultime Cass. 2089/1997 e 11143/1996. L’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede inoltre che “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico”, perché siano leciti, “non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera [citata]”. Tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Infine, il terzo comma dell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede che “il riassunto, la citazione o la riproduzione” siano “sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.

In considerazione di ciò, la mancata menzione degli elementi succitati determina una violazione del diritto di paternità dell’opera dell’autore, risarcibile in quanto abbia determinato un danno patrimoniale al titolare del diritto.

Conclusioni. La lettura combinata degli artt. 65 e 70, Legge sul Diritto d’Autore porta a ritenere che, per citare o riprodurre lecitamente un articolo giornalistico in un’altra opera, debbano ricorrere i seguenti presupposti:

1) art. 65, LdA (limite contenutistico): nel caso di riproduzione di articoli di attualità che abbiano carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, tale riproduzione può avvenire liberamente purchè non sia stata espressamente riservata e vi sia l’indicazione della fonte da cui sono tratti, della data e del nome dell’autore, se riportato;

2) art. 70, LdA (limite teleologico e dell’utilizzazione economica): la citazione o riproduzione di brani o parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi qualora siano effettuati per uso di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica entro i limiti giustificati da tali fini e purchè non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera citata o riprodotta. In relazione ai singoli articoli, quindi, l’editore potrà far valere l’inapplicabilità dell’art. 65 LdA tutte le volte in cui “il titolare dei diritti di sfruttamento – dell’articolo riprodotto – se ne sia riservata, appunto, la riproduzione o la utilizzazione” apponendovi un’espressa dichiarazione di riserva.

IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA.

Diritto d'autore e interesse generale. Contemperare l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. Opera letteraria - giornalistica, fonte di informazione e di cronaca. Diritti costituzionalmente garantiti, senza limitazione dall'art 21 della Costituzione italiana: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»

Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.

Ad questa libertà è inoltre dedicato l'articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: Art. 19: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

La libertà di espressione è sancita anche dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848:

1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.

2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.

Tesi di Laurea di Rosalba Ranieri. Pubblicato da Studio Torta specializzato in proprietà intellettuale.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO” DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA. TESI DI LAUREA IN DIRITTO COMMERCIALE. IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA: IL CASO “GOMORRA” RELATORE: Ch.issima Prof. Emma Sabatelli LAUREANDA Rosalba Ranieri.

La maggior parte delle persone comuni, non giuristi, quando pensano al diritto d’autore hanno un’idea precisa: basandosi sui fatti di cronaca, ritengono che il diritto d’autore tuteli quel cantante o autore famosi ai quali è stata rubata o copiata l’idea della propria canzone o del proprio libro. Tuttavia questa è una visione alquanto semplicistica.

Sfogliando qualsiasi manuale di diritto industriale o un’enciclopedia giuridica veniamo a sapere che: “il diritto d’autore è quel complesso di norme che tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo riguardanti le scienze, la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro, la cinematografia, la radiodiffusione e, da ultimo, i programmi per elaboratore e le banche dati, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione, attraverso il riconoscimento all’autore dell’opera di una serie di diritti, sia di carattere morale che patrimoniale”. Dunque, del diritto d’autore non dobbiamo avere una visione riduttiva, come la si aveva in passato, in quanto il diritto d’autore ha un campo d’azione molto più ampio di quanto si possa ad un primo approccio immaginare. Si può ben pensare che in passato, a fronte delle rudimentali scoperte e conoscenze nei diversi settori in cui oggi opera, il diritto d’autore tutelava parzialmente l’autore, poiché solo gli scrittori di opere letterarie potevano esser lesi nel diritto esclusivo di usare economicamente la propria opera con la riproduzione non autorizzata della stessa a mezzo della stampa.

É dunque l’invenzione della stampa che fa sorgere l’esigenza di un diritto d’autore, che nasce prima in Inghilterra con il “Copyright Act”, la legge sul copyright (il diritto alla copia) della regina Anna del 1709; poi negli Stati Uniti, ispirati dalla legge inglese, con la legge federale del 1790 e poi in Francia con le leggi post-rivoluzionarie del 1791-1793, nelle quali si riconoscono per la prima volta i diritti morali dell’autore. Solo successivamente gli altri Stati europei, come l’Italia, adotteranno una legge a tutela del diritto d’autore. Tuttavia, prima di queste leggi, il diritto d’autore inizia a formarsi già nel mondo antico. Infatti nell’Antica Grecia non c’erano specifiche disposizioni legislative, perciò le opere letterarie erano liberamente riproducibili, ma veniva condannata l’appropriazione indebita della paternità. A Roma, invece, si distingueva il diritto di proprietà immateriale dell’autore (corpus mysticum), creatore ed inventore dell’opera, dal diritto di possesso materiale del bene del libraio e dell’editore (corpus mechanicum), essendo questi ultimi che possedevano materialmente i supporti contenenti le opere. Perciò, il diritto romano riconosceva i diritti patrimoniali soltanto ai librai e agli editori, perché una volta che l’opera fosse stata pubblicata (mediante una lettura in pubblico e la diffusione di manoscritti) i diritti venivano traslati sulla cosa materiale, invece agli autori riconosceva altri diritti quali: il diritto di non pubblicare l’opera, il diritto di mantenere l’opera inedita ed altri diritti inerenti la paternità. Con la caduta dell’Impero Romano, la cultura si rifugia presso i monasteri; infatti i monaci amanuensi, avendo a disposizione numerosi volumi, iniziarono a ricopiarne manualmente il contenuto presso vaste sale illuminate: le scriptoria. Poco tempo dopo nacquero le prime Università (a Bologna, Pisa, Parigi…) e di conseguenza la cultura non fu più di esclusivo appannaggio dei religiosi, ma anche dei laici. Molti uomini ricchi del Quattrocento si interessarono alla lettura soprattutto di testi religiosi, giuridici, scientifici, ma anche di romanzi. La diffusione della cultura e l’aumento della domanda di copie di testi letterari portò ad un mercato del libro, che permetteva ottime possibilità di guadagno, allorché fu inventata la tecnica, che avrebbe consentito la riproduzione dell’opera in maniera più rapida, più economica, e meno faticosa su centinaia o migliaia di copie. Nel 1455 nacque la stampa a caratteri mobili ad opera del tedesco Johannes Gutenberg e con essa nasce l’interesse di tutelare i testi e gli autori che li producevano. È con l’avvento della stampa che l’autore è riconosciuto come titolare di privilegi di stampa, che in passato erano concessi solo agli editori. Questo sistema resse fino al XVIII sec., fino alla produzione di leggi più organiche sul diritto d’autore. Dunque, si può affermare che il diritto d’autore in senso moderno nasce con l’invenzione della stampa e dalla necessità di dare tutela alle sole opere letterarie ed artistiche che possono essere prodotte a mezzo della stampa. Successivamente, esso fu esteso anche ad altre tipologie di opere, che possono essere prodotte con mezzi diversi dalla stampa. Il diritto d’autore si sviluppa al progredire della scienza e della tecnologia e questo ha reso ancora più ampio il margine del suo utilizzo; difatti, il diritto d’autore è oggi “un istituto destinato a proteggere opere eterogenee (opere letterarie, artistiche, musicali, banche dati, software e design)”, dunque anche opere digitali e multimediali, create con programmi di computer. Da qui emerge la difficoltà di delineare una nozione di opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore.

Inoltre, il diritto d’autore riconosce una pluralità di diritti (Si tratta del diritto esclusivo di riproduzione dell’opera e del diritto esclusivo degli autori di comunicare l’opera al pubblico “qualunque ne sia il modo o la forma” (con la rappresentazione, l’esecuzione e la diffusione a distanza)) e facoltà agli autori e diverse tecniche di protezione tanto da rendere difficile anche definirne unitariamente il contenuto. Tuttavia, è possibile ravvisare dei caratteri e dei requisiti comuni alle opere eterogenee, facendole rientrare nelle norme che tutelano il diritto d’autore, così come è possibile ravvisare degli interessi ben precisi che la legge del diritto d’autore tutela, come: l’interesse collettivo a favorire ed incentivare la produzione di opere dell’ingegno attraverso la libera circolazione delle idee e delle informazioni e l’interesse individuale, propriamente dell’autore, a godere del diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera per conseguire un profitto dall’utilizzazione di essa e a godere dei diritti morali, mediante i quali si tutela la personalità dell’autore.

LE FONTI NORMATIVE NAZIONALI ED INTERNAZIONALI La capacità dell’opera creativa di suscitare interesse non solo in delimitati ambiti territoriali ha fatto sì che non si potesse prevedere una tutela limitata nello spazio, bensì una tutela universale (L’interesse di conoscere o avere tra le mani un’opera d’ingegno non si limita ai soli cittadini del territorio in cui l’autore abbia inventato la sua creazione), che permettesse la diffusione e l’utilizzo economico dell’opera anche al di là dei confini di uno Stato. Per queste ragioni sono state elaborate Convenzioni internazionali multilaterali in materia di diritto d’autore e dei diritti connessi, le quali hanno portato uno stravolgimento della previgente disciplina (Fino al 1993, anno in cui entrò in vigore il Trattato CE, oggi Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, vigeva il principio di territorialità, in base al quale il nostro ordinamento rinviava alla legge dello Stato nel quale l’opera era utilizzata o era destinata ad essere utilizzata. In tal modo, il diritto italiano accordava protezione soltanto alle opere dei cittadini italiani o alle opere di autori stranieri che fossero state pubblicate o realizzate per la prima volta in territorio italiano. Inoltre, fino al 1993, vigeva il principio di reciprocità, superato dalle Convenzioni internazionali attualmente in vigore, secondo il quale in Italia si sarebbero potute tutelare altre opere di stranieri, solo in quanto lo Stato di appartenenza dello straniero accordasse la stessa protezione concessa ai propri cittadini alle opere dei cittadini italiani), ma hanno garantito ai cittadini di ciascuno Stato contraente la possibilità di godere di una tutela uniforme. La Convenzione più importante in ordine di tempo è la Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, firmata nel 1886 a Berna e modificata nelle successive conferenze diplomatiche, alla quale ha aderito il maggior numero di Stati. Da ricordare è anche: la Convenzione universale sul diritto d’autore, firmata nel 1952 a Ginevra da parte degli Stati che non avevano firmato la Convenzione di Berna, tra questi in primis gli Stati Uniti d’America; la Convenzione internazionale sulla protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione, firmata nel 1961 a Roma; I trattati dell’OMPI sul diritto d’autore e sulle interpretazioni, esecuzioni e fonogrammi, firmati nel 1996 a Ginevra, volti ad integrare le lacune delle precedenti Convenzioni. Queste Convenzioni non solo obbligano gli Stati firmatari a rispettare il principio di assimilazione o del trattamento nazionale, secondo il quale gli Stati devono accordare ai cittadini degli Stati contraenti la stessa protezione riconosciuta ai propri cittadini, ma, in aggiunta, prevedono anche una protezione minima specifica e comune per colmare le tutele insufficienti delle leggi nazionali. Nel nostro Stato il diritto d’autore è regolato tanto dalle Convenzioni appena richiamate, alle quali ha aderito l’Italia, quanto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in tema di non discriminazione, di libera circolazione dei prodotti e dei servizi e di tutela della concorrenza; dalle Direttive comunitarie emanate in materia di diritto d’autore e anche dalla l. 22 aprile 1941, n. 633 (La l. n. 633/1941 è stata novellata ripetutamente dal nostro legislatore per dare attuazione alle direttive comunitarie, in ragione dell’obbligo di adeguamento alla normativa comunitaria, che incombe su tutti gli Stati aderenti all’ UE.) e dagli artt. 2575- 2583 c.c., che hanno recepito la codificazione normativa del Droit d’auteur francese sancita nella legge del 19/24 luglio 1793 (La legge francese sul diritto d’autore del 1793, intitolata “Droit de proprieté des auteurs”, modificata il 3 agosto 2006, è tutt’ora vigente in Francia). Dunque, ci si può domandare per quale ragione una materia così consolidata, come è attualmente la tutela del diritto d’autore, sia oggetto di questa ricerca e, come si è già anticipato, la risposta al quesito risiede nel caso giudiziario “Gomorra”, alquanto recente, che ha suscitato un notevole interesse non solo tra i giuristi ma anche tra i meri lettori del libro. Analizzando il caso concreto è possibile scorgere una serie di questioni e di profili rilevanti sul piano giuridico, che incidono addirittura sull’esito della controversia giudiziaria, mettendo in crisi l’efficacia della tutela, che non sono regolati precisamente dal legislatore e sui quali dottrina e giurisprudenza non hanno raggiunto, ancora oggi, orientamenti pacifici. In altre parole, il caso giudiziario “Gomorra” può essere utilizzato come la cartina tornasole con la quale verificare l’effettiva efficacia degli strumenti posti a tutela del diritto d’autore.

(Il caso concreto applicato al tema trattato della riproduzione di un opera con doverosa citazione dell'autore e dell'editore, al netto nella menzione sul Plagio, ossia mancanza di citazione, nota dell'autore.)

Il Convenuto. Aspetto quantitativo ed incidentale: Dunque, i convenuti respingono le doglianze della parte attrice asserendo in primo luogo che le similitudini tra gli articoli di giornale e il libro sono dovute all’identità delle fonti consultate dai giornalisti e dall’autore (forze dell’ordine e investigatori) e che gli articoli di giornale rappresentano una componente qualitativamente e quantitativamente irrilevante del libro: poche pagine rispetto alle trecentotrenta dell’intero.

La Corte. Creazione di opera letteraria atipica. Accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet, utilizzando fonti di dominio pubblico al di là dello spazio temporale congruo, senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica”.

Tribunale di Napoli – sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale sentenza n. 773, 7 luglio 2010. Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto:

1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro. (L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.)

2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”.

3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941. (L’art. 101 l. n. 633/1941 così recita “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”).

La Corte d'Appello. Distinzione di Articoli di giornale: Cronaca; Opinione; Intervista. La rilevanza dello spazio temporale. Prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato.

Corte d'Appello di Napoli - Sezione specializzata in materia d'impresa. Sentenza 4135/2016 del 26 settembre 2016, pubblicata il 21 novembre 2016 RG 4692/2015 repert n. 4652/2016 del 21/11/2016.

Gli articoli di giornali e le riviste rientrano a pieno titolo tra le opere protette dal diritto d’autore, ai sensi dell’art. 3 l. n. 633/1941. Sull’assunto non può sorgere alcun dubbio, non solo a causa della lettera della norma, ma anche perché bisogna distinguere le tipologie di articoli: l’articolo di cronaca, l’articolo d’opinione e l’intervista.

Il primo dà notizie di un avvenimento di attualità in modo obiettivo; perciò il cronista deve riferire l’accaduto, senza inserire alcun commento sulla vicenda.

Il secondo contiene non solo informazioni e riferimenti all'attualità, ma anche l'opinione del giornalista su una determinata questione di costume, di cronaca, culturale, ecc…

L’intervista, infine, è il resoconto di un dialogo tra l’intervistatore e la persona intervistata. Tuttavia, l’articolo di giornale, oltre ad avere carattere informativo, legato ai fatti di cronaca, può avere anche contenuti descrittivi e narrativi. In esso, infatti, il giornalista può inserire una propria visione ideologica, politica, culturale, sulla notizia in questione. A fronte di tale classificazione si esclude che gli articoli di cronaca possano essere plagiati a differenza di quanto avviene per gli articoli di giornale.

Le norme del diritto d’autore in tema di libere utilizzazioni sono del tutto eccezionali e ciò esclude che gli articoli di giornale tutelati possano essere riprodotti, citati o sunteggiati al di fuori dei rigorosi limiti in esse posti, nonché in assenza delle condizioni da esse previste. (...) É pur vero che, trascorso un certo spazio temporale dall’originaria pubblicazione della notizia, il fatto diventa notorio e non vi è alcuna violazione del diritto d’autore, se si utilizzano informazioni diffuse; tuttavia, rilevano le modalità con le quali le informazioni vengono usate. (...) È assolutamente fondato che nessuno ha il monopolio delle informazioni afferenti a fatti noti ed oggettivamente accaduti e che nessuno può subordinare all’obbligo di citazione la riproduzione o comunicazione di un’informazione, ma è pur vero che l’articolo di giornale può non essere solo informativo, come l’articolo di cronaca, quando non si limita ad esporre i fatti così come sono accaduti nella realtà, ma è connotato da una parte descrittiva e narrativa, che rende l’opera creativa e tutelata dal diritto d’autore. (...)

Gli articoli 657 , 708 e 1019 l. n. 633/1941 prevedono dei limiti ai diritti patrimoniali dell’autore, non anche a quelli morali, in quanto consentono la riproduzione, la comunicazione al pubblico, il riassunto, la citazione ecc… di opere per favorire l’informazione pubblica, la libera discussione delle idee, la diffusione della cultura e di studio, che prevalgono sull’interesse personale dell’autore. (L’art. 65 l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato”. 8L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”).

Corte di Cassazione. Prima sezione civile. Sentenza n. 12314/1015. L'originalità e creatività dell'opera creata con l'ausilio di articoli di giornale.

(...)La violazione del diritto d’autore non si ha solo nell’ipotesi di integrale riproduzione dell’opera altrui ma anche nel caso di mera contraffazione e, dunque, nel caso di riproduzione indebita di alcune parti dell’opera, nelle quali si ravvisano “i tratti essenziali che caratterizzano l’opera anteriore”. "Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47". Su questo punto la Cassazione si è più volte pronunciata (Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47. 12 Cass., 27 ottobre 2005, n. 20925, in Foro it. 2006, p. 2080; conf. Cass., 5 luglio 1990, n. 9139, in Giust. civ., 1991, p. 152), sostenendo che sia opportuno distinguere la riproduzione abusiva in senso stretto dalla contraffazione e dall’elaborazione creativa perché la prima consiste nella “copia integrale e pedissequa dell’opera altrui”; la seconda nella riproduzione non integrale ma sostanziale dell’opera, in quanto ci sono poche differenze e di mero dettaglio; la terza, invece, consiste in un’opera originale, in quanto si connota per l’apporto creativo del suo autore ed è, pertanto, meritevole di tutela, ex art. 4 l. n. 633/1941. (...)

Conclusioni.

Tuttavia, è certo che gli articoli di giornale e “Gomorra” seguono scopi distinti, infatti, con i primi si informa e si danno informazioni contingenti, invece, con il secondo si segue il fine di approfondire e di indurre il lettore alla riflessione sul fenomeno criminale denominato camorra. La forma e la struttura espositiva dell’opera permettono di riflettere su un altro punto nevralgico della vicenda, che vede, ancora una volta, opinioni contrastanti tra la dottrina e la giurisprudenza: l’articolo di giornale rientra tra le opere protette dal diritto d’autore? Risponde al quesito sia l’art. 3 l. n. 633/1941, che annovera tra le opere tutelate dal diritto d’autore anche gli articoli pubblicati su giornali e sulle riviste, sia la distinzione tra l’articolo di cronaca e l’articolo d’opinione. Come si può leggere nel Cap. III, par. 3.1, l’articolo di cronaca non può essere plagiato, in quanto, per definizione, si limita a narrare i fatti così come sono accaduti, nella loro successione cronologica, senza che vi ricorrano i requisiti che un’opera protetta dal diritto d’autore debba avere per legge. Tali requisiti sono elencanti nel Cap III, par. 3.1. L’articolo di opinione, invece, non è una mera elencazione, bensì, un’esposizione di fatti con terminologie e prospettive proprie del giornalista, correlate, in taluni casi, dalle opinioni di chi scrive. In essi, dunque, il giornalista racconta i fatti in modo creativo, suggerendo un’impronta personale, tali da ricondurli direttamente a se stesso, cosicché è possibile che vi siano articoli scritti da giornalisti diversi, che, seppure raccontano gli stessi fatti, non incorrono nel plagio. Gli articoli di opinione possono, dunque, essere oggetto di plagio. In conclusione, l’articolo di giornale, che ricorre nel caso giudiziario in esame, non è assimilabile ad un articolo di cronaca, così come delineato nel Cap. I, par. 1.3, e, colta questa differenza, non si può negare che l’articolo di giornale sia un’opera protetta dal diritto d’autore. Tuttavia, è bene chiarire che riconoscere come meritevoli di tutela gli articoli di giornale, nei limiti appena chiariti, non significa attribuire l’esclusiva dell’informazione al giornalista e alla testata giornalistica presso la quale costui lavora, in quanto il singolo giornalista non può essere l’unico legittimato a dare informazioni. Se così fosse, si riconoscerebbe il monopolio dell’informazione a favore della testata giornalista, che per prima ha dato la notizia, in contrasto con il principio fondamentale di libertà d’espressione, sancito nell’art. 21 della Costituzione. Sul punto si rinvia al Cap. III, par. 3.2.

Non sempre è sufficiente riconoscere fra le opere protette dal diritto d’autore gli articoli di giornale perché essi possano esser tutelati efficacemente dal diritto d’autore. Infatti, come dimostra il caso esaminato, la prospettiva assunta per l’analisi della controversia può indurre il giudice a mettere in secondo piano gli articoli rispetto il libro. Più precisamente, il giudice avrebbe potuto escludere il plagio, se, durante il confronto delle due opere letterarie, ne avesse enfatizzato il suo carattere originale e creativo, rispetto alla conformazione delle notizie di cronaca contenute nell’opera. Assumere questa prospettiva, in cui il libro diventa il termine di paragone prevalente, significa non dare la giusta rilevanza agli articoli di giornale nel giudizio di plagio. Rileverebbe unicamente che gli articoli di giornale occupino un esiguo numero di pagine del libro e, poiché rappresentano una piccola parte, si escluderebbe, a priori, che un’opera alla stregua di “Gomorra” possa essere un’opera plagiaria. Pertanto, la quantità delle pagine del libro, nelle quali sono riportati gli articoli di giornale, non ritengo sia una ragione valida per escludere il plagio. Assumere, invece, la prospettiva opposta, nella quale gli articoli di giornale diventano il primo termine di paragone, consente di rilevare il plagio, se quest’ultimi sono riprodotti nel libro con la stessa forma e la stessa struttura espositiva dei giornalisti e senza che ne venga citata la fonte. In queste disposizioni normative, la legge speciale sul diritto d’autore ammette la libera pubblicazione o comunicazione al pubblico e la libera citazione delle opere protette dal diritto d’autore, affinché, in tal modo, si permetta la diffusione delle informazioni, del sapere e della cultura. Tuttavia, tale interesse generale non deve ledere i diritti d’autore, ma deve realizzarsi nel rispetto delle norme, sancite dal legislatore. Per impedire che si violassero i diritti d’autore, si è attributo alle norme che sanciscono la libera utilizzazione dell’opera protetta il carattere eccezionale. Ciò significa che esse si applicano secondo le modalità e nei casi espressamente previsti dal legislatore e che non sono suscettibili di applicazione analogica; pertanto, non è possibile applicare queste norme a casi diversi da quelli delineati dal legislatore. Dunque, le utilizzazioni devono avvenire mediante la citazione della fonte, della data e dell’autore - le c.d. menzioni d’uso - con le quali si riconosce che “una certa opera o parte di essa è frutto del lavoro di un 91 altro autore, così da evitare di essere accusati di plagio se si attinge da un testo altrui”. Se consideriamo il caso di specie, le menzioni d’uso mancano nel libro “Gomorra”. Invece, l’art. 65 l. n. 633/1941, che ritengo applicabile al caso “Gomorra”, resta, tuttavia, inosservato nell’esecuzione dell’opera. Pertanto, sarebbe bastato riportare la fonte, perché venisse riconosciuta infondata l’accusa rivolta nei confronti di Saviano. In tal modo, l’autore, non solo sarebbe stato scagionato da ogni accusa di plagio, ma avrebbe arricchito il suo lavoro di ricerca sui fatti raccontati, avrebbe permesso ai lettori di approfondire gli avvenimenti e, allo stesso tempo, il suo libro non sarebbe stato meno interessante. Dunque, la Corte non riconosce i presupposti in virtù dei quali è ammessa dal giudice in primo grado la libera riproduzione delle notizie contenute negli articoli, in quanto esclude che le vicende narrate negli articoli di Libra siano divenute di pubblico dominio e ritiene irrilevante che Saviano abbia riprodotto gli articoli nella sua opera a distanza di tempo. L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.  I primi due gradi di giudizio Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto: 1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale 16 combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro.  2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”. 3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941.

IL DIRITTO D’AUTORE NELL’OPERA GIORNALISTICA. I CARATTERI DELL’OPERA PROTETTA DAL DIRITTO D’AUTORE. Sarebbe utopistico credere che qualsiasi opera possa esser protetta dal diritto d’autore; infatti, lo sono solo le opere che hanno una serie di caratteri di fondo ben fissati da parte del legislatore. Pertanto, in presenza di opere nelle quali si ravvisano determinati requisiti si applica la disciplina concernente il diritto d’autore e le tutele previste al suo autore o ad altri soggetti, diversi da quest’ultimo, lesi nei loro diritti patrimoniali e morali. Si potrebbe pensare erroneamente che la ricorrenza delle medesime caratteristiche includa nella tutela del diritto d’autore solo opere omogenee, ma in realtà si tratta di una nozione così di ampio respiro da consentire ad opere diversificate ed eterogenee di rientrare comunque nella tutela del diritto d’autore. In essa rientrano, infatti, le opere letterarie, artistiche e musicali tradizionali, le banche di dati, il software e il design. Analizzare i caratteri dell’opera protetta dal diritto d’autore, dunque, diventa importante per comprendere in quali casi l’autore gode di determinati diritti e quando può agire a tutela di essi.

L’opera dell’ingegno umano. Il primo carattere che deve ricorrere affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore è quello di “opera dell’ingegno umano”. Si tratta di una nozione legislativa che si ricava dagli artt. 1 e 2 della l. n. 633/1941, nei quali rispettivamente si definiscono e si classificano le opere oggetto del diritto d’autore; esse sono il frutto di una “creazione intellettuale”, che si realizza a fronte dell’attività dell’intelletto umano di ideazione ed esecuzione materiale dell’opera. Dunque il concetto di creazione intellettuale é così ampio ed elastico da consentire addirittura di comprendere opere che appartengono a campi e categorie fenomenologiche diverse, come la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro e la cinematografia, le quali, seppure si avvalgono di mezzi espressivi differenti tra loro, allo stesso tempo presentano come primo carattere di fondo l’essere un’opera derivante dall’attività dell’ingegno umano.

Il carattere rappresentativo: la forma interna e la forma esterna Un requisito che ricorre nelle opere oggetto di tutela del diritto d’autore è il carattere rappresentativo, al quale Paolo Auteri attribuisce un significato: l’opera è destinata a “rappresentare, con qualsiasi mezzo di espressione (parola scritta o orale, disegni e immagini, fisse o in movimento, suoni, ma anche il movimento del corpo e qualsiasi altro segno), fatti, conoscenze, idee, opinioni e sentimenti; e ciò essenzialmente allo scopo di comunicare con gli altri”. In parole più semplici, l’opera deve avere una forma “percepibile” e non rimanere a livello di mero pensiero; ovviamente, se così fosse, la semplice idea astratta, che non è idonea a rappresentare con organicità idee e sentimenti, non potrebbe essere oggetto di tutela. Questo carattere è sancito a livello internazionale nell’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs, il quale protegge la forma espositiva con cui l’opera appare, ad es: l’insieme di parole e frasi (c.d. forma esterna); la struttura espositiva, ad es: l’organizzazione del discorso, la scelta e la sequenza degli argomenti, le prospettive adottate, ecc... (c.d. forma interna), e non il contenuto di conoscenze, informazioni, idee, fatti, teorie in quanto tali e a prescindere dal modo in cui sono scelti, esposti e coordinati. (L’Accordo TRIPs, “The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights” (in italiano, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), è un trattato internazionale promosso dall'Organizzazione mondiale del commercio, al fine di fissare i requisiti e le linee guida che le leggi dei paesi aderenti devono rispettare per tutelare la proprietà intellettuale. L’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs così recita: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali”. 29 La distinzione tra forma esterna, forme interna e contenuto è stata elaborata sin dall’inizio del secolo scorso ad opera di un autorevole giurista tedesco, il Kohler, e viene seguita dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti. Essa è stata fortemente criticata da più parti, tanto dalla dottrina, rappresentata da Piola Caselli in Italia e da Ulmer in Germania, che dalla parte minoritaria della giurisprudenza. Si è contestato, in breve, il fondamento teorico della tesi di Kohler e la difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere tali tre elementi a livello pratico. Inoltre, ci sono state pronunce di merito, come ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano del 11 marzo 2010, dalle quali emerge che non sempre il contenuto è irrilevante ai fini del riconoscimento del plagio. Infatti, è possibile distinguere le idee diffuse nella cultura comune dalle idee innovative, che non appartengono al pensiero comune e che possono essere ricondotte ad un autore in particolare. Secondo tali pronunce giurisprudenziali, l’utilizzo del primo tipo di idee in un’opera dell’ingegno non produrrebbe plagio purché le idee vengano rielaborate in modo originale, invece l’utilizzo del secondo tipo di idee, anche se espresse in forma diversa, difficilmente escluderebbero il plagio).

Il carattere creativo: originalità e novità. Il carattere creativo è un criterio espressamente richiesto dal legislatore, negli artt. 1 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore. In dottrina tale carattere non è definito in termini omogenei. Su questo punto, la dottrina è divisa: una opinione predilige il criterio della c.d. “creatività oggettiva” 30 , secondo il quale è creativa “l’opera dotata di caratteristiche materiali, oggettive appunto, tali da distinguerla da tutti i lavori ad essa preesistenti” 31 ; l’altra, invece, sostiene il criterio della c.d. “creatività soggettiva”32 , secondo il quale è creativa l’opera che riflette la personalità dell’autore e il suo modo personale di rappresentare ed esprimere fatti, idee e sentimenti, tale da renderla “direttamente riconducibile al suo autore” (c.d. individuabilità rappresentativa). In merito alla creatività soggettiva, la dottrina ha individuato due profili del carattere creativo: l’originalità e la novità. L’originalità consiste nel risultato di un’elaborazione intellettuale che riveli la personalità dell’autore, indipendentemente dalle dimensioni e dalla complessità del contenuto dell’opera, il quale può anche essere modesto e semplice o appartenere al patrimonio comune. Dunque sarebbero originali tutte quelle opere che, seppure appaiano molto simili tra loro, hanno un taglio o una prospettiva che le rende “frutto di una elaborazione autonoma del loro autore”. Invece la novità si ha quando sono nuovi o inediti gli “elementi essenziali e caratterizzanti” dell’opera, senza che la novità sia assoluta o diventi creazione. Infatti nuove non sono solo le opere che si basano su un’idea che non ha precedenti, ma anche quelle che rielaborano elementi di opere preesistenti con forme o mezzi di espressione innovativi, tali da distinguerle dalle opere precedenti (c.d. novità in senso oggettivo). L’orientamento che ha riscontrato il maggior successo nelle pronunce giurisprudenziali è quello della “creatività soggettiva”.

La compiutezza espressiva. Un altro requisito posto dalla legge per la tutela dell’opera dell’ingegno è quello della c.d. “compiutezza espressiva”, definita dalla dottrina come “l’idoneità a soddisfare l’esigenza estetica, emotiva o informativa, del fruitore di un determinato evento creativo”. Così come asserito da Kevin de Sabbata, tale nozione è assolutamente opinabile e non vi è ancora una pronuncia giurisprudenziale o uno studio dottrinale, che sia pervenuta ad attribuirle un significato stabile e chiaro. Motivo per il quale si ravvisa una difficoltà di applicazione del principio, seppure risulterebbe rilevante per la risoluzione di casi giudiziari di plagio parziale.

La pubblicazione dell’opera. Diversamente da quanto si possa pensare, il diritto d’autore non protegge solo le opere già pubblicate e già immesse nel mercato ma anche quelle non pubblicate e non note al pubblico, le c.d. opere inedite. Infatti, la Suprema Corte, riprendendo gli artt. 6 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., ha ribadito che il diritto d’autore ha origine nel momento della mera creazione dell’opera, che costituisce un atto giuridico in senso stretto, e non al seguito del conseguimento di formalità, come gli adempimenti di deposito e di registrazione dell’opera . Nel 2012 i giudici di legittimità hanno escluso definitivamente che l’opera debba costituire “una sorgente di utilità” ai fini di tutela, potendo, dunque, essere oggetto di tutela anche prima della pubblicazione.

IL DIRITTO D’AUTORE E IL DIRITTO D’INFORMAZIONE E DI CRONACA. Dato per scontato che il diritto d’autore tuteli, ai sensi dell’art.1 l. n. 644/1941 e dell’art. 2575 c.c., le opere caratterizzate da requisiti di fondo delineati nel paragrafo precedente, possiamo asserire che tali caratteri ricorrono nell’opera giornalistica e che, pertanto, anche gli articoli di giornale sono tutelati dal diritto d’autore. Estendere la disciplina del diritto d’autore all’articolo di giornale comporta, come conseguenza inevitabile, che le norme a tutela dell’autore possano incidere sull’esercizio dell’attività di comunicazione e di informazione sociale, che si promuove con l’opera giornalistica. Il diritto d’autore e il diritto d’informazione e di cronaca possono entrare addirittura in conflitto tra loro, perché, da un lato vi è l’interesse di tutelate i diritti patrimoniali e morali dell’autore con la limitazione della libera divulgazione delle opere protette e, dall’altro lato vi è l’interesse generale alla diffusione di informazioni esatte su fatti rilevanti e di interesse generale. Diventa, dunque, necessario approfondire i profili di rilevo costituzionale sui quali può incidere il diritto d’autore, quali il diritto 61 d’informazione e il diritto di cronaca, per poter comprendere come essi si conciliano tra loro. Il diritto d’informazione è un diritto fondamentale delle persone, che è compreso, assieme al diritto d’opinione e di cronaca, nella libertà di manifestazione del proprio pensiero, sancita a livello nazionale dall’art. 21 della Costituzione e a livello sovranazionale dall’art. 19 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e dall’art.10 co. 1, della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” , che consiste “nella libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari”, senza porre limiti in merito ai mezzi di espressione e in merito agli scopi, circostanze, contenuti da esprimere, ecc… Il diritto d’informazione ha una duplice profilo: quello attivo consiste nel diritto di informare e di diffondere notizie; invece, quello passivo consiste nel diritto di essere informati, sempre che l’informazione sia “qualificata e caratterizzata (…) dal pluralismo delle fonti da cui attingere conoscenze e notizie”. In conseguenza del diritto di essere informati è fatto divieto, ai sensi dell’art. 21, co. 2, Cost., di sottoporre la stampa a controlli preventivi. Nel nostro ordinamento è dunque, vietata la possibilità di sottoporre la divulgazione dell’informazione ad autorizzazioni o censure, al fine di evitare manipolazioni della notizia e compromettere il diritto della collettività a ricevere corrette informazioni. Il diritto dei cittadini ad essere informati si esercita mediante il diritto di cronaca, definito dalla giurisprudenza come “il diritto di raccontare, tramite mezzi di comunicazione di massa, accadimenti reali in considerazione dell’interesse che rivestono per la generalità dei consociati”. Dunque, l’informazione viene comunicata e diffusa per mezzo dell’esercizio del diritto di cronaca, il quale incontra una serie di limiti per evitare che l’esercizio di questo diritto possa ledere altri diritti inviolabili. Infatti l’art. 21 co. 3 Cost., sancisce il limite del rispetto del “buon costume”, generalmente inteso come il rispetto del “pudore sessuale”. Si tratta, però, di un concetto sprovvisto di una definizione normativa e, dunque, di un significato stabile, ma a ciò sopperiscono il legislatore e l’interpretazione giurisprudenziale, tenendo conto dell’evoluzione dei costumi. Ad esempio, la legge sulla stampa n. 47 del 1948, ha stabilito che é contrario al “buon costume” la pubblicazione di contenuti impressionanti e raccapriccianti, che provocano turbamento del “comune sentimento della morale o l’ordine familiare”. Tuttavia, tanto la giurisprudenza che il legislatore nelle altre brache del diritto ammettono ulteriori limiti, quando l’esercizio del diritto d’informazione, o più in generale del diritto d’espressione, potrebbe ledere altri diritti della persona costituzionalmente tutelati ed inderogabili, quali, ad esempio il diritto alla privacy o alla riservatezza, al nome, all’immagine, alla dignità della persona e ai diritti dell’autore, riconosciuti dalla legge sul diritto d’autore. A tal proposito, la giurisprudenza, a più riprese, ha individuato una serie di requisiti, che il giornalista deve rispettare per garantire un equo bilanciamento del diritto di cronaca con altri diritti inviolabili, che potenzialmente possono entrarvi in conflitto. Per quanto riguarda il bilanciamento degli interessi dell’autore alla tutela dei suoi diritti patrimoniali e morali con gli interessi della collettività alla diffusione delle informazioni e delle notizie è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 12 aprile 1973, n. 38, nella quale ha affermato che le norme del diritto d’autore, rapportate all’informazione giornalistica, non contrastano con i principi costituzionali perché non limitano in alcun modo la “libera estrinsecazione e manifestazione del pensiero” e non “assoggettano la stampa ad autorizzazioni o censure”, ma, piuttosto, “tutelano l'utilizzazione economica del diritto d'autore e sono dirette ad assicurare la prova e a determinare l'indisponibilità della cosa, sia per preservarla da distruzione o alterazione, sia per assicurare l'attribuzione dell'opera all'avente diritto, sia per impedire ulteriori danni derivanti da violazione del diritto di autore”. Infatti, il legislatore garantisce il diritto d’informazione e il diritto di cronaca, ammettendo la libera utilizzazione dell’opera protetta purché si seguano i fini esplicitamente delineati nell’art. 70 l. n. 633/1941 – per uso di critica o di discussione, insegnamento o ricerca scientifica – e purché tale utilizzazione non costituisca una forma di concorrenza economicamente rilevante. La ratio della norma si rinviene nelle esigenze di progresso e diffusione della cultura e delle scienze. La questione, però, non è pacifica perché, se da un lato la Corte Costituzionale afferma che la tutela del diritto d’autore non può limitare la libera manifestazione del pensiero, dall’altro, alcuni giudici di merito, di fronte al caso concreto, ritengono che il diritto di cronaca non possa incidere sull’estensione del diritto d’autore, in quanto, a tale proposito, nessun limite è previsto espressamente dalla legge. Di conseguenza, nei fatti la delimitazione reciproca dei due diritti è rimessa al prudente apprezzamento dei giudici di merito.

L’OPERA GIORNALISTICA. Sulla base degli argomenti esposti in precedenza si può, dunque affermare che anche l’opera giornalistica è tutelata dal diritto d’autore, essendo una creazione intellettuale, la quale deriva dall’esercizio del diritto d’informazione e di cronaca. Infatti, l’art. 3 l. n. 633/1941 annovera i giornali e le riviste tra le c.d. opere collettive, che sono “costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico, didattico, religioso, politico ed artistico”, ma non informativo. In effetti, l’opera giornalistica é il frutto di una molteplicità di apporti creativi di diversi autori, coordinati e selezionati dal direttore della testata giornalistica. Dunque, in tale opera si possono distinguere due distinti livelli creativi: quello dei singoli giornalisti, che contribuiscono a comporre l’opera, e quello del direttore, che provvede a progettare l’opera complessiva, a scegliere e coordinare i contributi, ad organizzare e dirigere l’attività creativa dei collaboratori. Una volta rilevata questa duplice creatività, sorge spontaneo domandarsi come il legislatore tuteli tali opere. Ciò che potrebbe risultare complesso è stato, invece, risolto con estrema facilità dal legislatore, il quale ha riconosciuto come meritevole di tutela non la creatività dei singoli giornalisti, bensì quella del direttore che, mediante l’attività di scelta, di coordinamento e di organizzazione dei contributi, realizza l’opera complessiva: l’opera giornalistica. È sulla base di questa prospettiva che ben si spiegano gli artt. 7 e 38 l. n. 633/1941. L’art. 7 l. n. 633/1941 riconosce come autore delle opere collettive “chi ha diretto e organizzato la creazione dell’opera stessa”. Pertanto, rivestendo il ruolo di autore dell’opera giornalistica, il direttore del giornale può, ex art. 41 l. n. 633/1941, “introdurre nell’articolo da riprodurre quelle modificazioni di forma che sono richieste dalla natura e dai fini del giornali”, le quali, se sono sostanziali, possono essere apportate solo con il consenso dell’autore, sempre che questi sia reperibile; altrimenti, ex art. 9 dal Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico (FNSI – FIEG 1 aprile 2013 – 31 marzo 2016), “l’articolo non dovrà comparire firmato nel caso in cui le modifiche siano apportate senza l’assenso del giornalista”. Normalmente gli articoli che, a giudizio del direttore, rivestono particolare importanza sono pubblicati con la firma dell’autore, invece quelli meno rilevanti possono essere riprodotti anche senza l’indicazione del nome dell’autore. Solo se non compare la firma dell’autore, il direttore della testata giornalistica non solo può modificare ed integrare l’articolo di giornale ma anche sopprimerlo e non pubblicarlo. L’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce il diritto di utilizzazione economica dell’opera all’editore, salvo patto contrario, senza precludere ai singoli collaboratori di utilizzare la propria opera separatamente, purché si rispettino gli accordi intercorsi fra i collaboratori e l’editore, nei quali sono precisati i limiti e le condizioni dell’utilizzazione separata dei contributi dei singoli, a salvaguardia dello sfruttamento dell’opera collettiva. Sostanzialmente l’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce lo sfruttamento economico dell’opera all’editore, nel rispetto dei principi fondamentali, ai sensi degli artt. 12 e ss. l. n. 633/1941, e allo stesso tempo garantisce il diritto ai giornalisti di utilizzare il proprio articolo separatamente dall’opera complessiva, senza pregiudicare il diritto di sfruttamento economico esclusivo dell’editore sull’opera collettiva. Infatti, il legislatore, nell’art. 42 l. n. 633/1941, assicura all’autore dell’articolo di giornale pubblicato in un’opera collettiva il diritto di riprodurlo in estratti separati o raccolti in volume, in altre riviste o giornali, purché “indichi l’opera collettiva dalla quale è tratto e la data di pubblicazione”. Alla regola dell’art. 38 l. n. 633/1941, il legislatore ammette una sola eccezione, fissata nel successivo art. 39, secondo la quale l’autore può riacquistare il diritto di disporre liberamente dell’opera al ricorrere di due condizioni: 1) quando il giornalista è estraneo alla redazione del giornale, non ha un accordo contrattuale con la testata giornalistica, ma ha invitato l’articolo al giornale perché venisse riprodotto in esso; 2) quando il giornalista non ha ricevuto notizia dell’accettazione entro un mese dall’invio o la riproduzione dell’articolo non è avvenuta entro sei mesi dalla notizia dell’accettazione.

LA RIPRODUZIONE E LA CITAZIONE DELL’ARTICOLO DI GIORNALE NELL’OPERA LETTERARIA. Talvolta un libro nasce dall’esigenza di voler raccontare una storia, frutto della fantasia dell’autore, basata su fatti realmente accaduti. Infatti, molto spesso leggiamo libri con riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti. Per scrivere un libro basato su fatti già accaduti e magari notori, lo scrittore deve informarsi servendosi di giornali, riviste e altro materiale, reperibile in qualsiasi modo. Così l’autore può ricostruire gli accadimenti e assumere informazioni dettagliate, utili per il proprio libro. Questa attività di ricerca e informazione risulta di grande importanza, in quanto, solo di seguito ad essa, lo scrittore inizierà a scrivere il suo libro. Però lo scrittore deve estrarre dalle fonti le informazioni utili e rielaborarle in modo creativo. Se, invece, si limita ad un lavoro di “copia e incolla”, corre il rischio di ledere il diritto d’autore. Una volta chiarito che, gli articoli di giornale e l’opera giornalistica nel suo insieme sono tutelati dal diritto d’autore, cosa succede se ad esser riprodotto senza citazione della fonte e dell’autore in un’opera letteraria, come è accaduto nel caso di specie “Gomorra”, sia un articolo di giornale? Per rispondere al quesito è necessario esaminare il contenuto degli artt. 65, 70 e 101 l. n. 633/1941, in materia di eccezioni e limitazioni del diritto d’autore.

Gli articoli di attualità. Nell’art. 65 della legge 53 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali, quando ricorrono tre requisiti:

1) che si tratti di articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, o altri materie dello stesso genere. Sul punto la dottrina è divisa, perché, da una parte c’è chi sostiene che sia lecita la riproduzione di articoli di attualità specificamente indicati dal legislatore (a carattere politico, economico e religioso), con l’esclusione degli articoli di cronaca a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico, mentre dall’altra parte c’è chi farientrare queste ultime fattispecie di articoli tra “gli altri materiali dello stesso carattere”; (L’art. 65 della l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichi la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato”). 

2) che siano pubblicati in riviste o in giornali;

3) che la riproduzione o l’utilizzazione non sia espressamente riservata, ovvero quando manchi l’indicazione, anche in forma abbreviata, delle parole “riproduzione riservata” o di altre espressioni dal significato analogo, all’inizio o alla fine dell’articolo, secondo quanto prevede l’art. 7 del regolamento di esecuzione della legge sul diritto d’autore, approvato con il R.D. 18 maggio 1942, n. 1369. È necessario a questo punto fare una puntualizzazione, perché potrebbe intendersi erroneamente il significato dell’espressione “libera utilizzazione”. La libera utilizzazione consiste nella riproduzione o comunicazione al pubblico dell’opera senza il consenso dell’autore, ma nel rispetto di determinati adempimenti, fissati dalla legge, come l’indicazione della fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato. Tali formalità devono essere adempiute anche nell’ipotesi, delineata dall’art. 65 co. 2 l. n. 633/1941, di riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti, utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità per fini informativi e di cronaca, fatta eccezione del caso di impossibilità di conoscere la fonte e il nome dell’autore. (“La riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità è consentita ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca e nei limiti dello scopo informativo, sempre che si indichi, salvo caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore, se riportato”).  La norma in esame è eccezionale e non suscettibile di applicazione analogica, ragione per la quale la libera utilizzazione non si estende alle rassegne-stampa; infatti, la riproduzione di queste ultime deve sempre essere effettuata con il consenso dei titolari dei diritti.

La libertà di citazione. Prima della legge italiana sul diritto d’autore, la libertà di citazione è stata regolata dall’art. 10 della Convenzione d’Unione di Berna, il quale riporta pressoché il contenuto fissato nell’art. 70 l. n. 633/1941. Il legislatore italiano non ha provveduto, come previsto dalla norma internazionale, a chiarire espressamente che l’opera citata debba esser stata pubblicata e che la citazione debba avere un carattere di mero esempio e supporto di una tesi e non lo scopo di illustrare l’opera citata. (L’art. 10 della Convezione di Berna così recita “Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”. 56 La Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche fu firmata nel 1886 a Berna e ratificata ed eseguita in Italia con la legge 20 giugno 1978, n. 399. Sul punto si rinvia al Cap I, par. 1.2.).

Infatti, nell’art. 70 della legge italiana sul diritto d’autore ( L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”)  il legislatore italiano si è limitato a sancire il libero riassunto, la citazione o la riproduzione dell’opera e la loro comunicazione al pubblico, purché:

1) vi ricorra una finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica, così da garantire l’informazione e la diffusione della cultura, in quanto si permette la libera fruibilità dei concetti esposti nell’opera. La dottrina precisa che si ha “uso di critica”, quando l’utilizzazione è finalizzata ad esprimere opinioni protette dagli artt. 21 e 33 Cost.;

2) l’opera critica abbia fini autonomi e distinti da quelli dell’opera citata e non sia succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate;

3) l’utilizzazione non sia di dimensioni tali da supplire all’acquisto dell’opera, pertanto l’utilizzazione non debba essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti e idonea a danneggiare gli interessi patrimoniali esclusivi dell’autore o del titolare di diritti; 4) siano rispettate le menzioni d’uso, quali l’indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione o la riproduzione, il nome dell’autore e dell’editore. Dottrina e giurisprudenza concordano che anche questa disposizione normativa sia del tutto eccezionale, cosicché non può essere applicata per analogia, ma deve essere interpretata restrittivamente.

Informazioni e notizie giornalistiche. L’art. 101, infine, tutela le informazioni e le notizie giornalistiche, stabilendo che sono liberamente riproducibili altrove, purché non si ricorra ad “atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e (…) se ne citi la fonte”. In questo primo comma, il legislatore non ha definito gli atti contrari, ma ha fatto rinvio alle regole di correttezza professionale, fissate nel codice deontologico dell’attività giornalistica, lasciando al giudice il compito di decidere, in merito ai casi concreti per i quali è chiamato a giudicare, se quel comportamento è scorretto o meno. (L’art. 101 co. 1 l. n. 633/1941 sancisce che “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”). Tuttavia, il legislatore colma la genericità del primo comma con il secondo, nel quale specifica alcuni comportamenti che, senza alcun dubbio, costituiscono atti di concorrenza sleale: per esempio, la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso a coloro che ne hanno diritto, oppure prima che l’editore autorizzato abbia pubblicato la notizia; il c.d. “parassitismo giornalistico”, che si ha nel caso in cui il giornalista scorretto effettua la riproduzione o la radiodiffusione sistematica di informazioni e notizie, attingendo da altri giornali o fonti, che svolgono un’attività giornalistica a fine di lucro. Tutte queste pratiche scorrette sono sanzionate dalla legge con l’arresto dell’attività di concorrenza, con la rimozione degli effetti dell’illecito, con la condanna al risarcimento dei danni e la pubblicazione della sentenza. (L’art. 101 co. 2 l. n. 633/1941 così recita “Sono considerati atti illeciti: a) la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie giornalistiche o di informazioni, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso e, comunque, prima della loro pubblicazione in un giornale o altro periodico che ne abbia ricevuto la facoltà da parte dell'agenzia. A tal fine, affinché le agenzie abbiano azione contro coloro che li abbiano illecitamente utilizzati, occorre che i bollettini siano muniti dell'esatta indicazione del giorno e dell'ora di diramazione; b) la riproduzione sistematica di informazioni o notizie, pubblicate o radiodiffuse, a fine di lucro, sia da parte di giornali o altri periodici, sia da parte di imprese di radiodiffusione”).

CRONACA, INDAGINE GIORNALISTICA E ANALISI SOCIALE. Quando accade un fatto di rilievo pubblico, un ruolo fondamentale è svolto dal cronista, il quale giunge presso il luogo del fatto per raccontare gli avvenimenti così come accadono, nella loro precisa successione cronologica, realizzando un’attività di testimonianza diretta o indiretta. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”). Dunque, appare evidente che, diversamente dal giornalismo tradizionale, il quale attinge le notizie da fonti ufficiali e istituzionali perché si dia informazione sui fatti, il giornalismo d’inchiesta impiega mesi e mesi per sviluppare e preparare un’indagine giornalistica in quanto approfondisce aspetti e circostanze su fatti socialmente rilevanti, così da indurre il lettore a riflettere e formare la propria opinione, seppure diversa da quella letta sul giornale. L’inchiesta, pertanto, mette in rilievo problemi sociali o vicende politiche attuali e consente di compiere un’analisi sociale. L’inchiesta e la cronaca sono tipologie giornalistiche che si distinguono da “Gomorra”, la quale è a tutti gli effetti un’opera letteraria, che racchiude diversi generi, come “il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Dunque, accanto alla cronaca giornalistica, che consiste nel narrare fatti realmente accaduti “secondo la successione cronologica, senza alcun tentativo di interpretazione o di critica degli avvenimenti”, vi è il romanzo, un componimento letterario in prosa, di ampio sviluppo, frutto della creazione fantastica dell’intelletto dell’autore; il saggio, un componimento relativamente breve, nel quale l’autore “tratta con garbo estroso e senza sistematicità argomenti vari (di letteratura, di filosofia, di costume, ecc.), rapportandoli strettamente alle proprie esperienze biografiche e intellettuali, ai propri estri umorali, alle proprie idee o al proprio gusto”; e per finire il pamphlet, definito come un “breve scritto di carattere polemico o satirico”.

Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte. 

Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.

Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.

Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate. 

Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.

Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.

Popgiornalismo. Il caso e la post-notizia. Un libro di Salvatore Patriarca. Con le continue trasformazioni dell’era digitale, diventa sempre più urgente mettere a punto dinamiche comunicative che sappiano muoversi con la stessa velocità con la quale viaggia la trasmissione dei dati e che, soprattutto, riescano a sviluppare capacità connettive in grado di ricomprendere un numero sempre maggiore di dati-fatti-informazioni. Partendo dal fenomeno giornalistico rappresentato da Dagospia – il sito di Roberto D’Agostino che ha saputo cogliere, sin dagli albori, le possibilità offerte dal mezzo digitale – il libro analizza i caratteri di una nuova forma giornalistica, il popgiornalismo. Al centro di questa recente declinazione informativa non c’è più la notizia ma la post-notizia, la necessità cioè di lavorare sulle connessioni e sugli effetti che ogni nuovo fatto, evento o dato determina. Da qui ne conseguono i tre tratti essenziali dell’approccio popgiornalistico: la “leggerezza” pesante dell’informazione, la conoscenza del quotidiano come opera aperta e la libera responsabilità del lettore.

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.

La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione.

Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506.

La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”.

La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)

Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.

Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.

Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)

Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.

Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.

Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)

Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.

Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.

NON CI SI PUO’ SOTTRARRE ALLE CRITICHE ONLINE.

Tribunale di Roma (N. R.G. 81824/2018 Roma, 1 febbraio 2019 Presidente dott. Luigi Argan): non ci si può sottrarre alle critiche online, scrive Guido Scorza 28 febbraio 2019 su l'Espresso. In un’epoca nella quale la libertà di parola, specie online, sembra condannata a dover sistematicamente cedere il passo a altri diritti e a contare davvero poco, un raggio di libertà, arriva dal Tribunale di Roma che, nei giorni scorsi, ha rispedito al mittente le domande di un chirurgo plastico che aveva chiesto, in via d’urgenza, ai Giudici di ordinare a Google di sottrarre il proprio studio dalle recensioni del pubblico o, almeno, di cancellare quattro commenti particolarmente negativi ricevuti da pazienti e amici di pazienti. Secondo la prima sezione del Tribunale, infatti, il diritto di critica viene prima dell’interesse del singolo a non veder la propria attività professionale compromessa da qualche recensione negativa e nessuno ha diritto, nel momento in cui esercita un’attività professionale o commerciale, a pretendere di essere sottratto al rischio che terzi, ovviamente dicendo la verità e facendolo in maniera educata, lo critichino. E questo, secondo i Giudici, è quanto accaduto nel caso in questione. Il chirurgo in questione non può né pretendere che Google rinunci a mettere a disposizione degli utenti un servizio che consente, tra l’altro, la raccolta di “recensioni” sulla propria attività né che non consenta agli utenti di pubblicare commenti negativi o che cancelli quelli pubblicati. Ma non basta. Il Tribunale di Roma mette nero su bianco un principio tanto semplice quanto spesso ignorato: non può toccare a Google sorvegliare che i propri utenti non pubblichino recensioni negative perché Google non ha, né può avere, alla stregua della disciplina europea della materia, alcun obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati da terzi. Google – e il Giudice lo scrive con disarmante chiarezza – ha il solo obbligo di rimuovere un contenuto quando la sua pubblicazione sia accertata come illecita da un Giudice e la notizia gli sia comunicata. E a leggere l’Ordinanza con la quale il Giudice ha respinto le domande d’urgenza proposte dal chirurgo vien davvero da pensare che tutti dovremmo iniziare a imparare ad accettare le critiche con spirito costruttivo e come stimolo a far meglio in futuro anziché investire ogni energia nel tentativo – vano, fortunatamente, in questa vicenda – di condannare all’oblio le opinioni di chi, su di noi, si è fatto, a torto o a ragione, ma dicendo la verità, un’idea che semplicemente non ci piace. Che un professionista, in piena società dell’informazione, davanti a un cliente – per di più suo paziente – che pubblica critiche del tipo “lavoro mal fatto, senza impegno e senza amore per la sua professione” o “Pessimo, assolutamente non idoneo a trattamenti di chirurgia estetica”, anziché fare autocritica non trovi niente di meglio da fare che correre davanti a un Giudice a domandare di trattare le parole altrui come carta straccia, da gettare di corsa nel tritacarta, è circostanza preoccupante. Probabilmente la volatilità tecnologica dei bit ci ha persuasi che le opinioni, le parole e le idee del prossimo valgano poco per davvero. Bene, dunque, hanno fatto i Giudici a ricordare che la critica è costituzionalmente garantita e che ci vuol ben altro che il rammarico di un chirurgo per qualche recensione poco lusinghiera – peraltro tra tante altre positive – per pretendere di veder cancellate, a colpi di spugna, le opinioni altrui.

·         L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

Dispotismo: dispotismo (raro despotismo) s. m. [der. di despota e dispotico]. – Governo esercitato da una sola persona o da un ristretto gruppo di persone in modo assolutistico e arbitrario, senza alcun rispetto per la legge. In particolare e detto Dispotismo illuminato, quello dei sovrani riformatori del 18° secolo, ispirato alle teorie politiche e filosofiche dell’illuminismo francese (esaltazione della Ragione, accettazione dell’assolutismo come forma di governo, ecc.). In senso estensivo e figurativo: autorità che si esercita in modo prepotente, oppressivo; atteggiamento ispirato a estremo autoritarismo, a noncuranza o a disprezzo degli altrui diritti.

La teoria di Montesquieu: Lo Stato e la suddivisione dei poteri.  La moderna teoria della separazione dei poteri viene tradizionalmente associata al nome di Montesquieu. Il filosofo francese, nello Spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, fonda la sua teoria sull'idea che "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti [...]. Perché non si possa abusare del potere occorre che [...] il potere arresti il potere". Individua, inoltre, tre poteri (intesi come funzioni) dello Stato - legislativo, esecutivo e giudiziario - così descritti: "In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica le liti dei privati", perché “una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica”. L'idea che la divisione del potere sovrano tra più soggetti sia un modo efficace per prevenire abusi è molto antica nella cultura occidentale: già si rinviene nella riflessione filosofica sulle forme di governo della Grecia classica, dove il cosiddetto governo misto era visto come antidoto alla possibile degenerazione delle forme di governo "pure", nelle quali tutto il potere è concentrato in un unico soggetto. Platone, nel dialogo La Repubblica, già parlò di indipendenza del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delineò una forma di governo misto, da lui denominata politìa (fatta propria poi anche da Tommaso d'Aquino), nella quale confluivano i caratteri delle tre forme semplici da lui teorizzate (monarchia, aristocrazia, democrazia); distinse, inoltre, tre momenti nell'attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. Polibio, nelle Storie, indicò nella costituzione di Roma antica un esempio di governo misto, in cui il potere era diviso tra istituzioni democratiche (i comizi), aristocratiche (il Senato) e monarchiche (i consoli). Nel XIII secolo Henry de Bracton, nella sua opera De legibus et consuetudinibus Angliæ, introdusse la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio: il primo è il momento "politico" dell'attività dello Stato, nel quale vengono fatte le scelte di governo, svincolate dal diritto; il secondo è, invece, il momento "giuridico", nel quale vengono prodotte e applicate le norme giuridiche, con decisioni vincolate al diritto (che, secondo la concezione medioevale, è prima di tutto diritto di natura e consuetudinario). È però con John Locke che la teoria della separazione dei poteri comincia ad assumere una fisionomia simile all'attuale: i pensatori precedenti, infatti, pur avendo individuato, da un lato, diverse funzioni dello Stato e pur avendo sottolineato, dall'altro lato, la necessità di dividere il potere sovrano tra più soggetti, non erano giunti ad affermare la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Locke, nei Due trattati sul governo del 1690, articola il potere sovrano in potere legislativo, esecutivo (che comprende anche il giudiziario) e federativo (relativo alla politica estera e alla difesa), il primo facente capo al parlamento e gli altri due al monarca (al quale attribuisce anche il potere, che denomina prerogativa, di decidere per il bene pubblico laddove la legge nulla prevede o, se necessario, contro la previsione della stessa).

La Teoria di Voltaire: Tolleranza e Libertà di manifestazione del pensiero. La libertà di esprimere le proprie convinzioni e le proprie idee è una delle libertà più antiche, essendo sorta come corollario della libertà di religione, rivendicata dai primi scrittori cristiani nel corso del II-III secolo e, successivamente, durante i conflitti tra cattolici e protestanti (XVI-XVII secolo). D’altra parte, essa è stata sollecitata anche dai grandi teorici della libertà di ricerca scientifica (basti pensare a Cartesio o a Galileo) e della libertà politica (ad esempio, Milton), nonché, successivamente, dagli stessi filosofi del XVIII e del XIX secolo (Voltaire, Fichte, Bentham, Stuart Mill). Va detto, comunque, che soltanto in alcuni documenti costituzionali si parla di libertà di manifestazione del pensiero (art. 8 Cost. Francia 1848; art. 21 Cost.), laddove in altri testi si preferisce utilizzare l’espressione libertà di opinione (art. 11 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese 1789; art. 8 Cost. Francia 1814; art. 7 Cost. Francia 1830; tit. VI, art. IV, par. 143, Cost. Francoforte 1849; art. 118 Cost. Germania 1919; art. 5 Legge fondamentale Germania 1949; art. 20 Cost. Spagna 1978; art. 16 Cost. Svizzera 1999), libertà di parola (I emendamento Cost. U.S.A. 1787) o libertà di stampa (art. 18 Cost. Belgio 1831; art. 28 Statuto albertino).

La Teoria di Voltaire. Voltaire non credeva che la Francia (e in generale ogni nazione) fosse pronta a una vera democrazia: perciò, non avendo fiducia nel popolo (a differenza di Rousseau, che credeva nella diretta sovranità popolare), non sostenne mai idee repubblicane né democratiche; benché, dopo la morte, sia divenuto uno dei "padri nobili" della Rivoluzione, celebrato dai rivoluzionari, è da ricordare che alcuni collaboratori e amici di Voltaire finirono vittime dei giacobini durante il regime del Terrore, tra essi Condorcet e Bailly). Per Voltaire, chi non è stato "illuminato" dalla ragione, istruendosi ed elevandosi culturalmente, non può partecipare al governo, pena il rischio di finire nella demagogia. Ammette comunque la democrazia rappresentativa e la divisione dei poteri proposta da Montesquieu, come realizzate in Inghilterra, ma non quella diretta, praticata a Ginevra. Nel Trattato sulla tolleranza il filosofo denuncia le conseguenze dell’intolleranza e si scaglia, in particolare, contro il cristianesimo. Secondo Voltaire bisogna abbandonare il fanatismo delle religioni storiche e abbracciare unicamente una religione razionale che si basi sull’obbedienza a Dio e sull’esercizio del bene. Essere tolleranti significa, per Voltaire: accettare la diversità e le comuni fragilità, rifiutare la tortura e la pena di morte e abbracciare una fede pacifista e cosmopolita. L'idea di tolleranza di Voltaire. Tutta la polemica di Voltaire contro le ingiustizie sociali, la superstizione, il fanatismo è esemplificata nella sua difesa del principio della tolleranza. Nella sua opera più importante, il Trattato sulla tolleranza, infatti, il filosofo parte da un fatto di cronaca (un processo concluso con la condanna a morte di un protestante di Tolosa) per denunciare globalmente le conseguenze dell’intolleranza, ed in particolare si scaglia contro il cristianesimo. «I cristiani sono i più intolleranti degli uomini», o «la nostra (religione, n.d.r) è senza dubbio la più ridicola, la più assurda e la più assetata di sangue mai venuta a infettare il mondo» scrive.  Ma la sua requisitoria è diretta contro tutte le religioni storiche che hanno tradito il loro comune nucleo razionale, fatto di alcuni principi semplici e universalmente condivisi e, attraverso l’istituzione di dogmi e riti particolari, si sono macchiate di ogni tipo di crimine (dalle guerre alle persecuzioni). Abbandonare dunque il dogmatismo e abbracciare una religione spogliata dei suoi tratti esteriori e deleteri perché: «il deista non appartiene a nessuna di quelle sette che si contraddicono tutte… egli parla una lingua che tutti i popoli intendono… egli è persuaso che la religione non consiste né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile, né in vane cerimonie, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene è il suo culto: obbedire a Dio è la sua dottrina». L’uomo deve accettare la diversità, i diversi punti di vista, in quanto, secondo Voltaire, essere tolleranti significa accettare le comuni fragilità: «Siamo tutti impastati di debolezze e errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura… Chiunque perseguiti un altro suo fratello, perché non è della sua opinione, è un mostro». La tolleranza deve animare qualunque tipo di potere politico e Voltaire si scaglia, quindi, anche contro l’uso della tortura e della pena di morte. Allo stesso modo attacca l’uso della religione per giustificare le guerre e rigetta il nazionalismo in nome di una fede cosmopolita.  La celebre frase: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo», a cui è legato indissolubilmente il nome di Voltaire, in realtà non fu mai pronunciata dal filosofo. Appartiene, infatti, ad una saggista (Evelyne Beatrice Hall) che scrisse e ricostruì la vita e le opere di Voltaire. Ciononostante, sicuramente le prese di posizione del filosofo in merito non scarseggiarono e, anche nella sua vita privata, soffriva profondamente delle conseguenze dell’intolleranza degli uomini. Ogni anno, infatti, dedicava un giorno al lutto e all’astensione da qualunque attività: il 24 agosto, anniversario della notte di San Bartolomeo (una strage compiuta nel 1572 dalla fazione cattolica ai danni dei calvinisti parigini), si dice che aggiornasse la sua casistica dei morti nelle persecuzioni religiose arrivando a contarne 24/25 milioni. Ma la sua personalità non fu esente da contraddizioni: si batteva contro le guerre e il pacifismo ma faceva affari lucrosi nel campo dei rifornimenti all’esercito; era un paladino della tolleranza ma intrattenne degli accesissimi diverbi con l’illuminista Rousseau che screditavano la validità di tale principio; infine, celebri furono le prese di posizione sull’inferiorità degli africani rispetto a scimmie e elefanti, oltre che all’uomo bianco.

La Teoria di Rousseau: La democrazia diretta come contratto sociale e la capacità del popolo libero a gestirla. A livello politico Rousseau parte da un presupposto sociologico: lo Stato moderno che sta nascendo e la borghesia che continua a governare stanno diventando incompatibili tra loro, scrive F Occhetta. Così per dare un senso all’uomo e alla società ritiene utile partire da un’ipotesi logica che, pur non essendosi realizzata nella storia, ne costituisce il fondamento. Il punto di partenza è costituito, secondo lo schema classico del giusnaturalista laico, dallo stato di natura, che costituisce lo scenario a partire dal quale è possibile interpretare la storia stessa. I processi politici e i sistemi istituzionali sono per Rousseau il modo di «governare» cittadini, che associandosi perdono la loro bontà naturale. Cultura e natura sono in tensione nel pensiero del ginevrino. L’immagine che usa è quella di un’arma pericolosa in mano a un bambino, per questo nei suoi scritti si incontra spesso una proporzione: l’uomo di natura sta alla bontà come l’uomo civilizzato sta alla corruzione. Gli uomini di natura possiedono solo due princìpi anteriori alla loro ragione: l’amore di sé e la pietà mentre l’uomo sociale è egoista e solo, il desiderio di apparire migliore degli altri lo porta ad essere invidioso e falso. Nello stato di natura, però, si radica un’altra contraddizione. Se, per gli illuministi la natura rappresentava un oggetto che la ragione analizzava «per Rousseau la natura rappresenta invece una realtà che non va vivisezionata con la ragione, ma prima di tutto amata e compresa col sentimento». La priorità del cuore sulla ragione, che porta a riconoscere la natura come buona, faranno di Rousseau un «illuminista pre-romantico». Basta poco però per perdere questo status ideale. Appena l’uomo isolato incontra altri uomini per associarsi, perde la sua bontà ed è costretto a fondare un patto iniquo. Questa svolta nella storia dell’umanità è per Rousseau la nascita della proprietà, che egli considera il vero male della storia e definisce con la nota immagine del palo: «Il giorno in cui un uomo ha piantato un palo e ha detto “questo è mio”, е gli altri uomini sono stati cosi ingenui da non strappare quel palo, dicendo “non c’è né mio né tuo”, in quel momento è cominciata la degenerazione della Storia». Le dottrine comuniste esaspereranno questa posizione. Se la natura umana è stata corrotta dallo sviluppo della civiltà e in particolare dall’introduzione della proprietà privata, ci chiediamo: come può essere rieducato l’uomo alla libertà? Qui tocchiamo un punto decisivo: «Per Rousseau la libertà non può che essere sociale: l’uomo è libero solo tra uomini liberi. La liberazione dell’uomo non può che essere frutto di un impegno solidale. Е la socialità che, secondo Rousseau, va riscoperta attraverso l’educazione, costituisce il primo dover essere dell’uomo. La libertà е l’uguaglianza ne costituiscono i frutti preziosi». In verità nel pensiero di Rousseau ciò che salva è una solitudine radicale: «Il “selvaggio” non tiene in alcun conto gli sguardi degli altri sa essere felice indipendentemente dagli altri e vive in se stesso. “L’uomo civilizzato” vive proiettato sempre fuori di sé, nell’opinione degli altri e deriva dagli altri la stessa coscienza della propria esistenza». Ma se gli uomini non si stimano né si aiutano, non si riconoscono reciproci e perdono la loro felicità incontrandosi, su che cosa basano la loro convivenza? Questi presupposti di natura antropologica e sociologica iniziano qui a creare problemi. Ritenere che la società sia la causa dei contrasti tra gli uomini (e non l’effetto) significa ritenere che le ineguaglianze date dalle diverse capacità e dall’appartenenza sociale prendono il posto dell’uguaglianza dello stato di natura. Ma c’è di più: «Le differenze naturali si trasformano in disuguaglianze morali e al tempo stesso gli uomini si riconoscono come individui. Per mezzo dell’opinione degli altri acquistiamo un’identità personale, ma diventiamo anche schiavi dell’opinione». La via d’uscita è di carattere morale e risiede nella capacità che ciascuno dovrebbe avere di rieducarsi alla libertà, facendo nascere il contratto sociale che è un «dover essere della coscienza», un’esigenza deontologica capace di recuperare i valori perduti dello stato di natura, quando l’uomo era buono. Ma c’è di più. Gli studi di questi ultimi anni dedicati al profilo psicologico del pensiero di Rousseau sostengono — con le dovute riserve — che la sua solitudine, il suo narcisismo e il suo masochismo siano stati le cause che lo portarono a teorizzare il «buon selvaggio» — figura letteraria già presente nel pensiero di Montaigne —, vittima innocente della società, e l’Emilio, la vittima innocente dell’educazione. In verità l’attualità del suo pensiero tocca il significato filosofico della «volontà generale» che è chiamata a guidare lo Stato per conseguire il bene comune. Secondo Rousseau la sovranità si poteva esprimere soltanto in un corpo collettivo, inalienabile e indivisibile. In questo meccanismo logico risiede l’ideologia democratica di Rousseau. Quali sono le condizioni che devono sussistere per far sì che uno Stato sia democratico? Lo Stato diventa nel pensiero di Rousseau la via di uscita politica per porre rimedio ai due grandi male sociali: quello di incontrare altri uomini in società e quello della disuguaglianza creata dalla proprietà privata. Il problema è dunque politico, e non antropologico. Il male non è mai all’interno dell’uomo ma nelle strutture politiche, che devono quindi essere riformate e cambiate. Non occorre una conversione morale e una nuova auto-comprensione dell’umano, ma è necessaria la trasformazione delle strutture politiche. In questa visione si concentra tutta la debolezza della proposta politica di Rousseau. La dimensione religiosa che potrebbe cambiare il cuore dell’uomo, insegnargli a distinguere il bene dal male e a conoscere Dio, per Rousseau deve essere invece legata alla politica che diventa per l’uomo la vera religione. Sono dunque le strutture politiche che dovrebbero essere «convertite» per espellere il male dalla storia, non gli uomini che le governano. Costruire lo Stato dunque diventa per il pensiero del ginevrino un atto religioso che non tocca il cuore del cittadino. Per questo alcuni studiosi sono inclini a ritenere che Rousseau secolarizzi il pensiero teologico introducendo l’idea di democrazia moderna. La democrazia, che si fonda sul contratto sociale, diventa in Rousseau lo strumento di redenzione e liberazione dal male; i cittadini non cedono la loro libertà e i loro diritti a un sovrano come riteneva Hobbes, ma alla collettività che li farà ritrovare insieme a tutti gli altri cittadini. Così la democrazia è per Rousseau quella forma di Stato in cui il popolo è allo stesso tempo sovrano e suddito. Per realizzare questa intuizione la sovranità deve essere esercitata direttamente dal popolo tramite procedure che garantiscano il principio di l’autodeterminazione dei singoli che devono realizzare il programma definito dall’interesse generale.  L’ambito si sposta dal teologico al teleologico. In origine c’è una situazione buona (lo stato di natura), segue una caduta (la nascita della proprietà), ne consegue che per redimersi l’uomo deve far nascere lo Stato democratico. Della redenzione non ha bisogno l’uomo, perché è buono, ma la politica, perché il male della storia, che si radica nella proprietà, appartiene alla sfera giuridica. Proprio qui però si radica la seconda contradizione del suo pensiero: tutti possono esercitare i diritti di tutti; e se questi non sono concordi? Che cos’è in realtà la «volontà generale» su cui si sono fondate le moderne democrazie? È formalmente la guida dello Stato democratico, quella che il bene comune della collettività e che si distingue dalla volontà di tutti. La maggioranza va distinta dalla minoranza e la sua volontà coincide tendenzialmente con la volontà generale. Questa è rappresentata della «classe media», non da intendere come la classe borghese, ma quella che in una votazione si determina togliendo le parti estreme. L’interpretazione di questa scelta ha portato ad applicazioni storiche opposte: il pensiero liberal democratico ha fatto coincidere la volontà della maggioranza con la volontà generale; i totalitarismi e le dittature come quelle di Napoleone e di Marx, hanno ritenuto che la volontà generale venisse intuita da personalità carismatiche. Nel pensiero di Rousseau è mancato un ponte che collegasse la vita privata dell’uomo, la dimensione, per lui importante, della coscienza e dei buoni sentimenti, con la costruzione della città. È forse questa l’urgenza di cui hanno bisogno le moderne democrazie per riformarsi. A questo riguardo diventano preziosi due insegnamenti del ginevrino. Il primo è contenuto nell’Emilio, quando Rousseau ricorda che si può vivere in due modi, recitando una parte e privandosi di vivere autenticamente, come fanno gli attori di teatro; oppure vivere e lasciarsi vivere come in una festa quando ciascuno diventa se stesso. Il fine della politica poi lo richiama nella sua Lettera a d’Alambert: «Possano i giovani trasmettere ai loro discendenti le virtù, la libertà, la pace che hanno ricevuto dai loro padri!». «La ricerca del proprio vantaggio a spese degli altri è qualche volta temperata dalla pena che proviamo nel vedere gli altri soffrire. Prima che l’amor proprio sia interamente sviluppato, la pietà naturale agisce come un freno all’ardore con cui gli uomini perseguono il proprio benessere […].

La teoria di Cesare Beccaria: Certezza del Diritto e Pene certe, ma non crudeli. Scritto da Library.weschool.com. L’Illuminismo lombardo, in stretto rapporto con quello francese ma consapevolmente non rivoluzionario e di orientamento moderato, si sviluppa nell’alveo del riformismo di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) e Giuseppe II (1741-1790). I punti caratterizzanti sono allora quellli del riordino generale del sistema economico-giuridico del tempo (in accordo con le necessità della nascente borghesia imprenditoriale, e contro l’immobilisimo del sistema aristocratico), la polemica contro la tradizione culturale dei secoli passati, l’idea che gli intellettuali debbano collaborare attivamente al progresso collettivo della società. In ambito letterario, rilevante è la preferenza per toni sobri ed eleganti, in reazione agli eccessi della poetica barocca; tra i nomi più direttamente avvicinabili a questi propositi riformistici, ci sono sicuramente Giuseppe Parini (1729-1799; si pensi all’ode La caduta o al poemetto Il Giorno), le commedie teatrali di Goldoni (1807-1793), le tragedie di Alfieri (1749-1803). I maggiori esponenti dell’Illuminismo lombardo sono innanzitutto, oltre a Cesare Beccaria, i fratelli Alessandro (1741-1816) e Pietro Verri (1728-1797) attivi animatori di battaglie amminsitrative e legislative e della vita culturale milanese. Due gli organi per sostenere questo disegno di riforma civile: da un lato l’Accademia dei Pugni, istituzione culturale fondata a Milano nel 1761 dei fratelli Verri, Beccaria ed altri intellettuali illuminati milanesi che si fa portavoce di un gusto moderno, anticonvenzionale ed antitradizionalista; dall’altro il periodico «Il Caffè» (1764-1766) che, ispirandosi all’inglese «Spectator», diffonde gli ideali dell’Illuminismo, come quando sostiene la necessità di una nuova lingua dell’uso, agile e moderna, sull’esempio dei principali modelli europei.Particolare risalto per l’Illuminismo italiano ha l’esperienza letteraria, culturale e politico-economica di Cesare Beccaria. Di famiglia di recente nobiltà, Beccaria studia presso i gesuiti e in seguito si diploma in diritto a Pavia, e, dopo essere divenuto membro dell’Accademia dei pugni, pubblica nel 1764 il saggio Dei delitti e delle pene, composto sulla spinta e l’attiva collaborazione dell’amico Pietro Verri. In pochi anni, grazie anche ad una traduzione in francese del 1766, l’opera conquista fama in tutta Europa, tanto di divenire un punto di riferimento anche per gli illuministi francesi, nella cui corrente di riflessione sui fondamenti del diritto moderno (si pensi a Montesquieu e alla teoria di divisione dei poteri, Helvétius, Rousseau e il suo Contratto sociale) i Dei delitti e delle pene si inserisce pienamente. In seguito al successo dell’opera Beccaria si reca a Parigi con Alessandro Verri per stringere i rapporti con i philosophes, ma, sopraffatto dalla nostalgia, l’autore resta nella capitale francese solo qualche settimana per poi tornare in Italia, provocando reazioni derisorie e una brusca rottura nel rapporto con Pietro Verri. Mentre Dei delitti e delle pene si diffonde per il mondo, a Milano Beccaria vive in solitudine, dedicandosi all’insegnamento di economia e collaborando con il governo austriaco per un disegno di riforma fiscale. Beccaria muore nel 1794. Tra le sue opere ricordiamo anche Del disordine e de’ rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1762 (1762), primo scritto pubblicato che suscita svariate polemiche; le Ricerche intorno alla natura dello stile (1770), legate alle riflessioni sull’incivilimento della società, in cui collega lo studio dello “stile” alla scienza dell’uomo, rifacendosi al sensismo; e gli Elementi di economia politica, raccolta delle sue lezioni, pubblicata postuma nel 1804. La portata rivoluzionaria del saggio di Beccaria Dei delitti e delle pene (1764) è giustificata dal fatto che questo scritto getta alcune basi fondamentali del diritto moderno. Dei delitti e delle pene nasce all’interno del clima dell’Accademia dei Pugni, su espressa indicazione di Pietro Verri, che mette ampiamente mano alla prima stesura sia correggendola sia modificandone l’assetto. L’ordinamento finale dell’opera sarà ulteriormente modificato da André Morrellet (1727-1819), in occasione della traduzione francese due anni dopo la prima pubblicazione. L’opera, sull’onda di quei principi filosofici ed etici riscontrabili in Montesquieu e Rousseau, si sviluppa come un’articolata riflessione sulla natura e i principi della punizione inferta dalla legge a chi abbia commesso qualche reato: Beccaria tematizza quindi non sul rapporto causale tra “delitto” e “pena”, ma sulla natura filosofica e sul concetto stesso di “pena” all’interno di una società umana. Beccaria ritiene infatti che la vita associata sia rivolta al conseguimento della felicità del maggior numero di aderenti al “contratto sociale” e che le leggi siano la condizione fondante di questo patto; dati questi presupposti è evidente che le peneservano a rafforzare e garantire queste stesse leggi, ed è sulle pene e sulla loro applicazione che si concentra quindi l’opera di Beccaria. Scrive così nell’introduzione all’opera: Le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Le pene sono dunque finalizzate sia adimpedire al colpevole di infrangere nuovamente le leggi, sia a distogliere gli altri cittadini dal commettere colpe analoghe. Le pene vanno allora scelte proporzionatamente al delitto commesso e devono riuscire a lasciare un’impressione indelebilenegli uomini senza però essere eccessivamente tormentose o inutilmente severe per chi le ha violate. Il tema si lega strettamente al decadimento della giustizia al tempo dell’autore, ancora legata all’arretrata legislazione di Giustiniano (il Corpus iuris civilis del VI secolo d.C.) e alla sua revisione per mano di Carlo V (1500-1558). La proposta riformistica di Beccaria vuole abolire abusi ed arbitri dipendenti, nell’amministrazione della giustizia, dalla ristretta mentalità aristocratica dei detentori del potere; secondo la prospettiva “illuminata” dell’autore una gestione più moderna del problema giudiziario non potrà che favorire, oltre che la tutela dei diritti individuali, anche il progresso dell’intera società (come nel caso delle osservazioni sulla segretezza dei processi o sul fatto che il sistema giudiziario presupponga la colpevolezza e non l’innocenza dell’imputato). La portata rivoluzionaria del discorso di Beccaria si evince in particolar modo dal discorso sulle torture, intese come uno strumento inefficace e perverso per ottenere un’illusione di verità; essendo il colpevole tale solo dopo la sentenza, le torture, utilizzate comumente come mezzo finalizzato alla confessione, sono inutili e illegittime e rischiano di assolvere coloro che, essendo più robusti di costituzione riescono a resistervi, e condannare innocenti dal fisico più debole. L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema. Inoltre l’innocente è messo dalla tortura in una situazione peggiore di quella del reo, in quanto il secondo, se resiste, è dichiarato innocente, mentre il primo anche se è riconosciuto tale avrà comunque dovuto subire una tortura immeritata. Altrettanto centrale è il discorso sulla pena di morte, alla cui origine Beccaria non riesce a trovare un qualche fondamento di diritto. Evidente è che non può essere un potere dato dal contratto sociale, perché nessuno aderirebbe a un patto che dà agli altri il potere di ucciderlo. Oltre a questa considerazione Beccaria nota anche che l’esistenza della pena di morte non ha mai impedito che venissero commessi quegli stessi crimini per cui altri venivano giustiziati. Infatti fa più impressione vedere un uomo che paga per la sua avventatezza, che vedere uno spettacolo che indurisce ma non per questo corregge: Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Dati questi presupposti Beccaria parte dal principio che non sia l’intensità della pena a far effetto sull’immaginazione degli uomini, quanto la sua durata ed estensione. La pena non dev’essere cioè terribile e breve, quanto certa, implacabile ed infallibile. Inoltre la misura dei delitti deve essere il danno arrecato alla società e non l’intenzione, che varia in ciascun individuo, e scopo della pena deve essere sempre la prevenzione dei delitti.

L’illuminato pensiero di Cesare Beccaria. IL TRATTATO DEI DELITTI E DELLE PENE, segna l’inizio della moderna storia del diritto penale. Saggio scritto dall’illuminista milanese Cesare Beccarla (1738-1794) tra il 1763 e il 1764, in cui l’autore si pone delle domande circa le pene allora in uso.  scritto da G.M.S. il 3 Settembre 2016 su Umsoi. Nonostante il notevole successo e la vasta eco in tutta Europa (la zarina Caterina II di Russia mise in pratica i princìpi fondamentali della riforma giudiziaria in esso proposta, mentre nel Granducato di Toscana venne perfino abolita la pena di morte), nel 1766 il libro venne incluso nell’indice dei libri proibiti a causa della distinzione che vi si ritrova tra reato e peccato. L’autore afferma, infatti, che il reato è un danno alla società, a differenza del peccato, che, non essendolo, può essere giudicabile e condannabile solo da Dio. Alla base di questa distinzione sta la tesi secondo cui l’ambito in cui il diritto può intervenire legittimamente non attiene alla coscienza morale del singolo. Inoltre, per Beccarla non è “l’intensione” bensì “l’estensione” della pena a poter esercitare un ruolo preventivo dei reati, motivo per cui, fra l’altro, esprime un parere negativo nei confronti della pena capitale, comminando la quale afferma che lo Stato, per punire un delitto, ne compie uno a sua volta. E il diritto di “questo” Stato, che altro non è che la somma dei diritti dei cittadini, non può avere tale potere: nessuna persona, infatti, darebbe il permesso ad altri di ucciderla. Riprendendo i concetti roussoviani, Beccaria contrappone al principio del vecchio diritto penale “è punito perché costituisce reato” il nuovo principio “è punito perché non si ripeta”. Il delitto viene separato dal “peccato” e dalla “lesa maestà” e si trasforma in “danno” recato alla comunità. Sulla base della teoria contrattualistica, egli arriva a sostenere che, essendo il delitto una violazione dell’ordine sociale stabilito per contratto (e non per diritto divino), la pena è un diritto di legittima autodifesa della società e deve essere proporzionata al reato commesso. Le leggi devono in primo luogo essere chiare (anche nel senso di accessibili a tutti, cioè scritte nella lingua parlata dai cittadini) e non soggette all’arbitrio del più forte; non è giusto pertanto infierire con torture, umiliazioni e carcere preventivo prima di aver accertato la colpevolezza. Un uomo i cui delitti non sono stati provati va ritenuto innocente. L’accusa e il processo devono essere pubblici, con tanto di separazione tra giudice e pubblico ministero e con la presenza di una giuria. (Tuttavia per il Beccaria legittimo “interprete” della legge è solo il sovrano; il giudice deve solo esaminare se le azioni dei cittadini sono conformi o meno alla legge scritta). La stessa pena di morte va abolita in quanto nessun uomo ha il diritto, in una società basata sul contratto fra persone eguali, di disporre della vita di un altro suo simile. E’ impossibile allontanare i cittadino dall’assassinio ordinando un pubblico assassinio. Occorre che i cittadini siano messi in condizione di comportarsi nel migliore dei modi. La condanna capitale rende inoltre irreparabile un eventuale errore giudiziario. Il vero freno della criminalità non è la crudeltà delle pene, ma la sicurezza che il colpevole sarà punito.

I tre filosofi dell'Illuminismo. Da Comprensivocesari.edu.it. Charles de Montesquieu, un illuminista aristocratico, era favorevole a una monarchia costituzionale, sul modello di quella inglese. Egli sosteneva che i tre poteri dello Stato, cioè il potere legislativo (di fare le leggi), esecutivo (di applicarle) e giudiziario (di giudicare chi non le rispetta) non devono essere concentrati nelle mani di una sola persona. Per garantire la libertà politica ed evitare che pochi pravalgano su molti, è necessario che i tre poteri restino divisi e indipendenti. Questo principio, detto della separazione dei poteri, è accolto oggi dalle costituzioni di quasi tutti i Paesi. In Italia, ad esempio, il potere legislativo spetta al parlamento, cioè a rappresentanti del popolo liberamente eletti; il potere esecutivo al governo; quello giudiziario alla magistratura, costituita dall'insieme dei giudici. Per Jean-Jacques Rousseau, un filosofo di Ginevra, il potere dello Stato, cioè la sovranità, il potere di comandare, appartiene interamente al popolo, che è l'unico sovrano. Il principio della sovranità popolare, sta alla base delle moderne democrazie. Nelle democrazie moderne, come l'Italia, la sovranità popolare viene esercitata indirettamente attraverso i rappresentanti (deputati e senatori che formano il parlamento) scelti dal popolo e prende il nome di democrazia rappresentativa. Voltaire, il più famoso dei filosofi illuministi, non riponeva nel popolo alcuna fiducia ed era disposto ad accettare il governo di un sovrano assoluto, a patto che questi si dimostrasse "illuminato" e si lasciasse guidare non dal capriccio, ma dalla ragione, preoccupandosi dell'efficienza dello stato e del benessere dei sudditi. Molti sovrani europei sembrarono sensibili alle idee illuministe e attuarono nei loro Stati importanti riforme. Il loro sistema di governo prende il nome di dispotismo illuminato.

Il dispotismo illuminato. Le idee degli illuministi furono accolte da molti sovrani europei, come Federico II di Prussia, Maria Teresa d'Austria, la zarina Caterina II di Russia e, in Italia, Leopoldo, granduca di Toscana e Carlo III di Borbone, re di Napoli. Nella seconda metà del Settecento questi "despoti" (sovrani) introdussero delle riforme, cioè dei cambiamenti che avevano lo scopo di migliorare il loro Stato, rendendolo più efficiente e moderno. In Toscana, ad esempio, il granduca Leopoldo abolì la tortura e la pena di morte. Alcuni sovrani si preoccuparono di modernizzare l'agricoltura e combatterono l'analfabetismo, favorendo l'istituzione di scuole pubbliche laiche (cioè non religiose), tanto che l'istruzione pubblica ebbe un grande sviluppo. Questi "despoti illuminati" non cessarono di essere sovrani assoluti e spesso si proposero, molto più che il benessere dei sudditi, l'aumento del proprio potere ai danni della nobiltà e del clero, ossia i ceti privilegiati. Le idee illuministe si diffondono anche in Italia In Italia i centri illuministi più attivi furono due: Napoli e Milano. A Milano fu pubblicato un giornale intitolato "Il caffè", perchè si voleva che avesse sulla società lo stesso effetto stimolante che ha la bevanda sull'organismo umano. Del gruppo milanese faceva parte il marchese Cesare Beccaria, che nel 1764 pubblicò il saggio Dei delitti e delle pene, l'opera più importante e più famosa dell'Illuminismo italiano, in cui l'autore dimostrava l'inutilità della tortura e della pena di morte. Presto tradotto in molte lingue, il saggio contribuì a far modificare le leggi e i procedimenti giudiziari in alcuni Stati, fra cui il granducato di Toscana e l'impero austriaco.

Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Appunto di Filosofia che spiega e mette a confronto le varie idee politiche e etiche di tre esponenti dell'illuminismo: Montesquieu, Rousseau e Voltaire in relazione al clima storico. Elisa P. su skuola.net.

Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Gli illuministi erano grandi ammiratori del sistema liberale inglese, proponendolo come modello nel loro programma di riforme politiche per la Francia:

- libertà religiosa;

- Libertà di stampa;

- Abolizione dei privilegi fiscali;

- Limitazione dell'assolutismo regio.

VOLTAIRE - "Lettere filosofiche" (1734). Egli aveva fatto conoscere in Francia il sistema parlamentare inglese, rendendosi conto che la società civile francese era più arretrata di quella inglese e che l'eccessivo indebolimento della monarchia potesse degenerare in anarchia; Voltaire inoltre riponeva scarsa fiducia nelle masse popolari, poichè riteneva fossero soggette al dominio dell'ignoranza e della superstizione; per questo motivo un monarca assoluto, ma illuminato, poteva essere il migliore garante del rinnovamento della società. Egli identificava come possibili monarchi illuminati Federico II e Caterina di Russia.

ROUSSEAU. Rousseau aveva fatto inizialmente parte del movimento degli illuministi, ma a partire dal "Discorso sulle scienze e sulle arti" (1750) se ne era progressivamente allontanato. Nella sua opera egli respingeva l'idea di progresso e incivilimento (progresso verso migliori condizioni materiali di vita e costumi più raffinati e umani) e la contrapponeva con la visione di un'austera comunità repubblicana, nella quale le virtù morali e politiche contavano di più delle scienze, della tecnica e degli artificiosi raffinamenti dei costumi. Nel 1762 il filosofo pubblicò la sua opera politica più celebre e discussa "Il contratto sociale"; in esso proponeva un modello di Stato in cui il sovrano fosse tutto il popolo e le leggi derivassero dalla volontà generale del popolo. Inoltre Rousseau elabora il concetto di sovranità popolare che si riferiva alla capacità degli individui di cogliere l'unico interesse generale, liberandosi quindi dei loro egoismi. In un simile Stato gli organi del Governo erano al servizio dell' intera comunità. Venne anche elaborata anche la definizione di Stato democratico, in cui la proprietà privata doveva essere subordinata all'interesse generale.

MONTESQUIEU - "Lo spirito delle leggi" (1748). Montesquieu compì un esame comparativo delle diverse forme di Governo (repubblica, monarchia, dispotismo). Secondo lui il sistema di leggi di ciascun Paese ha uno spirito (logica interna); le leggi non sono solo il prodotto del legislatore, ma sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose. Egli voleva appurare se in Francia erano in atto processi che stavano trasformando la monarchia in dispotismo, questi processi dovevano essere fermati finchè si era in tempo;

il dispotismo appariva a Montesquieu come una forma di Governo tipica dei Paesi asiatici, dove era agevolato da tre fattori:

- l'enorme estensione;

- La fitta popolazione;

- La relativa semplicità delle strutture sociali.

Quando tra l'autorità del sovrano e la massa dei sudditi non esistono corpi intermedi dotati di autonomia, il dispotismo è un' evoluzione inevitabile. Tra le forze sociali intermedie, Montesquieu dava importanza a quelle magistrature supreme che erano i parlamentari. Nel momento in cui queste forze prendessero ogni potere, la monarchia sarebbe degenerata nel dispotismo; Montesquieu giudicava poco adatta per la Francia la forma di governo repubblicana; lo spirito repubblicano poteva solo realizzarsi in comunità territorialmente e demograficamente limitate, come Sparta e Roma nell' antichità. Dell'Inghilterra bisognava imitare la divisione dei poteri (la potenza statale così distribuita non sarebbe stata esposta al rischio dell'assolutismo) in tre funzioni diverse:

- la legislazione (Parlamento, l'emanazione di leggi generali);

- Il Governno (re e Governo, eseguire le leggi e occuparsi dell'alta politica);

- L'amministrazione della Giustizia;

La magistratura sarà pienamente indipendente dal potere del Governo, senza che nessuno dei tre poteri cerchi di usurpare le funzioni altrui, auspicava quindi una monarchia costituzionale.

Illuministi a confronto: Rousseau e Montesquieu. Giada.cofano (Medie Superiori) scritto il 12.04.17 su scuola.repubblica.it. L'illuminismo è un movimento di pensiero nato in Francia nel '700, sviluppatosi poi nel corso del secolo nel resto dell'Europa. Gli illuministi, collaborano insieme nello sviluppo delle idee, ma ognuno di loro pone un accento o una particolare attenzione su un aspetto, che viene quindi sviluppato in modo differente. 

Rousseau, inizialmente faceva parte del movimento illuminista, poi con la pubblicazione di "Discorso sulle scienze e sulle arti" nel 1750, se ne allontana progressivamente. Sostiene che le arti e le scienze nascano da un progressivo snaturamento della sensibilità primitiva e originale dell'uomo, con conseguente negativo sugli esiti dell'evoluzione storica. Ogni passo verso la civiltà comporta, nell'uomo, il nascere di bisogni artificiosi, che lo distraggono dalle cose essenziali e autentiche. Rousseau, facendo emergere una critica radicale, respinge l'idea di progresso e incivilimento e lo contrappone con la visione di un'austera comunità repubblicana. Ne "Il contratto sociale", propone un modello di Stato in cui il popolo è sovrano, e le leggi derivano dalla volontà popolare. Gli individui così facendo si liberano dall'egoismo tipico del loro essere, sviluppando nuove capacità collaborative nell'interesse generale. La storia non era corruzione <>. Ma <>, fissando il vincolo della proprietà privata, del possedere la terra, che in realtà, originariamente, appartiene a tutti. La disuguaglianza tra gli individui deve essere risolta attraverso la ridistribuzione delle ricchezze, quindi con la definizione di leggi uguali per tutti ed uno Stato democratico. 

Differente è invece la visione politica di Montesquieu, che individua nella monarchia costituzionale, un governo in cui i poteri non si sovrappongono, né entrano in contrasto tra loro. Attraverso un esame che compie sulle diverse forme di governo, Montesquieu comprende come le leggi siano, il risultato di una varietà di condizioni fisiche,meteorologiche, sociali e storiche e non semplicemente il prodotto della ragione pura o dell'istituzione arbitraria dei legislatori. Quindi il dispotismo che stava emergendo e affermandosi in Francia, tipico dei Paesi orientali, andava fermato tempestivamente. Il modello inglese che suggeriva la divisione dei poteri diviene per l'illuminista la migliore soluzione governativa. In ogni Stato la divisione consiste in <>. Non vi è libertà se questi tre poteri sono nelle mani di uno solo, o dello stesso organismo. Seguirebbero mancanza di controllo e abusi d'ogni tipo. Se il potere giudiziario è quello legislativo fossero uniti <>. Il principio della conservazione dei poteri è ancora oggi valido, e per noi contemporanei è una cosa scontata e ovvia. Ma nel '700 una tale riforma costituiva una sorta di conquista del potere politico, economico ed ideologico, da parte di una borghesia in fermento, cosciente della propria funzione sociale propulsiva. 

Montesquieu e Rousseau sono solo due dei tanti filosofi che in questo periodo storico, hanno espresso le proprie tendenze e dottrine politiche: al primo, teorico del liberalismo moderato, si contrappone il secondo, che attraverso il suo "contratto sociale" ispirerà l'azione della borghesia democratica.

Montesquieu, la libertà risiede nella separazione dei poteri. Barbara Speca su rivoluzione-liberale.it il 17 Agosto 2011. Il viaggio alle radici del Pensiero Liberale continua con Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède et de Montesquieu (1689-1755), un protagonista dell’Illuminismo europeo nella prima metà del XVIII secolo che occupa, ancora oggi, una posizione di straordinario rilievo nella storia del liberalismo soprattutto grazie al suo capolavoro, lo Spirito delle Leggi, un’opera monumentale, frutto di quattordici anni di lavoro e pubblicata anonimamente nella Ginevra di Jean-Jacques Rousseau, nel 1748. Due volumi, trentadue libri, una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento, nonché un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico. Avversario di ogni forma di oppressione dell’uomo sull’uomo, Montesquieu è il filosofo della moderazione e dell’equilibrio. A lui viene attribuita la teoria della separazione dei poteri che rappresenta uno dei princìpi necessari dello Stato di diritto e una condizione oggettiva per l’esercizio della libertà che per Montesquieu è “Il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono”. Sulla base dell’esempio costituzionale inglese, lo scrittore politico francese sostiene che l’unica garanzia di fronte al dispotismo risiede nell’equilibrio costituzionale di cui godono i paesi in cui i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sono nettamente separati e distinti, capaci di controllarsi a vicenda. “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo o da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se un’unica persona o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati”. L’idea che la separazione del potere sovrano tra più soggetti sia una maniera efficace per impedire abusi affonda le sue radici nella tradizione filosofica della Grecia classica. Platone ne La Repubblica sostiene l’autonomia del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delinea una forma di governo misto denominata politìa, una condizione di equilibrio tra oligarchia e democrazia, o meglio, una democrazia temperata dalla oligarchia. Aristotele, per di più, distingue tre momenti nell’attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. In tempi più recenti, nella seconda metà del Seicento, John Locke sostiene la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Montesquieu apre però la strada alla politica moderna, perfezionando la teoria della separazione dei poteri già presente in Locke. Il giurista francese trasforma la sua ricerca scientifica e sociologica in un programma morale e politico: come strutturare un sistema di leggi che, nelle condizioni storiche date, produca il massimo di libertà.“La libertà politica è quella tranquillità di spirito che la coscienza della propria sicurezza dà a ciascun cittadino; e condizione di questa libertà è un governo organizzato in modo tale che nessun cittadino possa temere un altro”. Si può definire libera solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui affidato. Per contrastare tale abuso bisogna far sì che “il potere arresti il potere”, cioè che i tre poteri fondamentali siano affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all’altro di oltrepassare il proprio limite, degenerando in tirannìa. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché distruggerebbe la “bilancia dei poteri” che costituisce l’unica salvaguardia o “garanzia” costituzionale in cui risiede la libertà effettiva dei cittadini. Secondo Montesquieu“Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica” e il dispotismo, anche se rappresenta una forma “naturale” di governo, è il pericolo supremo da evitare, in quanto una sola persona “senza né leggi né impedimenti trascina tutto e tutti dietro la sua volontà e i suoi capricci”. Montesquieu struttura un metodo di interpretazione delle leggi in cui scompare l’alternativa tra legge naturale universale e immutabile, di cui avevano parlato i giusnaturalisti, e l’incertezza o l’arbitrarietà delle leggi positive su cui, dai sofisti greci fino a Montaigne e Pascal, si basava il dubbio scettico sulla stabilità della giustizia umana. Montesquieu cerca di dimostrare come, nonostante la diversità e la complessità degli eventi, la Storia abbia un ordine e manifesti l’azione di leggi costanti in grado di superare i contrasti. Ogni Stato, a sua volta, ha le proprie leggi che non sono mai casuali o arbitrarie, ma strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione, addirittura dal clima. Montesquieu sostiene però che sia possibile stabilire, metodologicamente, i princìpi che regolano le leggi e ne determinano il carattere e la natura: le leggi, cioè, non si formano a caso, o secondo il capriccio di qualche individuo, ma seguono la direzione loro imposta da tutto un insieme di condizioni che è compito dello studioso indagare. Lo “spirito” delle leggi corrisponde all’anima dell’insieme di norme che regolano le relazioni umane nelle diverse società. Poiché tali norme variano nei diversi popoli, non è possibile valutarle in relazione a uno schema di princìpi dotati di validità assoluta, ma ne va chiarita caso per caso la dinamica interna, facendo uso di criteri costanti riconducibili all’esprit général che rappresenta il collante, il tessuto connettivo di ogni sistema giuridico, un principio non naturale e statico ma storicamente dinamico, di cui ogni legislatore deve tener conto. Il metodo di Montesquieu presuppone che i fenomeni sociali possano essere spiegati con leggi scientificamente rilevanti come quelle delle scienze naturali: le società umane, al pari di ogni essere vivente, sono sottoposte all’azione che deriva dall’intreccio delle situazioni e delle proprie caratteristiche fisiche e spirituali. Montesquieu tenta di organizzare il Diritto in categorie semplici alle quali ricondurre la grande varietà della struttura giuridica e sociale; mette in luce il grande ruolo assunto dalla Storia ed infine, sul piano politico, tenta di strutturare un modello pratico di società per salvaguardarla dai regimi dispotici. Seguendo le orme del Saggio sul governo civile di Locke, Montesquieu definisce le leggi “rap­porti necessari che derivano dalla natura delle cose” nonché manifestazione della ragione umana. In una società civile le leggi fungono da elementi regolatori in grado di mediare le tendenze individuali, in vista del perseguimento di un obiettivo comune. Dimostrato che il mondo fisico come il mondo dell’intelligenza dipendono da rapporti intrinseci alla loro stessa esistenza, Montesquieu esamina l’intreccio delle forze che agiscono nelle varie società storiche per sco­prire coerenze e discordanze delle istituzioni e delle leggi rispetto alla loro essenziale necessità, al loro “esprit”. Le leggi fondamentali dello Stato prescindono dal principio e dalla natura del governo che per Montesquieu può essere repubblicano, monarchico o dispotico, a seconda che vi prevalga il principio della virtù, dell’onore o della paura. La stabilità dello Stato dipende dal principio del governo e si basa sulla coerenza delle sue leggi. Nella situazione storica in cui le leggi si dimostrino aber­ranti dall’esprit général che le ha determinate e le sorregge è necessario individuare la natura e la ragioni dell’errore. Quando il principio si corrompe, le migliori leggi diventano distruttive. Il principio della democrazia, ad esempio, si corrompe quando la nazione perde lo spirito d’uguaglianza o lo interpreta arbitrariamente. Nel suo capolavoro Montesquieu si propone di estendere allo studio della società umana il metodo sperimentale per fissare dei “princìpi” universali volti ad organizzare logicamente l’infinita molteplicità delle usanze, delle norme giuridiche, delle credenze religiose, delle forme politiche e per formulare, infine, leggi obiettive secondo le quali si articola costantemente, sotto l’apparenza del caso, l’incostante comportamento degli uomini. Non rifiuta la concezione machiavellica della politica come forza, ma la integra con un’accurata analisi delle molteplici “cause” – storiche, politiche, fisiche, geografiche e morali – che operano negli eventi umani. Le leggi positive formulate da Montesquieu riguardano principalmente: il diritto delle genti (leggi che regolano i rapporti esistenti tra i vari stati); il diritto politico (leggi che regolano i rapporti tra Stato e società civile); il diritto civile (leggi che regolano i rapporti tra i componenti della società civile). Rinuncia comunque alla ricerca della miglior forma di Stato, cara alla letteratura utopistica, e tenta di stabilire, concretamente, le condizioni che garantiscono, nelle diverse forme di governo, l’optimum della convivenza civile: la libertà. Il suo realismo e relativismo si salda con un alto intento normativo: un invito alla razionalizzazione delle leggi e delle istituzioni.

DA MARX ALLA RIFONDAZIONE. Giovanni De Sio Cesari.

PREMESSA. Nel secolo scorso due grandi movimenti mondiali si sono confrontati su tutti i piani possibili: il socialismo e il capitalismo. Il socialismo (e il comunismo) parlava di uguaglianza, di giustizia sociale, di solidarietà, era dalla parte dei poveri e degli oppressi; il capitalismo (liberismo) invece esaltava la competizione, puntava sull'egoismo, era dalla parte dei potenti. Per questo i giovani, i poeti, gli intellettuali, tutti quelli che avevano a cuore le sorti dell'umanità inclinavano sempre verso il socialismo. Tuttavia alla fine del secolo il capitalismo (liberismo) si è dimostrato, potremmo dire “purtroppo”, la forma più adatta alla civiltà industriale: il socialismo in parte è confluito nel capitalismo stesso e nella sua manifestazione più coerente e radicale, il comunismo, si è dissolto. In particolare il comunismo marxista è stato, in positivo o in negativo, il protagonista della storia del secolo scorso: nel nostro secolo invece è sparito come grande movimento storico anche nei paesi che si dicono ancora comunisti (Cina, Viet-nam tranne forse Cuba e Nord Corea) ed è rimasto una aspirazione di piccole minoranze politicamente ininfluenti. Almeno per le prossime generazioni il socialismo può rimanere una bella e nobile ideale ma non ha nessuna possibilità di realizzazione nella realtà nei fatti. Per un secolo quasi quindi Marx è stato il punto sul quale il mondo si divideva fra quelli che lo sostenevano e quelli che gli erano contrari: adesso il suo pensiero è fuori della realtà politica ma può dare suggerimenti, spunti, idee. Succede per Marx come per Mazzini o per Voltaire: ai loro tempi divisero il mondo ma ora sono un patrimonio comune: non siamo più contro o a favore di Mazzini, come i nostri antenati, ma giudichiamo storicamente Mazzini (e i liberali) insieme ai loro avversari reazionari, qualche volta anche riabilitandoli (come i Borboni di Napoli). Però Mazzini e gli illuministi furono dei vincitori nella storia nel senso che le generazioni che vennero dopo di loro li acclamarono come propri maestri: la storia invece ha dato torto a Marx: le statue di Mazzini sono ancora ovunque ma non se ne vedono di Marx. Ma questo nulla toglie al fatto che il pensiero di Marx rimane uno dei fondamenti della nostra cultura e della nostra civiltà. Il termine di marxismo e di comunismo viene usato in molti significati diversi e tutti validi e non ha senso parlare di "vero" comunismo contrapposto a un "falso" comunismo: le parole importanti hanno sempre tanti significati diversi e non vi è certo un copyright sul termine. Si definiscono comunisti e marxisti Stalin e Troztski, Togliatti e i sessantottini, Mao e Deng Xiaoping, (attuale dirigenza cinese ). Fondamentale è la distinzione poi fra pensiero marxiano (proprio di Marx, d'altra parte con tante interpretazioni ) e il marxismo (cioè il movimento che si fa ad esso, estremamente vario). In questa lavoro intendiamo mostrare brevemente l’evoluzione dal pensiero proprio di Marx fino a certe posizioni della cosi detta Sinistra Alternativa (S.A.) diffusa in tutto il mondo occidentale che, benchè tagliata ormai fuori dalla possibilità di governo, tuttavia mantiene un suo seguito vivace e attivo nella vita politica.

MARX : LA SCIENZA. La teoria di Marx non era un semplice pauperismo, incentrato sulle idee di giustizia e umanità (socialismo utopistico) ma voleva essere una disanima scientifica. La sua opera fondamentale venne intitolata, non a caso. “il capitale” (non “il comunismo”) perchè Marx intendeva mostrare, attraverso una analisi scientifica dell’economia capitalista che essa necessariamente doveva dissolversi per le proprie contraddizione interne e strutturali , non superabili. In sintesi, senza scendere nelle argomentazioni tecniche, Marx legò la sua dottrina alla previsione "scientifica" che i ricchi sarebbero stati sempre più pochi e sempre più ricchi (borghesi) e i poveri sarebbero stati sempre più numerosi e sempre più poveri (proletari) con la sparizione del ceto medio e dei lavoratori indipendenti. Ma questa previsione non si è affatto verificata: anzi è avvenuto il contrario di quanto previsto da Marx. In tutti i paesi capitalistici il ceto medio si è esteso fino a comprendere la grande maggioranza della popolazione e i lavoratori indipendenti sono sempre più numerosi di quelli dipendenti. Non esiste quindi una lotta del proletariato contro la borghesia perchè le due classi, nel senso marxiano, non esistono più. Le minoranze povere come gli emarginati, i giovani disoccupati, le famiglie monoredditi, gli emigrati, sono cosa diversa dal proletariato marxiano. I lavoratori non si identificano più con i salariati proletari di Marx: la classe dei lavoratori ha cambiato profondamente i suoi i caratteri. In essa confluiscono gli operai e gli impiegati, i dipendenti e gli autonomi, i professionisti e gli artigiani e i piccoli imprenditori e anche i pensionati e disoccupati: praticamente la classe lavoratrice si identifica con la nazione nel suo insieme. Resterebbero fuori solo i grandi industriali: la lotta di classe consisterebbe allora nella nazionalizzazioni delle grandi imprese: la cosa è stata fatta nel passato e ha dato risultati cosi negativi e catastrofici che tutti ora vogliono fare le privatizzazioni: non sarebbe certo nell'interesse generale cioè dei lavoratori. La lotta di classe attualmente è un concetto privo di significato. Il pensiero di Marx aveva una valore scientifico nel significato moderno del termine cioè non nel senso di verità assoluta (come fu inteso nei suoi tempi e dallo stesso Marx) ma di ipotesi che andava verificata nei fatti. Nella scienza moderna, infatti, si riconosce che non si può giungere alla verità ultima e definitiva dei fenomeni, alla essenza cioè come nella scienza antica ma che le leggi scientifiche sono ipotesi che spiegano i fatti FINO AD ORA osservati. Poichè nel caso di Marx la previsione si è dimostrata errata evidentemente anche la teoria era errata, come avviene nel campo delle scienze. Ma il fatto che le previsione non si siano verificate non toglie al fatto che la teoria fosse scientifica: bisogna solo prendere atto che si tratta di una teoria superata , “falsificata”, come si dice, dai fatti. Essa comunque conserva una grande importanza culturale e costituisce pur sempre una delle componenti fondamentali della cultura moderna.

SOCIALISMO REALE: LA RELIGIONE. E poi venne nel ‘17 la Rivoluzione Bolscevica in Russia. In realtà si trattava di qualcosa di profondamente diverso da quanto previsto “scientificamente” da Marx. Non si trattava della crisi finale del capitalismo, dell’esplodere delle sua contraddizioni perchè il capitalismo in Russia era appena appena ai primi passi e l’economia era ancora sostanzialmente a carattere feudale. Non esisteva quindi una proletariato nel senso marxiano del termine ma una sterminata moltitudine di contadini intrinsecamente tradizionalisti, come avrebbe detto Marx. Soprattutto non insorgeva, per il comunismo, il popolo nel suo complesso ma una minoranza esigua di rivoluzionari di professione che affermavano, e credevano effettivamente, di essere la autocoscienza del popolo. La caduta del capitalismo era intesa da Marx come un processo spontaneo, irreversibile, sostanzialmente pacifico che sarebbe avvenuto quando i tempi sarebbero stati maturi. Non a torto si era detto che il “Capitale ” era il libro dei capitalisti: si aspettava il crollo ma fino a che esso non sarebbe avvenuto il capitalista poteva tranquillamente godersi la propria ricchezza fino al grande giorno della Rivoluzione: i capitalisti potevano tranquillamente credere in Marx. Ma la Rivoluzione Russa era qualcosa di radicalmente diverso. Tuttavia si affermò che era una strada nuova, non prevista, si pensò anche che era un caso che la Rivoluzione fosse scoppiata in Russia e ci si aspettava che essa fosse dilagata rapidamente nel mondo capitalistico occidentale in America, in Inghilterra, soprattutto nelle Germania della crisi del dopoguerra. Ma questo non avvenne: alla fine degli anni 30 apparve chiaro ed evidente che la rivoluzione comunista non si sarebbe estesa in tempi brevi fuori dalla Russia: di fatto essa poi si estese a paesi poveri ed arretrati come la Cina. Invece in Russia si impiantò il regime staliniano: si sospettavano dappertutto complotti capitalistici, spie delle nemici, una città assediata che esigeva il massimo della disciplina, monastica più che militare. Ma se i fatti avevano smentito la teoria scientifica marxiana, Il marxismo allora divenne allora una religione, la più grande religione del ‘900. Allora tanta parte dell’umanità credette veramente che il regime sovietico avrebbe portato al mondo intero prosperità, giustizia pace. E ci voleva davvero una grande fede per credere che dagli orrori staliniani potesse nascere la società comunista prefigurata da Marx che è come dire che l’inferno in terra avrebbe prodotto il paradiso in terra. Come pensare che un regime che aveva provocato carestie spaventose, che aveva mandato a morte la grande maggioranza dei propri stessi dirigenti in spaventosi processi farsa, che dappertutto aveva sparso il terrore come nessun altro nella storia, era premessa della liberta, della prosperità, della umanizzazione. Ma in tanti ci credettero e i Don Peppone di tutto il mondo pensavano “ha da venì baffone” come di colui che avrebbe finalmente estirpato dal mondo una volta per sempre la ingiustizia e la povertà. E in tanti, in milioni, sacrificarono a questa fede terrena la loro vita e anche la verità e l’evidenza. A un certo punto gli stessi regimi comunisti si resero conto della impossibilita di raggiungere la società preconizzata da Marx. Allora la prospettiva del comunismo marxiano viene allontanato indefinitivamente nel tempo, diviene in pratica una richiamo teorico ufficiale ma in realtà si abbandonò il progetto concreto di instaurarlo, almeno in un futuro prevedibile. Si passa allora a quello che viene definito “capitalismo di stato” e i paesi comunisti in qualche modo si omologano al resto del mondo. L’evidenza e la verità erano divenute troppo forti perchè potessero ancora essere ignorate. Crollò allora la fede nel socialismo reale degradato a capitalismo di stato e il grande sogno del comunismo si spense lentamente nelle masse di tutto il mondo, lasciando un grande vuoto. Il comunismo era rappresentato da Stalin e Togliatti, Mao o i Kmer rossi, da quel terzo dell’umanità che aveva abbracciato quel sistema che sembrava allargarsi all'Asia tutta, all'Africa, all'America Latina: "le campagne che assediavano le citta," si disse. Poi a un certo punto è stato detto che quello non era il "vero" comunismo marxista, si e' parlato di "strappo" (nel 68), di "esaurimento della spinta propulsiva". Poi quel sistema è imploso improvvisamente dappertutto per decisone unanime degli stessi dirigenti (fatto forse unico nella storia) fra la soddisfazione dei popoli. Nessuno si richiama ad esso ma si parla al più di una rifondazione mentre invece il modello liberistico non solo ha vinto la sfida ma ha preso dovunque il posto del comunismo (Cina, Russia, paesi dell'est).

LA RIFONDAZIONE : LA SETTA. Ma se i regimi comunisti ormai sono spariti o quasi dalla storia quella antica religione del comunismo non è affatto spenta: continua nei gruppi della Sinistra Alternativa, piccoli di numero ma estremamente attivi sul piano ideologico e delle manifestazioni politiche. Già negli anni 60, e poi soprattutto con la contestazione del 68, quaranta anni fa ormai, si disse che non era finito il comunismo marxista ma solo una sua deviazione che non aveva niente a che fare con il vero pensiero marxiano. Infatti quando si dissolsero i miti comunisti, la maggioranza dei comunisti con Berlinguer si posero come i “veri” democristiani (la definizione e’ di Pasolini) cioè quelli che volevano realizzare quello che i democristiani avevano promesso ma non realizzato e massima aspirazione il compromesso con DC stessa: la democrazia borghese divenne allora la democrazia e basta, il capitalismo divenne l’economia di mercato, e si fece lo strappo da "Mosca". Ma la minoranza combattiva e motivata invece voleva rifondare il comunismo su nuove basi che non fossero quelle del socialismo reale: continuò sempre a vagheggiare una società alternativa ma in modo sempre più confuso e vago. L'esigenza della rifondazione nasce dall'idea che il comunismo realizzato sia una cosa sostanzialmente diversa da quello che Marx intendeva: si dice qualcosa di vero ma si pone anche una grande questione che non può essere ignorata: perche mai tutti quelli che per due generazioni hanno detto, e sono stati universalmente creduti, di seguire Marx, perche mai tutti poi hanno costruito sistemi tanto diversi da quello marxista? Perche erano tutti dei malvagi, dei traditori opportunisti, spie della CIA? Chi mai ci crederebbero e comunque nello spirito di Marx sono le condizioni materiali e non la moralità degli uomini a fare la storia. Non si accetta la spiegazione più elementare: il pensiero di Marx era inattuabile e per questo chi ha cercato ostinatamente di attuarlo ha costruito qualcosa di diverso, ha creduto di portare il paradiso in terra ma ha invece costruito solo l'inferno in terra. Quando vi era il grande partito comunista guidato da Togliatti, il migliore, il discorso era chiaro: si contrapponeva alla democrazia borghese la dittatura del proletariato, al capitalismo la economia pianificata, all’America l’Unione Sovietica. L’alternativa attualmente proposta invece non si capisce bene “cosa” sia, con quali “mezzi” attuarla (la rivoluzione e la via elettorale sembrano ambedue escluse), soprattutto “quando” (non pare in questa generazione). Alla fine raccoglie consensi da un piccolissimo gruppo di appassionati e dai molti scontenti (voto di protesta). L’inquadramento della realtà non corrispondono a quello della gente (cioè di quelli (nella stragrande maggioranza) non particolarmente politicizzati): la gente ha il problema del mutuo, della precarietà, dell’aumento degli alimentari e la S.A. parla di Multinazionali, di Afganistan, della base di Vicenza, di fascismo. I modelli cioè sono quelli di un altra società ALTERNATIVA e non corrispondono a quelli della società attuale: in altre parole si tratta di una filosofia che vagheggia una società che non esiste e non di un discorso politico che indica i mezzi per operare in quella che c'è. I gruppi marxisti hanno quindi assunto l'aspetto di una setta che va sempre più rimpicciolendosi ma che resiste, coraggiosa e indomita. Come tutte le sette è chiusa in se, impermeabile al mondo esterno: ritiene che tutti gli altri, il 98% delle persone non ha capito nulla o che è corrotta, o che è succube di un inganno globale o della TV, che ogni avvenimento si spiega con il complotto dei capitalisti e della Cia. Afferma che la fine del mondo capitalistico è dietro l’angolo anche se poi se ne sposta continuamente la data come fanno i testimoni di Geova, sulla fine del mondo. Anche le parole assumono significati diversi da quelli comuni e compare un frasario oscuro, incomprensibili ai non adepti. Non avendo quindi proposte proprie, concrete ed effettive, ha sostenute le “buone” cause che però non c’entravano niente con il comunismo: il pacifismo il divorzio, i gay, l’anti consumismo. Per colmo di assurdo sostengono pure HAMAS che è quanto di più lontano si possa immaginare dal comunismo e dalla sinistra in generale. Tuttavia i gruppi marxisti della Sinistra Alternativa assolvono a una importante funzione nelle democrazie occidentali in cui sono comunque inseriti e partecipi: rappresentano infatti la voce dissenziente che mette in discussione i concetti dominanti, le prospettive condivise, la direzione stessa verso cui corre la società. Costituiscono quindi una riserva essenziale di pensiero critico che va oltre le prospettive immediate e realizzabili, di tenere aperta cioè una alternativa logica alla necessita del momento. Riveste cioè quelle caratteristiche che furono anche nella storia del passato proprie delle sette alle quali si devono anche molti sviluppi della civiltà e della cultura. Giovanni De Sio Cesari

Il nuovo fascismo: Liberale, Antifascista ed Europeista. Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019 su Nicolaporro.it.  Caro Nicola, oggi il mio pezzo comincia a mo’ di lettera perché dobbiamo riconoscerci sconfitti. La nostra battaglia per la libertà, di parola prima di tutto, condotta fin dall’inizio da te, e da noi tutti, è persa. Me lo confermano due recenti fatti. Uno, di cui scrive Azzurra Barbuto su Libero del’8 ottobre: un insegnante livornese accusata di razzismo, e richiamata dai superiori, per aver proposto in classe un’esercitazione in cui si contrapponevano le ragioni dei favorevoli a quelle dei contrari all’immigrazione, senza prendere posizione. Come ha osato? Sarebbe come se nella Germania nazista si fronteggiassero le ragioni dei nazisti a quelle degli altri: l’accusa di essere ostile al Fuhrer sarebbe scattata subito. O come se in uno qualsiasi dei regimi comunisti si opponessero le ragioni del marxismo-leninismo a quelle degli altri: insegnante buttata fuori subito in quanto “traditrice del popolo”. Secondo fatto, da La Verità del 9 ottobre: i verdi italiani, riunitisi in una cabina telefonica, chiedono formalmente ai giornali e alle Tv di non ospitare le ragioni degli scienziati negazionisti: quelli che non credono alla (balla) della emergenza climatica. Non si capisce quale ritorsione i gretini nostrani minaccino, per i reprobi che continuino a pubblicare, ad esempio, Franco Battaglia. Ma l’avvertimento è lanciato. Di fronte a tutto ciò dobbiamo dichiararci sconfitti. E in nome del “nuovo umanesimo” professato da Giuseppi e i suoi fratelli (nel doppio senso) dobbiamo essere costruttivi. Ecco alcune proposte. Gli insegnanti di ogni grado, dai nidi all’università, dovranno rispettare i valori del SELA (Stato Etico Liberale Antifascista) che sono: 1) l’Antifascismo (che non abbisogna di spiegazioni, esso è, come l’Essere parmenideo); 2) l’immigrazione è positiva e gli immigrati (tutti profughi) sono intrinsecamente buoni, ci arricchiscono sia materialmente che spiritualmente; 3) l’emergenza climatica è un dogma inoppugnabile; 4) l’Europa è la nostra patria, le nazioni e i confini non esistono, l’Euro ci ha reso tutti più ricchi e felici. Gli insegnanti sono obbligati, al di là delle loro materie, a insistere sempre su questi valori e a ribadirli durante le ore di lezione: quindi avremo la Letteratura Liberale, la Matematica Liberale, il Disegno tecnico Liberale, la Musica liberale, e via dicendo. Apposite ore saranno tuttavia riservate per l’insegnamento della MLAE (Mistica Liberale Antifascista Europeista). Qualsiasi insegnante sia colto a mettere in dubbio questi valori sarà immediatamente licenziato ed eventualmente deferito al TDRLA (Tribunale per la Difesa della Razza Liberale Antifascista). Sarà fatto divieto agli insegnanti di mettere in dubbio i valori del SELA anche sui social, che saranno controllati da un‘apposita commissione del Ministero della Educazione Liberale Europeista. Chiunque anche solo ponga un like su post contrari ai valori del SELA sarà licenziato. Ma poiché il privato è pubblico e il pubblico è privato, grazie ai sistemi di ricognizione facciale e alle tecnologie introdotte dalla Cina comunista (un modello per il SELA), l’insegnante sarà licenziato anche se dovesse dubitare dei valori Liberali Antifascisti Europeisti in piscina o al bar. Sui pensieri, si sta lavorando, ma anche qui con l’apporto di Pechino si stanno facendo passi avanti. Per quanto riguarda invece i giornalisti, chiunque voglia scrivere su testate cartacee, on line o in tv o in radio dovrà possedere la tessera dell’OGLE (Ordine dei Giornalisti Liberali Europeisti). Qualsiasi giornale ospitasse pezzi scritti da estranei all’Ordine sarà chiuso. Ogni pezzo sarà comunque preventivamente controllato dal Ministero della Cultura Liberale Antifascista, ricordato più speditamente come MINCULA (senza apostrofo). Il MINCULA provvederà, attraverso appositi algoritmi, a modificare e a riscrivere pezzi che mettano in dubbio i valori del SELA. E’ chiaro che alla quinta modifica di pezzo nel corso di un mese, il MINCULA farà chiudere il giornale. Tutto questo, oltre che estremamente Liberale Antifascista ed Europeista, mi sembra anche nuovo per il nostro paese. O no? Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019

GENERAZIONE Z 2. Carole Hallac per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. Addio Millennials. All' Advertising Week di New York i riflettori sono puntati sui Gen Z, il gruppo demografico più influente del pianeta, e che entro il 2020, rappresenterà 2.56 miliardi di individui e conterà il 40% dei consumatori. Chi sono i Gen Z? Nati dopo il 1996, sono la prima generazione di «social natives», e usano in maniera istintiva e naturale i social media. Bombardati da continue informazioni, la curva per attirare la loro attenzione è di soli otto secondi, ma possono guardare Netflix per ore. Passano di media nove ore al giorno davanti allo schermo, quattro di queste facendo diverse cose allo stesso tempo in quanto abilissimi al multitasking. Per loro, mondo virtuale e quello reale sono realtà complementari, e alcuni considerano Alexa parte della famiglia. Sono diffidenti verso la classe dirigente, e più sovversivi dalle generazioni precedenti, capaci con un tweet di mobilitare un boicottaggio o creare un movimento per una causa a cui credono. La «we generation» I Gen Z si distinguono dai Millenials, considerati la generazione dell'«io», per essere quella del «noi» e usano i social media per creare comunità e non solo connessioni individuali. Pensano al noi in senso globale, non solo al proprio cerchio di amicizie, e sono sensibili al benessere collettivo. Negli Stati Uniti, il 51% appartiene a gruppi di minoranze, una diversità che vogliono celebrare. Questo vale anche per l' orientamento sessuale: solo due terzi si considera eterosessuale, e sin da piccoli, rigettano la divisione binaria spronando Mattel a introdurre una bambola no gender. Hanno a cuore l' eco sostenibilità, scegliendo brand e aziende che considerano etici (70%), sia per gli acquisti che quando entrano nella forza lavoro. Desiderio di autonomia Grazie all' uso delle risorse online, in particolare YouTube, i Gen Z hanno l' abilità di auto educarsi e ritenere un grande numero di informazioni. «Maturano sia fisicamente che mentalmente prima delle altre generazioni - spiega Monica Dreger, VP di Mattel - e ora sono parte delle decisioni importanti in famiglia, come l' acquisto di una casa o di una macchina». Il desiderio di autonomia spinge molti a lasciare gli studi dopo il liceo o lanciare il proprio business, e, sul lavoro, prediligono l' indipendenza mentre i Millennials cercano la collaborazione.

Il rapporto con i social. Il 94% dei Gen Z usa almeno un canale social, a cui quasi la metà ammette di essere costantemente connessa. In una ricerca dell' agenzia Hill Holiday, è pero emerso che il numero di Gen Z cui i social fanno sentire ansiosi, tristi o depressi, è in aumento (48% contro 41% nel 2017). Molto più giovani stanno cercando di staccarsene temporaneamente (il 58% contro il 50% del 2017), e di questi, un terzo si è completamente disconnesso. Tra le cause, la perdita di tempo, la negatività online, problemi di stima e preoccupazioni sulla privacy. Si rileva un aumento di "Finsta", finti profili Instagram in cui danno accesso a un numero ristretto di amici e sentono meno pressioni di pubblicare immagini di una vita perfetta. Ciò nonostante, il 74% ritiene che i social abbiano più benefici che svantaggi, come l' abilità di connettere con altri. Tra i canali in crescita, Tik Tok (40 milioni di utenti), e la piattaforma di gaming Discord (250 millioni). Come conquistarli La parola chiave per la Gen Z è l' autenticità. «I brand devono prendere sul serio il messaggio che vogliono comunicare, non può essere solo di apparenza - spiega Ziad Ahmed, fondatore ventenne di JUV Consulting, società di consulenza focalizzata sulla Gen Z - Abbiamo un filtro naturale per l' inautenticità». Vogliono sentirsi unici, scegliendo prodotti esclusivi, ad edizione limitata e personalizzati, e amano lo shopping esperenziale, spingendo molti brand digitali a creare negozi e pop up shop.

Greta Thunberg e Carola Rackete, ambientalisti e Ong fanno un partito insieme. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 6 Ottobre 2019. Tira una brutta aria in politica. Eravamo convinti di aver visto il peggio con la nascita del governo giallorosso, i grillo-comunisti al potere e la loro ideologia a metà tra Utopia e Incompetenza. E invece, tenetevi forte, al peggio non c' è mai fine perché stanno arrivando i gretini al seguito della Thunberg, il movimento dei Fridays For Future, ossia del cazzeggio del venerdì per bigiare la scuola, che ora ha intenzione di trasformarsi in un partito. Sì, ma mica un partito di periferia, buono a candidarsi per le elezioni locali. No, un partito globale. Dopo il successo avuto dalle piazzate dei ragazzini ecologisti in mezzo mondo, Greta & Co. sono pronti a fare il grande passo, a scendere in politica, sfidando dall' interno quel Palazzo che contestano, anzi aprendolo come una scatoletta di tonno, se non fosse che questa espressione è già stata usata ed è un po' troppo poco ecologista. Il Climate Party, il partito del Clima, cui darebbe vita la Thunberg, intende superare i «partiti verdi e ambientalisti che si sono impantanati nei giochi di potere dei parlamenti nazionali e regionali», si legge su Italpress, e proporre «una piattaforma programmatica alle elezioni, comune in tutti i Paesi occidentali», per dare vita - udite udite - a una «leadership governativa internazionale».

CORSI E RICORSI. L' ultima volta che un partito ha avuto una vocazione Internazionale è stata ai tempi del Partito comunista, e sappiamo come è finita. I proletari di tutto il mondo non si sono uniti spontaneamente; viceversa l' idea è stata imposta negli altri Paesi con esiti sanguinari. A questo retaggio globalista i gretini associano il mito della democrazia diretta e digitale, della E-democracy come a loro piace chiamarla. L' obiettivo è portare in politica i cittadini comuni, gli adolescenti dell' antipolitica, volti nuovi, candidi e quindi candidabili, facce pulite anche perché odiano tanto lo smog e l' anidride carbonica. Ma il problema, oltre che anagrafico, è di competenza: con quale esperienza, con quali conoscenze, con quali capacità di leadership questi sbarbatelli andranno a comandare, per dirla con Rovazzi? Non rischiamo una nuova accozzaglia di incapaci buttati lì nei Palazzi, mandati al macello, e allo stesso tempo in grado di mandare in malora tutto l' Occidente? Non bastavano i grillini, ora ci toccano pure i gretini. Il dramma è che alla loro ingenuità sommano pretese smodate come quella di salvare il pianeta, con un cocktail letale tra inettitudine e scarso senso della realtà. Questo Partito del Clima intende addirittura sfidare le superpotenze del Male come Cina, Russia, India, Pakistan, Iran, che «hanno anteposto gli interessi militari e nazionali al rispetto dell' ambiente». Ma ve li vedete quattro adolescenti imberbi e una paladina delle emissioni zero con le treccine far cambiare rotta a Putin, a Xi Jinping, a Modi? Ah be', c'è Greta Thunberg, c'è il partito del Clima, deindustrializziamo subito, torniamo a un' economia rurale Orsù, non fateci ridere. Aggiungici poi l' ideologia dello sconfinamento. Perché tutto, secondo i gretini, deve stare entro i parametri, i limiti (le emissioni, i consumi, lo sfruttamento delle terre coltivate), tranne le nazioni che devono perdere i loro confini e diventare globali. E qua l' ideologia di Greta si salda con quella di Carola, con lo slogan No Borders, con l' essere cittadini del mondo, e non figli di un luogo e di una storia. Soprattutto, però, quello che nausea è scoprire che la partecipazione genuina, l' ambizione nobile a cambiare le coscienze dei grandi del mondo, la battaglia senza doppi fini dei ragazzini si risolve, come sempre, in scopi molto più meschini: l' obiettivo di far carriera, di essere eletti e magari riuscire a occupare un giorno le stanze dei potenti.

COME FINIRÀ. Resta solo da capire chi guiderà, quali saranno i colori e come si chiamerà ufficialmente questo partito del Clima. Per la leadership Greta pare avvantaggiata, anche se al momento non può ancora eleggere né essere eletta e quindi per un paio d' anni dovrà farsi aiutare da qualche vicario. Per il colore, il verde sarebbe troppo sputtanato perché già utilizzato dai Verdi e dalla Lega: i gretini farebbero meglio a utilizzare un colore trasparente, come l' aria che vogliono respirare e come le loro idee, così trasparenti da essere invisibili. Per il nome, si potranno sbizzarrire con le sigle: Il Partito della Tripla Fi come Fridays For Future oppure C & G che non è la versione tarocca di Dolce e Gabbana ma sono le iniziali di Carola e Greta. Oh, però sti ragazzini devono fare in fretta. Nel 2030 il pianeta si estingue e, se non scendono in campo ora, rischiano di essere morti prima ancora di essere eletti. Gianluca Veneziani  

Giuliano Cazzola per Startmag il 6 ottobre 2019. L’8 ottobre la Camera compirà il misfatto di introdurre nella Costituzione il cosiddetto taglio dei parlamentari il cui numero sarà ridotto a 400 a Montecitorio e a 200 a Palazzo Madama (non hanno neppure avuto l’accortezza di adottare dei numeri dispari). Visto che sono contrario a questa norma – ne spiegherò i motivi – ho sottoscritto un appello promosso da ‘’+Europa’’ dal titolo ‘’Non mutilate la Costituzione’’. So che il mio, come quello di altri, è solo un atto di testimonianza, perché l’approvazione della norma di rango costituzionale potrà contare non solo sulla maggioranza giallo-rossa, ma anche sul voto di altri gruppi che non vorranno tirarsi indietro quando si è chiamati a "tagliare delle poltrone e dei privilegi" e a ridurre "i costi della politica", per compiacere a un’opinione pubblica forcaiola. Ed è anche un atto tardivo perché la norma ha subito ben due letture con un intervallo di sei mesi tra la prima e la seconda, come stabiliscono le procedure di modifica della Carta costituzionale (rigida). A dire la verità mi sentirei di giudicare il ‘’taglio’’ con maggiore benevolenza del riordino istituzionale di cui alla legge Boschi. Meglio un Senato di 200 componenti, ma con poteri pieni ed eletto, di quell’organo ridicolo, inutile e depotenziato che era previsto nella legge citata, fortunatamente bocciata nel referendum popolare. Va, tuttavia, riconosciuto che la riforma del governo Renzi rispondeva ad un disegno organico che – piacesse o meno – trovava corrispondenza anche nella legge elettorale. Non dimentichiamo, infatti, che è stata l’impostazione delle leggi elettorali a cambiare più volte il sistema politico, fino a contrassegnare, nei fatti, il numero delle Repubbliche, pur nella sostanziale continuità dell’ordinamento costituzionale. La nuova norma che la nuova maggioranza ha ereditato da quella precedente, imposta ad ambedue gli alleati succedutisi nel (breve) tempo, dal M5S, è una specie di salto nel buio, perché, il profilo istituzionale che ne scaturirà dipenderà molto da come sarà cambiata la legge elettorale, in senso maggioritario oppure proporzionale. Soprattutto al Senato – sottolinea +Europa – avrebbe accesso un numero minimo di forze politiche, sacrificando, così, la rappresentanza di ampie porzioni del corpo elettorale. Il che, aggiungiamo noi, potrebbe pure produrre una maggioranza diversa nelle due Camere. Sempre sul piano tecnico-giuridico vi sarebbero altre critiche da fare, come, ad esempio, la mancata riduzione del numero dei rappresentanti dei Consigli regionali chiamati a partecipare all’elezione del Capo dello Stato. Si tratta di aspetti che vanno colmati rapidamente, attraverso misure adeguate, a partire da una nuova legge elettorale. Ma proprio qui casca l’asino, perché è dubbio che si possano raggiungere le convergenze necessarie; poi c’è di mezzo – se sarà ammesso dalla Consulta – il requisito referendario promosso dai Consigli regionali dominati dalla Lega. Sarà in grado la maggioranza di tappare questi buchi nell’ordinamento e soprattutto ne avrà il tempo? Ma – per quanto gravi – non sono quelli tecnici gli aspetti di cui il Paese dovrebbe vergognarsi. E’ la logica che ispira siffatto provvedimento (come del resto anche la riforma Renzi-Boschi) a destare preoccupazioni, tanto più serie nella misura in cui esse non sono avvertite, come meriterebbero, dall’opinione pubblica. Le istituzioni della democrazia vengono considerate un “costo’’, un “privilegio”, un fenomeno da limitare e circoscrivere, nella sua potenzialità di fare danni ai cittadini. Se è vero – come scrisse Piero Calamandrei – che una Costituzione nasce sempre da un atto di rottura polemica con il regime precedente, quella del 1948 era figlia dell’antifascismo e della lotta per la democrazia. Da dove provengono invece le modifiche (al pari di quelle bocciate dagli italiani nel 2016) che i pentastellati riusciranno a realizzare nelle prossime ore? Le loro radici sono nell’antipolitica, si alimentano con la subcultura della denuncia della ‘’casta’’, che ha fatto la fortuna di tanti libri e di un numero ancora maggiore di talk show, da cui si è alimentato un clima mediatico-giudiziario che ha indotto la classe politica stessa a suicidarsi, a sottoporsi inerme e indifesa alla gogna, a rinunciare spontaneamente alle risorse pubbliche che erano previste per assicurare l’esercizio libero dell’agire politico e a mollare, nel deserto, chi di loro veniva ghermito dai meccanismi di una giustizia persecutoria. Proprio nei giorni scorsi la Corte di Appello di Napoli ha assolto da tutte le imputazioni Alfonso Papa, ex magistrato ed ex deputato del PdL, che dieci anni or sono fu inquisito ed incarcerato come componente di una inesistente P4. Ma è solo l’ultimo di questi casi, vittime di un ‘’credo’’ giustizialista di parte della magistratura inquirente (‘’un imputato assolto è solo un colpevole che l’ha fatta franca’’) che ha inquinato l’opinione pubblica. Infatti, il taglio dei parlamentari sarà salutato come una vittoria (di chi?), anche se sarà invece una clamorosa sconfitta della democrazia. Colpiscono il silenzio e la condiscendenza di tanti che avrebbero l’autorevolezza e l’autorità di parlare. Purtroppo – come affermava Winston Churchill – chi nutre il coccodrillo lo fa nella speranza di essere divorato per ultimo.

Perché il taglio dei parlamentari non è affatto una buona idea. Il Parlamento costa troppo, i parlamentari sono troppi, la macchina legislativa è lenta e inefficiente: sono queste le motivazioni alla base della riforma costituzionale che prevede il taglio del numero dei parlamentari. Ma siamo sicuri che siano motivazioni corrette e condivisibili? Proviamo a capirci qualcosa in più. Adriano Biondi il 12 luglio 2019 su Fanpage. Nell’epoca del post ideologismo, dell’assenza dell’Idea e del trionfo del senso pratico, a uscire decisamente indebolita è la concezione della politica che può fare a meno dei grandi riferimenti ideologici e delle visioni di insieme. È il trionfo della ricerca del consenso, della propaganda come fine e della deresponsabilizzazione come bussola dell’azione politica, ora ridotta a semplice amministrazione. L’annunciato taglio dei parlamentari, raccontato all’opinione pubblica come un “taglio delle poltrone”, si inserisce perfettamente in tale contesto. Stiamo parlando, infatti, di un provvedimento probabilmente non necessario, di sicuro non urgente, e su cui permangono molti dubbi di natura giuridica e politica, che meriterebbero maggiore considerazione e non una riduzione in slogan semplicistici. Come vi stiamo raccontando, il Senato ha dato il via libera in seconda lettura al disegno di legge costituzionale in materia di riduzione del numero dei parlamentari, che modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione. Ove la Camera desse il via libera in seconda lettura, sempre a maggioranza assoluta, la legge si intenderebbe approvata, salvo indizione di un referendum (che potrà essere chiesto entro tre mesi dalla pubblicazione da un quinto dei membri di Camera o Senato, da cinque Consigli regionali o da cinquecentomila elettori). La proposta prevede essenzialmente una riduzione di 365 parlamentari: per quanto riguarda la Camera si passerebbe dai 630 attuali a 400, di cui 8 eletti nelle circoscrizioni estero, invece di 12; al Senato, invece, dai 315 attuali si passerebbe a 200, di cui 4, e non più 6, eletti nella circoscrizione estero; il taglio per ogni camera è dunque del 36,5%. Le ragioni alla base di una simile modifica sono essenzialmente tre: il Parlamento costa troppo, i parlamentari sono troppi, la macchina legislativa è lenta e inefficiente. E meritano qualche considerazione ulteriore, perché se può avere senso una revisione complessiva di meccanismi, funzioni e anche numero degli eletti, è lecito farsi qualche domanda su una riforma che cambia "solo" i numeri della rappresentanza.

I parlamentari sono davvero troppi?

Il primo argomento a sostegno della proposta di riforma verte su un assunto: 945 parlamentari (più i senatori a vita) sono “troppi”. I numeri però sembrano indicare una cosa diversa, dal momento che, in rapporto alla popolazione, abbiamo un deputato ogni 96mila abitanti e un senatore ogni 192mila. Come spiega un report del Centro Studi del Senato, si tratta di un tentativo portato avanti con alterne fortune da anni, e anche nella diciassettesima legislatura la questione era stata affrontata più o meno allo stesso modo. Nella relazione che accompagnava la proposta di modifica, "si proponeva di passare dall’attuale criterio di un deputato ogni 95.000 abitanti ad un parametro più in linea con gli standard europei: un deputato ogni 125.000 abitanti. Ne sarebbe derivato un numero complessivo di 480 deputati. Per i senatori, si proponeva un numero complessivo di 120, ripartiti in proporzione al numero di abitanti in ciascuna Regione". Successivamente, la Commissione per le riforme costituzionali, istituita dall’allora Presidente del Consiglio l’11 giugno 2013, invece, nel corso di un articolato lavoro che comprendeva anche la forma di governo, gli istituti di partecipazione popolare e il superamento del bicameralismo paritario, propose una Camera di 450 deputati e un Senato tra i 150 e i 200 membri. Il Parlamento, nei mesi successivi, discusse e approvò la riforma Boschi – Renzi, che prevedeva 630 deputati e 100 senatori, nell'ambito della revisione dell'assetto istituzionale e del bipolarismo perfetto: progetto bocciato poi a larga maggioranza dal voto dei cittadini il 4 dicembre del 2016. Ora Lega e Movimento 5 Stelle, con il supporto di Fratelli d'Italia, ci riprovano, insistendo sempre sul fatto che i parlamentari italiani siano "troppi". Per capire se questa polemica ha senso, proviamo a fare un confronto con gli altri paesi della Unione Europea. Ecco, sostanzialmente al momento il dato italiano è comunque tra i più bassi in Europa ed è molto simile a quello di paesi come la Germania e la Francia.

Il risparmio dei costi per lo Stato. Uno dei cavalli di battaglia dei proponenti è il risparmio dei costi per le casse dello Stato che sarebbe determinato dall'approvazione della riforma. Anche qui però le cifre sparate un po' ovunque (Di Maio parla di 500 milioni a legislatura) non sembrano molto precise. Il senatore di Forza Italia Malan ha calcolato che il risparmio complessivo determinato dal taglio dei parlamentari sarebbe di 61 milioni l’anno, cifra simile a quella calcolata per la riforma Renzi – Boschi, stimata in 50 milioni l’anno. In effetti, la riforma non incide né sul personale, né sulle spese correnti di funzionamento delle Camere, né sui trattamenti previdenziali (almeno non nel breve termine), dunque il semplice taglio dei parlamentari determinerebbe risparmi sulla quota per indennità, spese per l’esercizio del mandato e rimborsi spese di senatori e deputati. Una cifra minima rispetto ai circa 975 milioni di costo della Camera dei deputati e ai 550 circa di costo del Senato. Questo perché la mera riduzione del numero di parlamentari non è affiancata dalla revisione dei processi e delle strutture che determinano la spesa maggiore per le casse dello Stato e non è da escludere che, per gestire una mole di lavoro maggiore e spostamenti più ampi, il costo per singolo parlamentare post riforma possa aumentare. I costi, infatti, sono strettamente legati all'attività politica e a quella istituzionale e su questo aspetto, come si legge nella relazione finale della Commissione del 2013, l'errore di percezione fondamentale nasce dal fatto che "nel dibattito pubblico il tema della riduzione del numero dei parlamentari è stato connesso a quello del costo delle attività politiche, confondendo così questo piano con quello dei costi della democrazia". Un terreno scivoloso, sul quale bisogna agire con molta cautela. Volendo ragionare allo stesso modo dei proponenti, ad esempio, si potrebbe dire che solo il referendum per confermare o meno il taglio dei parlamentari costerà circa 300 milioni di euro, bruciando dunque i risparmi dei primi sei anni. Ha senso ragionare in questo modo quando in gioco vi è la rappresentanza dei cittadini?

Rappresentanza e potere legislativo. "Ridurre, in questo modo, il numero dei parlamentari distrugge la rappresentanza democratica. Siamo alla follia. Il combinato disposto del taglio del numero dei parlamentari e del Rosatellum produrrà un effetto distorsivo nella rappresentanza, con soglie di sbarramento che passeranno, dal formale 3%, anche al 10%-20% e oltre a causa dei collegi elettorali che, soprattutto al Senato, diventano enormi e ingestibili tanto da svilire la rappresentanza”. Sono queste le parole con cui Federico Fornaro, deputato di Liberi e Uguali, ha sintetizzato uno dei principali problemi di una riforma fatta i questo modo. Ettore Maria Colombo su Tiscali ha analizzato come cambierebbe poi lo scenario dopo il taglio secco dei parlamentari, sottolineando come a “meno poltrone” corrisponda nei fatti “meno democrazia”: Oltre alla soglia ‘esplicita’ di sbarramento (il 3% nel Rosatellum), scatta una soglia ‘implicita’ legata al fatto, semplice e banale ma devastante, per la rappresentanza, che il numero dei deputati e, soprattutto, dei senatori da eleggere diminuisce drasticamente. Soprattutto al Senato, dove la maggioranza delle regioni italiane, tranne quelle popolose, non eleggerà più di 4 senatori, nei collegi proporzionali, e un numero molto basso (tre), fissato per legge, nei collegi uninominali. Insomma, non solo per le liste minori (dal 3% al 5% dei voti, che dovrebbero avere il diritto, in base alla soglia di sbarramento, di eleggere), ma anche per liste maggiori (tra l’8% e il 10%, fino al 20%) sarà praticamente impossibile ottenere eletti, al Senato. Ma c’è di più, perché a una diminuzione della rappresentatività delle Camere corrisponde indirettamente anche un indebolimento delle stesse, non proprio il modo migliore di rispondere alla crisi di fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Come ha spiegato la senatrice De Petris nel corso della discussione del provvedimento, servirebbe piuttosto ricostruire e rafforzare un legame ancor più forte tra cittadini ed eletti, magari fermando il percorso di costante indebolimento del Parlamento, in atto ormai da tempo: L'ossessione è stata sempre quella di rafforzare e verticalizzare il potere nelle mani dell'Esecutivo e ciò è andato avanti costantemente, con le decretazioni d'urgenza, che non sono realmente d'urgenza; con il fatto che la maggior parte dell'attività parlamentare che svolgiamo non riguarda l'iniziativa legislativa parlamentare, ma consiste nell'intervenire continuamente per convertire decreti-legge e dare pareri su atti del Governo, con le relative questioni di fiducia. Basta del resto considerare i numeri forniti da OpenPolis: la stragrande maggioranza delle leggi approvate sono ratifiche di trattati internazionale o decreti legge, secondo una prassi cominciata anni fa e adottata anche dal governo Lega – Movimento 5 Stelle con grande naturalezza. In questa dinamica non si vede quale effetto migliorativo possa arrivare dalla semplice riduzione del numero dei parlamentari. Anche dal punto di vista della "velocità" ed "efficacia" del lavoro del Parlamento in seguito alla riduzione dei componenti è lecito sollevare qualche dubbio. Questo perché la riforma non interviene sui meccanismi istituzionali, non intacca il bicameralismo perfetto, non modifica i rapporti col governo, né (ovviamente) incide sui regolamenti parlamentari e sulle dinamiche interne alle Camere. Il tempo medio di approvazione di una legge nella XVII legislatura è stato di 237 giorni, con un legame diretto fra la volontà politica del governo e la celerità del via libera del Parlamento: anche senza considerare i decreti, consideriamo che le 46 leggi di iniziativa parlamentare hanno richiesto in media 504 giorni l’una (quasi un anno e mezzo), le 195 leggi di iniziativa governativa sono state approvate in media in 172 giorni, neanche 6 mesi (FONTE). La riforma non migliora questi meccanismi perché, non solo non interviene direttamente nei meccanismi del bicameralismo, ma aumenta anche il carico di lavoro per il singolo parlamentare e per il suo staff, con il rischio che a sconfinare sia ancora più spesso il governo.

Riduzione dei parlamentari, perché è sbagliato. Il Barbuto il 9 Maggio 2019. Uno dei cavalli di battaglia del M5S è il c.d. taglio delle poltrone, ossia la riduzione del numero di parlamentari, secondo una logica molto populista e semplice da far assimilare all’elettorato supino, ignorante e inconsapevole: se si riduce il numero di parlamentari, si riducono i costi e quindi gli sprechi e, conseguentemente, ci risparmiamo tutti.

Ma è davvero così? Secondo diversi esponenti del M5S, il taglio dei parlamentari, che prevede la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200 (in totale da 945 a 600), porterà ad un risparmio di quasi 500 milioni di euro. Da qui la semplice equazione per cui riducendo il numero si riducono gli sprechi. Le cifre, tuttavia sono molto soggettive, ampiamente interpretabili e ballerine. Fraccaro qualche mese fa parlava di un risparmio di 100 milioni l’anno, ma siccome la cifra non fa presa, oggi si parla di 500 milioni (a legislatura). E’ chiaro che si tende a sparare la cifra più grossa quando si parla di questi temi, perché se andiamo a considerare quanto guadagna in media un parlamentare, quanto restituisce allo Stato in termini di tasse e imposte, quanto gli viene rimborsato, il trattamento di fine rapporto e la pensione, la stima del risparmio si attesta intorno ai 50 milioni di euro l’anno, ossia poco più di un euro al giorno per elettore. E’ ovvio che con queste cifre non si ottengono consensi, ma se si sparano cifre grosse, l’opinione pubblica la si conquista facilmente.

Non è un problema di soldi. Ad ogni modo non è solo un problema di soldi. Perché se fosse solo una questione di risparmi dei bilanci pubblici, le soluzioni ci sarebbero, come quella di ridurre le voci di rendiconto (tipo rimborsi per spese telefoniche, alloggi, trasporti, ecc.) per cui i parlamentari a 5S, ossia i proponenti della legge sul taglio delle poltrone, sono i più spendaccioni in assoluto. Come dimenticare i 17.000 € di spese telefoniche di Paola Taverna o i 27.000 € di spese di benzina del Ministro Barbara Lezzi? Non è quindi una questione di soldi. E’ questione di rappresentatività. Il provvedimento s’inserisce perfettamente nella logica neo-liberista per cui vanno ridotte le voci di dissenso all’interno del sistema politico, in modo da favorire gli interessi dei gruppi di potere (banche, industria, lobby, ecc.) i quali si sostanziano meglio quando a decidere sono poche persone e coese, non solo all’interno del governo, ma in tutte le istituzioni di rappresentanza politica. Non è un caso che il tema della riduzione dei parlamentari sia stato un punto fondamentale nel piano di rinascita democratica della loggia massonica P2, gestita da Licio Gelli. La finalità del piano era quella di privatizzare le istituzioni democratiche e gestirle in modo oligarchico, favorendo quindi gli interessi di grossi gruppi economici a svantaggio delle classi più deboli della popolazione.

Taglio dei parlamentari e dei finanziamenti pubblici ai partiti. Il provvedimento non va letto in sé per sé, ma alla luce del taglio dei finanziamenti pubblici ai partiti. Riducendo i parlamentari ed eliminando il finanziamento pubblico ai partiti si elimina ogni forma di partecipazione politica dal basso e alternativa alla visione dominante della gestione della cosa pubblica. In altre parole si impedisce a qualunque cittadino di organizzarsi in un partito o un movimento e di proporre una diversa visione del mondo. I partiti che avranno le disponibilità economiche potranno dunque organizzarsi sul territorio, pagare le campagne elettorali, aprire sedi nelle città o nei paesi, stampare manifesti o organizzare incontri e dibattiti per far conoscere il proprio programma, mentre gli altri non avranno queste possibilità.

Quali partiti potranno permettersi tutto ciò? Quelli che attualmente siedono in Parlamento o stanno al governo, per esempio, i quali potranno sfruttare parte delle indennità dei propri eletti per finanziarsi (come fanno tutti i parlamentari del M5S, versando ogni mese 300 € a Casaleggio), oppure quelli che ricevono soldi da investitori privati e hanno le risorse per ottenere maggiori risorse chiedendo, con l’aiuto dei media e costose pubblicità, il 2×1000 ai propri sostenitori. Ora, è evidente che se un partito viene finanziato da un privato, sia esso una banca o un’industria o un lobbysta, dovrà in qualche modo ricambiare il favore. Non occorrono dimostrazioni per arrivare a capire ciò. E quindi le politiche pubbliche divengono ostaggio degli interessi privati. Ecco perché l’abolizione del finanziamento pubblico è stato uno sbaglio.

Eliminare lo strumento e non la causa. Con ciò non voglio difendere chi, finora, ha abusato del finanziamento pubblico, ma non si può eliminare uno strumento se viene utilizzato male. E’ come dire che si dovrebbe eliminare internet perché ci sono gli hacker o gli haters o gli analfabeti funzionali. Non si può dare colpa allo strumento, semmai a chi lo utilizza. In questo quadro è ovvio che in parlamento accederanno solo i partiti già strutturati e finanziati in modo più o meno etico e più o meno lecito e quindi si elimina ogni voce dissonante, inoltre la riduzione del numero dei parlamentari se ridurrà in proporzione i seggi dei partiti dominanti, eliminerà in modo assoluto i seggi della minoranza, la quale – s’è detto – non avrà nemmeno la forza di presentarsi alle elezioni.

Così si crea maggiore distanza tra i parlamentari e gli elettori. Tra l’altro il provvedimento comporterà una riduzione e un conseguente allargamento geografico dei collegi elettorali e, quindi, un maggiore scollamento tra il parlamentare e il territorio di riferimento. Se già oggi si sente la distanza tra l’eletto e i suoi elettori, domani sarà anche peggio, visto che il parlamentare rappresenterà un collegio molto più ampio.

Il fumo negli occhi del sistema proporzionale. Anche qualora si dovesse sbandierare un ritorno ad un sistema elettorale misto tra maggioritario e proporzionale, in cui il M5S rivendicherà il suo ruolo di garante della democrazia, ciò non comporterà di fatto un allargamento in Parlamento a forze politiche alternative, vista l’impossibilità anche solo di presentarsi alle competizioni elettorali. E anche qualora una forza politica nuova avesse la capacità economica di farlo ed entrasse in Parlamento, la riduzione del numero dei parlamentari graverà maggiormente su questa anziché in proporzione su tutti i gruppi parlamentari, con conseguente inutilità di fatto della presenza di una minoranza, giacché non si avrà nemmeno la forza numerica di avere i propri rappresentanti nelle commissioni parlamentari.

La realtà è che Lega e M5S si aggrappano alle poltrone. Ecco perché ridurre il numero dei parlamentari, in un quadro di impossibilità di formare soggetti politici alternativi a quelli dominanti (e, ribadisco, il M5S è solo di facciata alternativo, ma rappresenta gli interessi privati, in primis quello di Casaleggio Associati), date le ristrettezze economiche e in un Parlamento a numero ridotto, è una trovata antidemocratica e in linea con la visione neo-liberista e oligarchica già ampiamente concretizzata sin dall’epoca della P2. Insomma, con la scusa di far risparmiare gli italiani, gli si impedisce di dissentire con l’unica forza che hanno: mettersi insieme e dettare una linea politica alternativa, con lo strumento del partito o del movimento. E quindi gli unici che trarranno beneficio da questo provvedimento sono quelli che attualmente detengono il potere politico.

Il vincolo di mandato. Non dimentichiamo che la Costituzione, all’art. 67, stabilisce che Ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato, il ché vuol dire che il parlamentare non è soggetto al suo partito, ma al suo elettorato e rappresenta non il programma del partito, ma l’interesse della nazione. Con la riduzione dei seggi, che vuol dire un posto più prezioso, però, saranno premiati solo i fedelissimi, ossia quei parlamentari che di fatto giureranno fedeltà al partito e non alla Costituzione.

Obiettivo: eliminare la democrazia. Presto ne vedremo delle belle, quando, oltre alla riduzione della rappresentatività parlamentare, si eliminerà di fatto anche il diritto di manifestare liberamente, per tutti tranne che per i sostenitori della maggioranza (tipo Casapound o Forza Nuova, giusto per fare i primi due nomi che mi vengono in mente). Ma già qualche segnale ce l’abbiamo, vero? Inviare la digos a casa di una signora che aveva attaccato uno striscione o chiedere loro di far sequestrare il cellulare ad una ragazza o prendere a schiaffi una ragazza che manifesta – il tutto per una legittima contestazione a Salvini ma in generale all’attuale stato delle cose – non è una forma di repressione? Anche ridurre il numero dei parlamentari, eliminare il finanziamento ai partiti e tagliare quindi le gambe a chi vuole aggregarsi e fare politica, è una forma di repressione. Con la scusa del risparmio, però.

Da Il Fatto Quotidiano l'8 ottobre 2019. Ok definitivo dell’Aula della Camera al taglio dei parlamentari. Il disegno di legge costituzionale che riduce i deputati a 400 dai 630 attuali ed i senatori a 200 dagli attuali 315, è stato definitivamente approvato a Montecitorio con 553 voti a favore, 14 contrari e due astenuti. Trattandosi di un disegno di legge costituzionale, era richiesta la maggioranza assoluta dei componenti dell’Assemblea, pari a 316 voti. A favore voterà la maggioranza che sostiene il governo Conte 2: naturalmente i 5 stelle, che sono stati i principali promotori del disegno di legge, anche se si registra un dissidente: il deputato Andrea Colletti ha dichiarato che, dando voce ai dubbi di altri colleghi, voterà contro; quindi Pd, Leu e Italia viva. Al momento dell’annuncio del sì dei democratici, che nelle scorse tre letture si sono invece schierati contro, sono iniziate polemiche e contestazioni provenienti dai banchi del Carroccio e di Fratelli d’Italia. Il renziano Roberto Giachetti ha annunciato il suo sì, ma ha anche detto che da domani raccoglierà le firme per un referendum e per chiedere di bocciare la riforma. Nonostante le contestazioni, anche il centrodestra ha detto che voterà a favore. Tra chi ha annunciato che voterà contro: Vittorio Sgarbi del Misto che ha accusato i 5 stelle di “stuprare il Parlamento”, l’ex M5s Nello Vitiello e la sua componente nel Misto 10volteMeglio, il socialista Riccardo Nencini e Maurizio Lupi. Si asterranno invece Bruno Tabacci e Mario Borghese.

La Lega annuncia il sì. Il capogruppo Romeo: “Voto favorevole senza se e senza ma”. Il Carroccio, che nelle ultime tre letture aveva sostenuto il provvedimento, ha annunciato che voterà contro. La riserva è stata sciolta in tarda mattinata, anche se già ieri Matteo Salvini aveva lasciato intendere che non avrebbero fatto mancare i voti. A parlare chiaramente oggi è stato il capogruppo leghista alla Camera Massimiliano Romeo: “Il nostro è un voto favorevole senza se e senza ma. Il governo però deve dimostrare di avere i numeri”.

M5s sul Blog delle Stelle: “E’ un momento storico per il nostro Paese”. Per i grillini oggi è un giorno decisivo perché viene affrontato uno dei cavalli di battaglia storici: “Ci siamo, tra poco la nostra legge di riforma costituzionale passerà alla Camera per l’ultima votazione”, si legge sul Blog delle Stelle. “E’ un momento storico per il nostro Paese: presto avremo 345 parlamentari in meno e milioni di euro da investire in servizi per i cittadini. Questo governo è nato principalmente per realizzare subito due obiettivi: ridurre il numero di senatori e deputati ed evitare l’aumento dell’Iva che sarebbe costato 600 euro all’anno per ciascuna famiglia. Con l’ok definitivo di Montecitorio potremo dire di aver mantenuto il primo di questi impegni presi con gli italiani, mentre il secondo verrà realizzato con la legge di bilancio”. In Aula è intervenuta la deputata 5 stelle Anna Macina: “Non è cosa di poco conto i risparmi che porterà il taglio dei parlamentari, ma sostanzialmente questa è si una battaglia di M5s, ma non è mai stata una bandierina o una merce di scambio. Il Movimento non è in vendita, come non lo è la costituzione. Questa riforma non nasce sotto l’ombrellone non è un ricatto”. Lo spirito riformatore” di M5s questa volta ha portato al successo su una riforma per un motivo,”perché c’è un Movimento che ha portato qui dentro quelli che sono fuori”.

Il deputato M5s Andrea Colletti vota contro: “Ci sono anche altri colleghi che hanno dubbi”. Come annunciato, il deputato 5 stelle Andrea Colletti ha deciso di esporsi in dissenso rispetto al gruppo e non voterà a favore del provvedimento. “Ci sono altri colleghi nel mio gruppo che hanno dubbi, e mi faccio latore anche dei loro dubbi”, ha detto. Colletti si è domandato se non fosse meglio puntare ad altre riforme, per esempio al superamento del bicameralismo perfetto o al monocameralismo. “Avrebbe portato a risparmi molto superiori” e a una maggiore efficiente. “E poi è più efficiente un Senato di 200? Come faranno a svolgere ruolo di controllo? Saranno più esposti alle lobbies. Questo dibattito sarebbe dovuto essere fatto, ma non è stato possibile farlo”. Quanto ai “correttivi” su cui si è accordata la maggioranza “andavano inseriti nella riforma, perché stiamo parlando della Costituzione, non di un Regolamento di Condominio”.

Pd ora vota a favore: “Votiamo a favore perché abbiamo ottenuto delle garanzie”. Proteste dai banchi del centrodestra. “Noi pensiamo che il Parlamento sia la casa della democrazia e pensiamo che chi è qui oggi rappresenti a pieno titolo i cittadini, e la nostra idea non è cambiata, il nostro no precedente, era convinto, a difesa di queste cose. Ora diciamo convintamente sì” al taglio dei parlamentari “perché abbiamo ottenuto quelle garanzie”. Così Graziano Delrio, capogruppo del Pd alla Camera, parlando in Aula, durante le dichiarazioni, in vista del voto sul taglio dei parlamentari. “Garanzie arrivate attraverso un lavoro serio che ha trovato una sintesi efficace, che dice che le storture che ci portavano a dire no verranno corrette immediatamente, a ottobre verranno inserite le nostre proposte. Abbiamo chiesto una revisione del sistema elettorale – dice il dem – accordo prevede di dare più centralità al ruolo del parlamento, c’è stato un reale cambio di passo, avremmo voluto anche una revisione del bicameralismo perfetto, ma questa è una discussione che possiamo fare nei prossimi mesi”.

I renziani di Italia viva a favore. Ma Giachetti: “Ora raccogliamo le firme per il referendum”. Anche i renziani, nonostante la scissione dal Pd, hanno annunciato che sosterranno la maggioranza. Anche se il deputato Roberto Giachetti ha chiesto che si raccolgano le firme per il referendum e perché si chieda ai cittadini cosa ne pensano. “Non c’è dubbio alcuno che il nostro sistema vada riformato, lo si dice da decenni e lo si è tentato di fare, e più andiamo avanti e più il ritardo è colpevole. E’ il taglio dei parlamentari la risposta? E’ evidente che non lo è. Lo sappiamo tutti che la risposta sarebbe il superamento del bicameralismo”.

Tabacci: “Non posso che astenermi”. Il Maie vota a favore, ma si astiene Mario Borghese. “Dopo tre voti contrari”, ha dichiarato il deputato Bruno Tabacci del gruppo Misto, “non posso che astenermi, perché questa norma entra in un accordo di governo che ho appoggiato. Si va verso un sinedrio sempre più ristretto, altro che casta. E’ come se per perdere peso noi vorremmo amputare un arto”, spiega ancora: sottolineando che “si prospetta un risparmio simbolico e maggiore efficienza dei parlamentari, come se meno parlamentari possono fare meno danni”. Il Maie invece ha annunciato che voterà sì con Andrea Cecconi e Antonio Tasso, mentre Mario Borghese non parteciperà al voto.

Nencini (Psi): “La democrazia costa più delle dittature. Una buona ragione per votare no”. Contrario anche Maurizio Lupi. Il socialista Nencini ha annunciato che voterà contro la riforma. “La democrazia costa più delle dittature”, ha scritto su Facebook il presidente del Psi. “Se al taglio dei parlamentari non si collega una riforma delle funzioni delle due Camere e una legge elettorale proporzionale, saltano i cardini della rappresentanza dei cittadini in parlamento. Una buona ragione per votare no”. Contrario anche Maurizio Lupi: “Noi voteremo contro questa riforma costituzionale, non perché vogliamo difendere le poltrone. Voi volete il taglio perché non credete nella democrazia rappresentativa. Questa riforma come è stata costruita è fatta per conseguire la popolarità”.

L’ex M5s Vitiello: “Perché 400 e non 300 deputati? Per la propaganda siete pronti a tutto”. 10 volte meglio votare contro La componente del gruppo misto di “Dieci volte meglio” (ex M5s) dirà no al taglio dei parlamentari perché “manca di organicità”. Lo ha annunciato in AUla Nello Vitiello. “Perché 400 e non 300 deputati? Quale è la logica? Si vuole togliere rappresentanza ai cittadini”, ha affermato. Rivolgendosi poi al M5s ha dichiarato: “Per la propaganda siete disposti a tutto”.

Gli sberleffi 5 Stelle e il «lutto» dei dem. Orfini: voto la riforma anche se fa schifo. Pubblicato martedì, 08 ottobre 2019 su Corriere.it da Monica Guerzoni, Gian Antonio Stella e Renato Benedetto. Sì definitivo al disegno di legge costituzionale che riduce i deputati a 400 dai 630 attuali e i senatori a 200 dagli attuali 315: a Montecitorio 14 i voti contrari e due astenuti. I «buu» di Lega e FdI, ma l’atmosfera è sotto tono. «Alla faccia di Salvini, tié!». I forbicioni gialli sono di cartone e le poltrone rosse sono dipinte sul maxi striscione bianco, ma il taglio questa volta è vero e Di Maio, Fraccaro, D’Incà, esultano increduli in piazza Montecitorio per la «riforma storica, che ricorderanno i nostri figli e i nostri nipoti». La ricorderanno anche molti dei 553 deputati che hanno pigiato il bottone dell’autodistruzione, in un clima di rassegnazione mascherata da atto di responsabilità, «per il bene del Paese». I 5 Stelle ostentano sorrisi imposti dalla disciplina di partito, i dem invece sono in lutto e lo rivelano anche nell’abbigliamento. Andrea Giorgis, responsabile riforme del Pd, sfoggia una cravatta plumbea e ammette che non l’ha pescata a caso. Debora Serracchiani indossa una giacca nera con righina bianca, che ricorda quei biglietti da visita usati per porgere le condoglianze: «Non sono contenta, l’ho votato senza entusiasmo». Al bancone della buvette, un gruppetto di deputati del Movimento brinda a prosecco di Valdobbiadene. Evviva. Ma il profumo destinato a finire nelle cronache parlamentari è un altro. Tacchino arrosto, metafora abusata dai deputati rassegnati a infilarsi nel forno delle riforme. Ecco Paolo Barelli di Forza Italia, che scherza con Giancarlo Giorgetti mimando con la mano una padella: «Li vedi questi? Sono tutti tacchini alla griglia». Tra pizzette e piadine il ministro Federico D’Incà sparge ottimismo, profetizza «600 sì» e rende giustizia ai «volatili» della Camera: «Basta tacchini e capponi, siamo gente seria che pensa al bene del Paese». Pochi, nella maggioranza, hanno voglia di scherzare. «Domanda di riserva?», implora il ministro di Leu Roberto Speranza. Per Nicola Acunzo, attore che ha recitato con Mario Monicelli, «toccare la Costituzione è sempre un azzardo». Lo sa bene il capogruppo del Pd, Graziano Delrio. Per scrivere il discorso della grande capriola, votare sì in quarta lettura dopo aver bocciato le precedenti tre, l’ex ministro si è chiuso a lungo nella sua stanza a Montecitorio. Una volta in aula Delrio giura che «non c’è nessuna cambiale in bianco, nessun ricatto, nessuna svendita», annuncia il «voto convinto» degli 89 reduci dalla scissione e incassa un coretto di «buu» da Lega e Fratelli d’Italia. Si arrende alla disciplina di partito anche Matteo Orfini, che per giorni aveva tentato la resistenza dell’ultimo giapponese: «I correttivi hanno ridotto il danno, ma la riforma fa schifo lo stesso e il partito l’ha gestita malissimo, perché l’abbiamo votata gratis». Non c’è un grammo di pathos, una briciola di solennità, un pizzico di afflato costituente tra gli scranni, dove i deputati vanno e vengono, telefonano e chiacchierano senza rispetto alcuno per l’oratore del momento. Piero Fassino supplica Di Maio di smetterla con la «retorica dei costi», che toglie credibilità alle istituzioni: «Noi non siamo profittatori». L’azzurro Simone Baldelli, avvistato in un corridoio mentre faceva le prove del discorso («Robespierre era il più popolare fino al momento prima che gli tagliassero la testa»), vota «coerentemente no» e mette il dito nella piaga dell’incoerenza altrui: «Tanti enumerano le ragioni per cui votare contro, ma poi finiscono per annunciare il loro sì». È il caso di Roberto Giachetti, di Italia viva. L’ex vicepresidente della Camera si tappa il naso perché la riforma lo disgusta e mentre vota a favore apre, a parole, il primo comitato per il no al referendum.

Da Corriere.it l'8 ottobre 2019. «Stiamo assistendo a un voto di scambio senza precedenti, si concede a un governo illegittimo e a una banda di parlamentari», i 5 stelle, «di fare uno stupro del parlamento che ricorda quello fatto a casa di Grillo, di cui si è parlato solo 4 minuti sui giornali, da 4 uomini tra cui il figlio» del cofondatore del Movimento 5 stelle, indagato per una presunta violenza sessuale nella casa del padre in Sardegna. È durissimo l’intervento in Aula di Vittorio Sgarbi, deputato del gruppo Misto, che più volte si scaglia contro i pentastellati, ma anche contro «Forza Italia Viva», facendo una sorta di acronimo tra i nomi del partito di Forza Italia e di Italia viva. «Con il potere di intimidazione che ebbe solo Mussolini voi ricattate Pd, Forza Italia viva (riferendosi appunto ai renziani di Italia viva).  Siete ipocriti e bugiardi e falsi», dice ancora sempre contro i 5 stelle, «votati sì perché c’è il voto palese ma avreste votato contro con voto segreto». Il M5s «è un partito di morti» «mai mai mai votare con i 5 stelle, che sono il partito del non essere, non esistono, siamo qui a celebrare un funerale. Il Pd non ceda il ricatto e non lo faccia la Lega», chiude infine Sgarbi.

Taglio dei parlamentari, Roberto Giachetti: "Oggi voto sì, ma da domani mi batterò per cancellare la legge". Libero Quotidiano l'8 Ottobre 2019. La confusione regna sovrana dentro al Pd. Da sempre. E quanto detto in aula da Roberto Giachetti a ridosso del voto sul taglio ai parlamentari, voluto dal M5s e appoggiato dal Pd stesso pur di tornare al governo, lo dimostra in modo plastico. Quasi comico. Già, perché Giachetti prende parola per dire che lui voterà sì alla sforbiciata, salvo poi battersi con tutte le forze per cancellarla. Per la precisione, il democratico ha detto: "Io lo voterò, ma non lo faccio convintamente. Lo voto perché sta dentro un accordo di programma, quello di questo governo. Oggi voterò sì ma non è finita qui per quel che mi riguarda - assicura in Parlamento -. Finisce il mio dovere di lealtà al governo su questo tema. Un secondo dopo il mio voto su questa riforma, mi adopererò affinché assieme alla mia firma vi sia il numero necessario tra Camera e Senato per ottenere lo svolgimento del referendum. Se ci fossero le firme necessarie costituirò un comitato per il no a questa riforma". Idee chiare, insomma, e parecchio confuse.

Sì al taglio dei parlamentari, la vittoria del MoVimento. Paolo Delgado l'8 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Oggi il voto della legge simbolo dei grillini: ok anche di Lega e Fi. I senatori della Repubblica passeranno da 315 a 200 e I deputati da 630 a 400. Il risparmio sarà di circa 65 milioni di euro. Oggi, salvo molto improbabili sorprese, una Camera quasi unanime voterà una riforma contro se stessa, o più precisamente contro il Parlamento. Il taglio dei parlamentari che verrà approvato oggi in quarta e definitiva lettura non risponde ad altra logica. Il risparmio è irrisorio: 65 mln a fronte di un aumento del debito di 34 mld nell’ultimo anno. Dal punto di vista dell’efficienza la decurtazione dei parlamentari non avrà effetti, se non quello di complicare per un po’ le cose dovendo i regolamenti adeguarsi alla nuova composizione del Parlamento. Compito difficile dal momento che nelle Camere si procede spesso "per prassi", cioè per abitudine. La riforma ha un solo segno: quello dell’antiparlamentarismo. Mira a dare sbocco concreto alla decennale campagna, soprattutto ma non esclusivamente dell’M5S, che mira a rappresentare il Parlamento come un covo parassiti nullafacenti nella migliore delle ipotesi e spesso di veri e propri mascalzoni. La riforma peggiorerà le cose. La riduzione del numero dei parlamentari aumenterà il già immenso potere delle segreterie di partito e finirà di ridurre i parlamentari a una massa ben stipendiata di peones delegati ad alzare la mano come leader ordina e comanda. Con ciò moltiplicando la sensazione che si tratti di una istituzione in sé parassitaria, quando invece la situazione attuale è il prodotto di un progressivo e lucido svuotamento di tutte le funzioni del Parlamento a vantaggio del potere esecutivo e della tendenza a selezionare le classi dirigenti, a partire proprio da quella politica, al ribasso, premiando sempre e solo la silenziosa fedeltà. La riforma, passata pochi mesi fa al Senato solo per un pugno di voti regalati da FdI, sarà approvata a furor di decapitando, cioè di parlamentari, pur detestando i votanti stessi quel che si accingono ad approvare con finto entusiasmo. La Lega aveva votato la riforma dei 5S solo in omaggio al vincolo di maggioranza ma arrivati alla quarta votazione non se la sente di negare il sostegno, tanto più che la riforma passerebbe comunque, per la comprensibile paura di passare da partito di cialtroni. Il Pd e LeU non nutrono simili patemi d’animo. Dopo aver bocciato la riforma per tre volte, denunciandola con toni spesso stentorei, la voteranno ora perché è il prezzo per salvare il governo. Su tutti, infine, aleggia il terrore di passare per difensori dell’immondo Parlamento e del detestabile ceto politico agli occhi di un’opinione pubblica drogata da dieci anni di retorica "anti Casta". Per alcuni versi, dunque, la situazione attuale ricorda davvero quella del 1992- 93, quando un ceto politico delegittimato prima dall’esplosione della Lega di Bossi, poi alle inchieste di tangentopoli, non seppe resistere a un’ondata che, in quel caso, adoperava il referendum contro il proporzionale di Mario Segni per abbatterla e rottamarla. La stessa Dc, partito che di proporzionale più di ogni altro viveva, alla fine del 1992 aderì alla crociata per il maggioritario, nella speranza vana di salvare almeno il salvabile. Per altri versi, però, la situazione è radicalmente diversa da quella di allora. La crociata contro "i politici" data ormai da 12 anni: inaugurata, probabilmente contro o almeno ben oltre le stesse intenzioni degli autori, dal folgorante successo del libro di Stella e Rizzo La Casta. L’obiettivo dell’M5S nato dieci anni fa ma con radici nei vaffa days del 2008, il nocciolo della propaganda pentastellata è sempre stato il ceto politico, e più concretamente il Parlamento. Lo stesso grido di battaglia "Onestà" allude in realtà al difetto opposto che inquinerebbe per intero la politica e i fumosi vagheggiamenti sulla "democrazia diretta" miravano proprio a rivolgere il disagio crescente della popolazione verso la "democrazia indiretta", quella rappresentativa, quella appunto parlamentare. Il voto di oggi segna dunque la vittoria piena dell’M5S, proprio come il referendum del ‘ 93 siglò il trionfo schiacciante dei paladini "anti- partito’ del maggioritario. Ma stavolta si tratta di una sorta di "vittoria postuma". Nel frattempo l’M5S si è inserito in pieno, nonostante le sparate di Di Maio a favore del vincolo di mandato, nella pratica dei giochi politici, delle alleanze dettate dall’opportunità, dei voti decisi sulla base del calcolo dell’utilità momento per momento. A differenza che nel 1993, l’arrembaggio antiparlamentare che si realizzerà oggi non porterà dunque alla sostituzione della democrazia parlamentare con forme di democrazia diretta, ma sarebbe più corretta dire plebiscitaria. Non a caso, l’M5S ha rinunciato per ora alla proposta, ancora più esplosiva, di introdurre il referendum propositivo. Il risultato sarà invece una situazione di caotica indeterminatezza, nella quale i partiti si spingeranno ancora di più verso il modello, già avanzato, della compagnia di ventura guidata da un capitano che si orienta, e orienta la sua truppa parlamentare, a seconda dei suoi interessi e vantaggi.

Vittorio Feltri sul taglio dei parlamentari: "La vera ragione per cui Di Maio ha segato le istituzioni". Libero Quotidiano l'8 Ottobre 2019. Vi proponiamo l'editoriale di Vittorio Feltri sul taglio dei parlamentari, pubblicato su Libero di martedì 8 ottobre, nella giornata in cui la sforbiciata è stata votata in aula alla Camera. È partito l' iter per tagliare di brutto il numero dei parlamentari. Non sappiamo se la procedura giungerà in porto, e dobbiamo dire che non ce ne frega niente sul piano sostanziale. Nelle Camere, bischero più o bischero meno, non cambia niente. Il risparmio in termini finanziari, circa 500 milioni di euro, sarebbe minimo, però dobbiamo ammettere che, al di là di questo aspetto marginale, ridurre la quantità di deputati e senatori non sarebbe un sacrilegio. In fondo gli organici pletorici in politica e nella pubblica amministrazione non hanno mai giovato ai fini della efficenza. Ciò detto, non possiamo evitare una considerazione elementare: se il Movimento 5 Stelle pretende di segare gli uomini e le donne delle istituzioni c' è un motivo che va al di là della esigenza di spendere meno soldi. Ed è quello di convincere la gente che Di Maio e compagnia brutta vogliono andare incontro a chi odia i politici per partito preso. I quali politici non fanno molto per essere apprezzati dal popolo, tuttavia la stupidità della casta non è dovuta alla moltitudine dei suoi componenti, bensì alla incapacità di essere all' altezza di ricoprire ruoli di comando. In altri termini, i pentastellati, non sapendo amministrare lo Stato, si limitano a sfoltire le poltrone e rinunciano a tranciare le spese che gonfiano il nostro debito. In questo modo non riusciranno mai a contenere il passivo che ci affligge, ma lo accresceranno, cosa che succede da oltre trent' anni, a prescindere dal governo in carica. C' è poi un altro elemento da tenere in conto. Quand' anche passasse - e non crediamo - l' idea di diminuire la quota dei rappresentanti dei cittadini, si tratterebbe poi di organizzare un referendum nazionale, come previsto dalla costituzione. E ne vedremmo delle belle considerato che agli italiani di questi problemi non importa un accidenti. Vittorio Feltri

Taglio parlamentari, Maria Giovanna Maglie a Stasera Italia: "A cosa serve questo voto", attacco al Pd. Libero Quotidiano l'8 Ottobre 2019. Non ci vuole granché per smontare ciò che abbiamo visto oggi in aula alla Camera, dove è stato votato il taglio ai parlamentari voluto dal M5s. Taglio a cui si è accodato anche il Pd, che nel nome dell'inciucio di governo ha ribaltato quanto fatto nelle tre precedenti votazioni (ovvero: voto contrario). Una discreta farsa, insomma, al di là della riforma in sé, pur condivisibile. E a puntare il dito contro la farsa che si è vista a Montecitorio, a Stasera Italia in onda su Rete 4, ci ha pensato Maria Giovanna Maglie, che come sempre non usa giri di parole: "Ritengo la decisione di oggi squinternata perché l'hanno votata persone che la pensavano in modo diverso", e ogni riferimento al Pd non è ovviamente casuale. E ancora: "Hanno fatto un pateracchio che serviva a salvare l'esistenza di questo governo", conclude Maria Giovanna Maglie. Touchè.

Vittorio Feltri a Stasera Italia: "Taglio dei parlamentari? Un coglione in più oppure uno in meno..." Libero Quotidiano l'8 Ottobre 2019. Cosa ne pensa, Vittorio Feltri, del taglio dei parlamentari approvato alla Camera oggi, martedì 8 ottobre? Il direttore di Libero dice la sua a Stasera Italia, il programma condotto da Barbara Palombelli su Rete 4. E va dritto al punto: "In fondo a me dei parlamentari non me ne frega niente. Il problema non è avere meno deputati e meno senatori, potrebbe anche essere, forse, un vantaggio - premette Feltri -. Non sono gli organici pletorici che aiutano l'efficienza. Però anche ridurli a capocchia senza adottare dei provvedimenti più seri praticamente non ha senso - rimarca -. Penso che il M5s goda particolarmente perché è convinto di andare incontro ai desideri del popolo che odia la politica. Credo che ci sia anche una componente di questo tipo nel popolo, però non al punto di voler ridurre i parlamentari. Poi anche quando sono ridotti, coglione più o coglione meno è circa la stessa cosa", conclude un caustico Vittorio Feltri. 

Celebrano la vittoria contro le poltrone per sostituirle con una élite più ristretta. La democrazia svenduta al capo partito o al leader di un’azienda che decide cosa far votare e cosa no. Fabio Evangelisti l'8 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Sarò rozzo. Almeno quanto è rozzo il ragionamento che porterà, fra qualche ora, l’Aula di Montecitorio a ridurre i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. “Taglio” lo definiscono dall’alto della loro cultura istituzionale i giuristi della Casaleggio & Associati. Ma sarebbe più giusto definirla un’amputazione senza anestesia. Ad ogni modo si tratta della più drastica e scriteriata manomissione del nostro sistema istituzionale, sostenuta da un solo argomento: basta con le poltrone, ‘ Basta con la Casta’. Come se la Casta fosse questione di numeri e non di privilegi. Quando per risparmiare, a titolo d’esempio, si poteva incidere sulle indennità e i benefit dei parlamentari. Ma vuoi mettere l’effetto che fa annunciare che è fatta, e cantare che “il nemico è vinto, è battuto”. Becchime per i polli. E chissenefrega della dell’articolazione della democrazia e del pluralismo e della tutela delle minoranze e della adeguata rappresentanza delle diverse aree del Paese. Il film già visto per il reddito di cittadinanza e l’abolizione della povertà. Si affacceranno nuovamente al balcone per festeggiare la sconfitta della Casta quando, in realtà, l’avranno soltanto sostituita con una nuova e più ristretta élite. E dispiace leggere di insigni giuristi che in questo sfregio alla Costituzione vedono la possibilità di una miglior selezione del ceto politico, finalmente scelto su basi etiche e di maggior rappresentatività e competenza. Succederà esattamente il contrario. Un ceto politico che cercherà soltanto di autotutelarsi e riprodursi. D’altronde, non s’improvvisa una classe dirigente con le geometrie istituzionali. Servono lunghi processi storici ed economici, condizioni sociali e culturali per far emergere quadri adeguati. Discorso che vale anche in direzione opposta: il populismo imperante, da Trump a Bolsonaro, ne è una riprova. Del resto, la proposta in questione si nutre della stessa logica di chi vorrebbe introdurre il vincolo di mandato per deputati e senatori. Ricordate i frizzi e i lazzi di quando Berlusconi pretendeva che, per mettersi al riparo dei franchi tiratori, fossero soltanto i capigruppo a votare nelle aule parlamentari. Qui è anche peggio! Si vorrebbe che a decidere sia uno soltanto, il capo partito. Che, magari dietro la sua scrivania, a capo di una società privata, deciderà poi in base a sue personalissime valutazioni cosa è bene e cosa è male per il Paese. Altro che pieni poteri. La democrazia rinsecchirebbe in una sola stagione e non so quale termine scoverebbe oggi Marco Pannella per denunciare una tale deriva partitocratica. Di certo, c’è che il culto della democrazia ( anche quando la si vorrebbe diretta) è davvero ben poca cosa per gran parte degli attuali esponenti politici. E dispiace che il Pd aggiunga il suo voto favorevole a questa legge di riduzione dei parlamentari, firmata dall’allora ministro Fraccaro, dopo averla contrastata per 14 mesi e votato contro in ben tre precedenti passaggi d’Aula. Per intenderci, tutto è perfettibile. Personalmente ritengo intoccabile soltanto la prima parte della nostra Costituzione. Quella dedicata ai principi fondamentali della nostra Repubblica. Di tutto il resto si può discutere. E ricordo che di riduzione del numero dei parlamentari e di riforma della struttura dello Stato si parla da più di quarant’anni. In archivio sono disponibili gli atti e i documenti delle Commissioni presiedute da Aldo Bozzi, da Ciriaco De Mica e Nilde Iotti e fino alla bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Un approfondito lavoro di studio e di ricerca. Non l’approssimazione e l’improvvisazione di oggi. Provate a chiedere al primo deputato grillino che incontrate per strada: perché un Senato di 200 membri e non 150 oppure 100 ( che farebbe anche più yankee)? Quello allargherà le braccia, ma non vi darà una risposta compiuta. Persino la “deforma” immaginata da Matteo Renzi si nutriva almeno di un ragionamento alto e ambizioso: non soltanto la riduzione dei parlamentari, ma diversificare composizione, compiti e funzioni di Camera e Senato. Qui soltanto la propaganda, dietro il vuoto. C’è da sperare che il quorum di oggi ( o domani) a Montecitorio non impedisca un ricorso allo strumento referendario e che la sollevazione indignata di un’intellighentia, rimasta colpevolmente silente nell’ultimo anno, possa rimediare in parte al danno che intanto si sarà prodotto.

La sinistra già si vergogna di aver tagliato i seggi per compiacere i grillini. Votano la riforma anticasta in aula ma subito annunciano che vogliono cancellarla. Carmelo Caruso, Giovedì 10/10/2019 su Il Giornale.  Non la apprezzavano per niente, ma la hanno votata e adesso annunciano che sono pronti a rimediare (ma con il referendum). Non era di sinistra, e soprattutto non era del Pd, la riforma tagliapoltrone che, in un pomeriggio di ottobre, ha rimpicciolito gli emicicli di Camera e Senato, meno 345 parlamentari, e restituito il sorriso a Luigi Di Maio. Democrazia, bilanciamento? Tiè. Il voto è stato plebiscitario, ma cosa si può dire della coerenza? Roberto Giacchetti, deputato del Pd e oggi italiano vivo con Matteo Renzi, ha passato una vita (da radicale) chiedendo rappresentanza per le minoranze ed è finito tra i riluttanti che hanno votato la riduzione dei seggi. Per fedeltà al nuovo governo, e al M5s, ha rinnegato (e non ha atteso neppure che la campanella suonasse tre volte) la sua precedente fede. Ha già comunicato che saboterà la riforma e che andrà in giro per l'Italia a diffondere il vecchio testamento e riabilitare l'antico parlamento. Torna insomma a quello che sa fare e spera di cancellare quello che ha fatto: «Sarò il primo a costituire i comitati per il no alla riforma». Ha tre mesi di tempo per raccogliere cinquecentomila firme e ha promesso che ci riuscirà. Ma non era meglio votare no, come del resto avevano in precedenza votato tutti i parlamentari del Pd in tre e ben passate letture? Prima di ribaltare il governo, e quindi opinione sul M5s, nessuno più di loro si era opposto a questa riforma, diciamolo, tanto demagogica e anticasta quanto davvero poco utile (lo pensa anche mister forbici, Carlo Cottarelli) ai nostri scalcagnati conti pubblici. «Progetto peronista», «collasso democratico», «scorciatoia» per indebolire il parlamento... Non si sa se saranno le prossime sciagure che ci attendono, ma si sa che erano parole del Pd riguardo alla legge. Si vuole dire che la cattiva figura, e l'opportunismo, in questa circostanza era tale che ci si immaginava il silenzio, la contrizione. Ci si è sbagliati, al punto che, da ieri, non si contano più le dichiarazioni contro la novità e proprio per bocca del Pd. Per non chiamarla altrimenti, Matteo Orfini la chiama sincerità («Abbiamo approvato una riforma alla quale avevamo votato contro per tre volte. Lo dico con sincerità. Mi è costato moltissimo e penso che sia stato un passaggio gestito malissimo») mentre il deputato Nicola Pellicani, ancora più esplicito di lui, l'ha chiamata «schifezza, un suicidio» per cui è convinto di finire sui libri di storia insieme al suo compagno, Carmelo Miceli, che all'Huffington Post, ha confessato di sentire il fuoco sotto e lui bollire in pentola: «Siamo dei tacchini». E, a volerla dire tutta, come si può votare una riforma quando perfino il capogruppo, Graziano Delrio, in aula riconosce: «Avevamo e abbiamo grandi perplessità»? Singolare e irraggiungibile è stata tuttavia Maria Elena Boschi che, prima del voto, ha chiarito subito con quale animo fermo diceva sì: «Votiamo questa riforma, ma certo non migliorerà il funzionamento del parlamento. Andremo a commettere il nostro dovere». Onore nel disonore a Ettore Rosato, il solo che ha dichiarato quello che tutti sanno: «La voto soltanto perché inserita in un accordo fra Pd e M5s». Sarà, ma fa impallidire perfino uno che ne ha viste (e compiute) tante come l'ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti: «Un suicidio. Hanno trattato democrazia e seggi come il macellaio fa con la carne». La verità? L'hanno venduta per stare al governo. Con la poltrona e pure scontenti.

QUANTO SI RISPARMIA DAVVERO CON IL TAGLIO DEL NUMERO DEI PARLAMENTARI? Edoardo Frattola per osservatoriocpi.unicatt.it il 9 ottobre 2019. È in dirittura d’arrivo l’iter della legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari di 345 unità (230 deputati e 115 senatori). Alcuni esponenti governativi del M5S hanno sostenuto che questo taglio garantirà risparmi per 500 milioni a legislatura. In realtà, il risparmio netto generato dall’approvazione di questa riforma sarà molto più basso (285 milioni a legislatura o 57 milioni annui) e pari soltanto allo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana. L'11 luglio scorso il Senato ha approvato in seconda lettura il disegno di legge costituzionale n. 214-515-805-B, che a partire dalla prossima legislatura riduce il numero di deputati da 630 a 400 e il numero di senatori da 315 a 200.[1] Il via libera definitivo da parte della Camera è atteso a settembre. Al di là delle possibili considerazioni sull’impatto di questa riforma sul funzionamento del Parlamento, è utile chiedersi a quanto ammonterebbe l’eventuale risparmio per le casse dello Stato derivante dal taglio di 345 parlamentari. Il vicepremier Di Maio e il ministro Fraccaro hanno più volte sostenuto che il taglio dei parlamentari garantirà un risparmio di circa 500 milioni di euro a legislatura, ovvero 100 milioni annui.[2] In realtà, il risparmio sembra essere molto più contenuto. Lo “stipendio” di un parlamentare è dato dalla somma di due componenti: l’indennità parlamentare, soggetta a ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali, e una serie di rimborsi spese esentasse. L’indennità lorda mensile ammonta a circa 10.400 euro, ma al netto delle varie ritenute si attesta attorno ai 5.000 euro. La somma dei rimborsi spese per l’esercizio del mandato (diaria, collaboratori, consulenze, convegni, spese accessorie di viaggio e telefoniche ecc.) è invece pari a 8.500-9.000 euro al mese.[3] Ogni parlamentare ha quindi un costo di circa 230-240 mila euro annui al lordo delle tasse, per un totale di circa 222 milioni. Queste cifre trovano conferma nei bilanci di previsione delle due camere: la spesa prevista per il 2019 per i compensi dei parlamentari è infatti di 225 milioni. Il risparmio lordo annuo che si otterrebbe riducendo il numero di parlamentari di 345 unità ammonta quindi a 53 milioni per le casse della Camera e a 29 milioni per quelle del Senato, per un totale di 82 milioni. Il risparmio sull’intera legislatura (410 milioni) si avvicinerebbe, ma sarebbe comunque inferiore, a quanto dichiarato dagli esponenti del M5S. Tuttavia, il vero risparmio per lo Stato deve essere calcolato al netto e non al lordo delle imposte e dei contributi pagati dai parlamentari allo Stato stesso. Considerando un’indennità netta di 5 mila euro mensili per ciascun parlamentare (a cui sommare tutti i rimborsi esentasse), il risparmio annuo che si otterrebbe con la riforma in questione si riduce a 37 milioni per la Camera e a 20 milioni per il Senato. Il risparmio netto complessivo sarebbe quindi pari a 57 milioni all’anno e a 285 milioni a legislatura, una cifra significativamente più bassa di quella enfatizzata dai sostenitori della riforma e pari appena allo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana.[4] Questo non significa necessariamente che i risparmi non siano giustificati, ma occorre metterli in proporzione anche rispetto a dichiarazioni, come quelle del vicepremier Di Maio, secondo cui con questa legge “si tagliano privilegi ai politici e si restituisce al popolo”.

"IL PARLAMENTO TAGLIA I PARLAMENTARI, CONTE SPENDE 17 MILIONI IN AUTO BLU". Gianni Carotenuto per ilgiornale.it il 9 ottobre 2019. "Un miliardo di motivi" per votare il ddl taglia-poltrone. È l'espressione usata su Facebook da Luigi Di Maio per annunciare la riduzione del numero dei parlamentari, al vaglio della Camera dopo il via libera espresso dal Senato lo scorso 11 luglio. Secondo i calcoli del Movimento 5 Stelle, passando da 945 a 600 tra deputati e senatori si otterrà un risparmio di 500 milioni a legislatura. Una stima giudicata troppo ottimistica dall'Osservatorio sui conti pubblici diretto da Carlo Cottarelli, che parla di minori spese per 47 milioni l'anno e un risparmio allo Stato dello 0,007% della spesa pubblica. Tanto che lo stesso Cottarelli, su Twitter, si è divertito a scrivere: "Qual è il numero che unisce il taglio dei parlamentari e James Bond? 007". Scettici anche alcuni deputati che, nonostante le indicazioni di voto dei loro partiti, si sono astenuti. Come Angela Schirò (Pd), per la quale la riforma voluta dai 5 Stelle comporta un "taglio lineare" che "acuisce uno squilibrio di rappresentatività nella circoscrizione estero, rispetto alle altre, portando a una rappresentanza simbolica". Anche Forza Italia, pur votando a favore, ha criticato il ddl taglia-poltrone. Il senatore Franco Dal Mas lo ha definito "una misura demagogica varata con spirito anticasta" che "non produrrà grandi benefici". Ancora più feroce il commento del deputato di Fratelli d'Italia, Emanuele Prisco. Durante le dichiarazioni di voto sul taglio dei parlamentari, Prisco ha rivendicato che "Fdi è l'unico partito di opposizione che nelle tre precedenti letture ha espresso voto favorevole senza essere legato né da accordi programmatici né da contratti di governo". Poi il carico da novanta contro il governo: "Mentre noi stiamo discutendo del taglio dei parlamentari che produce un risparmio di circa 60 milioni di euro, Palazzo Chigi - ha accusato Prisco - spende 170 milioni per rifare il parco auto. Alla faccia dei tagli che ci propone il Movimento 5 Stelle, alla faccia dei privilegi dei politici: ai suoi ministri il M5S le auto blu le compra e le compra care". Anche Fdi, come tutti gli altri partiti a eccezione di +Europa, ha votato a favore della riduzione dei parlamentari. "Siamo l'unico partito di opposizione - ha aggiunto il deputato - che nelle tre precedenti letture ha espresso voto favorevole senza essere legato né da accordi programmatici né da contratti di governo, coerente con la propria storia". Quindi l'affondo contro Di Maio: "Si impegni a dire subito che si va a casa se dovessero mancare i voti al Pd", ha concluso l'onorevole.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica”il 9 ottobre 2019. A volte la storia assomiglia a un mostro che si mangia la coda, ma questo non significa che non si possa partire da molto lontano. Così l' argomento dell' amputazione di un buon numero di deputati e senatori, con le sue ovvie implicazioni punitive, è vetusto come l' aggettivo che lo definisce. Basti pensare che nell' anno 1895 uno spiritoso deputato moderato, Francesco Ambrosoli, diede alle stampe un libricino dal titolo "Salviamo il Parlamento: contro il parlamentarismo" nel quale sviluppando il tema primigenio "Perché i deputati sono antipatici" vivamente incoraggiava i suoi colleghi a essere molto modesti e comunque molto cauti nel dare nell' occhio rispetto a pretese e privilegi. Nel 1955, e quindi ormai in regime democratico e repubblicano, il grande Giovanni Ansaldo ripropose quello scritto con tale intensità da indicarne addirittura la collocazione presso la benemerita biblioteca di Montecitorio. Tre anni prima, in "Totò a colori" il re della commedia si era confrontato con la figura di un borioso onorevole all' interno di un costrittivo vagone-letto: «Io sono un onorevole! Un o-no-re-vo-le!» scandisce. «Un onorevole?» chiede Totò palesemente scettico. «Sì» gli risponde quello tra il compiaciuto e l' altezzoso; e qui, accompagnato da una salutare propulsione del braccio monta e deflagra lo sberleffo di surreale potenza: «Ma mi faccia il piacere!». Vero è che a quei tempi tutto ciò si poteva pur sempre confinare dentro il derelitto e comodo recinto del qualunquismo. Ma oggi? Beh oggi che è giunto il giorno del drastico taglio degli eletti, un po' viene da pensare che chi semina vento raccoglie tempesta, proverbio che può variamente interpretarsi nel senso che i suddetti eletti se lo sono meritato, ma anche che l' intero mondo che ruota attorno al potere, a partire dal sistema mediatico, si è ben guardato dal compiere un esame di coscienza. Ci fu un' occasione nel 1992-93 quando, dopo la lunga stagione delle vacche grasse culminata in una sintomatica proliferazione di ristoranti e punti di ristoro, sulle Camere si abbatté il funesto passaggio di Mani pulite. Fine dell' immunità parlamentare, arresti a catena, transenne davanti alla Camera, dietro le sbarre un furor di popolo che si esprimeva con lanci di uova, frutti, ortaggi; i parlamentari non uscivano più nemmeno per andare a pranzo, i ristoranti della Città politica desertificati, per la strada insulti, sputi; facendo la fila a un ufficio postale il povero Willer Bordon venne affrontato da un colonnello dell' aviazione: «La chiamo deputato perché onorevole sarà il mio pitale!»; ansia, panico, anche qualche suicidio, chi si rivolgeva allo psicologo, chi alla cartomante, chi cominciò a fare sedute spiritiche per sapere dall' aldilà quando sarebbe finita. Ce n'era abbastanza, insomma, per imparare la lezione e darsi una raddrizzata. E invece no, niente. Forse fu perché le cose brutte si dimenticano in fretta; o perché presto venne il tempo di Berlusconi, che delle assemblee aveva un' idea tutta sua e non esattamente nobile («Servono a rassicurare le mogli mentre a Roma si h a l' amica»); o magari perché proprio allora il Parlamento cominciava a perdere il suo core business (leggi e controllo). Fatto sta che dieci anni dopo tutto l' andazzo era di nuovo ricominciato. Daccapo: aumenti di indennità, (però furbamente ribattezzati "rimborsi" o "adeguamen-ti"), diaria, portaborse, sgravi fiscali, assicurativi, automatismi, galleggiamenti, viaggi per il mondo e altre diavolerie all' insegna del privilegio. Ci fu pure l' ideona di aprire dei "Camera point", subito falliti, per vendere gadget che nessuno acquistava. Dopo l' 11 settembre ricominciarono costosissime blindature, con pezzi del centro storico letteralmente sequestrati alla città. Sullo sfondo, sempre più visibili, lo svuotamento delle istituzioni, l' oscuramento definitivo delle culture politiche, quindi una selezione basata su una legge elettorale definita dal suo creatore "Porcellum" e che non solo equiparava il seggio a un' investitura, ma favoriva anche le più scorrevoli e opportunistiche migrazioni. Al passaggio di millennio l' antipolitica, col proposito di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, era ancora lontana. Ma nessuno nei Palazzi - ah l' antica metafora di Guicciardini ripresa da Pasolini! - ritenne di moderare richieste, pretese e grotteschi benefici per farsi perdonare l' assenteismo o pianisti d' aula. Venne dunque il tempo dei corsi di lingue e per sommelier, degli spazi di preghiera e raccoglimento, delle ferie prolungatissime, delle settimane dedicate alle gastronomie regionali, delle vacanze-pellegrinaggi, dei club di tifosi. A un certo punto un gruppo di onorevoli cavallerizzi ottenne di poter sfilare, clòppete- clòppete, per le vie di Roma con altri onorevoli che partecipavano in carrozza, intorno polizia, carabinieri e vigili urbani, dietro squadre Ama pronte a raccogliere le deiezioni equine. È da cinque stelle ricordare tutto ciò? È populismo stabilire un nesso fra distanza dalla vita della gente e illegittimità della classe politica? Nel maggio del 2007 uscì "La Casta" di Stella e Rizzo: a dicembre aveva già venduto un milione 200 mila copie mettendo a nudo uno stato d' animo che già da un pezzo la politica doveva intercettare, disinnescare. Adesso è decisamente troppo tardi; adesso non servirà nemmeno tagliare perché è già Sparlamento. Ci si consola, nei giorni di buonumore, pensando che la storia bene o male continua.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

Europa, cosa non ha funzionato: meriti e colpe. Se c'è così tanto scontento, le istituzioni Ue hanno gravi responsabilità perché hanno dimostrato di ragionare con miopi calcoli ragionieristici. Però attenzione, è troppo comodo scaricare su Strasburgo la responsabilità di politiche sbagliate che invece sono nostre, scrive Luca Ricolfi il 24 ottobre 2018 su Panorama. Fra meno di otto mesi saremo chiamati a rinnovare il Parlamento europeo. Forse, da quando si vota per questo organismo, ossia dal 1979, questa sarà la prima volta in cui noi cittadini europei non potremo chiamarci fuori, o snobbare l'appuntamento elettorale, come, sia pure in misura diversa da Paese a Paese, abbiamo sempre fatto. La ragione è semplice: per la prima volta, in discussione non saranno semplicemente le politiche dell'Europa, ma sarà l'esistenza stessa dell'Unione. Le recenti avanzate dei movimenti populisti, sovranisti, nazionalisti (o come preferite chiamarli) nelle più recenti elezioni nazionali, suggerisce infatti che, dopo il 26 maggio 2019, possa emergere un Parlamento in cui la maggioranza non è più detenuta dalla forze politiche tradizionali che hanno sempre retto il timone della politica europea (socialisti, popolari, liberaldemocratici) bensì dai partiti e movimenti che osteggiano l'Europa e vorrebbero uscirne, o cambiarne drasticamente le regole.

Cosa non ha funzionato in Europa. Vale quindi la pena chiedersi che cosa non ha funzionato in Europa (sul fatto che qualcosa non abbia funzionato sono tutti d'accordo), e soprattutto se le colpe dell'Europa siano quelle che di solito le vengono ascritte: l'incapacità di proteggere i confini di terra e di mare, la mancanza di poteri del Parlamento, l'austerity in politica economica. Sul primo punto (la protezione dei confini) credo che le critiche siano sacrosante: l'Europa ha scaricato completamente sui Paesi geograficamente critici (soprattutto Italia, Grecia, Ungheria) l'onere di gestire la pressione migratoria, alimentando in alcuni di essi l'ascesa di movimenti anti-immigrati. Sulla debolezza del Parlamento europeo, ovvero sull'idea che il progetto degli Stati Uniti d'Europa non sia mai veramente decollato, per cui l'Europa avrebbe scelto di diventare un gigante in economia e rimanere un nano in politica, avrei invece qualche dubbio. Se è vero che uno dei fattori che ha soffocato e soffoca le economie del Vecchio continente è stata l'iper-legislazione, ossia la proliferazione di norme, direttive, regolamenti che ostacolano l'attività economica, forse sarebbe il caso di chiedersi se un Parlamento più forte, ovvero più capace di sfornare leggi a getto continuo, non avrebbe aggravato il problema dell'eccesso di regolamentazione; un problema, peraltro, che non è certo nato con la crisi, visto che Giulio Tremonti lo aveva ampiamente analizzato e denunciato in un libro del 2005 (Rischi fatali, Mondadori). Resta il punto più dolente, l'austerità. Qui l'opinione prevalente (in Italia largamente prevalente) è che ne abbiamo avuta troppa, e che la cura sia stata sbagliata, perché avrebbe ammazzato il paziente anziché guarirlo. Su questo vorrei sollevare qualche dubbio. Non per dire che la politica economica imposta ai Paesi europei sia stata quella giusta, ma per notare alcune cose su cui troppo si sorvola. 

Primo. Il debito eccessivo che ha travolto alcuni Paesi europei, e in particolare Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda (i cosiddetti Piigs) nonè stato imposto, o favorito, o incentivato, dalle autorità europee, ma è frutto delle scelte delle classi dirigenti nazionali, che ora pretendono di liberarsi del giogo dell'Europa.

Secondo. La maggior parte dei Paesi europei, compresi quelli dell'area euro, dalla crisi sono ormai usciti da tempo, recuperando i livelli di reddito pre-2008, e in diversi casi persino incrementando il tasso di occupazione. Da questo punto di vista la tesi della "fine del lavoro", per cui le macchine ci starebbero soppiantando e la piena occupazione sarebbe irrimediabilmente un'utopia del passato, appare incompatibile con la storia recente delle economie europee, che è risultata fallimentare in tre soli Paesi: Grecia, Italia, Finlandia.

Terzo. I Paesi europei che meglio sono riusciti a recuperare le posizioni dopo la batosta del 2009-2011 sono quelli che hanno affrontato il problema del debito pubblico più dal lato delle spese che dal lato delle entrate. Visto da questa angolatura, il problema dell'austerità non è se praticarla o non praticarla, ma se praticare l'austerità "buona", che punta sulle riduzioni di spesa per riequilibrare i conti e attenuare la pressione fiscale, o praticare l'austerità "cattiva", che aumenta le tasse senza incidere in modo sostanziale sulla spesa corrente (inutile aggiungere che quel poco di austerità che l'Italia ha praticato, peraltro solo nel 2012-2013, è stata di questo secondo tipo).

L'esempio emblematico dell'Irlanda. Ecco, questo è un punto su cui - a mio parere - l'Europa è stata molto carente. Non perché abbia invitato i Paesi a rimettere in ordine i conti pubblici, ma perché ha cercato di imporre l'equilibrio di bilancio in modo puramente ragionieristico, come se l'importante fosse solo contenere il deficit, e non il modo in cui lo si fa. Emblematico il caso dell'Irlanda, cui nel momento peggiore della crisi le autorità europee tentarono - fortunatamente senza successo - di imporre l'aumento della tassa societaria (la più bassa d'Europa: 12,5 per cento), senza valutare che proprio mantenendola bassa l'Irlanda avrebbe potuto uscire dalla crisi, grazie al flusso di investimenti esteri indotto da un'aliquota così contenuta: in quella circostanza le classi dirigenti nazionali si rivelarono assai più saggee lungimiranti di quelle europee. Forse, più che prendere posizione risolutamente pro o contro l'Europa, questo dovremmo fare nei mesi che ci separano dalle elezioni europee: ripercorrere la storia di questi 40 anni per cercare, in futuro, quantomeno di non ripetere gli errori più gravi. (Articolo pubblicato sul n° 44 di Panorama in edicola dal 18 ottobre con il titolo "Europa, meriti e colpe").

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

Così entrammo nell’Euro, retroscena del miracolo europeista. Antonella Rampino l'8 Dicembre 2019 su Il Dubbio. I dubbi di Monti, lo scetticismo di Bruxelles, le bugie di Aznar, l’aiuto di Chirac. Così entrammo nella moneta unica. Ma perché Mario Monti mise in dubbio che l’Italia ce l’avrebbe fatta a entrare nell’euro?, chiede ( anche un po’ retoricamente) Vincenzo Visco che da ministro delle Finanze lavorò serratamente a fianco di Ciampi durante tutta quella complessa e difficile stagione, mentre Romano Prodi ascolta e se la ride sotto i baffi rio Grilli, che al Tesoro affiancava Mario Draghi anche non ha. Poco più in là Vittoella pattuglia dei più stretti collaboratori di Ciampi, e che in quei mesi si fece scaramanticamente crescere la barba (“me la taglierò solo il giorno in cui ce l’avremo fatta”, disse all’epoca) ammette che sì, l’ipotesi della “gradualità”, l’entrare nell’Unione monetaria solo in un secondo momento, era stata presa in considerazione, fosse solo come possibilità tecnica: lui e Draghi ne discussero con Ciampi ma “dopo il vertice di Valencia e le parole di Aznar fu chiaro che dovevamo tentare tutto e subito”. Qual è la storia, quanti inciampi e possibili trappole dovessero essere disinnescate, dentro e fuori i confini nazionali, per vedere infine realizzato il grande e all’epoca temerario progetto, proprio a partire da Aznar che si premurò di dire via Financial Times che era stata la Spagna a convincere l’Italia -“una balla clamorosa” dice oggi senza mezzi termini Prodi”- lo vedremo più avanti. Ma intanto occorre ricordare che quella domanda, riusciremo a entrare nella moneta unica, e a entrarvi dalla porta principale, nella pattuglia di testa dell’Unione, riusciremo ad essere tra i Paesi che determineranno l’Europa e i nuovi equilibri non solo monetari nel mondo, se la ponevano tutti, in quella primavera- estate del 1996 che sembra lontanissima e invece dispiega i suoi benefici effetti anche oggi. Per Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo che portò per mano l’Italia a rientrare nello SME a quota di cambio 990, attuando un risanamento dei conti pubblici di clamorosa rapidità – precondizione per l’accesso all’eurozona - fu subito chiaro lo scopo nazionale, e si può dire anche patriottico perché si tratta proprio della stessa personalità che trasse la parola dall’oblio della vocaboliera politica: “Si trattava di spezzare il machiavello, il circolo vizioso inflazione- svalutazione- sfiducia, e quindi tassi di interesse elevati, che aveva tenuto l’Italia sull’orlo dell’abisso finanziario”. Si trattava di mettere il Paese al riparo: dove è ancora oggi, tanto che nella crisi dei debiti sovrani iniziata oltre dieci anni fa ci siamo potuti difendere e salvare. Mettere al riparo l’Italia dall’abisso era il rovello di Ciampi, il motivo per il quale accettò di far parte da ministro del Tesoro del primo governo Prodi, dopo esser stato liquidato come presidente del Consiglio dai partiti che lo avevano sostenuto in Parlamento per tutto il 1993 alla stregua di un “governo amico”. Ma il compito che si era dato era, e fu, assai arduo. Nessuno, nella pubblica opinione, e quel che è peggio nei partiti e tra gli opinion leader che anzi ingaggiarono una quotidiana battaglia di scetticismo e anche semplici malevolenze, credeva davvero che l’obiettivo sarebbe stato centrato. Racconta Romano Prodi che “quando, dopo le elezioni del 1996, gli chiesi di diventare ministro ero molto dubbioso che mi dicesse di sì, ma in lui prevalse il senso di patria. Fu però subito molto schietto: accetto solo a due condizioni, avere l’euro come missione, e un ruolo da ministro tecnico, fuori dalle beghe dei partiti e con un rapporto diretto col presidente del Consiglio”. La sfida non era solo di riuscire a raggiungere i parametri di finanza pubblica che il Trattato di Maastricht prescriveva ma anche e soprattutto “entrare nel gruppo di testa, perché in coda il gioco è chiuso” ricorda ancora Prodi: “Non era solo un problema di standing: chi non arriva nel primo round non arriva neanche nel secondo, la gradualità era politicamente impossibile, il sistema si sarebbe chiuso ci dicemmo con Ciampi”. Che è come dire: se non ce la facciamo noi, subito, l’Italia non ce la potrà mai fare. “Blindammo subito la strategia, Ciampi al Tesoro, Vincenzo Visco alle Finanze”. I due infatti come sappiamo viaggeranno di concerto strettissimo, sarà proprio Visco a trovare con la lotta all’evasione fiscale lo strumento per rimettere in sesto i conti, e anche materialmente tra Roma, Bruxelles, Washington, Francoforte, Parigi, Berlino: un sodalizio che diventerà poi una grande amicizia. “Sapevamo che il vero nodo era la tenuta della coalizione di governo, con un deficit al 7,5 per cento. Sapevamo di dover mandare, tra mille polemiche che si sarebbero scatenate, un messaggio forte, come facemmo e ripetutamente, alla pubblica opinione”, continua Prodi. Nelle prime ore dopo l’insediamento del governo “mandammo a Kohl e Chirac una lettera molto chiara: vogliamo scendere subito sotto la soglia del 3%. E ce la facemmo: in meno di un anno arrivammo al 2,7. Il debito pubblico scese dal 127 per cento del Pil a 111, a fine governo arrivò addirittura al 100%…”. La rievocazione di quella stagione gloriosa nella quale una classe dirigente politica altamente competente, consapevole e responsabile riuscì a salvare la pelle a un Paese oberato dalla folle finanza pubblica inaugurata negli anni Ottanta, ad attuare il disegno dell’Italia nell’euro prima di esser rimandati a casa da Bertinotti grazie a un solo voto mancante alla fiducia in Parlamento, e soprattutto prima che Ciampi potesse avviare un vero risanamento del debito pubblico, è stata al centro di una riunione di discussione e studio organizzata dalla Normale – che a Ciampi ha dedicato una sua Scuola, con corso di studi martedì scorso a Palazzo Strozzi a Firenze, nell’ambito di una lunga serie di convegni sulla figura di Ciampi e sui determinanti ruoli istituzionali da lui ricoperti nella sua “vita di corsa” – secondo le sue stesse parole- che come ha anticipato il direttore della Normale Luigi Ambrosio, culminerà ad aprile 2020, nel centenario della nascita. Una discussione straordinaria per la presenza dei protagonisti dell’epoca, e per la libertà del confronto, nella fragorosa assenza di testimoni del mondo dell’informazione. La via della franchezza l’imbocca subito, per l’appunto, Romano Prodi. “L’entrata dell’Italia nell’euro all’estero non era gradita a tutti. Al cruciale vertice di Valencia, Aznar fece il furbo, fece l’hidalgo raccontando al Financial Times che era stata la Spagna a convincere una riottosa Italia”. Non era vero niente, “tutte balle” sbotta Prodi “e la prova sta in un’intervista di Ciampi al Sole 24 Ore, già a gennaio 1996 disse che la volontà era entrare nell’euro e nel gruppo di testa”. ” Aznar era dilagante”, ricorda Mario Monti. Il quale ci mise del suo, dando da Commissario UE alla Concorrenza nel maggio del 1996 un’intervista al Financial Times nella quale metteva in dubbio che l’Italia ce la potesse fare, avanzando pure l’ipotesi che il tentativo potesse sortire l’effetto di un rallentamento complessivo della nascita dell’euro. Il governo italiano – oltre la rabbia fredda di Ciampi- reagì con asprezza, pubblicamente, a cominciare da Prodi. Che al convegno è seduto proprio accanto a Monti, e sorridendo lo ascolta giustificarsi “io volevo solo scuotere l’opinione pubblica… lei, presidente Prodi, fece benissimo a reagire… ho un bellissimo ricordo di quel nostro contrasto, e lei poi mi confermò come Commissario…”. Non fu, come sappiamo, solo Monti a dubitare: pur essendo clamoroso da parte dell’italiano più importante a Bruxelles, lo fece anche, addirittura, dall’altra sponda dell’Oceano Franco Modigliani. E con cadenza da stillicidio sulla prima pagina del Corriere della Sera c’erano sempre Giavazzi e Alesina ad avanzare pirotecniche critiche. Ricomposto pubblicamente il dissidio, pubblicamente Prodi ha chiesto a Monti quale fosse la posizione della Commissione Ue, come corpo collettivo, verso l’Italia, “perché è una cosa che non ho mai capito”. La Commissione, ha risposto Monti, “è stata sempre ambigua: dell’ingresso dell’Italia nell’euro abbiamo discusso solo al momento di prendere la decisione. La posizione di Aznar era dilagante, tutti capivano che la Spagna puntava a rallentare l’Italia, ma siccome anche in Italia c’erano dubbi…”. Il governo, racconta Vincenzo Visco, “prese la decisione di tentare il tutto per tutto a settembre, in una riunione breve e senza dissensi a Palazzo Chigi. C’erano Prodi, il suo sottosegretario Micheli, naturalmente Ciampi ed io, il vicepremier Veltroni e il ministro Treu. Per ragioni politiche e di tempo capimmo subito che non potevamo operare attraverso tagli rilevanti alla spesa pubblica, capimmo che oltre quelle che Ciampi chiamava “misure di tesoreria” – e cioè rimodulazioni contabili di alcune poste di bilancio- ci restava solo lo strumento fiscale. E aumentare le tasse è il “lavoro sporco” del ministro delle Finanze…”. Nasce così a fine dicembre l’eurotassa, che valeva 4.300 miliardi di lire e serviva a ridurre dello 0,6% il disavanzo. E che a sorpresa non solo venne poi effettivamente resa agli italiani, “la prima tassa restituita della storia” come dice il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, ma che gli italiani furono fieri di pagare: come sappiamo dal memoir di Paolo Peluffo, portavoce di Ciampi da Palazzo Chigi al Quirinale, fu commissionato un sondaggio, e il 67% degli italiani erano fortemente convinti dell’ingresso nell’Unione monetaria. Un sondaggio analogo, e anche quello dal risultato inatteso, testimoniava che a differenza dei loro governi i cittadini di Olanda, Francia e Germania erano in larghissima parte favorevoli all’Italia nell’euro: quei dati aiutarono a vincere le resistenze del falco tedesco Starck. Il Cancelliere tedesco Kohl, pur personalmente favorevole, aveva infatti il problema della propria opinione pubblica, e non solo. La sua preoccupazione era se il governo avrebbe retto, e cosa ne sarebbe stato del debito pubblico italiano, “dovete fare i compiti a casa, mi diceva, e del resto lui era così, usava sempre metafore legate ai banchi di scuola…” ricorda Prodi. “Ma i più contrari erano i bavaresi: dovetti parlare molte volte col capo della Cdu Stoiber”. Il segnale politico che ce l’avremmo fatta ad avere il via libera dei grandi paesi europei arrivò dalla Francia. Accade tutto a novembre 1996, al momento dell’ingresso della lira nello Sme, il “serpentone europeo” che fece da ponte all’euro. “Si trattava di contrattare la quotazione. Nelle riunioni alle quali partecipavamo Mario Draghi per il Tesoro e io per la Banca d’Italia si era partiti da quota 920 e si era arrivati a una quota 950 irrinunciabile per la Bundesbank, mentre il mandato che avevamo ricevuto da Palazzo Chigi era 1.000 lire per marco”, racconta Pierluigi Ciocca. Che, al momento decisivo, si rivolge a Prodi e gli sihgerisce di telefonare a Chirac. Cosa che Prodi fa immediatamente: “Non c’è nessuna Europa senza l’Italia, a me il cambio non interessa” gli dice il presidente francese. La Francia voleva l’Italia nella moneta unica, “era fu il segnale che attendevamo”, nota Prodi. I tedeschi accettarono subito quota 990. Chirac, bisogna considerare, era molto irritato per le continue svalutazioni della lira che mettevano in difficoltà il sistema industriale francese, e in vetrina le sue inefficienze. Gli Stati Uniti dubitavano intanto non solo che l’Italia ce la facesse: erano scettici proprio circa una nuova moneta unica europea ( chi scrive ricorda i fondi del Washington Post, “Europei ammalati di vanità monetaria…). “Temetti che potessero farla saltare appena nata” confessa Prodi. “Sarebbe bastata una mossa speculativa, ma invece non accadde: quegli Stati Uniti erano assai diversi da quelli di oggi. Avevano il senso della comune famiglia europea”. Il 2 gennaio 1997 Ciampi comunica al presidente del Consiglio che i conti sono a posto, il deficit è al 2,7 per cento – ben al di sotto del 3. “E avemmo un surplus primario del 6,2 per cento – un record- mentre il Pil crebbe dell’ 1,8” ricorda Vincenzo Visco, che perseguendo evasione ed elusione fiscale di fatto “finanziò” l’ingresso nell’euro con 4,5 punti di Pil, e vi fu infatti in seguito un taglio delle tasse per una equivalente percentuale. “Ma tutto dipese non solo dalla credibilità, dalla coesione e determinazione del governo: senza la determinazione, la caparbietà, l’abilità politica, la serenità anche nei momenti più difficili che aveva Carlo Azeglio Ciampi, non ce l’avremmo mai fatta” ammette Vincenzo Visco. Perché Ciampi contraddiceva a ogni vertice, a ogni incontro, la nomea di incompetenza e inaffidabilità della classe dirigente e politica italiana. E perché era un uomo con una straordinaria capacità di relazioni umane: franco, diretto, aperto e sempre sorridente. L’Italia ce la fece, in extremis ma ci riuscì. Poi, quella formidabile squadra di governo che era riuscita nell’impossibile impresa venne mandata a casa. “Cominciò la caccia alla lepre, e la lepre ero io” ricorda Prodi, “e Ciampi capì subito il gioco che Bertinotti stava facendo”. Furibondo, mentre stava preparando il piano di risanamento in 10 anni del debito pubblico italiano, meditò di dimettersi subito. Resta, oltre all’euro, una grande lezione politica: credibilità, competenza, coesione attorno a un progetto politico forte sono gli unici elementi capaci di resuscitare la fiducia nella politica dei cittadini. E al punto tale da pagare volentieri le tasse.

I primi 20 anni dell'euro: le cose non dette, scrive Roberto Castaldi l'1 gennaio 2018 su L'Espresso. L’Euro è nato il 1 gennaio 1999, esattamente 20 anni fa. Da quel giorno il cambio tra le vecchie monete nazionali e l’euro è divenuto irreversibile, e sui mercati si è potuto scambiare solo euro. I nostri stipendi, conti correnti, mutui da quel momento in poi erano in euro. È importante ricordarlo, perché nell’immaginario collettivo la nascita dell’euro è in realtà spostata avanti di 3 anni, all’avvio della circolazione fisica dell’euro, il 1 gennaio 2002. Ma in quei tre anni c’era già l’euro e circolavano diverse frazioni di esso sotto forma di vecchie banconote e monete nazionali sulla base del cambio divenuto irreversibile. Questa discrepanza tra la realtà della nascita dell’euro e la percezione dell’avvio della moneta unica è foriera di molte incomprensioni rispetto agli ultimi 20 anni. Vorrei celebrare questa ricorrenza mettendo in luce 20 cose spesso dimenticate o non dette sull’euro, sulle sue origini, sul suo significato storico, sui suoi effetti, sui suoi limiti. Alcune positive, alcune meno, ma non per questo meno rilevanti per capire il presente e l’assoluta urgenza di completare l’unione economica e monetaria. È anche un modo per cercare di favorire in Italia l’emergere di una memoria condivisa e di una comprensione adeguata di alcuni dei passaggi storici più importanti della nostra storia recente, rispetto ai quali continuano a imperversare nel dibattito affermazioni prive di senso. L’Euro, come ogni moneta, è un’istituzione. È quindi una creazione eminentemente politica, anche se ha poi un fondamentale utilizzo ed impatto nel campo economico e finanziario. È la creazione di una piena sovranità europea in ambito monetario. Per far funzionare un’unione monetaria è indispensabile anche una qualche forma di condivisione della sovranità economica e fiscale. La soluzione più logica ed efficace sarebbe stata la creazione di un governo europeo dell’economia dotato di poteri fiscali. Ma la Francia si oppose e si scelse quindi la via dei parametri di convergenza, poi il Patto di stabilità e crescita: ovvero di fissare delle regole europee sulle politiche fiscali che avrebbero segnato i confini ed i limiti entro i quali si sarebbe potuta esercitare la sovranità fiscale nazionale, in modo che non mettesse a rischio la moneta unica e quindi i risparmi e i redditi di tutti. L’unione monetaria è stata il completamento di un percorso che è consistito sostanzialmente nella risposta europea a due grandi shock esterni. Il primo fu l’inconvertibilità del Dollaro in oro nel 1971 – che ha reso possibile lo shock petrolifero del 1973 e portato alla finanziarizzazione dell’economia. La risposta europea fu l’avvio della cooperazione e poi dell’integrazione monetaria con l’ECU e poi il Sistema Monetario Europeo. Il secondo fu la caduta dell’URSS e del Muro di Berlino del 1989 e la prospettiva della riunificazione tedesca. Per accettarla gli europei chiesero alla Germania di rinunciare alla propria sovranità monetaria, al marco, che era la moneta dominante in Europa. Infatti, contrariamente a quanto sostengono i no-euro contemporanei, nei due decenni precedenti la nascita dell’euro ogni qualvolta la Bundesbank tedesca cambiava i tassi di interesse, le altre banche centrali nazionali seguivano a ruota. Cioè l’unico Paese davvero sovrano sul piano monetario era la Germania. Politicamente l'euro fu la cessione del Marco all'Europa da parte della Germania al fine di garantire se stessa e gli altri che la Germania riunificata ‎non avrebbe comportato un'Europa tedesca ma una Germania europea. I benefici di una moneta stabile, bassa inflazione e bassi tassi, che erano stati alla base del successo economico tedesco venivano condivisi con gli altri europei. L’euro non è affatto un diabolico disegno egemonico tedesco, ma fu lo strumento europeo per impedire un’egemonia tedesca. E infatti inizialmente con l'euro la Germania divenne "il grande malato" d'Europa. Servirono le riforme di Schroeder per rilanciare la competitività tedesca e la sua economia. Quando nel dicembre del 1997 furono decisi‎ i Paesi ammessi alla terza fase dell'Unione Economica e Monetaria, tra cui l'Italia, i tassi di interesse sui debiti pubblici iniziarono a convergere rapidamente. In pochi mesi il famigerato spread scese di circa 400 punti. In pratica da quel momento abbiamo risparmiato 4 punti percentuali di interessi l’anno sul debito pubblico italiano. Allora il nostro debito era circa il 120% del PIL, quindi il risparmio era di circa il 4,8% del PIL all'anno. Bastava mantenere le tasse e le spese com'erano, senza fare nulla, senza rigore o austerity, e il debito sarebbe sceso di circa 5 punti percentuali l'anno. E' ciò che ha fatto il Belgio: entrato nell'euro con un debito del 120% del PIL nel 1997, allo vigilia della crisi nel 2007 l'aveva ridotto all'87%. Tale beneficio fu immediatamente evidente agli italiani: il governo Prodi dapprima fu costretto a imporre la “Tassa per l’Europa” per centrare il parametro del deficit e entrare nella moneta unica, e l’anno successivo la restituì all’80%! Com’era possibile che un anno lo Stato italiano fosse messo talmente male da dover imporre una tassa straordinaria e l’anno dopo fosse invece nelle condizioni non solo di non ripetere tale tassa, ma addirittura da restituirne l’80%? Grazie al primo “dividendo” dell’euro, ovvero la riduzione del costo del servizio del debito pubblico, cioè la discesa dei tassi di interesse. I tassi bassi favorirono un boom degli investimenti intra-europei e portarono crescita e occupazione. Per la prima volta dopo 30 anni nei primi 10 anni dell'Euro il mercato europeo ha prodotto più posti di lavoro di quello americano. Inoltre i tassi bassi e la moneta stabile hanno permesso a moltissimi italiani - in precedenza abituati a tassi di interesse molto più elevati - di acquistare casa‎ grazie a mutui improvvisamente molto più convenienti e stabili che in passato. Purtroppo per l'Italia la manna dei tassi bassi fu usata dal centro-destra per aumentare la spesa corrente azzerando l'avanzo primario. Questa prassi si è manifestata costantemente durante tutti i governi Berlusconi dal 1994 al 2011. Così è toccato sempre al centro-sinistra nei brevi periodi al governo di dover risanare i bilanci pubblici per evitare contraccolpi sui mercati. Straordinari al ‎riguardo i disastri provocati dall'ultimo governo di centro-destra durante la crisi. Con il secondo governo Prodi il debito era sceso al 104% e lo spread a 34 punti! In pratica l'Italia pagava di interessi sul debito solo lo 0,34% in più della Germania, che aveva un debito molto più basso. In tre anni di centro-destra al governo, con la maggioranza più ampia della storia della Repubblica e in grado di legiferare come voleva, il debito è risalito al 116% e lo spread a 565, cioè pagavamo 5,65% più della Germania di interessi sul debito: un’enormità. Che ci ha portato a rischio default. Il centro-destra non ha voluto prendersi la responsabilità delle misure di risanamento necessarie e Berlusconi preferì dimettersi lasciando l'ingrato compito al Governo Monti. Monti non solo dovette approvare di corsa una serie di misure lacrime e sangue, per sistemare i conti, ma fu anche costretto a cambiarle in corso d'opera a danno dei ceti popolari, per poter avere il voto in Parlamento del Popolo delle Libertà, il gruppo più numeroso a sostegno del suo governo. Anche se oggi alcuni nel centro-destra fingono di esser stati all’opposizione invece che al governo nella legislatura 2008-2013. Dal punto di vista‎ economico un mercato unico e una moneta unica obbligavano a competere attraverso l'efficienza dei sistemi-Paesi e l'innovazione di prodotto e di processo. Obbligava alla competizione verso l'alto, invece che verso il basso sul costo del lavoro. Perché veniva meno la scorciatoia della svalutazione, che avvantaggia pochi esportatori e impoverisce tutti i cittadini e i risparmiatori. Ecco perché l'attenzione e il dibattito si sono spostati‎ sulle riforme strutturali. L'adesione all'euro permetteva all'Italia - e agli altri Paesi - di competere su un piano di parità. Era l'iscrizione alla gara e ora bisognava iniziare a correre, come inutilmente predicò Ciampi dal Quirinale. Ma nel centro-destra e in gran parte del Paese l’ingresso nella moneta unica fu percepito come l'aver vinto la gara. E ci sedemmo, stanchi e soddisfatti, cogliendo i primi frutti dell'euro: i vantaggi dei tassi bassi di cui ho detto prima. Oggi paghiamo i costi della miopia della classe dirigente italiana di‎ allora con una competitività decrescente e la crisi economica. È un mito che il problema dell'adesione italiana all'Euro‎ sia stata una inadeguata negoziazione del tasso di cambio tra la lira e l'euro alla sua nascita il 1 gennaio del 1999. In realtà per tutte le monete fu utilizzato lo stesso criterio: la media del cambio dei 3 anni precedenti. Ogni polemica su questo è pretestuosa. È una clamorosa bugia che l'aumento dei prezzi seguito all'avvio della circolazione fisica dell'euro, il 1 gennaio del 2002, sia dovuto al cambio o alla moneta unica in sé. Infatti tale aumento non si verificò nella stessa misura in altri Paesi. Il problema fu che il cambio non venne osservato. Questo fu dovuto ad una scelta politica ben precisa del centro-destra, che avendo vinto le elezioni del 2001 tra i suoi primi atti al governo abolì l'obbligo del doppio prezzo per sei mesi e gli osservatori sul change over (il passaggio della circolazione fisica dalla Lira all’Euro) che erano già stati creati presso tutte le province. Il centro-destra smantellò deliberatamente gli strumenti di controllo già predisposti dai governi precedenti, ovvero da Ciampi e Letta, scegliendo di non applicare le indicazioni dell'Unione Europea rispetto alla gestione del change over. In pratica Forza Italia, Lega e Alleanza Nazionale decisero di usare il change over per realizzare una massiccia redistribuzione del reddito nazionale dai percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati) a favore di tutti coloro che potevamo cambiare liberamente i propri prezzi e tariffe, ovvero commercianti‎, categorie produttive, partite iva, che consideravano la loro base elettorale. Che proprio le forze del centro-destra ora attacchino l'euro e gli attribuiscano l'aumento dei prezzi è davvero paradossale. È bene che gli italiani sappiano chi devono ringraziare per l'erosione del loro potere d'acquisto. La percezione sociale dell'euro fu anche vittima di una sfortunata concomitanza. L'avvio della circolazione fisica dell'euro il 1 gennaio 2002 è infatti avvenuta nel pieno dell'impennata del prezzo del petrolio dopo l'attacco alle Torri gemelle dell'11 settembre 2001. Il greggio aumentò progressivamente da 18 fino a 144 dollari al barile, per poi stabilizzarsi per un po’ intorno ai 100 dollari e attualmente intorno ai 70 (sempre più di 3 volte il prezzo prima dell’11 settembre). Ovviamente ciò ha comportato un aumento dei costi di produzione e trasporto e quindi dei prezzi di tutti i beni. Eppure non abbiamo l'espressione "shock petrolifero" per indicare questo periodo. Perché il petrolio si paga in dollari. Alla nascita l'euro valeva 1,16 dollari. E all’inizio si è progressivamente svalutato, favorendo le esportazioni europee, fino ad un minimo intorno a 0,70 dollari. Ma quando il greggio ha iniziato a salire, l’euro si è apprezzato, fino a 1,45 dollari, cioè praticamente raddoppiando il suo valore e assorbendo buona parte dello shock petrolifero. In sostanza l'euro ci ha salvato dallo shock petrolifero, ma ne è rimasto vittima nella percezione sociale a causa della concomitanza tra l’avvio della circolazione fisica dell’euro e l’avvio della fase di aumento del prezzo del petrolio. Dopo la firma del Trattato di Maastricht le maggiori critiche all’architettura dell’unione monetaria furono quelle dei federalisti, che sostenevano l’insostenibilità di un’unione monetaria senza un’unione economica, fiscale e politica. All’epoca vi era un grande consenso su questo. In una serie di dibattiti promossi dall’Istituto degli Affari Economici di Londra l’euroscettico conservatore Portillo ammetteva che la moneta unica avrebbe permesso un miglior funzionamento del mercato unico, ma lui era comunque contrario perché avrebbe portato inevitabilmente all’unione politica, che lui aborriva. Mentre l’economista europeista tedesco Issing (poi membro del Board della Banca Centrale Europea) sosteneva che certo l’unione monetaria disegnata a Maastricht era incompleta e non avrebbe potuto funzionare nel lungo periodo, ma lui era comunque favorevole, perché avrebbe costretto a completare l’unione economica e politica. Paradossalmente, contro tutte queste previsioni, i primi 10 anni dell’euro sono stati un grande successo e ciò ha fatto perdere quella consapevolezza. Di fronte alla crisi finanziaria del 2008 i limiti dell’architettura di Maastricht sono emersi nuovamente. L’assenza di una capacità fiscale europea, e quindi di strumenti per la stabilizzazione macro-economica, per affrontare crisi asimmetriche, e per mettere in campo una politica economica anti-crisi sono divenute evidenti. E la convergenza economica si è deteriorata. Tutti sanno cosa serve. Il Blueprint della Commissione del 2011, il Rapporto dei Quattro Presidenti delle istituzioni europee del 2012, quello dei Cinque Presidenti (includendo stavolta anche il Parlamento europeo) del 2015, e le successive proposte della Commissione Juncker mettono in chiaro che senza l’unione bancaria, fiscale, economica e politica la moneta unica nel lungo periodo non può funzionare. Ciò che manca è la volontà politica, la leadership politica a livello europeo. Ciò non significa che non siano stati fatti passi avanti, con la creazione di alcuni strumenti per affrontare le crisi, come l’unione bancaria, il rafforzamento delle competenze e dei poteri della BCE sulle banche sistemiche, il Meccanismo Europeo di Stabilità, e il recente accordo per utilizzarlo come backstop del Fondo di Risoluzione dell’unione bancaria. Così come il Fiscal Compact e il semestre europeo abbiano rafforzato il coordinamento delle politiche fiscali nazionali a livello europeo. Ma i passi compiuti non sono sufficienti. E non sono stati nemmeno comunicati e spiegati adeguatamente all’opinione pubblica. Almeno c’è stato un cambio negli orientamenti di politica economica. La prima reazione alla crisi del 2008 è stata la politica di austerità, anche perché non esistendo strumenti d’azione a livello europeo era l’unica su cui ci si potesse facilmente accordare. Dal 2014 in poi il focus è diventato invece la crescita, grazie alla Commissione Juncker con la sua Comunicazione sulla flessibilità, che reinterpretava il Patto di stabilità e crescita, e con il Piano Juncker, ovvero il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici, che doveva mobilitare 315 miliardi entro la fine della legislatura e ne ha già mobilitati oltre 350, di cui 50 in Italia. Un grande successo e il principale motore di investimenti nell’UE, nonostante il bilancio dell’Unione sia appena lo 0,9% del PIL.

In ogni caso è importante rendersi conto che tutti i Paesi che hanno chiesto un sostegno finanziario dall’UE – Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia e Cipro - e che si sono impegnati nelle riforme strutturali, oggi crescono a ritmi elevati e sono tornati autonomi sui mercati finanziari. Tranne la Grecia che ci ha messo molti anni, tutti gli altri sono usciti rapidamente dal programma di aiuti e oggi crescono molto più dell’Italia. Chi dice che le politiche europee hanno fallito mente. Il problema è che l’Italia ha preferito non chiedere il sostegno finanziario dell’Unione per non doversi impegnare ad una serie di riforme strutturali, magari impopolari inizialmente, ma in grado di rilanciare la produttività e la competitività del Paese. Il triste risultato è sotto gli occhi di tutti. Il fatto che manchi una consapevolezza diffusa di tutto ciò è drammatico. Ed è parte della mancata comprensione del significato storico dell'euro dal punto di vista politico ed economico. Se ci si rendesse conto di tutte queste cose, non avremmo surreali discussioni su un'eventuale uscita dall’euro o dall’UE, che sono possibili solo se non se ne comprendono bene le conseguenze. E nonostante le immagini dei pensionati greci in lacrime - impossibilitati a ritirare i propri soldi dalle banche quando c’è stato il rischio di un’uscita della Grecia - dovrebbero essere ancora fresche nella mente di tutti. Dovremmo invece concentrarci sul completare l’unione economica e monetaria, affiancando alla moneta unica e alla Banca Centrale Europea un governo federale dell'economia con un bilancio e un Tesoro europeo adeguati. Aldilà delle responsabilità della classe dirigente italiana, il nodo vero da cui dipende una ripresa stabile e duratura degli investimenti e dell'occupazione è la creazione di bilancio europeo fondato su risorse proprie in grado di promuovere investimenti, politiche di stabilizzazione macro-economica e solidarietà. Queste sono le riforme su cui dovrebbe vertere il dibattito in vista delle elezioni europee, che saranno il momento decisivo in cui gli europei potranno scegliere con il loro voto se dare un mandato a rafforzare l’Unione completando l’unione economia e monetaria, o se rafforzare chi vuole indebolire l’Unione e ritornare alle sovranità nazionali ottocentesche.

L’euro ha 20 anni. Dalla nascita alla Grexit Luci e ombre della moneta unica. Il 1° gennaio 1999 l’euro diventa la moneta ufficiale per 11 Paesi. Ora l’hanno adottata 19 Stati sui 28 della Ue. Le eccezioni di Gran Bretagna, Danimarca e Svezia. La fine della banconota da 500. L’euro forte freno all’export, scrive Francesca Basso il 29 dicembre 2018 su "Il Corriere della Sera". 

Il sogno della moneta unica. L’euro è stato lanciato il 1 gennaio 1999, inizialmente solo per le transazioni contabili e finanziarie. All’epoca l’Unione europea era composta da 15 Stati (attualmente sono 28 e quando Londra uscirà saranno 27). Nei tre anni successivi rimane una moneta «virtuale», usata principalmente dalle banche e dai mercati finanziari. Solo dal 1° gennaio 2002 entra in circolazione: le nuove banconote mandano in soffitta la lira, il marco, il franco e le altre monete nazionali. L’euro nasce con l’obiettivo di essere la moneta dell’Unione europea e infatti viene adottata da undici Paesi su quindici allora membri della Ue: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna. La Grecia adotterà l’euro il 1° gennaio 2001: è il dodicesimo Paese. Con gli anni la Ue si allarga e aumenta anche il numero degli Stati che entrano nell’eurozona. Ma per poter far parte del club dell’euro è necessario rispettare una serie di parametri economici: attualmente sono solo 19 i Paesi membri che usano l’euro. La Slovenia adotta la moneta unica nel 2007, nel 2008 è la volta di Cipro e Malta, l’anno dopo della Slovacchia, nel 2011 dell’Estonia, nel 2014 della Lettonia. L’ultimo Paese a entrare nell’eurozona è la Lituania, che fa il suo ingresso il primo gennaio del 2015. Un gruppo di «uomini ragno» scioglie alla presenza di Wim Duisenberg, presidente della Banca centrale europea, il nastro azzurro che ricopriva le sette banconote giganti poste sull’edificio sede della Bce a Francoforte: è la fine di agosto del 2001 e cominciamo i preparativi per l’entrata in circolazione della nuova moneta.

Il tasso di cambio, 1 euro vale 1.936,27 lire. Il 31 dicembre 1998, alla vigilia del debutto dell’euro, i tassi di cambio definitivi sono resi noti dalla nuova Banca centrale europea: un euro varrà 1.936,27 lire italiane, 1,95583 marchi tedeschi, 6,55957 franchi. Migliaia di funzionari nelle banche e nelle Borse di tutta Europa restano al lavoro nelle vacanze di Natale e di Capodanno per assicurarsi che tutto sia pronto quando i mercati finanziari riapriranno il 4 gennaio. I negozi si preparano a esporre i prezzi in due valute. Il 1 gennaio 1999 l’euro diventa la moneta ufficiale per 291 milioni di persone. La nuova valuta può essere utilizzata per i bonifici bancari e per i pagamenti tramite assegno e carta di credito. Lunedì 4 gennaio 1999 è il battesimo dell’euro sui mercati dei cambi. Un euro inizialmente scambia per più di 1,18 dollari, ma poche settimane dopo scivola a meno di un dollaro e alla fine di ottobre raggiunge il livello più basso di sempre, a 0,8230 dollari.

Le eccezioni di Gran Bretagna, Svezia e Danimarca. La Gran Bretagna non ha mai abbandonato la sterlina. Negoziò infatti una «deroga» (opt-out) dal Trattato di Maastricht che ha consentito a Londra di non adottare l’euro. Anche la Danimarca ha esercitato un’opt-out affidando la decisione se adottare o meno la moneta unica a un referendum: il 28 settembre del 2000 i danesi decisero di mantenere la corona. Anche la Svezia, con un referendum nel 2003, si unisce alla Danimarca e alla Gran Bretagna nel respingere la moneta unica. Invece per Andorra, Monaco, San Marino e la Città del Vaticano l’euro è la moneta ufficiale, ma viene utilizzata anche in Guadalupe, Martinica e Saint-Barthelemy nei Caraibi, a Mayotte e Reunion nell’Oceano Indiano, e nelle Azzorre, Canarie, Madeira, Kosovo e Montenegro.

Cambio record sul dollaro nel 2008. L’euro è la valuta internazionale più importante dopo il dollaro. Il cambio si attesta inizialmente a 1,18. Ma il rapporto tra la divisa unica e il biglietto verde subisce numerose oscillazioni: toccherà un minimo di 0,83 nel 2001 e un massimo record di 1,60 il 15 luglio 2008. Gli Stati Uniti sono scossi dalla crisi dei mutui subprime. La Grande Crisi è alle porte e colpirà entrambe le sponde dell’Atlantico. A novembre l’Eurozona entra in recessione.

Il caso Atene e il rischio Grexit. Atene entra a far parte del club dell’euro solo dal 1° gennaio del 2001 e non dal 1999 come gli altri undici Paesi: non aveva i parametri di budget a posto. Di fatto la Grecia non li ha mai avuti. Nel novembre del 2009 l’allora primo ministro ellenico, George Papandreou, confessò pubblicamente che i bilanci economici inviati dai precedenti governi greci all’Unione europea erano stati falsificati con l’obiettivo di garantire l’ingresso della Grecia nella zona euro. È l’inizio della crisi greca, che nel 2015 ha avuto il suo picco con il rischio Grexit, ovvero l’uscita di Atene dall’euro scongiurata in extremis da un accordo tra i creditori internazionali rappresentati da Ue, Bce, Fondo monetario internazionale e il governo di Atene. Nell’agosto scorso la Grecia è uscita dal terzo programma di salvataggio.

Crisi del debito, Draghi «salva» l’euro. Il 2010 vede esplodere il problema dei debiti sovrani in Europa che rischiano di mandare in pezzi l’eurozona. A maggio l’Ue e il Fondo monetario internazionale intervengono con un salvataggio da 110 miliardi di euro per la Grecia, che si impegna in un severo piano di austerità. Un mese dopo l’euro precipita sotto 1,20 dollari. A novembre anche l’Irlanda, le cui banche sono soffocati dai debiti, ottiene un piano di salvataggio Ue-Fmi da 85 miliardi di euro. Il Portogallo riceve analoghi aiuti, per 78 miliardi di euro, nel maggio 2011. Il 25 luglio 2012 il tasso di interesse dei titoli di Stato della Spagna sale al 7,6%, scatenando il timore di un crollo dell’euro. Il giorno dopo a Londra il presidente della Bce Mario Draghi promette: «Nei limiti del nostro mandato, la Bce è pronta a fare qualsiasi cosa per salvare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza» («Within our mandate, the Ecb is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough»). Nel mese di agosto del 2012, in una sola settimana, la Bce riacquista obbligazioni di Paesi della zona euro per 22 miliardi, sostenendo soprattutto l’Italia e la Spagna. In ottobre l’Ue decide di cancellare una parte del debito greco ed estendere una nuova serie di prestiti.

Il Quantitative easing. A maggio 2014 la moneta unica torna a salire e raggiunge quota 1,40 dollari, frenando le esportazioni europee. La Ue è ancora in crisi, l’inflazione non riparte e c’è un rischio deflazione. La Bce mette in campo strumenti di politica monetaria non convenzionale, prima con gli Ltro e poi da marzo 2015 con il Quantitative Easing (acquisto di titoli di Stato e di obbligazioni). L’euro crolla nel giro di pochi mesi a 1,05 dollari. Le iniezioni della Bce diminuiscono nel tempo. La Bce dal primo gennaio 2019 la Bce terminerà il Qe, con il quale ha accumulato 2.600 miliardi di titoli del debito pubblico e di corporate bond.

Le banconote in circolazione, addio al taglio da 500 euro. L’euro è amministrato dalla Banca centrale europea e dal Sistema europeo delle banche centrali. La Bce è responsabile unico delle politiche monetarie comuni, mentre coopera con il Sistema delle banche entrali per quanto riguarda il conio e la distribuzione di banconote e monete negli Stati membri. Dal 2002 sono in circolazione monete bimetalliche da 1 e 2 euro, monete di colore rame ma di acciaio ricoperto di rame da 1, 2 e 5 centesimi. La Finlandia ha deciso di non produrre e di non far circolare le monete da 1 e 2 centesimi. Dal 2004 anche i Paesi Bassi non le producono più. Ci sono poi le monete da 10, 20 e 50 centesimi in oro nordico. Le monete hanno un lato comune a tutti i Paesi che hanno adottato l’euro e un lato con un effigie decisa dal singolo Stato. Le banconote da 5, 10, 20, 100, 200 e 500 euro sono invece uguali in tutta l’eurozona. Nel maggio 2016 la Bce ha deciso di sospendere la produzione della banconota da 500 euro. «A partire dal 27 gennaio 2019 — si legge in un comunicato della Bce — le banche centrali dell’area euro cesseranno di emettere le banconote da 500 euro» ma manterranno sempre il loro valore e potranno essere cambiate presso le banche centrali dell’Eurosistema per un periodo illimitato. La Bce ritiene che «l’uso di questa banconota possa facilitare attività illegali e di riciclaggio».

L’euro causa di tutti i mali. Il passaggio dalla lira all’euro ha innescato una serie di polemiche, dal cambio (1 euro per 1936,27 lire) giudicato da diversi analisti troppo oneroso per l’Italia all’aumento del costo della vita, legato ai controlli non sufficienti quando sono stati adeguati i prezzi (in Germania non è successo). L’euro resta il bersaglio facile di populisti e sovranisti, che incolpano la moneta unica di molti degli effetti della crisi economica che ha messo a dura prova l’Italia e l’Europa negli anni passati: rimpiangono la possibilità di svalutare la moneta per guadagnare in competitività (dimenticandosi però che così il potere d’acquisto delle famiglie crolla). Comunque, l’euro piace agli italiani: secondo l’Eurobarometro di ottobre, il 65% degli italiani è favorevole alla moneta unica.

L'euro e il tasso di cambio drogato, così la Germania si è arricchita a spese nostre, scrive l'1 Gennaio 2019 Michele Zaccardi su "Libero Quotidiano". Se c'è un Paese che si è avvantaggiato dall'euro questo è la Germania. Basta un dato a confermare questa ricostruzione: l'andamento della bilancia commerciale tedesca, cioè la differenza tra esportazioni e importazioni. A partire dall'adozione dell'euro, questa differenza esplode a favore della Germania. Dopo dieci anni consecutivi in deficit nel 2002 la bilancia commerciale torna in territorio positivo all'1,9% del Pil. Da allora non c'è stato anno nel quale la Germania abbia frenato la sua corsa alla conquista dei mercati mondiali.

Locomotiva tedesca - L'economia tedesca da sempre è fortemente orientata all' export. E da sempre registra saldi positivi negli scambi con l'estero. Tuttavia, con l'introduzione dell'euro, quella che era una situazione fisiologica è diventata patologica. Prima del varo della moneta unica, infatti, succedeva una cosa molto semplice: più la Germania vendeva beni all'estero più la sua moneta si apprezzava, acquistava valore. Per comprare una Mercedes, ad esempio, un cittadino spagnolo doveva procurarsi i marchi per pagarla. E più ne acquistava meno ce n'erano in circolazione, con la conseguenza che il valore del marco cresceva. Il contrario accade alla moneta di un Paese che importa troppo: si svaluta. Ora, prima dell'euro il mercato riportava in equilibrio i prezzi delle valute: il marco si apprezzava, i beni tedeschi diventavano meno convenienti e la gente smetteva di acquistarli. Poi, con la moneta unica, questo meccanismo fu bloccato. L'euro, dunque, non fu fatto per impedire all'Italia di svalutare, ma per impedire alla Germania di rivalutare. Non sorprende allora il fatto che proprio dal 2002 i conti esteri di Berlino continuino a ingrassare. E non può essere un caso che nei 16 anni che precedono la nascita dell'euro, dall' 86 al 2001, le partite correnti tedesche, la differenza tra beni e servizi comprati e venduti all'estero, abbiano accumulato un deficit di quasi 15 miliardi di dollari. Mentre l'Italia registrava un avanzo di 69 miliardi. Se si confrontano questi risultati con quelli dei sedici anni successivi all'ingresso nell'euro, non il saldo con l'estero italiano è in negativo di 160 miliardi, ma soprattutto la situazione appare fuori controllo. La Germania, infatti, in questo lasso di tempo ha incamerato dagli altri Paesi, quelli con cui commercia, un avanzo di 3.256 miliardi di dollari, 3mila miliardi di euro.

Il problema dell'eurozona sta tutto qui: il Paese più prospero in realtà campa sulle spalle degli altri. La crescita del reddito in Germania è stata sostenuta dal denaro dei Paesi europei meno floridi. Fino al 2010, a rimorchiare il vagone tedesco ci hanno pensato i Pigs, acronimo di Portogallo, Italia, Grecia, Spagna. O meglio i loro cittadini che, finanziati dalle banche tedesche, acquistavano beni prodotti in Germania. Poi, tra il 2010 e il 2012, il giochino si è inceppato, gli istituti di credito hanno smesso di prestare denaro fuori dai confini nazionali ed è scoppiata la crisi.

Mercantilismo - La Germania ha adottato un modello di sviluppo che gli economisti chiamano mercantilismo: i salari sono tenuti a bada e con essi l'inflazione, in modo da essere sempre più competitivi e vivere sulle spalle degli altri. Un modello che non può essere adottato da tutti, a meno che non si riesca a vendere su Marte, o su un altro pianeta. Insomma, ci deve essere sempre qualche Paese che accetta di utilizzare le proprie risorse per sostenere l'offerta di beni prodotti dall'industria tedesca. Purtroppo, questo modello, adottato dall' Unione europea, è intrinsecamente fragile. Maggiore infatti il peso del settore estero, maggiore è l'esposizione ai venti internazionali. Se si esporta molto in un certo Paese, si finisce per dipendere da quello che succede lì: se questo va in crisi il Paese esportatore finisce nei guai. È il mercantilismo bellezza. Lo sviluppo delle economie europee in questa direzione è chiaro se si guarda all' incidenza dell'export sul Pil. Più è alto il rapporto più si dipende dall' estero. Così se nell' 86 l'export contava per il 18,7% del prodotto italiano e per il 21,3 di quello tedesco, nel 2017 la percentuale è salita al 31,3% e al 47,2%, rispettivamente. Quasi la metà del reddito che si produce in Germania viene dall' estero. Il surplus tedesco, nel 2017 si è attestato a 297 miliardi di dollari. Quasi il doppio di quello cinese, nonostante l'economia di Pechino sia grande quattro volte quella della Germania.

Costi dell'euro. Se la moneta unica ha fatto così bene alla Germania, altrettanto non si può dire per l'Italia. In particolare se si guarda all' export. Tra l'85 e il 2001 le esportazioni italiane sono cresciute a una media annua del 7,9%, poco meno di quelle tedesche (+9,4%). Dopo, l'Italia langue, con un +2,2% di media tra il 2002 e il 2017. Di contro la Germania veleggia su un sempre più inarrivabile +6,7%. Ma non solo. Osservando i dati dall'86 al 2016 sul commercio tra Germania e Italia si vede chiaramente come, con l'introduzione dell'euro, il saldo peggiori a favore dei tedeschi. Nei 15 anni precedenti l'adozione della moneta unica, la differenza tra export e import nei confronti di Berlino è negativa per 69 miliardi di dollari. Nei quindici anni successivi addirittura di 227 miliardi. Insomma, una massa crescente di denaro lascia l'Italia e si dirige in Germania a causa di un tasso di cambio drogato: troppo debole per i tedeschi e troppo forte per noi. Michele Zaccardi

Euro, il divorzio da Bankitalia di Carlo Azeglio Ciampi: primo passo verso il baratro per il nostro Paese, scrive l'1 Gennaio 2019 Michele Zaccardi su "Libero Quotidiano". L'ennesimo monito della Banca centrale europea all'Italia a ridurre il debito, è arrivato pochi giorni fa. Il peso che l'Italia si porta sul groppone è grande, ma le ricette seguite negli ultimi anni non hanno fatto altro che aumentarlo. Il debito pubblico, ora al 131,8% del reddito nazionale, nel 2007 era al 99,8%. È evidente che qualcosa è andato storto. Le misure di austerità adottate, cioè tagli alla spesa e aumenti delle tasse, sono state basate sul presupposto che l'Italia fosse un Paese di scialacquatori, in particolare durante gli anni '80. La voragine nei conti si apre infatti in quel decennio, col raddoppio del peso del debito in rapporto al Pil. La vulgata vuole che la crescita del debito pubblico sia insomma colpa di una gestione allegra delle finanze dello Stato, portata avanti da un ceto politico parassitario e corrotto. Per mantenere il consenso e talvolta per ingrassare delle vere e proprie clientele, le classi politiche della Prima Repubblica avrebbero elargito laute prebende. Una mangiatoia alla quale si sarebbero abbuffate le grandi consorterie nazionali: industriali, politici, finanzieri e sfaticati che vivevano di false pensioni di invalidità e assistenzialismo. Ecco, questa vulgata, in parte vera, non tiene conto del dato storico. Che vede il debito esplodere a partire dal 1981, dal famoso divorzio tra Ministero del Tesoroe Banca d'Italia. Fino al 1980 il debito pubblico si mantenne basso in rapporto al Prodotto interno lordo. Poi, dall'81 inizia una salita vertiginosa che lo porterà dal 56,1% al 121,8% nel '94.

La voragine. E questa non può essere una coincidenza, a meno che non si creda che i politici siano diventati tutti ladri dopo quella data. Nel marzo dell'81 il ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, e il governatore della Banca d' Italia, Carlo Azeglio Ciampi, si mettono d'accordo per rendere indipendente dal governo l'istituto di emissione. Prima della separazione, infatti, Palazzo Koch era obbligato ad acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti. In questo modo il governo riusciva a finanziarsi al prezzo che voleva: se un'asta di titoli di stato andava deserta perché gli investitori ritenevano il rendimento offerto troppo basso, interveniva Bankitalia. Certo, non era tutto rosa e fiori, ma un merito il matrimonio ce l'aveva: permettere al governo di fare politiche di redistribuzione e investimenti pubblici senza preoccuparsi troppo dei vincoli di bilancio. E senza aumentare il debito pubblico.

Il problema inflazione. A partire dalla fine degli anni '70 la spirale inflattiva che travolse le economie occidentali, causata dai due shock petroliferi del '73 e del '79, spinse politici ed economisti a cercare strategie alternative per bloccare l'aumento vertiginoso dei prezzi. La soluzione che si trovò fu quella di impedire che venisse stampato troppo denaro. Così, in quasi tutto il mondo, le banche centrali diventarono autonome dai governi, e lo stesso avvenne in Italia. Il ragionamento era che per ridurre la rincorsa dei prezzi, gli istituti di emissione non dovevano mostrarsi proni alle richieste dei governi. Insomma, le Banche centrali dovevano essere percepite come credibili dai mercati. Fino a quando i politici al potere avrebbero potuto farsi dare il denaro che gli occorreva con una semplice telefonata ai banchieri centrali, questi ultimi non avrebbero avuto credibilità, e così le loro decisioni. Per trionfare sull'inflazione bisognava separare chi ha il potere di creare denaro da chi lo amministra. L' Italia si mise in scia delle altre economie avanzate. L' inflazione, che scese dal 10,8% dell'84 al 5,8 dell'86 (dati Ocse), fu infine domata. Ma la scelta ebbe ripercussioni violentissime sulle finanze pubbliche. Senza un acquirente di ultima istanza, infatti, lo Stato si mise nelle mani dei mercati. E l'Italia, per finanziarsi, fu costretta ad offrire rendimenti sempre più alti. Il debito nei quattordici anni dal 1980 al 1994 decuplicò, da 114 a oltre 1000 miliardi di euro. Serpente monetario - Sempre in quegli anni, in realtà un po' prima, nel '79, l'Italia entrò nel Sistema monetario europeo, un accordo di cambio fisso con altri Stati del vecchio continente. Una riedizione del "Serpente monetario europeo", naufragato qualche anno prima con l'uscita di Regno Unito e Irlanda, seguiti nel '73 dall' Italia e nel '74 dalla Francia. Nel nuovo sistema ad ogni moneta era attribuito un peso a seconda della sua solidità. Chiaramente la lira valeva di meno del marco, a causa del divario tra le due economie. Le valute orbitavano attorno a una parità centrale, l'Ecu, il cui valore era la media tra tutte le monete europee. I Paesi dovevano impegnarsi a contenere le oscillazioni entro un certo margine, anch'esso stabilito di comune accordo (per l'Italia era il 6% in più o in meno sull' Ecu). Per far questo le banche centrali intervenivano comprando valuta nazionale se questa era troppo debole o vendendola se troppo forte. Il problema era che le decisioni di fatto erano prese a Berlino: se la Germania decideva di aumentare i tassi di interesse tutti gli altri dovevano accodarsi. Altrimenti i capitali sarebbero andati in terra tedesca, dove davano più interessi. In questo modo l'Italia fu costretta ad offrire rendimenti sempre più alti sul proprio debito. Di conseguenza la spesa per interessi aumentò, toccando il suo massimo nel '90, quando lo Stato fu costretto a sborsare ai suoi creditori più dell'11% del Pil. Questi due eventi, divorzio tra Tesoro e Bankitalia e ingresso nello Sme, fecero esplodere il debito pubblico a causa dei costi crescenti che lo Stato doveva sostenere per finanziarsi. Infatti, se fino alla fine degli anni '70, i tassi reali, quindi depurati dall' inflazione, furono negativi, dopo non fu più così. Durante quel decennio i tassi di lungo periodo crebbero dal 7,7% al 14,7% del '77, rendimenti che però furono ampiamente neutralizzati da un aumento dei prezzi a doppia cifra. Basta dare un occhiata ai dati del Fondo monetario internazionale sui rendimenti dei titoli di Stato. Negli anni '80 questi si mantennero largamente sopra il 10%, con un picco del 20% nel 1982. Il costo del debito iniziò a ridursi solo nel '93, per poi scendere al 9,4% nel '96.

Miliardi bruciati - Alcune decisioni prese da quelli che diventeranno i protagonisti della Seconda repubblica contribuirono poi a rendere la situazione insostenibile. Tra questi il governatore della Banca d'Italia e futuro capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi. Dominus di Palazzo Koch dal '79 al '93, Ciampi decise nel '90 di ridurre i margini di manovra della lira: se prima la moneta italiana doveva mantenersi entro una forchetta del 6% rispetto all'Ecu, dopo l'oscillazione fu limitata al 2,5%. Per l'Italia sarebbe stato sempre più difficile rimanere nello Sme. Un sistema così strutturato non poteva reggere. E infatti crollò. Il serpente monetario morì sotto i colpi inferti dalla speculazione finanziaria. Il 16 settembre di quell' anno, il Regno Unito, piegato dalle scommesse miliardarie del finanziere George Soros, uscì dallo Sme. Il giorno dopo la stessa decisione fu presa dal governo italiano, guidato dal premier Giuliano Amato. La lira si svalutò di circa il 25-30% sul marco tedesco e l'Italia si liberò da quella che sembrava sempre di più come una camicia di forza. Di liberarsi dal cappio, però, Ciampi non aveva voglia. Nei mesi precedenti l'uscita dallo Sme, il governatore di Bankitalia bruciò oltre 70mila miliardi di lire, nel velleitario tentativo di difendere un tasso di cambio ormai spacciato. Michele Zaccardi

Mario Draghi all’ultimo miglio: ma quale sarà la sua eredità? Scrive l'1 gennaio 2019 Andrea Muratore su Gli occhi della guerra su "Il Giornale". Con l’inizio del 2019 Mario Draghi entrerà nell’ultimissima fase del suo mandato da presidente della Banca centrale europea, iniziato l’1 novembre 2011. Non solo perché proprio nello stesso giorno del 2019 si insedierà il successore dell’ex governatore della Banca d’Italia all’Eurotower di Francoforte ma anche perché l’inizio del nuovo anno rappresenterà il primo, vero banco di prova per analizzare la tenuta sul lungo periodo dell’azione di Draghi alla guida della Bce. Il 2019 sarà infatti il primo anno in cui la Bce non avvierà alcun programma di acquisto di titoli nel contesto del quantitative easing avviato nel 2015.  Tra marzo 2015 e marzo 2016 gli acquisti di titoli di Stato dei Paesi dell’area euro sono proceduti a un ritmo di 60 miliardi di euro al mese; tra aprile 2016 e dicembre 2017 il volume è salito a 80 miliardi di dollari, per poi scendere a 30 a partire dallo scorso gennaio.

Draghi alla prova del dopo-Qe. Sotto l’egida di Draghi, ha scritto Luciano Canova su Valori, la Bce ha investito 2,15 trilioni di euro e diretto 362 miliardi verso i titoli italiani. Una cifra sufficiente a consolidare definitivamente l’euro nel lungo periodo? Sulla risposta affermativa a questa domanda si giocherà il futuro giudizio storico su Mario Draghi. Difficile trarre conclusioni definitive, ma nel rispetto del dovere di cronaca, sarà interessante avviare un ragionamento sul ruolo giocato dal banchiere italiano in questi anni difficili per l’economia internazionale. L’opera di Draghi sarà analizzata in relazione, soprattutto, al giudizio sulla sua principale mossa di politica monetaria. Essa ha sicuramente avuto il merito di rompere l’egemonia dei “falchi” del rigore sui conti e dell’austerità capitanati dalla Germania di Angela Merkel (“deprimente constatare che se la maggioranza della Bce non avesse seguito le decisioni di Mario Draghi, ma le obiezioni dei tedeschi, a quest’ora l’euro non esisterebbe più”, ha ammesso l’ex Ministro Joschka Fischer) e Draghi la capacità di presentarsi come un decisore di politica economica autorevole e credibile, portatore di un vero progetto di lungo periodo. Tuttavia, la crisi borsistica degli ultimi mesi segnala come il Qe europeo abbia avuto difficoltà a trasmettersi all’economia reale e come buona parte del diluvio di liquidità abbia alimentato l’inflazione dei mercati finanziari che ora segnalano il loro surriscaldamento con uno sgonfiamento preventivo. Il limite d’azione della Bce in questo contesto è stato ulteriormente rafforzato dalla ristrettezza del suo raggio d’azione, sebbene Draghi si sia, come ha detto Paolo Savona, “procurato poteri che non avevamo previsto” per ovviare al deficit di credibilità e leadership di buona parte delle istituzioni comunitarie. 

“Whatever it takes”: e Draghi divenne un leader. Mario Draghi aveva iniziato la sua tenuta della Bce in parziale continuità con il predecessore Jean-Claude Trichet, a cui si era associato nella famosa lettera inviata al governo Berlusconi nell’estate 2011 che aveva contribuito a una generale delegittimazione dell’esecutivo italiano, ma in pochi mesi riuscì a virare rispetto alla debole gestione di Trichet, che inopinatamente nel 2011 aveva optato per varare due rincari consecutivi del tasso di sconto che avevano prodotto conseguenze infauste per i Paesi più indebitati. Il cambiamento, rispetto alla gestione Trichet, sarebbe partito dalla stessa postura del direttore dell’Eurotower. Un vero e proprio spartiacque, in questo contesto, è stato rappresentato dall’intervento di Draghi alla Global Investment Conference tenutasi a Londra il 26 luglio 2012, in mesi che vedevano la valuta unica sbandare sotto i colpi della speculazione finanziaria e l’inefficienza decisionale delle istituzioni comunitarie. Draghi pronunciò poche, semplici parole destinate a segnare gli anni a venire: “Nell’ambito del nostro mandato, la Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza”. Tutto il necessario: whatever it takes. Tre parole che non furono seguite da alcuna azione immediata, ma che bastarono nel breve periodo a decapitare il circolo vizioso della speculazione. Non c’era alcun dubbio sull’interpretazione: la Banca centrale europea avrebbe vigilato indipendentemente dalle inefficienze della risposta politica e guidato, di fatto, una risposta alla crisi finanziaria decisa e tenace. Lo spread italiano calò di oltre 50 punti nelle 24 ore seguenti al discorso di Draghi. Si può dire che sia stata l’onda lunga di quel discorso di Draghi, prima ancora delle misure concretamente approvate da Francoforte, a garantire un periodo di respiro all’economia europea nel quinquennio successivo. Solo negli ultimi mesi la spinta propulsiva del whatever it takes va esaurendosi mano a mano che crescono le incertezze sul piano aggregato.

Il bazooka di Draghi: il quantitative easing. Dopo aver impostato tra il 2011 e il 2012 il suo antesignano, il programma Ltro, dal 2015 la Bce di Draghi avviò con forza il suo quantitative easing, annunciato da Draghi al World Economic Forum di Davos a gennaio. Il piano triennale da oltre 2 trilioni di euro ha portato a una progressiva convergenza tra i rendimenti dei titoli dei Paesi europei e a una generale riduzione dello spread tra i titoli, dei costi di finanziamento bancari e del clima di sfiducia aleggiante nelle borse europee. Ciò ha consentito una situazione di ritorno alla crescita economica, rimasta in ogni caso a livelli subottimali per le continue rigidità causate dall’incompletezza di un’architettura politico-economica eccessivamente condizionata dall’egemonia del mercantilismo tedesco finalizzato alle esportazioni, che ha rallentato la ripresa a livello aggregato. A Draghi si deve riconoscere una visione di lungo periodo che è mancata a numerosi altri decisori dell’Eurozona; tuttavia, il programma di stimolo è rimasto sotto diversi punti incompleto o i suoi obiettivi sono stati deviati in maniera controintuitiva.

I limiti del quantitative easing. Pur espandendo oltre i 4mila miliardi di euro l’attivo complessivo della Bce, il quantitative easing ha prodotto risultati contrastanti in certi contesti. Nell’estate scorsa è stato centrato l’obiettivo di Draghi di portare l’inflazione al 2%, che se da un lato ha permesso a Francoforte di poter segnare un ulteriore punto nel programma dall’altro è stata in larga misura alimentata, negli ultimi mesi, soprattutto dai rincari energetici legati alle tensioni sui mercati internazionali delle materie prime. Buona parte dei trilioni riversati dalla Bce sull’economia europea non hanno raggiunto l’economia reale per generare investimenti produttivi, alimentando altresì la dilatazione dei bilanci borsistici che oggi, mentre tutte le banche centrali del mondo iniziano a stringere la corda, va via via disperdendosi. Per il futuro, il politologo Roberto Marchesi ha proposto sul Fatto Quotidiano di procedere alla “riforma della Bce consentendole di intervenire a sostegno delle imprese e contro la disoccupazione con un Qe mirato a questo scopo invece che a quello più generale di sostenere la liquidità monetaria, ora meno necessario ma di cui hanno beneficiato molto di più le banche che le aziende (e per niente i lavoratori)”. Marchesi mette in luce la debolezza della cinghia di trasmissione tra lo stimolo monetario e la crescita economica. Il governo tedesco ha invece criticato fortemente la volontà di Draghi di raggiungere un preciso target d’inflazione, causa di un’erosione del valore reale dei crediti dei suoi istituti col resto del continente ma, al contempo, ne ha beneficiato indirettamente grazie al volano garantito dalla svalutazione dell’euro alle sue esportazioni, come del resto puntualizzava già nel 2015 l’associazione Asimmetrie. In questo senso, il quantitative easing ha mancato l’obiettivo di ridurre le disparità strutturali tra i Paesi dell’Unione e l’eterogeneità economica nel contesto europeo.

Un bilancio conclusivo. In ogni caso, bisogna sottolineare che Draghi lascerà un’eredità pesante dalla quale non sarà possibile prescindere nelle future analisi delle dinamiche dell’area euro. In un contesto caratterizzato da un vuoto di leadership, il leader dell’Eurotower ha acquisito centralità nel contesto comunitario e acquisito un ruolo profondamente politico. Ora che l’onda lunga delle misure adottate tra il 2012 e il 2015 Draghi cerca di rendere stabile lo stato di cose creato nella sua gestione, per evitare che un suo successore afferente all’ala rigorista dell’Unione possa rilanciare politiche favorevoli alle misure di austerità che tanti problemi hanno causato. Dopo la fine del Qe, un modo per “costituzionalizzare” quanto fatto potrebbe essere il rilancio delle Tltro (acronimo di Targeted Longer Term Refinancing Operations), prestiti a tassi bassissimi per garantire liquidità al sistema del credito, e di riflesso, al mondo delle imprese, 700 miliardi di euro dei quali vanno in scadenza nei prossimi due anni. Riguardo a Draghi, invece, si specula sul suo futuro una volta finita la gestione all’Eurotower.

Draghi dopo l’Eurotower. C’è chi ipotizza una sua discesa in campo in politica, come potenziale candidato di una coalizione politica avversa all’attuale maggioranza. Ma questo francamente appare improbabile considerato gli altisonanti incarichi a cui Draghi è associato da diversi media: in futuro si prevede per lui un ruolo da candidato alla guida del Fondo monetario internazionale (la Lagarde terminerà la sua gestione nel 2021) o da presidente della Repubblica (il settennato di Sergio Mattarella terminerà nel 2022). Segno di un prestigio che Draghi ha saputo conquistarsi mostrando capacità non indifferenti e qualità che mancano tanto al suo predecessore Trichet quanto al presidente della Commissione Juncker nell’offrire una reazione alla crisi economica capace di ingenerare un grado di fiducia che sembrava scomparso nel 2011 e nel 2012. Draghi è considerato pressoché all’unanimità l’uomo che è stato capace di salvare l’euro tra il 2012 e il 2015. Nel contesto della tempesta finanziaria, ciò corrisponde a verità. Sul lungo periodo, solo se l’architettura comunitaria reggerà agli stress test a cui è continuamente sottoposta si potrà dare una risposta definitiva. Tuttavia, Draghi non ha e non avrebbe potuto salvare l’Unione e l’euro dalle loro contraddizioni intrinseche. Dal suo ruolo eminentemente tecnico, ha potuto condizionare le regole del gioco, non contribuire a migliorarne la codificazione. Ciò che manca, in Europa, è la politica vera. Mancano gli statisti degni di De Gasperi, De Gaulle, Adenauer. E la stessa necessità dell’Unione di aggrapparsi a Draghi per restare a galla è un sintomo di questo problema.

Fine del Quantitative Easing, le cose da sapere. Cosa cambia con la fine degli stimoli all’economia della Banca centrale europea, scrive Andrea Telara il 12 dicembre 2018 su "Panorama". Quasi tutti gli osservatori dell’economia sono concordi: nella riunione dei vertici della Banca Centrale Europea (Bce) del 13 dicembre, il presidente Mario Draghi non sorprenderà. Come previsto, annuncerà la fine dal prossimo mese del Quantitative Easing (Qe), il programma di stimoli all’economia iniziato circa 3 anni e mezzo fa. Ecco, di seguito, una panoramica sulle cose da sapere per capire i cambiamenti all’orizzonte. 

Cos’è il quantitative easing. Quantitative easing è espressione inglese che in italiano, tradotta alla lettera, significa alleggerimento quantitativo. E' una misura con cui la banca centrale effettua degli acquisti programmati di titoli finanziari (in particolare di bond, cioè di obbligazioni) negoziati sul mercato. In questo modo, a intervalli regolari, la Bce immette nel sistema finanziario una massiccia dose di liquidità che serve appunto per comprare i titoli.

Perché è avvenuto. Lo scopo della Bce, e di tutte le autorità monetarie che hanno effettuato negli anni scorsi un quantitative easing, è (in linea massima) quello di ampliare la quantità di moneta in circolazione, in modo da stimolare l'economia. È ciò che hanno già fatto negli anni scorsi, molto prima della Bce, altre banche centrali extra-europee come la Federal Reserve americana, la Bank of England britannica e la nipponica Bank of Japan. 

Beneficio per gli Stati. Grazie agli acquisti della banca centrale, la domanda di obbligazioni sul mercato è notevolmente salita negli anni scorsi. Di conseguenza, anche i prezzi dei titoli sono cresciuti mentre i loro rendimenti sono scesi. Se infatti il prezzo di un'obbligazione (che dà un interesse prestabilito) registra un incremento, chi la acquista porta a casa ovviamente un rendimento netto inferiore, rispetto a quello incassato da chi se l'è messa nel portafoglio qualche mese prima. Dunque, acquistando i titoli di stato europei, la Bce ha fatto calare i loro interessi, con un effetto: i paesi del Vecchio Continente che li hanno emessi hanno risparmiato un bel po’  un po' di  soldi per finanziare il loro debito pubblico.

Spinta all’economia. Oltre a dare beneficio ai conti pubblici dei governi, che hanno avuto così un po' più di risorse per sostenere la crescita economica, il quantitative easing ha avuto effetti positivi anche sul sistema creditizio. La banca centrale, infatti, ha comprato anche i titoli emessi e posseduti dalle banche del Vecchio Continente. Con i soldi ricevuti da Francoforte, gli istituti di credito sono stati stimolati ad allargare i prestiti concessi alle famiglie e alle imprese. 

Sprint alle borse. Il Qe ha avuto effetti positivi anche sulle borse. Poiché i rendimenti delle obbligazioni sono scesi, gli investitori si sono spostati su asset più rischiosi come le azioni, i cui prezzi sui listini hanno viaggiato con il turbo. Inoltre, avendo un po' più soldi a disposizione grazie al rivalutarsi delle loro attività finanziarie, i consumatori sono stati spinti a spendere un po' di più, allontanando così il rischio di una deflazione generata dalla crisi.

Tassi fermi. Anche se il quantitative easing si avvicina al capolinea, la Bce ha promesso un atterraggio morbido. Innanzitutto, ha precisato che manterrà i tassi d’interesse a livelli bassi per molto tempo, per non frenare troppo l’economia. I primi rialzi al costo del denaro, di pochi decimi di punto, ci saranno infatti a partire dall’estate o dall’autunno del 2019. Inoltre, la Bce non immetterà più nuova liquidità ma continuerà comunque a reinvestire quella esistente. In altre parole, la banca centrale utilizzerà i soldi rimborsatigli dagli stati europei quando i titoli giungono alla scadenza, per comprare altri bond sul mercato. Gli stimoli di Draghi, insomma, proseguiranno ancora per un po’.

L’euro ha rovinato l’Italia, lo dice Bloomberg. Vent’anni di moneta unica non avrebbero portato nulla al nostro Paese. La nostra economia soffre però anche di problemi strutturali ben più profondi, scrive Giuseppe Cordasco il 31 dicembre 2018 su "Panorama". Con l’inizio del 2019 l’euro compirà 20 anni, visto che esattamente il primo gennaio 1999 la moneta unica faceva il suo ingresso ufficiale sui mercati finanziari, per approdare tre anni dopo, il primo gennaio 2002, nelle tasche dei cittadini europei, italiani compresi. Un periodo significativo di circolazione per poter fare un primo bilancio del suo avvento. E le somme, soprattutto per l’Italia, non sono per niente lusinghiere, anzi tutt’altro. A scorrere le cifre messe insieme in questi giorni da Bloomberg Economics, che ha fatto un resoconto del primo ventennio di euro, il nostro Paese ne esce infatti con le ossa rotte. Quel che però bisognerebbe approfondire è se il nostro attuale malessere economico dipenda direttamente dall’euro, o quanto non piuttosto dal fatto che la moneta unica ha contribuito ad amplificare carenze strutturali del nostro sistema produttivo. Ma andiamo con ordine, e vediamo cosa ci dicono i numeri.

Venti anni di arretramento. Le prime evidenze, relative allo studio di Bloomberg, ci mostrano senza pietà, uno scenario devastante per il nostro Paese. Basti pensare ad esempio che tra il 1985 e il 2001 il prodotto interno lordo italiano era cresciuto di 482 miliardi di euro (+44%), mentre tra il 2002 e il 2017 la crescita è stata pari a 31 miliardi, ovvero uno striminzito + 2% in quasi vent'anni. Altra nota molto dolente poi è quella delle esportazioni, da sempre cavallo di battaglia della nostra economia. Ebbene, sempre tra l'85 e il 2001, l’export era cresciuto in Italia del 136,3%, mentre, dall’avvento dell’euro, la crescita si è fermata a un modesto +40,9%, ossia meno di un terzo.

A questo già desolante panorama, potremmo poi ancora aggiungere il fatto che il Pil pro capite è allo stesso livello del 1999, che la disoccupazione da sei anni staziona sempre intorno all'11% e che la produzione industriale langue ancora del 22% al di sotto dei livelli massimi raggiunti nel 2007.

Produttività, tallone d’Achille. Ma un’analisi seria e ragionata non può fermarsi a queste pur eclatanti evidenze. Quel che bisognerebbe approfondire infatti è, come già accennato, quanto l’entrata in vigore dell’euro non abbia accresciuto difficoltà che erano già insite nel nostro sistema economico, e che lo rendevano già di per sé più debole rispetto ad altre economie europee. E in questo senso, un esempio molto lampante è rappresentato dalla produttività. Quest’ultima rappresenta in maniera molto semplificata, la quantità di prodotto che ogni singolo lavoratore produce in una data unità di tempo, ad esempio in un’ora. Una produttività più alta, significa che un sistema produttivo è più efficiente, più innovativo, e dunque più concorrenziale sul mercato. Se andiamo a scorrere le statistiche realizzate da Eurostat sui Paesi dell’Unione, scopriamo allora che questo rappresenta un vero e proprio tallone d’Achille dell’Italia. Nel periodo che va infatti dal 1999 al 2017, la produttività in Italia non solo non è cresciuta, ma è addirittura calata quasi del 5%. Nello stesso periodo, la Francia ha visto la propria produttività crescere più del 13%, la Spagna del 12% e la Germania ha fatto un balzo in avanti anch’essa del 12%, il tutto grazie a forti riforme del mercato del lavoro, che invece in Italia sono state sempre poco incisive. Non a caso forse, questi Paesi hanno ottenuto benefici ben più consistenti dall’entrata in vigore dell’euro, come dimostra lo stesso studio di Bloomberg.

Addio svalutazione. Ma perché la moneta unica influisce così tanto nel rapporto tra produttività e sviluppo dell’economia? La spiegazione è semplice: in passato, per colmare gap di mancata evoluzione della produttività, l’Italia utilizzava lo strumento, fin troppo abusato, della svalutazione monetaria. Una lira debole, ci permetteva comunque di essere competitivi sui mercati internazionali, nonostante la nostra produttività fosse inferiore a quella dai nostri competitor. Con l’arrivo dell’euro, il giochetto della svalutazione non è stato più possibile, e il nodo di una mancata crescita della produttività è venuto drammaticamente al pettine. Abbiamo deciso di competere con grandi Paesi, come Germania e Francia appunto, e per farlo ora dobbiamo utilizzare gli stessi mezzi, ossia l’innovazione, gli investimenti, la ricerca. Tutte armi che in Italia da anni risultano spuntate, per colpe tanto della politica che della classe imprenditoriale. In tutto questo scenario dunque, l’euro non ha fatto altro che mettere in evidenza questa palese arretratezza del nostro sistema produttivo. Ci sarebbe stato tutto il tempo per rimediare, e forse c’è ancora, l’importante sarebbe però non addossare tutte le colpe all’euro, il cui funzionamento andrebbe comunque magari in parte migliorato, ma cercare di individuare le debolezze strutturali della nostra economia e intervenire su di esse. A cominciare proprio dalla produttività.

Vincitori e vinti dell’euro, scrive l'1 gennaio 2019 Andrea Muratore su Gli occhi della guerra su "Il Giornale". Nel gennaio 1999 l’euro entrava formalmente in vigore attraverso il blocco dei rapporti di cambio tra le valute dei Paesi in cui la moneta unica europea avrebbe iniziato a circolare a partire dal 1 gennaio 2002. A vent’anni di distanza, l’Eurozona risulta, in termini aggregati, una delle economie più importanti del pianeta e l’euro è oramai secondo, per quanto a lunga distanza, al solo dollaro come importanza nelle transazioni internazionali. Mario Draghi, che si può legittimamente considerare come l’uomo che tra il 2012 e il 2015 ha salvato l’euro, perlomeno sul breve periodo, dalle disastrose conseguenze delle politiche di austerità, ha sottolineato nel suo messaggio di fine anno che oramai, in Europa, è nata un’intera generazione che “non conosce altra moneta”, mentre Jean-Claude Juncker ha definito l’euro “un simbolo di unità, sovranità e stabilità”. Se quanto detto da Draghi è un dato di fatto, Juncker è molto impreciso. A vent’anni di distanza, possiamo dire che l’integrazione economica abbia avuto vincitori evinti. E il nostro Paese, l’Italia, si trova purtroppo nella seconda categoria. Anche nel mondo dell’economia i maggiori ricercatori sono divisi sul giudizio da dare alle prime due decadi di integrazione monetaria europea. Forse il “tramonto dell’euro” di cui ha scritto anni fa Alberto Bagnai non è alle porte, ma di sicuro al suo posto, come spiegato dall’attuale senatore della Lega, si è verificato il tramonto di numerosi sistemi economici del continente, tra cui quello italiano ha subito le conseguenze più drastiche.

Vincitori e vinti dell’euro secondo Bloomberg. L’agenzia di informazione finanziaria Bloomberg ha approfittato dell’anniversario per redigere un accurato bilancio del primo ventennio della moneta unica, valutando 16 Paesi dell’Eurozona in base a dieci diversi parametri legati alla competitività dell’economia, all’integrazione ai mercati internazionali e alle capacità di rispondere alle crisi sistemiche e cercando di determinare i “vincitori” e i “vinti”. L’Italia, come anticipato, è nel secondo gruppo, intervallato da cinque nazioni intermedie, assieme a Francia e Spagna. Come si legge sul report: “Vent’anni di adesione all’euro non hanno portato nulla all’Italia. Legando la sua economia ad alta inflazione all’export tedesco senza adottare misure per aiutare le imprese a competere, l’Italia ha perso una guerra di logoramento”. Si rovescia il classico mantra, portato avanti da diversi commentatori ed economisti nostrani come Carlo Cottarelli, che le principali problematiche per l’Italia fossero legate alla sua inadeguatezza all’esperimento della moneta comune. Di fatto, è il sistema stesso delle regole comunitarie a limitare il nostro Paese nella sua azione, rendendolo di fatto satellite del mercantilismo tedesco.

Un’Europa a due velocità. Si è modellata un’Europa a più velocità che deve adattare il suo ritmo a seconda delle preferenze della vettura di testa, che lungi dall’essere una locomotiva è una motrice ingolfata. “Eppure”, scrive Libero, “due decenni or sono, fra i capi di Stato e di governo fu unanime l’illusione circa gli effetti rivoluzionari che avrebbe rappresentato l’adozione della moneta unica. Erano tutti convinti che i meccanismi economici avrebbero ricevuto una potente spinta propulsiva e che si sarebbe avuta anche una forte accelerazione dell’integrazione politica”. La realtà è stata molto più prosaica. Uno spazio economico si è accentrato attorno a un nucleo ristretto di Paesi (la Germania e i “nordici”) che con il combinato disposto di rigore monetario, deflazione salariale interna e rispetto selettivo delle regole imposte ad altri hanno costruito un sistema congeniale alle loro esportazioni ad alto valore aggiunto. Salvo ricadute sociali che solo ora cominciano a palesarsi in tutta la loro grandezza.

Premi Nobel contro l’euro. Numerosi economisti di fama mondiale hanno espresso dubbi sulla capacità di tenuta dell’euro sul lungo periodo. Tra questi, è necessario citare alcuni premiati dalla più alta onorificenza nel campo dell’economia: il Premio Nobel. Oliver Hart, Nobel 2016, ha accusato la Commissione europea di essere andata “troppo oltre” nel suo tentativo di centralizzare il controllo sulle economie nazionali e di aver forzato un’integrazione omogenea impossibile. Stessa accusa che già nel 1998 venne proferita dal padre nobile del neoliberismo, Milton Friedman. Secondo Friedman, “più che unire, la moneta unica crea problemi e divide. Sposta in politica anche quelle che sono questioni economiche. La conseguenza più seria, però, è che l’euro costituisce un passo per un sempre maggiore ruolo di regolazione da parte di Bruxelles. Una centralizzazione burocratica sempre più accentuata”. Paul Krugman, Nobel nel 2008, e Joseph Stiglitz, Nobel nel 2001, hanno criticato invece gli effetti strutturali sull’economia europea causati dall’euro. Secondo Stiglitz, l’euro si basa sulla svalutazione interna dei Paesi membri e “non è stata ancora presentata alcuna proposta di una strategia per la crescita sebbene le sue componenti siano già ben note, ovvero delle politiche in grado di gestire gli squilibri interni dell’Europa e l’enorme surplus esterno tedesco che è ormai pari a quello della Cina (e più alto del doppio rispetto al PIL). In termini concreti, ciò implica un aumento degli stipendi in Germania e politiche industriali in grado di promuovere le esportazioni e la produttività nelle economie periferiche dell’Europa”. Paul Krugman, invece, ha definito l’euro un progetto “campato in aria” per la mancanza di integrazione fiscale e di una reale solidarietà capace di ridurne gli squilibri. Finchè durerà l’euro, secondo Krugman, “l’Europa sarà sempre fragile. La sua moneta è un progetto campato in aria e lo resterà fino alla creazione di una garanzia bancaria europea”.

Una Bce al servizio della crescita rafforzerebbe l’euro? Nello stesso articolo in cui esprime queste critiche, tuttavia, Krugman sottolinea come l’Europa non sia ancora un continente in pieno declino, ma “un continente produttivo e dinamico. Ha soltanto sbagliato a scegliersi la propria governance e le sue istituzioni di controllo economico, ma a questo si può sicuramente porre rimedio”. E porre rimedio si può in un 2019 che inizia con la fine del quantitative easing, il “bazooka di Draghi” che, assieme al celebre whatever it takes del 2012, ha tenuto l’euro in linea di galleggiamento fino ad oggi. Ora tuttavia, mentre la finanza mondiale sembra dirigersi verso una nuova crisi, proprio la Banca Centrale Europea potrebbe rappresentare un fattore di riequilibrio tra i diversi Paesi. Porre in essere strumenti di assicurazione di parte dei debiti pubblici nazionali e di riduzione degli squilibri interni garantirebbe un po’ di respiro a un sistema che in vent’anni ha visto le sue faglie interne espandersi enormemente. L’euro non è irreversibile, né definirlo tale lo metterà al riparo da nuove crisi pari a quella debitoria del 2010-2011.

Il fatto di avere una banca centrale, la Bce, che non garantisce il debito pubblico dei singoli Paesi, rappresenta una contraddizione gravissima. Ciò significa che i singoli Paesi si indebitano in una valuta che non controllano, che non possono stampare, una valuta straniera, zattere in preda ai marosi dei mercati. Il risultato, in Italia, lo abbiamo sotto i nostri occhi. Vinti tra i vinti, assistiamo tuttavia alla sordità dei “vincitori” temporanei, a cui si associa anche un altro sconfitto, la Francia, per mascherare la sua situazione. Draghi e la Bce hanno garantito sollievo all’euro. Solo una riforma dell’Eurotower potrebbe dargli stabilità e rendere possibile che tra vent’anni si possano fare nuovi bilanci su una valuta ancora esistente.

CERCANDO L’ITALEXIT.

Autarchici, populisti, italiani. I timori del Paese in tempo di crisi. Il saggio di Lorenzo Bini Smaghi, «La tentazione di andarsene» (edito dal Mulino), analizza la crisi economica anche con gli strumenti della psicologia e della politica, scrive Federico Fubini il 3 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". Se una cifra è rimasta impressa a fuoco nella mente di centinaia di milioni di donne e uomini nella crisi degli ultimi dieci anni, essa riguarda la (percepita) cecità degli economisti. Considerati attenti ai numeri, ma non alle realtà sociali che ribollono sotto di essi. Disprezzati perché innamorati dei loro modelli su come dovrebbe funzionare quel coacervo di interessi, consenso e regole che è una democrazia. Mal sopportati com’è destino di tutti gli «esperti», secondo la sprezzante espressione con la quale i fautori della Brexit si sono imposti nel referendum nel Regno Unito. Forse anche per questo Lorenzo Bini Smaghi sceglie di spiazzare nel suo ultimo libro, La tentazione di andarsene (Il Mulino). Bini Smaghi, da anni firma del «Corriere», è una personalità nota in Italia e in Europa per le sue qualità di economista: dirigente del Tesoro in un momento di fulgore di quella amministrazione con Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi; parte dell’esecutivo della Banca centrale europea negli anni di presidenza di Jean-Claude Trichet; oggi presidente di Société Générale e visiting scholar a Harvard. Bini Smaghi spiazza nel suo saggio perché non si limita a parlare di economia, ma va oltre. E non risparmia né i partiti, né i riflessi condizionati delle istituzioni italiane, né i tanti che diffondono presunte verità destinate a intossicare il discorso pubblico. La tentazione di andarsene (ovviamente, dall’euro) analizza la crisi anche con gli strumenti della psicologia e della politica, per mettere a nudo una «dissonanza cognitiva» sempre più diffusa. La sensazione di sfasamento dalla realtà, di cui parla l’autore, riguarda il posto dell’Italia in Europa e le cause dei problemi che da decenni affliggono l’economia e la struttura sociale di un sistema rimasto indietro rispetto ai suoi pari. «La divergenza economica trova una corrispondenza nell’atteggiamento dei cittadini verso le istituzioni europee — scrive Bini Smaghi —. Dall’essere fra i principali sostenitori dell’Unione Europea, gli italiani sono diventati fra i più critici». Ma questo cambio di umore appare contraddittorio se si guarda ai problemi che fanno del Paese un caso (quasi) unico nell’area euro. Infatti «se l’Italia cresce meno degli altri partner, pur beneficiando delle stesse condizioni ed essendo sottoposta agli stessi vincoli, le difficoltà non dovrebbero provenire dalle istituzioni europee». Ma appunto si innesta qui la prima, feroce critica di Bini Smaghi: «Questa contraddizione — scrive — si spiega in parte con una forma di dissonanza cognitiva che spinge il Paese a negare qualsiasi addebito riguardo allo stato in cui versano la società e l’economia». Rimuovere i problemi giocando con le statistiche o darne la colpa ad altri — meglio se a Bruxelles o a Berlino — è la dieta politica di base di qualunque movimento populista di destra, sinistra, centro o di tutte queste posizioni insieme. Nasce così il secondo, severo affondo di Bini Smaghi. «Quando la realtà dei problemi non può più essere nascosta — osserva — rimane un’ultima cartuccia: il capro espiatorio. Tende sempre più a diffondersi l’idea che l’Italia sia nella condizione in cui si trova per colpa dell’Europa (…). Secondo questa tesi, un’Italia troppo forte darebbe fastidio». Dunque, «forze esterne si sarebbero alleate per fare di noi una colonia». Niente in queste versioni sembra compatibile con l’evidenza che tutti i Paesi sono sottoposti alle stesse regole, con esiti diversi. Peraltro Bini Smaghi smonta dati alla mano la leggenda metropolitana, una di più, secondo cui la Spagna crescerebbe di più perché il suo deficit pubblico è più alto: da anni il governo di Madrid somministra agli elettori dosi maggiori di cosiddetta «austerità». Ma il cuore della riflessione resta politico. Bini Smaghi cita un giudizio formulato da Guido Carli nel 1993: «Una delle eredità più persistenti della cultura autarchica, fascista, è senza dubbio la sindrome del complotto internazionale». Dove porta tutto questo? È la parte finale del pamphlet, che non dovrebbero perdersi neppure coloro che non saranno d’accordo. Porta, prevedibilmente, alla caduta della fiducia degli italiani verso tutte le istituzioni. Interne ed europee. Un difetto nazionale che «parte dall’alto, dalla classe politica, che spesso si tira indietro al sorgere delle difficoltà». L’autore spiega così l’anomalia tutta italiana dei governi di non eletti, i «tecnici», chiamati a compiere le scelte impopolari di cui i politici non vogliono la responsabilità. Si spiega così anche la tendenza a affidarsi ai «tecnici» invece di affrontare elezioni in momenti di crisi come nel 2011. Ma «la mancanza di fiducia in se stessa — o la mancanza di coraggio — della classe politica, si traduce in immobilismo», avverte Bini Smaghi. Alla lunga il rischio è che anche ciò che resta della classe dirigente finisca per inseguire il populismo sul suo terreno, perdendo ulteriore credibilità. E dopo anni di accuse, alla fine i cittadini si convincano a decretare il proprio autoisolamento dall’Europa. Un tempo, appunto, la chiamavano autarchia.

Scandalo rimborsi alla Ue: così i partiti euroscettici hanno truffato Strasburgo. I finti assistenti di Le Pen, la badante della madre di Kaczynski, i contratti illeciti della moglie di Farage: ma ora il Parlamento europeo rivuole i soldi. E ci sono anche casi italiani. Su Repubblica in edicola e Repubblica+ l'inchiesta integrale con tutti i casi e i nomi coinvolti, scrive Alberto D'Argenio il 7 marzo 2017 su "La Repubblica". Sono loro, i grandi partiti europei che vogliono abbattere l’Unione, al centro delle inchieste per frode ai danni delle casse del Parlamento di Strasburgo: abusano sistematicamente dei soldi Ue per portare a termine i loro disegni politici in patria. Frodi sistemiche, organizzate a livello centrale, come quelle del Front National di Marine Le Pen, dello Ukip di Nigel Farage o del partito Diritto e giustizia del polacco Jaroslaw Kaczynski. Assumono collaboratori con i soldi di Strasburgo ma li impiegano in patria per lavorare al partito. Ci sono anche casi italiani, di singoli eurodeputati del Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega ed ex Pd. In questo caso senza un disegno di sistema, organizzato dalle forze politiche di appartenenza, ma episodi isolati. La mappa delle frodi all’Europarlamento tracciata da Repubblica può partire in Francia, con un nuovo e inedito filone di indagini sul Front National di Marine Le Pen. Già nella bufera per i casi legati agli assistenti pagati da Strasburgo ma al lavoro in Francia della candidata all’Eliseo, ora la forza politica che vuole portare Parigi fuori dall’Europa è al centro di un nuovo caso: le autorità europee e transalpine indagano sui contratti degli assistenti di altri big come Louis Aliot, compagno di Marine Le Pen, e Florian Philippot, braccio destro della leader, o del padre, il fondatore dell’Fn Jean-Marie. Si passa allo Ukip di Nigel Farage, che a breve dovrà restituire circa un milione di euro al Parlamento Ue per i contratti di una serie di assistenti – tra cui la moglie Kirsten - che lavoravano per il partito pur essendo stipendiati da Strasburgo. E poi ancora, le fondazioni dello Ukip, che prendevano fondi Ue per sostenere la politica europea del movimento ma che invece hanno usato i soldi per la campagna del referendum dello scorso giugno su Brexit. Per finire con il caso di Jaroslaw Kaczynski, dominus politico del governo polacco guidato da Beata Szydlo che usava la signora Bozena Mieszka-Stefanowska, assistente del deputato Tomasz Poreba e quindi pagata da Strasburgo, come badante della madre scomparsa nel 2013. Uno dei casi che riguardano il partito Diritto e giustizia che dovranno essere rimborsati all’Europarlamento. Tra i dossier italiani quello di Lara Comi, deputata di Forza Italia che ha assunto la madre come assistente parlamentare e ora dovrà restituire i 126 mila euro percepiti dalla signora, Luisa Costa, dal 2009 al 2010. Al centro di un’inchiesta ancora in corso e i cui esiti non sono ancora decisi due eurodeputate grilline: Daniela Aiuto e Laura Agea. La prima è nel mirino per avere chiesto il rimborso, diverse migliaia di euro, per una mezza dozzina di ricerche che le sarebbero dovute servire per svolgere il mandato europeo ma che in realtà sono state copiate da siti come Wikipedia. La seconda ha assunto come assistente un imprenditore, sospettato di non avere il tempo di svolgere il lavoro relativo la mandato europeo dalla deputata ma al massimo, nella veste di attivista del Movimento, di seguirla nella politica locale. Al centro di un’inchiesta anche un collaboratore del leghista Mario Borghezio, il viceministro Riccardo Nencini (ex europarlamentare al quale Strasburgo aveva chiesto indietro 455 mila euro ma ha scampato il rimborso grazie alla prescrizione) e il deputato eletto con il Pd, ora Mdp, Antonio Panzeri, che ha fatto ricorso alla Corte di giustizia europea di fronte alla richiesta di restituire 83 mila euro. Quelli italiani sono casi isolati e spalmati su tre legislature, con la stragrande maggioranza dei 73 parlamentari eletti ogni cinque anni che rispetta alla lettera le regole.

Ue, scandalo rimborsi: la Comi ha assunto la madre. Verifiche su due M5s: ricerche copiate e dubbi su collaboratore. I casi, tutti senza risvolti penali, sono stati rivelati da Repubblica. L'eurodeputata di Forza Italia sta già restituendo i 126mila euro contestati: "E' stato un errore del mio commercialista", ha detto. Le due grilline invece hanno dichiarato di aver scoperto dei casi dalla stampa e di essere pronte a prendere provvedimenti per rimediare, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 marzo 2017. L’europarlamentare di Forza Italia Lara Comi sta restituendo al Parlamento europeo 126mila euro per aver assunto la madre come assistente dal 2009 al 2010; per le deputate M5s Daniela Aiuto e Laura Egea ci sono due procedimenti aperti su rispettivamente: sei ricerche sul turismo commissionate a una società accusata di aver copiato i contenuti da siti tipo Wikipedia, l’assunzione di un collaboratore che sarebbe invece un imprenditore che lavora sul posto. Sono questi alcuni dei casi, tutti senza risvolti penali, raccontati da Repubblica in merito alle accuse a carico di europarlamentari italiani che siedono a Bruxelles e su cui il Parlamento ha avviato accertamenti. E se la prima si è difesa dicendo che si è trattato un errore per cui sta già pagando, le altre due hanno dichiarato di aver scoperto i fatti dalla stampa e di essere pronte a prendere provvedimenti. Tra i primi a reagire ci sono stati i parlamentari del Ppe, gruppo di cui fa parte la Comi, e che, secondo quanto riportato dall’agenzia Ansa, avrebbero detto di non essere a conoscenza del caso: “Una tegola sulla testa”, hanno commentato nei corridoi, anche se la vicenda non riguarda i soldi che ha in gestione il gruppo e soprattutto si riferisce alla scorsa legislatura.

Lara Comi ha replicato dicendo che si tratta di una vicenda “ben nota” e di un fatto “ampiamente chiarito”: la decisione di ingaggiare la madre come collaboratrice fiduciaria, si è difesa la Comi, è stata presa sulla base del parere, poi rivelatosi errato, dell’allora suo commercialista, cui la Comi successivamente ha ritirato l’incarico. “Sto restituendo fino all’ultimo centesimo la somma che viene contestata, con una detrazione che ogni mese mi viene prelevata direttamente dallo stipendio”, ha detto. “Nel 2009, a 26 anni, sono stata eletta in Parlamento Europeo. Ho lasciato il mio lavoro nel settore privato e con grande entusiasmo ho intrapreso quest’avventura. Ogni giorno mi trovavo di fronte a sfide nuove e importanti e, per affrontarle, ho deciso di avere a fianco a me, con un incarico fiduciario, la persona di cui avevo la massima fiducia, mia madre, che mi è stata vicino in tutti i momenti più importanti della vita. Per potermi supportare in questo ruolo lei si è presa l’aspettativa – non retribuita – dal suo lavoro pubblico come insegnante”. Comi sostiene che non era stata messa a conoscenza del fatto che non potesse più assumere un familiare: “La possibilità di scegliere un familiare come collaboratore era permessa fino al 2009, con un periodo transitorio di un anno, come mi aveva spiegato il mio commercialista, che aveva anche consultato gli uffici del Parlamento Europeo. Solo dopo molti anni, cioè nel 2016, vengo a scoprire che questa possibilità era stata esclusa dai regolamenti parlamentari. Per questa ragione, già lo scorso 3 aprile 2016, ho ritirato l’incarico al mio commercialista che, seppure in buona fede, aveva commesso l’errore”.

Altro capitolo è quello del Movimento 5 stelle. Le due eurodeputate si sono difese con una nota poi pubblicata su Facebook dicendo di aver appreso dalla stampa e di essere pronte a prendere provvedimenti. Il primo caso è quello di Daniela Aiuto, accusata di aver commissionato almeno sei ricerche che sarebbero state plagiate dalla società di consulenza a cui si era rivolta. La parlamentare ha quindi replicato: “Ho disposto la sospensione del pagamento delle fatture già emesse”, ha scritto su Facebook. “Inoltre ho comunicato ai servizi parlamentari che provvederò personalmente a rimborsare le fatture già saldate. Resta inteso che agirò legalmente nei confronti della società di consulenza per il rimborso delle somme già sostenute e anche per il risarcimento di ogni ulteriore danno. Pur essendo parte lesa in questa vicenda ho dato la mia piena e totale disponibilità a collaborare con i servizi parlamentari per tutelare il Movimento 5 stelle”. Reazione simile quella della collega Laura Agea, accusata invece di aver assunto un collaboratore a Bruxelles che in realtà svolge l’attività di imprenditore. “Ho appreso dalla stampa”, ha replicato sempre su Facebook, “che sono in corso verifiche riguardanti l’attività svolta da uno dei miei collaboratori locali. Pur non avendo ricevuto alcuna comunicazione ufficiale, mi metto immediatamente a disposizione delle autorità competenti per qualsiasi tipo di documentazione circa la sua attività, che si svolge nel quadro dei miei lavori di deputato al Parlamento europeo. Ho deciso di sospendere momentaneamente la collaborazione in corso per approfondire i termini dell’inchiesta di cui, al momento, non ho informazioni, per permettere alle autorità competenti di svolgere serenamente i dovuti controlli e per non esporre il mio collaboratore ad inutili strumentalizzazioni. Questi controlli sono fondamentali per garantire trasparenza e onestà, valori portanti del Movimento 5 stelle”.

Tra i casi ricordati da Repubblica anche Massimiliano Bastoni, ex assistente parlamentare del leghista Mario Borghezio dal 2009 al 2014 e contemporaneamente consigliere comunale a Milano. L’eurodeputato del Carroccio ha replicato che “l’indagine nasce da presupposti inesistenti: Bastoni aveva tutto il diritto di fare anche il consigliere comunale perché non si tratta di un’attività salariata. E comunque ogni lunedì lui era qui a Bruxelles e può dimostrarlo”. Nella lista c’è anche l’attuale viceministro Riccardo Nencini a cui l’Olaf aveva chiesto di rimborsare 455mila euro per viaggi irregolari e contratti di assistenti, ma dopo aver fatto ricorso alla Corte di giustizia i pagamenti sono caduti in prescrizione.

Caso diverso quello dell’ex Pd e oggi Mdp Antonio Panzeri. A lui il Parlamento ha chiesto nel 2016 una somma di 83 mila euro. Una contestazione riferita alla legislatura 2004-2009 e legata ai finanziamenti ricevuti dalla sua associazione Milano Più Europa. All’epoca, sostiene Panzeri, la funzione di assistenza al parlamentare poteva essere affidata anche ad associazioni. Poi il Parlamento ha cambiato le regole applicandole “retroattivamente”. “Una palese violazione dei principi di diritto”, afferma l’eurodeputato.

Venticinque anni da Maastricht Ue ed euro sono già al collasso. A Bruxelles si festeggia l'anniversario del trattato di Maastricht. Ma già si ragione su una nuova Unione europea a più velocità. È il fallimento totale del progetto iniziale, scrive Giovanni Neve, Domenica 5/02/2017 su "Il Giornale". Quando venticinque anni fa i trattati di Maastricht segnarono la nascita dell'Unione Europea e posero le basi per la moneta unica, il mondo correva ancora sull'onda lunga dell'ottimismo successivo alla caduta del muro di Berlino. Un anno prima il politologo statunitense Francis Fukuyama, in un celebre saggio, aveva parlato di Fine della storia: il modello del libero mercato e della società aperta avrebbe trionfato ovunque con Washington nel ruolo di supremo garante. Le proteste di Seattle e Genova erano ancora lontane e molti guardavano alla globalizzazione con ottimismo. Le illusioni di Fukuyama si sono infrante l'11 settembre 2001 con l'attentato alle Torri Gemelle. Ma il vero colpo di grazia arrivò nel 2008 con il crollo di Lehman Brothers e l'esplosione della crisi dei mutui sub prime, da cui scaturì la crisi del debito che fece tremare le fondamenta dell'euro. Oggi la tempesta euroscettica si è abbattuta su tutti i sistemi politici d'Europa e in molti Paesi, tra i quali l'Italia, l'euro è diventato il simbolo del deterioramento economico di quella piccola e media borghesia che guarda con crescente rabbia a una classe dirigente accusata di aver tradito le promesse di quel 7 febbraio 1992 che sembrava dover aprire agli europei i cancelli di un futuro più stabile e prospero. Se il fuoco del nazionalismo è tornato a bruciare, ad alimentarlo è stato però anche l'atteggiamento di governi che in un'ottica nazionale hanno continuato a pensare, dimostrando spesso di essere i primi a non aver creduto nel sogno di un'Europa davvero unita. L'obiettivo dei padri fondatori dell'integrazione europea, come Jacques Delors, era arrivare a una progressiva cessione delle sovranità nazionali che arrivasse a costruire un soggetto politico unico. Francia e Germania, sotto la guida di Francois Mitterrand e Helmut Kohl, dovettero però cedere da subito alle resistenze di Paesi, come Olanda e Regno Unito, timorosi che una difesa europea avrebbe privato di senso l'esistenza stessa della Nato. Una prospettiva indigeribile per Londra, che non intendeva rinunciare alla sua indipendenza in politica estera e al rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. La cooperazione finì quindi per concentrarsi su quella economica, non importa quanto gli stessi architetti dell'euro, come Tommaso Padoa-Schioppa, avessero messo in guardia sui pericoli di una "moneta senza Stato". Gli Stati membri economicamente più deboli, come la Spagna, sembravano più ingolositi dai fondi strutturali che preoccupati dagli aggiustamenti di bilancio ai quali sarebbero stati costretti dalla fine dell'epoca della spesa a debito. La Commissione guidata da Jacques Santer troverà il compromesso nella convergenza sui famosi "tre pilastri": cooperazione economica, cooperazione diplomatica e cooperazione intergovernativa sugli affari interni. La clausola di opt out a favore della Gran Bretagna, chiamatasi fuori in partenza dal progetto dell'euro, non sarebbe bastata, ventiquattro anni dopo, a scongiurare la Brexit. Terminati i negoziati, il trattato sull'Unione europea viene firmato il 7 febbraio 1992 nella cittadina olandese di Maastricht dai dodici Paesi allora parte della comunità europea. Muore la Comunità Economica Europea, nasce l'Unione europea. E, soprattutto, nasce l'Unione Economica e Monetaria. Quello che verrà chiamato Patto di Stabilità e Crescita fissa i criteri contabili che avrebbero dovuto rispettare i futuri aderenti alla moneta unica, ovvero quelli che vengono comunemente chiamati "parametri di Maastricht": un rapporto tra deficit e pil non superiore al 3%, un rapporto tra debito e pubblico e Pil non superiore al 60% (con deroghe per Belgio e Italia, che registravano già livelli di indebitamento assai superiori), un tasso d'inflazione non superiore dell'1,5% a quello dei Paesi più virtuosi, un tasso di interesse di lungo termine non superiore al 2% del tasso medio dei tre Paesi suddetti e almeno due anni di permanenza virtuosa (ovvero senza fluttuazioni) nel Sistema Monetario Europeo. Il primo giugno 1998 la Banca Centrale Europea prese il posto dell'Istituto monetario europeo, in vista dell'introduzione dell'euro il primo gennaio 1999 e l'entrata in circolazione altri tre anni dopo. Il trattato di Maastricht introduce la cittadinanza europea per tutti coloro che abbiano la cittadinanza di uno Stato membro. Il diritto di stabilirsi, circolare e soggiornare nel territorio della Ue viene rafforzato. Alla libera circolazione di merci, si aggiunge la libera circolazione delle persone. Le innovazioni principali sono il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni municipali del comune di residenza (in qualunque Paese Ue esso sia) e a quelle del Parlamento europeo dello Stato di residenza; il diritto alla protezione consolare attraverso cui un cittadino europeo può chiedere assistenza all'estero alle autorità diplomatiche di un qualsiasi Paese della Ue in assenza di istituzioni di rappresentanza del proprio; il diritto di presentare una petizione al Parlamento europeo su temi di competenza comunitari che coinvolgano direttamente gli interessi del cittadino e l'istituzione di un mediatore comunitario incaricato di tutelare persone fisiche e giuridiche in caso di cattiva amministrazione delle istituzioni comunitarie. Vantaggi minimi per il cittadino europeo che, dopo l'abbattimento delle frontiere, ha iniziato a fare i conti con l'emergenza immigrazione e l'allerta terrorismo. Nei giorni scorsi Angela Merkel ha ipotizzato un'Unione europea a più velocità in risposta al continuo disgregamento dell'Europa e dell'euro. Secondo la cancelliera tedesca, questo concetto dovrebbe comparire anche nella dichiarazione in occasione del 60esimo anniversario dei Trattati di Roma, che si celebrerà in Italia a fine marzo. "La storia degli ultimi anni ha mostrato che ci sarà anche una Ue a più velocità, che non sempre tutti i membri saranno allo stesso livello di integrazione", ha affermato Merkel, sottolineando che l'incontro alla Valletta si è svolto comunque in uno "spirito di unità". La cancelliera non è certo l'unico politico ad aver ipotizzare al vertice di Malta un'Europa a più velocità. La discussione emerge soprattutto alla luce della futura uscita del Regno Unito dall'Unione europea.

Predica bene ma razzola male: le tante responsabilità di Berlino. Dietro i guai dell'Europa ci sono spesso le scelte tedesche, scrive Roberto Fabbri, Lunedì 6/02/2017 su "Il Giornale". I nazionalisti di ritorno sono soliti accusare la Germania di ogni inciampo dell'Europa. Talvolta esagerano con i pregiudizi, e non sarebbe neanche male ricordare che stiamo parlando di un Paese che su affidabilità e impegno nel lavoro ha qualcosa da insegnarci. Su molti argomenti tuttavia è difficile dar loro torto. E se oggi, a 25 anni dalla firma del trattato di Maastricht, l'ideale europeista tocca i suoi livelli più bassi di popolarità, è spesso colpa delle scelte della «locomotiva tedesca», affetta da uno storico «complesso di superiorità» che non di rado sconfina nell'arroganza. Atteggiamenti che troppo spesso hanno spinto la Germania a gestire l'Unione come il cortile di casa propria. Gli esempi, soprattutto in economia, non mancano. Possiamo partire dalla politica monetaria europea, così spesso criticata da Berlino per le scelte di Mario Draghi «l'italiano», ma di fatto favorevole agli interessi della Germania, che si avvantaggia dei bassi tassi d'interesse risparmiando cifre ingenti grazie al divario tra cedole previste e pagamenti reali. D'altra parte, come lo stesso presidente della Bce ricorda, i tassi bassi sono la conseguenza di enormi masse di denaro accumulato e non reinvestito, effetto del fortissimo surplus commerciale tedesco. E qui veniamo a un altro punto delicato. Il surplus tedesco è generato da un record mondiale delle esportazioni, equivalente all'incirca al 9% del prodotto interno lordo della Germania. Ora, è indiscutibile che un simile risultato discenda dalla qualità della produzione di beni tedeschi, ma in Europa esistono delle regole, che non sono solo quelle che garbano a Berlino: una, «firmata» dalla Commissione Europea, «raccomanda» un limite del 6% nella differenza trai volumi dell'export e dell'import: e non risulta che Berlino abbia mai subito una procedura d'infrazione per i suoi ripetuti sforamenti di questo parametro, che oltretutto generano forti sbilanci in ambito Ue. Con il diabolico combinato disposto dei tassi bassi e del surplus commerciale record la Germania incamera ogni anno 300 miliardi di euro e «regala» a quasi tutti gli altri Paesi Ue (spicca l'eccezione dell'Olanda, che sotto questo profilo è una «piccola Germania») la deflazione, causa di crescita bassa (più o meno: in Italia ahinoi di più) e disoccupazione. Questi i fatti e i numeri, e per ragioni di spazio resta fuori molto altro. Sarebbe ora che la signora Merkel predicasse un po' meno e razzolasse meglio.

Euro, 15 anni fa l’entrata in vigore. Come sono cambiati i prezzi: caffè da 900 lire a 90 centesimi, pizza aumentata del 123%. Dal primo gennaio 2002 l'addio alla lira. Dai dati della Fondazione Nens, ecco com'è diminuito il nostro potere d'acquisto. Raddoppiato il costo dei quotidiani e del Big Mac, anche se l'aumento record spetta alla Margherita: da 6.500 lire a 7,5 euro. Cresciute ben più dell'inflazione, in generale, tutte le spese vive delle famiglie: dall'elettricità al gas alla benzina, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'1 gennaio 2017. Il caffè al banco da 900 lire a 90 centesimi, il Big Mac da 4.900 lire a 4,20 euro, la pizza margherita da 6.500 lire (3,36 a euro) agli attuali 7,5 euro. Andando a cercare i prezzi di fine 2001, si scopre quanto sia cambiato il costo di beni e servizi negli ultimi 15 anni. Da quando cioè, il primo gennaio 2002, gli italiani abbandonavano la lira e nel nostro Paese entrava in vigore l’euro (quotato al cambio fisso di 1936,27 lire). Non solo cibo e bibite: dalle bollette alla benzina, è lunga la lista dei rialzi, in certi casi molto elevati. Certo ben più dell’inflazione. Ci sono anche casi inversi, soprattutto nel comparto elettronico dove è aumentata la concorrenza e sono diminuiti i prezzi, ma in questo caso più del passaggio dalla lira all’euro hanno contato i passi da gigante della tecnologia. Qualcosa è rimasto immobile nel tempo, come la giocata minima del Lotto, passata dalle 1.500 lire del 31 dicembre 2001 all’euro del primo gennaio 2002 e da lì mai più cambiata. Sono i dati del Nens (Nuova Economia Nuova Società, la fondazione che fa capo a Pierluigi Bersani e Vincenzo Visco) a fornire un termine di paragone fra i prezzi attuali e quelli di 15 anni fa. Tra i grandi classici, quella che ha subito l’aumento maggiore è la pizza margherita: pur con le dovute distinzione territoriali, si passa dai 3,36 euro della media Nens del 2001 agli attuali 7,5 euro, con un rialzo pari al 123%. Sono vicini al raddoppio invece sia il caffè al banco (da 900 lire a 90 centesimi) che il Big Mac (da 4.900 lire a 4,20 euro), come anche i quotidiani in edicola: nel 2001 leggere il giornale costava 1.500 lire, oggi 1,50 euro. Sono i simboli della perdita di potere d’acquisto degli italiani, peggiorata ulteriormente dopo la crisi economica. La lista è lunga: nel 2002 per l’elettricità, spiegava il Nens, si spendevano 647mila lire (circa 334 euro), mentre i dati pubblicati il 31 dicembre dall’Autorità dell’Energia parlano di una spesa fissata a 498 euro (+50% circa). Andamento più contenuto per il gas, con la spesa annua passata da 1 milione e 700mila lire a 1.022 euro (+16%). È salita anche la benzina, per la verità con un percorso decisamente altalenante che l’ha portata a toccare il massimo storico con punte oltre i 2 euro nel 2012. Per un litro di carburante si è passati da circa 2mila lire agli 1,5 euro attuali (+45%). L’unico comparto in controtendenza è quello dell’elettronica, complice lo sviluppo tecnologico e il boom delle vendite online che hanno ulteriormente alzato la concorrenza e abbassato i prezzi. Fare paragoni tra i prodotti di allora e quelli odierni diventa difficile. Ma basti pensare che all’inizio del nuovo millennio una Tv 46 pollici, la migliore sul mercato, costava circa 6,5 milioni di lire, mentre oggi una Tv smart Full Hd 49 pollici costa meno di 500 euro. Nel 2001 per comprare una fotocamera digitale da 1,9 megapixel di risoluzione ci volevano 890mila lire mentre oggi con circa 100 euro si trovano macchine da 20 megapixel. Infine, il Motorola Startac 130, vanto per l’epoca, costava oltre 2 milioni di lire, ben più di qualsiasi ultimo modello di smartphone.

Euro killer, ci ha rovinato la vita: ecco perché, scrive Giuliano Zulin l'1 gennaio 2017 su “Libero Quotidiano”. Con l'euro lavoreremo un giorno in meno e guadagneremo come se lavorassimo un giorno in più, disse Romano Prodi nel 1999. Sono passati quasi 15 anni dall' introduzione della moneta unica e la frase del Professore sembra che sia stata pronunciata a Zelig. È successo il contrario. O meglio, molti lavorano settimane o mesi in meno per colpa della crisi, ma non guadagnano di più. Anzi. Chi ha un posto praticamente porta a casa a fine mese uno stipendio paragonabile a quello del 2001. Con l'aggravante di aver perso anche potere d' acquisto: in quel gennaio-febbraio 2002 i prezzi dei prodotti più diffusi, dal caffè alla pasta, dall' abbigliamento fino al gelato, subirono un rincaro pazzesco, fuori dal normale, che nessuno fu in grado di fermare e analizzare. I consumatori dovettero affrontare aumenti fino al 200%. E in quei due mesi è iniziato il declino dell'Italia. Sappiamo tutti che gran parte delle colpe sono da imputare ai tedeschi, che imposero un cambio lira-euro troppo alto in modo da non avere rivali nelle esportazioni. Sappiamo anche che Prodi e Ciampi commisero l'errore di accettare il diktat tedesco per avere un posto al sole, previa introduzione di un'eurotassa, per entrare nella moneta unica, restituita solo in minima parte. Ma quello che ancora non sappiamo è perché il governo Berlusconi si voltò dall' altra parte durante i primi mesi di vita dell'euro. Solo nell' estate 2002 si creò un osservatorio sui prezzi, ma la frittata era già stata fatta. Ovvio, imprenditori e venditori italiani arrotondarono le mille lire all' euro per recuperare un po' di soldi e rimanere competivi con i partner europei. Legittimo. L'esecutivo però avrebbe dovuto fare uno sforzo sui contratti dei dipendenti e sulle pensioni. Sarebbe stato utile varare aumenti di stipendio, una tantum ed extra-inflazione, per mettere a pari i lavoratori con i produttori. Magari con interventi fiscali, tipo taglio di tasse. Sfruttando, per l'occasione, il calo dei tassi d' interesse sul debito pubblico proprio grazie all'introduzione dell'euro. Niente di tutto questo fu realizzato. Gli italiani si sentirono più poveri e iniziarono così a diminuire i loro consumi. Il circolo negativo era appena all'inizio. La crisi del 2008 e, successivamente, quella dello spread nel 2011, diedero la mazzata finale al nostro Paese. Il doppio effetto, calo del potere d' acquisto e sfiducia, innescarono il crollo delle vendite al dettaglio e degli acquisti immobiliari. Di conseguenza le aziende hanno iniziato prima a tagliare le spese superflue, poi gli investimenti, quindi a licenziare, fino a chiudere. Non a caso sono sette-otto anni che il Pil è asfittico. Le imprese, anche quelle sane, hanno così cominciato a perdere valore, perché operano in un mercato debole. Un affare per gli stranieri che hanno messo nel mirino le nostre società, marchi famosi compresi. Fanno ridere quelli che dicono che l'euro non è la causa dei mali italiani. In quel prezzo del gelato schizzato del 200% c' è tutto il nostro male. Uno autentico strozzinaggio. Spiace che nessun politico abbia chiesto scusa agli italiani. Nemmeno i grandi tifosi della moneta unica. Ma di quelli parleranno Paolo Becchi e Fabio Dragoni lunedì, con la carica dei 101 contro l'euro.

Euro: Adusbef, la rapina del secolo, scrive il 4 gennaio 2017 l'"Agi". Quindici anni d'inferno per famiglie, depredate ed impoverite di 14.955 euro pro capite, un paradiso per speculatori e cleptocrati, arricchitisi su pelle di lavoratori e consumatori.  Sfilati 358,9 mld euro, al ritmo di 997 euro di media l'anno a famiglia. (Adusbef) - A 15 anni dal changeover lira-euro (1.1.2002), introdotto anche in Italia da governanti sedicenti statisti, in realtà modesti maggiordomi della cleptocrazia europea, propagandato come la nuova Eldorado per gli italiani, ratificato forzatamente  (e senza alcun referendum popolare), la moneta unica è stata la più grande rapina di tutti i tempi a danno delle famiglie, un vero inferno, una rovina per lavoratori e ceto medio impoverito, un paradiso per speculatori, banchieri, assicuratori, monopolisti dei pedaggi, elettrici e del gas, e di tutti coloro che hanno avuto la possibilità di determinare prezzi e tariffe, al riparo dei controlli di contigue autorità, che invece di verificare la congruità dei rincari, andavano a braccetto con i rapinatori seriali. L'effetto trascinamento del cambio lira-euro entrato in vigore dal 1.1.2002 (1.000 lire= 1 euro), con lo sciagurato tasso di cambio fissato a 1.936,27 lire ad euro (invece di un giusto tasso di 1.300 lire max per 1 euro), ha svuotato le tasche delle famiglie italiane, al ritmo di 997 euro l'anno di rincari speculativi, per un conto finale di 14.955 euro pro-capite negli ultimi 15 anni. Dall'ingresso nell' euro infatti, si è registrata una perdita del potere di acquisto, che anche le statistiche ufficiali sono costrette a riconoscere, pari a 14.955 euro per ogni famiglia (24 milioni), con un trasferimento di ricchezza stimata in 358, 9 miliardi di euro, dalle tasche dei consumatori a quelle di coloro che hanno avuto la possibilità di determinare prezzi e tariffe, al riparo dai dovuti controlli delle inutili, forse contigue, autorità di settore. La “cleptocrazia europea a trazione tedesca” ha scippato perfino la speranza del futuro, a quelle masse di invisibili disperati, che nel 2001 appartenevano al ceto medio e 15 anni dopo sono costretti ad affollare le mense della Caritas, solo per sfamarsi con un pasto caldo. Dall'ingresso nell' euro infatti, avvenuto senza alcun controllo nel gennaio 2002 con il Comitato Euro che assecondava gli aumenti, si è registrata una perdita del potere di acquisto, che anche le statistiche ufficiali sono costrette a riconoscere, pari 997 euro in media annui per ogni famiglia (24 milioni), con un vero e proprio trasferimento di ricchezza stimato in 358,9 miliardi di euro, dalle tasche dei consumatori a quelle di coloro che hanno avuto la possibilità di determinare prezzi e tariffe, al riparo dai dovuti controlli delle inutili, forse contigue, autorità di settore. Il crollo dei consumi e le sofferenze economiche degli italiani, che ha colpito anche il ceto medio ed i redditi che potevano essere definiti dei “benestanti” nel 2001,è dimostrato inconfutabilmente dallo studio Adusbef sulla capacità di spesa (Cds), un indicatore economico che misura i redditi con il potere di acquisto, pari in Italia a 119 nel 2001,tra le più elevate dei paesi europei superata da Inghilterra (120); Svezia (123); Belgio (124); Austria (126); Danimarca (128); Olanda ed Irlanda (134); Lussemburgo (235); più elevata di Francia; Germania e Finlandia (116). Nel 2015 l'Italia (-16,8%) guida la classifica negativa della capacità di spesa (Cds) ridotta di 20 punti ed attestata a 99; al secondo posto la Grecia (-13,8% la Cds che passa da 87 a 75); al terzo il Regno Unito (-8,3% con la Cds a 110. Adusbef e Federconsumatori, che avevano già denunciato a fine 2001 l'ottusità della Bce, un mostro giuridico sordo e cieco, afflitto da un delirio di onnipotenza che decise di stampare la banconota da 500 euro a misura di evasori e riciclatori di denaro sporco e di economia criminale, rifiutò di stampare le banconote da 1 e 2 euro come efficace strumento in grado di offrire l'esatta percezione del valore dell'euro,  hanno già divulgato gli aumenti sconsiderati da changeover, avvenuti con la complicità dei governi, con la lista di cento prodotti con il prezzo fissato nel dicembre 2001, ultimi giorni di vita della lira, come ad es. la penna a sfera aumentata del + 207,7%, seguita dal tramezzino (+198,7%) e dal cono gelato con (+159,7%), la confezione di caffè da 250 grammi (+136,5%), il supplì (+123,9%), un chilo di biscotti frollini (+113,3%), la giocata minima del lotto (+ 97,8%), aumenti vertiginosi su prodotti di largo consumo che hanno svuotato e saccheggiato le tasche delle famiglie. Gli osservatori di Adusbef e Federconsumatori registravano anche l'aumento dei costi delle abitazioni, problema gigantesco per le famiglie italiane sia relativamente all'acquisto che per l'affitto e per il costo mensile complessivo, registrando 25 anni di stipendio nel 2014 per acquistare un appartamento di 90 metri quadri che nel 2001 ne costava 15 anni di stipendio medio, a conferma di un aumento vertiginoso dei prezzi. La finalità di demolire definitivamente un modello sociale costituito sul “valore del risparmio”, sostituendolo con società fondate sul “debito”, per rafforzare il dominio dei banchieri e della finanza di carta, degli algoritmi che strutturano i derivati killer e della troika, innescando un circolo vizioso per alimentare i profitti delle banche sulla pelle di intere generazioni intossicati dalle carte di debito, ci deve convincere a correggere i gravissimi errori fatti in questi 15 anni, per non continuare a ripeterli. Non deve essere più consentito ad una ristretta cerchia di soggetti che decidono dei destini del mondo, di disegnare un modello di Europa a misura di eurocrati e banchieri, che hanno distrutto la ricchezza delle famiglie, per ingrassare i soliti manutengoli del potere economico, anche a costo di essere definiti, dal cerchio magico delle élites che rappresentano solo loro stessi, con l'appellativo di “populisti”, ossia coloro che tutelano il popolo ed i consumatori oppressi dai banchieri centrali e dalla finanza criminale. Poiché l'euro ha rappresentato la più grande rapina, la rovina del secolo che ha impoverito grandi masse di lavoratori e pensionati, artigiani, piccoli imprenditori, partite Iva, famiglie, Adusbef e Federconsumatori chiedono di rinegoziare i Trattati europei stipulati a misura di banche e monopoli, vessatori ed iniqui per i consumatori. Elio Lannutti (Adusbef) - Rosario Trefiletti (Federconsumatori) 

Il punto di non ritorno. Purtroppo è necessario uscire dall'euro. E saranno dolori. Doppi, scrive Nicola Porro, Venerdì 27/01/2017, su "Il Giornale". Per anni Antonio Martino ci ha spiegato, anche sulle colonne di questo Giornale, di come la costruzione dell'euro fosse pericolosa. Martino, e noi con lui, venivamo definiti euroscettici. Il pensiero unico vinse. Le tesi di Ciampi, Dini, Prodi e per finire Monti e Letta, prevalsero. Per anni anche noi euroscettici abbiamo pensato con Oa (una serie televisiva e visionaria): «Esistere è sopravvivere a scelte ingiuste». Insomma negli anni, nonostante fossimo contrari all'euro-costruzione, abbiamo ritenuto che mollare sarebbe stato un pasticcio, costoso. Era necessario sopravvivere ad una scelta ingiusta. Siamo arrivati ad un punto di non ritorno. Purtroppo è necessario uscire dall'euro. E saranno dolori. Doppi. I primi li abbiamo già pagati quando aderimmo, i secondi li dovremmo affrontare ora. Chi vi racconta che ritornare alla lira è una passeggiata di salute, vi sta ingannando. Ma restare inchiodati alla moneta malata è peggio. L'Italia, è una questione di tempo, non potrà ripagare il suo debito pubblico. Negli ultimi quindici anni i suoi avanzi primari sono stati tra i più virtuosi d'Europa. La sua economia reale, al contrario, la peggiore. Siamo in una tenaglia che ci sta stritolando. Lasciamo perdere per un attimo le responsabilità. Oggi paghiamo 70 miliardi di interessi sul debito. Nei prossimi mesi sono destinati a crescere. E non saremo in grado di pagarli. A ciò si sommano le ragioni ante moneta unica. Non c'è motivo al mondo, dal punto di vista tecnico, per il quale la nostra economia debba avere una moneta rivalutata e per questa ragione la nostra industria debba delocalizzare o perdere ragioni di scambio rispetto alla Baviera. Ciò che scriviamo in queste poche righe non solo è confortato da una ricerca di Mediobanca che pubblichiamo all'interno. È argomento - non ideologico, ma tecnico - di mezzo mondo finanziario. Che si chiede non tanto se Italexit avverrà, ma piuttosto quando succederà. Abbiamo due strade. La prima è fare come coloro che non credevano a Brexit e Trump: aspettare passivi. La seconda è studiare i modi migliori e legali per rendere la rottura più indolore possibile. Ps. Un'alternativa esiste: ripudiare, anche in parte, il debito pubblico. Ma ciò ci porterebbe alla totale perdita di sovranità nazionale.

"L'addio sarà duro, ma restare sarebbe peggio". L'ex ministro ed economista: "Dire che non si può fare retromarcia aggrava la situazione", scrive Gian Maria De Francesco, Sabato 28/01/2017, su "Il Giornale".

«Nel giugno 1971 la Rivista italiana di politica economica pubblicò in caratteri minuscoli, per nasconderlo il più possibile, un mio saggio contro il piano Werner, il primo esperimento di unione monetaria europea, nel quale sostenevo che il progressivo restringimento dei margini di fluttuazione dei tassi di cambio avrebbe creato problemi».

Il report di Mediobanca non suona nuovo ad Antonio Martino, già professore di Economia politica alla Luiss di Roma e oggi deputato di Forza Italia. Quello scritto gli valse la riprovazione di Piero Fassino che lo bollò come «euroscettico» allorquando Martino fu nominato ministro degli Esteri nel 1994. Ma «il Pci fece campagna contro gli accordi di Messina del 1955 che portarono al Trattato di Roma del 1957», ricorda Martino, figlio del ministro che quegli accordi li promosse e li firmò.

Onorevole, anche Mediobanca ha ipotizzato che è possibile uscire dall'«area monetaria ottimale» dell'euro.

«Un'area monetaria è ottimale se c'è mobilità dei fattori della produzione che non può esserci tra Paesi con ordinamenti, lingue ed economie differenti. Quale mobilità può esserci tra la Baviera e la Sardegna? Si usa quel termine per l'euro perché il suo padrino è il Nobel Bob Mundell che studiava gli ambiti monetari ottimali e che non ho mai capito come potesse considerare tale l'Unione europea».

Una certa politica sostiene queste posizioni da tempo.

«La situazione è molto più complessa di come la si descrive politicamente. Luigi Einaudi era favorevole a una moneta unica perché si sarebbe tolta agli Stati nazionali la possibilità di monetizzare il debito facendo comprare alle banche centrali i titoli emessi per finanziare il deficit e aumentando l'inflazione che è la più odiosa delle imposte. Ma oggi cos'è il quantitative easing se non un acquisto massiccio di titoli del debito pubblico da parte della Bce che li paga creando euro? Fra tre anni al massimo se ne vedranno gli effetti e l'inflazione si abbatterà su uno scenario diverso dall'attuale».

Mediobanca punta il dito contro la perdita di produttività del lavoro connessa al cambio fisso.

«Se il disavanzo delle partite correnti non determina una svalutazione della moneta nazionale, il sistema si riporta in equilibrio con le variabili macroeconomiche interne: prezzi, livello dell'occupazione e sviluppo. L'Italia ristagna da tanto tempo proprio per questo motivo».

L'impostazione europea è dunque sbagliata?

«Comportarsi come se non si potesse fare macchina indietro aggrava gli errori, mentre è possibile farlo in modi non penosi dal punto di vista economico e sociale».

Quindi l'uscita è possibile come dicono Salvini, Meloni e Grillo?

«L'uscita non è semplice e indolore ma l'euro ha creato una perdita secca di potere d'acquisto. Tuttavia non vedo una maggioranza che abbia un progetto o un piano per realizzarla. L'idea del referendum non sta in piedi perché non sono ammessi in materia di trattati internazionali. Io ed altri economisti avevamo proposto nel 2012 che la Grecia adottasse una moneta parallela che circolasse assieme all'euro al tasso di cambio che il mercato avrebbe determinato. Dopo un paio d'anni si sarebbe raggiunto il tasso di equilibrio e la Grecia sarebbe potuta uscire ordinatamente».

Quali miglioramenti si avrebbero con una nuova lira?

«Se avessimo una moneta nazionale, avremmo altri due obiettivi di politica economica: l'equilibrio di bilancia dei pagamenti e la politica monetaria nazionale. È per questa ragione che da un po' si ricomincia a parlare di una possibile conveniente uscita della Germania».

Finanziamenti Italia-UE: per il Belpaese saldo negativo di 5 miliardi, ma è anche colpa nostra, scrive Marta Panicucci su "Ibtimes.com" il 16.03.2016.

Marta Panicucci. Toscana di nascita, dopo alcuni anni in giro per l'Italia, ho messo le radici a Firenze. Laurea triennale in Lettere moderne, 110 e lode alla Sapienza di Roma in Editoria e scrittura giornalistica, ho frequentato il master in Informazione multimediale e giornalismo economico-politico al Sole 24Ore. Giornalista dal 2015, smanetto su siti di informazione dal 2010. Scrivo per giornali online occupandomi soprattutto di economia e politica.

La corte dei Conti ha pubblicato la Relazione annuale 2015 al Parlamento su “I rapporti finanziari con l’Unione Europea e l'utilizzazione dei fondi comunitari” che mette sulla bilancia i contributi economici che l’Italia versa all’Unione e i soldi che Bruxelles versa, invece, all’Italia per progetti di sviluppo e occupazione. Secondo la Corte dal 2008 al 2014, la casse italiane registrano un saldo negativo di 39 miliardi, che rappresenta quindi la differenza tra quanto abbiamo dato e ricevuto in quel periodo di tempo. Soltanto nel 2014 l’Italia ha versato 5,4 miliardi in più di quanto abbiamo ricevuto come finanziamenti. Su questi calcoli si alzano le voci di protesta contro i burocrati di Bruxelles, contro l’UE brutta e cattiva che complotta contro l’Italia. Ma in realtà, il fatto che l’Italia versi più di quanto riceve è fatto noto da tempo, da quanto sono in vigore le modalità di calcolo dei contributi dovuti dai Paesi membri all’UE. Il dato interessante che, però, la Corte dei Conti aggiunge alla discussione è che la responsabilità delle minori entrate rispetto alle uscite è anche nostra, perché non sappiamo spendere i finanziamenti provenienti dall’UE.

Come si finanzia l’UE. Basta andare sul sito dell’Unione Europa per verificare le modalità con cui si finanzia l’UE. La fonte principale è il contributo dei Paesi membri calcolato in circa lo 0,7% del reddito nazionale lordo. “I principi di base – si spiega - sono la solidarietà e la capacità contributiva, ma se ne risulta un onere eccessivo per determinati paesi, si procede ad aggiustamenti”. Un’altra parte dei soldi arriva dall’IVA di ciascun Paese (circa lo 0,3%) e dai dazi all'importazione sui prodotti provenienti dall'esterno dell'UE. Per quanto riguarda il 2014, ultimo dato disponibile, la Corte dei Conti indica un saldo (negativo per l’Italia) di 5,4 miliardi di euro. Il contributo italiano è diminuito del 7,5% rispetto all’anno precedente a fronte, però, di una flessione degli accrediti ricevuti dall’Unione per la realizzazione di programmi europei del 15,1%. Inoltre, sottolinea la Corte, l’Italia continua a farsi carico insieme ad altri Paesi di una quota dei rimborsi al Regno Unito per la correzione dei suoi “squilibri di bilancio” (circa 1,2 miliardi di euro nel 2014, con un incremento di circa il 29% rispetto all’anno precedente).  Le contribuzioni di Danimarca, Irlanda e Regno Unito sono ridotte rispetto agli altri Paesi perché non partecipano a certe politiche nel settore della giustizia e degli affari interni e quindi gli altri membri devono compensare versando a loro parte dei contributi.

Le responsabilità italiane del saldo negativo. Ma se la notizia dei contributi italiani maggiori dei finanziamenti non è nuova, risulta interessante il dato evidenziato dalla Corte dei Conti sulla gestione italiana dei soldi provenienti dall’UE. L’analisi della Corte ha evidenziato che “per far fronte ai ritardi nell’utilizzo di tali fondi ed evitare perdita di risorse comunitarie, le Autorità italiane, d’intesa con la Commissione Europea, hanno ridotto la quota di cofinanziamento nazionale, attraverso le riprogrammazioni definite nell'ambito del Piano di Azione Coesione”. L’Italia da una parte non impiega soldi per i confinanziamenti con l’UE e dall’altra utilizza male i fondi accreditati dall’Unione. La Corte sottolinea il capitolo delle frodi e delle irregolarità per i contributi illeciti che continuano a crescere di anno in anno, tanto da raggiungere quota 142,2 milioni in salita rispetto agli 82 milioni di un anno prima. Questo dato di fatto non solo ci fa perdere in termini di credibilità internazionale, ma anche in termini economici veri e propri. Formazione, occupazione, imprenditoria e agricoltura sono i settori maggiormente coinvolti nelle frodi e nelle truffe con i soldi europei. “Un fenomeno che desta allarme” e che porta spesso alla “mancata realizzazione delle attività finanziate, soprattutto con riguardo ai contributi pubblici”. Insomma miliardi che partono dall’Europa, finiscono nella casse italiane che le impiega per opere o attività fantasma. Ma ormai la programmazione dei finanziamenti europei 2007-2013 è andata, ma siamo ancora in tempo per cercare di recuperare quella in corso, 2014-2020. A riguardo la Corte osserva che “l’Accordo di Partenariato tra l’Italia e la Commissione europea, del novembre 2014, prevede che le criticità dei cicli precedenti vengano superate attraverso una programmazione più trasparente e verificabile, un monitoraggio permanente ed un supporto all’attuazione, anche grazie alla Agenzia per la coesione territoriale, i piani settoriali nazionali di riferimento nonché i piani di rafforzamento amministrativo per le Amministrazioni centrali e per le Regioni”. Speriamo che la trasparenza sia sufficiente a contrastare il malaffare tutto italiano. Insomma, il saldo tra soldi ricevuti e versati dall’UE resta anche nel 2014 negativo, ma non per un accanimento dell’Unione nei confronti dell’Italia, ma perché è l’Italia stessa che continua a dimostrarsi bravissima nel darsi la tappa sui piedi da sola. E poi addossare la colpa agli altri.

Perché quando parliamo di “tornare alla lira” dimentichiamo la storia, scrive Alessandro Volpi il 15 febbraio 2017. La moneta nazionale italiana è sempre stata molto debole: la sua difesa ha causato problemi, tra cui spirali inflazionistiche, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. E in alcuni casi per affrontare le crisi della lira l’Italia ha dovuto accettare limitazioni alla propria “sovranità nazionale” - tema oggi caro a chi attacca l’euro -. L’analisi di Alessandro Volpi, Università di Pisa. "Sembra affermarsi con sempre maggiore insistenza, come tema centrale del dibattito politico, un continuo richiamo alla lira, caratterizzato da una profonda nostalgia e dall’auspicio di un ritorno ad una presunta età dell’oro caratterizzata dalla presenza delle monete nazionali. Rispetto ad una simile ondata “passatista” può essere utile mettere in fila alcuni elementi suggeriti dalla storia della nostra vecchia moneta che non dovrebbero farla rimpiangere troppo.

1) La lira è stata una moneta molto debole, fatti salvi pochi fortunati momenti. Già prima della nascita della Banca d’Italia, avvenuta nel 1893, la lira italiana emessa dalla Banca nazionale si trovò spesso sull’ottovolante, a partire dal 1866, quando fu sospesa la sua convertibilità, fino alla tempesta della Banca romana. Gli affanni proseguirono con la crisi del 1921 e soprattutto con la politica mussoliniana di Quota novanta, con cui il duce tentò un improponibile e costosissimo cambio tra sterlina e lira, fissato appunto a 1 a 90, che i grandi operatori rifiutarono, mettendo l’Italia fuori dai mercati e costringendola ad avviare una dura quanto retorica fase autarchica. Dopo la seconda guerra mondiale, le debolezze proseguirono con una sequenza micidiale di crisi; nel 1963-64, quando sulla moneta si scaricarono le tensioni sociali e politiche determinate dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica, nel 1973, allorché la lira fu colpita ancora più duramente di altre divise dagli effetti del primo grande shock petrolifero, e nel 1976, anno di una delle più pesanti svalutazioni della moneta italiana. Il 13 settembre 1992 poi il governo Amato fu costretto ad annunciare l’uscita della lira dal sistema monetario europeo (SME) e ad accettare una significativa svalutazione, di fatto imposta dalla Germania. Da quel momento, fino all’entrata in vigore dell’euro, nonostante i tanti sacrifici contenuti dalle varie finanziarie, il destino della nostra moneta non si risollevò.

2) Questa debolezza cronica ha visto conseguenze rilevanti sui conti pubblici italiani almeno su due piani ben evidenti. In primo luogo è costata moltissimo alla Banca d’Italia che ha dovuto impiegare molte risorse per difendere il cambio della lira dagli attacchi speculativi provenienti dalle altre monete. Ogni qual volta le criticità politiche del quadro italiano o le difficoltà economiche mettevano la lira al centro delle tensioni, il governatore di BankItalia doveva utilizzare tante risorse pubbliche per agire sul mercato dei cambi e riportare la nostra moneta in linea di galleggiamento. Ciò avvenne spesso sia durante il periodo di Guido Carli sia in quello di Carlo Azeglio Ciampi. I costi pubblici della lira debole sono stati poi particolarmente alti a causa dell’innalzamento dei tassi di interesse pagati sui titoli di stato denominati, appunto, in lire. Nel 1990 il tasso medio di interesse dei titoli di Stato sfiorava il 13 per cento, due anni più tardi nel pieno della già ricordata crisi della lira, il medesimo tasso era salito al 14 per cento con punte massime del 17,79 per i BOT annuali. Per tutti gli anni successivi, mentre il debito pubblico cresceva rapidamente, i tassi continuarono a mantenersi intorno al 10 per cento. Solo con l’avvento dell’euro, nonostante l’ulteriore impennata del nostro debito, i tassi crollarono abbattendo così una delle principali voci della spesa pubblica: nel 2004 il tasso medio dei titoli di Stato era caduto al 2,66 e persino durante la bufera degli spread del 2011 e 2012 tale tasso non si è allontanato troppo dal 3 per cento.

3) La debolezza della lira ha generato una continua svalutazione che ha prodotto a sua volta molteplici conseguenze negative a cominciare da una costante pulsione inflazionistica, destinata ad erodere il potere d’acquisto degli italiani, solo in parte compensata dalla maggiore competitività attribuita alle merci italiane dal deprezzamento della valuta nazionale. Il combinato disposto di svalutazione e inflazione ha infatti generato una cattiva distribuzione della ricchezza favorendo i settori votati all’esportazione rispetto al resto dell’economia dipendente invece dai consumi interni. Inoltre il fatto di fondare la competitività italiana quasi interamente sulla debolezza della lira ha drogato il sistema produttivo, bloccando qualsiasi ipotesi di ristrutturazione finalizzata a premiare i settori più innovativi. Inoltre, per evitare che la crisi della lira si trasformasse nel suo fallimento sono state necessarie manovre finanziarie durissime, in particolare proprio dopo la già ricordata uscita dallo SME, quando furono poste in essere due leggi finanziarie da circa 150mila miliardi di lire con un forte incremento della pressione fiscale e con la firma di accordi pesantissimi per i redditi dei lavoratori.

4) Ci sono poi due ulteriori aspetti, in parte tra loro correlati, che sono riconducibili alla debolezza della lira. Le molteplici crisi citate sono state affrontate con un forte dispendio di risorse pubbliche ma hanno avuto bisogno, sempre, di interventi esterni che hanno certamente limitato la sovranità italiana: così è avvenuto con la benevolenza degli Stati Uniti nel 1963 e con la non ostilità europea nel 1976 e nel 1992. Non è del tutto vero dunque che con la moneta nazionale il nostro Paese non subisse condizionamenti esterni. Il secondo aspetto consiste nelle continue fughe di capitali dall’Italia dettati proprio dalle incertezze della lira e dalle strategie di attrazione poste in essere dagli altri Paesi; un’emorragia che si almeno in parte arginata con l’euro. Rimpiangere i vecchi tempi andati non rappresenta, talvolta, la migliore soluzione." 

Il ventennio dell’Euro: la sinistra schiava e opportunista festeggia una Europa che ha distrutto e umiliato l’Italia e gli italiani, scrive il 4 gennaio 2019 Andrea Pasini su Il Giornale. Ha senso che un ergastolano festeggi il giorno della sua condanna? Penso proprio di No? Allora perché la sinistra festeggia la nascita dell’Euro? Sono già passati vent’anni da quando la moneta unica Euro fu introdotta nelle economie dell’allora Europa degli 11. Un anniversario che inebria gli europeisti di casa nostra accecati dall’ideologia dell’Europa a tutti i costi e programmati dalla propaganda per ripetere il mantra “L’Europa ci ha regalato 80 anni di pace”. L’introduzione dell’Euro doveva essere nelle intenzioni di chi la volle e forse, purtroppo, lo è stata, la saldatura definitiva dei paesi del Vecchio Continente all’interno di quella prigione fiscale chiamata Unione Europea. Dentro la quale ci sono carcerieri e carcerati: La Germania e la Francia i primi, tutti gli altri, a vario titolo, i secondi. Questi vent’anni di Euro a fronte dei pochissimi vantaggi che hanno reso, hanno fatto perdere una delle prerogative più importanti di uno stato libero e indipendente: la sovranità monetaria. Abbiamo ceduto il controllo sulla nostra politica monetaria che era l’unica cosa che avrebbe permesso di mettere in campo delle risposte diverse da quelle scelte da Bruxelles (ossia quelle dell’austerity senza se e senza ma e dell’aiuto sempre e solo alle banche, meglio se di amici di amici) per rispondere alla crisi del 2007/2008. Si sarebbe potuto, per esempio, dare un forte incentivo al consumo o sostenere il lavoro o altre opzioni ma la cosa più importante sarebbe stata che lo avremmo scelto noi per la nostra Patria, non i tedeschi o i francesi. Per non parlare del fatalismo da quattro soldi a cui si sono arresi gli europeisti di casa nostra tutto riassunto in questa infelice espressione: “eh… ma da sola l’italietta dove vuole andare?” con tutte le sue varianti del caso. Come se l’Italia non avesse mai dimostrato di saper badare a se stessa dal punto di vista economico/finanziario. L’ Euro, per chiunque non sia stato ammaestrato dalla propaganda del politicamente corretto, non è altro che il mezzo economico progettato dalla Germania per perpetuare una politica di sottomissione delle economie del Mediterraneo, prima fra tutte l’Italia. Infatti non è un caso che il fenomeno tremendo della de-industrializzazione abbia preso una dimensione preoccupante sotto l’egida dell’Euro. Nonostante il dramma economico e umano che ha portato l’Euro, la sinistra arcobaleno, gli europeisti, i radicali e tutto quel mondo politico festeggia i vent’anni di prigione monetaria. Venti anni di diktat, di umiliazioni, di ruffianerie e soprusi politici, economici e umani. Dovunque si guardi si possono cogliere più motivi per disprezzare l’Euro che per amarlo, Se si è italiani o greci (a cui va un pensiero addolorato). L’unica ricorrenza per cui si dovrebbe festeggiare ogni anno con inni e fanfare sarebbe un’eventuale uscita dall’ Euro del nostro paese non certo la sua.

Tremonti: "L'entrata dell'Italia nell'Euro? Per un interesse tedesco". "L'euro? L'Italia è entrata per interesse tedesco". Giulio Tremonti non usa giri di parole e in un'intervista al Sole 24 Ore racconta come è nata la moneta unica, scrive Luca Romano, Domenica 06/01/2019, su "Il Giornale".  "L'euro? L'Italia è entrata per interesse tedesco". Giulio Tremonti non usa giri di parole e in un'intervista al Sole 24 Ore racconta come è nata la moneta unica e soprattutto l'ingresso di Roma nell'euro. L'ex ministro del Tesoro svela un retroscena: "È molto probabile che l’Italia abbia fatto il 3% di Maastricht perché si era già deciso di farla entrare nella moneta. Tutti gli Stati hanno fatto operazioni di bilancio per centrare il 3%, anche operazioni puramente contabili. Nel caso italiano la scelta fu tedesca, in terra neutra sul lago Lemano gli industriali tedeschi da un lato non ancora consolidati nella grande Germania e dall’altro temendo la concorrenza dell’industria italiana allora ancora molto forte convinsero la “banca tedesca” a fare entrare l’Italia nella moneta così che la curva dei tassi sul debito italiano crollò". Poi lo stesso Tremonti spiega anche come sono andate le cose proprio subito dopo l'entrata del nostro Paese nel sistema della moneta unica: "Di incerto restava non l’ingresso, ma l’anno di ingresso. Non essendo un economista mi permetto di rinviare a quanto scritto da Modigliani e da Spaventa alle posizioni espresse da Ciampi, da Savona, da Romiti. È comunque probabile che il cambio lira/euro sia stato influenzato in negativo sull’Italia da tutto quanto sopra: come pizzino applicato sul biglietto di ingresso. Data la dimensione storica del fenomeno e la natura dell’Italia come paese fondatore, il tipico meschino errore". Poi risponde per le rime a Prodi che proprio sul Sole ha puntato il dito contro il governo di centrodestra del 2002 accusandolo di non aver vigilato sul rincaro dei prezzi nel passaggio da Lira e Euro: "È polemica e infantile l’idea dei controlli da fare H24. L’idea sinistra della polizia annonaria. Nella realtà, nella storia dell’Italia non ci sono mai stati o comunque diffusi pezzi monetari ad alto valore ma sempre pezzi cartacei e monetine. Perfino gli assegnini degli anni ’70 erano pezzi di carta e come tali accettati. Se mi è consentito l’unica vera idea, e non solo per l’Italia ma per l’Europa, era quella della banconota da un euro e un’idea non solo di interesse italiano come alcuni ottusi mi obiettarono ma di interesse per l’euro in sé, se l’euro aspirava a diventare una vera moneta globale. Forse non è un caso se esiste la banconota da un dollaro". Infine sull'ipotesi di un'uscita dalla moneta unica, Tremonti ha le idee chiare e respinge questo tipo di scenario: "Un conto è uscire da una moneta nazionale per entrare in una moneta sovranazionale. Un conto è uscire da una moneta sovranazionale per entrare in una moneta nazionale. Chi lo fa perde il futuro senza riacquistare il suo passato. Si dimentica che c'è stata e che c'è comunque la globalizzazione e che forze esterne distruggerebbero l'operazione".

Tremonti: «L’Italia entrò nell’euro per l’interesse tedesco. Uscirne? Sarebbe distruttivo», scrive Alessandro Graziani il 06 gennaio 2019 su "Il Sole 24 ore". «La mia prima occasione di incontro con l'euro è stata accademica alla Oxford Union Society, 18 febbraio 1999. Dibattiti provocatori e paradossali, pensi che nel 1938 in un'occasione gli studenti votarono a favore di Hitler contro Churchill, salvo poi morire sui loro “spitfire”. A ogni modo, il mio dibattito era “euro is in our national interest”? Sarei stato il primo oratore italiano mai invitato, ma ad un patto: dimostrare che l'euro conveniva al Regno Unito. L'avversario era Frederick Forsyth, che oggi si direbbe “populista”. L'occasione era unica e perciò avrei parlato anche a favore del demonio. Alla fine votarono se pure per poco a favore della sterlina. Non credo che oggi farebbero diverso, anzi». L'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti inizia con un aneddoto la sua intervista a IlSole24Ore ed entra nel dibattito lanciato da questo giornale su vizi e virtù dei 20 anni della moneta unica.

A venti anni dalla nascita, che giudizio dà dell'euro?

«Per quanto atipico l'euro è comunque una moneta e, come tutte le monete, non può essere trattato come una “monade” e neppure come un “noumeno”. Che sia Platone o Kant, che sia la tecnica a farsi metafisica, troppi “esperti” oggi considerano l'euro come entità staccata o staccabile dalla realtà ed in specie dalla politica. E questo è per certi versi paradossale per due ragioni. In primo luogo perché l'euro fu concepito dai padri come strumento economico per fare politica: “federate i loro portafogli, federerete i loro cuori”. In secondo luogo perché gli ultimi venti anni, ovvero l'età dell'euro, sono anche gli anni nei quali sono cambiate la struttura e la velocità del mondo: venti anni fa non solo c'erano ancora le monete nazionali, ma c'era anche il telefono fisso, il commercio era ancora internazionale, non c'erano l'Asia o Internet. E già questo ci porta ad una prima considerazione: che effetti hanno sulla moneta la scomparsa della domanda salariale un tempo causa sistemica di inflazione o l'apparizione di circuiti finanziari automatici ed autogestiti che rendono la moneta, un tempo segno sovrano, sempre meno sovrana di sé stessa?»

Insomma, secondo lei l’euro nacque tenendo poco conto della realtà internazionale?

«È il caso di evitare l'errore “tecnico” che consiste nel considerare l'euro solo in termini di quantità monetaria, di velocità, di tassi di interesse o di cambio. Pensando che questo possa governare la realtà o prescindere dalla realtà. Soprattutto perché l'euro è moneta atipica. Per la prima volta nella storia, si ha moneta senza governi e governi senza moneta. All'origine ci furono un grande pensiero e grandi uomini. L'impressione è che la realtà presente sia un po' differente».

L’euro è anche frutto di grandi eventi storici, come la riunificazione tedesca. Che ne pensa?

«Le date chiave sono il 9 novembre 1989 e il 15 aprile 1994. È più o meno qui che si colloca il “big-bang” della storia contemporanea: a Berlino con la caduta del muro e a Marrakech con il WTO. Non puoi capire l'una senza capire l'altra. Dal crollo del muro all'unione monetaria passano solo 700 giorni, ma sono i giorni nei quali è cambiata la storia. Forse una eterogenesi dei fini. Non la riduzione della forza tedesca con l'estensione del marco, ma l'effetto opposto. In ogni caso la storia si rimette in cammino. Dappertutto, anche in Italia. Ricordo due episodi per tutti: 15 giorni dopo Maastricht inizia a Milano “Mani Pulite”. Qualche tempo dopo attracca a Civitavecchia il Britannia».

L’ingresso dell’Italia nell’euro avvenne per merito o perchè conveniva ad altri Paesi europei?

«È molto probabile che l'Italia abbia fatto il 3% di Maastricht perché si era già deciso di farla entrare nella moneta. Tutti gli Stati hanno fatto operazioni di bilancio per centrare il 3%, anche operazioni puramente contabili. Nel caso italiano la scelta fu tedesca, in terra neutra sul lago Lemano gli industriali tedeschi da un lato non ancora consolidati nella grande Germania e dall'altro temendo la concorrenza dell'industria italiana allora ancora molto forte convinsero la “banca tedesca” a fare entrare l'Italia nella moneta così che la curva dei tassi sul debito italiano crollò. Di incerto restava non l'ingresso, ma l'anno di ingresso. Non essendo un economista mi permetto di rinviare a quanto scritto da Modigliani e da Spaventa alle posizioni espresse da Ciampi, da Savona, da Romiti. È comunque probabile che il cambio lira/euro sia stato influenzato in negativo sull'Italia da tutto quanto sopra: come pizzino applicato sul biglietto di ingresso. Data la dimensione storica del fenomeno e la natura dell'Italia come paese fondatore, il tipico meschino errore».

L’ex premier Prodi ha scritto pochi giorni fa sul Sole24Ore che se l’euro fece salire i prezzi di merci e servizi, la responsabilità è del Governo di centrodestra che, quando a inizio 2002 l’euro entrò nelle tasche degli italiani, non vigilò adeguatamente. Come risponde?

«È polemica ed infantile l'idea dei controlli da fare H24. L'idea sinistra della polizia annonaria. Nella realtà, nella storia dell'Italia non ci sono mai stati o comunque diffusi pezzi monetari ad alto valore ma sempre pezzi cartacei e monetine. Perfino gli assegnini degli anni '70 erano pezzi di carta e come tali accettati. Se mi è consentito l'unica vera idea, e non solo per l'Italia ma per l'Europa, era quella della banconota da un euro ed un'idea non solo di interesse italiano come alcuni ottusi mi obiettarono ma di interesse per l'euro in sé, se l'euro aspirava a diventare una vera moneta globale. Forse non è un caso se esiste la banconota da un dollaro».

Superato il changeover, che giudizio dà dei primi anni dell’euro?

«Nei primi anni, a partire dal 2002, tutto è stato relativamente tranquillo e credo ben governato nella relativa normalità, portata da quella che in effetti era una assoluta novità. Ad esempio nel 2003 il caso in cui i “custodi dell'euro” volevano applicare alla Germania non solo la procedura per deficit eccessivo, ma anche le sanzioni. Ricordo di aver fatto notare che il Trattato prevedeva le sanzioni solo nel caso di intenzionale e sfidante deviazione dai criteri di Maastricht e non nel caso di numeri generati da una economia in crisi. Premesso che dare le sanzioni alla Germania, ma anche a nessun altro, non è una cosa molto intelligente, premesso che la Corte di Giustizia avvalorò la proposta italiana (salvo un piccolo errore di procedura commesso perché si era all'alba), premesso che se colpita dalle sanzioni la Germania non avrebbe poi fatto le sue grandi riforme, fu davvero curioso che chi chiedeva le sanzioni in applicazione fanatica del Patto dichiarò qualche tempo dopo che il Patto era stupido».

Trattato di Lisbona, allargamento a Est della Ue, globalizzazione. L’Europa cambia. Con che impatto sull’euro?

«La storia faceva il suo mestiere e troppi esperti, governanti e santoni non si accorgevano di quello che stava succedendo. Con il Trattato di Lisbona la piramide istituzionale dell'Europa si è rovesciata, trasferendo verso Bruxelles enormi quote di potere non più controllato in senso propriamente democratico. La globalizzazione? Non è l'Europa che è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione che è entrata in Europa trovandola incantata e impreparata: l'Europa a disegnare l'astratto mercato perfetto, le nostre imprese costrette a competere con mondi molto meno vincolati e regolati. L'allargamento ad Est? Giusto, ma troppo veloce. Ed ora chi lo chiedeva così veloce condanna Visegrad. Forse avrebbero dovuto leggersi un libro di storia. In ogni caso l'Est chiedeva democrazia e Bruxelles e il Lussemburgo si sono organizzate come la fabbrica della democrazia post-moderna ad esempio occupandosi della “horizontal family”. Infine la crisi. Non si trova la parola crisi nei Trattati se non a proposito delle calamità naturali e degli sbilanci commerciali in un singolo Stato. Il fondo anticrisi proposto dall'Italia nel 2008 fu costituito anni dopo usando un notaio che arrivò di notte all'Eurogruppo incorporandolo come un “hedge fund”».

Con la crisi divampa la polemica contro l’Europa delle regole e i burocrati di Bruxelles. Di chi è la responsabilità?

«La sconfinata devoluzione di poteri verso l'alto e quindi verso un sostanziale vuoto democratico, l'orgia legislativa, la eliminazione totale istantanea dei dazi europei, la trasformazione dell'Europa in un corpus politico sui generis, la mala gestio della crisi, ciascuno di questi fatti capace da solo di produrre effetti violentissimi, e tutti insieme un caos, tutto questo per quasi venti anni è stato causato ma non capito dalla classe dirigente europea che adesso ricorda i nobili dopo la rivoluzione francese. Non hanno capito niente, ma ricordano tutto. Ricorda chi chiedeva di tenere ancora un po' i dazi e chi ancora nel '97 parlava della lumachina di mare, dei fagioli europei, dei furetti con il passaporto europeo, etc.? Pochi sanno che in extremis pochi giorni prima del voto sulla Brexit Bruxelles sospese il regolamento “toilet flushing” sugli impianti igienici da standardizzare nelle case europee. E poi uno si chiede perché “questa” Europa non è amata».

Soluzioni possibili?

«Il venire meno della solidarietà con le atrocità combinate alla Grecia e con il golpe finanziario in Italia sono episodi che non possono più essere ripetuti e forse l'idea degli eurobond, già emersa con la proposta Delors nel 1994 e più avanti con la Juncker-Tremonti, potrebbe essere la soluzione».

Gli anni della crisi hanno portato alla ribalta la Bce. Con Qe e «whatever it takes» Draghi ha salvato l’euro. Concorda?

«Una premessa. Mi risulta che il Parlamento tedesco abbia appena approvato, e che quello francese stia per farlo, una norma che sterilizza l'impatto di una “Hard-Brexit” sui derivati con controparti europee. Che cosa vuol dire? Io credo che pur determinata dalla scelta americana di creare moneta “ex nihilo” la scelta Bce della “quantitative easing” sia stata pur nella sua particolare applicazione una grande e giusta scelta: Ma forse anche per valorizzarla nella sua intelligenza politica è venuto il tempo di alcuni rilievi ed interrogativi: il 2% di inflazione è davvero un target o piuttosto un plafond? E comunque che effetto hanno gli strumenti monetari nel'età della globalizzazione? Nel wording Bce si legge da anni: “sovereign debt crisis”. Siamo sicuri che la crisi fosse nei debiti, nei bilanci pubblici o non piuttosto nel settore privato? Perché si è permesso ai Governi di fare “austerity” salvo il caso di qualche Governo che ha fatto l'opposto? Ha avuto senso speculare contro gli Npl italiani sottraendo risorse alle nostre banche ed invece ignorare il mondo opaco ed enormemente più pericoloso dei derivati?»

L’euro è irreversibile? La maggioranza degli italiani e degli europei è a favore della moneta unica. Che ne pensa?

«Un conto è uscire da una moneta nazionale per entrare in una moneta sovranazionale. Un conto è uscire da una moneta sovranazionale per entrare in una moneta nazionale. Chi lo fa perde il futuro senza riacquistare il suo passato. Si dimentica che c'è stata e che c'è comunque la globalizzazione e che forze esterne distruggerebbero l'operazione. Tra l'altro per una moneta nazionale servirebbe coesione nazionale, non una parte che la vuole e l'altra no. Chi firmerebbe le nuove banconote e chi le prenderebbe in cambio delle materie prime che noi trasformiamo? Se è pur vero che in questo momento c'è più paura di perdere l'euro che fiducia nell'euro in sé, il popolo italiano nella sua profonda saggezza la dice molto lunga al proposito. Certamente qualcosa in più va fatto. Guardi la fotografia del Trattato di Roma: uomini, un tipo d'uomo che gli inglesi dicono “grave”, uomini che avevano fatto la prigione o l'esilio per le loro idee. Guardi le “family photo” europee attuali. La differenza non sta solo nel fatto che quelle erano foto in bianco e nero e queste sono foto a colori».

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         I neoborbonici tra sovrani e sovranisti.

I neoborbonici tra sovrani e sovranisti. Pubblicato sabato, 12 ottobre 2019 su Corriere.it da Goffredo Buccini e Federico Fubini. Le organizzazioni «sudiste» criticano l’unità d’Italia (e l’Ue). Oggi si incontrano a Cosenza. «A lu suono della grancascia/ viva sempre lu popolo bascio/ a lu suono delle campane/ viva viva li popolane». Persino l’inno sanfedista che nel 1799 segnò la sanguinosa restaurazione borbonica potrebbe trovare spazio oggi a Cosenza. Nella storia rovesciata dal revisionismo nostalgico, l’eroina illuminista Eleonora Pimentel diventa «un’assassina che dal forte Sant’Elmo sparava sui napoletani» e i lazzaroni del cardinale Ruffo «patrioti che lottavano per difendere Napoli», spiega soavemente Gennaro De Crescenzo, leader e anima culturale del Movimento neoborbonico partenopeo (con un sito da trentamila iscritti, accessibile solo con parole chiave come la piattaforma Rousseau). Anche questo garbato professore di Scampia potrebbe scendere a Cosenza, rispondendo alla chiamata di Pino Aprile, il grande saggio del revanscismo meridionale che sogna gli stati generali del Sud attorno al Movimento 24 Agosto da lui fondato al grido di «equità o secessione!». Settanta o ottanta organizzazioni «sudiste» (molte delle quali con… un solo iscritto) potrebbero trovarsi lì stamattina, al teatro Modernissimo. Giornalista di lungo corso, autore del bestseller Terroni divenuto bibbia dell’insorgenza sudista, Aprile rompe gli indugi e spiega: «Loro vogliono candidarmi. Io, dopo nove libri in nove anni, ho ceduto. E sapete quando? Quando il Parlamento ha detto che priorità nazionale era la Tav e non una linea degna di questo nome tra le due più importanti città meridionali, Napoli e Bari. Ho chiamato loro che insistevano e ho detto: parliamone». «Loro» sono un magma, forse non numeroso ma chiassoso, in grado comunque di promuovere in cinque consigli regionali una giornata per le «vittime meridionali dell’Unità d’Italia», il 13 febbraio, data della caduta della fortezza di Gaeta e con essa del regno borbonico per mano dei piemontesi nel 1860. Aprile non sogna il ritorno di «Urré» sul trono delle Due Sicilie, ma in quel magma molti lo sognano. Tutti sono convinti comunque che dal Garigliano in giù il «Nord» abbia colonizzato terre e anime, riducendo in miseria il paradiso costruito dai re Borbone. Una tesi contraddetta dalla storiografia più seria, a partire da Galasso, e tuttavia sventolata quanto le bandiere col giglio che ormai ammantano gli spalti del San Paolo, avendo sostituito le confederate americane come simbolo di sudismo. Un’estetica e una politica della nostalgia attraversano il Paese almeno in due sensi, in questi anni. Magari nostalgia non di ciò che era: di ciò che si immagina sarebbe stato. Nostalgia sovranista di fronte all’integrazione europea, borbonica di fronte all’integrazione italiana. Perché in fondo, come quelle di Plutarco, queste sono storie che presentano tratti paralleli. Come l’Italia è passata da un reddito medio disponibile per abitante del 5% sopra la media dell’Europa avanzata nel 1991 all’11% sotto nel 2018, così il Meridione è passato dal 74% del reddito pro-capite del Centro-Nord nel 1971 al 54% di oggi. Come il prodotto per ora lavorata dell’Italia è passato dal 2% della media dell’Europa più avanzata vent’anni fa al 9% sotto, oggi, così il prodotto per unità di lavoro al Sud è sceso di nove punti negli ultimi quarant’anni rispetto al Centro Nord. E, come uno su cento da Agrigento o Caserta tutti gli anni emigra ancora a Milano o Padova, così nell’ultimo decennio un italiano su cento è partito verso posti come Londra, Monaco o Barcellona. Anche le nostalgie nascono e crescono parallele. È dunque irresistibile per alcuni la tentazione di pensare: eravamo più industrializzati prima di assimilarci a un insieme più vasto; abbiamo subito un’integrazione magari giusta ma imposta alle condizioni di altri, i piemontesi o i tedeschi. Sempre di più, il neomeridionalismo e il neoborbonismo (non sempre coincidenti) appaiono uno specchio attraverso il quale il sovranismo può vedere se stesso, o forse l’uno è costola dell’altro o entrambi sono frutto di una temperie dove prospera la nostalgia di un passato immaginario (la Retrotopia di cui parla Bauman). La colpa è sempre di un’entità più vasta e assorbente. Perciò il credo neoborbonico si va sposando con il sovranismo. De Crescenzo a giugno ha fatto un’ora e un quarto di intervista-spot su Byoblu.com rete sovranista che dedica tempi e attenzioni analoghe a Alexandr Dugin, Diego Fusaro, Fabio Dragoni e altri anchor sovranisti. Si dice che abbia rivisto personalmente il testo di «Al Sud», la canzone neoborbonica del suo amico Povia (non esisteva emigrazione/ non c’era disoccupazione/ ma poi venne Garibaldi/ a rubare oro e soldi). Ma nega «relazioni sovraniste» il professore di Scampia. E, fino a un certo punto, persino tentazioni separatiste: «Noi vogliamo cambiare la storia nell’Italia unita. Se poi ci accorgiamo che questa possibilità non c’è, allora arrivederci e grazie». Resta scettico tuttavia su un ingresso in politica in prima persona: «Servono soldi. Noi abbiamo duecento ragazzi con noi. E una cinquantina di imprenditori, piccoli imprenditori». Tali diffuse correnti di ripensamento attraversano le élite economiche meridionali anche quando queste non sono di fede neoborbonica. Il Mezzogiorno nell’Italia unita ha perso molto del vantaggio che aveva agli albori dell’età industriale, dice per esempio Maurizio Paternò di Montecupo, docente di economia aziendale alla Sapienza, aristocratico di una delle più grandi famiglie siciliane di epoca borbonica e membro di decine di collegi sindacali in tutti i settori industriali del Paese. Nelle sue parole di italiano non pentito, «il Sud si sarebbe salvato molto di più se fosse rimasto indipendente e autonomo». In fondo c’è chi lo pensa anche dell’industria italiana prima del processo europeo. Paternò ricorda la prima ferrovia su suolo italiano costruita dai Borboni fra Napoli e Nocera nel 1836, la fabbrica di mozzarelle della Reggia di Carditello dei primi dell’800, la Real fabbrica della seta di San Leucio (Caserta) del 1778. «Quello fu uno dei primi impianti integrati di produzione in Italia» dice Luciano Morelli, ex presidente di Confindustria Caserta e amministratore delegato della Eco-Bat di Milano. Morelli, che sottolinea come per lui l’Italia e l’Europa siano «un valore», descrive l’unificazione dei Savoia come «guerra di conquista» e confessa «nostalgia per quello che avrebbe potuto essere e non è stato». Ma, legandosi a un sentire ormai comune, sovranismo e borbonismo si spingono un po’ più in là. Il filosofo sovranista Fusaro è molto vicino a Pino Aprile, che ne ha sponsorizzato la candidatura a sindaco di Gioia Tauro, non con grandi risultati: «Io però nel suo progetto politico nemmeno ci entro, mi interessava che un elemento di rottura fosse inserito in quel sistema di potere. Dopo di che, Diego e io siamo amici, sì», dice Aprile. Prove tecniche di intesa antieuropea? L’autore di Terroni scantona. «Io voglio l’Europa dei popoli, dei catalani e dei calabresi. Poi c’è sicuramente qualche area del meridionalismo che confonde sovranismo e indipendenza. Forse voi non avete notato una cosa: da anni il Sud vota in blocco, viene fregato, si sposta in blocco da un’altra parte. Nasce prima la consapevolezza di sé e poi qualcuno che la rappresenta». Aprile muta insomma in compatto voto d’opinione ciò che per decenni appariva il tentativo clientelare di saltare sul carro del vincitore quale che fosse. Oggi, inutile dirlo, tanta opinione s’è girata verso la Lega. Il leader meridionalista siciliano Enzo Maiorano è stato un precursore: molto vicino a Roberto Calderoli già nel 2004. Ma restano a conferma di questo singolare legame anche le lodi per i neoborbonici del leghista Mario Borghezio, «non siamo più soli, anche dall’altra parte della Penisola ci sono veri patrioti», e l’ammirazione di molti neoborbonici per il governatore leghista veneto Luca Zaia, «ci servirebbe qui uno come lui». Non pochi oggi dicono «facciamo come la Lega», lasciando circolare una mitologia speculare ai celti e a Pontida: il brigante Carmine Crocco, i massacri di Pontelandolfo, il presunto lager per borbonici irriducibili nella fortezza piemontese di Fenestrelle, il ricordo di Pietrarsa come del simbolo di una potente industrializzazione borbonica poi stroncata dagli italiani. «Sarebbe ridicolo dire Borbonia felix», ammette Marco Esposito, giornalista e saggista non certo ostile al movimento: «Tuttavia l’unità è nata con l’idea di uccidere Napoli che li terrorizzava». Il tema è scivoloso. Si informa sulle domande e poi fa perdere le tracce il «capo della Real Casa» Carlo di Borbone, domiciliato fra Parigi e il principato di Monaco, ma raggiungibile a una mail che ha come nome di dominio sicilie.com (al plurale...). Pure Luigi de Magistris si eclissa dopo un primo contatto. Di certo ha fatto aprire dalla giovane pasionaria meridionalista Flavia Sorrentino uno sportello (Difendi la città) a tutela dell’onore partenopeo e da anni tiene in caldo molti filoni retorici del populismo sudista. L’ex direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco Demarco, autore di Terronismo, sostiene addirittura che, di fronte al consueto giochino della torre (chi butteresti giù tra Garibaldi e Crocco?), il sindaco nicchierebbe. Forse per non indispettire «lu popolo bascio».

·         I Borbone da sempre sotto attacco sulle spinte straniere.

Il destino crudele di Eleonora Pimentel vittima dei Borbone. Pubblicato mercoledì, 04 settembre 2019 da Paolo Mieli su Corriere.it. Una biografia di Antonella Orefice (Salerno) restituisce l’onore alla poetessa che partecipò alla rivoluzione del 1799 e fu impiccata a Napoli per volontà del re. La Napoli di fine Settecento era la più popolosa città di un’Italia che non era ancora Italia. Il censimento del 1742 aveva registrato poco più di 300 mila abitanti. Più 100 mila stranieri. Il 10 per cento dei locali erano i cosiddetti «lazzari» (dal vocabolo spagnolo laceria che sta ad un tempo per lebbra e miseria). Il conte di Tournay, Charles de Brosses, così li descrisse al ritorno da un viaggio nella capitale del regno borbonico: «La più nauseabonda gentaglia che sia mai strisciata sulla faccia della terra; banditi e fannulloni che passano la loro vita nelle strade e vivono della distribuzione dei conventi; tutte le mattine invadono le scale e l’intera piazza di Monte Oliveto e offrono uno spettacolo di tale laidezza da far vomitare». Goethe fu più comprensivo verso quei «vagabondi»: il «lazzarone», secondo lo scrittore tedesco, «tutto sommato non è per nulla più ozioso del suo simile di altre classi». Saranno, in ogni caso, quegli straccioni i protagonisti della controrivoluzione del 1799 che, incoraggiata dal sovrano, farà a brandelli il ceto della Repubblica. Repubblica che, sorretta dall’esercito francese, per qualche mese aveva dato a Napoli l’illusione di essere improvvisamente diventata un’avanguardia rivoluzionaria dell’Europa tutta. Un’esperienza destinata ad affascinare gli storici meridionali: dal pur critico e coevo Vincenzo Cuoco a Benedetto Croce. «Eleonora Pimentel Fonseca» pubblicato dalla casa editrice Salerno (pagine 312, euro 22) esce il 12 settembre La storia di quella rivoluzione è al centro di un libro, Eleonora Pimentel Fonseca di Antonella Orefice, in uscita da Salerno. Eleonora, era nata a Roma, nel gennaio 1752, da una famiglia portoghese. Il padre, don Clemente Henriquez de Fonseca Pimentel Chaves, aveva deciso di trasferirsi nella città di Papa Benedetto XIV per sposare una sua conterranea, Caterina Lopez de Leon. La Roma di quel Papa, al secolo Prospero Lambertini, aveva eccellenti rapporti con il Portogallo in rapida modernizzazione sotto la guida del marchese di Pombal, acerrimo nemico della Compagnia di Gesù. Dopo la morte di Benedetto (1758) e l’elezione di un Pontefice filogesuita, Clemente XIII, il padre di Eleonora aveva deciso di trasferirsi a Napoli, che con il Portogallo manteneva ottimi rapporti. Napoli fu scelta perché — come aveva fatto Lisbona nel 1759 — si accingeva ad espellere i suoi seimila gesuiti (1767). Fu così che Eleonora divenne «napoletana». In quella fine del XVIII secolo allorché, puntualizza la Orefice, Napoli raggiunse «il massimo del suo splendore»: il regno di Carlo di Borbone aveva donato alla capitale del Mezzogiorno un’immagine prestigiosa. Per via di «riforme sociali e sfavillanti progetti edilizi» l’antica Partenope fu sempre più apprezzata in Europa e tale apprezzamento continuò a crescere anche dopo l’ascesa al trono di Ferdinando IV, almeno finché il regno fu governato da Bernardo Tanucci (1776). Ma nel momento della cacciata di Tanucci — in qualche modo pretesa dalla moglie del re, Maria Carolina d’Austria — le relazioni tra la città e la sua élite intellettuale iniziarono ad incrinarsi. Élite che aveva avuto il personaggio simbolo nel giurista Gaetano Filangieri, ammirato non solo da Benjamin Franklin, ma anche da Goethe (per la «nobiltà temperata dall’espressione di uno squisito senso morale», scrisse l’autore del Viaggio in Italia). Ed entrò a far parte di questa avanguardia intellettuale la giovane Eleonora, già famosa prima del 1799 come scrittrice di opere elegiache.

Eleonora fu già prima del ’99 una ribelle. La fonte principale di documenti sulla sua vita è nelle carte della crisi coniugale «scoperte» quarant’anni fa dall’avvocato Franco Schiattarella. La Pimentel ebbe un matrimonio infelice (1778), con Pasquale Tria de Solis, tenente dell’esercito borbonico quasi vent’anni più anziano di lei. L’unione fu turbata dalla morte (per vaiolo, poco dopo la nascita) di un figlio, Francesco, e dagli ostentati tradimenti del marito. Finché nel 1785, sette anni dopo le nozze, Eleonora decise di separarsi. Scelta che, sottolinea l’autrice, all’epoca fu considerata «un’ignominia». In particolare per una poetessa di corte. La quale però riuscì a ottenere da un giudice al passo con i tempi, Andrea Tontulo, il riconoscimento delle sue ragioni. Sicché da quel momento Eleonora poté dedicarsi ad una «nuova vita»: protetta dalla corte, che le aveva affidato un incarico di bibliotecaria, si occupò della comunità di San Leucio, poi della piccola Filadelfia, fondata in Calabria da un vescovo giansenista liberale di Potenza, Giovanni Andrea Serrao. All’indomani della Rivoluzione francese, Eleonora fu conquistata dai «giacobini napoletani», giovani colti e idealisti appartenenti a famiglie «benestanti se non ricche» che non condividevano la supponenza antifrancese di sovrani e aristocratici. Ma, precisa la Orefice, «è importante sottolineare che l’etichetta di “giacobini” fu loro attaccata in modo improprio senza tener conto delle reali caratteristiche di questi cospiratori che avevano ben poco in comune con gli adepti al club dai quali erano nati a Parigi il governo di Robespierre e il Terrore». Ormai però il gioco era fatto. La regina Maria Carolina (sorella della moglie di Luigi XVI decapitata in Francia con il marito) si mise alla testa di un’offensiva contro i «giacobini» napoletani e quando, dopo alcuni complotti che videro anche Eleonora in veste di «sospettata», fu scoperta nel 1794 una vera congiura, la repressione con partecipazione festante dei «lazzari», fu violentissima: recisione delle mani, lingue estirpate, teste tagliate, corpi dei supposti cospiratori bruciati in piazza.

Nel 1794 si concluse la fase più sanguinosa della Rivoluzione in Francia. Venne poi l’epoca del Direttorio, Napoleone iniziò la campagna d’Italia e Ferdinando IV — pur sospettoso — cercò di inserirsi nel gioco politico. Ma Maria Carolina tenne duro nella sua ispirazione violentemente antifrancese. Finché gli eventi precipitarono: a fine dicembre 1798 la corte fuggì a Palermo sul vascello Vanguard messo a disposizione dall’ammiraglio Nelson. E venne il tempo della Rivoluzione napoletana — «facilitata» dai 28 mila soldati del generale Championnet — che iniziò con l’assalto alle carceri e la liberazione dei detenuti. La fortezza di Gaeta si arrese ai francesi senza combattere. Gli uomini che il re aveva lasciato a sovrintendere la resa si diedero alla fuga e, scrive la Orefice, la plebe napoletana reagì con ira: «Con aria spavalda e minacciosa i peggiori criminali percorrevano strade e vicoli intenzionati a difendere valori religiosi, politici e morali» contro i francesi che si comportavano come un esercito di occupazione. Fu la situazione parossistica che si trovò ad affrontare Eleonora la quale, quarantasettenne, ottenne dal governo provvisorio la direzione del «Monitore Napoletano», giornale nato sul modello di quelli che avevano accompagnato l’intera campagna napoleonica. A differenza però di altri fogli, quello della Pimentel fu critico anche nei confronti dei «liberatori» francesi. Nel senso che i «giacobini» partenopei furono percepiti più come collaborazionisti che rivoluzionari. Non però Eleonora. Il numero del 26 marzo del «Monitore» denunciò il generale Antonio Gabriele Venanzio Rey per le «manovre economiche estorsive» nei confronti della popolazione. Il numero precedente aveva rivelato una frode del generale Guillaume Duhesme. Rey cercò di censurare il giornale e di fare arrestare il tipografo, Gennaro Giaccio. La Pimentel tenne duro, smascherò le ruberie del generale francese e ne ottenne la rimozione. Un secolo e mezzo dopo (nel 1947) Benedetto Croce diede risalto a quell’articolo del «Monitore» che diceva molto dell’integrità morale della Pimentel. Il giornale ebbe vita breve. Come, del resto, la Rivoluzione napoletana. L’ultimo numero del «Monitore» fu il trentacinquesimo, pubblicato l’8 giugno 1799. Le truppe del cardinale Fabrizio Ruffo che, su autorizzazione di re Ferdinando, da febbraio erano risalite dalla Sicilia reclutando un grandissimo numero di contadini e popolani — fu per dimensioni l’unica esperienza autenticamente popolare in quella fase della storia d’Italia — giunsero a Napoli. Al grido di «Viva Sant’Antonio» (in polemica con San Gennaro, accusato di aver «fatto il miracolo» al cospetto di Championnet, regalando popolarità al generale francese) e «Viva Santafede» entrarono in città. Fu il finimondo: i preti rimasti a Napoli o nei dintorni che non avevano preso parte alla spedizione di Ruffo, per dare testimonianza di adesione alla causa borbonica, «incitavano al massacro e benedicevano ogni scelleratezza». I seguaci della Rivoluzione, individuati spesso in modo approssimativo, venivano uccisi, fatti a pezzi: parti del loro corpo furono arrostite e mangiate; le teste decapitate erano prese a calci in un macabro gioco di strada. Il cardinale Ruffo (che questo libro in qualche modo rivaluta rispetto alla demolizione che di lui ha fatto la storiografia risorgimentale) accettò il 19 giugno una resa molto vantaggiosa per i rivoluzionari ai quali (quasi tutti) sarebbe stato consentito di espatriare o riprendere la propria vita nel regno. Il trattato, secondo cui «i prigionieri di entrambi gli schieramenti» dovevano «essere subito rimessi in libertà», fu firmato anche dal rappresentante inglese. Ma Nelson, in nome del re Ferdinando, respinse i patti pur sottoscritti da un emissario britannico. Il cardinale Ruffo si ribellò all’ammiraglio che, dopo un’estenuante trattativa, accettò di fare imbarcare alcuni rivoluzionari, tra i quali avrebbe dovuto essere Eleonora. A quel punto però re Ferdinando pretese che uomini e donne che avevano avuto un ruolo da protagonisti nel ’99 napoletano fossero fatti prigionieri e in gran parte impiccati.

Si ebbero alcune sorprese: i lazzari — aizzati in parte da Lady Hamilton, amante di Nelson — si scagliarono contro i sanfedisti accusandoli di parteggiare per i repubblicani. Il cardinale Ruffo, che si era battuto per comportamenti leali a favore di coloro che si erano arresi, a questo punto si dimise da ogni incarico. Quando poi tornò a Napoli (per un mese soltanto, ospite della nave Foudroyant di Nelson ancorata in porto, prima di tornarsene a Palermo dove sarebbe rimasto due anni), Ferdinando IV, «per evitare che si creasse una frattura con i sostenitori del cardinale», respinse le dimissioni e lo nominò luogotenente generale del regno, carica corrispondente a quella di un viceré. Poi però diede inizio alle esecuzioni, a partire da quella dell’ammiraglio Francesco Caracciolo che lo aveva sì accompagnato a Palermo nel dicembre 1798, ma nel marzo successivo lo aveva «tradito» per unirsi ai rivoluzionari. E battersi, valorosamente, contro la flotta borbonica nei mari di Procida, Sorrento e Castellammare. Dal re fu poi dato l’ordine di annullare qualsiasi provvedimento preso in virtù degli «infami principi democratici» nonché di «togliere dagli archivi e dai processi tutte le carte» che potessero in un futuro provare l’esistenza di quella «sedicente Repubblica». E soprattutto il massacro ad essa seguito. Tale provvedimento «mirava», sostiene l’autrice, «a distruggere la memoria storica di quegli eventi di cui nessuno avrebbe dovuto più proferire parola o cercare di emulare, pena la morte». La repressione durò cinque anni. Fu una delle più spietate operazioni di cancellazione della memoria. Ne fu vittima anche la Pimentel, riacciuffata, processata, giustiziata e poi «riraccontata». Si diffuse la diceria che la direttrice del «Monitore napoletano» fosse stata condotta al patibolo priva di mutande, cosa che «avrebbe consentito, a maggiore soddisfazione della plebe, di poter osservare la fuoruscita dell’utero in seguito all’impiccagione». Secondo Enzo Striano — ne Il resto di niente(Mondadori) — qualcuno le avrebbe offerto in extremis una spilla per congiungere i lembi della veste. Ma la Orefice dimostra che si tratta di leggende, anche in quest’ultima versione più pietosa.

All’inizio del 1806 nuovo giro di boa: giunse a Napoli il generale napoleonico Massena, che mise di nuovo in fuga Ferdinando alla volta di Palermo. Su Napoli regnarono prima Giuseppe Bonaparte, poi Gioacchino Murat. Ferdinando tornò sul trono nel 1815 come re delle Due Sicilie. Ma stavolta si impegnò nella «politica dell’amalgama», cioè a tenere al loro posto sia i funzionari dell’apparato statale che gli ufficiali dell’esercito promossi dai francesi. La damnatio memoriae sopravvisse solo nei confronti dei rivoluzionari del 1799. In particolare per Eleonora. Accusata, volta a volta, di esser stata «la borbonica, la poetessa, la traditrice, la femminista, la rivoluzionaria, l’esaltata, l’infanticida, la sublime e finanche l’ermafrodita», tutte definizioni «arbitrarie, forzate e spesso offensive», avallate purtroppo «dalle incolmabili lacune documentarie». Lacune che però Antonella Orefice è riuscita in grandissima parte a colmare. Restituendo alla Pimentel ciò che era doveroso restituirle. A Eleonora Pimentel Fonseca il giovane Benedetto Croce dedicò un saggio nel 1887. In seguito Croce curò una raccolta di scritti della Pimentel, riedita nel 2000 dal Mulino e dall’Istituto italiano per gli studi storici, Il Monitore Repubblicano del 1799. Enzo Striano (1927-1987) rievocò a sua volta la Pimentel nel romanzo Il resto di niente, edito nel 1986 da Loffredo, poi riproposto da Avagliano nel 1997, da Rizzoli nel 1998 e da Mondadori nel 2013. Da segnalare anche: Maria Antonietta Macciocchi, Cara Eleonora (Rizzoli, 1993); Mario Forgione, Eleonora Pimentel Fonseca (Newton & Compton, 1999); Elena Urgnani, La vicenda letteraria e politica di Eleonora de Fonseca Pimentel (La Città del Sole, 1998)

·         Garibaldi, dalla spedizione dei Mille ai partigiani.

"Io faccio il tifo per la mia Patria. È la storia a dirmi che sono italiano", scrive Matteo Sacchi, Lunedì 22/04/2019, su Il Giornale. Non si sa se Metternich abbia detto davvero che Italia è solo un'espressione geografica (la frase fu all'epoca probabilmente distorta). A volte sembra, però, che siano gli italiani stessi a pensarlo: tentazioni secessioniste, recriminazioni neoborboniche, senso di inferiorità verso le altre nazioni. Non tutti, per carità, e sicuramente non l'archeologo e scrittore Valerio Massimo Manfredi. Ha appena dato alle stampe per Sem Sentimento italiano (pagg. 158, euro 15). Il libro, che ha molti passaggi autobiografici, è un inno a quello che nel sottotitolo è definito come «un popolo inimitabile», un popolo che però a torto «pensa di meritare qualunque disprezzo». Ne abbiamo parlato con lui.

Cos'è il sentimento italiano?

«Per me è un sentimento naturale, l'insieme dei valori con cui sono cresciuto e mi sono formato. È un insieme di cultura e di esperienza che è stato possibile acquisire solo crescendo e vivendo in un territorio che vanta trenta secoli ininterrotti di storia. C'è un filo rosso di civiltà che non si è mai spezzato dall'ottavo secolo avanti Cristo. È una cosa unica. Certo ci sono altre civiltà antichissime. Ma guardi la Cina: lì la continuità è stata spezzata dalla rivoluzione culturale di Mao... Il comunismo ha portato un oblio forzato; da noi invece la fiaccola non si è mai spenta. A volte ha vacillato ma spenta mai».

Eppure non abbiamo molto orgoglio nazionale. Come mai?

«La territorialità è tipica di tutti gli animali evoluti. Bello il canto dell'usignolo vero? Sta solo segnalando agli altri usignoli che quel territorio è il suo. Il senso della territorialità negli umani è organizzato, basta a pensare al concetto di limen dei romani, per intenderci. Gli italiani hanno lottato a lungo per essere una nazione. Poi è arrivato il trauma prodotto dal fascismo. Mussolini ha illuso gli italiani di essere una superpotenza militare. Il trauma della sconfitta li ha piegati. Hanno iniziato a percepire la parola Patria come fosse un tradimento o un inganno. Come scrive Corrado Alvaro, hanno iniziato a tifare per Radio Londra, a tifare contro i loro figli in guerra. È stato un trauma tremendo che ha lasciato tracce profonde. Fortunatamente l'Italia si è rialzata, ma il trauma è rimasto».

Questioni ideologiche hanno pesato?

«Indubbiamente c'è stato un pezzo di sinistra che, a colpi di ideologia marxista, ha trasformato la Patria soltanto in una proiezione dei poteri del capitale cattivo che manda in guerra i poveracci. Ci sono voluti anni e anni per rivedere il Tricolore fatto sventolare sistematicamente. Questo grazie anche ad alcuni presidenti della Repubblica che hanno particolarmente insistito sul tema... Ma siamo sinceri: anche un pezzo di destra ha coltivato idee secessioniste. C'era chi si permetteva di dire che col Tricolore ci si puliva il culo. Per me è intollerabile, i miei nonni hanno combattuto nella Grande guerra».

Ma il sentimento di italianità c'è?

«Spesso è nascosto ma poi viene fuori. Conosco colleghi che hanno avuto carriere sfolgoranti all'estero ma che rientrerebbero subito in Italia se ne avessero la possibilità. Mi hanno spesso chiesto di parlare di Italia a scuola, nei convegni e anche a Mantova al Festivaletteratura. Lì ho iniziato citando Augusto e le Res Gestae: Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua. È da prima di Augusto che esiste l'idea dell'Italia. È stato Giulio Cesare a inventare l'idea di Occidente. Noi abbiamo tutto questo alle spalle e non possiamo perderlo. Il grande rogo della civiltà romana si è trasformato in una fiammella ma la fiammella non si è mai spenta. L'hanno tenuta viva Dante, Petrarca, Machiavelli. È arrivata al Risorgimento e lì ha consentito di ritrovare un'unità che, per secoli, a colpi di divisioni e di invasioni ci è stata negata».

Nel libro insiste molto sul valore del Risorgimento. Ma negli ultimi anni è nata tutta una pubblicistica neoborbonica che trasforma parte dell'epopea risorgimentale in una mera invasione...

«Il Risorgimento è stato un momento fondamentale, dopo secoli di oppressione e spoliazione gli italiani hanno ritrovato la loro dignità. Era pensabile che un fenomeno del genere avvenisse senza violenza? Ci sono stati episodi terribili, come quello di Bronte, ma non si può ridurre l'impresa di Garibaldi a un'invasione. È arrivato in Sicilia con mille uomini ed è sbarcato sul continente con trentamila: qualcosa vorrà dire no? E poi tutto questo rimpianto dei Borbone a sud e degli austriaci a nord... I Borbone avevano uno stato stagnante e di polizia, gli austriaci fucilavano i volontari tredicenni accorsi a difendere Venezia, non so cosa ci sia da rimpiangere...».

Eppure per molti Garibaldi...

«Fermo lì. Lasci stare Garibaldi. C'erano 500mila persone a Londra a festeggiare Garibaldi quando arrivò nel 1864. Ha dimostrato al mondo che gli italiani sapevano battersi e fare da soli. Aveva un Paese ai suoi piedi e non si è mai arricchito. C'è un solo posto in cui si parla male di Garibaldi ed è l'Italia, persino Lincoln, durante la guerra di Secessione, lo voleva negli Usa per dargli il comando delle truppe dell'Unione, anche se non sapeva una parola di inglese. Si può riflettere sulla storia, ma non stravolgerla».

Che differenza c'è tra patriottismo e nazionalismo?

«Il secondo è la degenerazione del primo, il primo è amore per la patria, il secondo si trasforma in odio per il prossimo. Lo capisco è difficile ormai parlare di patriottismo però io tifo per noi! Lo trovo normale. Posso raccontarle una cosa?»

Prego.

«Quando ho finito il romanzo sulla disfatta della selva di Teutoburgo ho deciso di andare là a deporre un fiore per un centurione nato a Bologna e morto durante la battaglia, durante la strage delle legioni di Varo. Si chiamava Marco Celio e aveva 53 anni ed era di Bologna, quasi un concittadino per me, gli dedicò una stele suo fratello, è per questo che conosciamo il suo nome. Ho scelto un punto degli scavi archeologici dove un cartello segnalava che erano stati ritrovati i sandali di un ufficiale romano appartenuto alla XVIII legione. Ho deposto lì il mio fiore. C'era una scolaresca tedesca un po' rumorosa. Vedendo il gesto si sono fatti più silenziosi, l'insegnante mi ha chiesto perché stessi mettendo un fiore lì e ho risposto: Because I'm italian. Lo ripeto, io tifo per noi».

Come può la piccola Italia sopravvivere in un mondo globale?

«La risposta è l'Europa. Avere l'Europa unita è un sogno e non un fatto solo economico. E quel sogno è nato anche grazie all'Italia che è tra i fondatori. Unire popoli che si sono fatti la guerra per secoli è il più grande esperimento politico che ci sia in circolazione».

Garibaldi, dalla spedizione dei Mille ai partigiani, scrive Giorgio Granzotto il 5 febbraio 2008 La Repubblica. Il 31 dicembre si è chiuso il capitolo delle iniziative bellunesi per il bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi. Per la verità non sono state molte, quasi che il Generale non appartenesse più alla storia d'Italia o comunque fosse passato troppo tempo per suscitare una diffusa emozione, reo, si dice anche, di aver conquistato all'unità italiana quel Mezzogiorno che si 'meritava" un regime come quello borbonico, contro il quale 'l'odio era diffuso in tutte le classi sociali" (G. Candeloro nella Storia dell'Italia moderna). Tra le iniziative ha primeggiato la mostra 'Belluno Garibaldina", allestita dagli studenti della seconda Liceo classico classi A e B, una novità nella iniziativa e nel contenuto, di notevole interesse storico per i reperti che ha esibito e notevole per il lavoro di ricerca che è valso a mettere insieme i nomi dei bellunesi che parteciparono alla spedizione dei 'Mille" del 1860 e in altri momenti dell'epopea garibaldina. Ricerca pubblicata in un fascicolo nella collana edita dal Comitato di Bolzano dell'Istituto per la storia del Risorgimento. Però si è forse persa l'occasione per richiamare, nella riflessione indotta dalla mostra, quel contesto storico in cui avvenne la spedizione di Garibaldi e forse sarebbe stato interessante raccogliere, ma come pretenderlo da quei ragazzi volenterosi? Quello che allora fu detto e da taluno ancor oggi si dice contro la virtuosità di quella spedizione e del suo Generale, condannato come avventuriero e, impudicamente, commerciante di schiavi, come un disvalore nella nostra identità di Nazione che nacque dal complesso nostro Risorgimento, fatto di intellettuali e popolo. Garibaldi si mosse secondo un disegno democratico, un dovere politico con il fine della unità nazionale che era già di lingua e di cultura. Il Risorgimento tuttavia, alla fine, si svolse e concluse con la egemonia del "partito moderato", nella sedimentazione dei movimenti giacobini (confrontasi Antonio Gramsci e Rosario Romeo nella medesima ma divergente conclusione) e con la sconfitta della parte democratica, del Partito d'Azione (Mazzini, Garibaldi e lo stesso Cattaneo) avendo quello dietro di sé uno Stato organizzato, una dinastia secolare, istituzioni e magistrature efficienti, un esercito bene armato ancorché con generali sprovveduti, e questo invece solo volontari male armati. E poi nell'Italia unita il trasformismo fu l'arma politica usata e vincente, mentre sul piano economico - sociale prevalse 'il patto scellerato" tra borghesia industriale del nord e gli agrari - latifondisti del sud, con l'accantonamento di qualsiasi riforma agraria sostituita da uno sfruttamento di natura coloniale. Il fascismo cercò di volgere a proprio favore il mito di Garibaldi, trasformando il senso della Nazione italiana, proprio del pensiero suo, in un vieto nazionalismo. Gli epigoni di Garibaldi furono gli interventisti democratici nella prima guerra mondiale - Trento e Trieste come completamento dell'unità - in cui l'importanza della solidarietà internazionale per la democrazia era più forte dello stesso tema dell'irredentismo sulla scia della partecipazione di Garibaldi alla prima Internazionale. Nel tempo che verrà dopo, il garibaldinismo democratico e progressista rivisse quando, contro il golpe del generale Franco a difesa della Repubblica si schierarono le Brigate internazionali, formate dagli antifascisti accorsi da tutto il mondo e segnatamente la 12º Brigata Garibaldi costituita dagli antifascisti italiani (e tra di essi un buon numero di bellunesi). Contro il fascismo nelle sue forme italiane e tedesca, nacque in Italia dopo l'8 settembre 1943 la Resistenza e di nuovo 'i garibaldini" furono la parte più consistente nella lotta per l'indipendenza, e l'unita della patria, per la libertà. Il movimento garibaldino nella Guerra di Liberazione nacque su ispirazione dell'antifascismo comunista ma comprese volontari della più varia ascendenza e appartenenza; si pensi, ad esempio, alla forte presenza di cattolici nella Brigata 'Gramsci" operante nel Feltrino. Il movimento partigiano in provincia di Belluno si articolò in Brigate e Divisioni garibaldine - l'originaria 'N. Nannetti" e poi la 'Belluno", avendo accanto alcune Brigate autonome - la 7ma Alpini di ispirazione azionista, la 'Val Cordevole" d'ispirazione cattolica e la 'Piave". Come narrano i documenti, l'atto iniziale è del 23 settembre 1943, il nome di Garibaldi fu scelto per tre motivi fondamentali che indicano il percoro 'politico" di quelle formazioni partigiane. Anzitutto per quello che rappresentava nella storia d'Italia e nella coscienza popolare il nome di Garibaldi e il garibaldinismo come lotta guerrigliera e popolare; in secondo luogo perché rappresentava una continuità nei fini e nei metodi con la lotta armata combattuta contro il fascismo che dalla Spagna dilagherà in tutta Europa in una guerra atroce, in terzo luogo per dare al movimento partigiano un simbolo capace di unificare in una lotta popolare i patrioti di qualsiasi fede politica o religiosa.

572 furono le Brigate Garibaldi presenti in tutte le Regioni occupate dai nazisti. Il segno distintivo degli appartenenti alle Brigate garibaldine, anche rispetto alle formazioni di altra ispirazione (Fiamme verdi, ecc.) fu il fazzoletto rosso annodato attorno al collo. Il colore rosso certamente richiamava il 'rosso" delle lotte operaie e contadine dalla fine ottocento e delle sue significative bandiere ma fu conseguenza diretta della scelta del nome di Garibaldi e che richiamava nella sua interezza il fenomeno garibaldino nella storia italiana, quindi compreso il "rosso" dei volontari di Garibaldi. Garibaldi fin dall'inizio della sua avventura di combattente per l'indipendenza e la libertà dei popoli e delle nazioni, si vesti di una camicia rossa; si sa che i volontari che lo seguirono indossarono anch'essi una camicia rossa non per imitazione del Generale ma per un puro caso. Nel 1848 Garibaldi, in America del Sud, formò la "Legione italiana" a difesa della Repubblica di Montevideo e dovendosi dare un segno distintivo ai volontari italiani per distinguerli da quelli francesi e spagnoli, trovò in un magazzino una consistente quantità di stoffa rossa che il committente non aveva più ritirato e per la quale egli pagò un misero prezzo. Quelle camicie rosse si trasformarono nel fazzoletto rosso delle Brigate partigiane del 1943-45. Fu continuità di ideale e di forma. D'altra parte anche per l'aspetto ed il comportamento i partigiani del 1943-45 non furono molto diversi dai garibaldini del 1860 come descritti dal colonnello della Regia Marina Giacomo Fazio nelle sue 'Memorie giovanili della rivoluzione siciliana e della guerra del 1860": «I volontari invece con quella elasticità che è propria della fanciullezza, si scompigliavano, si raggruppavano, si squagliavano, si riannodavano con la massima disinvoltura e speditezza, non lasciavano presa al nemico, e non lasciandogli il tempo di approfittare degli errori commessi». Giorgio Granzotto

Magistrato Catanzaro: “Unità d’Italia è stata imposta”. Augias: “Parole terribili”, scrive il 22 Gennaio 2019 vesuviolive.it. Abbiamo sempre sostenuto, sottolineato e ripetuto che la storia italiana, così come la si trova sui libri di scuola, non ripercorre in maniera lineare e limpida la realtà accaduta, specialmente per quanto riguarda l’Unità d’Italia. Purtroppo, però, la consapevolezza di chi ha messo in discussione il passato non riesce ancora a sfondare il muro di scetticismo del nostro Paese, né tanto meno a disintegrare la maschera dietro cui si nasconde. Ci prova ogni tanto, con rischio di gogna mediatica, qualche studioso o qualche appassionato, tentando di aprire le menti italiane a nuove interpretazioni. Un esempio di quanto è l’intervento di Nicola Gratteri, magistrato e procuratore della Repubblica di Catanzaro, ospite di Corrado Augias a “Quante Storie”, programma andato in onda il 12 gennaio su Rai3. In studio si parlava di mafia, e della sua possibile origine all’epoca di Garibaldi, quando inizio ad incancrenirsi nella società e a mischiarsi nella politica: “In un secolo e mezzo la classe dirigente ha legittimato le mafie – dice Gratteri -. L’Unitá d’Italia è stata imposta, come possono mille Garibaldini conquistare un Regno forte contro migliaia di Borbonici che difendevano la loro terra, senza aver avuto una mano da poteri locali (diventati poi sempre più forti grazie alla classe dirigente degli ultimi 150 anni); la storia viene scritta dai vincitori, e i perdenti appaiono come i soliti sporchi, brutti e cattivi”. Per niente convinto Augias, che si è lasciato andare anche a questo commento: “Lei ha detto parole terribili…prendiamo atto, ma andiamo avanti…”. Complimenti, comunque, a Gratteri, che ha provato a portare sul piccolo schermo un pezzo cruciale della nostra storia, che in tanti conoscono ancora nella sua immagine storpiata.

‘Ndrangheta, cancro dell’Italia piemontese come mafia e camorra, scrive il 20 gennaio 2019 Angelo Forgione. «Lei ha detto parole terribili». Così uno sgomento Corrado Augias, durante la trasmissione Quante Storie di sera, commenta quanto detto da Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica a Catanzaro, che gli ha appena sbattuto in faccia la verità dei malviventi meridionali assoldati dai garibaldini e dell’impiego dei danari delle massonerie per corrompere gli alti ufficiali borbonici nella risalita del Sud dalla Sicilia verso Napoli. Augias è consapevole che l’Italia sia nata male, ma non perché il Nord ha forzato il Sud e ha legittimato le mafie, avvalendosene. No, l’Italia, secondo la sua visione, è nata male perché «la bella mela rossa aveva un baco dentro, ed era nel Mezzogiorno». Terribile è il parto dell’Italia, e terribile è il bigottismo di chi pure parla di retorica scolastica ma non ha saputo leggere la storia degli ultimi 158 anni e finge di cascare dal pero, di fronte a chi rivede in modo critico la storia e la riscrive, attribuendo ai veri responsabili, i “padri” della patria e i vari governi d’Italia, le colpe dell’affermazione delle mafie meridionali, cancro dell’Italia piemontese. Il vero potere mafioso in Calabria, come quelli in Sicilia e in Campania, è nato proprio dal perverso abbraccio tra la politica piemontese, la massoneria e la delinquenza meridionale. L’evoluzione del potere economico e finanziario delle cosche calabresi inizia proprio nel 1869, durante le elezioni amministrative a Reggio Calabria, quando il blocco dell’alta borghesia legata ai latifondisti assoldò la “picciotteria” (il termine ‘ndrangheta si impose solo dal 1929) per compiere attentati e vessazioni ai danni del blocco dei borghesi filo-borbonici e della Chiesa, in procinto di vincere la tornata elettorale. Era già successo in Sicilia e a Napoli, per volontà di Garibaldi, in occasione dello sbarco dei Mille e del plebiscito per l’annessione del Sud al regno sardo dei Savoia. Il potentato latifondiario vinse, e la malavita venne messa al servizio dei partiti governativi in tutta la provincia di Reggio Calabria, ma i brogli furono talmente evidenti che il prefetto fu costretto a invalidare il consiglio comunale, il primo ad essere sciolto per mafia quando ancora non esisteva il reato di associazione mafiosa o la legge per lo scioglimento dei comuni. Nel ‘900 la relazione tra mafia e politica divenne sempre più stretta. Per il terribile terremoto del 1908 a Messina e Reggio Calabria, il Governo dell’epoca stanziò 180 miliardi di lire. La classe dirigente locale pretese la gestione di quei soldi, e il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, altro statista piemontese di grande spicco, volle in cambio che il popolo fosse tenuto a bada. Fu il primo atto di un Governo centrale per soggiogare i meridionali, e da quel momento si susseguirono continue leggi per il Sud che sarebbero servite solo ad alimentate dipendenza dallo Stato. La ‘ndrangheta, ancora oggi, fa riferimento alla massoneria con affiliazioni in cui si nominano personaggi del Risorgimento: Mazzini, Garibaldi e Cavour. Tutti nemici del legittimismo borbonico e dei borbonici, come gli inglesi e la loro massoneria, i veri mandanti della cancellazione delle Due Sicilie dalla geopolitica mediterranea. Il patto del Gran Maestro Giuseppe Garibaldi con i picciotti siciliani e calabresi e i camorristi napoletani di allora è il simbolo di un abbraccio ancora esistente voluto da Londra. Perché le mafie ci furono inoculate dagli inglesi per destabilizzare la nazione napolitana e minarne la politica mediterranea in vista dello scavo del Canale di Suez verso l’Oriente ed il Nord Africa. I mafiosi tornarono utili anche agli Alleati anglo-americani nel corso della “liberazione” dal Fascismo, che alle mafie e alle logge aveva tagliato i viveri. È un’eredità cancerogena, finalizzata a privare il Meridione della possibilità di sfruttare il suo enorme potenziale. Nel mio saggio Napoli Capitale Morale, tra i vari argomenti che spiegano il ribaltamento nazionale, parlo anche di massoneria, della sua evoluzione storica, del suo ruolo fondamentale nelle vicende d’Italia, delle dipendenze dalle logge britanniche quanto delle parentele con le mafie meridionali, cioè con società segrete di tipo paramassonico piramidale nate intorno al 1830, in piena degenerazione carbonara e all’incoronazione dell’anti-inglese Ferdinando II, ma in due città ricche per quella che era l’Italia dell’epoca quali erano Napoli e Palermo, mica povere come oggi. E non è un dettaglio.

L'unità d'Italia, il magistrato antimafia e le parole scomode ignorate, scrive Gigi Di Fiore su Il Mattino Giovedì 17 Luglio 2014. Prendete un discorso lungo ed articolato, isolatene solo le parti meno scomode, cucinatelo ad uso e consumo del tema principale e del ruolo ricoperto dal relatore ed avrete offerto, come spesso accade, solo un pezzetto parziale di verità. Accade di frequente, le sintesi e l'occhio attento alle esigenze di cassetta favoriscono certe operazioni mediatiche che, soprattutto nei convegni e nelle manifestazioni, offrono solo alcuni frammenti di quello che l'autore dell'intervento voleva comunicare. Riflessioni ad alta voce scattate dopo l'ennesima visione, su youtube, di tre minuti del discorso di Nicola Gratteri (stimato procuratore aggiunto a Reggio Calabria), tre anni fa a Mantova. Era il famoso Festivaletteratura. Era l'11 settembre 2011, era il bel cortile mantovano di San Sebastiano. Si parlava di mafie, di 'ndrangheta, di Italia. Gratteri era una delle persone più idonee a discutere di quegli argomenti: titolare delle principali indagini sulla 'ndrangheta negli ultimi 25 anni, sotto scorta dall'aprile del 1989, calabrese doc, è uno di quei meridionali tenaci che non le mandano a dire. Che preferiscono agire, guardare in faccia pericoli e realtà sgradevoli, difendendo il coraggio delle proprie idee. Platea affollatissima, applausi e la Gazzetta di Mantova a titolare "Gratteri: Il Nord non sa capire le mafie. Aguzzate la vista e le scoprirete". Certo, l'infiltrazione della 'ndrangheta al Nord era argomento di attualità. Certo, il magistrato, autore con Antonio Nicaso anche di documentati saggi sulla storia della 'ndrangheta, era assai legittimato a parlare sull'argomento. Eppure, il 2011 era anche l'anno del 150esimo anniversario dell'unità d'Italia. E Gratteri, per fortuna in un passaggio documentato in video dal solito telefonino e poi scaricato su youtube, ebbe da dire anche su questo. Fuori dai denti e contro ogni conformismo politicamente corretto. "Sono per l'unità d'Italia, ci mancherebbe altro", la premessa. Con una serie di "ma" successivi. Come questo: "I piemontesi hanno imposto la chiusura delle acciaierie di Mongiana, in provincia di Reggio Calabria, a favore di quelle di Brescia, in cambio della promessa della riforma agraria". E come inizio non c'è male. Il seguito è ancora più duro: "Chi ha imposto l'unità d'Italia, che non fu discussa ma imposta, ha tradito quelle popolazioni che sono diventate sempre più povere ed emarginate". Aggiungendo: "Non sono qui a fare del vittimismo, ho letto documenti. L'unità d'Italia è stata imposta in cambio della modifica dei patti agrari. E' proliferato il brigantaggio, che è cosa diversa dalla picciotteria". Uno come Gratteri sa entrare anche nella polemica aperta, con i pseudo conoscitori della storia delle e mafie. Con queste parole: "Dei caproni ignoranti, che non leggono e non hanno studiato, ma insegnano all'università e vanno ai convegni antimafia, non sono in grado di distinguere le origini della picciotteria dal brigantaggio". Ma in quell'intervento c'è anche di più. Una ripresa degli argomenti che per primo scrisse nel 1972 Carlo Alianello. Ecco cosa ha detto Gratteri: "Rispetto alle violenze, gli omicidi, gli stupri fatti in Basilicata, in Calabria, in Puglia, le Fosse Ardeatine non sono nulla". Roba pesante. Ma di quella parte dell'intervento di Gratteri nessuno riprese nulla. Ci ha pensato la Rete, che sa essere implacabile a fissare quelle parole: youtube, pagine facebook, siti di associazioni e movimenti meridionali. Un pezzetto del Gratteri pensiero, scomodo per tanti, che mi sembrava giusto riproporre qui. Anche questa è controstoria. 

·         Alla ricerca dei garibaldini scomparsi.

Alla ricerca dei garibaldini scomparsi, da archiviodistatotorino.beniculturali.it. Nella ricostruzione di quella grande avventura del Risorgimento italiano che portò alla fine del Regno delle Due Sicilie e alla conquista dell’Italia meridionale, l’attenzione degli storici e la memoria collettiva si sono concentrate sui Mille sbarcati a Marsala con il generale Garibaldi. Parzialmente in ombra sono rimaste le migliaia di altri partecipanti, come il caso dei “garibaldini di Bezzecca” che combatterono nel 1866 durante la Terza guerra di Indipendenza, sul cui numero totale la storiografia ha fornito solo approssimazioni, peraltro giustificate dalla dimensione e dalla complessità della documentazione.

Il progetto Alla ricerca dei garibaldini scomparsi, si compone di due parti:

La prima si è concentrata sui garibaldini dei Mille, realizzata grazie al contributo della Fondazione CRT (Cassa di Risparmio di Torino), con la partecipazione della Fondazione CARIGE (Cassa di Risparmio di Genova), intende far emergere dall’anonimato quella moltitudine di eroi sconosciuti provenienti da quasi tutte le regioni italiane, da molti paesi europei e anche dalle Americhe e dall’Africa, protagonisti di una epopea che solidamente ancora oggi resiste nell’immaginario collettivo. La seconda prende le mosse dalla ricerca La mappa ritrovata effettuata dal Museo Garibaldino di Bezzecca a partire dal 2011 e che ha prodotto un database di oltre 43.000 nomi dei volontari che parteciparono alla Battaglia di Bezzecca durante la Terza guerra di Indipendenza nel 1866, arruolati nei reggimenti dei Corpi Volontari Italiani. La ricerca si è conclusa nel 2014 e i risultati sono stati pubblicati sul sito web dell’Associazione Araba Fenice di Arco (TN). Nel corso delle ricerche sono stati individuati anche due garibaldini dei “Mille” che non figurano né nell’Elenco dei Mille sbarcati a Marsala, né nell’Elenco ufficiale, pubblicato nel Supplemento n. 266 della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia del 12 novembre 1878. Si tratta di Guglielmo Gallo, da Molfetta, e Vincenzo Speroni, nato a Roma nel 1829, già volontario nella 1° guerra d’indipendenza e durante la difesa della repubblica romana nel 1849. Si possono considerare una prima riscoperta di “garibaldini scomparsi”. Quelli che seguono sono alcuni grafici realizzati dopo lo studio della documentazione che permettono di avere una rappresentazione immediate di statistiche come le età, le professioni e le provenienze geografiche dei garibaldini.

Da cronologia.leonardo.it. Giuseppe Garibaldi: «Ripeto: l’album dei Mille coi loro ritratti pubblicato da Alessandro Pavia e che raccomando all’Italia, supplirà alla debole mia memoria per ricordare tutti i componenti della gloriosa schiera. Caprera, 1° ottobre 1874»

I NOMI DEI MILLE (apparsi sulla Gazzetta Ufficiale del 12 novembre 1878). Quelli in grassetto erano già beneficiari della pensione nella lista del 1865, mentre altri nomi furono cancellati con la motivazione riportata a fianco. Quelli con a fianco l'asterisco * sono inclusi nella lista e hanno anche il ritratto (i ritratti per l'enorme spazio sono presenti solo nel CD-ROM dedicato tutto a Garibaldi)

* 1 ABBA Giuseppe Cesare di Giuseppe, nato a Cairo Montenotte il 6 ottobre 1838, ivi residente, possidente, letterato.

* 2 ABBAGNALE Giuseppe fu Melchiorre, nato a Casola il 25 novembre 1816, morto in Aversa il 13 febbraio 1869.

* 3 ABBONDANZA Domenico di Giuseppe, nato a Genova il 18 luglio 1824, ivi residente, negoziante.

* 4 ACERBI Giovanni, nato a Castelgoffredo il 14-11-1825, già deputato al parlamento, morto a Firenze il 4-9-1869.

* 5 ADAMOLI Carlo di Francesco, nato a Milano il 22 marzo 1842, residente a Melegano, fittabile

* 6 AGAZZI Isaia Luigi fu Alessandro, nato a Bergamo il 10 dicembre 1838, ivi residente, uffiziale in riforma del R. esercito.

7 AGRI Vincenzo, nato a Firenze il 15 aprile 1833; affatto sconosciuto in patria. Non fu trovato iscritto, come si pretendeva, sui registri del già Istituto, ora Ospizio Garibaldi, di Palermo.

* 8 AJELLO Giuseppe di Giusto, nato a Palermo nell'anno 1828, morto nel manicomio di Palermo l'1 dicembre 1869.

* 9. AIRENTA Gerolamo di Giovanni Battista, nato a Rossiglione nel 1842, (già) proprietario, morto nel dicembre 1875 nel manicomio di Milano.

* 10. ALBERTI Clemente di Arcangelo, nato a Carugate il 23 novembre 1835, residente a Monza, caffettiere, sottotenente dei volontari in ritiro.

11 ALESSIO Giuseppe. Compreso nel Bollettino del 1864, ma non si hanno notizie ufficiali che lo confermino dei Mille. Alcuni dicono appartenuto alla 6^ compagnia della spedizione di Talamone.

* 12 ALFIERI Benigno di Luigi, nato a Bergamo il 7 marzo 1841, ivi residente, ramaio.

* 13 ALPRON Abramo Isacco di Jacob, nato a Padova il 22 giugno 1834, ivi residente, negoziante.

14 AMATI Fermo di Giovanni, nato a Bergamo il 17 febbraio 1841, morto a Palermo nel 1860.

15 AMISTANI Giovanni di Angelo, nato a Brescia il 7 aprile 1831, residente a Verona, scrivano.

* 16 ANDRETTA Domenico fu Benedetto, nato a Portobuffolè il 6 febbraio 1838, ivi residente, possidente.

* 17 ANDREOTTI Luigi di Francesco, nato a S. Terenzo (Sarzana-Lerici) il 20 febbraio 1829, morto in Lerici il 26 aprile 1871

* 18 ANFOSSI Francesco fu Giuseppe, nato a Nizza nel 1819, escluso dall'onore della medaglia e dal diritto a pensione.

* 19 ANTOGNOLI Federico di Decio, nato a Bergamo il 17 agosto 1839, (già) sarto, morto a Calatafimi nel 1860.

* 20 ANTONELLI Giovanni fu Arcangelo, nato a Pedona (Camajore) il 13 dicembre 1820, residente a Lucca.

* 21 ANTONELLI Stefano di Francesco, nato a Sajano il 20 agosto 1841, morto il 24 aprile 1867.

* 22 ANTONGINI Alessandro fu Gaetano, nato a Milano nel 1842, morto il 14 aprile 1870 a Milano.

* 23 ANTONGINI Carlo fu Gaetano, nato a Milano il 19 settembre 1836, ivi residente negoziante.

* 24 ANTONINI Marco di Pietro, nato a S. Daniele l'8 dicembre 1834, residente a Udine, negoziante.

* 25 ARCANGELI Febo di Angelo, nato a Sarnico il 3 gennaio 1839, residente a Vaprio, agente di negozio.

* 26 ARCANGELI Isacco di Bartolo, nato a Sarnico il 9 settembre 1838, ivi residente, farmacista.

* 27 ARCARI Sante Luigi di Angelo, nato a Cremona il 17 luglio 1826, morto in Milano il 19 aprile 1871

* 28 ARCHETTI Gio. Maria di Giacomo, nato a Iseo il 13 gennaio 1840, ivi residente, notaio.

* 29 ARCONATI Rinaldo di Enrico, nato a Milano il 27 luglio 1845, residente a Varese, avvocato.

30 ARETOCA Ulisse, compreso nel Bollettino del 1864, ma non si hanno notizie ufficiali che lo confermino dei Mille. (Si noti che fra varie istanze testé pervenute al Ministero dell'Interno, ve n'ha una di certo Rebua Ulisse, di Livorno, che dice di aver fatto parte della spedizione di Talamone, ed essere stato erroneamente compreso fra i Mille di Marsala sotto il nome di Aretoca Ulisse che non gli spetta). Notizie private assegnerebbero l'Aretoca alla 2^ compagnia della spedizione di Talamone.

* 31 ARGENTINO Achille fu Raffaele, nato a S. Angelo de' Lombardi l'1 dicembre 1821, residente a Salerno, ingegnere e direttore della Succursale del Banco di Napoli.

* 32 ARMANINO Giovanni di Girolamo, nato a Genova il 13 marzo 1839, ivi residente, calzolaio.

* 33 ARMANI Antonio di Francesco, nato a Riva di Trento il 6 febbraio 1837, residente a Limone S. Giovanni.

* 34 ARMELLINI Bartolomeo fu Antonio, nato a Montepulciano il 24 maggio 1843, ivi residente, fruttivendolo.

* 35 ARTIFFONI Pietro di Antonio, nato a Bergamo il 6 dicembre 1818, residente a Pedrengo.

* 36 ASCANI Zelindo di Girolamo, nato Montepulciano il 24 maggio 1843, ivi residente, falegname.

* 37 ASPERTI Pietro Gio. Battista fu Giovanni, nato a Bergamo 19 gennaio 1839, ivi residente, possidente.

* 40 ASTORI Felice di Giovanni, nato a S. Pellegrino il 2 novembre 1827, residente a Bergamo, panettiere.

41 AZZI Adolfo di Agostino, nato a Trecenta il 25 agosto 1837, morto a Palermo il 4 luglio 1860 per ferita alla coscia.

42 AZZOLINI Carlo, compreso nel Bollettino del 1864, ma non si hanno notizie ufficiali che lo confermino dei Mille di Marsala. Informazioni private lo ascrivono alla spedizione di Talamone, nella seconda compagnia.

* 43 BACCHI Luigi Giuseppe di Angelo, nato a Parma l'11 settembre 1843, residente a Genova, giornaliere.

* 44 BADERNA Carlo Luigi fu Ferdinando, nato a Piacenza il 17 agosto 1834, residente a Castel S. Giovanni, merciaio.

* 45 BADARACCHI Alessandro di Giuseppe, nato a Marciano il 20 ottobre 1836, tenente nell'esercito.

46 BAIGNERA Crescenzio di Francesco, nato a Gardone il 6 settembre 1822, morto combattendo in Sicilia nel 1860.

* 47 BAICE Giuseppe fu Sebastiano, nato a Magrè il 7 settembre 1837, morto in Magrè il 30 giugno 1867.

48 BAJOCCHI Pietro fu Andrea, nato ad Atri il 17 maggio 1834, morto a Palermo nel giugno 1860 per colpo d'arma da fuoco.

49 BALBONI Antonio Davide di Giovanni nato a Cremona il 21 febbraio 1831, ivi residente, barbiere.

* 50 BALDASSARRI Angelo di Felice, nato a Sale Marasino il 9 marzo 1832, (già) panattiere, morto il 25 marzo 1864 nell'ospedale civile di Brescia.

* 51 BALDI Francesco di Francesco, nato a Pavia il 21 febbraio 1840, ivi residente, calzolaio.

* 52 BALICCO Enrico di Carlo, nato a Bergamo il 15 settembre 1838, (già) stalliere, morto a Bergamo il 22 settembre 1861

* 53 BANCHERO Carlo di Tommaso, nato a Genova il 6 marzo 1838, morto il 6 marzo 1868.

* 54 BANCHERO Emanuele di Luigi, nato a Savona il 14 ottobre 1840, residente a Patasso (Perù).

* 55 BANDI Giuseppe di Agostino, nato a Gavorrano il 15 luglio 1834, residente a Livorno, giornalista.

* 56 BARABINO Tomaso di Carlo, nato a Genova il 20 dicembre 1834, ivi residente, portiere.

57 BARACCHI Gerolamo di Antonio, nato a Brescia il 20 aprile 1831, morto nel 1860 a Palermo per ferite.

58 BARACCHINO Luigi Andrea di Domenico, nato a Livorno il 29 settembre 1835, residente a Sarzana.

* 59 BARACCO Giuseppe di Vincenzo, nato Finalmarina l'8 ottobre 1843, ivi residente, capitano marittimo.

* 60 BARATIERI Oreste di Domenico, nato a Condino (Trento) il 12 novembre 1841, residente a Roma, maggiore nell'esercito, e deputato al Parlamento 

* 61 BARBERI Giovanni fu Luigi, nato a Castelletto Ticino il 18 gennaio 1840, residente a Torino, negoziante.

* 62 BARBERIS Enrico fu Melchiorre, nato a Castelletto Ticino il 15 ottobre 1843, ivi residente, negoziante e possidente.

* 63 BARBESI Alessandro di Gaetano, nato a Verona il 27 luglio 1825, ivi residente, albergatore.

* 64 BARBETTI Fortunato Bernardo di Giuseppe, nato a Brescia il 20 gennaio 1827, ivi residente.

* 65 BARBIERI Gerolamo di Gio. Battista, nato a Bussolengo il 7 giugno 1839, ivi residente, veterinario.

* 66 BARBIERI Innocente di Giuseppe, nato a Brescia il 21 dicembre 1840, ivi residente, orefice.

67 BARBOGLIO Giuseppe di Pietro, nato a Brescia il 3 settembre 1838, ivi residente, possidente.

* 68 BARONI Giuseppe di Giuseppe, nato a Bergamo il 29 agosto 1825, ivi residente.

* 69 BARUFFI Stefano di Santino, nato a Vignate il 24 dicembre 1834, residente a Milano, commerciante.

* 70 BARUFFALDI Tranquillino di Alfonso, nato a Barzio il 12 luglio 1839, residente a Milano.

* 71 BASSANI Enrico Napoleone fu Giuseppe, nato a Ponte S. Pietro l'8 maggio 1836, ivi residente, ufficiale in riforma del R. esercito.

* 72 BASSANI Giuseppe Antonio di Paolo, nato a Chiari il 26 giugno 1838, ivi residente, domestico.

* 73 BASSINI Angelo fu Giacomo, nato a Pavia il 29 luglio 1815, ivi residente, tenente colonnello pensionato.

* 74 BASSO Gio.Battista fu Onorato, nato a Nizza l'11 dicembre 1824, residente a Caprera, proprietario.

75 BAY Luigi di Gaetano, nato a Lodi il 31 maggio 1845, residente a Piacenza.

* 76 BAZZANO Domenico fu Salvatore, nato a Palermo il 13 settembre 1827, residente a Catania, portiere.

* 77 BECCARELLI Pietro di Emanuele, nato a Porta al Borgo nel 1822, morto il 14 agosto 1871

* 78 BECCARIO Domenico Lorenzo di Giuseppe, nato a Genova, morto a Palermo nel 1860.

* 79 BEFFAGNA Alessandro di Giacomo, nato a Padova il 5 novembre 1835, residente a Genova, negoziante.

* 80 BELLAGAMBA Angelo di Francesco, nato a Genova il 3 febbraio 1843, (già) marinaio, morto il 12 marzo 1870.

* 81 BELLANDI Giuseppe di Giuseppe, nato a Brescia il 16 dicembre 1833, ivi residente, scrivano.

* 82 BELLANTONIO Francesco fu Giuseppe, nato a Reggio C. il 15 giugno 1822, residente a Napoli, già commesso di P.S.

* 83 BELLENO Giuseppe Nicolò di Paolo, nato a Genova morto a Calatafimi nel 1860.

* 84 BELLINI Antonio fu Giovanni Vincenzo, nato a Verona il 7 luglio 1835, residente a Bovolone, commerciante.

* 85 BELLISIO Luigi di Pietro, nato a Genova nel 1837, ivi residente, R. impiegato.

* 86 BELLISOMI Marchese Aurelio di Pio, nato a Milano il 25 aprile 1836, residente a Messina, direttore della sede della Banca Nazionale.

87 BELLONI Ernesto fu Gio.Battista, nato a Treviso il 24 marzo 1841, morto combattendo a Reggio C. il 21 Agosto 1860.

88 BENEDINI Gaetano di Luigi, nato in Asola il 28 dicembre 1830, (già) medico chirurgo, morto a Firenze il 31 maggio 1868.

* 89 BENESCH Ernesto di Francesco, nato a Balschoru (Boemia) nel 1842, residente a Torino (nel 1868). Era sottotenente della legione ausiliaria ungherese, e nel marzo del 1865 fu dispensato dal servizio, per affari di famiglia, dietro sua domanda. Per questa causa fu giudicato non competergli pensione.

* 90 BENSAIA Giov.Battista fu Salvatore, nato a Messina il 9 agosto 1825, ivi residente, spedizioniere.

* 91 BENSAIA Nicolò fu Salvatore, nato a Messina nel 1833, morto il 14 ottobre 1874 nel manicomio di Palermo.

* 92 BENVENUTI Raimondo di Ernesto, nato ad Orbetello il 15 dicembre 1842, ivi residente.

* 93 BENVENUTO Bartolomeo fu Antonio, nato a Genova il 21 marzo 1842, ivi residente, parrucchiere.

* 94 BERARDI Giovanni Maria di Francesco, nato a Brescia il 17 dicembre 1840, residente a Bologna, armaiuolo.

* 95 BERETTA Edoardo fu Felice Camillo, nato a Pavia nel 1838 (già) possidente, morto in Pavia nel 1870.

96 BERETTA Giacomo fu Giovanni, nato a Barzanò il 13 giugno 1838, residente a Milano impiegato privato.

* 97 BERGONCINI Germano fu Carlo, nato a Livorno Vercellese il 9 aprile 1833, ivi residente, possidente.

* 98 BERINO Michele fu Michele, nato a Barge di Saluzzo il 6 settembre 1840, ivi residente, panattiere.

99 BERIO Emanuele, detto il moro, nato ad Angola (Africa) nel 1840, morto a Napoli il 2 marzo 1861, nello spedale dei Santi Apostoli.

* 100 BERNA Gio.Cristiano di Cristiano, nato a Treviso il 30 marzo 1833, ivi residente, già segretario della società del Tiro provinciale, ora ricevitore del lotto.

* 101 BERTACCHI Lucio Marco fu Luigi, nato a Bergamo il 14 gennaio 1837, ivi residente, scrivano.

* 102 BERTHE' Ernesto di Giuseppe, nato a Lecco il dì 8 luglio 1832, residente a Modena.

103 BERTI Enrico di Giuseppe, nato a Vicenza il 29 febbraio 1826, morto a Cagliari, nello spedale, il 5 aprile 1861

104 BERTINI Giuseppe di Francesco, morto a Livorno nel 1861

* 105 BERTOLOTTO Gio.Battista G. di Francesco, nato a Genova il 2 dicembre 1840, morto in Genova il 16 aprile 1871

* 106 BERTOZZI Giovanni Battista fu Antonio, nato a Pordenone il 9 marzo 1840, (già) ingegnere, morto a Varazze nel 1861

* 107 BETTINELLI Giacomo di Pasquale, nato a Bergamo il 12 luglio 1836, tenente nel 71° fanteria.

108 BETTONI Faustino fu Gio.Maria, nato a Mologno il 24 luglio 1831, residente ai Molini di Colognola, farmacista.

* 109 BEVILACQUA Alessandro fu Francesco, nato ad Ancona il 10 settembre 1824, ivi residente, calzolaio.

* 110 BEZZI Egisto fu Gio.Battista, nato a Cusiano (Trento) il 16 gennaio 1835, residente a Milano, commerciante.

* 111 BIANCHI Achille Maria di Giovanni, nato a Bergamo il 12 novembre 1841, tenente del 43° fanteria.

* 112 BIANCHI Angelo di Gaetano, nato a Milano il 7 maggio 1837, residente a Milano, commerciante.

* 113 BIANCHI Ferdinando fu Costantino, nato a Bianchi il 3 marzo 1797, (già) scrivano, morto nel gennaio 1866 a Napoli.

* 114 BIANCHI Ferdinando Martino fu Carlo, nato a Bergamo il 4 febbraio 1838, residente a Salaparuta, impiegato.

115 BIANCHI Gerolamo fu Felice, nato a Caronno (Como) il 5 giugno 1841, morto alla presa di Palermo sulla piazza di Ferravecchia ( 30 maggio 1860).

116 BIANCHI Luigi di Francesco, nato a Cermenate il 20 aprile 1837, residente a Milano, sarto.

117 BIANCHI Luigi Pietro di Francesco, nato a Pavia il 12 settembre 1841, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860.

* 118 BIANCHINI Massimo di Giovanni, nato a Livorno il 16 gennaio 1844, residente a Carrara, fornaio.

119 BIANCO (LO) Francesco fu Santo, nato a Catania il 25 gennaio 1830, già brigadiere di P.S., morto il 12 febbraio 1863 di colpo di fucile fortuito.

* 120 BIDISCHINI Francesco di Giuseppe, nato a Burnova il 28 settembre 1835, residente a Roma.

121 BIFFI Luigi Adolfo di Ermenegildo, nato a Caprino, il 24 maggio 1846, morto a Calatafimi nel 1860.

* 122 BIGNAMI Claudio di Carlo Antonio, nato a Pizzighettone il 3 marzo 1835, ivi residente.

* 123 BISI Gio.Battista fu Domenico, nato a Legnago il 6 maggio 1832, residente a Rovigo, tenente nelle RR. dogane.

* 124 BIXIO Nino fu Tommaso, nato a Genova il 2 ottobre 1821, già ivi residente, deputato al parlamento, tenente generale e capitano marittimo, morto in navigazione ad Achim (Sumatra).

* 125 BOARETTO Lorenzo, detto Bigoli, fu Giovanni Battista, nato a Bovolenta, il 16 marzo 1836, ivi residente, negoziante.

* 126 BOASI Stefano di Enrico, nato a Genova il 4 marzo 1841, ivi residente, commerciante.

* 127 BODINI Dario di Pietro, nato a Parma il 20 marzo 1830, ivi morto il 9 marzo 1867.

* 128 BOGGIANO Ambrogio di Giacomo, nato a Genova il 31 agosto 1837, morto il 15 maggio 1860 a Calatafimi.

129 BOLDRINI Cesare fu Pietro Antonio, nato a Castel d'Ario il 29 giugno 1816, (già) medico- chirurgo, morto in dicembre a Napoli per ferite riportate in battaglia a Maddaloni l'1 ottobre 1860.

* 130 BOLGIA Giovanni di Nicola, nato a Orbetello il 7 settembre 1840, ivi residente.

* 131 BOLIS Luigi di Carlo, nato a Bergamo il 4 giugno 1841, residente a Firenze, chincagliere.

* 132 BOLLANI Francesco di Gio.Battista, nato a Cazzago il 20 settembre 1840, ivi residente.

* 133 BONACINA Luigi di Angelo, nato a Bergamo il 19 giugno 1841, morto a Milano il 20 ottobre 1864, nello spedale Fate Bene Fratelli.

134 BONAFEDE Giuseppe di Domenico, nato a Gratteri il 19 marzo 1831, residente a Palermo, direttore del giardino di acclimatazione.

* 135 BONAFINI Francesco di Francesco, nato a Mantova l'11 ottobre 1830, residente a Brescia, impiegato di finanza.

* 136 BONANOMI Giacomo fu Pietro nato a Como il 2 febbraio 1842, ivi residente, notaio.

* 137 BONAN Ranieri Tertulliano fu Fioravante, nato a Livorno il 28 aprile 1815, (già) macchinista, morto il 19 novembre 1871

138 BONARDI Carlo di Gio.Maria, nato ad Iseo il 7 novembre 1837, morto combattendo a Calatafimi il 15 maggio 1860.

139 BONDUAN Pasquale di Valentino, nato a Mestre il 7 maggio 1840, residente a Cuneo, scrivano privato.

* 140 BONETTI Francesco di Giovanni, nato a Zogno l'11 giugno 1841, tenente nel 45° reggimento fanteria.

* 141 BONI Fedele di Giovanni, nato a Modena il 24 aprile 1833, residente a Parma, bracciante.

142 BONI Francesco Alessandro di Credindio, nato a Brescia il 3 ottobre 1841, residente a Provezze, segretario comunale.

* 143 BONINO Giacomo di Michele, nato a Genova il 16 ottobre 1834, (già) commesso, morto l'1 dicembre 1871

* 144 BONSIGNORI Eugenio Paolo di Francesco, nato a Montirone il 30 agosto 1826, morto il 21 aprile 1871 a Milano.

* 145 BONTEMPELLI Carlo di Pietro, nato a Bergamo il 18 marzo 1832, ivi residente, cappellaio.

146 BUONTEMPO Giuseppe Rinaldo di Nicola, nato a Orzinuovi il 10 agosto 1830, morto combattendo in Palermo nel 1860.

* 147 BONVECCHI Luigi fu Pacifico, nato a Treja l'8 novembre 1825, morto in Treja il 26 settembre 1861

* 148 BORCHETTA Giuseppe fu Tommaso, nato a Mantova il 26 febbraio 1827, ivi residente, ingegnere.

* 149 BORDINI Giovanni fu Pietro, nato a Padova il 2 novembre 1828, residente a Bologna, tenente a riposo del Regio esercito.

* 150 BORETTI Ercole fu Siro, nato a Pavia il 28 novembre 1836, ivi residente, impiegato municipale.

* 151 BORGOGNINI Ferdinando di Francesco, nato a Firenze nel 1838, residente a Viareggio, calzolaio.

* 152 BORGOMAINERI Carlo Pietro di Pietro, nato a Milano nel 1833, (già) scrivano straordinario alla Cassa Depositi e Prestiti, morto il 14 ottobre 1875 a Rio Janeiro.

153 BORRI Antonio di Lorenzo, nato a Roccastrada il 16 gennaio 1833, ivi residente, agricoltore.

154 BORSO Antonio fu Antonio, nato a Padova il 13 giugno 1818, (già) cameriere, morto a Torino il 2 aprile 1863, nello Spedale S.Giovanni.

* 155 BOSCHETTI Gio.Battista fu Pietro, nato a Covo il 6 agosto 1841, ivi residente, farmacista.

* 156 BOSSI Carlo di Filippo, nato a Santambrogio Olona il 10 novembre 1840, ivi residente.

* 157 BOTTACCI Salvatore di Antonio, nato in Orbetello il 4 gennaio 1843, ivi residente, liquorista.

* 158 BOTTAGISI Cesare di Carlo, nato a Bergamo il 18 aprile 1831, morto a Calatafimi nel 1860.

* 159 BOTTAGISI Luigi Enrico di Carlo, nato a Bergamo il 25 gennaio 1830, ivi residente, calzolaio.

* 160 BOTTAGISI Martiniano fu Gaspare, nato a Bergamo il 2 gennaio 1817, ivi residente, cameriere.

* 161 BOTTERO Giuseppe Ernesto di Luigi, nato a Genova il 3 dicembre 1832, ivi residente, commerciante.

162 BOTTICELLI Giovanni di Bartolo, nato a Salò il 13 gennaio 1834, morto nel 1860 a Palermo per ferite.

* 163 BOTTINELLI Giuseppe Girolamo fu Gaetano, nato a Viggiù il 18 agosto 1831, ivi residente marmista.

* 164 BOTTONE Vincenzo di Melchiorre, nato a Palermo il 24 dicembre 1838, ivi residente fino al 1868, già sottotenente di vascello. Partì nel 1868 per ignota destinazione, né si sa dove ora sia, né se viva.

* 165 BOVI Paolo fu Antonio, nato a Bologna nel 1814, già luogotenente generale, morto in Bologna il 28 settembre 1871

166 BOZZANI Eligio di Pietro, nato a Fontanellato l'11 febbraio 1839, residente a Parma, proprietario.

* 167 BOZZETTI Romeo di Francesco nato a S.Martino in Veliseto il 25 febbraio 1835, residente ad Alessandria ufficiale superiore dell'esercito.

* 168 BOZZO Gio.Battista di Francesco, nato a Genova il 9 marzo 1841, ivi residente, commerciante.

* 169 BOZZOLA Candido di Andrea, nato a Legnago il 16 luglio 1835, residente a Padova, negoziante panettiere.

* 170 BRACA Ferdinando di Giovanni, nato a Montanara, ora Cadestefani, il 26 febbraio 1835, residente a Siena.

* 171 BRACCINI Gustavo Giuseppe ( e non Gaetano) di Giovanni, nato a Livorno il 21 marzo 1836, ivi residente, muratore.

172 BRACCO Amari Giuseppe di Francesco, nato a Palermo il 29 marzo 1829, ivi residente, agente di cambio.

173 BRAICO Cesare fu Bartolomeo, nato a Brindisi il 18 marzo 1823, residente a Roma, impiegato all'archivio di Stato.

174 BRAMBILLA Prospero di Prospero, nato a Bagnatica il 4 maggio 1839, residente a Bergamo, demente nel manicomio di Ostino (Bergamo).

* 175 BRESCIANI Pietro Giuseppe di Silvio, nato ad Adrara S.Martino il 23 dicembre 1836, ivi residente, notaio.

* 176 BRIASCO Vincenzo fu Giuseppe, nato a Genova il 22 settembre 1842, ivi residente, tipografo.

* 177 BRIZZOLARO Gio.Edoardo fu Giovanni, nato a Bergamo il 7 marzo 1841, ivi residente, agente di studio.

* 178 BRUNIALDI Gio.Battista fu Antonio, nato a Poiana il 3 maggio 1839, residente a Torino, sellaio.

179 BRUNTINI Pietro di Pietro, nato a Bergamo il 14 marzo 1833, (già) filatore, ferito a Calatafimi ed a Palermo, morto a Catanzaro il 6 ottobre 1860.

* 180 BRUZZESI Filippo fu Lelio, nato a Torrita nel 1834, residente a Roma, negoziante.

* 181 BRUZZESI Giacinto fu Lelio, nato a Cervetri il 15 dicembre 1823, residente a Milano, commerciante.

182 BRUZZESI Pietro fu Raffaele, nato a Civitavecchia il 15 ottobre 1832, residente a New York.

* 183 BUFFA Emilio fu Paolo, nato ad Ovada il 18 Nov. 1833, (già) residente a Torino, (già) barbiere, morto il 23 dicembre 1871

* 184 BULGHERESI Jacopo Augusto di Giuseppe, nato a Livorno il 20 giugno 1844, ivi residente, barbiere.

* 185 BULLO Luigi fu Giuseppe, nato a Chioggia il 14 agosto 1829, morto a Venezia il 17 dicembre 1871

* 186 BUONVICINI Federico fu Gaetano, nato a Terranegra di Legnago il 3 ottobre 1839, ivi residente commissionario e mediatore.

187. BURATTINI Carlo fu Domenico, nato ad Ancona il 4 marzo 1827, (già) capitano marittimo, morto in Camerano il 23 luglio 1870.

* 188 BURLANDO Antonio di Andrea, nato a Genova il 2 dicembre 1823, ivi residente, proprietario.

* 189 BUSCEMI Vincenzo di Antonio, nato a Palermo il 21 maggio 1816, ivi residente.

190 BUTTI Alessandro fu Giacomo, nato a Bergamo il 23 febbraio 1844, (già) calzolaio, morto in Bergamo l'8 giugno 1877.

* 191 BUTTINONI Francesco fu Francesco, nato a Treviglio il 16 giugno 1828, residente ad Isso, fittabile.

* 192 BUTTIRONI Emilio di Vincenzo, nato a Suzzara il 17 marzo 1844, residente a Pavia, fotografo.

* 193 BUTTURINI Antonio fu Pietro, nato a Pescantina il 23 novembre 1826, residente a Verona, agente di farmacia.

* 194 BUZZACCHI Giovanni di Benedetto, nato a Medole il 15 ottobre 1836, residente a Mantova, medico.

* 195 CACCIA Carlo fu Giuseppe, nato a Monticelli d'Oglio il 15 dicembre 1838, residente a Verolanova (Brescia), ufficiale riformato del R. esercito.

* 196 CACCIA Ercole di Giuseppe, nato a Bergamo il 12 agosto 1840, (già) scrivano, morto a Bergamo il 20 aprile 1861

197 CADEI Ferdinando di Giacomo, nato a Caleppio il 23 marzo 1838, (già) farmacista, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860.

* 198 CAFFERRATA Francesco di Francesco, nato a Genova il 10 marzo 1839, ivi residente, imbiancatore.

* 199 CAGNETTA Domenico fu Antonio, nato a Pavia il 21 luglio 1841, ivi residente, possidente e negoziante di legnami.

200 CAIROLI Benedetto Angelo fu Carlo, nato a Pavia il 28 gennaio 1825, domiciliato a Groppello, possidente, deputato al Parlamento.

* 201 CAIROLI Carlo Benedetto Enrico fu Carlo, nato a Pavia nel 21 febbraio 1840, morto combattendo a Villa Glori il 23 ottobre 1867.

* 202 CALABRESI Pietro di Martino, nato a Carteno Breno il 4 agosto 1837, ivi residente.

203 CALAFIORE Michelangelo fu Francesco, nato a Fiumara il 21 gennaio 1809, morto in Fiumara il 13 luglio 1861, era ricevitore del lotto.

* 204 CALCINARDI Giovanni di Andrea, nato in Brescia il 20 marzo 1833, residente in America, medico.

* 205 CALDERINI Ercole Enrico di Antonio, nato a Bergamo il 23 settembre 1833, residente a Firenze, impiegato di finanza.

206 CALONA Ignazio di Gio.Battista, nato a Palermo il 16 settembre 1795, (già) colonnello nell'esercito, morto il 3 settembre 1864 a Moncalieri.

* 207 CALVINO Salvatore fu Giuseppe, nato a Trapani il 25 dicembre 1820, residente a Roma, segretario generale del Consiglio di Stato, già deputato al Parlamento.

* 208 CALZONI Secondo Giovanni di Andrea, nato a Bione il 17 giugno 1840, residente a Livorno, già sottotenente dei volontari.

* 209 CAMBIAGHI Gio.Battista di Felice, nato a Monza l'11 giugno 1838, residente a Genova, commesso.

* 210 CAMBIAGIO (o Cambiaso) Biagio di Andrea, nato a Genova il 19 dicembre 1838, residente a Rivarolo Polcevera.

* 211 CAMBIASO Gaetano di Antonio, nato a Campomerone (Genova) il 19 agosto 1840, residente a Verona, mediatore.

* 212 CAMELLINI Giuseppe di Natale, nato a Reggio Emilia il 3 aprile 1834, residente a Genova, sarto.

* 213 CAMICI Venanzio di Giuseppe, nato a Colle di Val d'Elsa il 22 dicembre 1835, residente a Poggibonsi, caffettiere.

* 214 CAMPAGNUOLI Giuseppe Carlo fu Antonio, nato a Pavia il 6 nov. 1835, residente a Milano, impiegato al Monte di Pietà.

* 215 CAMPANELLA Antonio fu Gaspare, nato a Palermo il 28 febbraio 1823, morto (per suicidio) all'Arma di Taggia (S. Remo), il 6 dicembre 1868.

* 216 CAMPI Giovanni di Giuseppe, nato a Monticelli d'Ongina l'8 settembre 1820, residente a Torino, musicante.

* 217 CAMPO Achille fu Antonio, nato a Palermo il 12 giugno 1818, residente a Bari, maggiore del distretto militare.

218 CAMPO Giuseppe Baldassarre fu Antonino, nato a Palermo il 23 settembre 1830, ivi residente, possidente.

219 CANDIANI Carlo Antonio fu Gio.Battista , nato a Milano il 23 luglio 1828, ivi residente.

* 220 CANEPA Giuseppe di Angelo, nato a Genova il 12 gennaio 1834, già sottotenente di fanteria, morto il 22 gennaio 1876.

* 221 CANETTA Francesco Serafino di Domenico, nato ad Oggebbio il 13 dicembre 1836, ivi residente, possidente.

* 222 CANEZZA Bartolomeo di Benedetto, nato a Rapallo il 14 marzo 1839, residente a Genova, macchinista.

* 223 CANFER (o CANFORI) Pietro di Gio.Battista, nato a Bergamo il 9 giugno 1839, (già) suonatore, morto il 30 gennaio 1865.

* 224 CANINI Cesare fu Giuseppe, nato a Sarzana il 30 marzo 1841, residente a Fosdinovo.

225 CANNONI Gerolamo fu Giovanni, nato a Grosseto il 27 febbraio 1842, residente a Roccalbegna, messo del collettore.

226 CANTONI Angelo Maria di Ferdinando, nato a Mezzani Rondani il 15 ottobre 1829, imbianchino, morto il 23 dicembre 1867.

227 CANTONI Lorenzo di Geremia, nato a Parma il 10 agosto 1830, ivi residente, bracciante.

* 228 CANZIO Stefano di Michele, nato a Genova il 3 gennaio 1837, ivi residente direttore della Società enologica.

* 229 CAPPELLETTO Giuseppe Maria fu Pietro, nato a Venezia il 10 luglio 1810, morto in Brescia il 29 settembre 1861

* 230 CAPITANIO Giuseppe fu Luigi, nato in Bergamo il 18 giugno 1841, (già) scrivano, ivi morto il 23 febbraio 1871

* 231 CAPURRO Giovanni di Agostino, nato a Genova il 28 dicembre 1840, ivi residente, ora proprietario di locanda.

* 232 CAPURRO Gio.Battista di Gio.Battista, nato a Genova il 12 aprile 1841, capitano nel 69° fanteria.

* 233 CAPUZZI Giuseppe di Stefano, nato a Bedizzole il 25 novembre 1825, residente a Brescia, segretario della Biblioteca.

* 234 CARABELLI Daniele fu Domenico, nato a Gallarate il 1° aprile 1839, residente a Milano, argentiere.

* 235 CARAVAGGI Michele fu Carlo, nato a Chiari l'11 luglio 1843, già lavorante panattiere, morto in Brescia nel 1861

* 236 CARBONARI Lorenzo fu Sante, nato ad Ancona il 4 giugno 1823, residente a Grottammare, inabile al lavoro per ferite riportate in guerra.

* 237 CARBONARI Raffaele di Domenico, nato a Catanzaro il 21 novembre 1812, ivi residente, colonnello del R. esercito a riposo.

* 238 CARBONE Francesco di Giovanni, nato a Genova il 16 agosto 1840, capitano nel 17° fanteria.

* 239 CARBONE Luigi di Girolamo, nato Sestri Ponente il 20 giugno 1837, residente a Lavagna, costruttore navale.

* 240 CARBONELLI Vincenzo fu Pietro, nato a Secondigliano il 20 aprile 1822, residente a Genova, medico e deputato al Parlamento.

* 241 CARDINALE Natale Francesco di Girolamo, nato a Genova il 25 dicembre 1840, ivi residente, commesso.

* 242 CARETTI Antonio di Angelo, nato a Milano, nel 1836, morto nel 1867 combattendo a Mentana.

* 243 CARINI Gaetano fu Francesco, nato a Corteolona il 7 agosto 1832, capitano nell'esercito, morto in Bovino il 27 luglio 1861

* 244 CARINI Giacinto fu Giovanni, nato a Palermo nel 1827, generale nell'esercito in disponibilità e deputato al Parlamento.

245 CARINI Fedele Giuseppe di Luigi, nato a Pavia il 24 febbraio 1842, tenente nel 27° fanteria.

* 246 CARIOLATO Domenico fu Nicola, nato a Vicenza il 7 luglio 1836, ivi residente, possidente, capitano in pensione.

247. CARLUTTI Francesco fu Francesco, nato a Palmanova nel 1817, (già) orefice, morto in Alba il 24 gennaio 1861

248 CARMINATI Agostino Giovanni Bernardo di Giovanni, nato a Bergamo il 20 novembre 1837, già ufficiale di stato maggiore delle piazze in aspettativa, per ferite riportate in servizio, residente a Savona.

249 CARPANETO Francesco di Andrea, nato a Genova il 30 agosto 1837, ivi residente, commesso.

250 CARRARA Antonio Pietro Giulio fu Bellobuono, nato a Bergamo il 25 gennaio 1842, residente a Roma, agente d'affari.

* 251 CARRARA Cesare fu Pietro, nato Treviso l'11 novembre 1835, (già) scritturale, morto il 20 febbraio 1877 in Firenze.

252 CARRARA Giuseppe Antonio Luigi fu Giuseppe, nato a Bergamo il 1° gennaio 1838, ivi residente, calzolaio.

253 CARRARA Giuseppe Sante di Natale, nato a Bergamo il 28 marzo 1834, ivi residente, mediatore.

254 CARTAGENOVA Filippo di Giovanni Battista, nato a Genova nel giugno 1826, morto a Varazze l'11 febbraio 1871

* 255 CASABONA Antonio di Giacomo, nato a Genova il 21 giugno 1838, ivi residente.

* 256 CASACCIA Enrico Raffaele di Gerolamo, nato a Genova, morto a Calatafimi nel 15 maggio 1860.

* 257 CASACCIA Bartolomeo Emanuele di Andrea, nato a Genova il 23 novembre 1829, residente a Napoli, commissionario.

258 CASALI Alessandro fu Vincenzo, nato a Pavia il 27 settembre 1837, ivi residente, fittabile, morto il 4 settembre 1877.

* 259 CASALI Enrico fu Vincenzo, nato a Pavia il 29 luglio 1839, ivi residente, agente d'affari.

* 260 CASASSA (od anche CASAZZA o CASACCIA) Nicolò di Filippo, nato nell'Isola del cantone l'11 marzo 1839, residente a Buenos-Ayres, droghiere.

* 261 CASIRAGHI Alessandro di Vincenzo, nato a Milano il 25 settembre 1841, residente a Varese.

* 262 CASSANELLO Francesco Tomaso di Pietro, nato a Genova il 19 agosto 1842, ivi residente.

* 263 CASTAGNA Pietro di Agostino, nato a Verona il 15 novembre 1838, ivi residente, possidente.

* 264 CASTAGNOLA Domenico di Giuseppe, nato a Genova il 7 marzo 1839, ivi residente, tappezziere.

* 265 CASTAGNOLI Pasquale Natale di Antonio, nato a Livorno il 5 maggio 1842, ivi residente, falegname.

* 266 CASTALDELLI Guido fu Giacomo, nato a Massa Superiore il 30 maggio 1827, ivi residente.

* 267 CASTELLANI Egisto fu Carlo, nato a Milano il 7 dicembre 1843, ivi residente, telegrafista al servizio delle ferrovie dell'A. I.

* 268 CASTELLAZZI Antonio di Osvaldo, nato a Gosaldo il 28 novembre 1840, già residente a Venezia, già regio pensionato, morto il 24 settembre 1878 allo spedale civile di Venezia.

* 269 CASTELLINI Francesco Maria di Angelo, nato alla Spezia l'11 novembre 1843, residente a Genova, oste.

* 270 CASTIGLIA Salvatore fu Francesco, nato a Palermo il 10 marzo 1819, residente ad Odessa, console generale di Italia.

* 271 CASTIGLIONI Cesare fu Luca, nato a Tradate il 2 giugno 1841, residente a Milano, possidente.

* 272 CASTION Gaetano fu Antonio, nato a Portogruaro il 24 settembre 1820, ivi residente, (già) brigadiere

* 273 CATTANEO Angelo Alessandro di Pietro, nato a Bergamo il 25 ottobre 1839, (già) sottotenente di fanteria, morto a Nizza il 5 marzo 1870.

* 274 CATTANEO Angelo Giuseppe di Davide, nato ad Antegnate il 3 aprile 1842, morto a Tagliuno il 7 agosto 1867.

* 275 CATTANEO Bartolomeo fu Francesco, nato a Gravedona il 19 ottobre 1847, residente a Milano, orefice.

* 276 CATTANEO Francesco di Tommaso, nato a Novi Ligure il 17 ottobre 1835, ivi residente, negoziante.

277 CATTONI Telesforo di Federico, nato a Tabellano il 1° luglio 1841, (già) dottore in legge, morto a Gazzoldo il 14 ottobre 1861

* 278 CAVALLERI Gervaso Giuseppe fu Antonio, nato a Milano il 19 giugno 1839, ivi residente, inverniciatore.

* 279 CAVALLI Luigi di Francesco, nato a S. Nazario li 7 aprile 1839, residente a Vicenza, dottore in legge, possidente.

* 280 CECCARELLI Vincenzo di Luigi, nato a Roma il 27 maggio 1842, residente ad Asti, commesso viaggiatore.

* 281 CECCHI Silvestro di Giovanni, nato a Livorno l'8 gennaio 1844, ivi residente, corallaio.

* 282 CEI Giovanni di Angelo, nato a Livorno nel 1833, (già) facchino, morto nello spedale di Livorno nel 1868.

* 283 CELLA Gio.Battista fu Giorgio, nato ad Udine il 5 settembre 1837, ivi residente, avvocato.

* 284 CENGIAROTTI Sante fu Michele, nato a Caldiero di San Bonifacio l'11 ottobre 1834, ivi residente.

285 CENNI Guglielmo fu Lorenzo, nato a Comacchio li 26 febbraio 1817, residente a Roma, colonnello a riposo.

286 CEPOLLINI Achille. È ufficialmente escluso che uno di tal nome trovisi ora nell'esercito. Alcuno lo dice (già) maggiore nelle piazze, morto a Torino nel 1867 o 1868. Altri lo afferma nato a Napoli verso il 1820, tra i difensori di Venezia nel 1848-49, alla campagna di Lombardia nel 1859 come cacciatore delle Alpi; imbarcatosi a Lonato e sceso a Talamone, ma poi, raggiunto Garibaldi in Sicilia, capitano, ferito a Calatafimi; infine professore di lettere a Napoli. Nessuna notizia ufficiale; a Napoli è sconosciuto.

* 287 CEREA Celestino di Francesco, nato a Bergamo il 5 aprile 1840, ivi residente, vetturale.

* 288 CERESETTO Angelo di Gio.Battista, nato a Genova, morto combattendo al Volturno il 1° ottobre 1860, colpito nel ventre.

* 289 CERIBELLI Carlo fu Gaetano, nato a Bergamo lì' 11 febbraio 1838, ivi residente, ufficiale in riforma del R. esercito.

* 290 CERVETTO Maria Stefano fu Domenico, nato a Genova il 17 maggio 1839, tenente nel 51° fanteria.

* 291 CEVASCO Bartolomeo di Giuseppe, nato a Genova l'11 giugno 1817, ivi residente, già fuochista sui vapori.

* 292 CHERUBINI Pasquale detto Luigi di Giovanni, nato a S. Stefano di Piovene (Vicenza) l'11 aprile 1827, morto in Vicenza il 13 ottobre 1870.

293 CHIESA Giuseppe fu Camillo, nato a Borgoticino il 30 gennaio 1839. Appartenne alla leva del 1859 e fu inscritto nella 9^ compagnia, 4° reggimento, brigata Piemonte. Nel luglio 1861 denunciato disertore, condannato in contumacia, ed amnistiato nel 1872, cessò di essere iscritto nei ruoli dell'esercito. Ora di ignota esistenza.

* 294 CHIESA Liberio di Daniele, nato a Milano il 22 dicembre 1838, ivi residente; amputato di una gamba in seguito a ferita riportata a Palermo nel 1860; già maggiore dell'esercito in ritiro; rimosso dal grado nel 1870, ed escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 295 CHIOSSONE Vincenzo di Paolo, nato a Messina il 2 maggio 1827, già tenente nell'esercito, morto il 10 febbraio 1871

* 296 CHIZZOLINI Camillo fu Carlo, nato a Campitello il 6 giugno 1836, residente a Campitello, frazione del comune di Marcaria, possidente e medico.

297 CIACCIO Alessandro di Giuseppe, nato a Palermo il 29 ottobre 1818, ivi residente, possidente.

298 CICALA Ernesto di Giovanni, nato a Genova il 19 settembre 1834, capitano nel 9° bersaglieri.

* 299 CIOTTI Marziano di Valentino, nato a Gradisca (Austria) il 13 agosto 1839, residente a Montereale Cellina, commerciante.

* 300 CIPRIANI Bonaventura di Michele, nato a Godega il 26 dicembre 1826, residente a Caserta.

* 301 CIPRIANI Cesare Augusto di Giovanni, nato a Firenze il 6 novembre 1839, ivi residente scritturale.

* 302 COCCHELLA Stefano di Antonio, nato a Genova il 26 maggio 1839, ivi residente.

* 303 COCOLO Giuseppe fu Giovanni Battista, nato a Conegliano il 23 settembre 1840, morto a Milano nel 1861

* 304 COELLI Carlo di Giovanni, nato a Castellone il 13 settembre 1838, ivi residente, medico.

305 COGITO Guido Lorenzo Giovanni Battista di Giuseppe, nato in Acqui il 22 novembre 1841, residente a Milano, parrucchiere.

* 306 COLI (od anche COLLI) Gaetano fu Agostino, nato a Budrio l'8 agosto 1835, residente a Bologna, già esercente liquorista.

307 COLLI Antonio. Da taluno fu creduto faciente parte del reggimento Guide, nel 1860 in formazione a Pinerolo sotto il comando del colonnello Vasco, poi disertore per raggiungere la spedizione, e morto a Calatafimi od a Palermo. " invece risultato ufficialmente che al detto reggimento è appartenuto un Colli Luigi, fu Paolo, nato a Montecchio (Reggio Emilia) il 13 marzo 1833 e disertato il 13 maggio 1860; - che un Colli Antonio, allo sbarco di Marsala, apparteneva alla intendenza, e il decreto e la medaglia spettantigli trovansi presso il Ministero della Guerra; che nessun Colli figura negli elenchi dei morti e feriti dell'esercito meridionale; e infine che il Colli Antonio è affatto sconosciuto alle provincie di Bologna, Modena e Padova (Montagnana).

* 308 COLLINI Angelo di Giovanni Antonio, nato a Mantova il 1° settembre 1839, ivi residente, notaio.

* 309 COLOMBI Luigi Alberto di Arcangelo, nato a Misano di Gera d'Adda il 29 agosto 1839, medico, morto a Crema nel 1870.

* 310 COLOMBO Donato fu Abramo, nato a Ceva di Mondovì nel 1838, residente a Trapani, prof. nelle Regie scuole tecniche.

* 311 COLOMBO Gerolamo fu Natale, nato a Bergamo il 24 novembre 1840, ivi residente, parrucchiere.

* 312 COLPI Giovanni Battista fu Giovanni, nato a Padova il 20 giugno 1838, residente a Saletto, medico e possidente.

* 313 COMI Cesare di Giovanni, nato a Trescorre l'11 marzo 1844, tenente nel 30° reggimento fanteria.

314 COMPIANO Bartolomeo di Lorenzo, nato a Genova il 7 novembre 1841, ivi residente.

* 315 CONTI Carlo fu Bartolo, nato a Carvico il 14 marzo 1836, residente a Bergamo, scrivano.

* 316 CONTI Demetrio di Zeffirino, nato a Loreto il 23 dicembre 1837, residente ad Ancona, regio impiegato nel Bagno penale.

317 CONTI Lino fu Defendente, nato a Brescia il 23 settembre 1825, residente a Milano, commerciante.

* 318 CONTI Luigi Antonio fu Fermo, nato a Sondrio il 21 ottobre 1839, ivi residente, commesso di studio.

* 319 CONTRO Silvio di Luigi, nato a Cologna Veneta il 22 aprile 1841, già capitano di fanteria, inscritto nella Tesoreria di Novara.

* 320 COPELLO Enrico di Carlo, nato a Genova il 22 gennaio 1844, ivi residente, commerciante.

* 321 COPLER Giuseppe di Angelo, nato a Tagliuno il 14 settembre 1829, residente a Brescia, burattinaio e suonatore.

* 322 CORBELLINI Antonio Giuseppe fu Angelo, nato a Borgarello il 25 luglio 1843, residente a S. Cristina, veterinario.

* 323 CORONA Marco fu Giacomo, nato a Forno di Zoldo il 20 agosto 1827, già residente a Torre di Bajro (Ivrea), (già) sarto e cocchiere, morto il 20 marzo 1861

* 324 CORTESI Francesco di Giovanni , nato a Sala Baganza il 18 agosto 1833, ivi residente.

* 325 CORTI Francesco fu Giacomo, nato a Bergamo l'8 febbraio 1841, ivi residente, filatojere.

326 COSSIO Valentino fu Nicola, nato a Talmassons il 13 aprile 1843, residente a Seghebbia.

* 327 COSSOVICH Marco di Giuseppe, nato a Venezia il 28 gennaio 1824, ivi residente, regio pensionato.

328 COSTA Giacomo di Domenico, nato a Roveredo (Tirolo) il 23 luglio 1834, residente ad Aosta, mugnaio.

* 329 COSTA Giuseppe di Giovanni, nato a Genova il 14 marzo 1840, ivi residente, cuojajo.

330 COSTA Giuseppe di Pietro, nato a Genova il 20 novembre 1827, macchinista, morto a Genova il 17 agosto 1871

* 331 COSTETTI Massimiliano di Gabriele, nato a Reggio Emilia il 15 settembre 1840, ivi residente, sarto.

* 332 COVA Gio.Paolo di Innocente, nato a Milano il 18 marzo 1840, ivi residente.

* 333 COVINI Paolo fu Luigi, nato a Pavia il 26 maggio 1837, residente a Stradella, possidente e medico.

* 334 COVIOLI Giuseppe Romeo di Marco, nato a Bergamo il 13 maggio 1839, ivi residente, stampatore.

* 335 CREMA Angelo Enrico di Luigi, nato a Cremona il 17 marzo 1836, ivi morto il 9 febbraio 1867.

* 336 CRESCINI Gio.Battista di Paolo, nato a Ludriano il 24 gennaio 1839, residente a Brescia, scrivano.

* 337 CRESCINI Rizzardo Paolo fu Giuseppe, nato a Bergamo il 2 luglio 1841, residente a Grignano, tipografo.

338 CRESCIONINI Giuseppe di Alberto, nato a Bergamo il 22 luglio 1815; ex-comandante il Corpo degli adolescenti in Palermo; poi (nel 1863) escluso dall'onere di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 339 CRISPI Francesco di Tomaso, nato a Ribera il 16 ottobre 1818, residente a Roma, avvocato e deputato al Parlamento.

* 340 CRISTIANI Cesare di Ferdinando, nato a Livorno il 17 dicembre 1841, ivi residente, tipografo.

* 341 CRISTOFOLI Giacomo di Cesare, nato a Clusone il 25 febbraio 1842, residente a Bergamo, ragioniere e possidente.

* 342 CRISTOFOLI Pietro Angelo di Luigi Filippo, nato a S.Vito al Tagliamento il 16 luglio 1841, residente a Genova, chirurgo.

* 343 CRUCIANI (non CROCIANI) Gio.Battista di Antonio, nato a Foligno il 4 gennaio 1842, ivi residente, fabbricante di paste.

344 CUCCHI Francesco Luigi fu Antonio, nato a Bergamo il 17 dicembre 1834, ivi residente, possidente e deputato al Parlamento.

* 345 CURTOLO Giovanni di Domenico, nato a Feltre l'11 luglio 1839, ivi residente, scrivano privato.

346 CURZIO Francesco Raffaele di Francesco, nato a Turi il 23 dicembre 1822, residente a Firenze, avvocato. 

* 347 DACCO' Luigi fu Pietro, nato a Marcignago il 15 febbraio 1838, residente a Buenos-Ayres, ingegnere e benestante, inscritto nella Tesoreria di Pavia.

* 348 DAGNA Pietro di Giuseppe, nato a Pavia il 16 marzo 1842, ivi residente, subeconomo dei Benefizi vacanti.

* 349 DALL'ARA Carlo di Giuseppe, nato a Rovigo, il 18 febbraio 1835, residente a Venezia, uffiziale provinciale.

* 350 DALLA SANTA Vincenzo di Giuseppe, nato a Padova l'1 agosto 1827, (già) agente privato, morto combattendo a Bezzecca il 21 luglio 1861

* 351 DALLA PALU' Antonio fu Nicola, nato a Vicenza il 24 novembre 1824, ivi residente, ex-maggiore pensionato.

* 352 DALL'OVO Luigi Enrico di Ermenegildo, nato a Bergamo l'8 gennaio 1821, colonnello comandante il 12° fanteria.

353 DAMASO Lipidio (e non DALMAZIO Antonio), di genitori ignoti, nato a Verona il 10 dicembre 1826, (già) residente a Monza, morto il 23 ottobre 1861

354 DAMELE Pietro Lorenzo fu Gio. Battista, nato a Diano Castello il 13 aprile 1837, residente a Milano, commissionario.

* 355 DAMIANI Gio.Maria di Carlo, nato a Piacenza il 15 ottobre 1832, residente a Bologna, rappresentante l'Agenzia Stefani.

* 356 DAMIS Domenico fu Antonio, nato a Lungro il 14 febbraio 1824, colonnello nell'esercito.

357 DANCONA Giuseppe di Isacco Gerolamo, nato a Venezia il 29 dicembre 1838, morto nel 1861 a Villa S. Giovanni (Reggio Calabria) , schiacciato sotto un carro.

* 358 DAPINO Stefano Rocco di Carlo, nato a Genova il 21 febbraio 1841, già luogotenente nel 23° fanteria, ivi residente, negoziante.

* 359 DE AMEZAGA Luigi di Giacomo, nato a Genova il 30 novembre 1833, ivi residente, già capitano infant. Marina.

360 DEBIASI Giuseppe di Angelo, nato a Pugliolo frazione del comune di Lerici, il 23 novembre 1828, residente a Genova, marinaio.

* 361 DEBONI Giacomo fu Polidoro, nato a Feltre, morto a Pastrengo il 20 giugno 1871

* 362 DE COL Giuseppe Francesco di Felice, nato a Bellano lì 11 agosto 1819, residente a Como, giornaliere.

363 DE COL Luigi di Giacomo, nato a Venezia il 12 dicembre 1838, ivi residente, regio pensionato.

* 364 DEFENDI Giovanni fu Alessandro, nato a Lurano il 3 ottobre 1834, residente a Caravaggio, portinaio.

* 365 DE FERRARI Carlo fu Nicola, nato a Sestri Levante il 1° ottobre 1833, residente a Torino, albergatore.

* 366 DEL CAMPO Lorenzo di Marco, nato a Genova l'1 dicembre 1835, ivi residente, pescivendolo.

* 367 DEL CHICCA Giuseppe di Lorenzo, nato a Bagni S. Giuliano il 9 maggio 1842, residente a Livorno, funaiuolo.

* 368 DEL FÀ Alessandro fu Giuseppe, nato a Livorno il 22 dicembre 1838, ivi residente.

* 369 DELFINO Luca Gio.Battista di Pasquale, nato a Genova nel 1807, morto il 20 febbraio 1865 in Genova.

* 370 DELLA CASAGRANDE) Andrea di Giuseppe, nato a Genova il 26 luglio 1836, ivi residente, commerciante.

* 371 DELLA CASAGRANDE) Giovanni di Giorgio, nato in Genova lì 11 gennaio 1842, ivi residente, già sottotenente nel 59° fanteria.

* 372 DELLA CELLA Ignazio di Candido, nato a Genova il 30 luglio 1835, morto il 25 ottobre 1870.

* 373 DELLA TORRE Carlo Pompeo fu Antonio, nato a Milano il 13 agosto 1831, ivi residente, cameriere.

* 374 DELLA TORRE Ernesto di Andrea, nato ad Adro il 26 marzo 1844, già sottotenente nell'11° fanteria, residente a Portici, commissionario.

* 375 DELLA VIDA Natale Cesare di Vincenzo, nato a Livorno il 25 dicembre 1831, ivi residente, calzolaio.

* 376 DELLE PIANE Gio.Battista di Andrea, nato in Genova il 25 giugno 1839, ivi residente.

* 377 DEL MASTRO Michele fu Carmine, nato ad Ortodonico il 6 marzo 1827, morì combattendo alle barricate di Palermo l'1 giugno 1860.

* 378 DEL MASTRO Raffaele Francesco Paolo fu Carmine, nato ad Ortodonico il 9 maggio 1825, ivi residente, proprietario.

* 379 DELUCCHI Giulio Giuseppe di Gaetano, nato a San Pier d'Arena il 7 novembre 1841, residente a Genova, scrittore.

* 380 DELUCCHI Luigi di Giuseppe, nato a Montoggio il 1° luglio 1836, residente a Genova.

* 381 DE MAESTRI Francesco di Peregrino, nato a Spotorno il 18 ottobre 1826, già capitano dei veterani, morto nel marzo 1876 nello spedale di Savona.

* 382 DE MARCHI Bonaventura Domenico fu Francesco, nato a Malo il 21 febbraio 1831, residente a Torino, farmacista.

383 DE MARTINI Germano (e non Gennaro). Di ignota origine ed esistenza. Di Novara lo dice l'elenco del 1862 e parecchi lo confermano, ma ufficialmente consta non essere egli nato in Novara, né esservi da alcuno conosciuto.

* 384 DE MICHELI Tito di Pietro, nato a Genova il 7 febbraio 1842, capitano nel 42° fanteria.

* 385 DE NEGRI Gio.Battista di Antonio, nato a Genova il 3 febbraio 1842, ivi residente.

* 386 DE NOBILI barone Alberto fu Cesare, nato a Corfù il 12 maggio 1837, morto a Catanzaro il 5 novembre 1861

387 DE PALMA Nicola fu Raffaele, nato a Milazzo nel 1812, morto a Torre del Greco nel 6 luglio 1861

* 388 DE PAOLI Cesare di Francesco, nato a Pozzoleone il 24 gennaio 1830, ivi residente, docente privato.

* 389 DE PASQUALI Luigi di Carlo, nato a Genova il 17 settembre 1823, ivi residente marinaio.

* 390 DESIDERATI Basilio Emilio di Luigi, nato a Mantova nel 1840, residente a Brescia, panattiere, morto l'8 gennaio 1861

391 DE STEFANIS Giovanni Antonio di Modesto, nato a Castellammare il 18 luglio 1832, residente a Vicenza, maggiore nell'esercito.

* 392 DE VECCHI Carlo fu Francesco, nato a Copiano il 3 novembre 1842, residente a Sant'Angelo Lodigiano.

* 393 DE WITT Rodolfo di Nicola, nato ad Orbetello il 13 aprile 1841, ivi residente, scritturale.

394 DE ZORZI Ippolito di Giuseppe, nato a Vittorio (Caneda) il 18 aprile 1839, ivi residente, possidente.

* 395 DEZZA Giuseppe di Baldassarre, nato a Melegrano il 23 febbraio 1830, tenente generale, comandante la divisione di Milano, aiutante di campo onorario di S.M., e deputato al Parlamento.

396 DI CRISTINA Giuseppe di Rocco, nato a Palermo il 14 febbraio 1821, morto in Altarello di Baida il 18 agosto 1867.

* 397 DI FRANCO Vincenzo di Placido, nato a Palermo il 4 febbraio 1819, ivi residente, impiegato al Genio militare.

398 DI GIUSEPPE Gio.Battista fu Giuseppe, nato a S. Margherita Belice il 17 gennaio 1816, residente a Palermo, maggiore pensionato.

* 399 DILANI Giuseppe di Felice, nato a Bergamo il 14 ottobre 1839, già macellaio, morto a Monte Suello il 4 luglio 1861

400 DIONESE Eugenio di Giovanni, nato a Vicenza il 15 ottobre 1837, residente a Palermo, già luogotenente.

* 401 DODOLI Corrado di Costantino, nato a Livorno il 14 aprile 1838, ivi residente, navicellaio.

* 402 DOLCINI Angelo di Francesco, nato a Bergamo il 28 agosto 1838, residente a Genova, falegname.

* 403 DONADONI Angelo Enrico di Giovanni, nato a Bergamo il 12 giugno 1840, ivi residente, negoziante.

* 404 DONATI Angelo di Giacomo, nato a Padova il 2 ottobre 1843, ivi residente, industriante.

* 405 DONATI Carlo di Giuseppe, nato a Treviglio nel 1835, morto nel 4 gennaio 1865 nello Spedale Fate Bene Fratelli di Milano.

* 406 DONEGANI Pietro di Giuseppe, nato a Brescia il 13 dicembre 1831, ivi residente, armaiuolo.

* 407 DONELLI Andrea fu Melchiorre, nato a Castel Ponzone il 26 settembre 1829, già residente a Milano, ivi morto il 15 maggio 1868 allo Spedale Maggiore per tubercolosi.

* 408 DONIZZETTI Angelo Paolo fu Andrea, nato ad Ossanesga l'8 aprile 1843, residente a Bergamo, fabbricante di organi.

* 409 ELIA Augusto fu Antonio, nato ad Ancona il 4 settembre 1829, ivi residente, tenente colonnello pensionato e deputato al Parlamento.

* 410 ELLERO Enea di Mario, nato a Pordenone il 9 settembre 1840, ivi residente, avvocato.

* 411 ERBA Filippo fu Luigi, nato a Milano il 3 febbraio 1834, ivi residente, possidente.

* 412 EREDE Gaetano Angebrico di Michele, nato a Genova, morto il 20 giugno 1860 a Milazzo.

413 ESCOFFI (e non ESCUFI ) Francesco Luigi fu Luigi, nato a Torino il 26 aprile 1837, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860.

* 414 ESPOSITO MERLI DELUVIANI Gio.Antonio, di genitori ignoti, nato a Treviglio il 9 luglio 1839, residente a Bergamo, scrivano.

415 EVANGELISTI Paolo Emilio di Filippo, nato a Genova il 17 gennaio 1840, ivi residente, commerciante.

* 416 FABIO Luigi di Giovanni, nato a Pavia il 26 gennaio 1836, già luogotenente di fanteria, ivi residente, impiegato al civico Spedale.

* 417 FABRIS Placido fu Bernaudo, nato a Povegliano il 3 gennaio 1839, ivi residente, possidente.

* 418 FACCINI Onesto di Domenico, nato a Lerici il 10 luglio 1828, residente a S.Pier da Ponti (Firenze), calzolaio.

419 FACCIOLI Baldassarre fu Gerolamo, nato a Montagnana il 5 agosto 1841, già dott. in matematica, già luogotenente d'artiglieria, morto il 17 settembre 1866 in Fiesso Umbertiano.

* 420 FACHETTI Alessandro Antonio fu Giovanni, nato a Bergamo il 12 aprile 1812, residente a Montafia, possidente, già sottotenente dei veterani d'Asti in pensione.

* 421 FACHETTI Gio.Battista di Antonio, nato a Brescia il 4 giugno 1841, residente a Torino, domestico.

* 422 FANELLI Giuseppe fu Lelio, nato a Montecalvario il 15 ottobre 1827, già residente in Napoli, morto in Napoli nella casa di salute Fleurent il 3 gennaio 1877.

* 423 FANTONI Gio.Battista fu Francesco, nato a Legnago il 4 giugno 1840, già sottotenente nel 35° fanteria, residente a Piombino, cassiere della Banca agricola.

424 FANTUZZI Antonio di Vincenzo, nato a Pordenone il 5 maggio 1833, (già) barbiere, morto a Torino l'11 aprile 1865 nello Spedale detto Cottolengo.

425 FANUCCHI Alfredo di Filippo, nato a Salviano (Livorno), morto combattendo a Capua nel 1860.

426 FASCE Paolo Federico di Emanuele, nato a Genova, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860.

* 427 FASCIOLO Andrea di Antonio, nato a Genova il 31 maggio 1839, residente a Mantova (fortezza ), tenente di fanteria.

* 428 FASOLA Alessandro fu Gaudenzio, nato a Novara il 28 febbraio 1799, capitano nel 1° reggimento del treno

429 FATTORI BIOTTON Antonio fu Antonio, nato a Castello Ticino (Tirolo) il 18 marzo 1826, residente a Zubiena.

* 430 FATTORI Giuseppe fu Gio.Battista, nato ad Ostiano il 2 luglio 1839, ivi residente.

* 431 FERITI Gio.Marsilio di Pietro, nato a Brescia il 3 ottobre 1841, morto il 28 gennaio 1861

* 432 FERRARI Filippo di Bartolomeo, nato a Varese Ligure il 15 agosto 1836, residente a Genova, filogranista.

433 FERRARI Pietro Giacomo di Giuseppe, nato a Brescia il 20 marzo 1836; prima escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione, per patita condanna criminale; poi ammesso, e morto il 27 settembre 1863 per ferite in Brescia.

434 FERRARI Gio.Domenico fu Luigi, nato a Napoli il 3 gennaio 1805, ivi residente, già luogotenente di vascello di stato maggiore.

* 435 FERRARI Paolo di Pietro, nato a Brescia il 2 luglio 1820, ivi residente, tenente pensionato.

* 436 FERRI Pietro di Giacinto, nato a Bergamo il 5 agosto 1843, morto a Bergamo il 287 agosto 1867.

* 437 FERRIGHI Felice fu Giovanni, nato a S.Clemente di Valdagno il 5 gennaio 1831, morto a Cremona il 20 ottobre 1861

* 438 FILIPPINI Ettore di Antonio, nato a Venezia il 30 gennaio 1841, residente a Milano , impiegato ferroviario.

439 FINCATO Gio.Battista fu Antonio, nato a Treviso il 19 giugno 1828, residente a Padova, parrucchiere.

* 440 FINOCCHIETTI Domenico di Luigi, nato a Genova il 16 maggio 1830, ivi residente, ex-tenente nel 54° fanteria, ora negoziante.

* 441 FIORENTINI Pietro fu Giuseppe, nato a Verona il 28 giugno 1825, morto a Milano il 28 dicembre 1861

* 442 FIORINI Edoardo fu Giuseppe, nato a Cremona il 10 dicembre 1835, ivi residente.

* 443 FIRPO Pietro di Bernardo, nato a Genova l'8 gennaio 1838, ivi residente, commerciante.

* 444 FLESSATI Giuseppe fu Domenico, nato a Cerea il 9 maggio 1830, morto a Legnago il 14 marzo 1861

445 FOGLIATI Luigi di Bartolo, nato a Molvena nel maggio 1820, (già) orefice, morto combattendo a Maddaloni il 1° ottobre 1860.

446 FOLIN Marco fu Simone, nato a Venezia il 12 marzo 1831, muratore, sospeso il pagamento della pensione il 22 luglio 1876 per condanna; attualmente nelle carceri giudiziarie di Genova per altra condanna. Escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 447 FONTANA Giuseppe fu Giuseppe, nato a Trento il 12 novembre 1824, residente a Milano, commerciante.

* 448 FORESTI Giovanni di Cristoforo, nato a Pralboino il 18 aprile 1842, residente a Milano, impiegato ferroviario.

449 FORMIGA Luigi fu Giovanni, nato a Mantova il 25 novembre 1840, residente a Milano, operaio.

* 450 FORNI Antonio di Carmelo, nato a Palermo il 7 gennaio 1806, ivi residente, possidente, maggiore delle piazze in riposo.

* 451 FORNI Luigi di Stefano, nato a Pavia nel 1837, morto in Pavia nell'8 aprile 1861

* 452 FOSSA Giovanni di Domenico, nato a Genova il 28 ottobre 1838, ivi residente. - FRANCISCO Antonio, recte MERIGONE Francesco Antonio. Vedi N° 628.

* 453 FRANZONI Guglielmo di Natale, nato a Parma il 26 gennaio 1842, ivi residente, bracciante.

* 454 FRASCADA BELFIORE Paolo, di genitori ignoti, nato a Vigevano il 22 maggio 1840, residente a Garlasco.

* 455 FREDIANI Francesco fu Carlo, nato a Massa il 14 maggio 1829, già sottotenente nei bersaglieri, residente a Cairo, impiegato postale egiziano, inscritto nella tesoreria di Lecce.

* 456 FRIGO Antonio Bartolomeo fu Bartolomeo, nato a Montebello il 7 aprile 1832, ivi residente. ex-albergatore.

* 457 FROSCIANTI Giovanni fu Fabio, nato a Collescipoli il 20 novembre 1811, residente a Piediluco, possidente.

* 458 FUMAGALLI Angelo Luigi fu Francesco, nato a Bergamo il 20 giugno 1838, residente a Milano, meccanico.

* 459 FUMAGALLI Antonio di Pietro, nato a Bergamo il 15 gennaio 1842, già sottotenente nel 19° fanteria, morto a Napoli il 24 maggio 1861

* 460 FUMAGALLI Angelo Enrico di Gaetano, nato a Senago il 13 settembre 1826, morto il 21 novembre 1869.

* 461 FUSI Giuseppe di Carlo, nato a Pavia l'11 novembre 1840, residente a Milano, commesso di studio.

* 462 FUXA Vincenzo di Gabriele, nato a Palermo il 28 gennaio 1820, già maggiore di fanteria in aspettativa, ivi residente, impiegato allo Stabilimento agricolo.

463 GABRIELI Raffaele di Giuseppe, nato a Roma il 30 gennaio 1835, residente a Palermo.

* 464 GADIOLI Francesco di Antonio, nato a Libiola il 16 febbraio 1839, iscritto sulla Tesoreria di Roma, cameriere.

* 465 GAFFINI Antonio di Carlo, nato a Milano il 27 novembre 1832, residente a Firenze, domestico.

* 466 GAFURI Eugenio fu Fortunato, nato a Brivio il 21 ottobre 1830, morto a Bergamo nel 1871

* 467 GAGNI Federico di Giuseppe, nato a Bergamo l'11 dicembre 1837, ivi residente, fruttivendolo.

* 468 GALETTO Antonio Alessandro di Francesco, nato a Genova il 30 ottobre 1838, ivi residente.

469 GALIGARSIA Sebastiano fu Michele, nato a Favignana il 28 ottobre 1820, morto combattendo a Calatafimi il 15 maggio 1860.

* 470 GALIMBERTI Giacinto fu Napoleone, nato a Milano il 5 luglio 1832, (già) impiegato alla cassa di risparmio, morto a Cantù il 17 novembre 1869.

* 471 GALIMBERTI Giuseppe Carlo fu Napoleone, nato a Milano il 10 gennaio 1834, ivi residente, agente commerciale.

* 472 GALLI Carlo di Pietro, nato a Pavia il 16 novembre 1837, ivi residente, cambia valute.

* 473 GALLEANI Gio.Battista di Filippo, nato a Genova il 1° febbraio 1843, ivi residente, commerciante.

* 474 GALLEANI Luigi Francesco di Filippo, nato a Genova il 15 agosto 1840, (già) luogotenente di stato maggiore (divisione Sirtori), morto all' opedale di Napoli il 3 ottobre 1860.

* 475 GALLOPPINI Pietro di Francesco, nato a Borgo Sesia il 25 marzo 1839, residente a Gonova, cameriere d'albergo.

* 476 GAMBA Barnaba di Giacomo, nato a Zogno il 15 maggio 1824, morto a Bergamo il 5 giugno 1861

* 477 GAMBINO Giuseppe di Francesco, nato a Voltri nel 1838, morto a Genova nel 1861

* 478 GANDOLFO Emanuele di Adamo, nato a Genova il 12 febbraio 1841, ivi residente, commerciante.

* 479 GARBINATI Guido di Domenico, nato a Vicenza nel 1837, (già) agente privato, morto a Vicenza nel 1871

* 480 GARIBALDI Gaetano di Gio.Battista, nato a Genova il 21 maggio 1840, ivi residente.

* 481 GARIBALDI Giovanni Stefano Agostino di Domenico, nato a Genova, morto a Palermo il 27 maggio 1860, sotto il ponte dell'Ammiraglio per ferite di arma da fuoco e di bajonetta.

482 GARIBALDI generale, Giuseppe fu Domenico, nato a Nizza il 4 luglio 1807 residente a Caprera, agricoltore, deputato al Parlamento.

* 483 GARIBALDI Menotti di Giuseppe, nato a Rio Grande (Brasile) il 22 settembre 1840, residente a Roma, agricoltore, deputato al Parlamento.

484 GARIBALDO Giovanni di Giovanni, nato a Genova il 24 ottobre 1838, ivi residente, morto il 6 maggio 1871

* 485 GARIBOTTO Giuseppe Marino di Giacomo, nato a Genova il 4 agosto 1840, ivi residente.

486 GASPARINI Giovanni Andrea fu Bernardo, nato a Carrè l'8 marzo 1831, ivi residente, medico-chirurgo non esercente.

487 GASPARINI Gio.Battista fu Antonio, nato a Sandrigo il 17 marzo 1836, residente a Montecchio Precalcino, (già) tenente nell'esercito.

488 GASTALDI Cesare di Giovanni, nato a Neviano degli Arduini, il 15 marzo 1838, residente a Parma, bracciante.

* 489 GASTALDI Giuseppe Giovanni Battista fu Domenico, nato a porto Maurizio il 24 maggio 1833, ivi residente, capitano marittimo.

490 GATTAI Cesare di Alessandro, da Livorno (?), morto a Calatafimi il 15 maggio 1860.

* 491 GATTI Stefano di Angelo, nato a Mantova il 24 settembre 1840, capitano nell'esercito.

492 GATTINONI Gio.Costanzo Zaccheo di Girolamo, nato a Bergamo il 10 luglio 1837, morto a Palermo il 29 maggio 1860.

493 GAZZO Daniele di Antonio, nato a Padova il 5 novembre 1821, morto nel tragitto da Messina a Napoli il 1° ottobre 1860.

494 GERA Domenico di Bernardo, nato a Longare nel 1844, (già) residente ai Corpi Santi (Milano), morto il 20 settembre 1870

495 GERARD (e non GIRARD) Omero del fu Luigi, nato (a Livorno?) nel 1835, morto a Livorno il 23 novembre 1861 allo Spedale.

* 496 GERVASIO Giuseppe di Antonio, nato a Genova il 3 marzo 1837, macchinista, morto il 14 gennaio 1871

* 497 GHIDINI Luigi di Francesco, nato a Bergamo il 15 settembre 1839, morto a Bergamo il 20 agosto 1867.

* 498 GHIGLIONE Gio.Battista di Gaetano, nato a Genova il 14 settembre 1838, ivi residente, sottotenente nel 3° granatieri

* 499 GHIGLIOTTI Francesco Antonio di Gio.Battista, nato a Genova il 7 novembre 1829, ivi residente, parrucchiere.

* 500 GHIRARDINI Goffredo di Alessandro, nato ad Asola il 27 febbraio 1841, residente a Mantova, notaio.

* 501 GHISLOTTI Giuseppe di Luigi, nato a Comun Nuovo il 29 aprile 1841, residente a Bergamo, avvocato.

* 502 GIACOMELLI Pietro fu Antonio, nato a Noventa Vicentina il 4 agosto 1836, residente a Monselice, medico.

* 503 GIAMBRUNO Nicola di Cesare, nato a Genova l'8 agosto 1839, ivi residente.

* 504 GIANFRANCHI Raffaele Felice di Giovanni, nato a Genova il 13 gennaio 1841, già vi residente. Nel marzo 1874 espatriò, prima recandosi in Francia, poi in America. Dal 1° ottobre 1873 non percepì pensione: e la famiglia è priva di sue notizie da molto tempo. Riuscirono inutili le ricerche fatte sul suo conto nel distretto del R. Consolato di Buenos Ayres, dove credevasi che ei dimorasse.

505 GILARDELLI Angelo Giuseppe di Antonio, nato a Pavia nel 1837, morto combattendo a Palermo nel 1860.

506 GILIERI Girolamo fu Antonio, nato a Porto Legnago l'11 luglio 1825, morto a Palermo nel 1860.

* 507 GIOLA Giovannni fu Domenico, nato ad Alessandria il 13 novembre 1814, residente a Torino.

508 GIUDICE Gio.Girolamo fu Domenico, nato a Codevilla il 14 marzo 1829, già sottotenente di fanteria, morto il 2 novembre 1862 annegatosi nel fiume Po.

* 509 GIULINI Luigi Giovanni fu Benigno, nato a Cremona il 31 maggio 1835, residente a Bergamo, ingegnere nelle ferrovie.

* 510 GIUNTI Egisto Edoardo di Giovanni, nato a Livorno il 13 luglio 1832, ivi residente, legatore di libri.

* 511 GIUPPONI Giuseppe Ambrogio fu Giuseppe, nato a Bergamo il 26 marzo 1838, ivi residente, possidente.

* 512 GIURIOLO Giovanni di Pietro, nato in Arzignano il 2 aprile 1839, ivi residente, avvocato.

* 513 GIUSTA Giuseppe di Antonio, nato in Asti il 25 dicembre 1832, residente a Mondovì, già tenente nel 69° fanteria.

* 514 GNECCO Giuseppe di Tommaso, nato a Genova nel 1824, morto in Francia il 29 gennaio 1871

515 GNESUTTA Coriolano di Raimondo, nato a Latisana il 9 maggio 1839, ivi residente, fornaio.

* 516 GNOCCHI Ermogene fu Silvestro, nato ad Ostiglia il 18 gennaio 1819, residente a Mantova, pensionato, già luogotenente nel treno.

* 517 GOGLIA Domenico fu Francesco, nato a Pozzuoli il 25 marzo 1830, residente a Roma, capitano commissario nell'esercito.

518. GOLDBERG Antonio. Mancano notizie ufficiali. Taluno afferma essere egli nato a Pest (Ungheria) nel 1826; tenente nei cacciatori delle Alpi nel 1859; sergente nella 6^ compagnia a Talamone. Alla presa di Palermo avrebbe riportato due ferite; appartenuto di poi al corpo invalidi, sarebbe morto nel 1862 a Sorrento (o Salerno?).

* 519 GORGOGLIONE Giuseppe di Cesare, nato a Genova il 29 novembre 1840, residente in Alessandria, ebanista.

* 520 GOTTI Pietro fu Antonio, nato a Bergamo il 10 ottobre 1841, residente a Milano , vetturale.

* 521 GRAFIGNA Giuseppe di Giovanni, nato a Genova il 22 aprile 1826, ivi residente, oste.

522 GRAMACCINI Leonardo di Bartolomeo, nato a Sinigaglia il 4 gennaio 1827, residente a Pesaro, calzolaio.

523 GRAMIGNOLA Innocente di Ambrogio, nato a Robecco d'Oglio l'11 aprile 1834, (già) capitano nel 31° fanteria, morto a Peschiera nel 1868.

524 GRANDI Francesco di Luigi, nato a Tempio l'5 luglio 1842, residente a Napoli, intarsiatore.

* 525 GRANUCCI Giovanni fu Paolo, nato a Calci il 13 dicembre 1838, residente a Verona, capitano nella milizia mobile.

* 526 GROSSO Carlo di Carlo, nato a Cuorguè nel 1842, morto in settembre 1860 a S^ Maria di Capua in un'ambulanza, per febbre tifoidea.

* 527 GRIGGI Giovanni Battista Giuseppe di Stefano, nato a Pavia il 17 gennaio 1834, residente a Brescia, segretario nell'Intendenza di Finanza.

528 GRIGNOLO BASSO Edoardo di felice, nato a Chioggia il 27 novembre 1840, residente a Milano.

* 529 GRITTI Emilio di Carlo, nato a Cologna al Serio il 2 dicembre 1843, tenente nel regio esercito.

530 GRIZIOTTI Giacomo fu Antonio, nato a Corte Olona l'11 maggio 1823, (già) colonnello nell'esercito, morto in Arena Po il 20 novembre 1871

* 531 GRUMIGNANO Stefano Efisio fu Fedele, nato a Cagliari il 4 maggio 1833, ivi residente, macchinista.

* 532 GRUPPI Giuseppe fu Pietro, nato a Pavia il 20 aprile 1840, ivi residente, impiegato privato.

* 533 GUALANDRIS Giuseppe Enrico di Agostino, nato ad Almenno S. Bartolommeo l'8 ottobre 1822, residente a Milano, disegnatore.

* 534 GUARNACCIA Francesco di Emanuele, nato a Venezia il 21 luglio 1832, residente a Treviso.

* 535 GUAZZONI Carlo di Cesare, nato a Brescia il 7 aprile 1841, ivi residente, rigattiere.

* 536 GUIDA Carlo di Pietro, nato a Soresina il 3 ottobre 1840, ivi residente, ingegnere.

* 537 GUIDOLIN Antonio di Pasquale, nato a Castelfranco Veneto il 9 novembre 1833, ivi residente.

* 538 GUSMAROLI Luigi di Giuseppe, nato a Mantova il 28 maggio 1811, (già) residente all'Isola della Maddalena, ex-sacerdote, morto il 27 febbraio 1871

* 539 GUZZAGO Giuseppe di Francesco, nato a S.Alessandro il 31 maggio 1842, residente a Brescia, macellaio.

* 540 HERTER Edoardo fu Carlo, nato a Treviso il 2 febbraio 1834, residente in Tapalquen (Patagonia), medico. Riscosse la pensione fino a quando emigrò.

541 IMBALDI Francesco di Pietro, nato a Milano il 10 marzo 1835, morto a Palermo il 25 giugno 1860.

542 IMPERATORI Natale fu Agostino, nato a Lugano il 13 maggio 1830, ivi residente, cartolaio; per condanna politica pronunziata contro di lui in Francia nel febbraio 1864, egli venne escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 543 INCAO Alessandro Angelo fu Domenico, nato a Costa di Rovigo il 9 giugno 1837, ivi residente, albergatore.

* 544 INVERNIZZI Carlo Luigi fu Pietro, nato a Bergamo il 9 febbraio 1827, residente a Messina, scrivano.

* 545 INVERNIZZI Pietro Gerolamo fu Pietro, nato a Bergamo il 29 giugno 1833, residente a Genova, libraio.

* 546 ISNENGHI Enrico di Francesco, nato a Roveredo (Trento) il 7 luglio 1831, residente a Bergamo, orologiaro.

* 547 LA MASA Giuseppe fu Andrea, nato a Trabia nel dicembre 1819, residente a Bevilacqua (Verona), generale in riposo.

* 548 LAMENSA Stanislao fu Vincenzo, nato a Saracena il 3 gennaio 1812, morto combattendo a Palermo il 27 maggio 1860 vicino al Ponte dell'Ammiraglio.

549 LAMPUGNANI Giulio Cesare fu Paolo, nato a Nerviano il 3 marzo 1827, morto in Palermo nell'ottobre 1860.

* 550 LAMPUGNANI Giuseppe fu Giacinto, nato a Milano il 26 febbraio 1836, ivi residente, cameriere.

* 551 LAVEZZI Angelo Domenico di Gio.Maria, nato a Belgiojoso il 20 febbraio 1827, morto ad Arena Po il 10 ottobre 1871

* 552 LAZZARINI Giorgio (e non Giulio) fu Luigi, nato a Livorno il 13 dicembre 1840, ivi residente, fornaio.

* 553 LAZZARONI Giov.Battista di Giovanni, nato a Bergamo il 31 dicembre 1836, residente ad Endenna, falegname.

* 554 LEONARDI Giuseppe di Antonio, nato a Riva di Trento il 6 giugno 1840, residente a Brescia, scrivano presso uno studio di notaio.

* 555 LERTORA Tommaso Sante di Andrea, nato a Genova il 1° novembre 1836, (già) ivi residente, (già) oste, morto in Genova il 10 luglio 1877.

556 LIGHEZZOLO Giovanni fu Francesco, nato a Posina il 25 giugno 1833, morto nello Spedale di Palermo il dì 11 giugno 1861

557 LIPPI Giuseppe fu Giovanni, nato a Motta di Livenza il 24 agosto 1837, ivi residente.

* 558 LORENZI Venceslao fu Lorenzo, nato a Bergamo il 18 novembre 1824, (già) ivi residente, (già) paratore di chiese, morto il 12 novembre 1871

* 559 LUCCHINI Alessandro fu Saverio, nato a Bergamo il 5 aprile 1841, residente a Tagliuno, agente di negozio.

* 560 LUCCHINI Giuseppe G.B. di Giuseppe, nato a Bergamo il 20 settembre 1841, residente a Milano, impiegato notarile.

* 561 LURÀ Agostino fu Carlo Vincenzo, nato a Bergamo il 2 gennaio 1842, ivi residente, capomastro.

* 562 LUSIARDI Gio.Battista fu Francesco, nato ad Acquanegra il 22 luglio 1831, morto il 3 agosto 1871

* 563 LUZZATO Riccardo di Marco, nato ad Udine il 4 febbraio 1842, residente a Milano, avvocato.

* 564 MACARRO Guglielmo di Gio.Antonio, nato a Sassello il 24 aprile 1841, residente a Genova, negoziante.

* 565 MAESTRONI Ferdinando fu Angelo, nato a Soresina il 19 settembre 1838, ivi residente, ingegnere, possidente.

* 566 MAFFIOLI Luigi Jacopo di Francesco, nato a Livorno nel 1830, (già) facchino, morto il 22 aprile 1870.

* 567 MAGGI Giovanni di Martino, nato a Bergamo il 2 novembre 1841, residente a Palazzolo d'Oglio, meccanico.

568 MAGISTRETTI Carlo Giuseppe di Ambrogio, nato a Milano nel 1833, (già) residente a Genova; morì il 31 luglio 1860 a Genova per ferite riportate a Palermo.

* 569 MAGISTRIS Giuseppe fu Antonio, nato a Budrio l'11 aprile 1819, (già) barbiere, morto a Budrio il 3 maggio 1868.

570 MAGLIACANI Francesco fu Pietro, nato a Castel del Piano il 12 giugno 1842, residente a Piegaro, cuoco.

571 MAGNI Luigi di Giovanni, nato a Parma l'8 febbraio 1840; il padre di lui cessò di vivere prima del 1850; la madre, Rosi Luigia, nell'aprile 1851 Di Luigi e del fratel suo Giovanni le autorità di Parma non hanno notizie di sorta, perché da molti anni essi di là partirono, né se ne seppe più nulla: vuolsi però sieno morti in altri paesi prima del 1870.

* 572 MAGNONI Michele fu Luigi Maria, nato a Rutino (Vallo Lucano) il 2 dicembre 1829, ivi residente, proprietario.

* 573 MAIRONI Alessio di Gustavo Federico, nato a Bergamo il 28 dicembre 1841, morto a Calatafimi nel 1860, cinque o sei giorni dopo la battaglia.

* 574 MAIRONI Eugenio fu Luigi, nato a Bergamo l'11 settembre 1830, ivi residente, (già) sottotenente nel 61° fanteria, possidente.

* 575 MAJOCCHI Achille di Giovanni, nato a Milano il 3 novembre 1821, residente a Roma, tenente colonnello nelle piazze pensionato, amputato del braccio sinistro; deputato al Parlamento.

* 576 MALATESTA Luigi di Emanuele, nato a Genova il 9 febbraio 1832, ivi residente.

* 577 MALATESTA Pietro di Giovanni, nato a Genova il 4 gennaio 1837, morto in Alessandria (Egitto) il 18 febbraio 1877.

* 578 MALDACEA Moisè fu Vincenzo, nato a Foggia nel 1822, residente a Bari, tenente colonnello pensionato.

* 579 MALINVERNI Carlo fu Giuliano, nato a Calvatone il 4 marzo 1816, ivi residente, panattiere.

* 580 MAMOLI Giov.Enrico di Pietro Paolo, nato a Lodi Vecchio il 25 giugno 1839, residente a S. Zenone al Lambro, fittabile.

* 581 MANCI Filippo di Vincenzo nato a Povo (Trento) nel 1839, (già) possidente, morto l'8 luglio 1869 a Milano.

* 582 MANNELLI Pasquale Giovanni di Antonio, nato a Livorno il 26 agosto 1835, ivi residente, muratore.

* 583 MANENTI Gio.Battista di Angelo, nato a Chiari il 26 novembre 1840, residente a Brescia.

* 584 MANENTI Pietro Leopoldo di Antonio, nato a Vidigulfo il 12 febbraio 1839, ivi residente, negoziante.

* 585 MANIN Giorgio di Daniele, nato a Venezia il 5 maggio 1831, ivi residente, colonnello di stato maggiore pensionato.

586 MANNESCHI Augusto fu Giuseppe, nato a Siena nel 1826, risiedeva a Bologna nel 1865; attualmente di incerta esistenza. Già cancellato dai ruoli dello Esercito meridionale, ed escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 587 MANTOVANI Antonio di Virgilio, nato a San Martino il 13 novembre 1828, residente a Milano, capitano pensionato.

* 588 MAPELLI Achille di Defendente, nato a Monza il 6 dicembre 1840, ivi residente, avvocato.

* 589 MAPELLI Clemente fu Giuseppe, nato a Bergamo il 17 ottobre 1843, residente a Roma.

590 MARABELLO Luigi di Antonio, nato a Vicenza l'11 maggio 1821 Fino al 1872 era in Messina, ove riscosse la pensione a tutto dicembre e poi non si è più presentato a riscuoterla. I suoi commilitoni, interrogati, ignorano qual direzione prendesse, partendo da Messina: credono però che sia morto in altra città.

591 MARABOTTI Angelo di Giovanni, nato a Pisa il 9 febbraio 1839, residente a Scansano, carraio.

* 592 MARAGLIANO Giacomo (e non Gaetano) di Andrea, nato a Genova il 23 luglio 1834, ivi residente, commerciante.

* 593 MARANESI Giuseppe fu Alessandro, nato a Bergamo il 30 ottobre 1830, residente a Rimini, impiegato ferroviario.

* 594 MARCHELLI Bartolomeo di Giacomo, nato ad Ovada il 24 agosto 1834, residente a Napoli, prestigiatore girovago.

* 595 MARCHESI Giovanni di Francesco nato a Genova l'8 agosto 1834, residente a Livorno, garzone droghiere.

* 596 MARCHESI Giovanni Battista fu Antonio, nato a Torre de' Roveri il 15 giugno 1841, residente a Bergamo, calzolaio.

* 597 MARCHESI Pietro Samuele di Carlo, nato a Covo il 5 luglio 1836, morto a Golasecca il 22 luglio 1871

598 MARCHESINI Luciano, nato a Vicenza, donde emigrò prima ancora del 1848; (già) barbiere, morto a Calatafimi nel 1860.

* 599 MARCHETTI Stefano Elia di Vincenzo, nato a Bergamo il 10 settembre 1839, ferito ad Olkusz (Polonia) con Nullo, il 5 maggio 1863; trasportato al confine della Polonia austriaca, morì in casa di un capitano austriaco sei giorni dopo.

600 MARCHETTI Giuseppe nato a Chioggia, il 24 agosto 1849, residente a Napoli, morto il 16 maggio 1877 allo Spedale di Napoli.

* 601 MARCHETTI Luigi Giuseppe fu Giuseppe, nato a Vittorio (Ceneda), il 29 marzo 1816, morto a Campofreddo nel 1861

* 602 MARCONE Gerolamo di Giovanni, nato a Genova nel 1822, (già) luogotenente nei veterani a riposo, morto a Genova.

603 MARCONZINI Giuseppe fu Girolamo, nato a Ronco sull'Adige il 27 aprile 1837, residente a Illasi,, agente di campagna.

* 604 MARGARITA Giuseppe Francesco di Felice, nato a Cuggiono il 25 gennaio 1841, ivi residente, medico.

605 MARGHERI Gerolamo fu Guglielmo, nato a Sarteano il 29 gennaio 1841, morto nel 1865 a Massa Marittima.

606 MARIN Gio.Battista di Giuseppe, nato a Conegliano il 27 luglio 1833, ivi residente, calzolaio.

607 MARIO Desiderio Lorenzo di Cesare (Carlo), nato a Marsiglia il 12 marzo 1838, residente a Milazzo, maestro di scuola privata.

608 MARTIGNONI Luigi di Giuseppe, nato a Lodi il 7 maggio 1827, morto a Calatafimi il 31 maggio 1860.

* 609 MARTINELLI Clemente di Natale, nato a Milano l'8 aprile 1837, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860.

* 610 MARTINELLI Ulisse di Giacomo, nato a Viadana il 31 ottobre 1839, residente a Vignale, domestico.

611 MASCOLO Gaetano di Francesco, nato a Casola di Napoli il 12 febbraio 1828, (già) bottaio, morto in Casola il 21 marzo 1871

* 612 MASNADA Giuseppe fu Domenico, nato a Ponte S.Pietro il 26 febbraio 1816, morto in Ponte S.Pietro il 19 novembre 1861

* 613 MASPERO Gio.Battista fu Pietro, nato a Como il 12 maggio 1835, (già) R. impiegato, morto a Milano il 17 gennaio 1861

614 MATTIOLI Angelo di Evangelista, nato a Parma il 12 agosto 1837, ivi residente, bracciante.

* 615 MAURO Domenico fu Angelo, nato a S. Demetrio Corone il 17 dicembre 1812, morto in Firenze il 14 gennaio 1871

616 MAURO Raffaele Michele fu Angelo, nato a Cosenza il 23 ottobre 1814, residente a S. Demetrio Corone, possidente.

* 617 MAYER Antonio di Silvestro, nato a Orbetello il 28 luglio 1837, ivi residente, caffettiere.

* 618 MAZZOLA Giuseppe fu Gaetano, nato a Bergamo il 20 dicembre 1840, ivi residente, orefice.

* 619 MAZZOLI Ferdinando di Gioacchino, nato a Venezia il 19 maggio 1837, residente a Roma, R. pensionato.

620 MAZZUCCHELLI Luigi di Giuseppe, nato a Cantù il 15 gennaio 1834, residente a Como, avvocato, capitano nel 44° fanteria.

* 621 MEDICI Alessandro Natale di Giuseppe, nato a Bergamo il 24 dicembre 1840, ivi residente, commerciante; (già) sottotenente di fanteria, rimosso dal grado e dall'impiego il 19 agosto 1869, e però escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

622 MEDICINA Antonio di Michele, nato a Genova il 30 marzo 1814, (già) ivi residente, morto il 26 settembre 1860 nello Spedale di Pammatone in Genova.

* 623 MELCHIORAZZO Marco di Francesco, nato a Bassano il 24 marzo 1840, ivi residente, scrivano privato.

* 624 MENEGHETTI Gustavo fu Luigi, nato a Treviso il 30 novembre 1841, morto a Treviso il 13 novembre 1861

* 625 MENIN Domenico di Giovanni, nato a Camponogara l'8 ottobre 1843, residente a Roma, ingegnere.

626 MENOTTI Cesare. Di incerta origine ed esistenza. Alcuni lo dicono del Modenese, e nel 1861 luogotenente al deposito della divisione Bixio a Vercelli. Secondo altri fu caporale a Talamone nella 2^ compagnia e caporale a Palermo. Notizie ufficiali lo affermano sconosciuto affatto nella provincia di Modena.

* 627 MERELLO Domenico fu Agostino, nato a Genova il 24 marzo 1828 (già) residente ad Albissola marina, morto in marzo 1877.

* 628 MERIGONE Francesco Antonio (e non FRANCISCO Antonio) fu Francesco, nato a Gibilterra il 18 aprile 1836, residente a Palermo, operaio di fonderia.

629 MERIGHI Augusto fu Luigi, nato a Mirandola il 17 ottobre 1836, residente a Modena, negoziante.

* 630 MERLINO Alfio fu Silvestro, nato a Reggio Calabria il 24 maggio 1818, residente a Napoli, caffettiere.

631 MESCHINI Leopoldo fu Angelo, nato a Sarteano il 14 febbraio 1828, residente ad Acquapendente, già fornaciaio, ora venditore di mignatte.

* 632 MESSAGGI Stefano Giuliano fu Giovanni, nato a Milano il 21 maggio 1840, (già) luogotenente nei granatieri, morto il 22 giugno 1866 a Custoza.

* 633 MEZZERA Giulio Pietro fu Emanuele, nato a Bergamo il 7 aprile 1842, ivi residente, calzolaio.

634 MICELI Luigi di Francesco, nato a Longobardi il 30 giugno 1824, residente a Roma, deputato al Parlamento.

635 MICHELLI Cesare di Tommaso, nato a Campolongo il 7 settembre 1838, ivi residente, ingegnere.

* 636 MIGLIACCI Giuseppe di Pietro, nato a Montepulciano il 22 gennaio 1835, ivi residente, bachicultore.

637 MIGNOGNA Nicola fu Cataldo, nato a Taranto il 28 dicembre 1808, morto in Giuliano il 31 gennaio 1870.

* 638 MILANI Angelo fu Antonio, nato ad Anguillara il 5 novembre 1834, residente a Bologna, (già) tenente di fanteria.

639 MILANI Giovanni di Domenico, nato a Padova il 25 luglio 1841, residente a Torino, falegname.

* 640 MILESI Girolamo di Pietro, nato a Bergamo il 19 giugno 1836, ivi residente legatore di libri.

* 641 MINA Alessandro fu Luigi, nato a Gussola il 12 marzo 1835, residente a Città di Castello, possidente.

* 642 MINARDI Mansueto di Carlo, nato a Ferrara l'8 gennaio 1836, residente a Genova.

* 643 MINNICELLI Luigi fu Gennaro, nato a Rossano il 13 agosto 1827, ivi residente.

* 644 MINOTTI Martino Natale fu Giuseppe, nato a Milano il 25 dicembre 1832, ivi residente, impiegato al Monte di Pietà.

645 MINUTILLI Filippo fu Nicolò, nato a Grumo Appula il 12 maggio 1813, (già) colonnello, morto in Messina il 1° agosto 1861

646 MIOTTI Giacomo di Francesco, nato a Feltre il 4 agosto 1830, residente a Palermo, pensionato.

* 647 MISSORI Giuseppe fu Gregorio, nato a Bologna il 20 novembre 1829, residente a Milano, possidente.

* 648 MISURI Mansueto fu Roberto, nato Livorno nel 1840, residente a Firenze, meccanico.

649 MOJOLA Quirino di Giuseppe, nato a Roveredo nel 1818, residente a S. Casciano, morto il 15 aprile 1871

* 650 MOLENA Giuseppe fu Giuseppe Luigi, nato a Venezia il 18 aprile 1827, residente a Milano, commesso di studio.

* 651 MOLINARI Giosuè di Costantino, nato a Calvisano il 21 novembre 1838, residente a Brescia, mediatore.

* 652 MOLINARI Giuseppe di Andrea, nato a Venezia il 5 giugno 1837, residente a Foggia, impiegato di ferrovia.

* 653 MONA Francesco Antonio di Giovanni, nato a Milano il 13 giugno 1836, morto il 29 aprile 1870.

* 654 MONETA Enrico fu Carlo, nato a Milano il 23 giugno 1841, ivi residente, commerciante, (già) sottotenente nel 20° fanteria.

* 655 MONGARDINI Paolo Giovanni di Giovanni Battista, nato a Bergamo il 24 febbraio 1838, morto a Bergamo il 6 luglio 1871

656 MONTALDO Andrea di Emanuele, nato a Genova, morto a Calatafimi il 21 maggio 1860.

* 657 MONTANARA Achille Giacomo fu Eliseo, nato a Milano il 17 novembre 1842, ivi residente, lavorante in oggetti di cuojo.

* 658 MONTANARI Francesco fu Luigi, nato a Mirandola il 22 marzo 1822, (già) ingegnere, morto il 9 giugno 1860, amputato alla gamba destra, dopo la battaglia di Calatafimi.

* 659 MONTARSOLO Pietro Giovanni Battista di Marco, nato a Genova il 5 luglio 1842, morto il 16 settembre 1871

660 MONTEGRIFO Francesco fu Francesco, nato a Genova nel 1835, morto a Genova il 26 settembre 1861

* 661 MONTEVERDE Giovanni Battista di Giovanni Battista, nato a S.Terenzo il 9 gennaio 1831, residente a Genova.

* 662 MONTMASSON Rosalia fu Gaspare, nata a S.Joriez (Annècy) il 12 giugno 1825, residente a Roma.

* 663 MORASSO Giovanni Battista di Paolo, nato a Genova nel 1840, morto in marzo 1867.

* 664 MORATTI Luigi fu Paolo, nato a Castiglione delle Stiviere il 26 dicembre 1818, (già) residente a Ceresara. (già) maggiore di fanteria e possidente, morto in Ceresara il 14 gennaio 1877.

665 MORELLI (recte MARELLI) Giacomo Giovanni di Domenico, nato a Bagnolo Mella il 19 giugno 1833, residente a Quinzano d'Oglio, tintore.

666 MORETTI Alcibiade Goffredo fu Giovanni, nato a Roncaro il 31 dicembre 1830, residente a Milano.

* 667 MORETTI Virginio Cesare di Paolo, nato a Brescia l'11 agosto 1843, residente a Brescia.,

* 668 MORGANTE Alfonso Luigi di Girolamo, nato a Tarcento l'8 agosto 1835, residente a Tarcento, avvocato.

* 669 MORGANTE Rocco fu Vincenzo, nato a Fiumara il 5 ottobre 1805, ivi residente, maggiore di piazza in aspettativa, ora farmacista.

* 670 MORI Giuseppe Giovanni fu Benedetto, nato a Bergamo il 13 maggio 1840, ivi residente, commerciante.

671 MORI Romolo di Pietro, nato a Civitavecchia il 25 ottobre 1835, residente a Roma, impiegato commerciale.

* 672 MORO Marco Antonio di Giuseppe, nato a Brescia il 26 ottobre 1832, ivi residente, mediatore di seta.

* 673 MORONI Vittorio di Modesto, nato a Zogno il 2 febbraio 1828, morto a Zogno il 2 ottobre 1867.

* 674 MORTEDO Giovanni Alessandro di Michele, nato a Livorno il 24 aprile 1836, residente ad Orciano Pisano.

* 675 MOSCHENI Pompeo Giuseppe di Francesco, nato a Bergamo il 28 febbraio 1836, residente a Nembro, pizzicagnolo.

* 676 MOSTO Antonio fu Paolo, nato a Genova il 12 luglio 1834, ivi residente, negoziante.

* 677. MOSTO Carlo fu Paolo, nato a Genova il 17 aprile 1836, morto in Sicilia il 25 maggio 1860, nel fatto d'armi del Parco.

* 678 MOTTINELLI Bartolo di Giacomo, nato a Brescia il 10 giugno 1833, ivi residente, mediatore.

* 679 MURO Giuseppe di Pietro, nato a Milano il 18 agosto 1837, (già) luogotenente nel 33° fanteria, (già) residente in S. Nazaro, presso Colorno, morto ivi in settembre 1878.

* 680 MUSTICA Giuseppe fu Luigi, nato a Palermo il 15 febbraio 1818, ivi residente, possidente.

* 681 NACCARI Giuseppe di Antonio, nato a Palermo, morto a Palermo nel 1860, in seguito a ferita riportata combattendo nel convento dei Benedettini.

682 NARDI Ermenegildo fu Pellegrino, nato a Parma il 29 dicembre 1824, morto il 7 aprile 1867.

683 NATALI Mauro di Francesco, nato a Bergamo il 15 gennaio 1836, morto a Bergamo l'11 1861

* 684 NAVONE Lorenzo di Domenico, nato a Genova il 4 maggio 1837, residente a Nervi, marittimo.

* 685 NEGRI Enrico Giulio fu Giuseppe, nato a Bergamo il 24 luglio 1843, ivi residente, impiegato alla Banca Nazionale.

* 686 NELLI Stefano fu Domenico, nato a Carrara il 31 maggio 1837, residente a Lucca.

* 687 NICOLAZZO Gregorio Emanuele di Teodoro, nato a Platania il 18 aprile 1828, morto a Platania il 12 dicembre 1861

688 NICOLI Fermo di Giovanni Battista, nato a Bergamo il 9 agosto 1826, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860.

689 NICOLI Pietro di Giovanni Battista, nato a Bergamo il 29 marzo 1822, morto a Bergamo il 15 gennaio 1861

* 690 NIEVO Ippolito di Antonio, nato a Padova nel 1830, morto nel marzo 1861 per naufragio del piroscafo l'Ercole.

* 691 NODARI Giuseppe fu Luigi, nato a Castiglione delle Stiviere il 25 gennaio 1841, ivi residente, medico-chirurgo.

* 692 NOVARIA Enrico fu Domenico, nato a Pavia nel 1832, (già) possidente, morto combattendo a Bezzecca nel 1861

* 693 NOVARIA Luigi fu Domenico, nato a Pavia nel 1827, (già) possidente, morto a Pavia nel luglio 1861

* 694 NOVELLI Feliciano fu Francesco, nato a Castel d'Emilia l'1 giugno 1833, residente ad Agugliano, marinaio.

* 695 NULLO Francesco di Arcangelo, nato a Bergamo il 1° marzo 1826, morto in Olkusz, Polonia, il 5 maggio 1861

696 NUVOLARI Giuseppe fu Gaspare, nato a Roncoferraro il 26 febbraio 1820, residente a Genova, proprietario.

697 OBERTI Andrea di Pietro, nato a Bergamo il 16 ottobre 1830, morto a Bergamo il 22 settembre 1861

698 OBERTI Giovanni fu Luigi, nato a Bergamo nel 1836, (già) volontario, morto a Vasto il 16 febbraio 1861

* 699 OCCHIPINTI Ignazio di Santo, nato a Palermo il 12 gennaio 1823, residente a Napoli, medico (?).

* 700 ODDO Angelo fu Michelangelo, nato a Reggio di Calabria il 24 ottobre 1826, residente a Messina, dentista.

* 701 ODDO Giuseppe fu Salvatore, nato a Palermo nel 1806, ivi residente, colonnello pensionato.

702 ODDO TEDESCHI Stefano fu Rosario, nato ad Alimena il 29 maggio 1836, ivi residente, colonnello in ritiro.

* 703 OGNIBENE Antonio di Biagio, nato a Orbetello il 12 luglio 1834, morto in Orbetello il 13 febbraio 1871

* 704 OLIVARI Stefano di Angelo, nato a Genova il 10 ottobre 1840, ivi residente, macellaio.

705 OLIVIERI Pietro di Domenico, nato in Alessandria il 25 giugno 1835, residente a Salerno, capitano di fanteria del distretto militare di Salerno.

706 ORLANDI Bernardo fu Giuseppe, nato a Carrara il 31 marzo 1836, ivi residente, ricevitore del lotto.

707 ORLANDO Giuseppe fu Giuseppe, nato a Palermo il 29 novembre 1822, residente a Livorno, costruttore navale.

708 ORSINI Vincenzo di Gaetano, nato a Palermo nel 1815, residente a Napoli, maggiore generale in riposo.

* 709 OTTAVI Antonio fu Ottavio, nato a Reggio Emilia il 15 agosto 1831, (già) capitano nel 36° fanteria, morto a Custoza il 24 giugno 1861

* 710 OTTONE Nicolò di Stefano, nato a Genova il 6 giugno 1818, ivi residente, già maggiore di piazza in aspettativa; ora capitano marittimo.

711 PACCANARO Marco fu Nicolò, nato a Este nel 1842, morto per ferite il 14 ottobre 1864 nello Spedale di Livorno.

* 712 PACINI Andrea fu Teofilo, nato a Bientina il 1° ottobre 1822, (già) residente a Livorno, (già) panattiere, morto in Livorno il 5 luglio 1871

713 PADULA Vincenzo fu Maurizio, nato a padula il 16 ottobre 1831, morto a Barcellona di Sicilia, in seguito a ferite riportate nella battaglia di Milazzo, ed amputazione della coscia operata dal dottore Zen in agosto 1860.

* 714 PAFFETTI Tito di Felice, nato ad Orbetello il 25 aprile 1842, morto in Arcidosso il 15 novembre 1870.

* 715 PAGANI Antonio fu Giuseppe, nato a Como il 5 ottobre 1833, (già) sottotenente nel 7° fanteria, poi tessitore, morto a Como il 26 ottobre 1871

* 716 PAGANI Costantino di Gio.Battista, nato a Borgomanero il 15 gennaio 1837, morto combattendo a Calatafimi il 15 maggio 1860. Ex-luogotenente di fanteria: si faceva chiamare De Amicis perché disertore.

* 717 PAGANI Giovanni di Lelio, nato a Tagliuno il 4 gennaio 1845, ivi residente, garzone farmacista.

* 718 PAGANO Lazzaro Martino di Giovanni Battista, nato a Genova l'11 novembre 1828, residente a S. Martino d'Albaro, proprietario.

* 719 PAGANO Tommaso si Giovanni Battista, nato a Genova il 22 gennaio 1838, morto il 4 marzo 1868.

* 720 PALENI Carlo di Giuseppe, nato a Bergamo l'11 luglio 1833, morto a Bergamo il 4 luglio 1870.

721 PALIZZOLO Mario fu Vincenzo, nato a Trapani, il 14 gennaio 1823, residente a Palermo, colonnello di fanteria in riposo.

* 722 PALMIERI Palmiro di Fortunato, nato a Montalcino il 2 marzo 1841, morto in Orbetello il 3 aprile 1871

* 723 PANCIERA Antonio di Carlo, nato a Castelgomberto il 1° gennaio 1840, ivi residente, possidente.

* 724 PANSERI Alessandro di Giosuè, nato a Bergamo il 13 febbraio 1838, ivi residente, agente di studio.

* 725 PANSERI Aristide di Saverio, nato a Bergamo il 3 settembre 1842, ivi residente, fabbricante di mobili.

726 PANSERI Eligio fu Francesco, nato a Bulciago il 27 maggio 1833, morto per ferite a Palermo il 27 maggio 1860.

* 727 PANSERI Giuseppe di Andrea, nato a Bergamo il 24 febbraio 1843, ivi residente, falegname.

* 728. PARINI (o PARRINO) Antonino (o Antonio) fu Nicolò, nato a Palermo il 15 agosto 1838, residente a Castellammare del Golfo, ufficiale di porto di 1^ classe.

* 729 PARIS Andrea Cesare fu Ignazio, nato a Pinerolo l'11 aprile 1820, residente a Roma.

* 730 PARODI Giuseppe di Giovanni Battista, nato a Genova il 4 agosto 1842, ivi residente.

* 731 PARODI Tommaso di Antonio, nato a Genova l'8 novembre 1791, (già) maggiore di piazza, ivi residente.

* 732 PARPANI Giuseppe Giacobbe di Giuseppe, nato a Bergamo il 3 marzo 1836, residente a Villa d'Almè, possidente.

* 733 PASINI Giovanni fu Francesco, nato a Scandolara Ravara il 27 dicembre 1835, capitano nel 64° reggimento fanteria.

* 734 PASQUALE Pietro di Carlo Antonio, nato a Sagliano Micca il 10 luglio 1832, residente a Biella, negoziante.

* 735 PASQUINELLI Agostino di Giacomo, nato a Zogno il 1° maggio 1840, residente a Roma, giornalista.

* 736 PASQUINELLI Giacinto di Pietro, nato a Livorno nel 1840, (già) macellaio; morto a Livorno il 4 luglio 1867.

* 737 PASSANO Giuseppe di Francesco, nato a Genova il 29 settembre 1842, ivi residente, commerciante.

* 738 PATELLA Filippo fu Giuseppe, nato ad Agropoli il 25 marzo 1817, residente a Napoli, preside di Liceo.

739 PATRESI Roberto (non Gilberto) fu Antonio, nato a Legnago il 25 gennaio 1804, residente a Milano, (già) maggiore generale pensionato, morto il 3 aprile 1877.

* 740 PAULLON STELLA Giuseppe di Osvaldo, nato a Barcis (Udine) il 3 febbraio 1842, ivi residente, venditore di vino.

741 PAVANINI Ippolito di Mariano, nato a Rovigo il 22 marzo 1839, residente a Verona, possidente.

742 PAVESI Giuseppe fu Carlo, nato a Milano il 29 luglio 1840, morto a Calatafimi, combattendo, il 15 maggio 1860.

* 743 PAVESI Leonardo Ercole di Giovanni, nato a Linarolo il 15 marzo 1835, residente a Pavia, garzone tabaccaio.

* 744 PAVESI Urbano fu Domenico, nato ad Albuzzano il 27 agosto 1842, residente a Pavia, possidente ingegnere.

* 745 PAVOLERI Augusto di Giovanni, nato a Treviso il 23 aprile 1838, morto il 123 marzo 1870.

746 PAVONI Lorenzo. Creduto di Bergamo, ma non è conosciuto né dalle autorità locali, né dai commilitoni. Nessun'altra notizia ufficiale.

748 PEDRAZZA Giacomo fu Andrea, nato a Zanè il 9 dicembre 1833, residente a Padova, possidente.

* 749 PEDROLI Costantino di Giuseppe, nato a Bergamo il 17 marzo 1842, ivi residente, calzolaio.

* 750 PELLEGRINO Antonio di Giuseppe, nato a Palermo il 17 gennaio 1828, ivi residente, procuratore di Case commerciali.

* 751 PELLERANO Lorenzo fu Giuseppe, nato a Rapallo il 4 luglio 1811, residente a Livorno facchino.

* 752 PENDOLA Giovanni di Nicola, nato a Genova il 7 marzo 1836, ivi residente, falegname.

* 753 PENTASUGLIA Giovanni Battista fu Giuseppe, nato a Matera il 3 novembre 1821, ivi residente, ispettore generale dei telegrafi.

* 754 PERDUCA Biagio fu Annibale, nato a Pavia nel 1835, morto nel manicomio di Milano il 13 febbraio 1871

755 PEREGRINI Paolo Carlo di Lodovico, nato a Milano nel 1842, (già) residente a Como, ed ivi morto il 15 gennaio 1871 Fu luogotenente nel 50° fanteria.

756 PERELLI Valeriano fu Girolamo, nato a Milano il 10 ottobre 1821, residente a Roma, (già) luogotenente nel 34° fanteria.

* 757 PERICO Samuele di Luigi, nato a Scano al Brembo il 15 gennaio 1839, residente a Bergamo, giornaliere.

* 758 PERLA Luigi di Francesco, nato a Bergamo il 20 settembre 1839, (già) sottotenente nel 61° fanteria, morto a Dijon (Francia) nel 1870.

* 759 PERNIGOTTI Giovanni di Vittorio, nato a Bosco Marengo il 15 novembre 1842, residente ad Alessandria,.

* 760 PERONI Giuseppe fu Biagio, nato a Soresina il 1° novembre 1840, ivi residente, ingegnere.

* 761 PEROTTI Luigi di Vincenzo, nato a Torino il 22 luglio 1829, ivi residente, (già) luogotenente nei reali carabinieri, ora impiegato all'Ospizio di Carità.

* 762 PERSELLI Emilio di Lorenzo, nato a S. Daniele di Friuli il 26 aprile 1832, indoratore, morto in S. Daniele il 21 agosto 1870.

* 763 PESCINA Eugenio di Luigi, nato a Borgo S. Donnino il 15 maggio 1843, residente a Parma, scritturale.

* 764 PESENTI Francesco fu Giovanni, nato a Piazzo-Basso il 18 ottobre 1828, residente a Milano, lavorante in lingerie.

* 765 PESENTI Giovanni fu Giovanni, nato a Bergamo il 10 luglio 1825, ivi residente, lavandaio.

* 766 PESSOLANI Maria Giuseppe fu Saverio Arcangelo, nato ad Atena, il 27 febbraio 1807, (già) maggiore a riposo, morto in Atena il 23 novembre 1871

767 PETRUCCI Giuseppe di Paolo, nato a Livorno il 6 luglio 1842, residente a Rosignano, meccanico.

* 768 PEZZE' Giov. Battista fu Luigi, nato ad Alleghe il 1° gennaio 1838, res. a Palermo, cap.no alla Direzione del Genio militare.

769 PEZZUTI Pietro di Francesco, nato a Polcenigo il 20 novembre 1837, residente a Pordenone, calzolaio.

770 PIAI Pietro di Matteo, nato a Treviso il 23 aprile 1842, residente a Livorno, bracciante.

771 PIANERI Pietro di Angelo, nato a Lograto il 10 ottobre 1828, morto a Palermo nel 1860.

* 772 PIANTANIDA Bruce di Carlo, nato a Bergamo il 3 settembre 1840, ivi residente, agente spedizioniere.

* 773 PIANTONI Giovanni di Antonio, nato a Milano il 15 giugno 1839, residente a Chieri, sarto.

* 774 PICASSO Gio.Battista di Francesco, nato a Genova l'11 settembre 1839, morto a Custoza il 24 giugno 1861

* 775 PICCININI Daniele fu Vincenzo, nato a Pradalunga il 3 giugno 1830, ivi residente, negoziante di terre cotte.

* 776 PICCININI Enrico fu Cristoforo, nato ad Albino il 16 maggio 1831, ivi residente.

* 777 PICCOLI Raffaele di Bernardo, nato a Castagna il 10 ottobre 1819, residente a Catanzaro, escluso nel 1870 dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 778 PIENOVI Raffaele di Andrea, nato a Genova il 21 luglio 1822, ivi residente, mediatore.

* 779 PIEROTTI Augusto di Pasquale, nato a Livorno il 14 giugno 1839, ivi residente, tintore.

* 780 PIEROTTI Giovanni Palmiro di Pietro, nato a Livorno nel 1831, ivi residente, (già) navicellaio, morto da diversi anni.

781 PIETRI Desiderato di Giuseppe, da Bastia (?), morto a Calatafimi il 15 maggio 1860. Nessuna notizia ufficiale sul luogo , né sulla data di sua nascita.

* 782 PIETROBONI Lorenzo fu Pietro, nato a Treviso il 9 agosto 1826, di esistenza incerta. Risulta ufficialmente che egli trovavasi a Napoli nel 1868, data delle ultime notizie da lui fornite alla famiglia domiciliata in Treviso. Ma alle autorità di Napoli è affatto sconosciuto.

783 PIEVANI Antonio fu Gio.Battista, nato a Tirano il 19 settembre 1837, ivi residente, possidente e dottore in matematica.

* 784 PIGAZZI Gian Domenico fu Giuseppe, nato a Padova il 30 marzo 1836, residente a Milano, mediatore.

* 785 PILLA Giuseppe di Angelo, nato a Conegliano il 2 dicembre 1822, ivi residente, calzolaio non più esercente.

* 786 PINI Antonio fu Raniero, nato a Grosseto il 27 febbraio 1835, morto in Grosseto il 3 settembre 1870.

787 PINI Pacifico fu Sebastiano, nato ad Isola del Ciglio il 23 giugno 1826, ivi residente, marinaio.

* 788 PIROLLI Pietro fu Bartolomeo, nato a Verona il 21 luglio 1821, residente a Milano, maggiore pensionato.

* 789 PISTOJA Luigi fu Giuseppe, nato a Subiaco il 27 febbraio 1831, residente a Roma, muratore.

790 PISTOJA Marco fu Stefano, nato a Palermo il 23 marzo 1827, ivi residente, bettoliere.

* 791 PIVA Domenico fu Giovanni, nato a Rovigo il 3 dicembre 1825, colonnello nell'esercito.

792 PIVA Remigio di Gio.Battista, nato a Rovigo il 28 febbraio 1840, ivi residente, ingegnere, ora ricevitore del R. Lotto.

* 793 PIZZAGALLI Lodovico di Pietro, nato a Bergamo il 6 aprile 1840, ivi residente, scrivano.

* 794 PLONA Carlo fu Dionisio, nato a Venezia il 9 febbraio 1834, residente a Padova, ufficiale in ritiro.

795 PLONA Gio.Battista di Bortolo, nato a Brescia il 2 maggio 1818, morto il 31 agosto 1863 nello Spedale di Brescia.

* 796 PLUTINO Antonio fu Fabrizio, nato a Reggio Calabria il 10 dicembre 1811, (già) luogotenente colonnello di fanteria in aspettativa, morto in Reggio Calabria il 5 aprile 1871

797 POGGI Giuseppe di Giovanni, nato a Genova nel 1824, morto il 30 luglio 1860 a Barcellona (Sicilia) per ferita alla spina dorsale riportata alla battaglia di Milazzo.

* 798 POLETTI Giovanni Battista di Giovanni Battista, nato ad Albino il 22 novembre 1840, residente ad Aragona, impiegato all'impresa ferroviaria, e (già) ufficiale dell'esercito.

799 POLIDORI Giuseppe fu Giovanni Battista, nato a Montone l'1 aprile 1836, morto in Città di Castello il 5 giugno 1861

* 800 POMA Giacomo di Lorenzo, nato a Trescore il 1° novembre 1838, residente a Milano, docente.

* 801 PONVIANI Francesco Attilio di Domenico, nato a Bergamo il 20 gennaio 1838, ivi residente, possidente.

* 802 PORTA Ilario di felice, nato ad Orbetello il 27 giugno 1838, ivi residente, cocchiere.

* 803 PORTIOLI Antonio di Antonio, nato a Scorzarolo il 17 gennaio 1840, residente a Mantova, avvocato.

* 804 POZZI Gaetano Giovanni di Pietro, nato a Pavia il 15 ottobre 1846, ivi residente, impiegato privato.

* 805 PREDA Paolo fu Pietro, nato a Milano il 6 maggio 1844, ivi residente, commesso di studio.

* 806 PREX Ireneo (recte PREX) di Giovanni, nato a Firenze il 17 dicembre 1835, residente a Livorno, impiegato al cantiere.

* 807 PREMI Luigi fu Antonio, nato a Casalmoro l'8 gennaio 1838, capitano nell'esercito.

* 808 PRESBITERO Enrico fu Giuseppe, nato a Orta Novarese il 4 ottobre 1839, morto in Milano il 29 novembre 1871

* 809 PRIGNACCHI Luigi di Vincenzo, nato a Fiesse il 26 maggio 1840, sottotenente, disertò nel 1862 da Ivrea e si crede morto in Francia.

* 810 PRINA Luigi di Giuseppe, nato a Villafranca il 20 dicembre 1830, (già) ivi residente, (già) mediatore, morto nello spedale di Villafranca il 25 marzo 1877.

811 PROFUMO Angelo di Antonio, nato a S. Francesco d'Albaro, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860 colpito da una palla al petto.

812 PROFUMO Giuseppe di Francesco, nato a Genova, morto a Reggio Calabria nel 1860.

* 813 PULLIDO Giovanni di Vincenzo, nato a Polesella il 26 luglio 1832, residente a Firenze, trafficante.

* 814 PUNTA Paolo Giuseppe di Alberto, nato a Novi Ligure nel 1841, morto il 15 novembre 1864 in Novi.

* 815 QUARENGHI Antonio di Antonio, nato a Villa d'Almè il 5 settembre 1843, residente a Bergamo, possidente.

* 816 QUEZEL Carlo Emanuele di Ambrogio, nato a Genova il 18 aprile 1837, (già) ivi residente, morto in Sorrento il 5 marzo 1871

* 817 RACCUGLIA Antonio di Francesco, nato a Palermo il 31 dicembre 1815, ivi residente, possidente.

* 818 RADOVICH Antonio di Giuseppe, nato a Spresiano il 1° maggio 1837, residente a Dolo, ex-sottotenente nel 65° fanteria.

* 819 RAGUSIN Francesco di Giovanni, nato a Venezia il 20 giugno 1821, residente a Milano, capitano del 53° fanteria in ritiro.

* 820 RAIMONDI Luigi fu Giovanni, nato a Castellanza l'8 settembre 1824, residente a Milano, portinaio.

* 821 RAIMONDO Alessandro fu Giuseppe, nato ad Alba il 15 febbraio 1832, ivi residente, possidente.

* 822 RAJ Felice di felice, nato a Soresina il 15 ottobre 1830, residente a Salerano, medico.

* 823 RAMPONI Mansueto di Ferdinando, nato a Canonica il 22 dicembre 1838, operaio, escluso fino dal 1864 dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione. Di attuale ignota residenza.

824 RASIA Matteo Riccardo fu Domenico, nato a Cornedo il 27 gennaio 1842, morto in Cornedo il 17 gennaio 1864 di tisi.

* 825 RASO Paolo Luigi di Domenico, nato a Sarzana il 3 dicembre 1832, ivi residente, panattiere.

* 826 RATTI Antonio Davide fu Luigi, nato a Vignate il 19 marzo 1830, residente a Milano, mediatore.

* 827 RAVÀ Eugenio fu Leone, nato a Reggio Emilia il 1° maggio 1840, residente a Milano.

* 828 RAVEGGI Luciano di Luigi, nato ad Orbetello il 12 dicembre 1837, residente a Siena.

* 829 RAVETTA Carlo fu Antonio, nato a Milano il 5 aprile 1841, ivi residente, oste.

* 830 RAVINI Luigi di Giovanni, nato a Caviaga, ora Cavenago d'Adda, il 25 marzo 1839, residente a Roma, avvocato.

* 831 RAZETTO Enrico di Fortunato, nato a S. Francesco di Albaro ora Genova, il 2 gennaio 1840, ivi residente, proprietario.

* 832 REBUSCHINI Giuseppe fu Girolamo, nato a Dongo il 1° gennaio 1839, residente a Besozzo, ingegnere.

833 REBESCHINI Angelo Giovanni di Luigi, nato a Venezia il 15 agosto 1836, morto a Milano il 24 novembre 1868 per ferita riportata a Maddaloni.

* 834 REBUZZONE Andrea di Giuseppe, nato a Genova il 9 ottobre 1836, ivi residente.

* 835 REPETTO Domenico fu Giuseppe, nato a Tagliolo il 1° agosto 1829, ivi residente, morto il 18 novembre 1871

* 836 RETAGGI Innocente Eugenio fu Giuseppe, nato a Milano il 16 novembre 1831, ivi residente, sarto.

* 837 RICCARDI Gio.Battista fu Giovanni Andrea, nato a Bergamo il 7 ottobre 1838, (già) scrivano, morto il 22 dicembre 1871

* 838 RICCI Carlo fu Vincenzo, nato a Pavia il 9 febbraio 1841, morto a Pavia il 29 novembre 1871

* 839 RICCI Enrico di Giovanni, nato a Livorno il 7 marzo 1835, ivi residente.

* 840 RICCI Gustavo Giuseppe di Giacomo, nato a Livorno il 17 febbraio 1839, ivi residente, fornaio.

* 841 RICCI Pietro Armentario di Carlo, nato a Pavia il 31 luglio 1841, residente a Malo, notaio.

* 842 RICCIONI Filippo fu Luigi, nato a Ligonchio il 26 maggio 1836, ivi residente, giornaliere.

* 843 RICHIEDEI Enrico Eugenio di Luigi, nato a Salò il 4 settembre 1833, morto in conflitto a Palermo il 28 maggio 1860, per ferita alla testa da palla da cannone.

844 RICOTTI Daniele fu Pietro, nato a Landriano il 27 marzo 1837, residente a Dazio, medico.

* 845 RIENTI Edoardo fu Carlo, nato a Como il 30 novembre 1834, residente a Milano, agente di commercio.

* 846 RIGAMONTI Gio. Battista di Francesco, nato a Pavia il 23 giugno 1838, ivi residente, calzolaio.

* 847 RIGHETTO Raffaele fu Marco, nato a Chiampo il 10 febbraio 1838, ivi residente, ingegnere, possidente.

* 848 RIGONI Luigi di Lorenzo, nato a Vicenza il 29 novembre 1823, residente a Treviso, cameriere.

849 RIGOTTI Raffaele di Francesco, nato a Malo il 2 settembre 1839, (già) possidente, morto di tisi a Pavia il 21 agosto 1861

850 RINO (e non STRINA) Giuseppe di Antonio, nato a Messina il 4 marzo 1839, ivi residente, escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 851 RIPARI Pietro fu Lodovico, nato a Solarolo Rainerio il 20 luglio 1802, residente a Genova, medico.

* 852 RISSOTTO Giuseppe Luigi di Vincenzo, nato a Genova il 9 febbraio 1836, ivi residente, negoziante, e già ufficiale del regio esercito.

* 853 RIVA Celestino fu Gerolamo, nato a Pontida il 23 settembre 1839, residente a Bergamo, calzolaio.

* 854 RIVA Giuseppe fu Francesco, nato a Milano l'11 aprile 1828, ivi residente, cameriere.

* 855 RIVA Luigi di Domenico, nato a Palazzolo della Stella il 26 luglio 1837, residente a Udine, agente commerciale.

* 856 RIVA Luigi Isidoro fu Osvaldo, nato ad Agordo l'11 ottobre 1842, residente a Belluno, fattorino della Banca Nazionale.

* 857 RIVALTA Francesco fu Antonio, nato a Palmario Prà il 3 novembre 1833, residente a Genova, (già) scrivano di prima classe d'intendenza militare.

* 858 RIVOSECCHI, detto ARIGOSETTI, Raffaele fu Nicola, nato a Cupra Marittima il 7 maggio 1829, (già) marinaio, morto a Cupra Marittima il 16 luglio 1861

* 859 RIZZARDI Luigi di Vincenzo, nato a Brescia il 16 aprile 1835, ivi residente, possidente.

* 860 RIZZOTTI Tommaso Attilio fu Giacomo, nato a Roncoferraro l'8 aprile 1837, ivi residente, possidente; dimissionario nel 1867 dal grado di uffiziale nei cavalleggieri di Lodi, ai quali apparteneva fino dal 1861

* 861 RIZZI Caterino Felice di Giovanni, nato ad Isola Porcari il 28 agosto 1842, residente a Montagnana.

* 862 RIZZI Marco Pompeo fu Antonio, nato a Milano il 29 settembre 1833, residente a Reggio di Calabria, direttore di quella sede della Banca Nazionale.

863 RIZZO Antonino di Leopoldo, nato a Trapani il 20 febbraio 1824, morto combattendo al Pioppo, vicino a Palermo, il 21 maggio 1860.

864 ROCCATAGLIATA Gaetano di Ampeglio, nato a Genova, morto a Palermo.

865 RODI Carlo fu Vincenzo, nato a Bosco Marengo nel 1801, morto a Fresonara il 22 febbraio 1861

866 ROGGIERONE Giovanni Battista di Lorenzo, nato a Genova, morto combattendo a Villa Gualtieri in Maddaloni il 1° ottobre 1860.

867. ROMANELLO Giuseppe di Giovanni Battista, nato ad Arquata Scrivia il 18 marzo 1839, morto a Calatafimi nello spedale il 24 maggio 1860.

* 868 ROMANI Tommaso fu Romano, nato a Pisa il 13 marzo 1828, ivi residente, sarto.

* 869 RONCALLO Tommaso di Domenico, nato a Genova l'11 novembre 1838, ivi residente, commerciante.

* 870 RONDINA Vincenzo di Pietro, nato a Livorno il 28 marzo 1837, residente a Barga, messo esattoriale.

* 871 RONZONI Filippo di Giovanni, nato a Brescia il 13 novembre 1837, morto il 24 dicembre 1861

872 ROSANI Pietro Giuseppe di Vincenzo, nato a Napoli il 16 maggio 1838, ivi residente, scrivano privato. Già soldato nel 19° reggimento nel 1859, prese parte alla spedizione di Sicilia col pseudonimo di Rossi Giulio; escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e da diritto a pensione.

873 ROSSETTI Giovanni fu Giuseppe, nato a Trebaseleghe il 14 aprile 1836, residente a Cittadella, avvocato.

874 ROSSI Andrea fu Gio.Battista, nato a Diano Marina il 14 agosto 1814, ivi residente, pensionato civile.

* 875 ROSSI Antonio fu Anselmo, nato a Governolo il 30 settembre 1835, (già) commesso di prima classe alle sussistenze militari in Casale, morto a Siracusa l'11 giugno 1871

* 876 ROSSI Luigi di Giovanni, nato a Pavia l'8 febbraio 1839, ivi residente, cappellaio.

877 ROSSI Pietro fu Giovanni, nato a Viterbo, morto a Castelgiorgio il 24 giugno 1871

* 878 ROSSIGNOLI Francesco di Antonio, nato a Bergamo l'1 aprile 1840, residente a Firenze, impiegato privato.

* 879 ROSSOTTI Carlo fu Giuseppe, nato a Chieri il 25 marzo 1834, residente a Torino.

* 880 ROTA Carlo fu Francesco, nato ad Alzani Maggiore il 9 ottobre 1842, (già) residente a Bergamo, (già) scrivano, morto a Bergamo il 14 novembre 1871

* 881 ROTA Luigi di Giuseppe, nato a Bosisio il 29 aprile 1838, residente a Cassano d'Adda.

* 882 ROTTA Giuseppe di Giovanni, nato a Caprino Veronese il 6 maggio 1833, (già) capitano nel 35° fanteria, morto nel Napoletano nel 1863, combattendo contro il brigantaggio.

* 883 ROTTA-ROSSI Carlo fu Girolamo, nato ad Alzano Maggiore il 12 luglio 1841, (già) luogotenente nel 18° fanteria, morto a Salerno il 20 settembre 1861

* 884 ROVATI Carlo di Felice, nato a Pavia il 17 settembre 1836, residente, sellaio.

885 ROVATI Giuseppe fu Romualdo, nato a Mirandola il 15 gennaio 1826, (già) calzolaio, (già) escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione in seguito a condanna per furto; morto il 5 febbraio 1871

* 886 ROVEDA Giuseppe fu Ambrogio Giovanni, nato a Milano il 2 dicembre 1839, ivi residente, commesso di studio.

* 887 ROVIGHI Giulio fu Abramo, nato a Carpi nel gennaio 1830, residente a Sesto Fiorentino, commesso escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 888 RUGGERI Francesco Sperandio fu Lorenzo, nato a Bergamo il 23 luglio 1833, ivi residente, fruttivendolo.

* 889 RUSPINI Egidio di Carlo Antonio, nato a Milano il 12 giugno 1839, residente a Roma.

* 890 RUTTA Camillo di Carlo, nato a Broni il 9 febbraio 1834, residente a Stradella.

* 891 SACCHI Achille di Antonio, nato a Gravedona il 15 agosto 1835, ricoverato alm manicomio di Aversa, (già) farmacista, fratello dell'altro al n.893

* 892 SACCHI Achille Leopoldo di Giuseppe, nato a Pavia nel 1840, morto combattendo a Calatafimi il 15 maggio 1860.

893 SACCHI Eugenio Ajace di Antonio, nato ad Appiano il 14 novembre 1839, (già) ivi residente, escluso nel 1866 dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione: poi riammesso morto il 9 novembre 1869 a Ligametto (Canton Ticino).

894 SACCHY Lodovico di Ferdinando, nato ad Edimburgo (Ungheria) il 13 settembre 1826, di attuale sconosciuta residenza; era a Lodi nel 1861 Già emigrato, nell'aprile 1860 disertò dal 5° reggimento ussari austriaci; escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 895 SALA Antonio fu Lodovico, nato a Milano il 18 agosto 1822, residente a Bergamo, fabbroferraio.

* 896 SALTERIO Lazzaro fu Francesco, nato ad Annone di Brianza l'8 luglio 1824, tenente colonnello nell'esercito.

* 897 SALTERIO Lodovico di Stefano, nato a Milano il 22 agosto 1840, morto in crema il 23 marzo 1861

* 898 SALVADORI Giuseppe di Gaetano, nato a Venezia il 27 marzo 1833, ivi residente, regio pensionato.

* 899 SAMPIERI Domenico di Carlo, nato ad Adria il 28 aprile 1828, residente a Nocera, colonnello nel 20° fanteria.

* 900 SANDA Giovanni Battista fu Andrea, nato a Bergamo il 6 settembre 1828, ivi residente, calzolaio, morto in Bergamo il 5 settembre 1877.

* 901 SANNAZZARO Ambrogio di Giulio, nato a Milano il 27 gennaio 1842, ivi residente, pulitore di mobili.

* 902 SANT'ELMO Antonio fu Michele, nato a Padula il 25 dicembre 1815, ivi residente, proprietario.

* 903 SARTINI Giovanni fu Giuseppe, nato a Siena l'11 luglio 1837, residente a Grosseto, calzolaio.

904 SARTORI Eugenio fu Antonio, nato a Sacile il 15 giugno 1830, (già) possidente, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860 colpito nel petto.

* 905 SARTORI Giovanni di Bartolomeo, nato a Costena (Genova) il 27 febbraio 1836, residente a Genova, falegname.

* 906 SARTORI Pietro Giovanni Battista di Giovanni Battista, nato a Levico (Tirolo) il 28 dicembre 1831, morto in Como il 7 agosto 1870.

907 SARTORIO Giuseppe Luigi di Agostino, nato a Genova, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860, colpito nel petto.

* 908 SAVI Francesco Bartolomeo di Francesco, nato a Genova, morto nel 1861

* 909 SAVI Stefano Giovanni di Francesco, nato a Livorno nel 1840, (già) navicellaio, morto il 3 luglio 1861

* 910 SCACAGLIA Ferdinando fu Antonio, nato a Beneceto il 5 dicembre 1823, residente a Bologna, muratore.

911 SCAGLIONI Angelo fu Luigi, nato a Corpi Santi di Pavia nel 1842, già escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione per condanna subita nel febbraio 1864 in seguito all'attentato contro la vita di Napoleone III, imperatore dei francesi; morto a Chambéry nel 1870.

912 SCALUGGIA Cesare di Lodovico, nato a Villa Gardona il 6 dicembre 1837, morto il 6 gennaio 1861

* 913 SCARATTI Pietro fu Giovanni, nato a Medole il 24 dicembre 1840, ivi residente, ex-tenente pensionato.

* 914 SCARPA Paolo di Agostino, nato a Latisana il 9 luglio 1839, ivi residente, ingegnere.

* 915 SCARPARI Gaetano Vincenzo fu Giovanni; nato a Brescia il 7 settembre 1817, morto il 3 settembre 1867.

* 916 SCARPARI Michelangelo fu Santo, nato a Botticino Sera il 13 aprile 1818, (già) sottotenente nel 7° fanteria, morto il 4 dicembre 1875 in Mompiano.

917 SCARPIS Pietro fu Carlo, nato a Conegliano il 15 novembre 1832, ivi residente; notaio.

918 SCHEGGI Cesare fu Gaetano, nato a Firenze il 20 settembre 1833, (già) barbiere, morto il 2 maggio 1876 in Lucca.

* 919 SCHIAFFINO Simone di Deodato, nato a Camogli, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860.

920 SCHIAVONI Sante fu Giuseppe, nato a S.Maria di Sala nel 1827, (già) residente a Cagliari (nel 1864), morto allo Spedale Maggiore di Milano.

* 921 SCHIRA Gio.Raffaele di Giuseppe, nato a Pieve Porto Morone il 1° settembre 1838, capitano nell'esercito.

* 922 SCIPIOTTI Ildebrando di Celso, nato a Mantova il 16 novembre 1832, già uffiziale nel regio esercito, residente a Sora.

* 923 SCOGNAMILLO Andrea di Anello, nato a Palermo, morto a Genova nel 1861

* 924 SCOLARI Luigi fu Giacomo, nato ad Este nel giugno 1837, residente a Caltanissetta, impiegato straordinario all'Intendenza di Finanza.

* 925 SCOPINI Ambrogio fu Pietro, nato a Milano nel 1824, già residente a Pusiano, morto a Pavia il 26 giugno 1870.

* 926 SCORDILLI Antonio di Francesco, nato a Venezia il 28 luglio 1820, di attuale sconosciuta residenza. Fino dai primi di giugno 1865 abbandonò, con la moglie, Ancona, dove aveva risieduto come emigrato né da allora fu più possibile rintracciarlo; vaghe voci lo farebbero trasferito in America. Prima del volontario esiglio, non era stato ancora autorizzato legalmente a fregiarsi della medaglia, e conseguentemente a riscuotere la pensione.

* 927 SCOTTI Carlo fu Alessandro, nato a Verdello il 30 giugno 1837, ivi residente, notaio.

* 928 SCOTTI Cesare di Pietro, nato a Medolago il 3 giugno 1834, residente a Bottanuco.

* 929 SCOTTO Lorenzo Gio.Battista Achille di Giuseppe nato a Roma il 12 luglio 1836, ivi residente, pittore.

* 930 SCOTTO Pietro di Domenico, nato a Genova il 26 aprile 1841, ivi residente, fonditore di caratteri.

* 931 SCURI Enrico di Angelo, nato a Bergamo il 4 giugno 1839, morto a Bergamo il 7 aprile 1861

* 932 SECONDI Ferdinando di Carlo, nato a Dresano il 29 agosto 1836, residente a Turano, possidente.

* 933 SEMENZA Gio.Antonio di Francesco, nato a Monza il 5 febbraio 1836, già residente a S; Angelo Milanese, ed avvocato, morto in Milano in novembre 1877.

934 SERINO Ovidio di Francesco, nato a Corifi Mercato (Salerno) il 5 aprile 1813, ivi residente, sacerdote; ha chiesto la pensione, ma non ha potuto conseguirla perché non curossi di ottenere dal Ministero della guerra l'autorizzazione di fregiarsi della medaglia, come è prescritto.

* 935 SGARALLINO Giovanni Jacopo di Demetrio, nato a Livorno il 9 marzo 1826, ivi residente, commerciante.

936 SILIOTTO Antonio di Gervasio, nato a Porto Legnago il 6 agosto 1838, residente a Legnago, avvocato.

* 937 SILVA Carlo Guido fu Luigi, nato a Bergamo il 17 settembre 1844, residente a Milano, commissionario e già uffiziale nel regio esercito.

* 938 SIMONETTA Antonio di Cesare, nato a Milano, morto a Palermo il 28 maggio 1860, al convento dei Benedettini.

* 939 SIMONI Ignazio fu Tommaso, nato a Medicina il 15 agosto 1826, (già) maggiore nell'esercito, morto a Novara il 7 aprile 1862, per caduta da cavallo.

* 940 SIRTOLI Carlo di Pietro, nato a Bergamo il 24 dicembre 1838, (già) luogotenente nel 62° fanteria, morto il 15 aprile 1876 a Nola.

* 941 SIRTOLI Melchiorre di Antonio, nato a Bergamo il 10 febbraio 1819, ivi residente, pittore, e già uffiziale nel regio esercito.

* 942 SIRTORI Giuseppe di Giuseppe, nato a Casate Vecchio il 17 aprile 1813, già tenente generale, morto a Roma il 18 settembre 1871

* 943 SISTI Carlo Giuseppe di Giuseppe, nato a Pasturago il 16 giugno 1841, morto a Pasturago il 6 dicembre 1870.

* 944 SIVELLI Gio. Battista Egisto di Antonio, nato a Genova il 22 novembre 1843, ivi residente, negoziante.

945 SOCAL Domenico fu Gerardo, nato a Venezia il 24 marzo 1838, ivi residente, filarmonico, escluso dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 946 SOLARI Camillo Vincenzo fu Giovanni Battista, nato a Genova il 3 giugno 1835, ivi residente.

947 SOLARI Francesco di Lorenzo, di incerto luogo d'origine, e di ignorata esistenza. Fu creduto di Genova, ma è affatto sconosciuto a quelle autorità. Secondo private informazioni, avrebbe appartenuto come sottotenente al 42° reggimento fanteria, e avrebbe lasciato il servizio per emigrare in America, come fecero molti.

* 948 SOLARI Luigi di Gio. Battista, nato a Genova il 26 gennaio 1840, Ìvi residente, commerciante.

* 949 SOLIGO Giuseppe di Giuseppe, nato a Treviso il 12 luglio 1826, residente a Radicofani, già sottotenente nel 53° fanteria, morto in Radicofani il 14 settembre 1861

* 950 SORA Ignazio fu Santo, nato a Bergamo il 25 febbraio 1840, ivi residente, negoziante.

* 951 SORANGA Giovanni fu Antonio, nato a Calcio il 17 agosto 1837, residente ad Antegnate, fittabile.

952 SORBELLI Giuseppe di Salvatore, nato a Castel del Piano il 15 luglio 1815, morto il 4 luglio 1871

* 953 SPANGARO Pietro fu Gio. Battista, nato a Venezia nel 1813, residente a. Milano, colonnello di fanteria in ritiro.

* 954 SPERANZINI Francesco, di genitori ignoti, nato a Mantova il 5 aprile 1840, residente a Piubega, agricoltore.

* 955 SPERTI Pietro Sante di Andrea, nato a Livorno il 6 luglio 1837, residente a Fauglia, bracciante.

* 956 SPROVIERI Francesco fu Michele, nato ad Acri il 2 maggio 1826, residente a Roma, colonnello nell'esercito, e deputato al Parlamento.

* 957 SPROVIERI Vincenzo fu Michele, nato ad Acri il 20 febbraio 1823, ivi residente, possidente, avvocato, e senatore del Regno.

* 958 STAGNETTI Pietro di Luigi, nato ad Orvieto il 30 aprile 1827, residente a Roma.

* 959 STEFANINI Giuseppe di Francesco, nato ad Arcola 11 gennaio 1846, residente in Asti.

960 STELLA Innocente fu Gio. Battista, nato ad Arsiero il 14 luglio 1837, (già) benestante, morto combattendo a Villa Gualtieri, in Maddaloni, il 1° ottobre 1860.

961 STERCHELE Antonio di Pietro, nato a Trento il 29 settembre 1883, residente a Torino.

* 962 STRAZZA Achille di, Giacomo, nato a Milano nel 1842, residente alla Porretta; capostazione ferroviario.

963 STRILLO Giuseppe: nessuna notizia ufficiale sul conto di lui. Secondo private informazioni sarebbe nato a Venezia nel 1832, fu marinajo, sergente a Talamone, nella 4^ compagnia, 15^ divisione, 2° battaglione, e congedato da Napoli il 5 dicembre 1860; ma lasciasi in dubbio che possa essere SFRISO o STRISO, non Strillo. Alle autorità di Venezia è affatto sconosciuto.

964 STOCCO Francesco di Antonio, nato a Decollatura nel 1806, residente a Nicastro, possidente e generale a riposo.

* 965 TABACCHI Giovanni fu Enrico, nato alla Mirandola il 26 settembre 1828, ivi residente, possidente, ingegnere.

* 966 TADDEI Rainero fu Giacomo, nato a. Reggio Emilia il 4 aprile 1823, (già) tenente colonnello nel 23° fanteria, morto nella battaglia di Custoza il 24 giugno 1861

* 967 TAGLIABUE Baldassarre fu Battista, nato a Como il 22 marzo 1822, residente a Milano, sarto.

968 TAGLIAPIETRA Pilade di Giuseppe, nato a Motta di Livenza l'11 novembre 1836, morto combattendo Reggio di Calabria il 21 agosto 1860.

969 TAGLIAVINI Pietro di Giacomo, nato a Parma il 13 maggio 1833, ivi residente, bracciante.

* 970 TAMAGNI Giuseppe fu Giuseppe, nato a Bergamo il 20 luglio 1840, residente a Milano, impiegato ferroviario.

971 TAMBELLI Natale Giulio di Lazzaro, nato a Revere il 10 ottobre 1841, ìvi residente, possidente.

* 972 TAMBURINI Antonio fu Biagio, nato a Belgiojoso il 29 marzo 1842, residente a Milano, droghiere.

* 973 TAMISARI Gio. Battista di Antonio, nato a Lonigo il 24 gennaio 1831, residente a Napoli.

974 TANARA Faustino di Giacomo, nato a Langhirano il 16 febbraio 1833, (già) affittuario, morto il 5 ottobre 1871

975 TARANTINI Angelo fu Giuseppe, nato alla Maddalena il 13 dicembre 1836, residente a Tiesi (Alghero), negoziante.

* 976 TASCA Vittore fu Faustino, nato a Bergamo il 7 settembre 1821, ivi residente, possidente.

* 977 TASCHINI Giuseppe di Pietro, nato, a Brescia il 12 maggio 1829, già, ivi residente, morto il 17 maggio 1861

* 978 TASSANI Giacomo di Agostino, nato ad Ostiano l'8 marzo 1819, già residente a Brescia, morto il 4 giugno 1878.

* 979 TASSARA Gio. Battista di Paolo, nato a Genova il 24 giugno 1827, residente a Firenze, professore di scultura.

* 980 TATTI Edoardo di Francesco, nato a Milano il 13 luglio 1838, residente a Comacchio.

* 981 TAVELLA Luigi di Pietro, nato a Brescia il 27 novembre 1843, ivi residente, possidente.

* 982 TARONI Felice di Giacomo, nato a Urio l'11 aprile 1840, residente a Milano, appaltatore.

* 983 TERMANINI Arturo di Feliciano, nato a Casorate Primo il 24 ottobre 1839, capitano nell'esercito.

* 984 TERUGGIA Giovanni Lorenzo di Giovanni, nato a Laveno il 16 maggio 1837, residente a Napoli, commerciante.

* 985 TERZI Giacomo di Gherardo, nato a Capriolo il 7 luglio 1847, morto il 14 maggio 1864 in Brescia.

* 986 TERZI Luigi di Francesco, nato a Bergamo il 2 febbraio 1829, morto a Palermo nel giugno 1860, amputato di una gamba.

* 987 TERZI Oreste di Biagio, nato a Parma il 20 maggio 1843, residente a Sarzana, libraio.

* 988 TESSERA Federico fu Girolamo, nato a Meltone il 24 agosto 1840, residente ad Albairate, medico.

* 989 TESTA Giovanni Battista fu Luigi, nato a Genova il 1° luglio 1840, Ìvi residente, scrittore.

* 990 TESTA Gian Pietro di Giacomo, nato a Bergamo il 12 novembre 1841, (già) possidente, morto a Stazzano il 29 gennaio 1867.

* 991 TESTA Luigi fu Angelo, nato a Seriate 2 aprile 1814, residente a Bergamo.

* 992 TESTA Paolo Luigi di Pietro, nato a Bergamo il settembre 1842, ivi residente, fabbricante di bilancio.

* 993 TIBALDI Rodobaldo di Napoleone, nato a Belgiojoso nel 1839, morto in Milano 1l 17 luglio 1871

994 TIBELLI Gaspare di Gaspare, nato a Bergamo il 15 maggio 1842, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860.

* 995 TIGRE Giovanni. di Antonio, nato a Venezia il 9 maggio 1825, residente a Salerno.

* 996 TIRELLI Gio. Battista fu Francesco, nato a Maleo il 28 aprile 1820, già cap. delle Guide pensionato, e cavallerizzo residente a Milano, ivi morto il 10 gennaio 1878.

* 997 TIRONI Gio. Battista di Gio. Battista, nato a Bergamo il 19 luglio 1834, residente a Gerosa, sarto.

* 998 TIRONI Giuseppe di Gio. Battista, nato a Chiuduno il 12 dicembre 1831, residente a Napoli, tenente nella milizia mobile.

* 999 TOFANI Oreste di Gaetano (Adamo), nato a Livorno il 26 agosto 1844, ivi residente, facchino.

1000 TOJA Alessandro di Raffaele, nato a Gizzeria il 23 settembre 1822, morto a Gizzeria il 20 settembre 1861

* 1001 TOLOMEI (recte LATTANZI) Domenico (e non Antonio) del fu Felice, nato a Collepardo l'11 luglio 1833, residente, a Roma, possidente. escluso nel febbraio 1874 dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 1002 TOMMASI Angelo di Gio. Battista, nato a Siviano il 29 settembre 1839, residente a Bergamo, sarto.

* 1003 TOMMASI Bortolo fu Gio. Battista, nato a Siviano il 3 maggio 1830, residente a Bergamo, fabbricante di reti.

1004 TOMMASINI Gaetano di Ferdinando, nato a Vigatto il 15 aprile 1842, residente a Parma, bracciante.

1005 TONATTO Gio. Battista fu Lorenzo, nato a Montagnana il 4 ottobre 1828, girovago, escluso nel febbrajo 1870 dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

1006 TONI-BAZZA Achille di Antonio, nato a Volciano il 17 luglio 1837, morto l'8 agosto 1863 a Presceglie.

1007 T0NISSI Raniero Egidio di Alessandro, nato a Grosseto il 30 giugno 1842, ivi residente, garzone di caffè.

* 1008 TOPI Giovanni, di genitori ignoti, nato a Firenze nel 1831, residente a Fitto di Cecina, facchino.

* 1009 TORCHIANA Pompeo di Massimiliano, nato a Cremona il 17 ottobre 1822, ivi residente, ingegnere; luogotenente del Genio fino all'agosto 1870 e poi dimissionario.

* 1010 TORRESINI Rainerio fu Giuseppe, nato a Padova il 12 agosto 1838, ivi residente,. diurnista all'Intendenza di Finanza.

1011 TORRI Giacomo Giovanni Francesco, di Basilio, nato a Brembate l'11 aprile 1844, morto a Napoli il 9 dicembre 1860.

* 1012 TORRI-TARELLI Carlo fu Carlo, nato ad Onno il 26 giugno 1832, residente a Buenos-Ayres, scrivano.

*1013 TORRI-TARELLI Giuseppe fu Carlo, nato ad Onno il 16 giugno 1839, morto per ferite a Catanzaro il 27 settembre 1860.

* 1014 TOZZI Giuseppe di Domenico, nato a Pavia nel 1842, (già) sottotenente nel 70° fanteria, morto a Bologna il 25 luglio 1861

* 1015 TRANQUILLINI Filippo fu Carlo, nato a Morì (Roveredo) il 1837, residente a Milano, avvocato.

* 1016 TRAVERSO ANDREA fu Angelo, nato a Genova, già residente all'isola della Maddalena, morto 1° novembre 1871

* 1017 TRAVERSO Francesco di Francesco, nato a Genova il 19 aprile 1841, ivi residente, commerciante.

1018 TRAVERSO Pietro di Carlo, nato a Prà il 6 maggio 1833, già avvocato, morto a Villa Gualtieri, il 1° ottobre 1860.

1019 TRAVERSO Quirico di Tommaso, nato a S. Quirico Polcevera l'11 marzo 1831, morto a Villa Gualtieri, il 1° ottobre 1860.

* 1020 TRAVI Salvatore di Domenico, nato a Genova il 3 luglio 1842, ivi residente, falegname.

* 1021 TREZZINI Carlo di Pietro, nato a Bergamo il 15 novembre 1844; ferito a Palermo nel 1860, amputato della gamba sinistra, e morto a Bergamo il 10 giugno 1863 in seguito alla ferita.

1022 TRISOLINI Tito fu Giosuè, nato a Napoli il, 20 dicembre 1824, ivi residente, medico.

* 1023 TRONCONI Pietro di Giovanni, nato a Genzone il 26 aprile 1841, residente a Pavia, scrivano.

* 1024 TÜCKÖRY Luigi, nato a Koros-Hadany, morto a Palermo in seguito a ferita riportata il 27 maggio 1860 sul ponte dell'Ammiraglio.

* 1025 TURATTI Giulio Emilio fu Francesco, nato a Pavia il 19 aprile 1843, ivi residente, scrivano.

* 1026 TUROLA Romeo di Felice, nato a Badia Polesine il 27 novembre 1832, morto il 25 ottobre 1871

1027 TUROLLA (recte TUROLA) Pasquale fu Pietro, nato a Badia Polesine il 3 aprile 1825, morto in Acqui nel novembre 1871

* 1028 TURR Stefano di Giacomo, nato a BaÎs (Ungheria) il 10 agosto 1825, residente a Wedempst; nel 1864 dimissionario dal grado di tenente generale nel regio esercito.

* 1029 UNGAR-CURTI Luigi di Giuseppe, nato a Lonigo nel 1837, residente a Castellammare di Stabia, macchinista.

* 1030 UZIEL Davide Cesare di Angelo, nato a Venezia il 25 gennaio 1835, residente a Genova, già capitano nel 17° fanteria, ora commerciante.

* 1031 UZIEL Enrico di Aronne, nato a Venezia il 13 ottobre 1842, già sensale, morto a Palermo nel 28 maggio 1860, accanto al commilitone Richiedei, per ferita pure alla testa da palla di cannone.

* 1032 VACCARO Giuseppe di Francesco, nato a S. Maria Boretta il 30 marzo 1832, residente a Genova, cavista.

* 1033 VAGO Carlo Giuseppe Pietro di Antonio, nato a Milano il 14 febbraio 1840, residente a Stresa.

1034 VAGNER Carlo di Filippo, nato a Meilen (Zurigo) il 15 agosto 1837, riportò varie ferite nella campagna dei Mille; ora residente a Pittsburg (Pensilvania), contadino non domandò la pensione.

1035 VAJ Angelo Romeo di Giuseppe, nato a Casorate Primo il 15 giugno 1844, già residente a Milano, già fornaio, morto a Calatafimi il 15 maggio 1860.

* 1036 VAJANI Giovanni fu Ermenegildo, nato a Soresina il 22 novembre 1843, residente a S. Bassano, commerciante.

* 1037 VALCARENGHI Carlo di Tullo, nato a Bozzolo, (o Piadena?), ferito a Palermo, amputato, e morto il 7 giugno 1860.

* 1038 VALDER Giuseppe Vincenzo fu Antonio, nato a Varese il 13 dicembre 1840, morto combattendo a Custoza nel 1861

* 1039 VALENTI Carlo Angelo di Luigi, nato a Casalmaggiore il 18 febbraio 1839, residente a Milano, viaggiatore di commercio.

* 1040 VALENTI Carlo Giuseppe di Antonio, nato a Bergamo il 15 settembre 1840, morto a Palermo il 28 maggio 1860.

* 1041 VALENTI Lorenzo di Luigi, nato a Livorno nel 1831, morto il 2 luglio 1872 nel manicomio di Siena.

* 1042 VALENTINI Pietro di Giovanni, nato a Brescia il 14 luglio 1830, ivi residente, fotografo, morto il 16 gennaio 1871

* 1043 VALONCINI Alessandro di Angelo, nato a Bergamo il 19 dicembre 1836, ivi residente, falegname.

1044 VALTOLINA Ferdinando fu Lodovico, nato a Caponago nel 1819, morto a Milano il 4 agosto 1871

* 1045 VALUGANI Giuseppe di Giuseppe, nato a Tirano il 6 giugno 1825, morto il 5 giugno 1866 a Milano.

* 1046 VANNUCCI Angelo di Giovanni, nato a Livorno il 24 agosto 1839, residente a Marsiglia, bracciante.

1047 VECCHIO Giuseppe Secondo di Carlo, nato a Trebecco il 1° settembre 1835, residente a Torino, bracciante.

* 1048 VECCHIO Pietro Achille di Luigi, nato a Pavia il 29 novembre 1842, (già) residente a Pavia, (già) calzolaio, morto in carcere il 21 settembre 1877.

* 1049 VELASCO Nicolò Maria di Emanuele, nato a Trapani il 2 novembre 1810, residente a Firenze, escluso nel 1863 dall'onore di fregiarsi della medaglia e dal diritto a pensione.

* 1050 VENTURA Eugenio Giovanni Battista di Angelo, nato a Rovigo il 16 gennaio 1835, residente a Treviso, (già) sensale, dal'1 maggio 1873 impiegato postale governativo.

1051 VENTURA Pietro di Ambrogio, nato a Genova l'11 settembre 1837, residente a Viareggio, ebanista.

1052 VENTURINI Ernesto di Tommaso, nato a Chioggia il 23 aprile 1839, residente a Firenze, impiegato ferroviario.

1053 VENZO Venanzio di Domenico, nato a Lugo Vicentino il 20 ottobre 1839, già uffiziale di fanteria, residente a Milano.

1054 VIAN Antonio di Cristoforo, nato a Palermo il 5 marzo 1836, già luogotenente di piazza in aspettativa, ivi residente.

1055 VICINI Francesco Luigi Domenico fu Antonio, nato a Livorno. Interpellato, dichiarò che egli non fece la campagna dei Mille, e che il suo nome è compreso nello Elenco per ciò solo che un marinajo maremmano, da lui sconosciuto, si valse delle sue proprie fedi di nascita all'oggetto di fare la campagna sotto il suo nome ed occultarsi così alle ricerche temute, per aver mancato agli impegni prima contratti con una barca corallina.

1056 VIGANONI Giuseppe di Giovanni, nato a Bergamo il 28 settembre 1828, morto a Bergamo il 7 marzo 1861

1057 VIGO-PELIZZARI Francesco di Antonio, nato a Vimercate nel 1836, morto nel fatto d'arme di Mentana nel 1867.

1058 VINCIPROVA Leonino di Pietro, nato a Salerno, già maggiore di fanteria in aspettativa, morto nel 1874.

* 1059 VIOLA Lorenzo di Giovanni, nato a Brescia il 4 febbraio 1836, morto il 9 settembre 1871

* 1060 VITALE Bartolomeo di Giuseppe, nato a Palermo il 7 luglio 1840, ivi residente, capitano marittimo.

* 1061 VITTORI Giacomo fu Andrea, nato a Montefiore dell'Aso nel 1808, morto il 2 dicembre 1871

* 1062 VOLPI Giuseppe di Eugenio, nato a Lovere il 4 ottobre 1843, morto a Monte Suello nel 1861.

* 1063 VOLPI Pietro di Giovanni, nato a Zogno il 18 marzo 1843, ivi residente, possidente.

1064 ZAGO-CROVATO Ferdinando di Luigi, nato a Rovigo il 10 gennaio 1825, morto a Cagliari il 1° febbraio 1861

* 1065 ZAMARIOLI Antonio di Gio. Battista, nato a Lendinara il 6 dicembre 1820, residente in Asti, contadino.

* 1066 ZAMBECCARI Angelo di Antonio, nato a Padova nel 1834, residente in Roma.

1067 ZAMBELLI Cesare Annibale di Luigi, nato a Bergamo li 6 febbraio 1828, morto nello spedale di Palermo nel 1860.

* 1068 ZAMPARO Francesco fu Francesco, nato a Tolmezzo li 17 settembre 1844, residente a Chiari, impiegato al Dazio

* 1069 ZANARDI Giacinto di Giuseppe, nato a Pavia nel 1833, regio impiegato (nella leva), morto a Foligno il 28 aprile 1871

* 1070 ZANCANI Camillo fu Giuseppe, nato ad Egna (Bolzano) il 23 agosto 1820, residente in Milano, commesso di studio.

* 1071 ZANCHI Carlo di Giuseppe, nato ad Alzano Maggiore il 10 maggio 1839, morto ad Alzano Maggiore li 13 novembre 1861

1072 ZANETTI Luigi Pietro fu Luigi, nato a Venezia nel 1843, residente ad Itala, sorvegliante ai lavori stradali.

* 1073 ZANETTI Napoleone fu Napoleone, nato a Padova li 14 febbraio 1837, ivi residente, industriante.

* 1074 ZANINI Luigi fu Giovanni, nato a Villafranca il 28 settembre 1823, residente a Milano

* 1075 ZANNI Riccardo fu Antonio, nato ad Ancona li 6 dicembre 1835, ivi residente, fornaciaio.

* 1076 ZANOLLI Attilio di Giovanni, nato a Verzano (Tirolo) li 22 agosto 1827, residente a Prepotto, possidente.

* 1077 ZASIO Emilio di Gio. Battista, nato a Pralboino il 27 marzo 1831, capitano nel 6° granatieri, morto il 23 dicembre 1869.

1078 ZEN Gaetano di Antonio, nato ad Adria li 23 febbraio 1822, (già) dottore in medicina, morto il 28 maggio 1867.

1079 ZENNARO Vincenzo fu Giuseppe, nato a Chioggia li 7 giugno 1837, (già) calafato, morto per ferite a Palermo nel 1860.

1080 ZENNER Pietro fu Gerolamo, nato a Vittorio l'8 marzo 1838, morto combattendo a Reggio Calabria nel 1860.

* 1080 ZIGIOTTO Giuseppe Giovanni fu Decio, nato a Sossano il 17 ottobre 1841, residente in Roma, macchinista nella ferrovie.

1082 ZIGNEGO Gio. Battista di Antonio, nato a Porto Venere li 5 aprile 1824, residente a Genova, marinaio.

* 1083 ZILIANI Francesco di Tommaso, nato a Travagliato l'11 febbraio 1832, ivi residente, medico-chirurgo.

1084 ZINETTI (ZANETTI) Carlo di Antonio, nato a Sedrina li 24 novembre 1840, residente a Zogno, possidente.

* 1085 ZOCCHI Achille di Angelo, nato a Pavia li 10 giugno 1840, residente a Milano.

* 1086 ZOLLI Giuseppe di Giuseppe, nato a Venezia li 27 luglio 1838, residente a Macerata, regio professore.

* 1087 ZOPPI Cesare di Francesco Antonio, nato a Verona l'1 agosto 1844, ivi residente, diurnista all'ufficio comunale.

1088 ZULIANI Gaetano fu Giacomo, nato a Venezia nel 1826, (già) barcaiolo, morto il 6 luglio 1868.

1089 ZUZZI Enrico Matteo di Enrico, nato a Codroipo il 19 febbraio 1838, ivi residente, medico.  

A questi ritratti di sopra (con l'asterisco) Garibaldi volle aggiungere i ritratti di questi altri personaggi che però non compaione nella lista fornita dal Ministero della Guerra, sia nel 1864 come in quella del 1878 (ritratti che però compaiono ugualmente nel CD-ROM, o in ordine alfabetico o in fondo alle ultime pagine) 

* ASPERTI Vito Luigi

* ASTENGO Angelo

* BAJ Luigi

* CAMPIANO Bartolomeo

* PIAZZA Alessandro

* BIGANZOLA Cesare

* LOVATI Carlo

* BOTTARO Vincenzo

* PIZZI Giuseppe

* LAJO Venceslao

* ROLLI Olinto

* PANTALEO Giovanni

* BIANCHINI Eugenio

* FERRETTO Angelo

* BONO Gaudenzio

* PIRAZZINI Adige

* UGOLINI Arrigo

* TESTORI Luigi

* FRANCESCHI Francesco

* RIBOLI Timoteo

* GARZIO B.

* RICCABONE Franco

* AVEZZANA Giuseppe

* GUERRAZZI Francesco Domenico

* VALERIO Cesare

* DE FRANCHIS Luigi

* FRANCHI Martino

* BRUGGIO Carlo

* BERNARDI Giuseppe 

Inoltre come detto all'inizio, oltre a quelli sopra, Garibaldi aggiunse anche i ritratti di coloro che considerava: "meritevole di stare accanto ai "Mille" (anche questi tutti presenti sul CD-ROM) 

* GARIBALDI ANITA

* BIANCHI GIOVINI A.

* FERRARI GIUSEPPE

* CECCARINI GIOVANNI

* GAIANI GIGLIELMO

* UMILTA’ ANGELO 

* CROCE ENRICO

* ROCCA ENRICO

* FIORE PIETRO

* BRAMANTE LUIGI

* BEGHELLI GIUSEPPE

* GRIMALE-LUBANSKY ENRICO

* MAC ROBIN

* DU MALY

* RICCABONE ROMAEO

* ZANOJA CARLO

·         11 Maggio 1860, mille avanzi di galera, comandati da un bandito, sbarcarono a Marsala.

Lo sfregio degli ultras antirazzisti: "Non riconosciamo l'Italia nazione". Il blitz dei tifosi dell'Afro Napoli United in occasione dell'Unità d'Italia. In passato in piazza contro la Lega, scrive Franco Grilli, Domenica 17/03/2019, su Il Giornale.  Loro sono la “Brigata Spalletella”, che su Facebook si definiscono come i "supporters dell'AfroNapoli United", la squadra che milita nel girone A di Eccellenza Campania nata "per la promozione dell'integrazione sociale attraverso lo sport". Al centro della loro battaglia, però, a quanto pare non c'è solo l'immigrazione. Stanotte i tifosi hanno realizzato un "blitz" sotto la statua di Garibaldi a Napoli per esporre un eloquente striscione in occasione della festa dell'Unità d'Italia: "Viva Napoli, viva il Meridione: non riconosciamo l'Italia nazione". A pubblicare lo scatto dello striscione è stata la stessa pagina facebook della Brigata Spalletella. "Ancora oggi paghiamo lo scotto della violenza barbara e devastante di questa Italia unita - scrivono i supporters dell'Afro Napoli - Totalmente a trazione settentrionale, saccheggiando e distruggendo la nostra terra, questa 'unità' è stata madre di deportazioni e genocidi, terre usurpate e violenza verso il dissenso. Oggi nessuna data importante da celebrare, solo 158 anni per non dimenticare un nord padrone e un sud schiavo". Non è la prima volta che sulla pagina Fb parlano dell'Unità d'Italia. Il 13 febbraio, in occasione della sconfitta del Regno delle Due Sicilie ad opera dei "piemontesi", gli ultras scrivevano che con l'arrivo dell'Unità d'Italia "le casse del Mezzogiorno" venivano "svuotate e le nostre terre depredate". In quei giorni, sostiene la brigata, iniziavano "rastrellamenti e deportazioni, mentre chi resiste a difesa della propria terra come i briganti" venivano "trucidati e mostrati come trofei". Ma scorrendo online la cronistoria delle iniziative della Brigata non mancano, e ti pareva, manifestazioni contro il Carroccio. Il 10 febbraio i supporters dell'Afro Napoli United erano in piazza per "dare un calcio alla Lega e al razzismo". "Simbolicamente abbiamo 'calciato' una serie di Super Santos, simbolo di strada e di meridionalismo, con su scritto dei messaggi indirizzati al presidio leghista nel centro di Napoli - scrivevano - Questi messaggi rivendicavano la nostra totale ostilità alle politiche razziste della lega. Come tifoserie antirazziste crediamo che il nostro messaggio e i nostri ideali non debbano essere relegati solo al campo da gioco ma che debbano essere espressi con forza e con ogni mezzo necessario ogni giorno a tutte le ore del giorno, in strada come sugli spalti".

Roberto D’Agostino per Vanity Fair il 18 marzo 2019. Diciamocelo francamente: questa famosa integrazione ce l'ha ordinata il dottore?. “Non sono italiana, sono napoletana! È un'altra cosa!”, diceva Sophia Loren. Ha ragione, la pizzaiola: un linguaggio diverso è una diversa visione della vita. La sola cosa che noi tutti abbiamo in comune sono le nostre differenze. Nessuno mai può essere libero se costretto ad essere simile agli altri, verso coloro che vivono, appunto, un'altra cultura. Riconoscere la diversità non è razzismo. È un dovere che abbiamo tutti. Il razzismo però deduce dalla diversità degli altri uomini (neri, rossi, gialli canarino) la diversità dei diritti. L’integrazione è saper stare con la differenza senza voler eliminare la differenza. E avverrà - motteggiava Dino Risi – ‘’quando si potrà dare dello stronzo a un negro”. Siamo sei miliardi di individui che vivono in decine di culture, religioni e lingue diverse, con migliaia di interessi, scopi, desideri e bisogni diversi. Questa società planetaria fa perdere la bussola all'italiano medio che diventa ogni giorno un po' più Matteo lo Squartatore. Credo nell’integrazione. Io sono libero dai pregiudizi. Ma gli uomini calvi dovrebbero sposare donne calve. Ecco un tipo per bene, anzi: un tipo perBenito.  Non esistano le razze, ma i razzisti. Il razzismo è ciò che trasforma le differenze in disuguaglianze. Gran brutta malattia. Più che altro strana: colpisce i bianchi, ma fa fuori i neri. Siamo sempre l’ebreo di qualcuno, lo straniero di qualcun altro, il meridionale del vicino di casa. Chissà quanti padri romanisti piangono perché hanno un figlio laziale. Ecco, questo è il momento in cui finisce il giorno e comincia la notte.

11 Maggio 1860, mille avanzi di galera, comandati da un bandito, sbarcarono a Marsala – 158 anni fa iniziava lo sterminio del popolo Duosiciliano! Scrive Ondasud. Un genocidio che nessuno commemora – 11 Maggio 1860, mille avanzi di galera, comandati da un bandito, sbarcarono a Marsala – 158 anni fa iniziava lo sterminio del popolo Duosiciliano!

154 ANNI FA INIZIAVA LO STERMINIO DEL POPOLO DUOSICILIANO. 11 Maggio 1860 – Mille avanzi di galera sbarcarono a Marsala. Non erano neanche mille, ma 702 e per di più… Violenti e malfamati! Ma non erano affatto soli!… e neanche isolati !…Anzi, proprio al contrario, erano molto ben protetti militarmente dalla flotta inglese, finanziati, assistiti e guidati dalla massoneria mondiale ebraica e il loro mandante era niente di meno che Rothschild! Ancora oggi, dopo 158 anni, le cose non sono cambiate, Rothschild, la massoneria mondiale ebraica, ed oltre a quella inglese, anche la flotta Usa, la Nato, Israele, etc. sono i potentissimi mandanti, finanziatori e protettori diretti ed indiretti di terroristi, tagliatori di teste e cannibali come quelli dell’Isis, di Al Qaeda, di Boko Haram ed altri ancora che, seppur apparentemente pochi, con l’appoggio perfino di portaerei, e delle forze aere e missilistiche di Israele, Usa, Francia, Inghilterra, Italia, etc. hanno invaso, abbattuto e conquistato tutto o parte di Stati come la Libia, la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan, il Mali, etc. Quegli avventurieri di allora, sostenuti dalle maggiori potenze mondiali di allora, avevano a capo un Criminale di nome Giuseppe Garibaldi, ladro di cavalli, a cui avevano mozzato le orecchie in Argentina perché beccato in flagranza di reato. Ma allora, oltre ad essi che avanzavano da sud, subito dopo, a soccorrerli ulteriormente, un’orda barbarica, dunque, scese dal Piemonte. “Parlavano una strana lingua e bestemmiavano in continuazione! Donne stuprate, uomini e bambini uccisi e trucidati! Interi paesi bruciati e rasi al suolo! Come oggi negli Stati sopraccennati, allora nell’Italia del Sud, ogni ricchezza venne saccheggiata…” i crimini commessi da detta legione straniera dei massonici ebraici rothschildiani avventurieri provenienti dal Piemonte, dalla Lombardia, ma anche da Inghilterra, Francia, Ungheria, Polonia, Stati Uniti, Canadà e perfino Turchia, contro il popolo meridionale, sono INENARRABILI: e furono talmente EFFERATI che ancora oggi vengono taciuti. Altro che fratelli d’Italia! Fisicamente e soprattutto moralmente, sia i nostri antenati e sia noi, non siamo nemmeno parenti alla lontana con simili canaglie. Quante menzogne, quanti massacri… e quanto sangue e quante lacrime hanno versato i nostri antenati ed i nostri padri, le nostre madri e quante ne stiamo versando ancora oggi per questa “Italia” falsa, bugiarda e criminale, che è completamente all’opposto della vera nostra Italia. Tu che conosci la verità sei pregato di divulgarla, e di farla conoscere a tutti. Cerca le verità sepolte e riportale alla luce e falle rivivere nella mente e nel cuore tuo e di tutti i tuoi cari. Divulgale a chi le ignora.

Il Regno delle due Sicilie era il terzo Stato più ricco ed avanzato al mondo. L’Unità massonica ebraica rothschildiana d’Italia distrusse la vera e migliore Italianità ed il buon rapporto fra tutti gli stessi Italiani di buona volontà. Prima di detta falsa Unità, da noi vi era il miglior tenore di vita del mondo e la migliore qualità di vita del mondo, proprio perchè si abitava in quelle terre che per la dolcezza del loro clima, per l’amenità e bellezza dei paesaggi e per la fertilità dei suoli… ed in quelle incantate città che per i loro splendidi palazzi, per le loro magnificenti chiese e per le svariate e meravigliose opere dell’arte: della musica, della pittura, dell’architettura e della cultura in generale, ed anche dei cibi, dell’ospitalità, dell’equità, moderazione e giustizia delle istituzioni e per il fascino delle usanze popolari… erano di fatto riconosciute come le più belle, salutari, accoglienti ed amabili del mondo in assoluto ed erano conosciute, visitate, ammirate, esaltate ed invidiate da tutta Europa e dal mondo intero!

Francesco II di Borbone profetizzò che non ci sarebbero rimasti neanche gli occhi per piangere. Infatti è stato, è e sarà così finché durerà questa maledetta falsa Unità, per i nostri avi, per noi e per le generazioni a venire. Il Regno delle Due Sicilie e la Serenissima Repubblica di Venezia, distrutti nel 1861, insieme alla Sardegna. La Dalmazia e l’Istria distrutte alla fine del secondo conflitto mondiale, l’italianissima Corsica data in pasto alla ferocia degli aguzzini massonici ebraici rothschildiani francesi, Briga e Tenda e la Contea di Nizza cedute alla stessa Francia. L’isola di Malta assoggettata alla massoneria ebraica inglese. Tutto ciò dimostra che la classe dirigente massonica, ebraica rothschildiana, in Italia, come in Inghilterra, come in Francia e come in tutto il resto del mondo, allora come adesso e come sempre, ha seminato, semina e seminerà solo morte e desolazione. Fece, fa e farà sempre versare tanto sangue innocente per i suoi malvagi e criminali interessi. A suo tempo, l’Invasione armata distruttrice, la conquista militare violenta e lo sfruttamento coloniale e schiavistico portarono al disastro ed allo sterminio la buona parte del Popolo Duosiciliano: Infatti, su quasi 7,5 milioni di abitanti di allora:

– Dal 1860 al 1875, quasi 50.000 giovani e forti, la meglio gioventù del Sud, militari del Regio Esercito del Regno delle Due Sicilie, furono sterminati non soltanto sui campi di battaglia, ma, ancor più numerosi, nei feroci campi di concentramento e sterminio come Fenestrelle, e tantissimi altri situati per lo più in Piemonte, ma sparsi anche per tutto il resto d’Italia!

– Inoltre, dal 1860 al 1980, nel giro di 20 anni, con la guerra al brigantaggio furono massacrati, passandoli per le armi e carcerandoli brutalmente più di 100.000 civili.

Complessivamente fu sterminato 1,2 milioni di persone, per fame, freddo, malattie e persecuzioni causate soprattutto con:

– La legge marziale, che spesso veniva proclamata per intere regioni, e che impediva alla gente di uscire anche solo per procurarsi da vivere e, o recarsi al lavoro fuori paese o anche solo fuori casa.

– La legge Pica, tirannica e sanguinaria, che istigava ad uccidere anche per semplici sospetti, contadini, pastori, vecchi, donne e bambini, impedendo loro di recarsi liberamente a procurarsi da vivere lavorando nelle campagne o sulle montagne. Non si poteva più andare fuori casa portando armi, anche insignificanti, come coltelli da cucina per tagliare il pane, falci, tridenti ed altri arnesi simili da lavoro. Era vietato perfino portare con sé anche cibo. Chi veniva sorpreso con vivande al seguito, veniva fucilato senza processo, col pretesto che detto cibo fosse per i briganti. I boscaioli, ad esempio, non potevano usare neanche asce e accette per i loro soliti lavori.

– La coscrizione militare obbligatoria che aveva sottratto, al sostentamento delle famiglie, i giovani che erano indispensabili per i lavori di ogni genere nei campi e nelle officine, costringendoli a 5 e 10 anni di ferma sotto le armi, tenendoli semincarcerati nelle caserme o impegnati sul terreno nella barbara guerra senza fine contro i propri conterranei che si erano dati al brigantaggio. e facendo morire tanti e tanti giovani del Sud a decine di migliaia nelle varie guerre e controguerre irredentiste, imperialiste e coloniali in Italia e dappertutto nel resto del mondo.

– La criminale ed affamatrice “tassa sul macinato” che aveva portato i prezzi delle granaglie e delle altre derrate alimentari più popolari, come il pane, a livelli proibitivi per la popolazione sempre più artificiosamente impoverita e ridotta in miseria ed alla fame vera e propria.

– Tutto l’oro e l’argento del Banco di Stato di Napoli e del Banco di Stato di Sicilia, che per un valore di circa 450 milioni di ducati d’oro e d’argento, fu confiscato, razziato senza rimborso, portato ed utilizzato solo per gli interessi dei boss massoni ebrei rothschildiani nel triangolo industriale di Torino, Milano-Genova, creato “ex novo” nel nord Italia, dove prima non c’era assolutamente nessunissima attività economica industriale ed avanzata.

– Le industrie di stato minerarie, estrattive, siderurgiche e militari di Mongiana, Ferdinandea e Bivongi, le industrie di stato meccaniche e ferroviarie di Pietrarsa, le industrie dei cantieri navali statali di Castellammare di Stabia, furono chiuse, smontate, rubate, razziate, portate via per essere poi rimontate più a Nord, specie a Terni, La Spezia, Genova, Torino, Milano, Brescia e Bergamo sempre nell’interesse dei pochissimi che se ne erano impossessati con la prepotenza e l’inganno.

– I beni della chiesa che ammontavano allora a circa due terzi di tutti i beni immobili del paese, furono confiscati e svenduti ad una borghesia avida e senza scrupoli, che a differenza della chiesa stessa che si accontentava al massimo di piccole decime, sfruttava invece i contadini ed i pastori fino al midollo, senza neanche dar loro la possibilità di avere di che mangiare per sè e per la propria famiglia.

– La maggior parte del popolo, che lavorava la terra, da proprietario divenne colono e schiavo, proletarizzato dal nuovo dittatoriale Stato tirannico, che si chiamava Regno d’Italia, ma che era, ed è ancora adesso, il principale nemico del Popolo Italiano, in particolare del Popolo dell’Italia del Sud.

– In sostanza di fronte a tanta miseria, a tante morti, a tante persecuzioni ed odiose angherie, la scelta che il nuovo e tirannico Stato massonico ebraico rothschildiano, in accordo criminale con la massoneria ebraica rothschildiana globale, diede al Popolo Duosiciliano fu solo questa scelta: << o Brigante!… o Emigrante!…>> per cui…

– Dal 1860 fino al 1875 andarono via dalla nostra terra 4 milioni di persone.

– Dal 1860 fino al 1914 ne andarono via 18 milioni.

– Dal 1860 fino ai nostri giorni ne sono andate via 36 milioni. e stanno continuando ad essere costrette da politiche volutamente antipopolari ad emigrare ancora adesso a centinaia di migliaia ogni anno.

Si tenga presente che la popolazione meridionale attuale ammonta a 35 milioni in Italia, di cui una parte notevole vive anche al nord.

In conclusione, questa particolare Unità d’Italia, voluta nell’esclusivo e fazioso interesse di una classe dirigente massonica, ebraica, rothschildiana, criminale, usuraia, estorsiva, razzista, assassina e nemica del Popolo Italiano in generale e del Popolo Italiano Meridionale in particolare, è stata un vero e proprio crimine contro l’umanità, tale e quale come l’attuale Unione Europea che, guarda caso, viene portata avanti a presente proprio dalle stesse identiche forze massoniche, ebraiche rothschildiane del 1860 e di quasi tutti i periodi successivi e di tutto il mondo che arrivano fino ai nostri giorni ed intrigano e complottano in tutto il mondo con gli stessi metodi diabolici e criminali suoi caratteristi di ieri, di oggi e di sempre. La lotta contro l’attuale dittatura e tirannia antipopolare massonica ebraica rothschildiana che adesso si spaccia per “europea”, tale quale come una volta si spacciava per “italiana”, è in realtà una lotta contro lo stesso nemico principale di sempre dei nostri antenati e di tutti i popoli d’Europa e del mondo intero, ad eccezione, ovviamente, dell’unico e solo “divino popolo eletto” del satanico Rothschild! Vi è quindi un’importantissima ed essenziale continuità di identità culturale, sociale, etnica e storica massonica, ebraica e rothschildiana tra la classe dirigente che oppresse e sterminò i nostri padri ed i nostri antenati dal 1860 in poi e quella classe dirigente attuale, contro cui dobbiamo fare i conti ancora adesso proprio noi, perché anche a presente essa di nuovo vuole invadere con nuove e peggiori orde barbariche, opprimere e sterminare non solo noi stessi, ma anche i nostri figli, nipoti e pronipoti per tenere il mondo tutto per sé e per la propria “divina eletta progenie”. Questa cognizione allora, della lotta senza tregua che si è svolta e si svolge e si svolgerà sempre di generazione in generazione tra noi ed i nostri tradizionali talmudici e diabolici nemici principali di sempre, deve spingerci ad essere più preparati idealmente e materialmente per potere resistere e contrattaccare in maniera più adeguata contro il nemico principale di sempre, senza più commettere le ingenuità e gli errori dei nostri pur amatissimi padri ed antenati, onde potere finalmente vincere e ribaltare positivamente e completamente una volta per tutte, o per lo meno per un bel pezzo, la nostra situazione e quella del nostro popolo nel suo complesso. Qualche ricordo:

Angelina Romano, nata il 5 novembre 1853, morta fucilata il 3 gennaio del 1862 a Castellamare del Golfo, perché accusata di brigantaggio. Vittima innocente della repressione sabauda. Questo è quanto risulta dall’archivio storico militare. Questo e tanto altro ancora la “storia ufficiale” non ha mai raccontato. Angelina era una bambina siciliana, che camminava scalza per le vie del suo paese. Aveva un faccino bello e pulito. La sua vita fu interrotta perché così vollero i predoni di quell’orda barbarica, che scese dal Piemonte per devastare, massacrare, violentare, rapinare, distruggere…  

La bella Michelina De Cesare fu stuprata, seviziata, violentata dai piemontesi il 30 agosto 1868. Fu tanto impavida quanto bella, con il suo formidabile intuito riuscì più volte a prevenire attacchi ed imboscate dei piemontesi. Il 30 agosto 1868 la banda del Guerra fu massacrata e Michelina ne seguì la stessa sorte. Il suo corpo fu spogliato ed esposto nella piazza del paese suscitando ire, risentimenti e scandalo. Dopo la sconfitta della squadra di cui faceva parte, Michelina De Cesare fu catturata dai piemontesi e sottoposta a tortura. Morta a causa delle atroci sevizie subite, fu spogliata ed esposta nella piazza del paese come monito alle popolazioni “liberate”. Ma l’effetto sulla gente inorridita dall’efferata vendetta fu opposto a quanto sperato dalle truppe d’occupazione: infatti l’accaduto generò nuovi risentimenti che rivitalizzarono l’affievolita reazione armata antiunitaria. Michelina De Cesare nacque a Caspoli, frazione del comune di Mignano, il 28 ottobre 1841.

Ninco Nanco, all’anagrafe Giuseppe Nicola Summa, nacque ad Avigliano 12 aprile 1833, fu ammazzato a tradimento dai piemontesi a Frusci il 13 marzo 1864. Dopo essere stato ammazzato fu anche sadicamente fotografato.

Le reali Ferriere ed Officine di Mongiana (Calabria) furono distrutte dal nuovo Stato unitario – Regno d’Italia – nel 1881. – Le industrie di stato minerarie, estrattive, siderurgiche e militari di Mongiana, Ferdinandea e Bivongi, le industrie di stato meccaniche e ferroviarie di Pietrarsa, i cantieri navali statali di Castellammare di Stabia, furono chiuse, smontate, rubate, razziate, portate via per essere rimontate più a Nord, specie a Terni, La Spezia, Genova, Torino, Milano, Brescia e Bergamo sempre nell’interesse dei pochissimi che se ne erano impossessati con la prepotenza e l’inganno.

·         L’esercito piemontese d’invasione del Meridione d’Italia: razzista ed analfabeta.

Carlo Alberto, la leva, le guerre. Storia d’Italia attraverso l’esercito. Pubblicato domenica, 28 luglio 2019 da Lorenzo Cremonesi su Corriere.it. Parlare di esercito e militari significa affrontare il tema della sovranità, del monopolio della forza, di come un Paese considera i propri cittadini e con quali modalità il concetto di cittadinanza si modifica nel tempo. Ma significa anche seguire i grandi fatti che caratterizzano quel Paese, le guerre, le minacce percepite, i suoi interessi geo-strategici, i rapporti con i vicini, le alleanze e i loro mutamenti, la capacità di rinnovamento tecnologico, la disponibilità a spendere una parte più o meno cospicua delle ricchezze nazionali per acquistare nuove armi e addestrare i propri uomini al loro utilizzo. Sono tanti i motivi per segnalare la notevole rilevanza del nuovo volume di Claudio Vercelli sulla storia dell’esercito italiano, Soldati (Laterza), che in realtà si rivela una ricca e documentata cavalcata dal Risorgimento ai nostri giorni, dove il filo rosso delle trasformazioni subite dalle forze armate diventa lo specchio fedele dei mutamenti della società da una prospettiva tanto originale quanto inaspettatamente fertile e carica di suggestioni. La copertina del libro di Claudio Vercelli «Soldati. Storia dell’esercito italiano» (Laterza, pagine 328, euro 25). Un esercito dunque che ha origine nelle vicende belliche europee dei Sei-Settecento, figlio delle concezioni maturate nelle monarchie assolute, con le compagnie di ventura e i mercenari prezzolati ben contenti di razziare appena possibile; dove la distanza tra soldati e ufficiali era siderale e i cadetti delle grandi casate nobiliari guardavano ai loro uomini come «carne da cannone» sacrificabile senza problemi in conflitti essenzialmente mirati ad arginare e controllare l’avversario, senza quasi mai annullarlo del tutto. Concezioni che mutano radicalmente con la leva obbligatoria introdotta dopo la Rivoluzione francese e la nascita dei cittadini-soldato e vengono rapidamente assimilate nella nuova era del «risveglio delle nazioni». È impressionante pensare che circa un terzo dei 65 mila effettivi dell’esercito di Carlo Alberto all’inizio della Prima guerra d’indipendenza fosse composto da volontari (di cui 4.500 lombardi, 9 mila veneziani, oltre a 1.600 napoletani). Sebbene poco efficienti dal punto di vista militare, il dato aiuta a capire la popolarità e il consenso che le forze armate dei Savoia destinate a diventare motore primo dell’unificazione godevano tra la loro popolazione. Un consenso che tuttavia per l’opinione pubblica dello Stato dopo l’unità si rivela ondivago, incostante e per nulla garantito. Pochi protestano allora che oltre il 40 per cento della spesa pubblica sia destinato all’esercito, con un onere crescente per la nuova Marina. Ma i militari restano una casta, nel 1860 quasi l’80 per cento degli ufficiali è piemontese. E il primo impegno militare unitario è rivolto alla repressione del brigantaggio nel Meridione, dove le simpatie verso le nuove istituzioni sono a dir poco tiepide, se non quasi nulle. Tra il 1860 e il 1865 vengono inviati ben 120 mila soldati nell’Appennino meridionale. Un numero gigantesco se si ricorda che allora l’intero esercito italiano contava 250 mila unità. I problemi volti a inquadrare e addestrare reclute arrivate da tutto il Paese sono giganteschi. La leva del 1847 ha tassi di analfabetismo che sfiorano il 60 per cento. Un dato che diminuisce lentamente solo dopo la Prima guerra mondiale. Eppure, è indicativo che negli anni Cinquanta del Novecento il distretto militare di Monza (siamo nel cuore del Triangolo industriale) registri ancora il 20 per cento di analfabeti tra i coscritti, oltre al 60 per cento con la sola quinta elementare, 4 per cento diplomati e meno dell’un per cento laureati. Una trentina d’anni dopo l’analfabetismo è scomparso, mentre diplomati e laureati sono circa la metà. Il Paese è totalmente mutato. All’ostilità popolare verso soldati e generali cresciuta dopo le sconfitte della Seconda guerra mondiale e le vergogne dell’8 settembre 1943 si aggiungono il pacifismo e il diffuso sentimento anti-naja maturati con le rivolte studentesche del 1968. L’ultimo richiamo generale alla leva riguarda la classe del 1985. Ma da allora l’esercito di professionisti volontari (ridotto a un massimo di 190 mila unità) cambia radicalmente volto. Oggi il grado di consenso nei suoi confronti è in rilevante aumento e le missioni di pace nel mondo contribuiscono in parte ad alimentarlo.

·         Battaglie e sofferenze degli italiani: un secolo di guerre.

Battaglie e sofferenze degli italiani: un secolo di guerre. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 su Corriere.it da Pier Luigi Vercesi. Dal 1848 al 1945 il nostro Paese ha affrontato la prova delle armi. Le lotte per l’indipendenza, le imprese coloniali, i due conflitti mondiali. Quanti «futuri» sono stati rubati nell’Italia e nell’Europa del Secolo breve, il Novecento, inaugurato da due colpi di pistola sparati a Sarajevo nel 1914 e conclusosi, trent’anni fa, con la prima picconata a un Muro che spezzava in due Berlino, città incastonata nel cuore del continente? Furono milioni i morti e milioni i sopravvissuti, feriti nel corpo e nello spirito, con un desiderio di vendetta represso finché un demagogo non lo trasformò in un’ondata d’odio e in nuovi conflitti. La copertina del volume firmato da Isnenghi e Rochat in edicola con il «Corriere» il 29 ottobre Per millenni le guerre sono state raccontate con toni epici, consegnando alla storia, con l’appellativo di «grandi», coloro che le avevano scatenate, combattute, vinte. Persino la letteratura occidentale fece capolino con il massacro che distrusse la città di Troia. Giulio Cesare entrò nel mito narrando personalmente le proprie imprese condotte a fil di spada. Napoleone insanguinò l’Europa facendo credere di rincorrere un anelito di libertà. Noi italiani, di guerre combattute nel continente ce ne siamo lasciate sfuggire ben poche. Spesso fratricide, di città contro città, schierandoci con questo o quel dominatore, ridotti a colonie da depredare, fino a quando ne abbiamo dichiarate tre, nell’Ottocento, per realizzare il processo di indipendenza nazionale divenuto improrogabile. Le combattemmo con astuzia, tessendo alleanze, costruendo il consenso che permise la formazione del regno sotto l’egida dei Savoia. Governava Camillo Benso di Cavour, che non si distinse con la spada sul campo, bensì con il fioretto nei consessi diplomatici. Furono guerre d’élite, antiche, combattute da volontari, e portarono al consolidamento delle terre conquistate attraverso plebisciti. Eppure, anche in quelle, sacrosante nella logica dei tempi, vi furono molte ombre. Da allora, le guerre d’Italia sono cominciate tutte con il piede sbagliato. A partire da quella in Africa, a fine Ottocento, con la tragica sconfitta di Adua, e dalla velleitaria italo-turca, del 1911, per la conquista della quarta sponda, la Libia. Poi entrammo nella Grande guerra, l’anno successivo allo scoppio, presentandola, attraverso la propaganda, alla stregua di una nuova guerra d’indipendenza, grazie alla quale, con pochi sacrifici, avremmo liberato Trento e Trieste. La sceneggiata allestita per il popolo durante le «radiose giornate» di maggio, però, faceva seguito a una decisione già presa, a un trattato segreto firmato a Londra in aprile. La Corona d’Italia aderiva alla folle resa dei conti programmata da pochi sonnambuli che muovevano le pedine dalle retrovie: giocavano una partita eccitante dalle loro sfarzose residenze e, se solo mettevano piede ad alcune miglia dalla linea del fuoco sotto a una tenda da campo, si guadagnavano l’epiteto di «sovrani-soldato». Per i conflitti successivi, dall’invasione dell’Etiopia all’entrata in guerra al fianco della Germania, non vi sono più scusanti patriottiche. Furono le guerre di Mussolini, non degli italiani, di un uomo a cui venne concesso di governare il Paese come dittatore assoluto. Non furono nemmeno le guerre dei suoi gerarchi: durante l’ultima seduta del Gran Consiglio nel 1939, ad esclusione di Farinacci, tutti gli alti papaveri del regime si dichiararono per la non belligeranza. Anzi, Italo Balbo, non certo un democratico, prese la parola per sostenere che, qualora fossimo stati trascinati in un conflitto, la nostra parte doveva essere quella dei francesi e degli inglesi e non quella del fanatico Adolf Hitler. Come andò a finire lo sappiamo con profusione di dolorosi particolari. Il problema è che, dopo oltre settant’anni di pace, pur con l’angoscia della catastrofe nucleare alimentata dalla guerra fredda, tutte queste vicende di dolore, sopraffazione e devastazioni sono diventate un’eco lontana, come se fossero accadute ad altri e in altri mondi. Non è a caso che il «Corriere della Sera» abbia deciso di raccogliere in una collana i testi fondamentali, scritti dai più importanti storici, per capire che cosa siano stati, per gli italiani, cent’anni vissuti con le armi in pugno. Il primo volume è una pietra miliare della nostra storiografia, firmato da Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La Grande guerra 1914-1918. Vi è un capitolo che da solo basta a farci rabbrividire, a risvegliare le coscienze per comprendere che cosa abbia rappresentato per i nostri nonni e per i nostri padri la follia dei demagoghi che consideravano l’uomo uno strumento da utilizzare per soddisfare i propri interessi. È quello dedicato alla vita di trincea, vissuta come animali in attesa del macello: da un momento all’altro poteva arrivare l’ordine di balzare fuori e di lasciarsi falcidiare da una mitraglia. Anche senza motivo. Una parola sbagliata, un tentennamento e si finiva davanti al plotone d’esecuzione, fucilati anche senza colpa per l’abominevole pratica della decimazione voluta dal capo di stato maggiore Luigi Cadorna. Gli uomini, i cittadini del giovane Stato, erano diventati «carne da cannone». Vigeva l’«etica della rassegnazione», avallata anche dai cappellani. Questa è la guerra.

·         Sud, un errore lungo 70 anni.

Francesca Paci per “la Stampa” il 5 novembre 2019. Sud Italia e Centro-Nord non sono mai stati così lontani. Nonostante il reddito di cittadinanza (con un impatto per ora pressoché irrilevante sul lavoro) e le sempre annunciate buone intenzioni della politica, il Meridione resta un mondo a parte, dove la crescita ristagna più che altrove e negli ultimi vent' anni almeno due milioni di persone sono emigrate in cerca di futuro, la metà dei quali under 34, quasi un quinto laureati. Il quadro fornito dal rapporto annuale sull' economia del Sud, Svimez, è a dir poco cupo. Secondo gli studiosi, dalle cui fila viene il nuovo ministro per il Mezzogiorno ed ex ricercatore Giuseppe Provenzano, il gap occupazionale con le regioni settentrionali è passato in dieci anni dal 19,6% al 21,6%, con una differenza di circa 3 milioni di posti di lavoro. Di più: se di lieve crescita si può parlare, la tendenza positiva dei primi mesi del 2019 riguarda esclusivamente il nord Italia, dove venivano registrate 137 mila nuove assunzioni mentre dalla parte opposta della capitale se ne perdevano 27 mila. Con un Pil in calo dello 0,2% (contro il +0,3% del Centro-Nord), il sud, dicono i dati Svimez, è tecnicamente in recessione. E le prospettive non sono rosee, se per il 2020 si prevede una crescita del +0,2% a fronte di un media nazionale del +0,6%. Da questo punto di vista, pur non essendo giudicato negativamente dal rapporto, il reddito di cittadinanza impatta ben poco: da un lato non avvicina le persone al mercato del lavoro, dall' altro alimenta l' illusione che «la povertà» si combatta «solo con un contributo monetario» e infine semplifica la divisione dell' Italia in due blocchi, quello «produttivo» e quello «assistito». Il risultato è la fuga dei cervelli, delle braccia, dell' energia vitale. «L'emorragia che svuota il Sud è il problema più grave e ci racconta anche quanto non sia più attuale la visione del Mezzogiorno di origine salveminiana e federalista, per cui a certe condizioni quella terra si sarebbe risollevata autonomamente», spiega a La Stampa Emanuele Felice, docente di politiche economiche all' università di Pescara e autore del corposo saggio Perché il Sud è rimasto indietro. Secondo Felice negli ultimi 10 anni le cose sono cambiate e tanto: «Oggi, in un mondo aperto, se il Meridione viene lasciato solo si svuota. Sta già accadendo. Un tempo la fertilità era alta, il saldo tra chi emigrava e chi restava era positivo. Da tempo però la curva volge al basso, ora la crisi demografica è più forte al Sud che al Centro-Nord. La tendenza è in aumento, a meno d'invertire la rotta con una terapia d'urto dall' alto, investimenti, infrastrutture, istruzione, istituzioni». Calcola Svimez che se in Italia mancano i bambini, al Sud ne mancano ancora di più, con 6 mila nati in meno l' anno rispetto ai 157 mila del 2017. Senza un cambio di passo nel 2065 «la popolazione in età da lavoro diminuirà del 15% nel Centro-Nord e del 40% nel Mezzogiorno con un perdita nazionale di un quarto del Pil (un terzo al Sud). «Se riparte il Sud riparte l' Italia», replica il premier Giuseppe Conte, insistendo che lungi dall' essere uno slogan si tratta di una priorità del suo governo e annunciando il Piano per il Sud «entro fine anno». Le lancette corrono però, e tenere il passo tutti insieme è una scommessa.

Lascia Gravina per andare al Nord, la lettera dal bus: «Qui c’è lavoro, ma al Sud c’è vita». La storia di Erika, 23 anni, che nel suo ennesimo viaggio in pullman per tornare a Milano scrive alla Gazzetta. Graziana Capurso il 4 Novembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Lascia la sua casa e la sua famiglia a Gravina in Puglia per tornare al Nord a studiare: è una storia come tante, quella di Erika Perrone, 23 anni, studentessa fuori sede alla Bicocca di Milano. Dopo aver trascorso qualche giorno con i suoi familiari al Sud, ha preso il suo bus per ritornare alla vita quotidiana fatta di libri e lezioni. Ma durante il viaggio verso la sua nuova "dimora" la malinconia si è fatta sentire più del solito, così ha scritto un appello denso di rabbia alla Gazzetta del Mezzogiorno. Una lettera simbolo di una generazione in fuga che vorrebbe restare nella propria terra ma che è costretta a spostarsi come nomadi alla ricerca di un futuro migliore. A supportare questo allarme anche i dati 2019 dello Svimez che documentano il progressivo abbandono del Sud da parte dei giovani. Ecco le sue parole: «Oggi...solo dopo oggi posso dire di aver capito tutti coloro che prima di partire lontano da casa, alla ricerca di fortuna o di una semplice possibilità in più, ci hanno pensato mille e più volte, scegliendo, a mio avviso, la strada più difficile. L’ho capito oggi al termine di questo piccolo ponte, tornata per trascorrerlo nel mio paesino immerso nella Murgia barese, con le persone che amo e che fino a qualche mese fa facevano parte della mia quotidianità. Quando,dopo il lungo viaggio, sono arrivata a casa e ho chiuso la porta alle mie spalle ho provato un’emozione mai sentita prima, un’emozione fortissima. Come se la bolla di preoccupazioni, ansie, difficoltà che la vita da studente fuori sede ti porta ad avere e che io stessa avevo sulle spalle, appena poggiate le chiavi di casa sul mobiletto accanto la porta sia scoppiata. Mi sono sentita leggera per la prima volta, ma non una leggerezza fatta di libertà, una leggerezza di sicurezza che solo la tua casa ti può far provare. Tra le varie emozioni che mi hanno inondata, però, ho provato anche rabbia. Tanta rabbia nel pensare al perché ho dovuto allontanarmi da casa mia per studiare al Nord. Mi sono chiesta perché da noi non ci siano gli stessi corsi di studio e il perché il Sud offra meno lavoro, non siamo mica più scemi?! No!» «Vivere al Nord in una grande metropoli è bellissimo, questo è vero: non ci si sente mai stanchi di quello che la vita lì può offrirti. Ma casa è casa e allora mi chiedo perché?. Perché dei ragazzi devono “essere costretti” a trasferirsi per realizzare i propri sogni? Perché dobbiamo cercare fortuna lontano dai nostri affetti? Perché il Sud allontana le sue risorse e non le tiene strette a sé?! Signori al Nord c’è lavoro è vero, ma al Sud c’è vita. La mia vita e come la mia quella di tanti altri e io, onestamente voglio vivere!».

«Non siamo emigranti, sappiamo volare!», la risposta di una fuorisede alla lettera alla «Gazzetta». Elisabetta, ex studentessa fuorisede, risponde alla giovane che qualche giorno fa scriveva al nostro giornale: «Al Nord c'è lavoro, ma al Sud c'è vita». La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Novembre 2019. La telefonata di mio padre arriva inaspettata. «Ti giro la lettera di una studentessa fuorisede che è stata pubblicata oggi sulla Gazzetta. Lei (sottolinea il “lei” con un sospiro) è tornata a casa per il ponte dei morti e le dispiace ripartire». Ecco allora il motivo della chiamata: farmi sentire in colpa, io, per lo stesso «ponte», ho preferito prendere un aereo e andarmene in Spagna… «Ok papà, ma dopo che l’ho letta?». «Pensaci». Così leggo le riflessioni di Erika e la prima cosa che provo è appunto un senso di colpa: io scendo a casa giusto a Natale e in estate, per il resto tra Torino, dove stavo fino a qualche mese fa, e Milano, dove sono ora, ho solo l’imbarazzo della scelta per voli a basso costo che mi permettono di girare l’Europa. Tra l’altro ho amici a Londra, altri in Spagna… Che sia chiaro, amo i miei genitori, giù ho una nonna che adoro, ma se posso viaggiare ed esplorare posti nuovi è sempre la mia prima scelta. Continuo a leggere. Erika scrive: «Al Nord c’è lavoro, è vero, ma al Sud c’è vita». Beh, forse papà aveva ragione, una riflessione c’è da fare. A questo punto il mio senso di colpa si dissolve. No, non sono d’accordo. Io non mi sento penalizzata nell’essermi dovuta spostare per studiare o lavorare, probabilmente lo avrei fatto anche se a Bari avessi avuto tutte le possibilità lavorative del mondo. Ho 26 anni, ho conseguito la triennale a Bari, la specialistica a Torino dove ho iniziato a lavorare una settimana dopo la mia laurea, ora sono a Milano perché mi sono resa conto che per centrare l’obiettivo che mi sono prefissa ho bisogno di una ulteriore specializzazione. Così ora lavoro part time e ho ripreso i miei studi, anche per aiutare economicamente i miei nelle mie scelte. Sono grata dell’opportunità che sto avendo e penso che l’avrei fatta fuori dalla mia città comunque. Perché voglio mettermi alla prova, perché già dopo i 16 anni la mia stanzetta a casa mi stava stretta, perché penso che la vita sia un buon lavoro, che ti permette di incontrare gente e fare nuove esperienze, perché non mi sono sentita costretta ad andar via, ma una privilegiata a poterlo fare. Forse tra 15 anni, se ne avrò la possibilità, tornerò «a casa» ma ora no, ora voglio vedere e sperimentare. Richiamo papà: «Ti voglio bene, lo sai? Perché tu e mamma mi avete insegnato a volare». (lettera di Elisabetta, ex studentessa fuorisede) 

“LA RICHIESTA DI AUTONOMIA DELLA LEGA E' UN TRUCCO PER RUBARE ALTRI SOLDI AL SUD”. Dagospia il 6 novembre 2019. Da radiocusanocampus.it. Pino Aprile, scrittore e giornalista, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sulle condizioni del sud Italia. “Abbiamo visto anche in un’inchiesta di Report come i soldi destinati al sud vengano sottratti al sud a chi ha meno e portati al nord a chi ha più –ha affermato Aprile-. E’ un furto. La legge Calderoli sul federalismo fiscale aveva stabilito che venisse quantificato quello che costano i servizi destinati ai cittadini italiani e il quantificato sarebbe stato dato agli amministratori delle regioni in maniera uguale per tutti. Loro dicono che al sud non sanno amministrare, ma quando hanno fatto i conti si sono accorti che non era vero, era tutto frutto di pregiudizi. Se si applicasse la regola dell’uguale per tutti, Calederoli ha detto che il nord rimarrebbe col cappello in mano. Allora non sono più stati calcolati i livelli essenziali ed è partita la richiesta dell’autonomia. Si è trovato un trucco per rubare altri soldi al sud”. Secondo l’ultimo rapporto Swimez 2 milioni di persone lasciano il sud. “E’ una tragedia epocale. E’ la fine di tutto il Paese. Ovunque ci sia un Paese duale, con una parte più sviluppata dell’altra, le nazioni falliscono e noi siamo al fallimento. In un Paese in cui c’è un calo demografico di questo tipo non si dormirebbe la notte per risolvere il problema e invece qui si alimentano le condizioni per far scappare via i giovani. Non è che il sud vada meno veloce del nord, è che al sud viene impedito di andare più veloce. L’Italia unificata è nata perché forse funzionale allo sviluppo della civiltà industriale che si andava imponendo in tutto il mondo alla stessa maniera, con la creazione di colonie interne. Una parte del territorio viene impoverita in modo che quelle risorse, trasferite in un’altra parte del Paese, vadano a creare le fabbriche e la parte diventata più povera vada a riempire quelle fabbriche a basso costo. La classe dirigente locale comanda finchè lo fa nei termini, nei modi e negli interessi di quel potere economico del nord. I capilista del Pd al sud sono almeno per il 50% uomini del nord mandati al sud. La Lega al sud ha mandato commissari del partito a governare le colonie. Michele Emiliano quando ha provato a porre il problema del sud nel Pd, Renzi gli ha scatenato contro una guerra nucleare”. Sul reddito di cittadinanza. “Non è la soluzione, però faccio notare che il reddito di cittadinanza dato a chi ha bisogno sta sollevando grandi polemiche, mentre nessuna polemica sugli 80 euro calibrati da Renzi soltanto per i redditi medio-bassi. Sono andati tutti al nord e nessuno ha fiatato”.

Boccia (Pd): “L’autonomia secondo Fontana e Zaia serve a spaccare definitivamente il Paese”. “Il Paese è già stato spaccato in passato. Se guardiamo tutto il bilancio dello Stato si capisce che il sud è già stato abbandonato da decenni”. Paola Venturelli lunedì 22 Luglio 2019 su Italia Chiama Italia. Francesco Boccia, deputato del Pd, è intervenuto su Radio Cusano Campus sul caso Autonomia: “L’autonomia secondo Fontana e Zaia serve a spaccare definitivamente il Paese. La loro idea è ‘lavoro-guadagno, pago-pretendo’, con questa impostazione non vanno da nessuna parte”. “Il Paese è già stato spaccato in passato. Guardiamo Ferrovie, io ho pagato le tasse in questi 25 anni e con le mie tasse l’alta velocità è stata garantita al nord, che facciamo saliamo dal sud al nord con gli zainetti, smontiamo i binari dell’alta velocità e ce li portiamo al sud? Nella mia Puglia l’anno scorso la crescita è stata del 3%, non ha nulla da invidiare alle altre regioni e ha dimostrato che ci può essere un mezzogiorno diverso. Rispetto ai numeri, in Puglia 4,5 dipendenti comunali ogni 1000 abitanti, l’efficiente Lombardia 6,5 ogni 1000, che facciamo mandiamo un pullman in Lombardia e ci portiamo giù due dipendenti? Se guardiamo tutto il bilancio dello Stato si capisce che il sud è già stato abbandonato da decenni. Io ho fatto un’interpellanza parlamentare nella quale chiediamo al governo se siano veri o meno alcuni dati che riguardano la differenza che in questi anni non è stata erogata al mezzogiorno su investimenti pubblici e su alcuni servizi mirati. Negli ultimi 20 anni il mezzogiorno ha avuto 61 miliardi in meno. Se vogliamo parlare di autonomia facciamolo, recuperiamo quei 61 miliardi e poi sediamoci al tavolo con tutte le regioni. Dobbiamo fissare, come dice la Costituzione, i livelli essenziali di prestazioni. Dobbiamo decidere cosa viene garantito a tutti gli italiani sui servizi pubblici e sui servizi alla persona. La storia che le siringhe costano meno al nord e più al sud è una bufala, una cosa ridicola. Certo, poi ci sono luoghi dove sono stati fatti disastri, ma questo non significa nulla. Questa ricostruzione grottesca che al nord c’è l’efficienza e al sud no la rifiuto totalmente”. Sul PD. “Penso che Zingaretti abbia avuto sulle proprie spalle un onere non semplice, quello di mettere insieme i cocci di un partito che è stato giudicato dagli elettori. Per questo trovo stucchevoli le beghe interne, come quelle di Renzi che è andato in Silicon Valley, dove ci sono elusori ed evasori fiscali, anziché andare nei politecnici italiani. Zingaretti si è insediato il 17 marzo, ha riportato il partito al 23%. Abbiamo anche il presidente del Parlamento europeo del PD. Zingaretti ha uno stile che è quello di costruire e non distruggere, mettere insieme e non separare o scindere. Si stanno sciogliendo i dubbi e i nodi sui singoli dossier. Dopo la Costituente delle idee sarà chiaro a tutti l’impianto che il PD presenta alla società italiana”. Sulla mozione di sfiducia. “E’ stato un errore presentare la mozione di sfiducia in quel modo. Quando cade un governo lo decidono i componenti del governo. E’ evidente che quella mozione in quel momento non può far altro che ricompattare la maggioranza. Era più giusto ascoltare il premier riferire in Senato e poi decidere”.

Sud, un errore lungo 70 anni. Angelo Allegri, Mercoledì 10/07/2019, su Il giornale. La Romania non è considerata di solito un modello di gestione dell’economia. Ma vista dal Meridione d’Italia la prospettiva può essere diversa. Nel 2017 il reddito pro capite dei rumeni ha uguagliato quello del Mezzogiorno e dato il tasso di crescita di Bucarest e dintorni, il silenzioso sorpasso è avvenuto nel corso del 2018. Dalla Lettonia alla Slovacchia, i Paesi ex comunisti che hanno aderito alla Ue, con l’eccezione della Bulgaria, sono, a parità di potere d’acquisto, ormai più ricchi, e in qualche caso di parecchio, dell’Italia meridionale (vedi anche il grafico in queste pagine). Andrea Giuricin, docente alla Bicocca di Milano, ha commentato con un tweet di malinconica ironia: «Tra un po' vedremo grandi flussi di immigrati dal Sud Italia verso i Paesi dell'Est Europa? Orban li respingerà?». La più grande regione sottosviluppata dell’Europa occidentale, l’area che va dalla Campania alle Isole, consolida anno dopo anno il suo poco lusinghiero primato. Ed è difficile spiegare il perchè. Riccardo Faini, uno dei più grandi esperti di problemi dello sviluppo, morto qualche anno fa, parlò a suo tempo di «una lunga serie di enigmi irrisolti».

PROGRAMMI FALLITI. L’unica cosa sicura è che le medicine fin qui somministrate al paziente non hanno funzionato. Le differenze di reddito tra Nord e Sud sono diminuite in maniera significativa solo tra gli anni 50 e la metà degli anni 70, ai tempi della costruzione delle grandi infrastrutture e dell’industrializzazione condotta a tappe forzate dai gruppi pubblici. Poi, fatte le strade e andato in crisi il modello delle cattedrali nel deserto ad alto consumo di energia, il gap è tornato a crescere. Negli ultimi 30 anni, chiusa la Cassa del Mezzogiorno nel 1992, gli interventi straordinari hanno assunto le forme e i nomi più diversi: contratti di programma, contratti d’area, patti territoriali, senza parlare della legge numero 488 del 1992 e dei fondi strutturali europei. Due economisti della Banca d’Italia, Antonio Accetturo e Guido De Blasio, si sono presi la briga di esaminarli tutti e di costruire dei modelli econometrici per valutarne i risultati. In un pamphlet appena pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni («Morire di aiuti»), hanno sintetizzato il giudizio: le forme di sostegno via via applicate in Italia non sono servite praticamente a nulla. Un buon esempio è quello dei contratti di programma, avviati nel 1986: qui a intervenire di solito è il governo, che concorda con un azienda privata (l’esempio più noto è quello della Fiat di Melfi) la localizzazione di nuovi impianti, le condizioni di insediamento, e la compensazione finanziaria. Per valutare gli interventi di questo tipo (fino al 2010 avevano coinvolto 413 comuni del Sud) sono state selezionate aree di controllo il più possibile simili a quelle in cui è stato avviato l’impianto industriale. Nel tempo le differenze si sono rivelate poco significative. E gran parte della maggiore crescita è avvenuta a scapito delle aree vicine a quelle interessate dal Contratto, con un effetto «spiazzamento», dicono i due economisti, tipico di quando si attuano programmi di sostegno rivolti ad aree limitate. Qualche effetto degli incentivi pubblici, a dir la verità, sembra esserci stato. Purtroppo non positivo. Accetturo e De Blasio si sono chiesti se è un caso che nel Sud la criminalità organizzata sia più forte e il cosiddetto capitale sociale (l’insieme di valori di fiducia e di capacità cooperativa che fanno da lubrificante dell’economia) più debole. Anche in questo caso hanno confrontato aree simili tra loro: zone il cui reddito è appena superiore al 75% di quello medio europeo, con zone in cui in cui il reddito è di poco inferiore. La cifra è uno spartiacque importante: chi guadagna di meno riceve gli aiuti europei, chi di più resta a mani vuote. Il risultato è che i sussidi «hanno avuto un effetto negativo sulle dotazioni di fiducia e correttezza tra individui». Non solo. I due autori hanno incrociato i dati finanziari con le banche dati su reati e delinquenza, concludendo che «esiste una correlazione tra i fondi strutturali che un comune riceve e gli episodi di corruzione». Quello che accade nella pratica è del tutto intuitivo: la poggia di soldi che arriva da lontano contribuisce non tanto al rafforzamento di una moderna classe imprenditoriale, quanto alla formazione di un ceto di «cercatori di rendita», professionisti del sussidio e della negoziazione, trasparente o meno, con gli enti pubblici.

CONTA LA QUALITÀ. Confrontando il caso italiano con gli esempi stranieri gli economisti di Bankitalia arrivano alla conclusione che l’efficacia dei finanziamenti e la riduzione dei loro effetti distorsivi dipendono da alcune pre-condizioni: «i risultati positivi paiono trainati da un pugno di regioni ben amministrate e con una forza-lavoro istruita. Le altre sembrano arrancare». La conclusione è perfettamente in linea con le tesi oggi prevalenti tra gli studiosi: per lo sviluppo servono capitale umano e qualità delle istituzioni. Ma come si misura la qualità delle istituzioni? E come è messa l’Italia? Per arrivare a una risposta viene utilizzato un indice messo a punto dall’Università di Göteborg, Quality of Government, che misura nelle regioni dei 27 Paesi della Ue l’intreccio tra attività pubblica e qualità di servizi come istruzione, sanità, giustizia. Il risultato? Sconfortante. Tra i Paesi dell’euro l’Italia è quasi sempre penultima battendo solo la Grecia. La distanza tra la Regione più efficiente e meno efficiente d’Italia è doppia rispetto agli altri Paesi, anche di quelli che presentano l’eterogeneità maggiore. Ma nel caso italiano la distanza tra i primi e gli ultimi è un po’ un’illusione ottica, perchè in testa, lontanissime dal resto del gruppo, ci sono solo Trento e Bolzano. Se si tolgono loro due, perfino le rimanenti aree del Nord sono «meno efficienti rispetto alle peggiori Regioni di Spagna, Francia e Germania», spiegano Accetturo e De Blasio, che concludono: «La bassa qualità delle istituzioni è quindi un problema italiano, da Milano a Palermo (ma come sempre più accentuato nel Sud)».

ADDIO COMPETENZE. Resta da valutare la qualità e il livello del capitale umano. Secondo gli autori di «Morire di aiuti», anche qui non sono rose e fiori. L’espansione dell’offerta universitaria degli anni 90 ha contribuito alle iscrizioni di studenti meno brillanti, e questi ultimi, in assenza di forti incentivi al conseguimento di un titolo superiore, hanno fatto salire il tasso di abbandono: «l’accumulazione del capitale umano è di fatto rimasta stabile». Nel Sud poi la «dissipazione di competenze» è un problema serio: molti tra gli studenti più brillanti si iscrivono direttamente alle università del Nord, considerate migliori sia al punto di vista della didattica sia da quello della ricerca scientifica. E molti tra i laureati in atenei meridionali trovano le offerte più interessanti al Nord. Più o meno le stesse cose le ha di recente spiegate al Sole 24 Ore Marc Lemaitre, responsabile delle Politiche Regionali della Commissione Europea. L’intervistatore, Giuseppe Chiellino, gli ha chiesto come mai la Polonia e il Mezzogiorno, destinatarie di aiuti europei in misura tutto sommato analoga (239 all’anno per un polacco contro i 200 di un residente nel Meridione), avessero tassi di crescita così diversi tra loro: nel 2018 il 5,1% in Polonia e lo 0,6 nel Sud. Nella prima risposta Lemaitre ha parlato di salari: «Il Sud è parte di un sistema Paese più sviluppato, con un costo del lavoro molto più alto che diventa un problema serio quando si fa il confronto in termini di produttività». Poi ha citato gli aspetti a prima vista meno tangibili. «La Polonia ha un sistema educativo di alta qualità, mentre l’Italia ha molte debolezze». Infine il tema della qualità dell’amministrazione: «Per capirci», ha detto Le Maitre, in Polonia i progetti e gli appalti vanno avanti a passo spedito, al contrario di quanto avviene in Italia e nel Mezzogiorno». Sarebbe ora di prenderne buona nota.

·         I predoni stranieri dell'Italia.

I predoni stranieri dell'Italia. I colossi stranieri prendono i nostri marchi e scappano, come nel caso del Parmigiano Reggiano. E noi lasciamo fare. Mario Giordano il 7 giugno 2019 su Panorama. Come si dice Parmigiano Reggiano in francese? Se lo sono chiesti in molti, alcuni giorni fa, quando è uscita la notizia che il colosso francese della Lactalis stava puntando su Nuova Castelli, principale esportatore nel mondo del nostro formaggio tipico. E subito si sono levate domande angosciate: un altro gioiello della nostra gastronomia che finisce all’estero? Davvero gli stranieri ci stanno mettendo i piedi in tavola? Perché lasciamo che si pappino, boccone dopo boccone, tutti i nostri cibi più ricercati? L’amarezza da Parmigiano Reggiano è stata appena mitigata dalla consapevolezza che Nuova Castelli è un bel po’ che non è più italiana: infatti è di proprietà del fondo inglese Charterhouse, che l’ha comprata nel 2014. E in inglese Parmigiano Reggiano non suona certo meglio che in francese. Anzi, l’abbinamento del formaggio dop con il fish&chips potrebbe essere ancor più deleterio. Quasi da crimini contro l’umanità. Ma il fatto stesso che la partita su uno dei nostri patrimoni gastronomici si giochi sull’asse Parigi-Londra, con la timida intromissione dell’italiana Granarolo, la dice lunga su come ormai il cibo tricolore sia diventato terra di conquista dei predoni stranieri. Che spesso comprano le aziende italiane soltanto per potersi fregiare dell’etichetta prestigiosa, spostando produzioni e centri decisionali altrove. Prendi il marchio e scappa, insomma, come ha dimostrato il recente e famoso caso della Pernigotti di Novi Ligure: l’azienda che produceva cioccolata dal 1860, cioè da prima dell’unità d’Italia, quella che ha fornito la mensa dei re e dei principi, tanto da tenere lo stemma di casa Savoia nel suo simbolo commerciale, è stata venduta a un grande gruppo turco. Il quale, ovviamente, ha deciso di spostare la produzione in Turchia, Paese noto in tutto il mondo per il rispetto della democrazia e per la qualità dei gianduiotti. Ironicamente, eh. L’elenco, per altro, potrebbe essere lunghissimo. I formaggi Galbani, Invernizzi, Locatelli e Cadermartori sono già dei francesi. Gli oli Carapelli, Sasso e Bertolli sono spagnoli. La birra italiana per eccellenza, la Peroni, è giapponese (dopo essere stata un po’ anche sudafricana). I vini Gancia sono russi. L’oro Saiwa brilla negli Stati Uniti, la Sperlari è tedesca, Orzo Bimbo francese, Martini e Rossi americana, come le Fattorie Osella, con buona pace di nonno Osella che oltre cent’anni fa scendeva dall’alpeggio per vendere i suoi formaggi a Carmagna Piemonte. Pummarò è degli spagnoli, Sogni d’oro pure, la Stock è passata a un fondo americano che ha subito provveduto a spostare lo stabilimento del brandy  da Trieste all’Est europeo. Conviene. Anche Plasmon, storica azienda italiana dei biscotti per l’infanzia, è passata sotto la bandiera a stelle e strisce: l’ha comprata la Heinz, quella del ketchup. Ma il matrimonio tra ketchup e biberon non è andato troppo bene. Prima sono stati annunciati licenziamenti, poi la vendita. Pare che compreranno i soliti fondi internazionali…Certo, non tutti gli investimenti stranieri finiscono male. Ma è difficile chiedere la tutela dei prodotti italiani a chi sta nel Connecticut, nel Minnesota o alle isole Cayman, non trovate? E anche chi sta a Parigi. Prendete il caso Parmalat. È esemplare. Quando il commissario Enrico Bondi, ripulita l’azienda, la mise in offerta aveva un miliardo e mezzo in cassa e un sistema produttivo forte, radicato sul territorio, fortemente collegato con la filiera degli allevatori dell’Emilia. Nessuna azienda italiana la volle comprare: Parmalat finì ai francesi della Lactalis, proprio quelli che ora vogliono il Parmigiano Reggiano. Per qualche tempo non è successo nulla, ma nei mesi scorsi è cominciata l’opera trasferimento oltralpe. E a Parma c’è molta preoccupazione perché, se si sposta l’azienda,  quello che va in crisi non è solo un polo produttivo, ma un intero sistema economico radicato nella storia di quella terra. E allora non dovremmo imparare a difendere di più i nostri tesori? Pensateci: il cibo è il nostro petrolio, abbiamo giacimenti ricchi come nessuno al mondo. Però ce li lasciamo portare via. Abbiamo permesso che fossero massacrati i risicoltori del Nord Ovest (con le importazioni scriteriate dalla Cambogia e dalla Thailandia), i produttori di pomodori, agrumi e olive (con le importazioni scriteriate dal Marocco, dall’Egitto e dalla Tunisia), abbiamo messo in ginocchio i nostri agricoltori, e adesso vogliamo completare l’opera con le poche aziende di trasformazione rimaste? Sarebbe paradossale riuscire in poco tempo a  distruggere la millenaria nostra tradizione gastronomica. Per poi, magari, ritrovarci tutti a festeggiare al sushi o al kebab, che fa tanto chic.

Così Fca sbatte la porta al sovranismo francese. Dietro al ritiro dell'offerta per la fusione con Renault c'è lo scontro con la difesa ad oltranza degli interessi di Parigi. Un atteggiamento arrogante che però paga. Guido Fontanelli il 6 giugno 2019 su Panorama. Questa volta è difficile non essere d'accordo con gli Agnelli, che hanno ritirato l'offerta di matrimonio con Renault. Ai francesi avevano prospettato un'unione tra il gruppo Fca e la Renault alla pari, nonostante la casa italo-americana valga di più in borsa (18 miliardi di euro contro i 15,5 di quella francese) e sia ben più grande in termini di fatturato (110 miliardi contro 57). Avevano perciò proposto la creazione di una nuova società detenuta per il 50% dagli azionisti di Fca (capitanati con l'Exor con il 29% di Fca) e per il 50% dagli azionisti di Groupe Renault (guidati dallo Stato francese e dalla Nissan che oggi ne posseggono il 15% ciascuno) con una struttura di governance paritetica e una maggioranza di consiglieri indipendenti. Però i francesi avrebbero iniziato ad alzare la posta, chiedendo di avere l'amministratore delegato della nuova società, una sede operativa in Francia, il diritto dello Stato a dire la sua sulle nomine oltre naturalmente a non toccare un posto di lavoro nel loro Paese. Insomma, l'impressione è che oltralpe si continui con la solita politica di difesa ad oltranza della propria industria a costo di apparire arroganti. Uno stile a cui sfortunatamente siamo abituati da anni: vi ricorderete le difficoltà che incontrò la Fininvest quando nel 1986 aprì la televisione La Cinq in Francia, che terminò la trasmissioni sei anni dopo. O quando nel 2006 il governo di Parigi impedì all'Enel di acquisire con un'Opa ostile la Suez. O più di recente gli ostacoli affrontati da Leonardo del Vecchio dopo la fusione tra Luxottica ed Essilor o quelli superati faticosamente da Fincantieri con l'acquisto dei cantieri Stx. Nel frattempo i francesi hanno acquisito in Italia aziende alimentari come Parmalat, gruppi energetici come Edison e una sequela di marchi della moda, da Gucci a Loro Piana, da Bottega Veneta e Fendi. E non smettono di fare shopping. Può darsi che nel caso di Fca-Renault la trattativa riprenda, visto che ai manager della casa francese l'operazione piaceva e che forse anche ai giapponesi della Nissan può far comodo un'alleanza con chi detiene i marchi americani Jeep e Ram. Altrimenti Fca potrebbe rivolgere lo sguardo verso Psa o verso la cinese Geely, già proprietaria di Volvo a socia di Mercedes. Ma certo è inutile protestare contro la politica così pervicacemente nazionalista dei nostri cugini: saranno pure arroganti questi francesi, ma loro, nella classifica redatta da Forbes con le duemila più grandi aziende quotate del mondo, di imprese ne piazzano 57, mentre noi italiani solo 27, meno della metà. La loro prima classificata è la Total con 184 miliardi di dollari di fatturato mentre la nostra campionessa è l'Enel con 86,3 miliardi. E poi la Francia è un Paese che con 66,9 milioni di abitanti si permette di avere due gruppi automobilistici(Psa che ha da poco rilevato al tedesca Opel, e Renault) rispettivamente con 42,7 e 15,5 miliardi di euro di ricavi mentre l'Italia, con 60 milioni di abitanti, fa fatica ad averne uno. Insomma, dovremmo essere tutti compatti nel difendere Fca, ma sotto sotto che invidia ci fanno 'sti galli.

Fca-Renault, salta la fusione. Ecco perché. Nella notte il passo indietro dalla casa italo-americana che non ha accettato il comportamento del Governo francese. Ma non è detta l'ultima parola sulla fusione. Panorama il 7 giugno 2019. La fusione Fca-Renault è saltata nella notte quando si era ormai ad un passo dalla chiusura. Una decisione che Fca ha comunicato nella notte con un comunicato che ha fatto subito il giro del mondo: «Fca ha deciso di ritirare con effetto immediato la proposta di fusione avanzata a Groupe Renault. Fca continua a essere fermamente convinta della stringente logica evolutiva di una proposta che ha ricevuto ampio apprezzamento sin dal momento in cui è stata formulata e la cui struttura e condizioni erano attentamente bilanciati al fine di assicurare sostanziali benefici a tutte le parti. È tuttavia divenuto chiaro che non vi sono attualmente in Francia le condizioni politiche perché una simile fusione proceda con successo», si legge nel comunicato. In questo quadro «Fca continuerà a perseguire i propri obiettivi implementando la propria strategia indipendente».

Perché è saltata la fusione. Cos sia successo è abbastanza semplice da intuire. Già ieri i primi segnali di attrito erano arrivati, soprattutto dopo che la casa francese aveva chiesto una maggiorazione sulla valutazione di Renault da 15 a 17 miliardi. L'accordo però alla fine anche su questo sarebbe stato trovato (non senza malumori). Il problema è strettamente e solamente politico. Il Governo francese infatti (parte attiva nella trattativa e nel board) ha di fatto frenato la chiusura della trattativa. Le prime avvisaglie di una rallentamento erano arrivate nel pomeriggio con una dichiarazione del ministro dell'Economia, Bruno Le Maire, che (mentre le trattative erano in corso per il closing) ha dichiarato: «Prendetevi il tempo per fare le cose bene. Si tratta di un'operazione importante, che mira a creare un campione mondiale dell'automobile: nessuna fretta». Il Ministro poi ha ribadito le condizioni "politiche" che il Governo ha posto per la chiusura della trattativa: un posto nel cda, la presenza di una sede operativa in Francia, garazie su occupazione e siti industriali d'oltralpe. Parole e posizioni che hanno portato John Elkann e Fca al passo indietro. Resta solo da stabilire se la chiusura sia un atto definitivo o se si tratti solo di una manovra all'interno di una trattativa che di colpo è diventata molto più complessa del previsto.

·         La Cina alla conquista dell'Italia.

La Cina alla conquista dell'Italia. Nel suo ultimo libro "L'Italia non è più italiana" Mario Giordano traccia la mappa degli interessi cinesi nel nostro paese, scrive Mario Giordano il 5 febbraio 2019. l palazzo della ex Zecca di Stato a Roma? Ora è gestito dai cinesi. Il palazzo di Raul Gardini a Ravenna? Ora è gestito dai cinesi. Il palazzo del Ballo del Doge a Venezia? Ora è gestito dai cinesi. Il bar Roma di Carpi, quello dove lavorava Dorando Pietri, mitico eroe della maratona crollato a un passo dal traguardo? Ora è gestito dai cinesi. E sono diventati cinesi, fra le altre, l’azienda dei trattori Goldoni di Carpi, quella che ha di fatto meccanizzato le campagne italiane; la storica azienda dei marmi Quarella di Verona, il legno Masterwood di Rimini, la metalmeccanica Motovario di Formigine e la catena di cinema Odeon&Uci. Dove a questo punto, potrebbe andare in scena un film giallo. Che però assomiglia molto a un horror. Non ci sono infatti solo i casi famosi, rimbalzati con evidenza sui giornali, come quelli degli yacht Ferretti, della casa di moda Krizia, della Pirelli, dell’Inter o degli elettrodomestici Candy: l’ombra di Pechino si sta allungando su tutto il nostro Paese. Accade giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, quartiere dopo quartiere, fabbrica dopo fabbrica. Del resto si sa che la Cina è partita alla conquista del mondo. Il presidente Xi Jinping, definito dall’Economist l’uomo più potente del pianeta, ha varato un piano massiccio per promuovere acquisizioni nei cinque continenti. E l’Italia è un’osservata speciale. Del nostro Paese, i nipotini dei Ming adorano tutto: il canto, la musica, la moda, la Scala. E non vedono l’ora di conquistarci. A fine 2017 battevano bandiera cinese 641 imprese italiane, con oltre 32 mila dipendenti e un fatturato di circa 18 miliardi l’anno. E la conquista, nel silenzio generale, non si ferma. La Emarc, società torinese che produce componenti per le più importanti case automobilistiche? È passata ai cinesi. La Esaote, leader nel settore delle apparecchiature biomedicali? È passata ai cinesi. Moto Morini di Pavia? Idem. E così Newchem e Effechem, milanesi specializzate in farmaceutica, o Cmd, che produce motori marini turbodiesel, in tre stabilimenti in Campania. Senza contare, naturalmente, le pesanti partecipazioni cinesi in Snam, Terna, Ansaldo Energia e le quote delle banche, Eni ed Enel...«Ben vengano» dice ora il sottosegretario allo Sviluppo economico, Michele Geraci. Il quale, però, quando non era ancora al ministero ma era solo un esperto di economia avanzava molti dubbi sugli investimenti cinesi in Italia. «I loro investimenti non portano alcun valore alla nostra economia» diceva. Soprattutto non portano valore quando si comportano come la Zhejiang Rifa Precision Machinery Company, colosso quotato alla Borsa di Shenzhen, che nel 2015 ha acquistato la Colgar, storica azienda di Cornaredo (Milano), attiva dal 1945, assicurando: «Qui creeremo un polo tecnologico, punteremo alla crescita e allo sviluppo». Nel dicembre 2017, pochi giorni prima di Natale, è stata annunciata la chiusura della fabbrica. Alla faccia della crescita, alla faccia dello sviluppo. Eppure l’espansione cinese in Italia non si ferma. Non si stanno comprando solo le aziende. Si stanno comprando palazzi, attività commerciali, vigneti, castelli, un’infinità di bar. Ormai molti centri storici sono nelle loro mani. «Alle aste giudiziarie arraffano tutto loro», denuncia un imprenditore fiorentino su un quotidiano. È passato ai cinesi anche uno dei più bei palazzi di Roma, con affaccio sulla scalinata di Trinità dei Monti. L’ha acquistato, insieme ad altre 11 strutture ricettive in tutt’Italia, il gruppo Ih di mister Hu. Il quale per altro già possiede: l’Admiral di Padova, quattro residence in Toscana e due hotel a Milano, in centro, da dove, sostiene, «si può toccare il Duomo» con una mano. Si può toccare il Duomo, capito? A me fa un po’ paura. Non è che ora vorranno comprarsi pure quello?  Anche a Prato, per altro, i cinesi hanno acquistato vari hotel. Ora ne possiedono sette su 17, compreso il Luxury del Macrolotto, a forma di pagoda, e il Palace, che è stato a lungo passerella dei politici. Che problema c’è? «Negli alberghi di Prato i cinesi assumono italiani» si consolano alla Federalberghi. Si accontentano di poco, evidentemente. Forse anche di diventare Federcamerieri. 

Aziende più antiche, il record è italiano, scrive Leopoldo Gasbarro, Giovedì 31/01/2019, su "Il Giornale". Quali famiglie hanno avuto la forza di attraversare mille anni alla guida delle loro aziende ed essere ancora lì, capaci di mantenere la barra a dritta? Guerre, trasformazioni, rivoluzioni quante ne hanno dovute affrontare? E i travagli interni alle famiglie stesse che hanno dovuto superare? Quante lezioni potrebbe rivelare il loro percorso millenario? Una speciale classifica, raccolta nel Guinness dei primati, le enumera e le racconta. E ci dice che tra le prime dieci aziende, per longevità, ce ne sono ben cinque italiane. Giappone, Italia, Francia e Germania. Solo quattro le nazioni rappresentate. In testa due alberghi termali nipponici. Così ho curiosato sul sito del più antico: fondato nel 705, ha un nome difficile da pronunciare e da scrivere: Nishiyama Kaiunkan, ma ha avuto e ha la capacità di fare impresa, da oltre 1.300 anni. Da un albergo all'altro, da Hayakawa ad Awazu, dal 705 al 718. Carlo Magno non è ancora nato quando anche l'Hoshi Ryokan apre i battenti per la prima volta. Dell'impero carolingio non resta altro che polvere, mentre i due Onsen (termali) promettono di coccolare ancora a lungo i clienti. Della più antica azienda italiana, invece, le Pontificie Fonderie Marinelli, avevo sentito parlare spesso sia perché si trova a due passi da casa, sia per l'unicità dei loro prodotti: campane in bronzo. Non ne conoscevo, però la tradizione millenaria. Agnone è il centro dell'Alto Molise in cui i Marinelli, dall'anno 1000 continuano la loro attività produttiva grazie alla quale riforniscono i campanili di ogni parte del mondo. Il suono delle loro campane, quella che chiamano «voce degli angeli», ogni giorno attraversa il globo, accompagnando le storie di milioni di persone e sottolineandone momenti di festa e tragedia, di nascita e abbandono. Al quarto e quinto posto della classifica due aziende che fanno del vino il loro punto di forza. Château de Goulaine in Francia e, l'italianissima Barone Ricasoli. Incastonata tra le colline del Chianti l'azienda Ricasoli produce «nettare d'uva «dal 1141. In questa zona il tempo sembra rallentare: «... mi affaccio dalle mura del Castello e guardo il panorama... È un po' come essere agli Uffizi e contemplare un'opera d'arte composta dal binomio uomo-natura», scrive Francesco Ricasoli sul web. L'America non era stata ancora scoperta e Dante e la Divina Commedia sarebbero arrivati tre secoli dopo. Intanto, nel 1295 a Murano, Barovier & Toso lavorano il vetro come nessun altro sa fare. «In sette secoli abbiamo visto seguire le mode. A Venezia il tempo, invece, è fermo. Non c'è fretta, solo tempo e spazio necessari per affinare un'arte. Ci vuole forza per plasmare il vetro dalla sabbia e dal fuoco. Ci vuole pazienza per arrivare alla forma perfetta e ci vuole cuore, tanto cuore per finire l'opera». Il tempo, la forza, la pazienza e il cuore. Una cartiera francese ad Ambert e un albergo per pellegrini a Soest in Germania e, spazio ancora alle imprese del Bel paese. Il Rinascimento è alle porte, Firenze il centro del mondo. È lì che nasce l'Oreficeria Torrini. È il 1369. I loro gioielli sono pezzi unici, forgiati da un'arte che continua a tramandarsi nel tempo, alcuni sono addirittura esposti al British Museum. Sul loro sito una scritta che mi ha riempito d'orgoglio: «La lingua ufficiale è l'italiano». 1385. Giovanni di Piero Antinori entra a far parte dell'Arte fiorentina dei vinattieri, e fonda l'azienda che chiude la nostra storia. Da ventisei generazioni, la famiglia Antinori ha sempre gestito direttamente l'attività con scelte innovative e coraggiose ma sempre mantenendo inalterato il rispetto per le tradizioni e per il territorio. Sul loro sito uno straordinario albero genealogico ne racconta ogni passaggio. Penso alla storia, alla loro, alla mia, a quella di ciascuno di noi. Storie nella storia, per le quali il privilegio più grande resta quello di poterle raccontare.

Repubblica populista cinese. I grillini aprono i porti a Pechino. Scoppia un'altra guerra con la Lega, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 13/03/2019, su Il Giornale. Ci mancava solo Marco Polo a complicare la vita già surreale di questo governo e, quindi, dell'Italia intera. Già, perché otto secoli dopo le imprese in Oriente del viaggiatore veneziano si torna a parlare e a dividersi sulla «Via della seta» che nel Trecento portò l'Occidente a conoscere e fare affari con la Cina mondo fino allora praticamente a noi sconosciuto - e che ora i cinesi vorrebbero ripercorrere all'incontrario. Per «invaderci» - oltre che con cineserie varie e prodotti più o meno contraffatti, o fuori legge secondo i nostri standard - anche con il business pesante, quello che conta e che moltiplica davvero soldi e potere (come già avvenuto in Africa). Entrati nel salotto buono italiano attraverso il calcio (Inter e Milan), i cinesi ci hanno messo un attimo a capire che qui c'è molto da fare. E che con la loro velocità d'azione (da quelle parti politica e affari sono un tutt'uno) e disponibilità praticamente illimitata di soldi potremmo essere un facile terreno di conquista. Si parla dell'Italia, ma in realtà nel mirino ci sarebbe l'Europa intera, divisa e quindi debole come non mai. Secondo alcuni osservatori noi, stante la particolare e traballante situazione politica ed economica, siamo stati scelti come luogo di sbarco sul continente, una spiaggia più facile di altre su cui attrezzare la testa di ponte. Per questo l'imminente arrivo in Italia del presidente cinese Xi Jinping per firmare i primi trattati (riguardano accordi commerciali sui porti di Trieste e Genova) è visto come fumo negli occhi dall'amministrazione Trump e con grande preoccupazione dai governi dei partner europei. Come se non bastasse, anche il nostro di governo tanto per cambiare sulla questione è diviso. All'entusiasmo di Di Maio fa da contraltare la freddezza, se non lo scetticismo, di Salvini. Spalancare le porte ai cinesi contro la volontà di Paesi soci e alleati è cosa assai pericolosa che potrebbe isolare l'Italia più di quanto già non lo sia. I cinesi sono un popolo amico, ma la Cina è una controparte dell'Occidente sia dal punto di vista economico che militare (parliamo di una superpotenza con un enorme arsenale nucleare). Il comunismo in versione capitalista ha prodotto efficienza per loro, ma resta cosa ben diversa a partire dal concetto di diritti umani fino alle alleanze geopolitiche da ciò che noi siamo. Passi che questo governo giochi sulla Tav, ma prima di consegnare le chiavi di casa ai cinesi ci andrei cauto. In questo caso sì ci vorrebbe una bella analisi costi-benefici, magari non affidata al Toninelli di turno o a qualche «esperto» pescato chissà dove. Questa è roba seria, non per dilettanti ex venditori di bibite allo stadio di Napoli.

Francesco Bonazzi per “la Verità” il 12 marzo 2019. Il governo di Giuseppe Conte aspetta di prendere la Via della seta e firmare accordi miliardari con il presidente Xi Jinping tra dieci giorni, ma Pechino ha preso la Via della pizza già da 20 anni, e con la benedizione di Romano Prodi e Massimo D' Alema, per una volta d' accordo su qualcosa. Come dimostra il ricco business dei porti italiani, a cominciare da quello di Genova, dove un altro prodiano, l'ex ministro Paolo Costa, ha avuto un ruolo chiave nel portare i cinesi nelle banchine sotto la Lanterna. Ma più in generale, gli investimenti di Pechino in Italia valgono 18 miliardi di euro, dei quali ben 7 sono stati investiti per ottenere il controllo della Pirelli, senza che nessuno dei politici che oggi rilanciano l'allarme di Washington sulla penetrazione cinese abbia proferito verbo. Il leghista genovese Edoardo Rixi, sottosegretario alle Infrastrutture, ieri è stato molto abile parlando con il Corriere della Sera: alla fine dell'intervista ha detto che noi possiamo fare quello che vogliamo con il presidente cinese, a Roma tra il 21 e il 22 di questo mese, ma quello che non faremo noi con Pechino lo faranno di sicuro i francesi, visto che «due giorni dopo Xi Jinping andrà in visita ufficiale all' Eliseo» dal nostro grande amico Emmanuel Macron. E del resto, da bravo genovese, Rixi sa perfettamente che i capitali di Pechino hanno fatto comodo e faranno ancora comodo, visto che già oggi il porto di Genova è un hub importante delle merci di Pechino. Non a caso, nelle pieghe dell'accordo contestato da Donald Trump, sull' onda del caso Huawei, c' è il grande interesse della Cina per completare l’acquisizione dello scalo ligure e aggiungervi il porto di Trieste. L' accordo con la cinese Cccc per il porto di Genova è stato firmato dal presidente Paolo Emilio Signorini, allievo di Paolo Costa, che è stato anche nominato advisor per i rapporti con Pechino dallo stesso Signorini, nonostante la legge Madia vieti di dare incarichi retribuiti ai pensionati della pubblica amministrazione. Costa voleva sbarcare a Genova già 11 anni fa, ma perse una guerra tutta interna all' Ulivo a favore della filiera Claudio Burlando-Luigi Merlo. Costa divenne però numero uno del porto di Venezia, città di cui è stato anche sindaco, dopo esser stato per due volte ministro dei Lavori pubblici con Romano Prodi. Costa è anche presidente della Spea, la società di Autostrade che avrebbe dovuto controllare il ponte Morandi: le responsabilità verranno appurate dall' inchiesta penale in corso. Ma la Via della seta prossima ventura non passa solo per i porti, come sei secoli fa. E anche in questi ultimi 20 anni ha sempre avuto i suoi profeti, specialmente a sinistra. Se l'attuale ministro dell'Economia, Giovanni Tria, non fa mistero della propria infatuazione giovanile per la Cina di Mao Zedong, molto più concretamente Prodi e D' Alema hanno sempre lavorato per rapporti d' affari più fluidi sull' asse Roma-Pechino. Il professore bolognese è stato tra i primi ad avere l'onore di essere invitato a tenere lezioni alla scuola del Partito comunista cinese e anche a D' Alema, a partire dalla fine degli anni Novanta, sono sempre stati fatti ponti d' oro. Lo stesso vale per Giancarlo Elia Valori, boiardo di Stato passato poi alla corte dei Benetton. E anche il D' Alema vignaiolo, adesso, vende il suo pinot nero in Cina. Il fatto è che in questo ventennio di apertura italiana causa mancanza di capitali, sia privati sia pubblici, la Cina ha messo a segno un colpaccio dietro l'altro, arrivando a quasi 650 imprese italiane partecipate e un giro d' affari che l'anno scorso ha toccato i 18 miliardi di euro. Il tutto senza contare i titoli di Stato italiani nel portafoglio di Pechino. Tra i gioielli della corona cinese spiccano gli elettrodomestici della Candy, l'alta moda di Krizia e un gruppo di alto livello tecnologico nel biomedicale come Esaote. Del resto, lo storico presidente dell'associazione Italia Cina è stato da sempre un grande manager come Cesare Romiti, che quando era alla Fiat aveva cominciato a comprare acciaio e componenti da Pechino. E tutti questi ricchi business sono sempre stati portati a compimento senza farsi troppe domande sui diritti civili, sulle esecuzioni di massa o sulle persecuzioni contro i preti cattolici. Oggi nessuno di coloro che lanciano l'allarme sulla Cina ricorda che nel 2017 China national chemical si è portata a casa la Pirelli investendo circa 7,3 miliardi, ma avendo l'astuzia di lasciarne la guida a Marco Tronchetti Provera. Al manager della Bicocca nessun esponente politico ha osato, all' epoca, obiettare alcunché. E men che meno i giornaloni che oggi mettono in guardia Conte. E poi non si può dimenticare che in Ansaldo energia ci sono 400 milioni di euro freschi pompati da Shangai electric, mentre China state grid ha comprato il 35% di Cdp reti sborsando 2,8 miliardi ed entrando così, indirettamente, nella filiera di comando di Snam, Italgas e Terna. L' operazione su Cdp reti, come settore presidiato, l'ha fatta il centrosinistra e obiettivamente non è la stessa cosa che vendere una casa di moda. Se invece si vuole inquadrare meglio il contesto europeo degli investimenti cinesi, prima di affermare che l'Italia rischia di diventare il ventre molle dell'Eurozona bisogna ricordare che tra il 2008 e il 2018 noi abbiamo ricevuto investimenti cinesi per 15,3 miliardi, ma siamo stati sopravanzati dalla Germania con 22 miliardi e dal Regno Unito con 47 miliardi. Gli investimenti degli altri saranno tutti rigorosamente in settori non strategici, oppure siamo gli unici polli?

Via della seta, il richiamo ipocrita sulla Cina da parte della Ue. Bruxelles pubblica un report per difendersi da Pechino e avverte l'Italia. Ma 13 paesi europei hanno già firmato. E la Germania nell'export cinese..., scrive Angela Mauro, Inviata speciale - Huffpost Italia, il 12/03/2019.

Il rapporto della Commissione europea sulle relazioni tra Ue e Cina. Dieci azioni in 18 pagine per difendersi dall'espansione economica cinese. E' questa la struttura del rapporto diffuso oggi a Strasburgo dalla Commissione europea sulle relazioni tra Ue e Cina. Ora il testo è all'attenzione del Consiglio europeo e dell'Europarlamento: 'dieci comandamenti' che arrivano oggi, quando ormai ben 13 paesi europei hanno già firmato accordi commerciali con la Cina. L'Italia lo farà la prossima settimana, primo paese del G7 a siglare un "Memorandum of Understanding" con Pechino e per questo 'condannata' a portarne il 'marchio di infamia', pietra dello scandalo a livello europeo perché ha deciso di piazzarsi sulla 'via della seta'. Ma gli ultimi dati ufficiali italiani dicono che l'Italia è l'ultima tra i principali paesi europei che esportano in Cina: dopo Germania, Gran Bretagna, Francia. E' per questo che, pur facendo rapporto, la Commissione ci va cauta. "Vediamo la Belt and Road Initiative potenzialmente come un'iniziativa benefica che avvicina i Paesi europei e asiatici. Ma tutto dipende dalla concreta attuazione", dice il vicepresidente Jyrki Katainen esibendo evidentemente la coda di paglia dell'Ue che finora sulla questione non ha fatto granché, mentre negli anni ben 13 paesi europei hanno firmato il Memorandum of Understanding con la Cina: Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. A quanto si legge nel rapporto, nella disponibilità di Huffpost, le dieci azioni vertono sull'idea di rafforzare la cooperazione con la Cina sui "tre pilastri delle Nazioni Unite: diritti umani, pace e sicurezza, sviluppo"; combattere i cambiamenti climatici e dunque chiedere alla Cina di "ridurre le emissioni inquinanti prima del 2030 in linea con gli obiettivi dell'accordo di Parigi"; approfondire gli impegni con la Cina su pace e sicurezza, soprattutto riguardo all'Iran; applicare in maniera più severa gli accordi bilaterali esistenti con la Cina e gli strumenti finanziari e lavorare con la Cina per implementare la strategia europea sulla rete infrastrutturale 'Connecting Europe and Asia'. Inoltre l'Ue chiede alla Cina di rispettare gli impegni presi, nell'ambito dell'Organizzazione mondiale del commercio, che pure va riformata; l'Ue si impegna a promuovere reciprocità nei rapporti con la Cina; ad assicurare che siano salvaguardati anche gli standard europei su lavoro e ambiente; a denunciare gli effetti distorsivi sul mercato interno europeo di una economia straniera di impronta statalista; a salvaguardare l'Unione dai rischi per la sicurezza auspicando un approccio comune sulla rete 5G; aumentare la consapevolezza sui rischi per la sicurezza derivanti dagli investimenti stranieri in settori sensibili come le tecnologie e le infrastrutture. In gran parte, il rapporto europeo si basa sulla denuncia del fatto che l'economia cinese è statalista e questo produce una concorrenza impari con gli altri mercati, il cosiddetto 'dumping'. L'Ue pensa di correggere emanando delle direttive specifiche entro la fine del 2019. In particolare la Commissione sottolinea che "la Cina preserva il suo mercato interno" aprendolo solo in maniera "selettiva" per difendere i suoi "campioni" nazionali e elargendo "sussidi di Stato ad aziende pubbliche e private". Ecco un altro passaggio del rapporto: Ma tutto questo arriva quando la Cina è già entrata nell'Unione Europea, ha già stretto accordi commerciali con diversi Stati dell'Unione che hanno agito unilateralmente e non sono stati criticati per questo. Oggi la Commissione raccomanda agli Stati membri di non tradire la "piena unità" europea per intessere relazioni con la Cina. Ma ormai i buoi sono scappati, almeno dalla crisi del debito greca quando la Cina comprò di fatto il porto del Pireo, nell'indifferenza generale dell'Ue interessata solo a far rientrare il debito di Atene a qualunque costo. Il costo, appunto, è cinese. E parlano cinese molti scambi commerciali dei più grandi paesi dell'Unione, ormai da tempo, soprattutto dopo la crisi del 2008. Secondo i dati dell'anno scorso, la Germania esporta in Cina per più di 90 miliardi di euro come valore assoluto. L'Italia è ferma a 10 miliardi di euro, la Francia è poco sotto i 20 miliardi, la Gran Bretagna li supera. Ed è soprattutto l'automobile il settore trainante: quasi 25 miliardi di euro solo per la Germania, il settore auto italiano non raggiunge il miliardo per le esportazioni in Cina. Roma dunque firmerà l'accordo con Pechino la prossima settimana. Per l'occasione Xi Jinping verrà a Roma. Giuseppe Conte cerca di rassicurare i partner europei: "Aderiamo con tutte le cautele necessarie: siamo un Paese inserito nell'Unione europea, siamo un Paese che è collocato in un'alleanza tradizionale e che ben conosciamo, euroatlantica, che chiaramente rimaniamo collocati in questa prospettiva di alleanze. Semplicemente ci apriamo una strada molto interessante dal punto di vista commerciale. Quello che andiamo a sottoscrivere non è un accordo vincolante ma un quadro che ci consentirà poi di valutare le opportunità che si offriranno". Il resto sono reprimende europee che nemmeno il 'falco' Katainen si è sentito di diffondere con toni particolarmente duri verso l'Italia. "Tratteremo il Memorandum tra Roma e Pechino esattamente come trattiamo gli altri", si è limitato a dire in conferenza stampa, ben conscio di non poter affondare ora. Negli affari con Pechino l'Italia è solo l'ultima della fila: l'Europa è stata ormai violata e finora non ne è mai nato un caso.

FATECE CAPI': LA FRANCIA CAZZIA L'ITALIA PERCHÉ FIRMA LA VIA DELLA SETA CON IL REGIME DITTATORIALE CINESE (INCASSANDO LA POSSIBILITA' DI VENDERE LE ARANCE), E POI MACRON FIRMA UN CONTRATTO DA 30 MILIARDI PER VENDERGLI 300 AIRBUS? CAPITE POI PERCHÉ VINCONO I SOVRANISTI…Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 26 marzo 2019. Quattordici contratti commerciali per decine di miliardi, un ordine per 300 Airbus, la preoccupazione per i diritti umani, la volontà di riequilibrare gli scambi economici, la determinazione di costruire un multilateralismo forte: all' Eliseo, accanto al presidente Xi Jinping, Emmanuel Macron ha presentato ieri la sua versione di un nuovo «partenariato euro-cinese». Dopo un passaggio solenne allArco di Trionfo, i due presidenti hanno discusso a quattr'occhi, poi la firma degli accordi commerciali, quindi l' allocuzione congiunta. In attesa, questa mattina, di testare il primo format di questo partenariato Europa-Cina, con un incontro esteso alla cancelliera Angela Merkel e al presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, Macron ha concluso ieri ottimi affari, più di quanto si prevedesse alla vigilia. Il contratto più imponente, quello che prevede la vendita alla Cina di 290 Airbus A 320 e 10 A350 per un valore da catalogo di 30 miliardi. «E' un eccellente segnale della forza degli scambi economici» ha commentato Macron. E non basta. Se la Francia è più reticente dell' Italia nell' imboccare le nuove vie della Seta, Xi ha comunque portato a Parigi begli investimenti: un progetto di parco eolico offshore di Edf per circa un miliardo di dollari, fondi di cooperazione finanziari per oltre sei miliardi, un contratto di costruzione di dieci navi per CMA-CGM per 1,2 miliardi, progetti di modernizzazione industriale per altri sei miliardi. E poi cooperazione nella lotta contro il riscaldamento climatico, l' esplorazione della Luna e la cultura, con la conferma dell' apertura, a novembre, di un Centre Beaubourg a Shanghai. «In un momento in cui gli equilibri mondiali si sconvolgono, la Cina e la Francia hanno una responsabilità: costruire gli equilibri di domani» ha detto Macron. «Resteremo saldamente impegnati a favore del multilateralismo» lo ha rassicurato da parte sua Xi. Dopo l' incontro, e prima dell' appuntamento europeo di oggi, ieri sera cena di gala all' Eliseo. Duecento gli invitati: tra questi Alain Delon, l' ex capo del partito comunista francese Robert Hue, e l' ex idolo degli adolescenti francesi degli anni Novanta Hélène Rollès, oggi star in Cina.

Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” il 26 marzo 2019. Chi disprezza compra, si dice. Solo che questa volta a comprare è l' altro. Il presidente cinese Xi Jinping, fino a ieri oggetto delle critiche di Emmanuel Macron per un piano di espansione in Europa imprudentemente appoggiato, a suo dire, dall' Italia, si è presentato all' Eliseo e ha staccato un assegno di oltre 30 miliardi per l' acquisto di 300 velivoli A320 e A350 della Boeing. Una commessa stratosferica per l' industria dell' aerospazio d' Oltralpe che ha immediatamente addolcito il capo dello Stato francese. Archiviati i malumori per l' iniziativa isolata del nostro governo (che ha siglato accordi commerciali per soli 2,5 miliardi) e messi da parte gli appelli per trattative congiunte a livello comunitario, Macron ha intascato i soldi e ha dichiarato: «La conclusione di un grande contratto è un importante passo avanti, un segnale eccellente». Passo avanti rispetto a cosa, se in ballo c' era il pericolo di un' Europa sedotta dai quattrini cinesi, non si capisce bene. Ma il presidente francese è convinto che ora tutto sia cambiato. Certo, c' è la questione dei diritti umani, su cui Macron ha farfugliato che tutto il Vecchio continente è preoccupato. Ma questo non mette assolutamente in discussione i rapporti tra Francia e Cina, che hanno «la responsabilità di tracciare le vie dell' equilibrio della cooperazione» e si muovono sulla base di relazioni bilaterali che poggiano su «un'agenzia di fiducia». E l' idillio è tale che i due Paesi hanno deciso addirittura di mettere in comune la tecnologia spaziale per una romantica gita al chiaro di luna. Anzi, sulla luna stessa. Nel corso della visita del presidente cinese a Parigi è stato, infatti, firmato un accordo che prevede l' invio di materiale francese nella missione di Pechino Chang' e-6 prevista tra il 2023 e il 2024. «Andremo sulla luna con la Cina», ha dichiarato soddisfatto il presidente dell' Agenzia spaziale, Jean-Yves Le Gall, sottolineando la portata «storica» dell' accordo. Incassate le commesse (14 sostanziosi contratti), Macron ha ripreso a parlare di «collaborazione forte tra Europa e Cina» per preparare il terreno al vertice previsto per oggi a cui parteciperanno anche il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker e la cancelliera Angela Merkel. Incontro dove l' Italia tornerà inevitabilmente sul banco degli imputati. «Francia e Germania sono su posizioni molto più avanzate sia per gli investimenti che per la bilancia commerciale», ha ricordato ieri il premier Giuseppe Conte. Mentre il ministro dell' Interno, Matteo Salvini, ha ribadito che «gli accordi firmati sono un buon punto di partenza, ma nessuno deve leggerci un cambio di rotta internazionale». Sul tavolo del vertice c' è, però, la proposta di concedere alla commissione Ue il potere di decidere cosa possono o non possono vendere ai Cinesi gli Stati membri. Nei rapporti tra Ue e Pechino, ha detto il commissario al Bilancio, Huenther Oettinger, «merita di essere preso in considerazione un diritto di veto o l' obbligo di consenso» di Bruxelles. Il motivo, inutile dirlo, è la «preoccupazione» per il fatto che «in Italia e in altri Paesi Ue le infrastrutture strategiche, come le reti, le autostrade o i porti finiscano in mani cinesi». Non bastavano le finanziarie, ora l' Europa vuole decidere pure con chi dobbiamo fare affari.

Il doppio gioco dell’Europa. Attacchi all’Italia mentre Berlino apre alla Cina, scrive Lorenzo Vita il 23 marzo 2019 su Gli Occhi della guerra. La faccia tosta dell’Unione europea e dei partner del Vecchio Continente nei confronti dell’Italia si può dire che non ha limiti. Specialmente quando si tratta di Cina e di Nuova Via della Seta. Bruxelles ha condannato l’Italia, e con essa i vari grandi Stati Ue (in primis Francia e Germania) perché il memorandum fra Roma e Pechino significherebbe una vera e propria breccia della Cina nel cuore dell’Europa. Sarà il testo dell’accordo, ma soprattutto il futuro, a dirci chi avrà ragione. Ma fa sorridere che Francia, Germania e Ue siano quelle più contrarie a questo accordo quando Berlino già controlla la via terrestre della Nuova Via della Seta, l’Olanda ha la Cina nel porto di Rotterdam e la Francia non fa altro che frenare l’intesa fra Pechino e Roma ma poi invita Xi a Parigi prima del summit Ue-Cina del 9 aprile. La cosa curiosa è che fu la stessa Unione europea ad aprire al governo cinese e al mercato asiatico. Come riportato da La Verità, l’ambasciatore Usa presso l’Unione europea Gordon Sondland ha detto nei giorni scorsi che “nessun Paese europeo potrà ottenere vantaggi a livello commerciale dall’adesione alla Via della seta” accusando Pechino di avere il solo scopo di spaccare l’asse Europa-Usa. Ma se quella di Washington è una strategia chiara, dal momento che ha nella Cina il suo rivale strategico, fa sorridere l’alternanza di Bruxelles, Parigi e Berlino sul fronte cinese. Sorridere fino a un certo punto: perché è chiaro che il gioco è molto più importante. Si tratta di trarre vantaggio dalla spaccatura dell’asse fra Italia e Stati Uniti e di ottenere benefici da una frenata all’intesa fra Italia e Cina. In questo senso, il doppio gioco di Francia e Germania è perfetto. Emmanuel Macron ha chiesto (anche in maniera dura) a Giuseppe Conte di comportarsi in maniera diversa. Vuole più coordinazione fra Italia e Unione europea sull’affare-Cina. Ma è difficile dare ragione a un presidente che non ha fatto altro che decidere, con Angela Merkel, di unire le diplomazie di Francia e Germania isolando l’Italia. Il fatto che a Parigi, martedì prossimo, si vedranno Macron, Merkel e Xi, insieme a Jean Claude Juncker, è un segale chiarissimo. In pratica, si ricompone al triade che controlla l’Europa. E che vuole parlare con Pechino senza fare i conti con l’italia che pure è la potenza europea che per prima firma un memorandum con il gigante asiatico. E adesso addirittura pensano a uno scudo, uno screening per gli investimenti cinesi, per evitare che i grandi capitali asiatici imperversino senza controllo in Europa. Protezione sacrosanta, ma che non deve trarre in inganno. Perché questa attenzione per Roma e per Pechino non sembrava essere così netta quando erano Berlino e alleato a farci affari. L’Italia è sotto Regno Unito e Germania per quanto riguarda gli investimenti cinesi nel Paese (e anche di molto), ma è anche sotto la Francia per quanto riguarda la classifica dell’export in territorio cinese. Insomma, l’Italia è quella che ha meno rapporti commerciali e finanziari con Pechino. Eppure è quella che viene attaccata dall’Europa e accusata di essere il “cavallo di Troia” di Pechino. Come spiega Il Fatto Quotidiano, la Germania “esporta verso la Cina circa 100 miliardi di euro contro i 20 dell’Italia”. E non a caso la Merkel ha avuto parole molto meno dure nei riguardi dell’Italia rispetto al suo alleato Macron. E il motivo è molto semplice. Due anni fa, la Cina ha acquistato il 76% del porto di Zeebrugge, in Belgio, e ha completato tramite Cosco l’acquisizione dell’intero scalo. Un porto fondamentale, tanto che si è aperto il corridoio ferroviario con Trieste per unire il porto dell’Adriatico a quello del Nord. Porto, quello giuliano, non casualmente entrato nel mirino cinese. E il Belgio, insieme ai grandi porti della Germania settentrionale, è molto più vicino al cuore d’Europa rispetto all’Italia. Nel frattempo, è stato attivato il sistema di connessione fra la città tedesca di Duisburg e quella cinese di Chongqing. La città di 30 milioni di abitanti è uno degli snodi chiave della Cina occidentale, e questo collegamento di fatto unisce la Germania alla Nuova via della Seta terrestre. Un collegamento nato ben prima dell’iniziativa della Belt and Road e che negli anni ha trasformato Duisburg in uno dei principali hub delle merci cinesi in Europa con un viaggio che dura 16 giorni contro i 25-30 giorni via mare. E tutto arriva in Germania.

Via della seta: minacce e opportunità. Tutti vantaggi e tutti gli svantaggi del Memorandum d'intesa fra Roma e Pechino, scrive il 19 marzo 2019 Panorama. In vista dell'arrivo del presidente cinese Xi Jinping, la polemica politica sulla Nuova Via della Seta si infiamma, mettendo uno contro l'altro i due alleati di governo. Oggetto del contendere: la firma, prevista per il 23 marzo, di un memorandum d'intesa fra Roma e Pechino che farebbe diventare l'Italia il primo Paese del G7 a sostenere la Nuova via della seta, l'iniziativa strategica della Repubblica popolare. Per capire la vera posta in gioco, cioè tutte le minacce e tutte le opportunità del mastodontico progetto per rafforzare i collegamenti tra la Cina e 67 Paesi di tre continenti, Panorama ha interpellato Filippo Fasulo, ricercatore dell'Istituto per gli studi di politica internazionale e grande esperto di Cina.

Per come lo presenta Pechino, il progetto pare una colossale opportunità per l'Italia. Ma è la realtà? O si tratta solo di marketing?

«Di sicuro ci sarà un forte flusso di investimenti verso l'Italia, ma si dovrà stabilire se saranno di “mutuo beneficio” (come dice Pechino, sostenendo che gli investimenti cinesi portano benefici al Paese che li riceve) o se invece saranno volti solo a catturare il know how tecnologico italiano, come sostengono Ue e Stati Uniti. Già, gli Stati Uniti... Sono il convitato di pietra di questa vicenda. In tal senso occorre una contestualizzazione: la contestazione degli Stati Uniti è uno degli effetti della guerra commerciale scoppiata nel marzo 2018 fra Washington e Pechino, che è una ridefinizione ormai strutturale dei rapporti fra i due Paesi».

Ma qual è la posta in gioco di questo conflitto?

«Il primato tecnologico ed economico globale sul medio-lungo periodo. Importante sottolineare il fattore tecnologico, perché un'altra criticità portata avanti da Pechino è il piano “Made in China 2025”. Ispirato a “Industry 4.0”, il progetto tedesco della Quarta rivoluzione industriale, si pone l'obiettivo di riqualificare interamente il tessuto industriale cinese, passando da prodotti a basso costo a prodotti altamente tecnologici e innovativi. Una minaccia poderosa, per l'economia statunitense. Appunto. Il vero motivo di questa guerra commerciale è questo piano, che attraverso la Nuova via della seta potrebbe portare prodotti cinesi con un maggiore valore aggiunto in molti più luoghi».

Ma a questo punto la Cina spianerebbe anche noi...

«Il timore è che, se l'Italia aderisse alla Nuova via della seta, darebbe il via libera al piano espansionistico cinese in Europa. In due modi: favorendo gli investimenti e dando legittimità politica. A questo si aggiunge il timore che gli investimenti cinesi possano essere in settori cruciali come le telecomunicazioni».

Ma perché la tecnologia 5G è così importante?

«Perché da un lato si pone il problema della sicurezza: se la rete fisica è cinese, il rischio è che Pechino acceda a informazioni che passano sulla rete. Dall'altro lato, la tecnologia rappresenta un asset industriale per il futuro perché, con la quarta rivoluzione industriale, Internet sarà al cento dei giochi e chi avrà la leadership nel settore potrà definire le direzioni future».

Al momento, però, sono tutte supposizioni.

«Sì, sono rischi potenziali. Come sono potenziali i vantaggi».

Quali sarebbero?

«Anzitutto la maggiore integrazione con l'economia cinese, anche se l'accesso al mercato cinese è ancora tutto da discutere. Un altro potenziale vantaggio sarebbe la possibilità di cooperazione congiunta in Paesi terzi, ad esempio in Africa, per infrastrutture o settori industriali di vario tipo. Infine c'è la possibilità di sfruttare il nostro posizionamento geografico, facendo diventare l'Italia la piattaforma delle merci cinesi, cioè il porto per tutta l'Europa. Ecco perché c'è tutta questa attenzione per Trieste, Venezia e Genova».

Ma i cinesi non hanno già il Pireo?

«Sì, ma il problema è che in Grecia mancano le connessioni via terra con l'Europa centrale. Non a caso, c'è già una convenzione con Venezia: al Pireo arrivano le grosse navi, che scaricano su navi più piccole che poi si dirigono verso il porto veneto».

E qui entra in gioca la Tav...

«Se l'Italia diventasse un importante nodo infrastrutturale, la Tav sarebbe fondamentale come solido accesso all'Europa. Trieste e Venezia per l'Europa centro-continentale, Genova per l'Europa occidentale».

Sulla carta una grande chance. Il punto è come viene gestita...

«E' stata gestita in modo tale per cui non è stato creato consenso internazionale a supporto della scelta italiana. L'isolamento in chiave europea di cui l'Italia soffre al momento fa sì che la nostra scelta venga osteggiata da tutti».

Perché non si fidano di noi?

«Esatto. Non hanno sufficienti rassicurazioni sulla fermezza di Roma nel gestire tutte le criticità di sicurezza e di ordine politico nel senso più ampio. A torto o a ragione, ci accusano di aver concesso troppo facilmente il sostegno politico della Via della seta».

Ma al momento non c'è solo il memorandum?

«Sì, ma l'Ue è molto preoccupata anche perché l'Italia è stata l'unica, assieme al Regno unito, ad aver votato, lo scorso 14 febbraio a Bruxelles, contro lo screening agli investimenti esteri».

Esteri o cinesi?

«E' scritto esteri, ma si legge cinesi».

Via della Seta, cos'è, chi la vuole, chi no. La guida al progetto che dovrebbe legare ancor di più Cina ed Europa ma che non piace a tutti, scrive il 18 marzo 2019 Panorama. Via della Seta, un nome che sa di storia ma più attuale che mai con intrecci economici e politici (oggi come allora) tra Cina, Italia ed Europa in genere. Un'opera (o meglio, una serie di opere ed infrastrutture) al centro della cronaca politica e che ovviamente divide tra favorevoli e contrari.

Via della Seta, di cosa si tratta. La "Via della Seta" ricorda i percorsi appunto del famoso tessuto prodotto in Oriente e che arriva via mare, soprattutto, in Europa diversi secoli fa. Una tratta che nel 2013 il presidente cinese Xi Jinping, ha voluto trasformare in un vero e proprio progetto industriale, commerciale e di infrastrutture per poter ampliare la forza economica del suo paese in Europa. Il progetto, denominat anche "Belt and Road", prevede la realizzazione di tratte ferroviarie ad alte velocità, autostrade e creazione o ampliamento di porti dalla Cina all'Europa, attraverso tutta l'Asia. La Cina è il principale paese coinvolto in questo progeto, ma non l'unico. Anche Russia ed India, oltre ad altri paesi, hanno dato il loro consenso e messo a disposizione ingenti somme di denaro. Per questo è stata creata la Banca Asiatica di Investimento per le Infrastrutture con una cassaforte da 100 miliardi di dollari il 30% dei quali arrivati proprio da Pechino. La rotta terrestre attraversa l'Asia per arrivare al nord Europa senza sfiorare l'Italia. Il nostro paese però è coinvolto invece nella tratta marittima, che percorrendo l'Oceano indiano avrebbe proprio nel nostro paese il suo ultimo porto di approdo prima della movimentazione delle merci via terra. Il Governo Gentiloni, nel 2017, mise a disposizione tre diverse soluzioni: Genova, Venezia e soprattutto Trieste, il preferito dalla Cina.

Via della Seta, le divisioni politiche. Il progetto divide il mondo politico. Al momento nessuna delle particoinvolte ha una posizione precisa. Si teme infatti che attraverso questi investimenti la Cina possa di fatto "comprare" pezzi di infrastrutture statali italiane; il secondo rischio poi è che questa nuova rete si trasformi in un vantagio economico soprattutto per la Cina ai danni dell'Europa. La prima infatti ad avere dei dubbi è proprio la Ue. Da Bruxelles infatti ricordano come "Pechino si un partner dell'Europa ma anche un concorrente ed un rivale sistemico".

Nel governo le posizioni dei due partiti di maggioranza sono divise.

Di Maio, per il Movimento 5 Stelle, sostiene che la Via della Seta sia “un’opportunità per riequilibrare il livello di import ed export. Dobbiamo esportare di più verso la Cina; l’Italia non vuole però stravolgere gli assetti internazionali o nuove alleanze a livello geopolitico”.

La Lega invece ha dubbi maggiori. Il leader Salvini ha ripetuto che “bisogna stare molto, molto attenti al rischio di mettere a disposizione di investitori stranieri infrastrutture vitali per l’Italia, penso ai dati, alle reti, ai porti, agli aeroporti. Aprire nuovi mercati alle imprese italiane e agli imprenditori italiani è fondamentale, però bisogna tutelare l’interesse nazionale e la sicurezza nazionale. L’auspicio è che l’accordo non preveda investimenti cinesi in settori strategici nazionali”.

A giorni è prevista la firma di un quadro di protocollo Italia-Cina sul progetto. Il premier Conte ha ribadito la massima attenzione e che quale sia l'accordo non sarà nulla di vincolante.

La sinistra italiana schiava dell’incubo europeista, scrive il 12 marzo 2019 di Giuseppe Masala su elzeviro.eu. C’è da farsene una ragione: in Italia non si può essere di sinistra. Non si può essere di sinistra come non si può essere un guelfo o un ghibellino, come non si può essere monarchico. L’attuale sinistra ha esaurito completamente la propria spinta ideale: vive completamente appiattita su un progetto che ha sposato trenta anni fa, quello del mitico sogno europeo. Ovvero l’assurda convinzione autorazzista (ah, se fosse stato vivo Benedetto Croce!) per la quale introdurre un vincolo esterno – quello europeo e segnatamente quello dei paesi del Nord Europa – avrebbe portato buona amministrazione, prosperità e felicità per tutti. Il tutto in un contesto di fine della Storia: il mondo si sarebbe fermato all’epoca del capitalismo americano trionfante con l’Europa a fargli da ancella e tutto il resto del mondo in ginocchio in attesa che dal tavolo del grande banchetto globale cascasse qualche briciola. Un’utopia che ci ha portato al disastro sotto molteplici aspetti: il vincolo esterno non ha portato alcun buongoverno, ma semmai la necrosi del nostro apparato produttivo perché è stato usato da chi ci riteneva un concorrente per strangolarci senza pietà imponendoci austerità al di là di qualsiasi reale principio economico. Non solo, nel frattempo il mondo è totalmente cambiato: al mitico Banchetto Globale dove nelle intenzioni solo noi – assieme agli americani – avremmo dovuto pasteggiare alla faccia del resto del mondo si sono fatti spazio altri: la Cina, ormai potenza economica mondiale, ma anche la Russia, sempre grande potenza militare e geopolitica. Ecco, la sinistra in Italia è morta perché non accetta, non riesce ad elaborare la fine di un progetto – il Sogno Europeo – dimostratosi oltre che altro rispetto a quanto prospettato anche insostenibile di fronte alle potentissime meccaniche della Storia. E li vedi ormai ripetere come degli zombie con il vestito delle feste da grandi competenti che blaterano di sogno europeo, di responsabilità (ma verso chi e cosa?), di necessità di rispettare i parametri di Maastricht che ci strangolano senza riuscire a dare una sensata spiegazione economica: devi fare austerità perché bisogna portare il rapporto debito/pil al 60% come dicono le sacre scritture di Maastricht. Hai voglia tu a sgolarti e dire: “Ma perché il 60% e non direttamente il 15% come il Congo? Ma a che serve l’austerità se il sistema-paese Italia sta a 500 mld di euro di risparmio sociale in eccesso in giro per l’Europa e che i fratelli europoidi stanno felicemente spennando come le galline alla faccia di noi fessi totali. Ma a che serve l’austerità se già hai bilancia commerciale, saldo delle partite correnti, bilancia dei pagamenti in attivo e di molto e alla fine di quest’anno avremo anche la Posizione Finanziaria Netta in attivo anche scontando gli asset italiani che ha in pancia la BCE?”. E niente, non ti capiscono. Non ti capiscono perché sebbene abbiamo la giacca e la cravatta da competenti un libro di economia internazionale non l’hanno visto manco con il binocolo, anzi, questi non sanno manco che esiste una branca dell’economia che si chiama economia internazionale. Idem con la Contabilità Economica Nazionale. Oh, cavolo non è che qui sta scrivendo Schumpeter, ma chiunque capirebbe che c’è qualcosa nella narrazione europoide che non funziona se il Giappone può avere un rapporto debito/pil del 250% e se il Venezuela fallisce con uno del 30%. E’ evidente che questa quantità per essere valutata va correlata con “qualcos’altro che bisogna scoprire cos’è”. E niente, l’ignorante di “sinistra” con giacca e cravatta da competente non ci arriva. E allora avanti con il Sogno Europeo (che si è rivelato un incubo), avanti con i dogmi di Maastricht che bisogna rispettare per Suprema Responsabilità mentre ai nostri fratelli europoidi non gli pare vero che possa esistere gente così fessa. Fra cento anni ci parleranno ancora del loro Sogno. Di Altiero Spinelli e del Manifesto di Ventotene. Per fortuna la Storia si sarà presa cura di aver spazzato via tutto. Li guarderemo mentre ci parlano del loro Sogno come un reduce delle guerre napoleoniche che ancora aspetta il ritorno del Corso da Sant’Elena per lanciare un’altra campagna di Russia.

L’improvvisa scoperta italiana della Cina globale di Xi Jinping. La via della seta a Roma. I nuovi cinesi e la rinnovata forza tecnologica ridisegnano la nostra percezione del Dragone, scrive Simone Pieranni l'8.03.2019 su Il Manifesto. All’improvviso l’Italia ha scoperto la Nuova via della Seta. Le vicende internazionali che hanno finito per coinvolgere il nostro governo e potenzialmente mutare il nostro sistema di alleanze, con grande fastidio degli Usa e immediata risposta stizzita di Pechino, hanno portato all’attenzione il gigantesco progetto lanciato da Xi Jinping nel 2013. Ma i rapporti commerciali con la Nuova Cina da parte dell’Italia sono ormai in corso da tempo e hanno finito per sedimentarsi attraverso eventi più conosciuti, come ad esempio l’acquisizione delle società di calcio, e meno noti, come ad esempio le partecipazioni cinesi negli asset industriali e produttivi del paese.

E GIÀ SI TRATTA di un passo avanti: per anni siamo stati abituati a collegare la Cina a tutto quanto è fake, tarocco, di bassa qualità. Siamo stati abituati a pensare ai cinesi «italiani» come a persone senza volto impegnate nelle filiere del manifatturiero o a servirci piatti cinesi improbabili, mentre oggi la Cina esporta tecnologia (anche in Italia, ad esempio le telecamere intelligenti HikVision) e i cinesi di seconda generazione, come dimostra l’ultimo numero di Mondo Cinese edito dalla Fondazione Italia-Cina, sono laureati o diplomati, insegnano all’università, partecipano alla vita politica e scrivono perfino (di recente è uscito il libro Cinarriamo, edito da Orientalia). Questo scarto si registra anche nelle relazioni politico-economiche. Per quanto riguarda la Nuova via della seta, infatti, Paolo Gentiloni, allora primo ministro, fu uno dei pochi premier dell’Europa occidentale presente al lancio in pompa magna del progetto, a Pechino nel maggio 2017. Ugualmente da allora si parla della possibilità da parte dell’Italia di firmare un memorandum di intesa sulla Nuova via della Seta. Ma l’Italia segue il progetto fin dall’inizio, perché è tra i paesi fondatori dell’Aiib, la banca di investimenti che la Cina ha creato ad hoc. Roma ha tentato fin da subito di seguire le vicende cinesi sotto il segno di Xi, a testimoniare un rapporto che negli ultimi anni ha visto aumentare interscambi e investimenti.

I DETRATTORI di un’eventuale e ulteriore vicinanza tra Cina e Italia ritengono che in questo modo Roma consentirebbe ai cinesi di fare del paese quanto vogliono, data la loro attuale forza economica. Ma è bene precisare due elementi: in primo luogo la firma di un memorandum avrebbe un valore primariamente politico. In secondo luogo, i cinesi in Italia investono già molto e da tempo. Come ricorda un articolo di agosto 2018 di Agi, secondo uno studio pubblicato a inizio 2017 dal Mercator Institute for China Studies di Berlino e dal gruppo di consulenza Rhodium Group, «tra il 2000 e il 2016, l’Italia è stata al terzo posto, tra i Paesi dell’Unione europea, per le destinazioni degli investimenti cinesi, a quota 12,8 miliardi di euro». Nello shopping ci sono partecipazioni in Autostrade, Telecom, Enel, Terna e tante altre. L’Italia potrebbe fare di più: due mesi fa su Class, Gianfranco Bisagni, co-head corporate e investment banking di Unicredit spiegava che «L’attività commerciale italiana con la Cina ha ancora importanti margini di crescita, tanto più se si considera che la Cina rappresenta meno del 3% del nostro export totale, contro il 7% per i tedeschi, il 5% per britannici e il 4% per i francesi». Intanto, se sarà confermato, il presidente della Repubblica popolare Xi Jinping sarà in Italia verso fine marzo.

OLTRE ALLA TAPPA ROMANA, pare che Xi abbia intenzione di aggiungerne una siciliana. Il riferimento alla Sicilia è qualcosa di importante nelle relazioni tra Italia e Cina. Nel 1225, infatti, un doganiere cinese avvezzo a segnalare ogni elemento degno di nota, per la prima volta fa riferimento all’Italia descrivendo un posto dal nome inequivocabile: Sicilia. Federico Masini e Giuliano Bertuccioli in Italia e Cina (Laterza, 1996) riportano l’avvenimento, definito «una perla», soffermandosi su alcune caratteristiche della descrizione fornita dal doganiere, all’interno della quale si tratteggia anche l’attività di un vulcano. La vulgata, confermata però in occasioni ufficiali, come la recente visita del ministro degli esteri cinesi Wang Yi, vuole Italia e Cina come nazioni vicine, unite dalla millenaria cultura e dall’antico Impero. Oggi i rapporti tra i due paesi si sono consegnati a una cooperazione sempre più economica e culturale che ha raggiunto una vicinanza talmente forte da destare le preoccupazioni americane: a Roma c’è un governo che ha una componente politica – il movimento Cinque Stelle – molto aperta nei confronti di Pechino. C’è poi l’attivismo del sottosegretario Michele Geraci e c’è l’antico antiatlantismo del movimento che ancora mantiene qualche barlume di vita in questo avvicinamento a Pechino. Ma i rapporti tra i due paesi sono sempre stati rilevanti. Limitandoci al periodo che parte dalla nascita della Repubblica Popolare (1949) tutto si mette in moto nel 1966 con i primi rapporti commerciali, ma la svolta arriverà nel 1970. A NOVEMBRE DI QUELL’ANNO il New York Times pubblica un articolo nel quale riporta il riconoscimento ufficiale da parte di Roma della Repubblica popolare, dando conto della spaccatura sul tema all’interno della Democrazia Cristiana e dell’esultanza de L’Unità. Nel 1970 l’Italia è il settimo paese della Nato a riconoscere la Cina. Passeranno però 17 anni per la prima visita di un presidente della Repubblica: toccherà a Li Xiannan, protagonista della Lunga Marcia, a capo della Cina dal 1983 al 1988, oppositore di Deng e poi morto nel 2012. Nel 1987 incontra Francesco Cossiga e va a fare una visita privata a Venezia (i giornali dell’epoca mettono in evidenza il suo desiderio di andare a visitare la «casa» di Marco Polo). Passano altri 12 anni: nel 1999 tocca Jiang Zemin (che incontrerà l’allora premier Massimo D’Alema). Nel 2009 arriva Hu Jintao e nel 2011 è la prima volta di Xi, quando era ancora vicepresidente e incontrò Berlusconi. Da numero uno arriverà nel 2016. Ora, forse, troverà a riceverlo a Giuseppe Conte.

Quando la Cina era vicina e la sinistra serviva il popolo. I maoisti italiani prima della Via della Seta. L’Unione dei Comunisi italiani fu fondata nel 1968 da Aldo Brandirali. I militanti sfilavano in piazza in ranghi compatti e ordinati agitando il libretto rosso, scrive Paolo Delgado il 14 Marzo 2019 su Il Dubbio. Più che un’organizzazione politica ricordava una camicia di forza. Il privato, in nome della “morale comunista”, era sottoposto a rigido controllo e ancor più rigide censure: non sia mai che si scivolasse nella decadenza piccolo borghese cedendo alle sirene corrotte dell’infedeltà. Il processo popolare, la condanna a un percorso di “rieducazione proletaria” e spesso l’espulsione scattavano automaticamente. La vigilanza sul portafogli era anche più occhiuta: la maggior parte degli introiti doveva essere passata senza indugio al partito, e in alcuni casi detti introiti erano cospicui dal momento che tra gli iscritti figuravano attori come Gian Maria Volontè e Lou Castel e registi come Marchio Bellocchio. Era l’Unione dei comunisti italiani marxisti- leninisti, poi Partito comunista (m- l) l’ultimo e il principale tra i gruppi e partitini filocinesi che si erano moltiplicati nell’Italia degli anni ‘ 60. Quando l’oriente era rosso e le guardie rosse della rivoluzione culturale cinese sembravano a molti il nuovo sole dell’avvenire. Quando l’insulto peggiore, per i giovani che facevano politica nella sinistra estrema, era “revisionista”. A fondare l’Unione era stato nell’ottobre 1968 Aldo Brandirali, già leader di una formazione trotzkista, Falce e Martello, passata allo stalinismo puro e duro. Il nuovo gruppo, il primo tra quelli nati dalle lotte studentesche del ‘ 68 e operaie del ‘ 69, ebbe subito successo tra i giovani che avevano incendiato le università nell’inverno e nella primavera precedenti. Debuttarono in piazza in occasione dello sciopero generale del 5 dicembre 1968 puntando su una coreografia da regimi totalitari per l’epoca davvero curata meticolosamente. In mezzo al tipico caos delle manifestazioni di piazza sfilarono in ranghi compatti e ordinati, ognuno col suo bravo manifesto del presidente Mao corredato dallo slogan “Servire il popolo”, come si sarebbero poi chiamati sia il giornale del gruppo che la casa editrice fondata dal “partito”. I ragazzi dell’Unione si prendevano estremamente sul serio. I bambini figli delle coppie marxiste- leniniste (con matrimoni a volte celebrati dal funzionario di partito di turno) erano inquadrati nei “Pionieri”, per poi salire con l’età alle giovani Guardie, i gruppi combattenti “Stalin”, la lega delle donne rivoluzionarie. Si fecero le ossa in gruppo, oggi vissuto con una certa vergogna retrospettiva, un bel po’ di nomi celebri: Michele Santoro, Antonio Polito, Renato Mannheimer, il compianto giornalista Gianni Pennacchi (che contrasse pure un matrimonio proletario), la sorella Laura, futura sottosegretaria e dirigente dei Ds e il fratello Antonio, scrittore che ha raccontato un po’ la storia nel suo Il fasciocomunista. Laura Pennacchi non è la sola dirigente della filiera Pds- Ds- Pd abituata da giovane a circolare col distintivo del presidente Mao: militavano nell’Unione, tra gli altri, Nicola Latorre e Barbara Pollastrini. Ma erano maoisti convinti anche Edoardo Sanguineti, Grazia Cherchi, Edoarda Masi, Sergio Cusani. I distintivi del grande timoniere e l’immancabile “Libretto rosso”, del resto, in quell’ultimo scorcio di anni ‘ 60 tra i giovani e giovanissimi militanti andavano a ruba. A Roma, in mancanza di ambasciata della Cina popolare non ancora riconosciuta, si andava nel centro culturale cinese, in una delle più eleganti vie dei Parioli, e i funzionari distribuivano, cortesi e solerti, materiale di propaganda a man bassa, In realtà l’innamoramento per la Cina rivoluzionaria, dove “il revisionismo” era stato respinto, datava dall’inizio del decennio, in realtà da prima della rottura definitiva tra Urss e Cina, anticipata del resto proprio da due celebri attacchi al Pci italiano usciti sul Rènmin Ribào, il quotidiano del Partito comunista cinese, “Sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi”. I cinesi attaccavano il leader del Pci, che rispose con un suo articolo, per colpire l’Urss ma in Italia, proprio tra quei militanti scontenti della linea troppo morbida del partitone italiano, alcuni guardavano già a Pechino come al nuovo centro della rivoluzione mondiale. La prima pubblicazione filocinese, il giornale Viva il leninismo, esce a Padova nel settembre 1962, un anno prima della rottura tra Mosca e Pechino. Nel ‘64, a lacerazione consumata partì la pubblicazione di Nuova Unità, con vicedirettore Ludovico Geymonat. La storia delle organizzazioni filocinesi è storia di scomuniche, espulsioni, divisioni. Impossibile, anzi di micidiale noia, seguire nel dettaglio ogni percorso, ogni intreccio, ogni scomposizione e ricomposizione. Il Movimento marxista- leninista che era nato dall’esperienza padovana si divise ben presto con la scissione della Lega dei comunisti marxisti- leninisti, che si dotò anche di un giornale, Il Comunista, abituato a mitragliare la gemella diversa di Nuova Unità. Passando per il gruppo del manifesto la Lega sarebbe rientrata nel Pci qualche anno dopo. Il caso più clamoroso fu quello del PdC’I (m- L), nato intorno alla nuova serie di Nuova Unità, la principale organizzazione filocinese prima dell’Unione, l’unica a essere ricevuta con tutti gli onori a Pechino e a essere ufficialmente legittimata da Mao in persona. Si spaccò in nel ‘ 68, in una rissa a colpi di “Smascherata e sconfitta la linea nera neorevisionista” da un lato e “Sventata una manovra imbastita da revisionisti, krusceviani e trotzkisti” dall’altro. Per un po’ ci furono due PdC’I quello “linea nera”, riconosciuto dalla Cina, e quello “linea rossa”. Ma nel frattempo era stata lanciata dal Timoniere la Rivoluzione culturale, nel ‘ 66, e la Cina non era più interesse solo di piccoli gruppi di militanti impegnati a cacciarsi a vicenda. Nel ‘ 67 due film, La Cina è vicina di Bellocchio e La cinese di Godard misero l’astro rosso nascente al centro di ogni dibattito. Poi col ‘ 68 la tendenza dilagò. I libri di Edagrd Snow sulla rivoluzione cinese e quelli della sinologa Edoarda Masi campeggiavano in ogni libreria. Per un po’ l’Unione fu egemone nel Movimento ma durò poco, ma ormai maoisti nell’estrema sinistra lo erano un po’ tutti. Era troppo asfissiante e ci volle poco perché iniziasse la giostra delle espulsioni, con la cacciata del dirigente più lucido e intelligente, Luca Meldolesi, a opera di Brandirali, destinato a un futuro come esponente di Comunione e Liberazione e poi assessore a Milano con Forza Italia. L’Unione fu una meteora e durò poco ma ormai anche al di fuori dell’affollatissima galassia marxista- leninista maoisti, nell’estrema sinistra, lo erano un po’ tutti. La Cina era vicina e grazie alla via della seta lo è di nuovo. Certo, non è la stessa Cina.

Relazioni bilaterali tra Italia e Repubblica Popolare Cinese. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Le relazioni bilaterali tra l'Italia e la Repubblica Popolare Cinese hanno inizio formalmente il 6 novembre 1970. La notizia del riconoscimento da parte dell'Italia della Repubblica Popolare Cinese e la conseguente rottura delle relazioni formali con la Repubblica di Cina di Taiwan spinsero altri paesi europei come Austria e Belgio a prendere in considerazione decisioni simili.

I due Paesi hanno stabilito le proprie rappresentanze diplomatiche nel 1970.

Rappresentanza italiana presso la Repubblica Popolare Cinese. La Repubblica Popolare Cinese ospita l'ambasciata italiana a Pechino, tre consolati generali a Canton, Chongqing ed Hong-Kong, ed un consolato generale di prima classe a Shanghai. L'Istituto nazionale per il Commercio Estero è presente dal 1964 nella capitale e nelle città sede di consolato, in rappresentanza e tutela delle imprese italiane in Cina.

Rappresentanza cinese presso la Repubblica Italiana. L'Italia ospita l'ambasciata della Repubblica Popolare Cinese a Roma e due consolati generali: a Milano e a Firenze. La giurisdizione consolare del Consolato generale di Milano comprende la Lombardia, Piemonte, Veneto e Emilia-Romagna. Toscana, Umbria, Marche e Liguria sono di competenza del Consolato generale di Firenze. Il resto del territorio italiano è sotto la giurisdizione consolare dell'Ambasciata.

Rapporti politici. Già nell'ottobre 1955 Pietro Nenni, che allora era Segretario Generale del Partito Socialista Italiano si recò in visita a Pechino, venendo ricevuto da Mao Tse-Tung. Nel 1964, il Consiglio Cinese per la Promozione del Commercio Internazionale e l'ICE, l'Istituto nazionale per il Commercio Estero, siglarono un accordo attraverso il quale stabilirono nelle relative capitali un ufficio di rappresentanza. Il Partito Comunista Italiano invitò rappresentanti cinesi a partecipare al suo congresso del 1969, l'invito, tuttavia, venne declinato dai cinesi. La questione relativa al riconoscimento della Cina presentava diverse complessità politiche e diplomatiche. La Repubblica Popolare Cinese non faceva parte dell'ONU a causa dell'opposizione statunitense, e l'Italia fino ad allora riconosceva formalmente solo la Repubblica di Cina, paese che, per via delle rivendicazioni riguardanti la propria sovranità sull'intero territorio cinese, era considerato ostile dalla Repubblica Popolare Cinese, rendendo incompatibile la sussistenza di relazioni formali con quei paesi che ne riconoscevano la legittimità. Nel gennaio 1969, divenuto Ministro degli esteri, Nenni presentò la proposta per il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese. I due paesi nominarono i rispettivi ambasciatori a febbraio del 1970, e, quasi contemporaneamente, la Repubblica di Cina comunicò la cessazione dei rapporti bilaterali con l'Italia. Il 25 ottobre 1971, con la risoluzione 2758 (XXVI) l'assemblea generale delle Nazioni Unite riconobbe i rappresentanti della Repubblica Popolare Cinese come "l'unico rappresentante legittimo della Cina alle Nazioni Unite" ed espulse i rappresentanti della Repubblica di Cina di Chiang Kai-shek.

Rapporti economici. L'Italia è per volume d'affari, tra i paesi dell'Unione europea, il quinto partner commerciale della Cina. I prodotti che l'Italia importa dalla Repubblica Popolare Cinese sono principalmente componenti meccanici ed elettronici, prodotti tessile e dell'abbigliamento, metalli e prodotti in metalli, prodotti chimici (incluse materie plastiche, gomme e prodotti derivati), borse, calzature, autoveicoli. Lungo la direttrice opposta i prodotti che la Cina importa dallo Stivale sono prevalentemente macchinari industriali, attrezzature, prodotti chimici, pelli animali e articoli di pelletteria, nonché strumenti ottici e farmaceutici. Tra il 1979 ed il 2003, sono stati 2136 i progetti sviluppati da imprese italiane in Cina, corrispondenti ad un valore contrattuale totale di circa quattro miliardi di dollari. Ampia rilevanza nel rapporto economico tra i due paesi va riconosciuta agli scambi tecnologici che tra essi intercorrono: dal 1981 alla fine del 2003, Italia e Cina hanno siglato 2098 contratti sull'introduzione di tecnologie innovative, per un valore di quasi dieci miliardi di dollari.

Cooperazione. Il Comitato intergovernativo Italia - Cina. Istituito nel 2004, in occasione della visita a Roma di Wen Jiabao, primo ministro cinese, il Comitato intergovernativo Italia-Cina è l'organismo di coordinamento delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Presieduto da i due ministri degli esteri il comitato svolge la cruciale funzione di interconnessione tra le amministrazioni e gli enti (sia privati che pubblici), che in entrambi i Paesi operano per lo sviluppo delle relazioni bilaterali. Il Comitato Governativo ha infine un ruolo di supervisione ed orientamento riguardo a tutti i progetti e alle iniziative economiche che coinvolgono i due Stati.

Cooperazione militare. Dalla fine della seconda guerra mondiale i rapporti di cooperazione nell'ambito della difesa militare e della cooperazione per le missioni di pace tra i due Paesi si è consolidata sempre più. Già nel luglio 1991 Italia e Cina firmarono un accordo bilaterale di cooperazione per la ricerca e l'utilizzo pacifico dello Spazio, mentre il 28 novembre 1996 la Marina italiana e la Marina dell'esercito popolare di liberazione tennero la prima esercitazione congiunta nelle acque al largo di Shanghai. Nel 2003, il ministro della Difesa cinese Cao Gangchuan e l'allora viceministro della Difesa italiano Salvatore Cicu espressero la loro speranza in una più stretta cooperazione militare tra i due paesi. Nel febbraio 2005, su invito del Capo di Stato Maggiore cinese, generale Liang Guanglie, il Capo di Stato Maggiore della Difesa italiano, ammiraglio Giampaolo Di Paola, compì la prima visita ufficiale in Cina.

Scambi culturali. È negli anni '50 del XX secolo che iniziarono i primi rapporti a livello culturale fra i due paesi. La prima visita in tal senso da parte di un funzionario cinese risale al 1955, in occasione dell'arrivo in Italia di Zhang Zhixiang, vice ministro della cultura della Cina. Il 6 ottobre 1978, a Roma, Huang Hua, Ministro degli Affari Esteri Cinese e Arnaldo Forlani, Ministro degli Affari Esteri Italiano siglarono un accordo bilaterale di collaborazione culturale fra i due paesi, adottando un programma biennale esecutivo di cooperazione culturale, scientifica e tecnica. Da allora, regolarmente, vengono adottati programmi di scambi culturali tra Cina e Italia ogni 2-4 anni.

Visite di Stato.

2004. Nel dicembre del 2004 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi si reca in visita di Stato seguito da una nutrita delegazione di industriali.

2006. Nel settembre 2006, l'allora presidente del consiglio italiano Romano Prodi si recò in visita ufficiale in Cina accompagnato da i ministri Rosy Bindi, Emma Bonino, Antonio Di Pietro e Fabio Mussi. La delegazione italiana fu ricevuta a Pechino dal premier cinese Wen Jiabao e successivamente dal presidente Hu Jintao. Furono firmati accordi riguardanti la ricerca, lo scambio di studenti universitari e ricercatori, le adozioni e il commercio. La visita proseguì nelle città di Nanchino, Canton, Shanghai e Tianjin.

2009. Il livello diplomatico delle relazioni tra le due repubbliche raggiunge uno dei punti di massimo rilievo il 6 luglio 2009, in occasione della visita ufficiale in Italia di Hu Jintao, presidente della Repubblica Popolare Cinese. Seppur contestato per via di alcune scelte nella politica cinese interna ed estera non condivise da alcune parti dell'opinione pubblica italiana, la presenza di Hu Jintao in Italia ha consolidato definitivamente la partnership economica tra Roma e Pechino. Il presidente cinese, che in tale occasione prese parte alla riunione del G8 a L'Aquila incontrò il presidente Giorgio Napolitano e tutte le più alte cariche di stato italiane, firmando nove accordi bilaterali di cooperazione e sviluppo. Furono circa trecento le delegazioni di altrettante aziende cinesi giunte in Italia in occasione di tale visita.

2010. Nell'ottobre 2010 il presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano ha compiuto una visita di Stato nella Repubblica Popolare Cinese, recandosì in diverse città. A Pechino Napolitano è stato ricevuto dal presidente Hu Jintao e successivamente ha pronunciato un discorso nell'Aula Magna della Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese, incentrato sul tema dei rapporti fra Italia, Cina e Unione Europea. Tra le cariche istituzionali cinesi incontrate da Napolitano vi sono state il presidente dell'Assemblea Nazionale del Popolo, Wu Bangguo e il primo ministro, Wen Jiabao. A Shanghai, il presidente italiano è stato ricevuto dal sindaco Han Zheng, visitando i padiglioni cinese ed italiano presso l'Expo 2010. Napolitano ha proseguito il suo viaggio per Hong Kong e Macao, dove ha incontrato i vertici delle due regioni amministrative speciali.

·         Venezuela, la Russia accusa gli Stati Uniti all'Onu: "Un golpe contro Maduro".

Venezuela, la Russia accusa gli Stati Uniti all'Onu: "Un golpe contro Maduro", scrive il 26 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Scontro totale tra Stati Uniti e Russia sulla crisi in Venezuela. Scontro che va in scena all'Onu, convocato per la situazione del Paese sudamericano. "L’esperimento socialista in Venezuela è fallito, la gente è alla fame. Il regime di Maduro è mafioso e illegittimo. Poniamone fine. Queste le durissime parole del segretario di stato americano Mike Pompeo in apertura del suo intervento al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Pompeo ha sottolineato come "la crisi umanitaria nel paese necessita di un’azione ora, oggi, per porre fine a un incubo". Poco prima, però, le durissime accuse della Russia, che ha parlato apertamente di un "golpe di Washington a Caracas" per scalzare Maduro. Stati Uniti e Canada hanno già riconosciuto Guaidò come presidente legittimo, e dall'altro Russia e Cina hanno invece chiesto di non interferire negli affari interni di Caracas. Per quel che riguarda il fronte europeo, si fa sempre più concreta la possibilità che a Bruxelles venga trovata una linea comune sulle crisi. "La Germania è pronta a riconoscere Juan Guaidò quale presidente ad interim del Venezuela se nuove elezioni non dovessero essere indette in otto giorni", ha affermato la portavoce di Angela Merkel, Martina Fietz, su Twitter. Stessa posizione ha anche la Francia, come dichiarato dal presidente francese Emmanuel Macron. Meno chiara, invece, la posizione italiana: Luigi Di Maio, nonostante le simpatie grilline per Maduro, rimane silenzioso, avallando la posizione del premier Giuseppe Conte e di Enzo Moavero Milanesi, che seppur con prudenza si allineano all'Unione Europea.

Ecco cosa c’è davvero dietro il colpo di Stato in Venezuela, scrive Davide Malacaria il 26 gennaio 2019 su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. La crisi venezuelana ha diverse chiavi di lettura, ma la più importante resta il petrolio, sul quale galleggia. Fattore decisivo dell’impegno Usa, che dura tempo, di rovesciare il governo chavista. Il mondo libero accusa Nicolas Maduro di aver compresso la libertà. Vero, il caudillo non è un campione di democrazia, come non lo era Gheddafi né Saddam. Resta che certe inclinazioni autoritarie, proprie di altri leader del mondo, sono guardate con ben altra indulgenza. Si veda l’Arabia Saudita o il Ruanda, rette da leader graditi all’Impero d’Occidente, nonché primo esportatore di petrolio al mondo e Paese che commercia le immani ricchezze predate alla Repubblica democratica del Congo. C’è una scena del film Vice, sul potentissimo Dick Chaney, nel quale i capi delle maggiori compagnie petrolifere Usa si presentano al nuovo potente subito dopo la vittoria, squadernandogli davanti una mappa dell’Iraq sulla quale sono contrassegnati  i giacimenti petroliferi del Paese. Il resto è storia nota. Non è difficile immaginare una scena analoga all’indomani dell’elezione di Trump, che subito dopo la vittoria ha intensificato le pressioni sul governo chavista (già martellato sotto l’amministrazione Obama). D’altronde il primo Segretario di Stato, Rex Tillerson, era Ceo della Exxon…Da decenni gli Stati Uniti cercano di riprendere il pieno controllo del petrolio venezuelano. È giunto il momento di chiudere la partita, facendo leva sul malcontento diffuso e sui passi falsi del caudillo. In gioco in questo momento non è solo il destino del Venezuela, ma del mondo. Gli Usa hanno visto erodere il loro ruolo globale dal nuovo interventismo russo e dallo sviluppo economico cinese. Impossessarsi dei più ricchi giacimenti petroliferi del mondo, quelli di Caracas, per Washington è diventato decisivo. Gli Usa diventerebbero d’incanto il primo produttore di oro nero. In tal modo Washington reputa di riuscire a fiaccare la Russia, la cui economia si basa sul commercio di tale risorsa energetica. Non solo, grazie alla nuova leva petrolifera, Washington ritiene di riuscire a rendere insostenibili le pressioni che già oggi esercita sull’Europa perché receda il cordone ombelicale energetico che la lega a Mosca. In tal modo, i Paesi europei che oggi sognano la fine della tutela atlantica saranno relegati nuovamente al ruolo ancillare a Washington. Il rilancio dell’Impero d’Occidente avrebbe ovviamente anche ripercussioni nel confronto a distanza con Pechino, dato che il petrolio venezuelano consegnerà nuovi vantaggi a Washington. Non solo, gli Usa, nonostante il ripiego momentaneo proprio dell’America First, saranno portati a tentare di ripristinare la perduta influenza su aree sfuggite al loro controllo e allargarla altrove. Nuova assertività alla quale i suoi antagonisti saranno portati a opporsi con una rigidità maggiore. Infatti, da quando Cina e Russia hanno rilanciato il loro ruolo, il confronto con gli Stati Uniti si è assestato, al di là dei picchi, su un basso profilo. In fondo, finora è stato in gioco solo il riconoscimento da parte degli Usa del loro status di grandi potenze e dell’assetto multipolare conseguente. La primazia energetica Usa darebbe nuovo alimento all’ipotesi unipolare, con conseguente pretesa della totale revoca delle richieste sino-russe e conseguente accettazione irrevocabile dell’ordine mondiale americano. Nuova pretesa che sposterebbe il confronto sul piano esistenziale. Che non comporta cedimenti. Con rischi accresciuti per la conflittualità globale. Come per l’Iraq e la Libia, non si tratta di sostenere Maduro, come non necessitava essere fan del crudele Saddam o del Colonnello per guardare con certo sospetto certe nefaste pretese di certi ambiti americani. Pretese sulle quali esprime dubbi anche il senatore democratico Bernie Sanders, ricordando l’avventurismo Usa in Sud America e le dittature di un passato che è utile non dimenticare. Si spera in qualche ricomposizione intra-venezuelana, ma oggi appare impossibile.

·         La retorica degli Europeisti.

Bersani rivede l'era dell'austerity: "Servì a fare fuori me e Berlusconi". L'ex dem ammette: "Nel 2011 un'ubriacatura di retorica europeista", scrive Augusto Minzolini, Giovedì 17/01/2019, su "Il Giornale". «Le vittime dell'austerity? Berlusconi e il sottoscritto...». Alla buvette di Montecitorio l'ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ci mette un attimo a replicare alla domanda perché la risposta l'aveva già sulla bocca. Pronta. Quel mea culpa dell'altro giorno di Jean-Claude Juncker - «l'austerity fu avventata» gli ha lasciato un sorriso amaro stampato in viso. Se poi a quella frase del presidente della Commissione Ue ci aggiungi le chiose dei vari Di Maio e Salvini, contro la politica del rigore di stampo europeo, il personaggio si morde le dita. Anche perché le parole di Bersani contengono una verità: il Cav fu il paladino, nel braccio di ferro che si innescò in Europa, dei fautori della ricetta dello sviluppo contro la politica dell'austerity, di cui furono artefici Angela Merkel e Nicolas Sarkozy; ne fece le spese e fu cacciato da Palazzo Chigi da un'operazione che ancora oggi definisce un colpo di Stato, ma riuscì ad evitare l'arrivo della politica del Fmi, che Juncker ha additato ancora ieri come responsabile dell'avvitamento greco. Bersani, contemporaneamente, costretto da Napolitano e soci, ad assecondare le indicazioni della Ue, per quella politica ha perso nel giro di qualche anno elezioni, segreteria del Pd e, addirittura, partito, visto che è stato costretto ad inventarsene un altro. Per una politica, oggi può dirlo, di cui non era per nulla convinto. Racconta l'ex segretario del Pd: «Ricordo ancora la direzione in cui posi i dirigenti del partito di fronte all'opzione governo Monti o elezioni. Mi trovai di fronte un fuoco di sbarramento di sei interventi di esponenti di primo piano che consideravano Monti una scelta obbligata. Poi c'era Napolitano... Da quel momento, tutte le settimane, per un anno, sono stato sottoposto ad un'esame di montismo. E anche se avevo qualche dubbio sull'efficacia della politica del loden, dovevo accettare l'impostazione di chi, per far dimenticare il proprio passato comunista, pensa sempre che abbiano ragioni gli altri. La verità è che in molti si ubriacarono di retorica europeista. Trasformarono un'idea buona, l'Europa unita, in un'ideologia...». Ormai è la storia con i suoi martiri. Ma se non parti da lì, da quei mesi, non comprendi la cronaca politica di oggi. Non capisci perché l'area moderata quasi non esiste più, mentre la sinistra di governo è ridotta ad un simulacro. Sarà un paradosso ma i grillini, i sovranisti, i Di Maio, i Salvini, sono tutti figli diretti degli sbagli di allora, degli errori di Napolitano, di Monti, dell'establishment di un intero Paese interessato alle geometrie del Palazzo e poco accorto rispetto a ciò che accadeva fuori. Basta pensare che all'insediamento del governo Monti nei sondaggi i grillini erano accreditati dell'8%, di lì ad un anno, alle politiche del 2013, arrivarono al 22%. «Ubriachi di retorica europeista», per usare le parole di Bersani, l'establishment di quel momento (dalle istituzioni politiche a quelle economiche, fino ai giornali), arrogante e presuntuoso nelle proprie convinzioni, pose il germe di quella retorica sovranista, che, per reazione, è diventata egemone oggi. Insomma, per sintetizzare tutto in una battuta, grillini e sovranisti sono figli della politica del Nap. «Tutto nasce da lì», spiega Guido Crosetto, all'epoca alla corte del Cav e oggi testa d'uovo di Giorgia Meloni: «È in quel momento che si innesca la crisi dell'area moderata e della sinistra di governo. E ora siamo governati da questa merda qui. Fu il disegno miope, di un establishment che non riusciva a vedere al di là del proprio naso. Addirittura per far fuori il Cav, per la prima volta in un Paese come il nostro, media e magistratura andarono a curiosare anche sotto la cintola dei pantaloni dei politici. Un'operazione premeditata: ricordo ancora che una mia amica, all'epoca manager della L'Oreal, sei mesi prima dell'avvento del governo del loden, nel giugno del 2011, si trovò ad una cena di ex allievi della Bocconi con un Monti nei panni del profeta: «Ora mi toccherà disse in quell'occasione - di fare il premier...». Già, tutto nasce da lì. E ancora non è finita. «Con il giochetto del referendum propositivo prosegue Crosetto - ci stanno portando alla democrazia popolare, che spazzerà via Parlamento e Consulta. Né è una garanzia il quorum del 25% dei votanti. Immaginate il combinato disposto di un comitato promotore emanazione diretta di una maggioranza parlamentare: il comitato propone un provvedimento di iniziativa popolare, la maggioranza in Parlamento lo approva in fotocopia. E a quel punto non c'è bisogno di nessun quorum. Basta che gialli e verdi si mettano d'accordo: Di Maio fa una legge di iniziativa popolare per dimezzare gli stipendi ai parlamentari, Salvini un'altra per l'indipendenza del Nord. A questo ci hanno portato gli errori di allora!». C'è molto sarcasmo nelle parole di Crosetto. Ma c'è da capirlo, se si pensa che i nuovi generali dello scontro con la Ue sono Salvini e Di Maio. Il bollettino di sei mesi di guerra è spietato: si è arrivati ad un armistizio, ma intanto gli assalti fatti di insulti e dichiarazioni c'è costato, via spread, un aumento degli interessi sul debito di 20 miliardi in tre anni; la legge di bilancio è stata scritta sotto la vigilanza degli euroburocrati di Bruxelles; il rapporto deficit/Pil è passato, in ossequio alle logiche del marketing, dal desiderato 2,4% al 2,04%; i provvedimenti totem su reddito di cittadinanza e pensioni quota 100 debbono essere ancora varati; infine, siamo alle soglie di una recessione con clausole di salvaguardia che prevedono una zavorra di 23 miliardi di euro per chi dovrà scrivere la legge del bilancio del prossimo anno. In un Paese serio i due generali sarebbero già stati portati davanti alla corte marziale. «Bei risultati osserva l'azzurro Stefano Mugnai per una battaglia campale, sicuramente non paragonabile alla guerra del 2011. La verità è che l'unica vera vittima della politica del rigore fu Berlusconi, lo dice la storia. Almeno lui si oppose, unico nella Ue, al partito dell'austerity: forte in Europa e con quinte colonne in Italia». Resta da vedere cosa avverrà in futuro. Juncker nella sua ammissione di colpa ha fatto riferimento alla Grecia. Lì gli errori della Ue, del Fmi, della politica dell'austerity hanno creato Alexis Tsipras. È passato qualche anno e il movimento del pendolo è a ritroso. «La Grecia è il parere di Valentino Valentini, storico consigliere del Cav ci anticipa. Per vedere cosa succederà da noi, stiamo attenti a ciò che avviene ad Atene. Prima la gente manifestava per Tsipras; ora la gente va in piazza contro Tsipras». Augusto Minzolini

·         Italia trattata come la vacca da mungere.

Antonio Socci, immigrazione e Unione europea. Un'amarissima verità: "Italia trattata come la vacca da mungere". Libero Quotidiano il 24 Giugno 2019. Tutti parlano della "procedura d' infrazione" - ossia della punizione, con tanto di multa - che la Ue intenderebbe infliggere all' Italia per "deficit eccessivo". Ma nessuno spiega se è giusto, chi sono i "punitori" e cosa li muove. Il professor Luca Ricolfi (area centrosinistra) ha osservato sul Messaggero che le cosiddette "regole" vengono fatte valere dalla Commissione europea con una «fortissima discrezionalità», cosicché «sono state tranquillamente ignorate quando a violarle erano Paesi come la Francia o la Germania». Mentre per l' Italia si decide in base al governo. Così è accaduto «che al governo italiano fosse concessa ogni sorta di sforamento e dilazione negli anni di Renzi e Gentiloni e, simmetricamente, ora accade che al governo italiano venga assai più perentoriamente richiesto di obbedire alle regole». In sostanza vogliono mettere in riga l' Italia che ha la colpa di aver votato Lega. Le regole europee sono usate dalla Commissione per costringere l' Italia a sottomettersi e per imporre le sue politiche economiche che si sono rivelate fallimentari (hanno infatti portato povertà, recessione e disoccupazione). La cosa che sconcerta è l' assurdità dei pretesti che accampano per colpirci: in questo caso l' irrilevante esiguità della variazione del deficit, che è ben inferiore al deficit della Francia. Ma nella narrazione corrente sembra che l' Italia meriti di essere punita perché sarebbe spendacciona e danneggerebbe gli altri partner europei i quali sarebbero stanchi di "pagare" i suoi vizi. 

Denaro e sangue - Anzitutto va detto che l' Italia è fra i paesi più rigorosi e disciplinati perché da quasi trent' anni è in avanzo statale primario (un economista l' ha definito: «un record assoluto a livello mondiale»). Ma c' è di più. Ieri Matteo Salvini ha dichiarato: «All' Unione europea gli italiani stanno regalando decine di miliardi (e sangue) da anni, adesso basta». È vero? Sì. È esattamente così. Come ha fatto notare Fabio Dragoni, dal 2000 al 2017 noi abbiamo versato alla Ue molto più di quanto abbiamo ricevuto: precisamente 88,720 miliardi in più che, evidentemente, sono andati a beneficio degli altri partner della Ue. Inoltre abbiamo contribuito al Fondo Salva Stati con 58,200 miliardi (Fonte DEF 2019). In totale fanno 146,920 miliardi di cui hanno beneficiato gli altri paesi europei che poi oggi - incredibilmente - vogliono la procedura contro l' Italia per uno scostamento minimo del nostro deficit previsto. È grottesco e ingiusto: con tutti quei soldi avremmo addirittura abbattuto il debito (oltreché il deficit) e rilanciato la nostra economia (con forti investimenti in opere pubbliche). È assurdo che l' opposizione non faccia fronte comune col governo contro questa palese iniquità. È anche avvilente che sui media sia l' Italia ad apparire in colpa. Eppure noi non siamo debitori della Ue, bensì creditori. Perché non rivendicarlo tutti uniti? Forse qualcuno in Italia tifa per la procedura d' infrazione per dare un colpo ai "sovranisti"? Qualcuno in Italia pensa di avvantaggiarsi se la Ue ci impone di dare un nuovo colpo a sanità e pensioni, se ci costringe a una nuova stangata fiscale e a una nuova recessione? C' è chi si aspetta un aiuto straniero contro Salvini?

Passa lo straniero - Spero di no. La "chiamata dello straniero" è sempre stata la causa di tutte le sciagure italiane. La storia insegna che le invasioni, le devastazioni e i saccheggi degli eserciti europei nel nostro Paese sono stati possibili per le divisioni fra gli italiani e perché qualcuno di loro chiamava quell'"aiuto" contro altri italiani. Esemplare il caso dell' Italia rinascimentale che era il faro mondiale della civiltà (nelle corti europee si imparava l' italiano come oggi si studia l' inglese). Essendo purtroppo divisa in tante fazioni contrapposte fu un boccone ghiotto per gli eserciti "europei" che non trovavano mai una resistenza concorde. Lo ha raccontato nella sua "Storia delle repubbliche italiane" lo storico ed economista ginevrino Sismondo de Sismondi: «Alla fine del secolo XV i signori delle nazioni francese, tedesca e spagnola furono tentati dall' opulenza meravigliosa dell' Italia, dove il saccheggio di una sola città prometteva loro a volte più ricchezze di quante ne potessero strappare a milioni di sudditi. Con i più vani pretesti essi invasero l' Italia che, per quaranta anni di guerra, fu di volta in volta devastata da tutti i popoli che poterono penetrarvi. Le esazioni di questi nuovi barbari fecero infine scomparire l' opulenza che li aveva tentati». Vogliamo imparare dalla storia? Antonio Socci

·         Francia e Germania, ecco il patto d’acciaio.

Francia e Germania, ecco il patto d’acciaio. E l’Italia rimane fuori, con l’Europa dei muri e dell’austerità, scrive il 22 gennaio 2019 L’Inkiesta. Oggi Merkel e Macron firmeranno uno storico trattato di cooperazione franco-tedesca che sarà il viatico per la costruzione dell’Europa politica. Noi invece saremo alla guida di chi si oppone, coi Paesi di Visegrad che non ci aiutano coi migranti e che vogliono ancora più austerità. Chissà se le intemerate di Di Battista e Di Maio contro la Francia, che negli ultimi giorni hanno superato abbondantemente il livello di guardia, c’entrano qualcosa con il trattato che Emmanuel Macron e Angela Merkel firmeranno oggi ad Aquisgrana. Un trattato “sulla cooperazione e l’integrazione franco-tedesca” che arriva esattamente 56 anni dopo l’accordo tra De Gaulle e Adenauer del 1963. Allora, quella stretta di mano fu il vero viatico alla concretizzazione della Comunità Europa sancita sette anni prima a Roma. Oggi, è l’architrave su cui, con ogni probabilità, si fonderà la nuova Europa politica, quella che finirà per mangiarsi l’Unione a 27. Scorrendo le pagine del Trattato di Aquisgrana, pubblicato sul sito internet della Bundeskanzleramt e dell’Eliseo si ritrovano in nuce tutti i grandi temi dell’Europa più stretta, che corre più veloce, di cui più volte hanno parlato il presidente e la cancelliera. Di clamoroso - e non dubitiamo Di Battista tornerà sul tema - c’è la comune volontà di fare della Germania un membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, chiudendo definitivamente un capitolo della Storia chiamato seconda guerra mondiale. Ancora: c’è l’istituzione di un Consiglio dei ministri franco-tedesco e di un consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza, di un consiglio franco-tedesco di esperti economici. Addirittura si scrive nero su bianco che membri del governo di uno dei due Stati prenderanno parte almeno una volta a trimestre e in alternanza, ai consigli dei ministri dell’altro Stato. Con ogni probabilità nel prossimo parlamento europeo saremo alla guida della protesta contro quest’asse e contro quell’Europa più forte e politica che potrebbe portarci parecchi benefici, a partire da una comune politica sulle migrazioni, sino a una comune politica fiscale. Di fatto, per quanto possa essere paradossale, saremo in prima fila a batterci in favore dell’Europa di oggi, quella del Trattato di Dublino e dell’austerità. Se non è una rivoluzione, poco ci manca. Ed è legittimo chiedersi come verrà accolta all’interno dei due Paesi, in particolare da forze nazionaliste come il Rassemblement National e Alternative fur Deutschland, che hanno l’identità nazionale in cima ai loro programmi, a pure tra i gollisti e l’ala destra dei cristiano democratici tedeschi, che con questi nuovi movimenti condividono parte del loro bacino elettorale. Così come del resto è legittimo chiedersi come tutto questo sarà accolto dal resto dell’Europa, dalle sue istituzioni, e dalle sue cancellerie. È difficile pensare che le decisioni prese nel contesto di questo nuovo asse non saranno vincolanti per il resto dell’Europa. Che, ad esempio, la nuova difesa europea non nascerà tra Parigi e Berlino, così come i nuovi assetti di politica economica e fiscale che l’Europa vorrà darsi. Nei fatti, è pure possibile che le stesse elezioni europee del prossimo maggio si trasformeranno, fuori da Francia e Germania, in un referendum pro o contro trattato di Aquisgrana e l’Europa franco-tedesca. Per l’Italia, c’è il sapore dello smacco. Perché a differenza di quanto accadde tra gli anni ’50 e ’60 noi non facciamo parte di questo processo costitutivo. E non solo ne siamo ai margini, ma siamo pure sulla sponda opposta, tutti protesi a cercare accordi con chi, a Est, l’Europa politica non la vuol nemmeno sentir nominare. Di più: con ogni probabilità nel prossimo parlamento europeo saremo alla guida della protesta contro quest’asse e contro quell’Europa più forte e politica che potrebbe portarci parecchi benefici, a partire da una comune politica sulle migrazioni, sino a una comune politica fiscale. Di fatto, per quanto possa essere paradossale, saremo in prima fila a batterci in favore dell’Europa di oggi, quella del Trattato di Dublino e dell’austerità. A dirlo, quasi non ci si crede.

Tutte le mire di Francia e Germania con il trattato di Aquisgrana, scrive Jean-Pierre Darnis su 21 gennaio 2019 su affarinternazionali.it. Che cosa cambia per l’Europa con il trattato fra Germania e Francia firmato ad Aquisgrana? L’analisi di Jean-Pierre Darnis dell’Istituto Affari Internazionali.

Il nuovo trattato franco-tedesco che viene firmato ad Aquisgrana rinnova il Trattato dell’Eliseo. Firmato nel 1963, ha rappresentato un passo importante nella riconciliazione tra le due nazioni, illustrando anche la volontà di Charles De Gaulle di rilanciare la costruzione europea in chiave inter-statale. Due tipi di misure hanno conosciuto una particolare fortuna. Prima di tutto, il trattato ha promosso con grande impegno l’insegnamento delle lingue reciproche e lo sviluppo di relazioni culturali con l’opera dell’Ufficio per la gioventù franco-tedesca. Il trattato ha anche istituito sistematiche riunioni bilaterali a livello ministeriale, nonché procedure di scambio di informazioni e di alti funzionari. Molti attori governativi francesi e tedeschi sottolineano l’importanza degli scambi e del modus operandi bilaterale: si è creato un circuito di cooperazione poi rafforzato dal vero e proprio ‘Erasmus di alti funzionari’ sviluppato da Francia e Germania, con i dirigenti di un Paese che lavorano in modo integrato nell’altro, e non in rappresentanza del loro Paese di origine. Con il passar degli anni, una tale cooperazione ha contribuito a consolidare la conoscenza dei meccanismi del partner, rinforzando la capacità di elaborare posizioni comuni.

IL RAPPORTO PARIGI-BERLINO COME MOTORE DELL’EUROPA. La Francia e la Germania sono due Paesi assai diversi dal punto di vista politico e istituzionale: una repubblica presidenziale centralizzata la prima, mentre la seconda ha un carattere parlamentare e federalista. Rappresentando due culture politiche divergenti, la cooperazione non è automatica e molto spesso si presentano tensioni, anche a causa di una storia passata particolarmente difficile. Però possiamo constatare quanto il rapporto fra Francia e Germania sia strutturale per l’Europa. La chiave sta nella ricerca quasi obbligata di un compromesso fra i due Paesi, una posizione mediana spesso capace di trascinare l’intera Europa, sia per il peso specifico dei due Stati membri, sia per la possibilità di esprimere una sintesi fra Europa del Nord ed Europa del Sud. Il nuovo Trattato di Aquisgrana si presenta in grande continuità con la versione precedente. Possiamo rilevare l’aggiunta di una clausola di difesa comune: una novità dal punto di vista bilaterale, che non dovrebbe però cambiare l’atteggiamento francese e tedesco all’interno della Nato, ma che potrebbe segnare un’ulteriore volontà di proseguire la costruzione della difesa europea, anche tramite l’integrazione differenziata. Molti avrebbero voluto un nuovo trattato più ambizioso. Invece, il nuovo Trattato di Aquisgrana rimane fondamentalmente un meccanismo di cooperazione senza una vera e propria convergenza politica, il che illustra l’attuale equilibrio fra tendenze europeiste integrazioniste e spinte nazionaliste.

ITALIA: LA GRANDE ESCLUSA VERSO UN ACCORDO CON LA FRANCIA? Il rinnovo del trattato franco-tedesco pone con forza la questione della posizione italiana in materia. Per decenni l’Italia si è sentita esclusa da questa relazione privilegiata e non ha perso occasione per stigmatizzare il rapporto tra Francia e Germania. Il ciclo negativo di relazioni fra Parigi e Roma, iniziato negli anni Duemila, ha portato a un accumularsi di problematiche che richiedono soluzioni più durature del semplice vertice bilaterale annuale franco-italiano. Per questo motivo è stata lanciata durante il summit bilaterale di settembre 2017 l’idea di un trattato detto “del Quirinale”, che avrebbe ripreso il meccanismo franco-tedesco adattandolo alla relazione franco-italiana.

UN ACCORDO VANTAGGIOSO PER ENTRAMBE LE PARTI. La situazione ora è assai contraddittoria. La firma di questo trattato sarebbe estremamente utile, anche per meglio gestire i numerosi dossier in sofferenza fra Parigi e Roma. Non va dimenticato che l’alto numero di problemi tra i due Paesi corrisponde a una relazione di particolare e crescente intensità nel contesto post Brexit. La firma permetterebbe a Roma di accedere allo stesso tipo di rapporto che esiste tra Francia e Germania, riducendo quindi il risentimento italiano ogni volta che Parigi e Berlino si muovono insieme su determinati dossier. Sarebbe inoltre auspicabile che Francia e Italia potessero meglio coordinare le loro strategie di politica economica europea, largamente convergenti, anche in una chiave di maggiore dialettica con Berlino, ad esempio per ottenere più flessibilità budgetaria dall’Unione europea. Politicamente, però, sembra difficile pensare oggi che i governi di Roma e Parigi accettino di sedersi intorno a un tavolo per firmare un trattato che altro non può essere che di amicizia e collaborazione.

Cosa dobbiamo pensare del nuovo accordo tra Francia e Germania? I due paesi hanno firmato un trattato di amicizia che non piace ai nazionalisti, è troppo poco per gli europeisti e preoccupa gli italiani, scrive mercoledì 23 gennaio 2019 Il Post. «In un momento in cui l’Europa è minacciata al suo interno dal risorgere dei nazionalismi – ha detto ieri il presidente francese Emmanuel Macron – Germania e Francia devono assumersi la loro responsabilità e indicare la strada». È stato questo il commento più citato tra quelli fatti ieri dal presidente francese durante la firma, insieme alla cancelliera tedesca Angela Merkel, del Trattato di Aquisgrana, un accordo che rende ancora più profondi e intensi i legami tra i loro due paesi. Il trattato prevede la creazione di un consiglio di difesa comune, l’accordo su politiche di difesa, maggiore integrazione economica e a livello intergovernativo. Sarà anche creato un consiglio di esperti economici comune ai due paesi e sarà intrapreso un percorso per rendere la legislazione in materia di imprese sempre più simile. I due paesi hanno stabilito di prendere insieme le loro decisioni sulle esportazioni di armi e di favorire il bilinguismo nelle aree di confine tra i due paesi (pur impegnandosi a non modificare la lingua utilizzata dalle amministrazioni locali). La Francia inoltre si impegna a sostenere la richiesta tedesca di un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Vengono anche messe per iscritto e regolate una serie di pratiche che i due paesi avevano avviato informalmente dopo la firma del Trattato dell’Eliseo, esattamente 56 anni fa, ossia lo scambio nel personale dei ministeri e regolari visite dei ministri di un paese alle riunioni di governo dell’altro. Con le sue parole a commento dell’accordo, Macron ha fatto chiaramente capire chi considera gli avversari di questo trattato: i movimenti nazionalisti che si oppongono all’integrazione europea. La risposta a chi vuole disgregare l’Europa, ha detto Macron, è la creazione di un nuovo accordo di integrazione tra i due paesi più forti dell’Unione. I partiti della destra francese e tedesca non hanno avuto bisogno delle sue parole per criticare il trattato che da settimane è sotto attacco da entrambi i lati del confine. In Francia Macron è accusato di voler cedere ulteriori pezzi di sovranità alla Germania. Marine Le Pen, leader del Rassemblement National, ha accusato il presidente di voler obbligare i francesi al confine con la Germania ad imparare il tedesco, rievocando i lunghi anni di occupazione da parte della Germania a cui quell’area del paese è stata sottoposta nell’ultimo secolo e mezzo. Le critiche sono state così diffuse che in questi giorni lo sforzo principale dei quotidiani francesi più che l’analisi del trattato è stato smentire le numerose notizie false che lo riguardavano. I nazionalisti tedeschi hanno criticato il trattato da posizioni speculari: dal loro punto di vista è Merkel ad aver ceduto troppo ai francesi, condizionando la libertà di azione del governo tedesco per favorire il suo inaffidabile alleato. Macron, secondo il leader del partito di destra radicale AFD Alexander Gauland, vuole solo mettere le sue mani sui “soldi dei tedeschi”, così come vorrebbero fare tutti gli altri paesi dell’Europa meridionale. Altri dubbi sull’accordo sono arrivati anche dalle istituzioni europee, per le quali gli accordi bilaterali tra Francia e Germania rappresentano un preoccupante tentativo di aggiramento. Il presidente del Consiglio dell’UE, il polacco Donald Tusk, ha detto che oggi l’Europa ha bisogno di rassicurazioni sul fatto che la “cooperazione bilaterale tra alcuni paesi” non sia alternativa alla cooperazione tra tutti i membri dell’Unione. Ma è l’Italia il paese dove l’accordo ha probabilmente suscitato la maggiore preoccupazione. L’accordo “può isolare l’Italia”, ha scritto Il Giornale e di isolamento ha parlato anche La Stampa, mentre La Verità ha titolato: “Merkel e Macron si fanno l’Europa privata”. È dalla fine della Seconda guerra mondiale che il nostro paese, terzo per ricchezza e importanza nell’Europa continentale, risente della “relazione speciale” che lega i primi due, Germania e Francia. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy che sembrano ridacchiare di Berlusconi durante una conferenza stampa nell’ottobre 2011, in un video che fu da molti usato come prova del fatto che Francia e Germania avessero una sorta di complesso di superiorità rispetto all’Italia. Formalmente a unire i due paesi è il Trattato dell’Eliseo, firmato nel 1963 dal presidente francese Charles De Gaulle e dal cancelliere tedesco Konrad Adenauer (trattato in parte completato e ampliato dal Trattato di Acquisgrana firmato ieri). Visto che però il contenuto del trattato è soprattutto simbolico, la sostanza della loro “relazione speciale” è rappresentata dalle pratiche intergovernative messe in atto negli ultimi decenni: lo scambio e le visite regolari di alti funzionari ministeriali, la pratica di consultarsi prima di ogni vertice internazionale, le continue visite e i rapporti privilegiati tra i capi di governo e i ministri dei due paesi. L’Italia non è mai riuscita ad inserirsi in questa relazione, costruendo un rapporto privilegiato con uno dei due principali paesi dell’Europa continentale. Per cercare di rimediare in parte a questa situazione nel 2018 il governo Gentiloni aveva iniziato a lavorare a un Trattato del Quirinale che avrebbe dovuto portare all’inizio di un percorso simile tra Italia e Francia. Proprio in questi giorni, però, i giornali scrivono che l’attuale governo ha sospeso la prosecuzione dei lavori e degli incontri diplomatici. Nel frattempo, la stampa tedesca e francese celebrano l’accordo, anche se senza particolare entusiasmo. Secondo alcuni, una maggiore vicinanza tra Francia e Germania contribuirà ad una rinascita dello spirito europeo. Anche il Guardian ha pubblicato un commento favorevole in cui Merkel e Macron vengono definiti due leader ancora in grado di vedere “il quadro generale” senza farsi distrarre da preoccupazioni locali e immediate come succede invece ai leader britannici impegnati a negoziare Brexit. Queste posizioni però sono minoritarie. La maggioranza dei commentatori è concorde nel dire che il trattato non va abbastanza a fondo, non è sufficientemente specifico e non affronta i nodi chiave del rapporto tra i due paesi. «È emblematico delle attuali relazioni franco-tedesche – ha commentato al Financial Times Henrik Enderlein, vicepresidente della Scuola di governo Hertie di Berlino – forte sui simboli e debole nella sostanza». Per i critici il trattato non contiene sufficienti disposizioni concrete e non impegna i due paesi ad adottare uno specifico corso di azioni. Ad esempio, si parla di maggior coordinamento tra le forze armate, ma non c’è un chiaro impegno a costruire un esercito comune. Viene auspicata l’uniformità tra le leggi che nei due paesi regolano le imprese, ma Merkel ha detto che è un processo che durerà “decenni”. «Non chiedete cosa comporta davvero il trattato», ha scritto Politico.eu in un articolo in cui definisce l’accordo un risultato “politicamente accettabile” in questo momento storico piuttosto che “il riflesso di grandi aspirazioni”. Molti, infine, sottolineano come l’accordo di ieri sia soprattutto un pallido ricordo degli ambiziosi progetti di riforma illustrati nel 2017 da Macron, durante un suo famoso discorso all’Università della Sorbona. Macron aveva parlato di passi in avanti per raggiungere un nuovo livello di integrazione politica nell’Unione Europea e nell’eurozona in particolare. Macron ha dovuto rinunciare alle sue ambizioni di fronte all’opposizione di Merkel, preoccupata che una maggiore integrazione potesse causare una frattura nel suo partito, la CDU, dove i più conservatori non sono affatto d’accordo con l’idea di aumentare l’integrazione europea e quindi di far crescere il flusso di denaro che dalla Germania dovrà muoversi verso le aree più povere del continente. Per quanto rappresenti un passo avanti nelle relazioni tra i due paesi, l’accordo di ieri è quindi poca cosa rispetto alle ambizioni di riforma dell’intera Europa che circolavano fino a pochi anni fa.

L'asse Francia-Germania fa tremare la Ue. E la Meloni dichiara guerra al superstato. Macron e Merkel firmeranno il nuovo trattato di Aquisgrana, scrive il 21 Gennaio 2019 Il Tempo tv. Un seggio in condominio nel Consiglio di sicurezza dell'Onu. E' uno dei punti cardine dell'asse franco-tedesco che verrà sancito domani ad Aquisgrana da Merkel e Macron. E il nuovo trattato mette in allarme l'Europa. Domani ad Aquisgrana Merkel e Macron firmeranno il trattato con cui costituiranno una sorta di superstato all'interno dell'Unione Europea. I due Paesi creano un asse in tema di politica estera, interna e difesa, ricerca, armamenti e diplomazia. Sono sette capitoli e 28 articoli in cui si definiscono le regole per «la cooperazione e l’integrazione franco-tedesca», regole che si richiamano al Trattato dell’Eliseo del 1963 «che ha largamente contribuito alla riconciliazione storica tra Francia e Germania». Tutto questo cambierà il volto dell'Unione europea e, un cambiamento di questa portata, verrà attuato senza ascoltare il contributo e il parere degli altri Paesi. Per questo Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia, dichiara guerra al nuovo asse e annuncia che: "A maggio andremo a Strasburgo per cambiare questo assetto europeo".  

Chi è Angela Merkel, la “Cancelliera” della Germania, scrive Andrea Muratore il 2 febbraio 2019 su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Dal 2005 a oggi Angela Merkel è stata la protagonista principale delle dinamiche politiche europee, forte del fatto di guidare la Germania in una fase in cui Berlino, forte di una rendita di posizione notevole e di un sistema di regole comunitarie che aveva la capacità di plasmare e fare interpretare, ha acquisito un’influenza senza precedenti in seno all’Unione europea. Angela Merkel, più di ogni esponente della Commissione, ha rappresentato l’Europa e la sua governance dalla sua struttura transnazionale a partire da quanto, nel 2007, da presidente di turno del Consiglio europeo, guidò le negoziazioni finali per il Trattato di Lisbona, passando poi per gli anni della Grande Recessione e della crisi dei debiti sovrani del 2010-2011. Allora la Germania merkeliana rappresentò il volto duro dell’austerità, del rigore sui conti pubblici, della linea dura contro i Paesi in difficoltà, avviando di fatto quella fase di messa in discussione delle élite politiche ed economiche europee che solo Mario Draghi ha saputo moderare con il suo quantitative easing. Angela Merkel, oggi al suo quarto mandato da cancelliere, appare una politica a fine ciclo, ma mai dire mai. La prossima 65enne leader dell’Unione cristiano-democratica (Cdu) ha annunciato dopo una fase di crollo interno dei consensi per il suo partito il ritiro dal governo dopo la fine del mandato nel 2021. Tuttavia, nell’Eurozona deve ancora giungere il leader capace di porre definitivamente fine alla centralità della Germania e della “Cancelliera”. L’astro di Emmanuel Macron non ha fatto in tempo a sorgere prima di tramontare, e troppi Paesi, dall’Olanda alla Finlandia, sono favorevoli al proseguimento della linea tedesca volta a favorire le esportazioni. E se si parla di Angela Merkel come possibile candidata di “unione” alla Commissione europea, la notizia non deve essere sottovalutata.

L’ascesa di Angela Merkel. Nata nel 1954 ad Amburgo, Angela Dorothea Kasner, nome di battesimo della Merkel, crebbe e si formò nella Germania dell’Est dove era giunta al seguito della famiglia e, in particolare del padre, pastore luterano. Nella Ddr la Merkel conseguì la laurea in fisica all’Università di Lipsia ed è stata segretaria di un piccolo gruppo della Freie Deutsche Jugend, organizzazione giovanile del regime, e responsabile per l’agitazione e la propaganda dell’Accademia delle Scienze della Germania dell’Est. Peter Feist, esperto di storia della Germania e consigliere politico di Afd, ha dichiarato a Limes nel dicembre 2018 che, al momento della caduta del Muro di Berlino, la Merkel si sarebbe rivolta, inizialmente, ai socialdemocratici per iniziare la sua carriera politica nella Germania riunificata. Di fronte all’invito a “entrare nell’organizzazione di base e iniziare così la militanza dal basso”, la Merkel cambiò idea e si rivolse alla Cdu, “dove le venne permesso di fare subito carriera perché donna, dell’Est e laureata in Fisica”. Iniziava l’ascesa politica di una figura destinata a segnare sul lungo periodo la politica tedesca.

La Merkel si libera dell’ombra di Kohl. Ai tempi, la Cdu era egemonizzata dalla figura del cancelliere Helmuth Kohl, che approvò la candidatura della Merkel al Bunderstag, il Parlamento federale tedesco, nominandola Ministro per le Donne e i Giovani nel terzo governo da lui presieduto (1991-1994) e Ministro dell’Ambiente nel successivo e ultimo esecutivo, durato dal 1994 al 1998. La sconfitta di Kohl alle elezioni del 1998 segnò una vera e propria svolta per la carriera politica della Merkel, che nella discussione sul tema della transizione energetica dal nucleare aveva acquisito una vasta popolarità nell’opinione pubblica tedesca. L’ascesa di Gerhard Schroeder della Spd alla cancelleria federale mandò la Cdu all’opposizione: tra il 1998 e il 2000 Merkel ebbe l’incarico di Segretario generale del partito, ma dovette divider le sue ambizioni con il delfino di Kohl, Wolfgang Schauble, che sarebbe diventato il suo fedele e rigoroso Ministro delle Finanze. Uno scandalo esploso nel 2000 offrì alla Merkel l’occasione per criticare aspramente la linea di condotta di Kohl e presentare se stessa come il volto nuovo capace di riportare i centristi democristiani al governo. Fu, per certi versi, una fortuna il fatto che alle elezioni del 2002 la Csu, il “partito gemello” bavarese della Cdu, ponesse il veto alla candidatura della Merkel contro Schroeder, preferendo promuovere come candidato alla cancelleria il leader di Monaco Edmund Stoiber, che mancò per soli 6mila voti il sorpasso sui socialdemocratici. Sfruttando la crescente rivolta sociale contro le difficoltà economiche intercorse dopo l’approvazione delle riforme Hartz, che pure avrebbe saputo sfruttare con sagacia, la Merkel ebbe dunque campo libero per guidare tra il 2002 e il 2005 l’opposizione a Schröder. Le elezioni anticipate del 2005 videro l’Unione Cdu-Csu perdere 2 milioni di voti, ma il parallelo tracollo della Spd spianò alla Merkel la strada della cancelleria federale, inaugurando il primo di quattro mandati.

La Merkel di governo. Angela Merkel ha inaugurato, nei suoi mandati, uno stile di leadership caratteristico, fondato sulla volontà esplicita di conservare, quasi cristallizzandolo, uno status quo politico e, soprattutto, economico che garantisse la centralità della Germania in Europa. Rifiutando, per lunghi anni, il calcolo geopolitico e non destreggiandosi nell’elaborazione di una “grande strategia” la Germania merkeliana ha interpretato la convinzione tutta tedesca di poter vivere, letteralmente, al di fuori della storia. Imperniando tutta la sua politica attorno alla tutela e all’espansione del surplus commerciale, considerato metro di misura della potenza economica tedesca. Anche la stessa scelta di puntare fortemente sulle misure di austerità in relazione alla Grande Crisi, secondo un copione che molti, compreso l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, hanno ritenuto potenzialmente suicida, è indicatrice di una precisa volontà politica, finalizzata a far sì che la Germania guadagnasse, quasi per inerzia, il centro della scena e i massimi dividendi economici dall’evoluzione del contesto europeo, senza tralasciare cinicamente di sfruttare la crisi dell’Eurozona come un’occasione di profitto, come magistralmente sottolineato da economisti di spessore come Sergio Cesaratto. I primi tre governi Merkel sono dunque scivolati in un sostanziale immobilismo, nella percezione che per Berlino fosse più importante sfruttare le rendite di posizione che pensare a una reale strategia. Questo ha portato, sicuramente, benefici alla grande industria esportatrice tedesca, ma nel frattempo ha spinto il governo a ignorare a lungo l’accumulazione di contraddizioni interne alla società tedesca, di problematiche connesse alla disuguaglianza economica e alle prospettive lavorative della popolazione. Un materiale combustibile per cui la caotica risposta alla crisi migratoria del 2015 ha fatto da innesco.

Il brusco risveglio di Angela Merkel. Il contenzioso geopolitico ed economico con gli Stati Uniti, a cui Donald Trump ha aggiunto enfasi retorica ma che è stato inaugurato da Barack Obama, le polemiche tra Washington e Berlino per i continui rapporti economici ed energetici tra Germania e Russia, l’incapacità di capire le lezioni della crisi e la velata ostilità alle mosse di Mario Draghi e le problematiche migratorie, che hanno contribuito all’ascesa di Afd hanno contribuito a segnalare, bruscamente, ad Angela Merkel che la Germania e l’Europa non vivevano in un ameno paradiso post-storico. Che non bastava far pagare alla Grecia, all’Italia e all’Irlanda i costi della crisi per ritenersi protetti dalla buriana economica e dalle contraddizioni dell’euro. E, soprattutto, che una strategia di lungo termine è necessaria perché una nazione sopravviva nel mondo contemporaneo. La Germania degli ultimi anni è infatti un Paese che, in buona sostanza, senza troppi giri di parole, si sta riscoprendo umano. E questa riscoperta di umanità, di debolezza, di paura, ha colpito anche la figura ormai metafisica, quasi atarassica, della cancelleria tedesca. Non più inviolabile agli occhi del suo Paese, debole al confronto con i leader mondiali capaci di sfruttare, nella loro completezza, gli strumenti che il potere mette a disposizione, sebbene ancora di una categoria superiore a presunti leader come il presidente francese Emmanuel Macron. La decisione di Angela Merkel, dopo le ultime elezioni, di rinnovare la Grande Coalizione con i socialdemocratici giunti al loro peggior risultato storico segnala come le categorie di pensiero della leader della Cdu, tuttavia, non siano più adatte ai tempi attuali. Concepiscono la politica come uno strumento di spartizione di cariche, non come mezzo di risoluzione di problematiche reali. Il pensiero economicistico ha permeato, e plasmato, l’idea di potere in Germania. E così ai pensionati tedeschi stremati dalle riforme della previdenza si può al massimo concedere un aumento del sussidio, e dopo quindici anni il governo tedesco può tornare addirittura a parlare di investimenti pubblici senza considerarli un tabù, ma senza dimostrare la volontà politica reale di deviare da una traiettoria percorsa da tempo col pilota automatico. Il risveglio per Angela Merkel è stato brusco, ma auspicarsi una correzione di rotta politica da qua alla fine del suo mandato, nel 2021, è a dir poco ottimistico.

Nome in codice: «IM-Erika». Merkel e le ombre della Stasi. Pubblicato martedì, 11 giugno 2019 da Paolo Valentino, da Berlino su Corriere.it. Angela Merkel ha lavorato per la Stasi, la polizia segreta che spiava i cittadini della Germania Est? La domanda non è nuova. Chi mette il nome della cancelliera su Google, inciampa quasi subito sulla sigla IM Erika, dove IM sta per Inoffizielle Mitarbeiterin, collaboratrice non ufficiale, la sigla con cui la Stasi indicava gli informatori che non erano suoi agenti. Secondo una folta schiera di complottisti, Erika sarebbe il nome di copertura di Angela Merkel nella sua attività di delazione. C’è qualcosa di vero o è una fake news? Una cosa è certa: gli archivi della Stasi non hanno mai pubblicato documenti che suffragassero il sospetto. La risposta alle diverse richieste pervenute è stata che «la premessa per il rilascio è che ci sia una documentazione sul lavoro da IM». E ancora: «Altro tipo di documenti possono essere presi in visione solo con il consenso dell’interessato». Detto altrimenti, non ci sono carte che dimostrino che Angela Merkel fosse informatrice dei servizi. «Il che però non significa che non ci siano mai state», spiega Hubertus Knabe, in un saggio dedicato al tema e pubblicato ieri sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Knabe, 60 anni, storico, è un’autorità in materia: dal 2000 al 2018 ha diretto la Fondazione del Memoriale di Hohenschönhausen, l’ex prigione della Stasi trasformata in centro di documentazione e di ricerca, diventata celebre anche per aver fatto da set al film premio Oscar «Le vite degli altri». È significativo che un giornale autorevole come la FAZ dedichi un’intera pagina al tema. Tanto più che il saggio di Knabe solleva più interrogativi e suggestioni di quanti ne risolva. Andiamo con ordine. Merkel stessa ha raccontato di essere stata avvicinata nel 1978 dalla Stasi, che voleva assoldarla. Successe al Politecnico di Ilmenau, in margine a un convegno di studi. Lei rifiutò. Ma, osserva Knabe, «queste proposte non venivano fatte a caso», la precondizione fra l’altro erano provate «qualità personali e politico-ideologiche». Pensavano di potersi fidare, in altre parole. Proposte del genere venivano protocollate con pignoleria dalla Stasi: nessuno può dire se esistono, ma se ci fossero, per vederle occorrerebbe il consenso dell’interessata. Merkel, in modo del tutto legittimo, non l’ha mai dato. Alcune tracce, mai provate ma molto evocate sulla rete, emersero nel 2005 in un celebre documentario della televisione pubblica Wdr. Come la foto della Merkel, trovata da un reporter negli atti relativi alla sorveglianza di un noto dissidente, Robert Havemann. I complottisti ne hanno dedotto che la futura cancelliera, la quale visitò in effetti il dissidente portata nell’appartamento da un amico, lo abbia spiato. In realtà si è scoperto che la foto non era della Stasi ma era quella della patente di guida. In ogni caso, Merkel aveva allora 25 anni e secondo Knabe è del tutto «improbabile» che i servizi usassero un non professionista per un compito così delicato. Resta un dubbio però, nota lo storico: perché non ci furono conseguenze per lei dalla visita a un dissidente? Un altro fumus verrebbe dal fatto che Merkel lavorasse fianco a fianco con numerosi IM, almeno tre dei suoi colleghi – nome in codice Einstein, Bachmann e Manfred Weih – erano infatti informatori. Ma questo in verità non prova nulla. Meno chiare invece sono le circostanze dei suoi due viaggi nella Repubblica Federale, nel 1986 e nel 1989, un grande privilegio nella Ddr. A causa della non pubblicazione del dossier che la riguarda, non è chiaro se vennero autorizzati dalla Stasi e se lo furono sulla base di quali motivazioni. Speculazioni provocano anche i numerosi viaggi in Polonia, che però erano spesso di studio. Uno in particolare, nel 1980, quando al ritorno Merkel venne fermata alla frontiera con materiale di Solidarnosc. Anche se l’episodio fu subito comunicato alla centrale, ecco la stranezza, la cosa non ebbe alcuna conseguenza negativa. Poi c’è il ruolo nella Frei Deutsche Jugend, l’organizzazione giovanile del regime comunista, che Merkel ha sempre minimizzato, dicendo che «ci stava volentieri ma per opportunismo» e che era addetta a «procurare i biglietti per il teatro». Chiosa Knabe: «Questa descrizione suona eufemistica, la FDJ era un’organizzazione fortemente ideologizzata». Conclusione: non c’è alcun atto o documento che provi il sospetto che abbia lavorato per la Stasi, ma a Merkel «si può rimproverare il fatto di non parlare in modo aperto del suo passato nella Ddr».

Germania, Merkel era una spia della Stasi, leggenda nera tra fake news e storia. L'ex direttore del memoriale del carcere dell'organizzazione tenta di fare ordine. Tonia Mastrobuoni il 12 giugno 2019 su La Repubblica. Angela Merkel era una spia della Stasi, era lei a nascondersi dietro la presunta “Erika” come sostengono miriadi di siti di fake news che diffamano la cancelliera da anni? Su internet le teorie complottiste impazzano. E si basano sempre sugli stessi dettagli, sulle stesse leggende metropolitane. Così lo storico ed ex direttore del memoriale del carcere della Stasi di Hohenschoenhausen, Hubertus Knabe, ha tentato di fare un po’ di ordine sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Spazzando via molte sciocchezze. Ma sollevando anche qualche interrogativo. Non esistono documenti della Stasi, attualmente, che menzionino Angela Merkel come ”informatrice informale”. Certo, scrive Knabe, “ciò non significa che quei documenti non siano mai esistiti”. Nei turbolenti mesi post-caduta del Muro, nell’inverno del 1989, gli ufficiali del ministero dell’Interno (Stasi ne è un’abbreviazione) distrussero enormi quantità di carte prima di essere fermati dalla folla inferocita che occupò gli uffici e salvò quel patrimonio dalla devastazione. Ma ad oggi la meticolosa e paziente ricostruzione di quei preziosissimi archivi non riesce a venire a capo di 15mila sacchi pieni di carte ridotte a coriandoli. Knabe ha esaminato una ad una le leggende nere attorno alla cancelliera. Lei stessa ha raccontato una volta che la Stasi tentò di reclutarla, nel 1978. E uno dei problemi di una ricostruzione senza ombre della sua biografia pre-Muro è che la sua scheda, quella in cui la Stasi registrò quel tentativo di reclutamento, così come il suo rifiuto, possono essere visti solo ed esclusivamente dalla cancelliera. E’ una regola generale: negli archivi si può chiedere solo di visionare la propria scheda, nessun altro può farlo. Quindi, ammette Knabe, quel momento cruciale della biografia di Merkel resta effettivamente “un buco nero”. E, come per il resto delle storie su di lei, si può solo tentare di illuminarlo di lato. L’ex direttore di Hohenschoenhausen aggiunge però che “starebbe a lei fare trasparenza su questo punto”. Intanto, uno dei dettagli che emerge più spesso nelle fake news su Merkel è che avrebbe viaggiato varie volte all’estero e due volte nella Germania ovest negli anni ’80. Un privilegio riservato a pochi, sicuramente ai fedelissimi del regime. Ma i suoi viaggi, scrive Knabe, coincidono con un momento particolare, in cui i bonzi di Honecker allentarono la morsa sui cittadini che produsse un’impennata delle "scappate" di là del Muro. Insomma, da quei viaggi di Merkel “non si può assolutamente dedurre l’appartenenza alla Stasi”. Un viaggio in particolare torna, nei racconti degli untori: quello in Polonia nel 1981, quando al ritorno le trovarono addirittura dei volantini di Solidarnosc, il sindacato anticomunista di Lech Walesa. Perché non le successe nulla? Per due motivi, azzarda Knabe: perché era in un visita ufficiale con il dipartimento della sua università. E perché era un membro della Fdj, della Gioventù comunista. E un’ altra ossessione che ritorna spesso nei complottisti è che Merkel fosse responsabile per la Propaganda in quell’organizzazione giovanile. Dunque, di default, una spia. Anche questa è una sciocchezza, argomenta Knabe, così come la presunta notizia che sarebbe stata incaricata di sorvegliare il grande dissidente Robert Havemann. Oppure che fosse letteralmente circondata da spie. E quindi, inevitabilmente, un’informatrice informale anche lei. Invece, argomenta Knabe, il fatto che nessuno di loro l’abbia mai menzionata come collega fa pensare che davvero non lo fosse. Infine, il presunto nome di copertura, Erika. Anch’esso è una bufala. Sarebbe tratto da un romanzo su di lei, “Roberts Reise”, scritto da un ex spia. Peccato che la protagonista di quel romanzo, una scienziata alle prese col dottorato, non si chiami Erika, ma Renate.

Il crepuscolo della Germania.  La storia di copertina del numero di Panorama in edicola dal 13 febbraio è dedicata ai grandi problemi della nazione che domina in Europa. Panorama nel numero in edicola dal 13 febbraio dedica la storia di copertina alla Germania, anzi, al declino politico della sua leader, Angela Merkel, ed all'economia che è in frenata. Un'inchiesta capace di raccontare la crisi di un paese che dà lezioni di "buon Governo" a tutta Europa ma che dovrebbe guardarsi di più allo specchio.

Germania: i problemi grandi di un grande paese. Oltre la propaganda che ne fa la locomotiva economica dell'Europa ed il guardiano dei conti di Bruxelles, con la fine del potere e dell'epoca di Angela Merkel emergono tutte le criticità, sul fronte sociale e su quello produttivo.

Germania, i problemi grandi di un grande paese. Ci viene presentata come la "locomotiva" d'Europa. Ma in realtà ci sono criticità nel mondo bancario, produttivo e sociale, scrive il 19 febbraio 2019 Panorama. Non si è ancora formalmente conclusa l’era Merkel, ma l’uscita di scena della Cancelliera è segnata. Le europee a fine maggio, e poi in autunno le elezioni in tre Länder orientali - assieme alla verifica di metà mandato della «grande coalizione» - indicheranno i tempi con cui la quattro volte leader del governo lascerà il potere. Se i contorni del Merkeldämmerung, ovvero il crepuscolo della Cancelliera, restano ancora indefiniti, il clima in Germania è già cambiato, soprattutto quello economico. Se ne è accorta anche Annegret Kramp-Karrenbauer, che di Angela Merkel è l’erede politica: a novembre 2018 «Akk» le è subentrata alla guida del partito cristiano democratico (Cdu) con l’obiettivo, un domani, di diventare lei la prossima cancelliera federale. «Le fondamenta della nostra prosperità non sono sicure come una volta» ha scandito Akk a inizio anno aprendo la direzione della Cdu e confermando ad alta voce i timori dei principali istituti di ricerca economica del Paese. «Il boom è finito e l’economia della Germania ha cominciato a rallentare» decretava poco prima di Natale il rigoroso istituto Ifo di Monaco di Baviera, segnalando che il comparto automotive e le esportazioni tedesche «sono esposte a notevoli rischi economici» e, dunque, destinate a perdere terreno. A fine gennaio il ministero tedesco dell’Economia ha poi stabilito, dopo un lunghissimo balletto di cifre sulla crescita per il 2019, che il Pil crescerà dell’1 per cento nel 2019, molto meno, cioè, della precedente previsione dell’1,8 per cento. Intanto l’Ifo individua alcune cause congiunturali destinate a pesare sulla performance tedesca: oggi, il rallentamento dell’economia dell’eurozona; nel futuro prossimo i dazi tariffari imposti da Trump su beni per 450 miliardi di dollari - il suo slogan America First! passa anche dall’abbattimento dei surplus commerciali cinese e tedesco nei confronti degli Stati Uniti. Ma i guai non sono finiti: a metà gennaio Pechino ha chiuso il 2018 con il tasso di cresciuta più basso degli ultimi 30 anni. Gli ordini dalla Cina sono dunque in calo, con conseguenze negative per l’economia di Berlino, tra le più dipendenti su scala globale dall’export, ovvero dalla salute economica dei propri partner commerciali. Se la Cina prende un raffreddore, la Germania rischia la bronchite. Esistono però anche cause interne che preoccupano gli analisti: il settore auto non si riprende dal Dieselgate, lo scandalo anzi si è appena allargato con nuovi 24 indagati del marchio Audi. Le industrie tedesche, poi, hanno difficoltà a trovare manodopera qualificata: è una conseguenza del calo demografico, lo stesso che, a differenza di quello italiano già riformato, rende l’attuale sistema pensionistico tedesco non sostenibile. Un altro problema che allarma gli economisti tedeschi è l’infrastruttura dei trasporti da molti definita al collasso, ma anche quella del settore telecomunicazioni è in grave ritardo: due problemi che rischiano di frenare l’economia esistente e di soffocare quella 4.0 nella culla. E ancora, il sistema fiscale è definito opprimente da molti mentre i costi energetici nella Germania del taglio delle emissioni di CO² sono fuori controllo. L’uscita dal nucleare prima e dal carbone poi stanno appesantendo la bolletta elettrica dei tedeschi. Stupisce, inoltre, che si registrino tante magagne durante una fase di grande liquidità della Germania. Le autostrade sono un groviera eppure le casse dello Stato sono piene di soldi. Il punto è che nessuno propone di usarli. Le spese sono ammesse in pochissimi settori: gli asili nido, per esempio, sono un fiore all’occhiello del Paese e permettono a tante donne un tasso di partecipazione al mondo del lavoro sconosciuto in Italia. Chi il lavoro lo perde, viene subito aiutato sia a ritrovarlo sia sostenuto con sussidi di disoccupazione. Eppure nessun Paese è perfetto: nella ricca Germania, per esempio, le cure sanitarie sono più costose e meno efficienti che in Italia. Non lo sostiene Panorama, ma l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) con sede a Parigi. Anche la difesa tedesca è messa male, eppure il governo della Germania vorrebbe entrare nel novero delle potenze mondiali con il diritto di veto alle Nazioni unite. Un Paese grande, insomma, ha problemi grandi, come è normale che sia. Oggi la Repubblica federale è ancora la locomotiva d’Europa ma, come rilevato anche da Frau Kramp-Karrenbauer, il futuro prossimo è pieno di incognite. Economisti e analisti invitano i dirigenti tedeschi a rimboccarsi le maniche per affrontare il domani, pena il declassamento. I denari ci sono, segnalano tutti. Quel che manca, osservano in molti, è l’onestà di ammettere che dalle pensioni alle banche, dalle tasse all’immigrazione è l’ora di fare scelte chiare per evitare il declino.

Germania "infelix". Cosa c'è dentro e dietro l'inchiesta di Panorama sui problemi economici e sociali del paese della Merkel, scrive Maurizio Belpietro il 18 febbraio 2019 su Panorama. Metto subito le mani avanti: so che la nostra copertina è una provocazione. Una Merkel con un titolo piazzato tra il naso e la bocca non può che evocare il volto di Adolf Hitler, con quei baffetti ridicoli che il capo nazista si portava a spasso. Ovviamente non abbiamo nessuna intenzione di sostenere che Angela Merkel somigli al Führer o che abbia intenzione di ricalcarne le orme. L’immagine irriverente, semmai, ricorda le tante copertine che nel corso degli anni i giornali tedeschi hanno dedicato all’Italia. Il settimanale Der Spiegel, l’equivalente del nostro Espresso, per raccontare il terrorismo rosso italiano (che imperversava pure in Germania e giunse a uccidere il presidente della Confindustria tedesca e quello della Deutsche Bank) mise una pistola su un piatto di spaghetti. Più tardi, in seguito al naufragio della Costa Concordia, lo stesso periodico fece una copertina dando degli Schettino a tutti noi. E da ultimo, mentre il nostro Paese era sotto attacco per i problemi del debito pubblico, rifece il giochino degli spaghetti, ma questa volta attorcigliati a una forchetta, a mo’ di cappio, con il titolo «Ciao amore!». Dunque, sia permessa anche a noi una provocazione. Non per sostenere che la Germania abbia mire espansionistiche e voglia occupare l’Europa, magari non con i carri armati bensì con le sue aziende e le sue banche. Ma per segnalare che semmai questa intenzione di conquista ci sia stata, beh, ora si può dire che è fallita. La Cancelliera di ferro, dopo quattro mandati, è agli sgoccioli e al suo ultimo giro di boa. Nel partito che ha guidato per vent’anni, la Cdu, ha già dovuto passare la mano, mentre per il governo la scadenza è fissata nel 2021. Sempre naturalmente che l’esecutivo riesca ad arrivare a quella data. Già, perché se mettere insieme la coalizione è stata dura, molto più semplice potrebbe essere scioglierla. Dietro all’immagine di successo, di una locomotiva teutonica che trascina con forza tutti gli altri vagoni europei, Italia compresa, ci sono infatti molte cose che non vanno. Certo, la Germania ha un surplus commerciale che tutti le invidiano e allo stesso tempo ha un debito pubblico che invece di crescere si riduce. Tuttavia, dietro la fotografia di Paese super efficiente che rispetta le regole e anzi le impone agli altri, ci sono diverse cose che non tornano. E soprattutto ci sono molti problemi che potrebbero mettere in crisi la corsa di un treno che fino a ieri sembrava non prevedere soste. Tanto per cominciare, il sistema bancario sembra assai meno solido di ciò che fino a ieri si è scritto, prova ne siano i guai in cui sono incappati sia la Deutsche Bank, sia la Nord Lb, per la quale è pronto un aiuto di Stato da 3,7 miliardi. Ci sono poi aziende con l’acqua alla gola che ora la Germania vorrebbe salvare imponendo misure antiscalata o prevedendo l’intervento diretto dello Stato. Per mettere al sicuro la tecnologia Siemens, Berlino aveva studiato una fusione con la francese Alstom, ma l’Antitrust l’ha bocciata e ora i tedeschi vorrebbero cambiare la legge sulla concorrenza e sui cartelli. Tuttavia, al di là delle difficoltà incontrate da banche e imprese, che hanno già prodotto un abbassamento delle previsioni di crescita del Pil, ciò che preoccupa sono le condizioni delle infrastrutture, le alte spese del sistema previdenziale, i bassi stipendi e i sempre più crescenti costi della sanità, già oggi in gran parte a carico degli utenti. Panorama ha condotto un’ampia inchiesta sul miracolo tedesco, ovvero sui risultati di una riunificazione che, dopo l’introduzione dell’euro, hanno visto crescere l’economia della Germania a livelli record. Ma l’indagine giornalistica ha messo in luce le molte ombre di questo successo. Dalle strade che per essere rese sicure avrebbero bisogno di ingenti investimenti, alle previsioni dei costi pensionistici nel prossimo futuro, all’aumento della povertà e dei costi a carico dei cittadini per la salute. L’inchiesta alza il velo su una realtà che la maggior parte dei commentatori preferisce ignorare, ma che a una attenta lettura svela il rovescio della medaglia della Grande Germania. Anche a proposito dell’immigrazione. L’apertura ai profughi provenienti della Siria era un’operazione che doveva consacrare Angela Merkel come la statista più importante del pianeta, ma in realtà ha rappresentato il suo più grande fallimento. E ha messo la parola fine alla sua carriera politica. 

Arriva il crepuscolo della grande Germania. La creazione superba di Bismarck scricchiola qua e là nella sua armatura possente, scrive Benito Mussolini il 16 febbraio 1915, riportato Sabato 06/08/2016, su Il Giornale. Deutschlandsdämmerung. È il crepuscolo della Germania. L'impero tedesco, la creazione superba di Bismarck, condottiero vittorioso di tre guerre di rapina, scricchiola qua e là nella sua armatura possente, coi paurosi moti precorritori della catastrofe. Mille sintomi denotano che per la Germania la guerra gigantesca è giunta ormai nella fase suprema della disperazione. Gli eserciti si battono ancora alle trincee su tre fronti diverse, ma non avanzano, e i loro successi non sono che parziali e locali. Né mancano nelle file dell'esercito più disciplinato del mondo i segni di stanchezza e di abbandono. All'interno, non c'è il pane per nutrire le bocche degli uomini, scarseggiano i proiettili per riempire le bocche dei cannoni. Prima della guerra, la Germania era una caserma; oggi è una fortezza. Si requisiscono e si ripartiscono i viveri fra la popolazione - in parti uguali - come nelle cittadelle sottoposte a un lungo assedio; si strappano dai portoni i battenti di bronzo, si raccolgono tutti gli arnesi di metallo delle case e delle officine, per farne munizioni e riparare i vuoti dell'enorme consumo di questi mesi di guerra. Non c'è la materia prima per le officine di Essen, e se il blocco inglese non rallenta la sua vigilanza, fra poco la Germania non avrà più pane, né potrà più combattere. Dovrà chieder mercé. Certo, lo spirito pubblico della Germania, è depresso. La visione del domani conturba le popolazioni tedesche. Al periodo dell'esaltazione è subentrato quello della meditazione. Si parla di pace. Se ne parla pubblicamente, in pieno Landtag prussiano. Se ne discute sui giornali. Oh, sono ben lontani i giorni, in cui Massimiliano Harden esaltava il fulmineo trionfo delle armi germaniche, i giorni d'agosto - terribili - quando tutta Europa parve tremare sotto al passo formidabile degli eserciti del Kaiser. Cadevano una dopo l'altra le fortezze del Belgio, il Belgio stesso scompariva sommerso sotto la fiumana travolgente degli invasori; i soldati della Repubblica si ritiravano oltre la Marna, mentre le avanguardie degli ulani giungevano a dodici chilometri da Parigi. La Francia sembrava finita: l'operazione guerresca si compiva nel termine di sei settimane, prescritto dal Grande Stato Maggiore germanico. Occupata Parigi, disarmata la Francia; rimaneva ancora il settembre e l'ottobre per abbattere i russi; il natale del 1914 avrebbe visto e celebrato la grande pax germanica e il dominio della Germania su tutta l'Europa. Erano i bei giorni nei quali Harden magnificava la superiorità della razza germanica destinata a redimere il mondo. I pangermanisti tracciavano sulla carta geografica le linee dell'impero ampliato nelle terre e nei mari di tre continenti: da Calais a Tangeri, da Amburgo a Salonicco. Il sogno che aveva ubbriacato un popolo intero è finito e con esso è dileguato l'incubo che opprimeva noi, uomini nati e vissuti sulle rive del Mediterraneo luminoso. E il sogno durava da un secolo. Per ciò era divenuto coscienza e volontà nazionale. Ernest Moritz Arndt già nel 1802 vaticinava nel suo libro - La Germania e l'Europa - il giorno in cui un grande genio «despota e capitano, avrebbe fuso, colla conquista e il massacro, in una sola massa, i tedeschi». Arndt è un precursore di Treitschke e degli altri campioni del pangermanismo. Arndt è uno dei primi imperialisti senza scrupoli. Egli riteneva - ad esempio - che l'Olanda indipendente «fosse il più scandaloso degli affronti per la Germania»; Bethmann-Hollweg aveva - evidentemente - la stessa opinione nei riguardi del Belgio. E il Belgio è stato distrutto. Durante un secolo il tedesco è stato avvelenato dalla continua apologia della razza bionda, unica creatrice e propagatrice della Kultur in una Europa giunta al tramonto. L'impero doveva essere lo strumento di quest'opera di salvezza. Ma l'impero trova nel suo estendersi i limiti fatali della sua potenza. L'impero è intensione, non estensione. Dilatandosi, muore. La storia d'Europa ha visto tre imperi crollare. Quello di Carlo Magno, quello di Carlo V, quello di Napoleone. Né miglior sorte è toccata al quarto impero: quello del Papa sulle anime. Anch'esso è infranto. Né diverso destino attende il quinto impero vagheggiato nella sua megalomania sinistra da Guglielmo di Hohenzollern. Ha già trovato i suoi confini. Non li supererà. È ormai deciso. Gli automi dell'elmo puntato non varcheranno i molteplici ordini di trincee scavate sul suolo di Francia. Non giungeranno più a Parigi. Non si ripeterà nella Parigi occupata la cerimonia della fondazione dell'impero europeo, come nella Versaglia conquistata, al 19 gennaio del 1871, fu celebrata la creazione dell'impero tedesco. Guglielmo II, invecchiato, è tornato nel suo castello di Potsdam, al suo esercizio preferito: abbattere gli alberi della foresta. Così, forse, si era illuso di abbattere i nemici. Ma i nemici si sono serrati attorno a lui: più numerosi, più forti di quello che la diplomazia tedesca avesse previsto o pensato. Ed ora la partita è disperata. Si tratta di vita o di morte. Il Kaiser deve scegliere: o la guerra ad oltranza o una pace non lontana. La guerra ad oltranza può significare lo schiacciamento totale e definitivo della Germania, poiché a una vittoria completa dei tedeschi non è più il caso di pensare; la pace non lontana, è, anch'essa, la fine ingloriosa dell'impero. Ma è in questa pace, un grande pericolo per un'Italia rimasta neutrale. No, non la pace finché qualcuno non sia costretto a chiederla, senza porre condizioni di sorta. È necessario che questa guerra si concluda col trionfo assoluto degli uni o degli altri. Altrimenti l'Europa di domani rassomiglierà a quella di ieri: tornerà una caserma. Bisogna che la Germania sia schiacciata. E può esserlo, rapidamente, col concorso dell'Italia. I tedeschi sanno che il nostro intervento è decisivo. Ci hanno mandato per tenerci fermi, prima Sudekum, poi Billow. Ci blandiscono e ci minacciano. In Germania tutti - dai grandi agli infimi - sentono che la campana a morto dell'impero tedesco sarà suonata dall'Italia. L'Italia può, per fatalità di eventi, assolvere questo compito grandioso: chiudere un ciclo della storia europea. Nel 1815 si chiuse il ciclo napoleonico, nel 1915 si chiuderà quello degli Hohenzollern. Nel 1815 ci fu un mercato di popoli, nel 1915 ci sarà la liberazione dei popoli col trionfo dei diritti delle nazionalità. Italiani, voi non potete rimanere assenti da questo grande avvenimento. A voi, a noi affida la Storia il compito di vibrare il colpo mortale al gigante che voleva stringere nel suo pugno di ferro i popoli liberi e civili dell'occidente. Questo colpo sia vibrato, con animo forte e con braccio non meno forte. Il gigante aveva creato una macchina mostruosa per assicurarsi il dominio sulle genti: il militarismo. Occorre che questa macchina sia frantumata. Sarà un giorno memorabile nella Storia, il giorno in cui le officine del pederasta Krupp a Essen saranno date alle fiamme di un grande incendio che abbaglierà l'Europa e purificherà la Germania. In nome delle città e delle borgate belghe straziate e distrutte, in nome delle vittime innumerevoli della guerra scatenata dal bestiale orgoglio tedesco, Essen, la città dei cannoni, dovrà venir rasa al suolo. Solo allora, e soltanto allora i tedeschi, predoni e omicidiari, riacquisteranno il diritto di cittadinanza nel genere umano.

La Germania è disorientata e spaccata al suo interno, non può dare lezioni all’Italia sul debito pubblico, scrive Edoardo Toffoletto il 14 marzo 2019 su it.businessinsider.com. Di fronte al cinema numerico esibito dall’attuale governo italiano, che ha disperso tra i labirinti dell’incomprensione il deficit previsto per il 2019oscillante dal 2,4% al 2,04% del pil, la Germania emette i suoi avvisi. Come riporta in queste pagine Giuliano Balestreri, vi è ormai lo spettro di una possibile “ristrutturazione del debito” nel caso in cui l’Italia non presenti un avanzo primario necessario, cioè di circa il 4%, a sostenere il suo debito nell’ipotesi di recessione. Le previsioni sono un mero 1,3% per il 2019. Ciò significa che non è escluso che l’Italia possa essere sottoposta a un trattamento simile al caso greco, poiché questo si cela dietro all’eufemismo della “ristrutturazione del debito”. Si dice che “l’Italia sia too big, to fail”, magari vi potrebbe essere qualche trattamento di riguardo – ma in poche parole significa che le istituzioni europee potrebbero esigere dall’Italia la sospensione della sua auto-determinazione. Ma si impone una domanda: quali istituzioni europee? E per quali interessi? Dal contributo in queste pagine di Marco Cimminella a un articolo su Le Figaro del 27 febbraio, si fa riferimento a uno studio di un think tank tedesco, il Centre for European Policy, un organo, si badi, della Stiftung Ordnungspolitik, cioè una fondazione no-profit che si propone lo studio e l’approfondimento delle politiche europee sulla scia della Scuola di Friburgo, cioè la scuola di pensiero economico che gravita attorno ai nomi di Walter Eucken, Friedrich von Hayek e Ludwig Erhard. È molto curioso che esca proprio ora uno studio chemette in luce gli effetti squilibrati di 20 anni di euro, di una fondazione che si richiama a tali figure della tradizione economica, quando sono esse stesse cheispirano l’ortodossia di bilancio che anima le istituzioni europee. Come ricorda Antoine Schwartz in Le Monde Diplomatique di marzo 2019, l’euro non è una semplice moneta, bensì – e forse soprattutto – tanto per i suoi partigiani, quanto per i suoi detrattori, “un feticcio politico, un simbolo dell’Ue e un pilastro dell’integrazione”. Questa dimensione simbolica dell’euro è alla radice delle psiconevrosi dei partiti progressisti europei, che pur criticando le ineguaglianze indotte dalle regole europee, non mettono mai in questione l’euro come tale, che resta un tabù ma è lo strumento degli squilibri mostrati dallo studio del Centre for European Policy. L’obbiettivo è chiaro, minare alla base ogni progetto di integrazione europea alternativo all’ortodossia ordo-liberale (espressa dalla Scuola di Friburgo), colpendo il simbolo stesso dell’euro. Il messaggio subliminale sarebbe che ogni ulteriore integrazione non può che produrre ulteriori squilibri. Ogni ulteriore integrazione, dalla mutualizzazione del debito a politiche industriali coordinate a livello europeo, è vista con estrema reticenza da tutto l’establishment politico tedesco. Come ricorda Marie-Françoise Bechtel su Politique Étrangère dell’inverno 2018-2019, fu proprio la Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe a stabilire definitivamente nel 2009 che “la sovranità primordiale dimorerebbe nei parlamenti nazionali, e non esisterebbe una sovranità europea. Dal momento che non esiste un popolo europeo”, scrive Bechtel commentando il verdetto di Karlsruhe, “l’Europa non può creare un ordine sovrano e neanche un trasferimento irreversibile di competenze”. Quindi, secondo Berlino, Europa sì – ma cum grano salis. Nello studio del Centre for European Policy non vi sono neanche ricette per rimediare agli effetti nefasti dell’euro: solo la constatazione degli squilibri, basandosi sul solo parametro del Pil (nazionale e pro capite): grandi perdite per Italia, Francia, Spagna, Grecia e paesi mediterranei e al contrario aumento del Pil per Germania e Paesi Bassi. Lo studio quindi non propone alcuna spiegazione per questi effetti. Ovviamente, se si fossero considerati differenti fattori quali l’investimento e la produttività del lavoro, si sarebbe anche notato che la politica ordo-liberale deflattiva e l’eccesso di risparmio(cioè l’assenza di investimenti) sono stati le cause di questi squilibri di cui l’euro è solo lo strumento per mettere in relazione i centri dell’accumulo di surplus commerciale (Germania-Olanda) e il resto dell’Europa (vedi la Polonia, la piccola-Cina della Germania), che è obbligata a fornire merci a basso costo ai centri dell’accumulazione. Di tutto questo si tace. In effetti, come scrive Barbara Kunz nel Ramses del 2019, la pubblicazione annuale dell’Ifri, “l’Europa della difesa non ha propriamente un motore franco-tedesco”. Sempre su Ramses, Hans Stark ricorda che l’attuale Grande Coalizione è rifiutata da almeno il 47% dei tedeschi – cioè il governo tedesco ha i piedi d’argilla, e non riflette per niente la maggioranza della popolazione. Infatti, almeno un terzo del parlamento tedesco, composto da Die Linke, AfD e il partito liberal-democratico, esprime un diverso grado di scetticismo o “ostilità radicale, verso il governo e l’Unione europea”. Insomma, la Germania resta fedele alle sue contraddizioni esacerbate da un Centro cristiano proteso a vagamente seguire Macron verso co-operazioni di difesa a livello europeo, e una sinistra, dalla Spd ai Verdi e a Die Linke, ideologicamente pacifista e refrattaria a qualsiasi minimo aumento della spesa per il riarmo. Non soltanto in Germania il rigore di bilancio prevale sulla necessità del riarmo o sui necessari investimenti per le infrastrutture, ma persino l’idea stessa dietro alla sigla PESCO è diametralmente opposta tra Francia e Germania: la prima insiste nel formare un nucleo esclusivo capace di formare un corpo scelto europeo efficace con capacità operazionali e proiezione estera; la seconda tende verso un progetto inclusivo puntando sulla dimensione degli effettivi. Per questo non sorprende che un post del 27 febbraio diEurointelligence sostenga che il vero divario politico europeo è tra Francia e Germania. Contestualmente, il 3 marzo Wolfgang Münchau mette in luce sul Financial Times l’ambivalenza fondamentale della Germania nel confronti della Cina. La cancelleria tedesca è andata in visita in Cina per verificare la possibilità di un “accordo anti-spionaggio”, uno specchio delle allodole per dire a se stessi che dopo tutto la Cina non è una minaccia. Come la scusa trovata dalla Vestager per impedire la fusione Alstom-Siemens, che nega ogni minaccia cinese nel breve termine, è sempre un placebo per non posizionarsi strategicamente rispetto al gigante asiatico. Un paese in tale disorientamento strategico non dovrebbe forse esporsi troppo emettendo avvisi attorno ai debiti altrui, quando, come è il caso italiano, si è ancora creditori netti rispetto alle istituzioni europee.

Prospettive franco-italiane. La Francia intanto attraversa qualche tempesta tra i suoi giganti industriali, ci ricorda Giulio Sapelli. Non soltanto il veto alla fusione Alstom-Siemens voluto con maggior ardore dalla Francia che dalla Germania, ma anche l’affronto nel gruppo Klm-Air France, in cui lo stato olandese ha acquistato azioni per un valore di 744 milioni arrivando al 14% dell’azionariato. “E questo da parte di uno Stato”, commenta Sapelli, “che in tutta l’eurozona si fa paladino del libero mercato e di un severo antitrust”. Come se non bastasse i fatti legati a Carlos Ghosn, fino a pochi giorni fa “capo incontrastato della joint-venture sicuramente più poderosa al mondo”: Nissan-Renault-Mitsubishi. Ghosn fu posto a capo del gruppo dallo stato francese che detiene il 14% dell’azionariato e la mossa di tenere recluso in prigione in Giappone Ghosn, spiega Sapelli, da parte delle autorità giapponesi per la concorrenza, ancor prima che l’imputato abbia parlato con l’avvocato, e ben prima del processo, non serve che “a rafforzare il ruolo giapponese nel sistema automotive”. In questo contesto, il recente colloquio franco-italiano tra Tria e Le Maire, ha posto sotto l’attenzione i rapporti Stx e Fincantieri, che assieme potrebbero “costituire un gruppo europeo di livello mondiale nell’elettronica della difesa, con conseguenze geopolitiche importantissime”, che implicano anche – si spera – un’intesa sul teatro libico. L’Italia ha già ceduto “ai cinesi segmenti importantissimi delle reti nazionali di trasmissione sottomarina, nonché buona parte di un porto strategico – potenzialmente – come Trieste”, ma un dialogo con la Francia per assicurare una governance trasparente ad un possibile gruppo mondiale Stx-Fincantieri potrebbe essere un tassello decisivo sul piano globale per smarcarsi dagli avvisi delle potenze deflazioniste.

Il problema non è il debito, ma l’eccesso di risparmio che ostacola la crescita e l’occupazione. Il problema non è in effetti il debito, ma la crescita e l’occupazione. Secondo Bruxelles, come riportato dal Financial Times, l’accumulo del debito italiano e le politiche di spesa pubblica del governo stanno “nuocendo alla crescita economica”. Ora, il governo italiano attuale sembra cadere sempre nell’ipostatizzazione del consumatore come centro dell’economia. Il reddito di cittadinanza, come già accennato nell’intervista su queste pagine a Bernard Stiegler, è una forma assistenzialistica di risposta alla povertà, che punta all’alimentazione della domanda del mercato interno – soffocata dalle politiche ordo-liberali – per riattivare gli investimenti nel settore privato. Data la deflazione, cioè la riduzione tendenziale dei prezzi e del tasso degli interessi, anche di fronte all’aumento della domanda il settore privato difficilmente sarà propenso all’investimento. E quindi non si risolve il problema vero della crescita e dell’occupazione. Nella Homer Jones Lecture del 2016 alla Federal Reserve di St. Louis, Lawrence H. Summers ricorda quanto la tendenza a ripagare i debiti equivale alla tendenza al risparmio. Perciò l’ortodossia della parità del bilancio fa credere che il deficit sia negativo come tale, poiché la priorità è la riduzione del debito, che è una forma di risparmio. Ciò non deve però indurre a pensare che il problema della manovra dell’attuale governo sia l’eccesso di deficit, invece dell’utilizzo delle risorse ottenute attraverso il deficit. Il problema risiede nell’insufficienza e i limiti del reddito di cittadinanza per la crescita e l’occupazione. Esso non è una forma di investimento. Inoltre, si deve tenere presente, che nel quadro del reddito di cittadinanza vige l’obbligo, dopo due tentativi, di accettare un impiego, in cui si includono anche i contratti a tempo determinato di più di 3 mesi, così da poter affermare di “creare” – si fa per dire – circa 1 milione di posti di lavoro. Ciò non risolve il problema alla radice. Non contribuisce a cambiare la logica fondamentale in cui viene percepita l’attività lavorativa (valore=tempo di lavoro), che tuttavia diventa sempre più flessibile, instabile e imprevedibile. Per questo tale reddito di cittadinanza è mero assistenzialismo e non un investimento – perché non potrà promuovere a cambiare le regole del gioco: rimane un aiuto assistenziale, in cui regna lo status quo.

La proposta di legge di iniziativa popolare dell’avvocato Giuseppe Boscolo: il servizio civile democratico. Eppure ci sono delle iniziative popolari italiane che propongono una rielaborazione del reddito di cittadinanza, e dovrebbero venire ascoltate. Un esempio è la proposta dell’avv. Giuseppe Boscolo per l’introduzione di un “Servizio civile democratico” (Scd), come condizione per l’accesso al reddito di cittadinanza, che egli definisce “reddito base di partecipazione”. Si tratta di utilizzare in modo più efficiente e virtuoso l’1% del pil proposto dai 5Stelle, pari a circa 15 miliardi di euro, per trasformare l’erogazione di un reddito in un investimento. Gli osservatori internazionali non potrebbero che appoggiare una tale iniziativa. “Non sta scomparendo il lavoro”, osserva Boscolo, “quale attività socialmente necessaria, vengono via via ridotte a fenomeni marginali le forme storiche sin qui prevalenti”. Il reddito base di partecipazione, spiega nella presentazione della proposta di legge di iniziativa popolare, è “così definito perché condizionato alla partecipazione alle attività socialmente necessarie di un territorio, decise da una procedura democratica partecipativa, che vede la proposta di progetti di attività socialmente necessari da parte di consulte-assemblee degli interessati, la decisione dei consigli comunali, la esecuzione gestione da parte di fondazioni di comunità”. L’iniziativa di questa proposta di legge è il risultato di un lungo percorso, spiega Boscolo, “di vari decenni di vita e lavoro professionale e di esperienze politiche, sindacali e sociali almeno ancora in parte in corso, tutte all’insegna della democrazia diretta prevista dalla nostra costituzione, complemento degli istituti rappresentativi”. Tale percorso inizia nel 1978 con la proposta di referendum per “la estensione alle piccole imprese delle garanzie contro i licenziamenti, preceduta dalla proposta di legge popolare nel 1972 per l’aggancio degli affitti al reddito e da una petizione comunale nel 1969-70 che ottenne la diffusa dotazione dei bagni nel centro storico di Chioggia, allora sprovvisto per il 50% delle abitazioni”. Si passa poi ai primi anni 2000 con la proposta di legge di iniziativa popolare “a tutela della disabilità intellettiva”, raggiungendo quasi 100.000 firme a livello nazionale e ottenendo il “riconoscimento automatico della gravità nella sindrome di Down, con i relativi diritti, in pratica poi esteso da Inps a molte altre patologie irreversibili”. Ed è così che in questi ultimi giorni sono stati avviati, in collaborazione con il mondo universitario, una serie di incontri di approfondimento della proposta di legge in Emilia e in Veneto nell’ambito delle associazioni, dei centri per l’inserimento lavorativo e delle cooperative sociali legate alla disabilità intellettiva, così come al marcato disagio sociale. In effetti, la proposta di legge per il Scd viene concepita come una continuazione della proposta di legge a favore delle persone con sindrome di Down e disabilità intellettiva. Nella logica dell’attribuzione del reddito base di partecipazione la priorità cade sui soggetti diversamente abili per integrarli nella vita sociale attraverso il lavoro. Come l’esempio dell’economia contributiva descritto da Stiegler, non vi è alcuna corrispondenza fra il reddito base di partecipazione e la durata dell’attività svolta nell’ambito del Scd. Boscolo arriva a definirla un’attività “volontaria” o persino “lavoro gratuito” da concepire come complemento al sistema del lavoro retribuito tradizionale. Si legge all’art. 6 dell’Allegato A: “siamo tutti diversamente abili”, il che consente di estendere il SCD a tutti coloro che in una data circostanza ed un dato tempo e luogo sono esclusi socialmente, a causa dell’esclusione dal lavoro retribuito tradizionale. Il Scd può anche essere concepito come un trampolino verso il sistema del lavoro retribuito. Ad ogni modo, ciò che è di primaria importanza è il ruolo nevralgico delle “consulte-assemblee degli interessati” – essi stessi partecipando alle decisioni locali svolgono attività che cadono nell’ambito del Scd e del reddito base di partecipazione – che stabilisce di volta in volta i lavori socialmente necessari nel proprio territorio, così da informare alla propria collettività le possibili attività da svolgere per ottenere il reddito base di partecipazione. Come nella proposta di Bernard Stiegler, ritroviamo anche qui la natura locale del valore. Il vantaggio ulteriore della proposta di Boscolo è che il modello del Scd può incominciare a essere messo in pratica a partire dalle risorse disponibili in ogni località, sarà poi il valore locale prodotto dal lavoro nell’ambito del Scd a produrre le condizioni, rispondendo a problemi del territorio, per una dinamica virtuosa che potrà far aumentare le risorse disponibili per finanziare il sistema stesso del Scd. In ogni caso, se impiegato per promuovere tali iniziative nessun osservatore internazionale, neanche l’austera Germania, potrà reclamare avvisi e moniti di fronte all’aumento del deficit o del debito, poiché sono queste iniziative che permettono di promuovere gli investimenti e gettare le condizioni per la crescita e l’occupazione. 

Emmanuel Macron, i problemi mentali: il terribile sospetto di Filippo Facci, scrive il 9 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Luigi Di Maio ha ragione. Nel dirlo rischiamo un'infiammazione alle corde vocali, ma ha ragione - incredibile - nel dire che da cittadino e da uomo politico ha tutto il diritto di incontrare chi vuole: e questo, nostro, non è un ragionamento libertario da scrivania. È ciò che è sempre successo. Prendete due simboli, Craxi e Andreotti; il primo fiancheggiava la resistenza cilena contro Pinochet (amico di Reagan) e quella del polacco Walesa contro Jaruzelski, e in generale si spingeva a finanziare fazioni osteggiate dagli Alleati come fece con Arafat e con il celebre blitz di Sigonella che mandò in bestia statunitensi e israeliani. In questo caso, però, stiamo mischiando i rapporti personali di un politico con quelli istituzionali di uno statista: ed è forse proprio l'errore che sta facendo Emmanuel Macron col governo italiano. Ma ci arriviamo. Andreotti fu filo arabo, guardato in cagnesco da Israele e mostrava palesemente la sua preferenza per il mondo palestinese, oltre a non piacergli i tedeschi: «Li amo talmente che di Germanie ne vorrei sempre almeno due». Ma anche qui stiamo parlando più di politiche governative e meno di rapporti personali, a margine dei quali è sempre accaduto che le singole persone si muovessero parallelamente alle vesti istituzionali in piena contraddizione coi rapporti diplomatici, con alleanze politiche e militari e con le posizioni ufficiali di un governo. Ecco perché distinguere, in questa querelle italo-francese, è obbligatorio: perché è proprio l'aver messo ogni cosa su un medesimo piano a rendere pretestuoso il comportamento di Macron, che all'apparenza si è semplicemente spazientito e ha messo in conto il serio e il faceto.

«LEBBRA D'EUROPA». Frizioni vere, sappiamo, negli ultimi otto mesi non erano mancate: gli sconfinamenti francesi a Ventimiglia e le navi bloccate nel Mediterraneo erano e restano roba seria, ufficiale, con comunicati di Macron in cui definiva «cinica e vomitevole» la nostra politica e poi ci definì «lebbra d' Europa» in un'intervista a Le Figaro. Nessuno richiamò l'ambasciatore italiano a Parigi (passo che precede la rottura delle relazioni diplomatiche) come non accadde ovviamente neanche dopo le divergenze sul deficit (la Francia si oppose agli sforamenti italiani) e come non sta accadendo per l'assurda sospensione dei lavori del Tav, che in realtà è tutta in divenire. Sono queste le cose istituzionali: atti e passi collegiali, mentre su altre cose, magari, ci sono divergenze abissali ma nessuno si è mai mosso se non off the record. Gli ultimi governi italiani, per dire, hanno tutti additato la Francia quale maggior responsabile della crisi in Libia: ma sul piano formale non si è mai mosso un capello. Altre cose sono punzecchiature, non passi governativi: nessuno si mette a richiamare l'ambasciatore per i deliri di Alessandro Di Battista sulla Francia colonialista, e tantomeno per la questione - in realtà mai nata - dei terroristi italiani rifugiati in Francia, che in concreto è esistita solo sui giornali e nei tweet di Salvini. La Francia, di questo e altro, se n' è mediamente fregata, ma i nervi di Macron - che ha problemi suoi - hanno ceduto non a caso sulla questione che più lo sta logorando: i cosiddetti gilet gialli. Pochi giorni fa Di Maio e Di Battista - in veste personale e politica - hanno incontrato la fazione più estremista di questo movimento, quella minoritaria che inneggia alla guerra civile e vorrebbe che l'esercito prendesse il potere. Roba elettorale (i grillini cercano alleanze per le Europee, essendo isolati) ma che ha fatto impazzire Macron che vede quella frangia quasi come dei terroristi. Il 7 gennaio scorso, oltretutto, Di Maio aveva scritto «Gilet gialli, non mollate!».

CONSEGUENZE. Da qui il casino che ci riporta addirittura alla Seconda guerra mondiale, quando l'Italia aveva dichiarato guerra alla Francia e l'ambasciatore aveva salutato. Da qui l'invocazione francese circa quel «rispetto che deve esistere tra governi democraticamente e liberamente eletti»: anche se il governo italiano, come detto - e come dimostra la diversa posizione di Matteo Salvini - non c' entra un accidente. A dirla tutta, neanche altre questioni meramente economiche tra Italia e Francia (Fincantieri, Alitalia e Tim) c' entrano un accidente, Macron però sta facendo congelare tutto. Ora, lasciando da parte il principio secondo il quale Di Maio può incontrare chi voglia (anche se tutto questo scherzetto rischia di costarci caro in termini strettamente economici, tanto per cambiare) molti osservano che in ogni caso il leader pentastellato avrebbe banalmente potuto astenersi, e mandare qualcun altro assieme a Di Battista a parlare con questi signori dei gilet. Dunque è stata una scelta? Una strategia? Anche qui - opinione nostra - probabilmente la risposta è no: è abbastanza raro che Di Maio comprenda appieno le conseguenze di quel che fa. Filippo Facci

Rottura tra Italia e Francia. Il Colle: «Fermatevi!». Parigi minaccia ritorsioni dopo la passerella di Di Maio con i gilet gialli, scrive Rocco Vazzana l'8 Febbraio 2019 su Il Dubbio. «Il mio incontro come capo politico del Movimento 5 Stelle, con esponenti dei gilet gialli è pienamente legittimo». Luigi Di Maio non sembra affatto preoccupato dalla crisi diplomatica senza precedenti tra Roma e Parigi se su Facebook rivendica il diritto a dialogare con «altre forze politiche che rappresentano il popolo francese». E pazienza se Quai d’Orsay ha appena richiamato in patria l’ambasciatore Christian Masset per consultazioni sulle «ultime ingerenze» italiane che «rappresentano una provocazione supplementare e inaccettabile». A Parigi non è piaciuta affatto la foto di gruppo in cui il vice premier italiano è ritratto insieme a Cristophe Chalençon, uno dei leader dei gilet gialli, il movimento che ha conquistato le piazze francesi con un obiettivo dichiarato: rovesciare Macron. «La campagna per le elezioni europee non può giustificare la mancanza di rispetto per ogni popolo o la sua democrazia», replica adesso il ministero degli Esteri francese in una nota che punta il dito contro il governo di Roma. «La Francia è oggetto da diversi mesi di accuse ripetute, attacchi senza fondamento, dichiarazioni oltraggiose», è la recriminazione del Quai d’Orsay, secondo cui le provocazioni italiane «violano il rispetto dovuto alla scelta democratica fatta da un popolo amico ed alleato». Non solo, «violano il rispetto che deve esistere tra governi democraticamente e liberamente eletti». È l’inizio una crisi diplomatica tra i due Paesi senza precedenti in tempo di pace. Tanto che persino il Quirinale si sente in dovere di intervenire per «ristabilire subito il clima di fiducia», dice Sergio Mattarella. «Bisogna difendere e preservare l’amicizia con la Francia». Ma Di Maio non ha alcuna intenzione di passare per il responsabile del gelo tra i due paesi e sui social ribadisce la correttezza delle sue posizioni. «Così come En Marche, il partito di governo francese, è alleato in Europa con il Pd, partito d’opposizione in Italia, così il Movimento 5 Stelle incontra una forza politica di opposizione al Governo francese (Ric)», scrive il capo politico pentastellato. «Sono europeista. Ed essere in un’Europa senza confini, significa libertà anche per i rapporti politici non solo per lo spostamento delle merci e delle persone». Per Di Maio l’incontro con Cristophe Chalençon non rappresenta «una provocazione nei confronti del governo francese attuale ma un importante incontro con una forza politica con cui condividiamo tante rivendicazioni». Il ministro del Lavoro assicura poi amicizia sincera al popolo francese ma non rinuncia alla polemica con Macron, che «si è più volte scagliato contro il governo italiano per motivi politici in vista delle europee», dice, riferendosi alle parole pronunciate dal Presidente francese nel giugno scorso, quando il suo portavoce definì «cinica e irresponsabile» la gestione dei migranti bloccati a bordo dell’Aquarius. Anche in quel caso seguì una crisi diplomatica con tanto di ambasciatore convocato alla Farnesina per avere chiarimenti. Ma non è neanche l’unico episodio di contrasto aperto tra le due cancellerie. Lo scorso gennaio, infatti, è toccato a Parigi convocare la nostra ambasciatrice Teresa Castaldo per avere spiegazioni in merito alle parole pronunciate in pubblico dal Di Maio. Sono i giorni in cui il M5S lancia la campagna contro il Franco delle colonie – che «indebolisce le economie di quei paesi da dove, poi, partono i migranti» – attraverso il quale i francesi finanzierebbero il loro «debito pubblico». Per i vicini d’oltralpe è una provocazione «inaccettabile». Nei mesi successivi si registrano episodi costanti di tensioni di varia natura. Persino la Tav contribuisce ad accendere gli animi. Ma in piena campagna elettorale tutto diventa utile per la conquista di Bruxelles. Per mettere pace in questa diatriba Matteo Salvini si dice pronto a incontrare Macron ma mette subito sul piatto un po’ di condizioni: «Stop con i respingimenti, stop con i terroristi italiani in Francia e basta danneggiare i nostro i nostri lavoratori pendolari che sono letteralmente vessati ogni giorno alle frontiere francesi da controlli che durano ore». Più che a una vera e propria offerta di tregua, quella del ministro dell’Interno somiglia una richiesta di resa. E mentre il titolare della Farnesina Moavero Milanesi è in Sud America per occuparsi della crisi venezuelana a fare le veci del ministro ci pensa il suo vice: il grillino Manlio Di Stefano. «Nessuna crisi diplomatica, almeno da parte nostra. La loro semmai è una provocazione», dice con tono tutt’altro che conciliante. «Erano abituati ad avere sudditi in Italia certo che ora notano la differenza», è l’analisi del sottosegretario agli Esteri a pochi minuti dal ritiro dell’ambasciatore francese. E la campagna elettorale è solo all’inizio.

«Gilet gialli, le ragioni della rivolta». Un grande filosofo analizza la galassia del movimento: chi sono i manifestanti, cosa chiedono, come agiscono. E che cosa vuol dire oggi la parola "occupare", scrive Jacques Rancière il 26 marzo 2019 su L'Espresso. Spiegare i gilet gialli? Cosa si intende per spiegare? Fornire le ragioni per cui succedono cose che non ci aspettavamo che accadessero? In realtà, è raro che non si forniscano delle ragioni. E per spiegare il movimento dei gilet gialli, ne sono state date a profusione: la vita nelle aree periferiche disertate dai mezzi pubblici e dai servizi oltre che dai negozi di quartiere, la fatica del pendolarismo, la precarietà del lavoro, gli stipendi risicati o le pensioni indecorose, la vita a credito, i fine mese difficili …Sono certamente molti i motivi della sofferenza. Ma soffrire è una cosa, non soffrire più è un’altra cosa. È il contrario. Ora, i motivi della sofferenza con cui si vuole spiegare la rivolta sono del tutto simili a quelli che potrebbero motivarne l’assenza: chi è costretto a vivere la propria esistenza in queste condizioni non ha né il tempo né l’energia per ribellarsi. Gli argomenti più diffusi per spiegare le ragioni della mobilitazione coincidono con quelli forniti per render conto della non mobilitazione. Non è semplice incoerenza. È la logica stessa degli argomenti ai quali si fa ricorso. La loro funzione è provare che un movimento che ha colto di sorpresa rispetto a ogni previsione non ha altre ragioni se non quelle che stanno alla base dell’ordine normale delle cose e che sono le ragioni dell’immobilità. La loro funzione è provare che non è successo niente che già non si conosca, da cui si deduce, se il cuore batte a destra, che questo movimento non aveva ragione di essere, o, se il cuore batte a sinistra, che è del tutto giustificato ma sfortunatamente è stato promosso nel momento e nel modo sbagliato da persone che non erano quelle giuste. Quel che conta è che il mondo continui a essere diviso in due : da un lato quelli che non sanno perché si mobilitano e dall’altro quelli che lo sanno per loro. A volte le cose andrebbero prese al contrario : cioè partendo dal fatto che chi si ribella non ha maggiori ragioni di farlo di quante ne abbia per non farlo – e spesso anche un po’ meno. E da questo, interrogarsi non tanto sulle ragioni che ci permettono di mettere ordine nel disordine ma piuttosto su quanto ci suggerisce questo disordine rispetto all’ordine dominante delle cose e all’ordine delle spiegazioni che generalmente lo accompagna. Il movimento dei gilet gialli, più di ogni altro movimento precedente, è fatto di persone che di norma non si mobilitano: non rappresentanti di classi sociali definite o di categorie note per avere delle tradizioni di lotta. Uomini e donne di mezza età, come quelli che incrociamo ogni giorno per strada, nei cantieri e nei parcheggi, che hanno come unico segno distintivo un accessorio obbligatorio per ogni automobilista. Si sono attivati per la più banale delle preoccupazioni, il prezzo della benzina: simbolo di questa massa votata al consumo che dà la nausea a distinti intellettuali; simbolo di una normalità che fa dormire sonni tranquilli ai nostri governanti: questa maggioranza silenziosa, fatta di individui sparsi, senza alcuna forma di espressione collettiva, senza altra « voce » se non quella che ci restituiscono i sondaggi d’opinione e i risultati elettorali. Le rivolte non hanno ragioni. Piuttosto, hanno una logica. E questa consiste perlopiù nell’infrangere la cornice in cui si percepiscono abitualmente le ragioni dell’ordine e del disordine e le persone idonee a darne un giudizio. Le cornici sono in primo luogo gli usi che si fanno dello spazio e del tempo. Più precisamente questi soggetti « apolitici » di cui è evidente l’estrema diversità ideologica hanno adottato la forma d’azione dei giovani indignati dei movimenti di piazza, che gli studenti in rivolta avevano già emulato dagli operai durante gli scioperi: l’occupazione. Occupare, significa scegliere di manifestarsi come collettività in lotta in un luogo ordinario di cui si altera la normale destinazione: produzione, circolazione o altro. I gilet gialli hanno scelto le rotonde stradali, questi non luoghi a cui ogni giorno girano attorno degli automobilisti anonimi. Vi hanno disposto del materiale di propaganda e baracche di fortuna come avevano già fatto negli ultimi dieci anni i manifestanti anonimi radunati nelle piazze occupate. Occupare, vuol dire anche creare un tempo specifico: un tempo rallentato rispetto all’attività solita, un tempo in cui si prendono le distanze dall’ordine normale delle cose; un tempo accelerato, invece, dalla dinamica di un’attività che obbliga a rispondere di continuo a scadenze a cui non si è preparati. Questa doppia alterazione del tempo modifica le normali velocità del pensiero e dell’azione. Trasforma insieme la visibilità delle cose e il senso del possibile. L’oggetto di sofferenza assume una visibilità diversa, quella dell’ingiustizia. Il rifiuto di un’accisa si trasforma nel sentimento di un’ingiustizia fiscale poi nel sentimento dell’ingiustizia globale di un ordine del mondo. Quando un collettivo di uguali interrompe il cammino normale del tempo e inizia a tirare un filo particolare – la tassa sulla benzina, oggi, la selezione all’università, la riforma delle pensioni e del codice del lavoro, ieri – è tutto il tessuto fitto di diseguaglianze che strutturano l’ordine globale di un mondo governato dal profitto che inizia a sfilarsi. Allora non è più una richiesta che chiede soddisfazione. Sono due mondi che si contrappongono. Questa contrapposizione di mondi fa crescere la distanza tra quanto richiesto e la logica stessa del movimento. Il negoziabile diventa non negoziabile. Per negoziare si mandano dei rappresentanti. I gilet gialli, figli di un paese profondo di cui si dice spesso che sia sensibile alle sirene autoritarie del « populismo », hanno ripreso la rivendicazione di orizzontalità radicale che si crede riservata ai giovani anarchici romantici degli occupy movement o delle ZAD. Tra i pari radunati e gli amministratori del potere oligarchico, non c’è negoziazione. Questo significa che la rivendicazione trionfa, non foss’altro che per la paura dei secondi, ma anche che la sua vittoria la fa sembrare irrisoria rispetto a quello che la rivolta « vuole » con la sua immanente evoluzione: la fine del potere dei « rappresentanti », di coloro che pensano e agiscono per gli altri. È vero che anche questa « volontà » può assumere la forma di una rivendicazione: il famoso referendum d’iniziativa popolare. Ma la formula della rivendicazione ragionevole nasconde in realtà una contrapposizione radicale tra due idee di democrazia: da un lato la concezione oligarchica regnante, il calcolo dei voti a favore e dei voti contrari come risposta a una domanda posta. Dall’altro, la personale concezione democratica: l’azione collettiva che dichiara e verifica la capacità di ognuno di formulare le domande. Perché la democrazia non è la scelta della maggioranza. È l’azione che valorizza la capacità di chiunque, anche di coloro che non hanno nessuna « competenza » per legiferare e governare. Tra il potere dei pari e quello delle persone « competenti » a governare, ci possono sempre essere scontri, negoziazioni e compromessi. Ma dietro, c’è sempre l’abisso del rapporto non negoziabile tra le logiche dell’uguaglianza e della disuguaglianza.  È per questo che le rivolte si fermano sempre a metà strada, con grande disappunto e grande soddisfazione degli studiosi che le dichiarano votate al fallimento perché prive di « strategia ». Ma una strategia è solo un modo di regolare i conti all’interno di un certo mondo. Nessuna strategia insegna a colmare il divario tra due mondi. « Andremo fino in fondo», si sente dire ogni volta. Ma questo tratto del cammino non è identificabile con nessun fine determinato, soprattutto da quando i Paesi cosiddetti comunisti hanno annegato nel sangue e nel fango la speranza rivoluzionaria. Probabilmente è così che va inteso lo slogan del ’68: « Non è che l’inizio, la lotta continua ». Gli inizi non giungono mai alla fine. Rimangono per strada. Significa che non finiscono mai di ricominciare, a costo di cambiare gli attori. È il realismo – inspiegabile - della rivolta, quello che chiede l’impossibile. Visto che il possibile è già stato preso. È proprio questa la formula del potere: no alternative.

Giorgia Meloni e la prova della vergogna Pd: "Servi della Francia di Emmanuel Macron", scrive l'8 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Ai responsabili del Partito democratico va riconosciuto un indiscusso talento nel riusce a scegliere la posizione più odiata dalla quasi totalità degli elettori italiani. Ci riesco sempre i dem, soprattutto quando c'è da schierarsi con il proprio Paese, per esempio nello scontro tra Italia e Francia, dopo che Emmanuel Macron ha addirittura richiamato l'ambasciatore in Italia. L'ultimo suicidio politico del Pd arriva dal profilo Twitter ufficiale, come ha fatto notare anche Giorgia Meloni sui social: i dem hanno aggiunto accanto al loro nome la bandiera francese e quella dell'Unione europea. Giusto per chiarire con chi stanno Maurizio Martina, Nicola Zingaretti e compagni. Con ironia, la leader di Fratelli d'Italia ricorda quel che già il Pd ha dimostrato nel corso degli ultimi anni di governo, quando i premier italiani andavano a Bruxelles sempre con il cappello in mano: "Il Partito democratico - scrive la Meloni - ci tiene a mostrare il proprio servilismo nei confronti di Francia e Ue. Contenti loro". Un autogol da non crederci, quasi peggio di quando Matteo Renzi si era messo in testa di creare in Italia un movimento che si ispirava a En Marche di Macron. Con questo fiuto elettorale, i piddini sembrano destinati all'estinzione eterna. La Meloni, per rendere la sua posizione ancor più chiara, ha successivamente postato su Facebook un video in cui ribadisce il punto.

Il Pd espone il vessillo francese. M5S: "Servi di chi ci ha resi schiavi". Il Partito Democratico si schiera con Parigi: su Twitter la bandiera transalplina. Ira M5S: "Provocazione anti-italiana", scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 08/02/2019 su Il Giornale. Il Pd espone la bandiera francese. Anche su Twitter. Nella diatriba tra il Belpaese e Parigi, il Partito Democratico prende una posizione netta. Nel suo account social, infatti, il Pd ha esposto il vessillo transalpino al fianco di quello dell'Unione Europea e dell'Italia. Una scelta di campo dopo che Parigi ha richiamato l'ambasciatore a seguito delle polemiche con il Viminale (vedi controlli francesi sui treni) e con Di Maio (leggi incontro con i gilet gialli). "Il M5s, in particolare il Ministro Di Maio, ha incontrato la parte più violenta dei gilet gialli, per altro sconfessata dalla parte più pacifica. Il richiamo di un ambasciatore è un gesto che non si compiva dai tempi del fascismo. Oltre al grave problema della credibilità di questa Italia c'è la questione economica e commerciale: oggi Fubini ci ricorda che il rapporto fra Italia e Francia sul Made in Italy riguarda una cifra pari a 10 miliardi", ha detto il candidato alle primarie del Pd Roberto Giachetti. La scelta dei dem è stata però criticata dal M5S. "Provocazione anti italiana del Pd, partito dei poteri forti, con una bandiera francese sul suo Twitter. Noi amiamo la Francia ma amiamo di più l'Italia. Che segnale vogliono mandare e a chi? Pd servo con chi ci ha messo in ginocchio e ci ha resi schiavi dell'Europa delle banche", scrive il sottosegretario alla Pubblica Amministrazione Mattia Fantinati.

La sinistra malata di macronismo, scrive Alessandro Gnocchi, Sabato 09/02/2019, su Il giornale. Il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, è il nuovo idolo della stampa italiana e anche della sinistra (le due cose in gran parte coincidono). Il suo grande merito, secondo i commentatori, è aver richiamato a Parigi l'ambasciatore in Italia, come si fa quando sta per scoppiare una guerra. La diplomazia di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, serrati nell'utilitaria per andare a scattare una foto con il portavoce dei gilet gialli, nemico giurato di Macron, pare tratta da una commedia di Mario Monicelli, senza offesa per il grande regista. Però non giustifica l'esplosione di anti-italianità negli editoriali di quasi tutti i giornali. Macron infatti non è uno stinco di santo e almeno per ora neppure un grande statista. Vogliamo ricordare i traguardi tagliati dal presidente? Chiusura delle frontiere, trattato di Aquisgrana, sconfinamento in Italia della gendarmerie, avventurosa politica estera in Africa, ostacoli agli investitori stranieri in generale e italiani in particolare: sono tutte quante mosse discutibili, qualcuno dice molto nazionaliste e per niente europeiste. Di Maio utilizza Macron per fare campagna elettorale ma vale anche il discorso contrario. In questo, Macron è il Di Maio dei francesi e fa campagna elettorale prendendoci a schiaffi per far dimenticare le proteste dei gilet gialli e gli indici di gradimento ai minimi storici. Ieri Le Figaro, giornale conservatore e quindi molto attento agli interessi nazionali francesi, scriveva che è stato proprio Macron a cominciare il giochetto. I quotidiani italiani la pensano diversamente. Il Foglio titola: «Macron rompa le relazioni diplomatiche. Merde Alors! a questo Paese che in soli sei mesi si è rivelato un Paese di merda». Firmato: Giuliano Ferrara. La Stampa: «Una crisi costruita dal Movimento 5 stelle». Firmato: Stefano Stefanini che, nella foga di affossare il governo italiano, anticipa perfino di un anno la dichiarazione di guerra alla Francia (1939 invece di 1940). Anais Ginori de La Repubblica compiange Macron, povera stella, che non «immaginava quanto sarebbe stata veloce la salvinizzazione dell'Italia e quanto l'anti-francesismo potesse attecchire». Marzio Breda sul Corriere della sera invoca disperato l'intervento di Sergio Mattarella: «È stato via solo due giorni ed è successo di tutto». Il presidente della Repubblica chiederà al ministro degli Esteri Enzo Moavero di rassicurare Macron: i puzzoni siamo noi. Abbiamo cominciato con la commedia all'italiana e finiamo con la commedia all'italiana. Il sindaco Federico Borgna, centrosinistra, ha fatto sapere via Facebook: «Da oggi, sul balcone del Municipio di Cuneo, sventolano le bandiere dell'Italia, dell'Europa e della Francia». Ed è subito moda. Anche il rettore dell'università di Torino, Gianmaria Ajani, ha esposto la bandiera francese sulla facciata del Rettorato in via Po. Poteva mancare il Partito democratico? No. Infatti, nell'account Twitter, ha trovato opportuno aggiungere la bandiera francese accanto a quella italiana e a quella europea. Risate e fine dello spettacolo, per ora.

Non è una guerra Italia-Francia. Ma di Macron all’Italia giallo-verde, scrive l'8 febbraio 2019 Lorenzo Vita su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Emmanuel Macron ha dichiarato guerra all’Italia giallo-verde. È questo il vero tema dello scontro diplomatico che in questi giorni coinvolge Italia e Francia. E sbaglia chi crede che questa sia una sfida fra due Paesi che in realtà hanno legami ben più profondi che travalicano la disfida fra Eliseo e Palazzo Chigi. La realtà è che è sì, mai come questa volta i due Stati hanno agende contrapposte. Ma è soprattutto chiaro che il presidente francese, simbolo di quell’élite europea contrastata dai movimenti sovranisti e populisti, vuole infliggere colpi durissimi al governo composto da Lega e Movimento Cinque Stelle, che rappresentano i nemici perfetti dell’inquilino dell’Eliseo. Parigi ha manifestato da subito la sua totale avversione nei confronti del governo italiano. E se è assolutamente vero che l’esecutivo italiano ha da sempre considerato Macron l’obiettivo numero uno della propria politica estera, è anche vero che non c’è mai stato da parte del presidente francese alcun interesse a dialogare con l’Italia. Anzi, da quando le elezioni di marzo 2018 hanno consegnato una maggioranza del tutto opposta a quanto preferito da Parigi (e Berlino), l’ordine del presidente francese è stato quello di scatenare una vera e propria sfida a 360 gradi nei confronti dell’agenda politica italiana. E lo hanno dimostrato le dichiarazioni nei confronti della maggioranza di governo (da “vomitevoli” a “lebbra nazionalista”) ma anche le azioni messe in atto dall’Eliseo per colpire gli interessi italiani (Libia, Fincantieri, Alitalia, deficit, Europa, migranti, sconfinamenti). Da questa sfida all’Italia, il governo italiano ha ovviamente reagito con veemenza. E non sorprendono le prese di posizione di Matteo Salvini e Luigi di Maio che, pur con scelte opinabili, hanno sostanzialmente risposto a una serie di attacchi da parte del governo francese. Ma quello che è scaturito successivamente a questo scontro è l’idea, perpetrata da molti, che questo scontro fra governi sia in realtà una sfida fra Italia e Francia. Cioè fra due Paesi e non fra le loro rispettive amministrazioni. In realtà non è così. E lo dimostrano soprattutto le alleanza politiche costruite in questi anni specialmente fra la Lega di Salvini e il Rassemblement National di Marine Le Pen. E lo dimostrano per certi versi anche i legami instaurati (pur molto fragili) fra Movimento 5 Stelle e gilet gialli. E questa è la dimostrazione più eloquente di come la fantomatica guerra dell’Italia alla Francia, come sostenuto da molti osservatori, sia in realtà un’idea assolutamente superficiale. Questa è una partita ben differente: è una sfida fra due idee di Europa fra loro inconciliabili. Ed è per questo che si sta spostando su un piano internazionale una questione che è prima di tutto politica. Il governo di Giuseppe Conte, ha scalfito le certezze di un certo sistema europeo basato sull’asse franco-tedesco. Probabilmente non con i risultati sperati e non senza alcune conseguenze anche gravi. Ma è del tutto evidente che se a quelle elezioni presidenziali del 2017 fosse uscita vincente Marine Le Pen, nessuno avrebbe parlato di una guerra fra Italia e Francia, ma probabilmente di due Paesi amici e alleati. Naturalmente nessuno può avere la certezza. Ma vedendo la profonda sinergia della Lega con quello che era il Front National e soprattutto vedendo l’asse fra le opposizioni e Macron (basti ricordare il legame fra En Marche! e il Partito democratico di Matteo Renzi) non si può non riflettere sul fatto che il presidente francese stia facendo il possibile per isolare e colpire l’Italia più perché rappresenta un avversario politico che un avversario strategico. Anche perché passare dal negoziato sul Trattato del Quirinale con Paolo Gentiloni a contrastare in ogni modo la politica italiana, significherebbe aver cambiato atteggiamento in maniera fin troppo rapida su Roma e le sue strategie. È cambiato il governo e le idee che muovono Palazzo Chigi: ed è per questo che Macron ha fatto scattare le rappresaglie.

Macron vuole la guerra, scrive l'8 febbraio 2019 Andrea Indini su Il Giornale. Perché Emmanuel Macron richiama l’ambasciatore francese a Roma, Christian Masset, proprio ora? Nei mesi scorsi da entrambe le parti si sono alzate invettive violentissime. Ad attaccare, per la verità, è stato sempre l’Eliseo che non ha mai mancato di criticare e insultare per il proprio tornaconto politico. Ora, però, in piena crisi dei consensi, eccolo usare una delle più pesanti leve diplomatiche per attaccare Luigi Di Maio, rimangiarsi l’accordo stretto con Matteo Salvini per ripartire i 47 migranti che si trovavano a bordo della Sea Watch 3 e far saltare la trattativa sul salvataggio di Alitalia. I due governi – quello di Conte e quello di Macron – non si sono mai piaciuti. E non lo hanno mai nascosto. Troppo diversi tra loro. Salvini non aveva ancora chiuso tutti i porti italiani alle navi delle Ong, che dall’entourage di En Marche era arrivato il primo anatema contro le “vomitevoli politiche” del governo italiano. Oggi il portavoce dell’esecutivo, Benjamin Griveaux, è stato (se possibile) ancora più chiaro: “Se si vuole indietreggiare la lebbra nazionalista, se si vuole fare indietreggiare i populisti, se si vuol far indietreggiare la sfida all’Europa, il modo migliore è comportarsi bene con i propri partner”. Vomitevoli, dunque, e per giunta lebbrosi. Non accadeva dal 1940 che Parigi richiamasse il proprio ambasciatore da Roma. Allora l’Europa si preparava a una guerra che l’avrebbe lasciata in macerie. Oggi si prepara a una tornata elettorale che potrebbe essere il giro di boa per l’Unione europea, almeno per come l’abbiamo concepita sino a oggi. Solo se si tiene presente questo, si possono capire le continue rappresaglie di Macron sull’Italia. Perché, oltre alle invettive, non dobbiamo dimenticare lo scontro sulla nave Aquarius, i respingimenti degli immigrati irregolari scaricati nei boschi al confine, la battaglia nelle sedi europee sullo sforamento del deficit, lo sgambetto della convocazione dei libici di Misurata pochi giorni prima della Conferenza di Palermo, la richiesta di intervento della Commissione Ue per bloccare l’affare Fincantieri-Stx e l’acquisizione dei cantieri di Saint-Nazaire e così via. Sono solo alcuni episodi di un rapporto di vicinato impossibile. Certo, se alle ultime presidenziali avesse vinto Marine Le Pen, probabilmente i rapporti tra i due Paesi sarebbero stati molto meno freddi. È importante tenere a mente che entrambe le parti stanno giocando una partita cruciale, che poi è quella che si consumerà in occasione delle elezioni europee. Mentre la Lega e i Cinque Stelle hanno fatto della lotta all’élite europea la propria ragione di vita, Macron si contrappone rafforzando i legami con l’establishment di Bruxelles e, soprattutto, con Angela Merkel. Non a caso, in vista del voto di maggio, Salvini e Di Maio sono andati a cercare alleati tra i più acerrimi nemici del presidente francese: la Le Pen e i gilet gialli. Le ritorsioni di oggi, che hanno fatto carta straccia dell’accordo sulla Sea Watch e della trattativa per il salvataggio di Alitalia, sono la dimostrazione che Macron non vuole neanche lontanamente la pace. Lo sono anche i continui sconfinamenti nei boschi italiani per scaricarci gli immigrati irregolari e le provocazioni dei doganieri sui treni che trasportano i pendolari italiani. Per il futuro dobbiamo, dunque, aspettarci altre provocazioni che avranno ricadute sia sulla politica sia sull’economia. Le due agende sono talmente contrapposte che solo un rovesciamento o di Macron o dei gialloverdi potrebbe portare a un cambio di linea.

Mal di Francia. Disinteresse per le periferie, servizi scadenti, stato sociale in crisi. I Gilet Gialli sono solo uno dei mille problemi di Macron, scrive l'8 febbraio 2019 Alberto Toscano su Panorama. "Noi proviamo un sentimento di abbandono e ci accorgiamo tutti i giorni che la priorità va solo alle aree urbane. I nostri villaggi si svuotano. La situazione è grave" dice Christian Venries, sindaco di Saint-Cirgues, un comune francese di 351 anime e altrettanti corpi dai nervi sempre più tesi. Il sindaco si è rivolto direttamente al presidente Emmanuel Macron, che il 18 gennaio è andato a Souillac, nella Francia sud-occidentale, per dialogare in diretta tv con i rappresentanti di 600 comuni dell’Occitania. Uno show nella speranza di dimostrare che l’Eliseo non si è dimenticato della parte meno visibile del Paese. Ce n’era bisogno. Dal 17 novembre la "Francia profonda" è sul sentiero di guerra attraverso il movimento dei Gilet gialli. Ecco Emmanuel Macron, 41 anni appena compiuti, ascoltare (con qualche smorfia) le rimostranze di sindaci pronti a rinfacciargli soprattutto la grande delusione per la crisi del vecchio modello sociale. Il welfare alla francese va avanti ancora, ma ha una gomma bucata. Jérôme Blasquez, sindaco di Les Pujols (790 abitanti nel dipartimento dell’Ariège, al confine con i Pirenei) va giù duro: «I nostri concittadini percepiscono una sensazione di autentica ingiustizia sociale». La crisi non è fatta solo di grandi numeri sulla sanità e le pensioni, ma viene da una nuova ricetta del «pollo di Trilussa» in versione nouvelle cuisine. Al vecchio squilibrio tra chi ha più e chi meno (chi mangia un pollo intero e chi si accontenta di poco, con le statistiche pronte a dire che c’è mezzo pollo a testa), si aggiunge la dimensione sempre più grave della «frattura territoriale». Un muro tra la Francia dinamica e quella che non sa come cavarsela. Da un lato le aree urbane «mondializzate», che riescono ad approfittare dell’apertura dei mercati, e dall’altro le campagne, che si sentono tagliate fuori. Nella Francia di oggi, essere poveri in città non è come esserlo in campagna. Un sistema per far germogliare le campagne ci sarebbe e si chiama internet. Ma anche qui esistono due velocità. Secondo i sindaci dell’Occitania, l’accesso al web è un modo per dire se la Francia può davvero parlare di Egalité. Perché oggi non tutti sono uguali. Sul terreno delle nuove tecnologie della comunicazione si stanno giocando le sfide della coesione territoriale e dello stato sociale. La signora Agnès Simon Picquet, sindaco di Les Junies, 267 abitanti nel Lot, Massiccio centrale, dice: «Non ne possiamo più dei ritardi e degli scompensi di internet». Lo slogan «basta con i ritardi nella copertura internet del nostro territorio» è diventato la nuova frontiera della sfida sociale dei villaggi di campagna. Che sono tantissimi perché la Francia (molto più vasta dell’Italia) ha il record europeo in materia. Conta infatti 34.970 comuni contro i 7.926 dell’Italia. Con un accesso «normale» a internet si potrebbe lavorare stando in campagna, dove oggi il problema numero uno è proprio l’occupazione. «Le nostre metropoli sono aspirapolvere che si portano via i posti di lavoro» dice Gilles Liebus, sindaco di Meyronne (283 abitanti). Con la crisi dei mestieri legati all’agricoltura e all’allevamento, diminuiscono gli abitanti. Di conseguenza se ne vanno la farmacia, l’ambulatorio, la gendarmeria, gli uffici comunali. Il municipio diventa una conchiglia vuota. «Per ottenere un documento dobbiamo fare decine di chilometri in auto, ma l’auto è penalizzata dalle spese in continua crescita e dalla riduzione dei limiti di velocità» dice Christian Venries. L’auto non è un lusso, ma uno strumento di sopravvivenza, anche perché nel frattempo i trasporti pubblici perdono d’efficacia. Le linee ferroviarie vengono chiuse e anche i bus non sono all’altezza dei bisogni della gente. L’auto è la ciambella di salvataggio, ma l’aumento dei prezzi (quelli dei carburanti e anche quelli per i controlli periodici delle vetture, inaspriti per volontà di Macron) innescano la rabbia dell’«altra Francia»; quella che si sente emarginata. La protesta dei Gilets gialli è figlia dall’aumento dei prezzi dei carburanti e dalla riduzione (decisa l’anno scorso) dei limiti di velocità, da 90 a 80 chilometri orari, sulle strade provinciali. Per farla applicare, il ministero dell’Interno ha moltiplicato i radar. Così la collera ha trovato un nemico su cui sfogarsi. I radar stradali sono attaccati come i soldati di un esercito invasore e messi sistematicamente fuori uso da persone che si prendono per Robin Hood. Le scuole sono le ultime a partire dai villaggi, ma adesso cominciano ad andarsene pure loro. «Nel mio dipartimento le scuole chiudono una dopo l’altra», dice Jean-Louis Grimal, sindaco di Curan, 308 abitanti nell’Aveyron, nel sud del Paese. La signora Christiane Marfin è sindaco di Saint-Chély-d’Aubrac, 540 abitanti sempre nell’Aveyron, e si commuove nel dire a Macron: «Noi rischiamo di perdere la scuola e la perdita della scuola sarebbe la fine del nostro villaggio». Nel passato della Francia, la scuola è stata molto più di una macchina per trasmettere il sapere. Insieme al lavoro dei padri, la scuola dei figli è stata la macchina fondamentale dell’integrazione e dunque del successo del modello sociale di una società largamente basata sull’arrivo dei migranti. Altri tempi. «È stata la scuola a consentirci di integrare in un secolo milioni e milioni di immigrati, convincendo bambini di ogni origine che erano tutti pronipoti di Vercingetorige!», diceva un esponente gollista come Charles Pasqua, già ministro degli Interni. Alle elementari, integrare contava ancor più di insegnare a far di conto. Adesso l’immigrazione si indirizza verso alcune aree delle periferie urbane (le cosiddette «cités de banlieue»), in cui il lavoro degli insegnanti è spesso una sfida quotidiana (e quotidianamente persa) per applicare i programmi e in cui le scritte sui muri delle scuole esprimono solo rabbia. Collera senza senso e senza futuro. Dal punto di vista di Macron e del suo governo non ci sono alternative ai tagli di bilancio. Nel 2019 il rapporto deficit-Pil della Francia sarà (salvo miracoli) ben superiore al 3 per cento del Vangelo di Maastricht. Spingersi ancora oltre sarebbe impossibile. Il sistema francese di sanità, istruzione e pensioni è già oggi considerato troppo caro. La dimensione del settore pubblico in Francia è impressionante se comparata a quella degli altri Paesi industrializzati. I posti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche superano in Francia il 22 per cento del totale nazionale dei posti di lavoro, mentre sia nell’insieme del resto dell’Eurozona e sia nell’insieme del resto dell’Ocse non si arriva al 14 per cento. Il livello della spesa pubblica francese arriva al 57 per cento del Pil, mentre l’insieme del resto dell’Eurozona e l’insieme del resto dell’Ocse sono rispettivamente al di sotto del 45 e del 40 per cento. Il peso dei posti di lavoro pubblici è calato in Francia nel corso dell’ultimo ventennio (nel 1998 era il 24 per cento), ma la relazione tra spesa pubblica e Pil è sensibilmente aumentata, visto che nel 1998 era del 53 per cento. Il boom della spesa pubblica si è verificato nel periodo della crisi esplosa nel 2008, ma poi i vari governi non sono riusciti a ripristinare i livelli precedenti. Anche tenendo conto delle differenze tra i metodi di calcolo dei vari Paesi a proposito del perimetro del settore pubblico, il caso francese è molto particolare. Un recente studio della banca Natixis non ha dubbi in proposito: «Il peso delle spese pubbliche in Francia resta molto superiore a quello delle spese pubbliche negli altri Paesi dell’euro o dell’Ocse». Queste spese sono finanziate attraverso un meccanismo fiscale che privilegia nettamente l’imposizione indiretta rispetto alle tasse sul reddito. Oggi i 68 milioni di francesi sono raggruppati in 37,9 milioni di nuclei fiscali, di cui solo 16,3 milioni (43 per cento) sono sottoposti alle imposte dirette. Il meccanismo del quoziente famigliare consente a gran parte della popolazione di non pagare tasse sul reddito. Chi scende oggi nelle piazze per criticare Macron non mette in discussione il quoziente famigliare né l’esenzione di oltre la metà delle famiglie francesi dalle tasse sul reddito, ma chiede l’inasprimento della fiscalità sulla fascia più agiata della popolazione. La Francia, ben più di altri Paesi, si finanzia grazie a tasse indirette, spalmate uniformemente sui consumi e sulle attività economiche e creando così una sensazione di ingiustizia sociale. È il caso dell’Iva e anche di un prelievo istituito nel 1991 dall’allora primo ministro socialista Michel Rocard per contribuire al finanziamento dell’assistenza sanitaria pubblica: la Csg (Contribution sociale généralisée), il cui perimetro d’applicazione si è sempre più esteso e il cui tasso d’imposizione non ha smesso di aumentare. Da piccola tassa aggiuntiva (una sorta di elemosina allo Stato, destinata alla copertura malattia) la Csg si è trasformata in autentica stangata. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’aumento, voluto da Macron nel 2018, della Csg su tutte le pensioni (misura poi modificata a seguito della protesta dei Gilets gialli, con la cancellazione del nuovo salasso sulle pensioni più basse). Oggi l’imposta sul reddito porta allo Stato francese 78 miliardi di euro annui, mentre l’Iva e la Csg ne portano rispettivamente 188 e 99 miliardi. La Csg, socialmente la più ingiusta tra le imposte francesi (visto che colpisce tutti indiscriminatamente), si è rivelata per lo Stato una mucca da mungere. Il cittadino accetterebbe meglio queste spese se fosse entusiasta del funzionamento della République e delle sue articolazioni. Purtroppo per Macron, la percezione dei francesi è quella di una crisi del sistema di protezione sociale. Crisi la cui entità dipende dai punti di vista. Molti Paesi al mondo si leccherebbero ancora oggi i baffi se avessero un welfare come quello francese, col sistema sanitario gratuito; con la pensione a 65 anni (o prima se si dispone dei necessari contributi o se si fa parte di alcune categorie, come quella dei ferrovieri); con due anni di assegno di disoccupazione, proporzionato al salario, a chi perde il proprio lavoro (che diventano due anni e mezzo per chi ha compiuto i 53 anni e tre anni per chi ha spento 55 candeline); con due milioni e mezzo di persone che ricevono il Reddito di solidarietà attiva (Rsa) per superare un momento difficile e inserirsi (o reinserirsi) nel mondo del lavoro. Ma per i figli della République le cose vanno male e peggiorano giorno dopo giorno perché il governo cerca di ridurre su ogni fronte le spese sociali. Essendo cresciuti con l’idea di uno Stato efficace e generoso, i francesi hanno una sensazione di disagio e di delusione tutte le volte che devono - per esempio - fare una coda al Pronto soccorso di un ospedale. E siccome oggi il sistema sanitario tira la cinghia, non c’è zona dell’Esagono in cui non vengano chiusi servizi di Pronto soccorso. Nella stessa Parigi la situazione è andata peggiorando negli ultimi anni e oggi rivela il reale disagio che si percepisce in tutto il settore sanitario. Negli ospedali il malcontento è oggi un po’ ovunque. Tra i malati, tra gli infermieri e tra i medici. È diffuso soprattutto nel personale infermieristico, che si sente preso in giro dalle leggi che vent’anni fa hanno ridotto a 35 ore l’orario settimanale di lavoro. In cambio di quella riduzione, i sindacati hanno dovuto accettare il contenimento delle rivendicazioni salariali, ma oggi negli ospedali francesi (a causa del contenimento delle assunzioni) gli infermieri non possono limitarsi a 35 ore. Così accumulano straordinari sapendo che mai questi verranno retribuiti. La stessa cosa vale per gli agenti di polizia e per altre categorie del pubblico impiego, che - in varie forme - fanno oggi sentire la propria protesta. Protestano i sindacati perché il governo sogna di modificare il sistema degli assegni di disoccupazione per meglio incentivare gli interessati alla ricerca di un impiego. Protestano i pensionati che parlano di un calo del potere d’acquisto. La realtà è che la crisi attuale del welfare non viene solo dalle cifre dei bilanci e dai calcoli economici. Viene da lontano, perché i francesi hanno assorbito, con il latte materno, l’illusione di uno Stato protettore, capace di tenerli asciutti anche sotto le tempeste. Oggi la Francia è uno Stato come gli altri, con i suoi problemi, le sue contraddizioni, i suoi errori. Constatare i limiti del welfare nazionale non è un esercizio facile per i cugini d’Oltralpe. Come se il ricordo del latte materno diventasse improvvisamente indigesto.

Che tempo che fa, Giorgia Meloni inchioda Fabio Fazio: abbi il coraggio di chiedere a Macron dell'Africa, scrive l'1 Marzo 2019 Libero Quotidiano. In partenza per Washington, Giorgia Meloni, dopo aver appreso la notizia che Fabio Fazio intervisterà il presidente francese Emmanuel Macron per Che tempo che fa, sfida il conduttore con un video messaggio pubblicato sul suo profilo Twitter: "Fabio Fazio, ti facciamo una richiesta ufficiale: chiedi conto nel servizio pubblico italiano delle politiche neocoloniali che la Francia porta avanti in Africa. E chiedi conto della ragione per la quale la Francia non consente a queste Nazioni di crescere, salvo poi fare a noi le lezioni di morale perché non siamo 'abbastanza accoglienti' con gli africani". E ancora: "Per carità, è un buon colpo per la televisione di Stato italiana ma proprio perché si tratta della televisione di Stato italiana, però mi corre l'obbligo di segnalare a Fazio che tre giorni fa il Parlamento ha approvato una parte della mozione di Fratelli d'Italia che impegna il governo italiano e l'Italia ad andare in Europa a chiedere conto a Macron delle politiche neocoloniali che la Francia porta avanti in Africa; del franco Cfa, la moneta che viene stampata dai francesi per 14 Nazioni africane e su cui viene applicato il signoraggio e del controllo dell'economia di queste Nazioni da parte della Francia, che stampa moneta e pretende che nelle proprie tasche finisca il 50% del valore delle esportazioni di questi Paesi. 

Che brutto tempo che fa, scrive l'1 Marzo 2019 Andrea Indini su Il Giornale. Non è tanto l’annuncio dell’intervista a Emmanuel Macron. A far strabuzzare gli occhi è l’enfasi con cui, in queste ore, viene sbandierata a destra e a manca. “Domenica – si legge – Che tempo che fa ha l’onore di intervistare il presidente della Repubblica francese”. L’onore, appunto. Certo, Fabio Fazio si troverà faccia a faccia con uno dei capi di Stato più influenti (e discussi) di tutta l’Unione europea. La speranza, però, è che non faccia come quando invita in studio i vari Roberto Saviano o Mimmo Lucano. Non gli offra, cioè, le frequenze della tivù di Stato per fare uno spot contro l’Italia. Oggi pomeriggio Fazio ha postato su Twitter una foto che lo ritrae con Macron in una stanza dell’Eliseo. Non si sa ancora quali sono i temi che il conduttore ha affrontato con il presidente francese. Le Figaro si limita a informarci che i due hanno parlato anche di come i due Paesi possono “far fronte alle sfide migratorie, ambientali, economiche e sociali”. Ebbene, dal momento che in Europa la Francia si è sempre messa di traverso per ostacolare gli interesse dell’Italia, potrebbe essere l’occasione per far luce su certe questioni ancora aperte. Eccone alcune:

i respingimenti degli immigrati al confine italo-francese e, soprattutto, gli sconfinamenti della gendarmerie nel nostro territorio;

il mancato accoglimento degli immigrati dall’Italia sulla base delle quote decise a Bruxelles;

le interferenze in Libia e, più in generale, nel continente africano per mettere le mani sul petrolio che le compagnie italiane gestiscono in Africa;

l’asse con Berlino per tagliar fuori Roma dai più importanti accordi commerciali;

le pressioni nelle principali sedi dell’Unione europea per screditare le politiche del governo italiano;

I veri obiettivi che spingono Macron a volere a tutti i costi un esercito europeo a guida francese.

Ci aspettiamo che Macron chiarisca almeno questi punti controversi visto che sarà ospite della rete ammiraglia della tivù di Stato. E magari ammetta anche tutti gli errori compiuti da quando si trova all’Eliseo e che lo hanno portato ad essere uno dei presidenti meno amati della storia della repubblica francese. Tuttavia, temiamo il contrario. Visto che En Marche!, il partito del capo dell’Eliseo, è visto dagli ultrà europeisti come l’argine all’ondata sovranista ed euroscettica cavalcata da Marine Le Pen, l’intervista rischia di tradursi in uno spot contro quelle pulsioni destrorse che stanno contagiando il Vecchio Continente.

Che tempo che fa, Fabio Fazio fa lo spot a Emmanuel Macron: ecco cosa gli ha domandato, scrive Carlo Nicolato il 2 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Scusate l'italiano non consono, ma che c'azzecca Fabio Fazio con il presidente francese Emmanuel Macron, detto Zeus? Nulla, se non fosse che forse il conduttore di "Che tempo che fa" essendo un rinomato giornalista Piano, Fazio sarà rinomato ma giornalista fino a prova contraria non è, essendosi fatto cancellare nel 2016 dall' albo dei pubblicisti per prestare la sua faccia e il suo nome alla campagna pubblicitaria di Telecom Italia. Quindi che ci faceva all' Eliseo di fronte a Macron impettito, in quella foto che lo stesso Fazio ha pubblicato su Twitter? Lo dice lui stesso annunciando, e fugando ogni dubbio che nel frattempo avesse per caso preso pure il posto di Mattarella, che domenica, cioè domani, la sua trasmissione «ha l'onore di intervistare il presidente della Repubblica francese». A memoria noi ci rammentiamo di giornalisti italiani veri che senza timore reverenziale porgevano il microfono o la penna a capi di Stato e perfino tiranni, la Fallaci con l'Ayatollah Khomeini ad esempio, perfino Minà con Fidel Castro, ma mai ci saremmo aspettati che l'ex imitatore di Pronto Raffaella varcasse senza peraltro i titoli necessari le soglie dell'Eliseo per intervistare il più odiato dei presidenti d' Oltralpe.

Ovviamente dai tempi di Raffaella Fazio ne ha fatta di strada e se adesso ospita Saviano un giorno sì e un giorno no, gli resterà pure un po' di spazio per il presidente della «democrazia millenaria». E poi da Saviano a Macron forse il passo è più breve di quanto non sembri, entrambi infatti sono nemici giurati del governo italiano in carica, entrambi forse concordano che l'Italia sia un Paese «vomitevole», come una volta il giovane Zeus fuori dalla grazia di Dio ebbe a definirlo. Anche Saviano in fondo osserva lo Stivale da un attico di Manhattan e l'impressione che ne ricava da quella levatura deve essere ben misera. L' Italia di Fazio invece è quella filtrata da un emolumento di 2,2 milioni di euro che la Rai-Radiotelevisione italiana gli elargisce a stagione per condurre la nota trasmissione in onda sul primo canale, il cui costo complessivo a stagione ammonta a qualcosa tipo 73 milioni di euro. Nella spesa totale deve essere rientrato anche il prezzo per la gita a Parigi con annessa intervista a Macron, ma questi sono particolari secondari ai quali siamo abituati. Piuttosto sarebbe interessante scoprire quali saranno le succulenti domande che il conduttore ardirà porgere a le president. Anzi, vista la foto già scattata e il commento apparso su Le Figaro, le domande per la verità sono già state poste e ciò che lascia trapelare il giornale francese ha ben poco di succulento: legami di amicizia tra Francia e Italia, in particolare della relazione personale di Macron con l'Italia e la sua cultura, Europa, migrazione, ambiente e sfide economiche e sociali. E Fazio lo incalzerà? A parte sicuri riferimenti ai gilet gialli e agli immigrati, cose nelle quali il conduttore va sul sicuro permettendo a Macron di sputare ancora sul nostro governo, gli chiederà mai della Libia, del ruolo della Francia nella situazione attuale del Paese devastato dopo l'intervento voluto da Parigi? Gli chiederà conto anche dell'Algeria e del suo presunto appoggio a Bouteflika, e dell'Africa delle ex colonie, del Franco CFA? Difficile, è più facile che Fazio gli dica che anche noi italiani saremmo ben contenti di avere il Franco Fca, e che magari per farci perdonare delle offese si prendano pure la Sardegna. Per scoprirlo ci toccherà attendere trepidanti fino a domani sera. Ma forse sarà meglio rimanere nell' incertezza, spegnere la tv e andare al bar. Carlo Nicolato

Fabio Fazio demolito dal Tg2, senza precedenti in Rai: "Altro che Macron, ecco due vere interviste", scrive il 5 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Rai contro Rai. È quanto accaduto dopo l'intervista o presunta tale di Fabio Fazio ad Emmanuel Macron, trasmessa domenica sera a Che tempo che fa. Intervista senza domande, una sorta di monologo del galletto francese. E così, contro ciò che si è visto su Rai 1, ecco piovere un durissimo e inappuntabile servizio del Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano. Del colloquio Fazio-Marcon se ne è parlato nell'edizione delle 13 di lunedì 4 marzo. Il servizio mette nel mirino il conduttore: "Fazio porge argomenti, Macron sceglie come affrontarli (...). Nessun accenno alle polemiche sui gilet gialli (...). Fazio annuisce, non incalza (...) e a noi tornano in mente le interviste ai capi di Stato, quelle vere. Per sintesi due soli esempi, distinti e distanti, eppure maiuscoli: Oriana Fallaci al cospetto dell'ayatollah Khomeyni; Gianni Minà, sei ore di fila di domande a Fidel Castro", si ricorda nel servizio del Tg2. Già, quelle erano interviste. Quelle vere.

Mario Giordano disintegra Fabio Fazio per l'intervista a Macron: "Un peluche. A forza di dire sì, chissà...", scrive il 5 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Un record di "sì, sì". Ha annuito letteralmente tutto il tempo. Si parla di Fabio Fazio e dell'intervista ad Emmanuel Macron trasmessa a Che tempo che fa. Intervista che è sembrata molto più un monologo del galletto francese. E sul punto, nel corso della sua trasmissione Fuori dal Coro su Rete 4, picchia durissimo Mario Giordano: nel suo mirino ci finisce il conduttore di Rai 1. "Che male al collo per il povero Fazio. È stata un’intervista che mi ha un po’ preoccupato per la tenuta del suo collo, a forza di dire sì. E poi dite che non si rischia a fare il giornalismo serio. Questo esercizio continuo di assenso è pericolosissimo. Sembrava uno di quei peluche che si mettono sulla macchina", ha commentato sferzante, durissimo. Dunque, Giordano ha contato i "sì" in cui si è prodotto Fazio annuendo: "Alcuni amici ne hanno contati oltre mille". Infine, una stoccata contro le domande poste da Fazio a Macron: "Lo ha incalzato, gli ha fatto un’intervista dura. Ci mancava solo che gli regalasse la Sardegna". Touché.

L’unica certezza in Libia è che nessuno sta dicendo la verità, scrive l'8 aprile 2019 Lorenzo Vita su Gli occhi della Guerra. La verità è la prima vittima della guerra: e in Libia il copione non è certo diverso. L’avanzata di Khalifa Haftar verso Tripoli, cui ha reagito l’aviazione del governo riconosciuto e una parte delle milizie contrarie al generale della Cirenaica, ha avuto come reazione quello dello “sconcerto” da parte della comunità internazionale. Condanne da parte di tutti, mosse “improvvise” da parte dei reparti speciali americani, alleati internazionali del maresciallo che si mostrano quasi sgomenti di fronte a un’azione unilaterale e violenta delle forze dell’Esercito nazionale libico. Ma la realtà non può che essere diversa da quella che viene detta da parte dei governi. Gli annunci di sorpresa, le richieste di fermare l’avanzata, la volontà di mostrarsi totalmente favorevoli al dialogo fra le parti e alla transizione voluta dalle Nazioni Unite sono tutti modi per coprire una verità diversa sulla Libia. Perché quella che si sta svolgendo non è un’azione improvvisa di un generale che decide sua sponte di avanzare verso la capitale. È evidentemente il frutto di una concertazione fra lui e i suoi maggiori sponsor internazionali, che, in questi anni, hanno fatto capire di non essere in grado di assumere realmente il comando della guerra in Libia. E Haftar, con le sue forze, è l’unico comandante sul campo in grado di prendere il sopravvento sulle altre fazioni e su un governo riconosciuto ma debole, che non controlla nemmeno la sua capitale. Partendo da questa premessa è chiaro che una prima “non verità” è quella della Francia, che finge di non sapere che quella in corso è un’operazione che senza il via libera di Parigi non sarebbe mai potuta avvenire. Emmanuel Macron aveva chiesto di andare a elezioni a dicembre del 2018 ma era stato fermato dal piano Onu e dalla fragile quanto importante vittoria italiana della (pur velleitaria) conferenza di Palermo. In quell’occasione, Parigi diede un timido e poco entusiasta assenso alla strategia internazionale. Tanto sapeva che Haftar non avrebbe agito soltanto coordinandosi con il Palazzo di Vetro, ma soprattutto con i suoi sponsor: Egitto, Emirati e Francia. E con l’avallo dei sauditi. E in questi giorni sta avvenendo lo stesso. l’Enl non può agire senza che le potenze ad esso collegate lo coadiuvino. Perché quella in Libia non è affatto, o meglio, non è esclusivamente, una guerra civile. È prima di tutto una guerra internazionale, un laboratorio che vede coinvolte tutte le potenze del Mediterraneo allargato e quelle che, pur non facendone parte, ne influenzano i destini. Ci sono gli Stati Uniti, che per anni hanno quasi taciuto la loro presenza fisica sul terreno pur attivandosi con raid chirurgici sulle fazioni dell’Isis presenti sul territorio libico e con operazioni delle forze speciali. C’è la Russia, che ha negato da sempre di essere sul campo, ma che invece ha per molto tempo influenzato la guerra in particolare con la sponsorizzazione del generale Haftar, di cui si ricordano i viaggi a Mosca e i suoi contatti con i funzionari russi per avere il sostegno del Cremlino alle forze della Cirenaica. Ed è impossibile credere, anche in questo caso, che l’intelligence russa e anche quella americana fossero ignare della decisione del Maresciallo di non prendere la decisione di avanzare su Tripoli. Anzi, la “fuga” dei marines dalle coste libiche è un’immagine del tutto superficiale. Africom, il comando Usa per il continente, non poteva non essere consapevole dei rischi. Tanto è vero che anche la nostra intelligence si era allertata per quanto stesse per accadere nel Paese. Ed ecco l’altra verità non detta: la nostra. Che è quella di un Paese che ha raccontato a se stesso di poter fare da solo in Libia. L’Italia sembra sorpresa da quanto avvenuto a sud di Tripoli. Ma la realtà è che siamo di fronte a un caos in parte ottenuto anche grazie ai nostri errori errori strategici. L’Italia mente a se stessa pensando di avere il controllo della situazione: non lo ha più. Lo avrebbe avuto, ma ha preferito puntare su una stranissima politica del doppio forno che di fatto aveva senso solo nell’equilibrio delle forze in campo: ma adesso, con Haftar alle porte di Tripoli, è del tutto evidente che abbiamo sbagliato strategia. E l’abbandono da parte degli Stati Uniti di Donald Trump è un segnale chiarissimo: quella cabina di regia sul Mediterraneo allargato rischia di essere naufragata.

·         Italia, colonia Franco-Tedesca.

Italia, colonia di Francia. Oltre all'accordo Fca-Puegeto ci sono molte aziende nelle mani dei cugini transalpini. Fusioni, unioni tutte a loro vantaggio. Francesco Bonazzi il 28 novembre 2019 su Panorama. Piero Fassino è uno che la sa lunga. Oltre ad aver sfidato dieci anni fa Beppe Grillo «a farsi un partito», nel maggio del 2015, da sindaco Pd di Torino, minacciò così Chiara Appendino, che gli dava il tormento dai banchi dell’opposizione: «Un giorno lei si segga su questa sedia e vediamo se poi sarà capace di fare tutto quello che oggi ha auspicato di poter fare». Neppure 13 mesi dopo, la 31enne grillina lo staccò di otto punti al ballottaggio. Ma niente, l’ex allievo dei Gesuiti dell’Istituto sociale di Torino ha una fede incrollabile nelle proprie capacità divinatorie e allora il 31 ottobre scorso ha impartito la sua fondamentale benedizione alla fusione Psa-Fca. Una specie di profezia rossa che fa tremare i polsi a 29 mila dipendenti italiani della casa automobilistica anglo-olandese, visto che le chiavi della ditta le avrà in mano Carlos Tavares, attuale amministratore delegato del colosso francese e noto tagliatore di teste. Ebbene, per Fassino «con l’accordo Fca-Peugeot nasce un altro player globale che dimensionandosi a una scala più grande avrà così maggiori possibilità di ampliare la capacità produttiva e di garantire livelli di occupazione e continuità dei siti produttivi». Non solo non è riuscito a scrivere la parola «operai», ma anche «stabilimenti» gli è sembrata troppo diretta. Il problema è che Peugeot ha lo Stato francese nel suo azionariato, con una quota del 12,7 per cento, ed Emmanuel Macron ha già ottenuto la garanzia che gli stabilimenti transalpini non verranno toccati. Del resto, i francesi sanno farsi rispettare, su queste faccende. Macron è liberista ed europeista a giorni alterni e se in patria difende sempre i posti di lavoro del suo elettorato dai datori di lavoro stranieri, i gruppi transalpini, quando scendono in Italia a fare affari e a rilevare marchi prestigiosi, spesso dopo un po’ di tempo calano la scure sugli organici e mandano a casa i dipendenti persino quando la filiale italiana ha l’unico torto di produrre utili. Così, da un lato si è costretti a vedere i franco-indiani rilevare l’Ilva di Taranto solo per chiuderla e non farla conquistare ai concorrenti di Jindal, dall’altro la stessa ArcelorMittal, in Francia, fu bloccata da François Hollande con una legge ad hoc quando stava per licenziare operai francesi. E sempre Macron, appena eletto, due anni fa fermò l’acquisizione dei cantieri di Saint-Nazaire al tribunale fallimentare da parte di Fincantieri, nazionalizzando Stx dopo che l’avevano prima mollata a dei coreani (più affidabili dello Stato italiano?) e ottenendo anche una moratoria di otto anni su stabilimenti e numero di addetti in Francia. Si può discettare più o meno a lungo su un possibile colonialismo di Parigi, ma alla fine tocca ammettere che ci sono politici che fanno gli interessi nazionali e politici che, quando va bene, fanno le anime belle della globalizzazione.

L’ultimo caso, piccolo ma assai emblematico, è quello che riguarda Europcar. L’azienda francese è uno dei leader mondiali dell’autonoleggio, con un miliardo di fatturato e 129 milioni di utile nel 2018. La controllata italiana ha diffuso dati entusiasmanti fino a pochi mesi fa, ma ai primi di novembre ha annunciato la volontà di lasciare a casa 70 dipendenti, quasi tutti a Roma. Sindacati allibiti e amarissima constatazione della Fit-Cisl del Lazio: «Non è pensabile che un’azienda che va bene e che ha risultati economici straordinari decida di licenziare persone. Il mondo del noleggio è questo: la testa resta all’estero e in Italia si fanno gli utili». In effetti, gli ultimi tre bilanci registrano oltre 65 milioni di utili complessivi su una media di 250 milioni di fatturato annuo. Il problema è che non è solo il mondo dell’autonoleggio che funziona così. Ancora una volta, per delineare la mappa della situazione bisogna ringraziare il profeta Piero da Torino, la cui sofferta magrezza deve avere un misterioso collegamento con la pesantezza delle visioni che si porta dentro. Sempre nel comunicato stampa in gloria della fusione Psa-Fca, l’ex segretario del Pd ci ricorda: «Nasce un altro grande player italo-francese, come Luxottica-Essilor, Fincantieri-NavalGroup, Lactalis-Parmalat, Bnl-Bnp e le molte integrazioni nel settore della moda, confermando così la complementarietà dei sistemi produttivi di Italia e Francia». L’agenzia Ansa di quel giorno si chiude così: «Lo ha dichiarato Piero Fassino, presidente dell’associazione parlamentare di amicizia Italia-Francia». E insignito da Parigi della Legion d’Onore, la massima onorificenza francese, al pari di tutto il piano nobile del centrosinistra italiano, ovvero Massimo D’Alema, Franco Bassanini, Dario Franceschini, Enrico Letta, Sandro Gozi, Giovanna Melandri, Walter Veltroni, Roberta Pinotti, Romano Prodi e Beppe Sala. A occhio, nel mazzo ci sono almeno quattro «quirinabili» (D’Alema, Prodi, Veltroni e Franceschini) e tre possibili premier (Sala, Letta e lo stesso Franceschini).

Ora, sulla fusione Essilor-Luxottica, dalla quale è nato il colosso mondiale degli occhiali e del lusso, c’è poco da dire, a parte che nel primo anno di vita è stato squassato da una lite furibonda sulla governance, alla quale non era estraneo lo sciovinismo francese e il peso dell’associazione dei soci-dipendenti, sempre francesi. Ma la faccenda è stata risolta con un arbitrato a Parigi e una sostanziale vittoria di Leonardo Del Vecchio. In Francia, l’anno scorso, se n’è parlato parecchio. In Italia, come sempre in questi casi, nessun politico ha osato «disturbare il manovratore». Il «salvataggio» di Parmalat da parte di Lactalis, invece, è una storia ben diversa. Nel 2011, il colosso francese scalò in Borsa l’ex gruppo della famiglia Tanzi (travolta nel 2003 da un crac finanziario di dimensioni epocali, con un buco da 14 miliardi di euro e 150 mila investitori coinvolti) e nel giro di poco tempo chiuse subito tre stabilimenti in Lombardia, ridimensionandone altri. Sul fronte occupazionale, oggi i dipendenti in Italia sono ancora 2 mila (erano 2.042 al 31 dicembre 2011), nonostante una ristrutturazione poderosa. Ma i 35 esuberi annunciati in estate sono un piccolo campanello d’allarme. Il fatto è che Lactalis a giugno ha rilevato anche la Nuova Castelli (500 milioni di fatturato), entrando di prepotenza nel mercato del parmigiano reggiano, e non poteva certo dichiarare decine di licenziamenti in Parmalat. Rischio di delocalizzazione e produzione del parmigiano in Francia, magari per somministrargli l’eutanasia? Onestamente no, perché il disciplinare del formaggio italiano più famoso nel mondo richiede latte italiano e zone di produzione ben precise. Ma il problema è ancora più grave: Lactalis compra ormai oltre un terzo del nostro latte e le organizzazioni agricole italiane denunciano da tempo che terrebbe il prezzo troppo basso, strangolando gli allevatori. Il gruppo francese ribatte che paga il latte un centesimo al litro più che da altre parti e ogni tanto minaccia di rivolgersi altrove, ma è chiarissimo chi comanda. Non solo. A gennaio Parmalat è stata «delistata» da Piazza Affari, come del resto si ipotizzava da almeno sei anni, il che ovviamente aumenta la libertà di manovra e la riservatezza di Lactalis.

Al di là del tema occupazionale, quando i governi ulivisti di fine anni Novanta spalancarono il mercato della grande distribuzione ai francesi (la prima Tangentopoli torinese, nel 1989, fu proprio sullo sbarco dei francesi con un ipermercato chiamato «Le Gru») non tennero in considerazione gli effetti devastanti che avrebbe avuto nel medio e lungo periodo sull’agroindustria italiana, con contadini spesso costretti a lavorare sottocosto o a mandare al macero interi raccolti. E ora che la pacchia è finita, con la domanda interna ferma da una decina di anni e nonostante i consumi alimentari siano anticiclici per definizione, arriva anche il conto degli esuberi. Carrefour ha annunciato 590 posti di lavoro da cancellare nel triennio nei suoi 1.076 punti vendita italiani, su un totale di «18 mila collaboratori», come li ha chiamati gentilmente all’apertura della vertenza sindacale. E se qui va detto che l’azienda ha per ora promesso di volerli gestire «su base volontaria», non così accade dal concorrente Auchan, che ha deciso di dire addio all’Italia e a metà maggio si è fuso con Conad, dando vita a un gruppo da 17 miliardi di fatturato che ora insidia il primato delle Coop. Auchan aveva 20 mila dipendenti e 1.600 punti vendita, e all’atto della «grande alleanza», ovviamente, i protagonisti hanno parlato di «continuità aziendale». Nell’acquisizione, Conad si è fatta assistere da Raffaele Mincione, l’acrobatico finanziere balzato recentemente all’onore delle cronache per la tentata scalata a Carige e coinvolto nell’ultimo scandalo immobiliare del Vaticano a Londra, ma il 30 ottobre ha scritto al ministero dello Sviluppo economico chiedendo aiuto. «La situazione dei supermercati Auchan in Italia versa in grave crisi e può essere risolta solo con interventi organizzativi e di business a carattere straordinario, efficaci e tempestivi», si legge nel documento. Gli italiani hanno scoperto che gli 800 milioni persi da Auchan Italia in tre anni, nel solo 2019 diventeranno «1,1 milioni al giorno». (A)morale della solita bella favola dell’«alleanza» italo-francese, adesso ci sono sul tavolo 3.105 esuberi e, quantomeno, una caterva di cassa integrazione straordinaria. Ma il conto non arriverà a Parigi.

Meno nota, ma non meno interessante, la Campagna d’Italia di Teleperformance. Sul sito della sua controllata, che ha sedi a Roma e Taranto, si definisce «leader mondiale nell’offerta di servizi di contact center, presente in 65 Paesi nel mondo attraverso 311 contact center e con oltre di 190 mila risorse». A febbraio ha dichiarato 300 esuberi su 3 mila «risorse», ma dopo due mesi di trattative con i sindacati (che non capivano le motivazioni economiche) li ha ritirati e ha firmato un accordo al Mise. Teleperfomance ha portato a casa (dai contribuenti italiani): 12 mesi di cassa integrazione a rotazione fino al primo maggio 2020 per 953 dipendenti. Forse anche per questo, la nostra Autorità garante per la Concorrenza e il Mercato, il 18 settembre scorso, «ha attribuito a Teleperformance Italia il rating di legalità con il punteggio "✩✩+”, certificando l’integrità etica e il rispetto di elevati standard di legalità, trasparenza e responsabilità sociale nella gestione aziendale» (nota dell’azienda). Scarsa «responsabilità sociale», invece, è stata dimostrata da Psa, proprio nei giorni in cui si preparava la fusione con Fca. La controllata Opel ha comunicato a sorpresa di voler licenziare 62 lavoratori dello stabilimento di Fiumicino dal quale, fin dal 1969, vengono spediti i ricambi auto a tutte le concessionarie d’Italia. Con tutti i numeri positivi strombazzati nelle stesse ore da Tavares e John Elkann sui giornali italiani, questi 62 licenziamenti stridono un po’. Ma il giro di vite occupazionale «made in France» va in scena un po’ ovunque, dalla Engie di Bari (15 esuberi su 100 dipendenti) alla Pernod Ricard. Il fatto è che mentre gli europeisti di casa nostra si trastullano con le commemorazioni di Ventotene, nelle fabbriche e nelle reti commerciali va in scena un film ben diverso e per certi versi spietato. L’Italia, colpevolizzata per il suo debito pubblico da capogiro, è pur sempre un ricco mercato da 60 milioni di consumatori e ha una ricchezza notoriamente ben superiore a quella dichiarata. Inoltre ha tanti bei marchi e nessuna politica industriale. E i posti di lavoro che non si possono tagliare in Francia, grazie alla nuova legislazione sul lavoro si possono benissimo sopprimere in Italia. Per la gloire di Monsieur Macron, al tempo stesso europeista, liberista, statalista, protezionista, globalista e nazionalista. Nel tempo lasciatogli libero dal criticare Donald Trump e i suoi dazi.

Gli uomini di Merkel e Macron nel Mes. It.insideover.com il 24 novembre 2019. Da Bruxelles dicono che il Mes, cioè il Meccanismo europeo di stabilità, meglio noto come Fondo salva-Stati, sia uno strumento potenzialmente utile per tutti i Paesi d’Europa, oltre che rappresentativo delle esigenze dei singoli governi. Eppure, se diamo un’occhiata al Management Board dello stesso Mes, notiamo otto personaggi attivi nel mondo dell’economia e della finanza, tutti rigorosamente non italiani. Già, perché il ruolo di Managing Director è ricoperto da un tedesco, Klaus Regling, lo stesso che viene anche soprannominato “il re d’Europa”. Proseguiamo e leggiamo gli altri nomi, un misto tra francesi e tedeschi: David Eatough è General Counsel, Rolf Strauch è lo Chief Economist, Christophe Franklen è il Deputy Managinh e Director and Chief Risk Office, Kalin Anev Janse è lo Chief Finanzial Officer. I rimanenti posti, due, cioè quello di Chief Operating Officer e Chief Corporate Officer, sono affidati rispettivamente a Sofie de Beule-Roloff e Francoise Blondeel.

Un Management Board a trazione franco-tedesca. Una domanda, dunque, sorge spontanea: indipendentemente dai costi, com’è possibile che il Mes possa fare gli interessi di tutta l’Europa, Italia compresa, se il suo Consiglio di amministrazione straripa di personaggi solo tedeschi o francesi? Certo, guai a pensar male, anche se Parigi e Berlino stanno attraversando serie turbolenze e le loro banche avrebbero bisogno di un bel po’ di sostegno. E i membri del Management Board, guarda caso, provengono per lo più da Francia e Germania. Sarà sicuramente un caso, ma di profili italiani neanche l’ombra. Figurarsi se Roma, secondo una buona fetta dell’opinione pubblica globale, merita di sedersi al tavolo dei grandi. Tuttalpiù il governo italiano può essere interpellato quando Bruxelles ha bisogno di un appoggio, ma niente di cui strapparsi i capelli. Il profilo più importante del Mes è Klaus Regling, classe 1950 e nato a Lubecca, in Germania. Agisce da dietro le quinte, e le informazioni sul suo conto scarseggiano e perfino su internet è complicato trovare notizie. Secondo Politico, Regling è “affidabile e riservato”, e nei modi assomiglierebbe molto più a Draghi che non ai fautori dell’austerity.

Calendario e retroscena. Il Fondo salva-Stati finirà al vaglio della riunione dell’Eurogruppo di Bruxelles il prossimo 4 dicembre, quindi, una settimana più tardi, passerà al Consiglio europeo che dovrà solo ratificare. Il fondo in sé nasce nel 2010, all’indomani della crisi dei debiti sovrani in Europa; due anni più tardi. Il pomo della discordia sul Mes nasce dal fatto che il 14 giugno l’Eurogruppo ha concordato una bozza di riforma, e l’Italia, per mano di Giuseppe Conte, avrebbe avallato la modifica senza dire niente al Parlamento. La Lega si è subito scagliata contro l’esecutivo giallorosso e anche Luigi Di Maio ha iniziato a riservare qualche dubbio su uno strumento costoso quanto inutile e dannoso per il nostro Paese. Intanto perché l’Italia presta e ha prestato al Mes (o chi per lui) poco meno di 15 miliardi di euro. Poi perché quei governi che dovessero mai accettare la ciambella del fondo, rischiano di finire stritolati dall’obbligatoria ristrutturazione preventiva del proprio debito pubblico, laddove questo non fosse considerato sostenibile. Per tornare al Management Board a trazione franco-tedesca, la riforma in cantiere sembra configurarsi più come un regalo alle banche francesi e tedesche in grande difficoltà che non un assist all’intera Ue.

Marco Bresolin per “la Stampa” il 28 novembre 2019. Lo strapotere tedesco che avanza senza alcun imbarazzo. Quello francese più discreto, ma mirato. E l'Italia che cerca, a fatica, di difendere le posizioni guadagnate in questi anni. Per capire gli equilibri nella nuova Commissione europea non basta guardare ai portafogli assegnati ai commissari. Bisogna andare più a fondo, negli ingranaggi della macchina. Dove i governi stanno cercando di piazzare i loro migliori funzionari per meglio «controllare» i dossier. La partita si gioca anche lì. È un negoziato diplomatico intenso che, a soli tre giorni dall' entrata in carica della Commissione, non si è ancora concluso. Sulle ultime tessere del mosaico è in corso una vera e propria lotta di potere tra le Capitali. A volte anche all' interno delle stesse: è il caso del governo italiano, con i Cinque Stelle che lamentano di «non esser stati minimamente presi in considerazione» nella spartizione. «Anche gente fuori dalla storia come Tajani ha avuto più voce in capitolo di noi» si sfoga il grillino Ignazio Corrao, che ieri ha votato contro von der Leyen in dissenso con il gruppo. La versione dell' altra campana dice che il problema è legato al capitale umano. «Se devi proporre un tuo candidato per un gabinetto - racconta una fonte - questo deve essere altamente qualificato. E le risorse del M5S in Europa scarseggiano». I capi di gabinetto dei singoli commissari hanno un ruolo centrale nella gestione del potere e la loro nazionalità è un indice degli equilibri. Sono tedeschi ben cinque capi di gabinetto (su 27), tra cui quello della presidente (tedesca pure lei), quello di Valdis Dombrovskis e quello di Thierry Breton. A sorpresa, non c' è alcun francese ai vertici dei gabinetti. Ma Parigi punta più in alto: dopo aver ottenuto il capo-portavoce (Eric Mamer), ora vuole il segretario generale (in pole c'è Jean-Eric Paquet). Ossia la figura che guida l'intera macchina. E l'Italia? Il «bottino» è leggermente più magro rispetto alla Commissione uscente, anche perché il recente cambio di governo non ha aiutato le trattative. Saranno italiani due capi di gabinetto e tre vice. Il team di Paolo Gentiloni sarà guidato da Marco Buti, attuale direttore generale agli Affari Economici. Mentre Stefano Grassi (che guidava il gabinetto di Federica Mogherini) sarà a capo dell'ufficio della commissaria estone Kadri Simson (Energia). Elisabetta Siracusa è stata confermata vice dell' irlandese Phil Hogan (Commercio), mentre altre due vice arrivano dal Parlamento europeo: Santina Bertulessi (dal gruppo dei socialisti) lavorerà con Nicolas Schmit (Lavoro), Chiara Salvelli (storica collaboratrice di Antonio Tajani) con la bulgara Maryia Gabriel (Cultura e Innovazione). Nel gabinetto di Gentiloni, oltre a Buti, ci saranno altri tre italiani, tra cui l'ex consigliere per gli Affari Ue dell' ex premier, Marco Piantini. La nomina di Buti fa però perdere all'Italia la direzione generale degli Affari economici. Il direttore generale è un altro ruolo di grande potere e l'Italia ora ne ha solo due: Roberto Viola alla dg Connect e Mauro Petriccione alla dg Clima. Ci sarà almeno un italiano in ognuno dei gabinetti dei tre vice-presidenti esecutivi Dombrovskis (Euro), Timmermans (Green Deal) e Vestager (Digitale e Concorrenza), ma anche in quelli dello spagnolo Josep Borrell (Alto Rappresentante), del belga Reynders (Giustizia), della croata Dubravka Suica (Demografia), e dell'ungherese Oliver Varhelyi (Allargamento). Non è ancora certa la presenza italiana nei gabinetti di Thierry Breton e soprattutto di Ursula von der Leyen. Il che non sarebbe affatto positivo. Il governo ha deciso di puntare su candidati con un background economico, rimanendo però all' asciutto sui dossier legati all' immigrazione.

·         La grande globalizzazione? Cose già viste.

La grande globalizzazione? Roba da Medioevo (islamico). Una serie di saggi ci mostra come alcuni dei fenomeni che ci preoccupano oggi siano in realtà molto antichi. Matteo Sacchi, Venerdì 29/11/2019, su Il Giornale. Il presente è spesso una lente deformante. A esempio se parliamo dell'oggi la parola che più sembra descriverlo è globalizzazione. Un fenomeno politico, ma soprattutto sociale ed economico che sembra esserci piombato all'improvviso sulla testa. Ma è davvero così? Noi siamo di fronte, certo, a una accelerazione impressionante, però di globalizzazioni ce ne sono state tante. E la nostra è figlia della prima grande globalizzazione medievale. Qualche esempio.

Prendiamolo dal libro appena uscito dello storico Paolo Grillo, L'Europa e la globalizzazione medievale (Mondadori, pagg. 281, euro 22). I vichinghi avevano sicuramente raggiunto le coste del Nord America, abbiamo trovato i loro insediamenti. La loro era un'espansione portata avanti per dare la caccia alle zanne di tricheco, all'epoca principale fonte d'avorio per l'Europa e non solo. Insomma un villaggio vichingo costruito a Terranova o in Groenlandia, esisteva perché poteva far finire avorio sino a Costantinopoli. Poi trac. Tra il XII e il XIII secolo qualcosa cambiò di colpo. Tra il fiume Zambesi e il Lipompo nacque il regno di Mapungubwe. Fece dell'esportazione di zanne di elefanti un business. I mercanti arabi si misero a fare felicemente da tramite. Da loro, la merce passò in mano ai genovesi che avevano appena messo a punto come le altre città marinare italiane, la galea grossa, adattissima a portare le grosse zanne in ogni dove. Risultato? Il crollo economico degli insediamenti vichinghi in Groenlandia e di conseguenza dei loro avamposti per la pesca al tricheco in America. Quindi quando qualcuno pensa di fermare gli effetti economici della globalizzazione è meglio che torni indietro di qualche secolo... Senza contare che un primo fondamentale passaggio globalizzante, un vero ponte tra oriente e occidente, era stato portato avanti, a fil di spada dagli arabi. Per accorgersene vengono utili due altri volumi di storia appena pubblicati: Le grandi conquiste arabe (Iduna) di John Bagot Glubb (1897-1986) e Il mondo islamico. Una storia per oggetti (Einaudi).

Il primo scritto da quello che è passato alla storia come Glubb pascià, ovvero il generale britannico che comandò la legione transgiordana tra il 1939 e il 1956, mette bene l'accento su quanto l'espansione araba sia stata un fenomeno velocissimo, capace di unire un mondo prima spezzato in due tra Impero bizantino e Impero persiano tra il 622 e il 750 dopo Cristo. Gli arabi sulla spinta di una missione religiosa crearono un enorme ponte tra Oriente e Occidente. Un ponte globalizzante e ben poco arabo come scriveva Glubb già nel 1963: «Le prime e più drammatiche conquiste furono effettuate unicamente da arabi appartenenti a tribù nomadi. Poi poco alla volta, l'impero si sbarazzò di loro. Alcuni, stabilitisi nei territori conquistati, si erano sposati con razze diverse, amalgamandosi e disperdendosi; altri, rimasti nomadi nell'Arabia centrale, avevano finito per restare tagliati fuori dai centri di attività di quell'impero da loro stessi creato». Tanto che la storia delle conquiste arabe non è stata scritta da arabi. Nasceva così un mondo islamico che per secoli fu tutt'altro che integralista o univoco e in cui i globalizzatori armati erano stati la prima vittima culturale della globalizzazione.

E per rendersi conto della portata di questo fenomeno, niente di meglio che esaminare l'enorme quantitativo di cultura materiale generata dal mondo islamico ed è in questo che risulta utilissima la succitata Storia per oggetti. Dalla lavorazione dei metalli alle mattonelle ikhanidi decorate a lustro agli scacchi: i territori (e i mercanti) islamici si trasformarono in una centrale di produzione e di smistamento di beni di ogni tipo. Molti dei quali oggi farebbero rizzare i peli della barba ai seguaci di un moderno radicalismo islamico d'accatto che i grandi poeti sufi, come il molto scettico al-Ghazali, avrebbero preso a pernacchie.

Vi sembra tutto già abbastanza globale? Beh se leggete le pagine dedicata da Paolo Gillo all'espansione mongola vi risulterà evidente come Gengis Khan e i suoi eredi abbiano portato al culmine congiungendo tutta l'Asia quella globalizzazione. E fu un tremendo choc. Basta leggere i resoconti d'epoca di Maestro Ruggero e intitolati Carmen miserabile o Storia dei Mongoli di frate Giovanni da Pian del Carmine. Si era aperta quella porta globale che seppero sfruttare mercanti come Marco Polo. Questa globalizzazione ante litteram si chiuse poi a metà del XIV secolo a causa di una serie di crisi e guerre. E ci volle un bel po' per riaprirla. Ed è anche questa una lezione della storia che dovremmo ricordare.

·         L’Ordine Liberale.

Così è crollato l’ordine liberale. Roberto Vivaldelli il 20 dicembre 2019 su Insideover. Egemonia liberale, addio: bentornato realismo. John J. Mearsheimer, uno dei più importanti e influenti studiosi di relazioni internazionali al mondo e distinto professore di Scienze Politiche presso l’Università di Chicago, è uno dei più celebri esponenti della scuola del realismo politico contemporaneo, che ha radici e tradizione in Machiavelli, Hobbes, fino a capisaldi del Novecento come Edward Hallett Carr, Hans Morgenthau, Kenneth N. Waltz. Autore del celebre saggio The Tragedy of Great Power Politics del 2001 (La tragedia delle grandi potenze, Luiss, 2019), ormai un classico della saggistica sulle relazioni internazionali, lo scorso anno Mearhseimer ha pubblicato un nuovo capolavoro intitolato The Great Delusion. Liberal Dreams and International Realities (Yale Press University) la cui pubblicazione ha generato un grande dibattito negli Stati Uniti, tant’è il Financial Times lo ha inserito tra le più importanti opere del 2018. Il saggio è stato da poco tradotto e pubblicato in Italia dalla Luiss con il titolo La grande illusione. Perché la democrazia liberale non può cambiare il mondo nel quale il celebre politologo spiega come, alla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti si siano affacciati sul mondo con la possibilità di esercitare un potere e un’influenza senza precedenti. Con la sconfitta dell’Unione Sovietica e la fine dell’era bipolare, infatti, i politici americani hanno cominciato a sognare di modellare il globo a immagine e somiglianza dell’unica superpotenza rimasta. Come ha ricordato successivamente il consigliere per la sicurezza nazionale di George H. Bush, Brent Scowcroft, in un libro pubblicato nel 1999 e intitolato A World Transformed, gli Stati Uniti si erano trovati “in piedi da soli al culmine del potere”. Con i sovietici fuori gioco, gli Stati Uniti e i rispettivi leader avevano “la rara opportunità di plasmare il mondo e la profonda responsabilità di farlo saggiamente a beneficio non solo degli Stati Uniti ma di tutte le nazioni”.

I fallimenti dell’egemonia liberale. Nel suo ultimo lavoro, Mearsheimer spiega che “l’egemonia liberale è una strategia ambiziosa per mezzo della quale uno Stato mira a trasformare il maggior numero possibile di Paesi in democrazie liberali ricalcate sul proprio modello, promuovendo nel contempo un’economia internazionale aperta e costruendo istituzioni internazionali”. In buona sostanza, afferma il professore, “lo Stato liberale cerca di diffondere universalmente i propri valori”. Il liberalismo, infatti, “enfatizza il concetto di diritti inalienabili o naturali” e i “veri liberali si preoccupano profondamente per i diritti di praticamente tutti gli individui che vivono sulla Terra”. Questa logica universalista, tuttavia, e di esportazione di diritti umani e di democrazia, è destinata inevitabilmente a fallire. “L’egemonia liberale – spiega Mearsheimer – non raggiungerà i suoi obiettivi, e il suo fallimento comporterà inevitabilmente costi enormi. Lo Stato liberale finirà probabilmente per combattere infinite guerre, che innalzeranno anziché ridurre il livello di conflitto sullo scacchiere internazionale e quindi aggraveranno i problemi della proliferazione nucleare e del terrorismo”. Inoltre, sottolinea il politologo, “il comportamento militaristico dello Stato finirà quasi certamente per minacciarne i valori liberali” perché il liberalismo all’estero conduce all’illiberalismo in patria”. È esattamente ciò che è successo agli Stati Uniti con le tanto dibattute Forever Wars (Afghanistan, Iraq, Libia, ecc.) e con le fallimentari esportazioni di democrazia contro cui Donald Trump si è scagliato nel corso della campagna elettorale del 2016 e a cui vorrebbe porre fine.

Il nazionalismo è destinato a prevalere. La chiave per capire i limiti del liberalismo, sottolinea John J. Mearsheimer, “è studiarne la relazione con il nazionalismo e con il realismo” ed è esattamente ciò che fa La grande illusione. “Il nazionalismo è un’ideologia politica potentissima – osserva -. Si impernia sulla divisione del mondo in un’ampia varietà di nazioni, che sono unità sociali formidabili” ognuna delle quali “ha una sua cultura specifica. Praticamente tutte le nazioni preferirebbero avere il proprio Stato, anche se non tutte sono in grado di averlo”. Anche gli Stati liberali, afferma, “sono Stati nazionali. È fuor di dubbio che liberalismo e nazionalismo possano coesistere, ma quando si scontrano, vince quasi sempre il nazionalismo”. Anche se i progressisti, assecondando la loro visione postmodernista, tentano in tutti i modi di delegittimare il nazionalismo con argomentazioni superficiali (intendendolo meramente come uno sciovinismo esclusivo e razzista), come ricorda Mearsheimer sfatando un un tabù caro a molti analisti il nazionalismo “ha avuto il suo più grande impatto sulla sovranità al di fuori dell’Europa”, dove “ha contribuito a facilitare la decolonizzazione nel ventesimo secolo, concentrando grande attenzione sui principi di autodeterminazione e non intervento. In effetti, ha aiutato a delegittimare gli imperi. Non sorprende che i Paesi che una volta erano vittime dell’imperialismo europeo oggi sostengano il concetto di sovranità”.

“Ecco la verità sul liberalismo”. Intervistato da InsideOver all’indomani dell’uscita di The Great Delusion negli Stati Uniti, Mearsheimer ci spiegava che “la democrazia liberale è il miglior tipo di sistema politico nel mondo e che sono molto grato di essere nato e cresciuto negli Stati Uniti. Tuttavia, penso che il liberalismo come sistema politico e il liberalismo come politica estera, siano due cose diverse. Una politica estera come l’egemonia liberale è destinata a fallire perché invariabilmente si scontra con il nazionalismo e il realismo, che sono forze molto più potenti del liberalismo. Ad esempio, il nazionalismo è un’ideologia che privilegia i concetti di autodeterminazione e sovranità. Gli Stati-nazione (e viviamo in un mondo pieno di Stati-nazione) non amano l’idea che altri Paesi interferiscano nelle loro politiche interne. Basta pensare a quanto gli americani si arrabbino quando sentono dire che la Russia ha interferito nelle elezioni presidenziali del 2016”. L’egemonia liberale, sottolineava il politologo nella nostra intervista esclusiva, “richiede che gli Stati Uniti interferiscano nelle politiche dei Paesi di tutto il pianeta. Chiede agli Stati Uniti di fare ingegneria sociale su larga scala, invadendo e conquistando Paesi, se necessario. Questa politica con ogni probabilità rischia di generare risentimento e resistenza che alla fine la indeboliranno. E per ragioni realistiche, la Russia resisterà all’espansione della Nato. Potrei aggiungere che l’egemonia liberale fa male alla democrazia liberale sul fronte interno. Nello specifico, questa politica altamente ambiziosa porta a guerre interminabili e alla costruzione di uno Stato di sicurezza nazionale sempre più potente, che sicuramente minerà le libertà civili all’interno degli Stati Uniti”.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Fatta l’Italia si sarebbero dovuti fare gli italiani.

Quel familismo che ingoia il Meridione. Gioacchino Criaco 24 Novembre 2019 su Il Riformista. Tutti imbrigliati in una miriade di legacci, nodi che si riproducono per partenogenesi. Il Sud è una palude in cui ogni sentiero muore dentro un tranello di sabbia mobile. Rapporti parentali, familiari, amicali, di società e di clan: chi è fuori dal reticolo di interessi è come le foglie di Ungaretti. Nemmeno Banfield ha capito fi no in fondo i rivoli del familismo amorale che lui stesso ha teorizzato. L’interesse è la fossa che s’ingoia il Meridione, e gli interessi ci stanno dappertutto nel mondo, immanenti nell’uomo. Solo che in altri luoghi gli interessi si allargano più facilmente, escono dal cerchio familiare, del clan, vanno con più facilità a coincidere col vantaggio per una comunità più vasta. Fra i Sudici l’interesse non esce di casa, nutre e si nutre di mura domestiche: ogni cosa ha un padrone ridotto, un numero definito di persone, l’interesse pubblico è inesistente come concetto e le volte che nel bisogno ha coinvolto nuclei estesi è stato subito strangolato da potentati minimi. Il problema meridionale continua a essere l’osso, chi lo afferra lo tiene per sé, lo considera proprio di diritto, rispetto a esso tutti sono nemici, ostacoli da distruggere. Oggi il pantano è dominato da due tipi di familismo, uno criminale e l’altro immorale. Nel familismo immorale si perseguono interessi di progresso economico, sociale, culturale, perfettamente legittimi ma relativi al bisogno del clan e ogni volta che un singolo è tentato all’agire per fini collettivi, il gruppo interviene per dissuaderlo, quindi c’è la coscienza del giusto e dell’ingiusto. Nel familismo criminale ci si appropria di ciò che appartiene a tutti e lo si detiene a qualunque costo, nemmeno si è coscienti del furto. Il familismo criminale più pericoloso è quello politico, veri e propri clan si sono insediati dentro i partiti che rappresentano l’alibi e il mezzo per gli espropri. Per questo il Sud non può uscire dal pantano, i clan sono a cavallo di ogni onda, da qualunque parte provenga, cavalcano vittorie e sconfitte che sono anch’esse vittorie in un gioco di sponda: un flipper in cui la biglia non può andare in buca. Il voto non cambia le cose al Sud, non le può cambiare se i protagonisti sono sempre gli stessi. Le foglie cadono e alberi, rami e ramoscelli restano.

Le madri del sud. Gioacchino Criaco 7 Novembre 2019 su Il Riformista. A Settentrione si sta avanti, fra bagliori e rombi Milano apre la pancia e Torino allarga le mani a pensiline fin sulla porta degli autobus, Bologna dilatata i suoi archi e sparpaglia la segatura sotto i portici: il Po ha servito al cielo l’acqua delle Alpi, che ora porta il conto. A Meridione Igliu addormenta Fengari, Apollo mette in fuga Ecate, le ombre guadagnano i rifugi sui monti e il giorno debutta con un’estate perenne che si spalanca su un mondo muto. Il Nord è un formicaio che si prepara da giugno all’inverno. Il Sud è un concerto d’insonni: non ha senso ammassare ristori, c’è un vuoto d’uomini a godere del mare tiepido, del profumo immortale del gelsomino. Da Bari a Enna la vita presunta si addensa al capolinea di corriere antiche, i ragazzi sono andati da tempo e ora è il tempo delle madri: Madonne saltano dalle nicchie dell’Addolorata, si stringono la testa con fazzoletti colorati, mosci sul vuoto di capelli, guardano camicette flosce su un lato scolmato del petto: vanno per ospedali Nordici a ritrovare speranza e vogliono crederci nella salute per Legge, pensano ai figli sparsi e si dicono che davvero questo Paese sia fondato sul lavoro, con l’inganno che esso starà sempre troppo lontano dalle loro case. Se cercate una pietà persa, montate su quei pullman lugubri che portano a Siano, a Carinola, a Tolmezzo, a Novara, nel freddo eterno de L’Aquila, sedetevi vicino alle madri in viaggio per carceri, accanto ai sacchi del cambio d’abito stagionale, preparati con cura per figli che stanno al buio, e sono uno sputo in faccia alla luce Costituzionale. Ha qualcosa di eroico e di comico il Meridione estivo nell’autunno che dovrebbe essere inoltrato: si oppone al freddo ma non ha a chi offrirlo il suo caldo in più. Il Sud è un luogo che fa tenerezza se rapportato al suo passato, che commuove messo in faccia al presente. Un paese che fa rabbia per la sua pazienza che somiglia alla viltà. Che resiste solo per una Costituzione scritta nel ventre infaticabile delle proprie madri. Quelle donne che hanno tenuto casa: con i mariti lontani, i figli scappati e i figli perduti, che dopo ogni nero hanno riacceso i colori, che memori di guerre antiche mantengono nelle imprecazioni, “Turchi ah cani”. Loro tengono il punto di una coperta che tutti provano a sfilacciare, e resistono a una deriva morale che altrimenti sarebbe definitiva.

L'editoriale. Quel Sud che sembra l’Oriente d’Italia. Gioacchino Criaco l'1 Dicembre 2019 su Il Riformista. C’è più sentimento nelle cartacce arrotolate dal vento in una polverosa strada deserta che nel freddo sudore di una piazza Duomo travolta da una folla elettrizzata dagli sconti dei negozi. Il black friday scuote il portafoglio senza lambire il cuore, lontano dal centro nascono storie che narrano di montagne lontane, si forma l’eco di resistenze eroiche in posti sperduti. Più si costringe la gente ad abbandonare i paesi, le contrade e quelle vivono più intensamente nei pochi. Ché certo sopravvive più vita nello spirito di un eremita che dentro il Rolex di un Pariolino. Sta accadendo come per le ideologie: qualcuno, troppo fesso, o troppo furbo, ha detto che erano morte e tutti sono scappati a nascondere le proprie bandiere, di qualunque colore fossero. E adesso, in affanno, in tanti cercano nei nascondigli più reconditi con l’unica speranza di ritrovarle. Si è detto per tanto tempo che il centro era bello, era tutto, e la gente si è fatta fregare, ha mollato i luoghi dell’anima per infilarsi in formicai enormemente deserti. E adesso, col cuore amaro, si capisce che la vita sta da un’altra parte, che l’anima ha più fame della pancia. Che il primo alimento dell’uomo è l’umanità. E l’umanità sta più nelle capanne che nel Liberty, più nelle solitudini dense che negli strusci depressi. La tensione sta a Sud, in qualunque Sud: nei luoghi spazzati dal vento e arroventati dal sole e dall’oppressione, nei posti capaci di riprodurre l’irruenza vitale che Dio, gli Dei o il Fato hanno messo nelle gonadi umane. È stato innaturale dichiarare Mecca le City. L’anima dell’uomo sta alle pendici del Vesuvio, nel giro beffardo delle madri di Plaza de Mayo, nei traffici di Culiacàn, nei mercati profumati di Tangeri. E non c’è Sud che non sia nello stesso tempo Oriente, figlio di un’Atene così immortale che non esiste fame che l’ammazzi. E tutte le periferie d’Italia sono Oriente, e Sud, l’anima indispensabile per l’Occidente. Oriente nella segale che discende le montagne per fare scuro il pane. Nella curcuma che apre l’anima dei ceci e sventra la pancia ai fagioli. Nell’origano sui pomodori, il cumino e la cannella dei sughi, la menta sopra le patate. Oriente nel fiato che si riscalda sul mare e solleva terra sugli asfalti, mischia il respiro del pino laricio e dell’abete bianco alla saliva salmastra dello Jonio, agli sputi addolciti dell’Adriatico. Il Sud è l’Oriente dell’Italia negli enigmi dei volti delle sue donne, imperi inconquistabili di fascino. Oriente nei sorrisi aperti dei suoi uomini, nella loro luce e nel loro buio, nell’eroismo e nel tradimento compagni di un viaggio millenario. Oriente in un futuro che è già stato, in un passato che ritornerà, tutti a far compagnia a un presente scolpito nel cielo madonna del Mediterraneo, l’Oriente della luce complementare che tridimensiona tutto. Oriente di tartarughe nate su sabbie intinte nell’olio e nel vino, fritte e bollite. Questo sono e questo saranno i figli del Sud, e non ci sarà diaspora buona a trasformarli in creature del tramonto.

UN PAESE CETTOQUALUNQUISTA. Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 25 novembre 2019. E se ci volesse un re per risolvere i problemi dell'ex-Ilva? Un sovrano sovranista, un monarca del «Prima gli italiani» (e, certo, non un imprenditore globale-maharajà indiano). Al centro dell'ultimo film di Antonio Albanese - Cetto c'è, senzadubbiamente -, terzo capitolo della trilogia del «cettolaqualunquismo», si colloca la trovata di un golpe monarchico. Un cialtronesco - sebbene meticolosamente studiato - tentativo di restaurazione di una monarchia assolutista a cui il quasi latitante Cetto La Qualunque aderisce «assolutissimamente» (per farsi gli affaracci propri). In poco meno di un decennio (a partire da Qualunquemente nel 2011), seppure con esiti disuguali (e a volte meno felici delle potenzialità), la serie di film su Cetto ha inventato e imposto al pubblico una grottesca maschera della commedia dell'arte di questa nazione divenuta ormai post-tutto (ma mai davvero «normale»). E ha saputo riproporre i vari mutamenti del clima d'opinione di questi anni. Così, la pellicola ora nelle sale ridicolizza il tentativo del figlio Melo di emanciparsi dal padre facendo il sindaco del paese a colpi di app, smart solutions, piste ciclabili, tanto verde pubblico, servizi per i cittadini e tornelli e badge per gli infastiditi dipendenti comunali. Ma a costituire il modello vincente - ahinoi - è appunto sempre il papà, prototipo del peggio della premodernità italiana che ha saputo traghettarsi nella postmodernità, sfruttandone le opportunità. E, così, il cettolaqualunquismo rappresenta uno specchio (neanche troppo deformato) di una certa antropologia nazionale, e l'espressione trionfante di una sottocultura che rivendica con orgoglio le proprie malefatte, e si stupisce (fin quasi a indignarsi «sinceramente», come Cetto) se qualcuno le si oppone in nome della legalità. Il personaggio sembra un'incarnazione del pensiero del filosofo Ernesto Laclau. In maniera totalmente inconsapevole, va da sé, dal momento che lui ha business ben più importanti della «cultura» a cui badare (come quelli delle sue pizzerie-lavatrici in Germania); e, poi, quando sente quella parola mette mano - letteralmente - alla pistola. Per Laclau l'essenza del politico consiste nella costruzione di un popolo; e, di fatto, finisce per coincidere con il populismo. La politica, dunque, per banalizzare un po' (ma non troppo), è sempre un affare di capi, boss e comandanti. Ed ecco allora, che Cetto identifica, per molti versi, la politica di questi nostri tempi. E, già autoproclamatosi nelle puntate precedenti della saga come un «leader di sinistra, centro, destra, di sopra e di sotto», in questo terzo atto viene irretito dall' offerta di diventare monarca (non da operetta, ma brutale come un capoclan). Perché, dice Albanese nel film, gira e rigira, di fronte al «conclamato fallimento della democrazia» gli italiani invocano sempre «l' uomo forte». Che adesso si presenta con un mix di neoborbonismo e social sui quali riproporre, via Internet, il referendum tra monarchia e Repubblica. Un aspirante re neoborbonico emblematico del fatto che l' Italia volge troppo sovente lo sguardo al passato; e, oltre a non fare le rivoluzioni - il che, peraltro, non è necessariamente un male -, si ritrova sempre più immersa nella dimensione della retrotopia, come l'aveva chiamata Zygmunt Bauman. Mai un progetto sul futuro e, per contro, il perenne rimpianto di un passato idealizzato e impossibile da riproporre. Mai un rischio e, invece, sempre il bisogno di rassicurazione. Non per nulla, il sovranismo e il populismo sono anch' essi, sotto più di un profilo, retrotopie, e si risolvono in una nostalgia regressiva (e aggressiva) di una perduta età dell'oro che, in verità, non c' è mai stata. «Dai, dai, conta su. Ah, beh, sì, beh. Ho visto un re». O un Uomo Forte.

Ferruccio de Bortoli e la scommessa  del nuovo civismo. Pubblicato domenica, 05 maggio 2019 da Antonio Polito su Corriere.it.

Ferruccio de Bortoli, «Ci salveremo. Appunti per una riscossa civica» (Garzanti, pp. 173, euro 16)

Diceva Massimo d’Azeglio, centocinquant’anni fa, che fatta l’Italia si sarebbero dovuti fare gli italiani. A che punto siamo con il lavoro? Molto indietro, ci spiega Ferruccio de Bortoli, giornalista, due volte direttore del «Corriere della Sera», nel suo nuovo libro. Scritto con il pessimismo della ragione, ma anche con l’ottimismo della volontà, ispirandosi cioè «ai tanti che ogni giorno fanno qualcosa per gli altri», cui lo scritto è dedicato. Il messaggio è Ci salveremo, come recita il titolo. Ma solo «a patto che....», e la lista delle cose da cambiare per cavarcela è lunga. 

De Bortoli conosce bene i nostri difetti nazionali, ha passato una vita a osservarli e descriverli. Sono i titoli dei suoi capitoli: la fiera delle illusioni, il regno dei furbi, il senso perduto delle regole, la gerontocrazia, la carestia di giovani e la fuga dei cervelli, il merito dimenticato e il tricolore abbandonato, la capitale nello stato in cui è. Ma anche lui sembra sorpreso di fronte alla grande novità dei nostri giorni: «Il pessimo esempio paga. Ecco la grande differenza con il passato. Il pessimo esempio è irresistibile. Conferisce un dividendo popolare elevato. Esibirlo o confessarlo è considerata una dimostrazione di autenticità popolare: sono come voi, ho dei difetti. E li esibisco senza vergognarmene. E dunque sono più credibile. Vero». Lo chiama «il dividendo dell’antipatia». Ed è indiscutibilmente l’ostacolo più arduo per avviare la «riscossa civica» che ci propone e in cui spera. Ferruccio de Bortoli è stato, fra l’altro, per due volte direttore del «Corriere della Sera» (del quale è editorialista), direttore del «Sole 24 Ore», amministratore delegato di Rcs Libri e di Flammarion. È presidente di Vidas e dell’editrice Longanesi. Nel 2017 ha pubblicato «Poteri forti (o quasi)» per La nave di Teseo. Che cosa ci ha reso così? Innanzitutto de Bortoli nega che «siamo diventati tutti maleducati, sguaiati e menefreghisti», che l’Italia del buon senso sia stata inghiottita dalla crisi economica. «Respingo l’ipotesi che l’impoverimento oggettivo dell’ultimo decennio ci abbia brutalizzato al punto da farci dimenticare i valori della convivenza, perfino appannato il nostro spirito cristiano, compassionevole. Che ci abbia fatto dimenticare le tragedie del Novecento. Siamo meglio di quello che sembriamo. E soprattutto meglio di quanto ci dipingono all’estero». C’è infatti un’Italia di cui andar fieri. «Siamo la seconda manifattura d’Europa, terzi ad aver lanciato un satellite nello spazio, primi per numero di citazioni di ricercatori negli ultimi dieci anni, ai primi posti nel mondo per livello di salute della popolazione e per aspettativa di vita». E invece, «abbiamo sviluppato un serio problema con il progresso», e sempre più spesso «seghiamo con le nostre mani l’esile ramo della incerta modernità sul quale siamo comodamente seduti». Le parole d’ordine «di un Paese che aspira a rimanere tra le grandi economie del pianeta non possono essere la variabile del verbo chiudere» (i porti, i cantieri della Tav, i negozi la domenica; le case chiuse vanno invece riaperte). Il governo del cambiamento — ci spiega de Bortoli con dovizia di dettagli tratti da leggi e decreti — non ha finora cambiato granché. Anzi, ha contribuito a radicare alcuni dei nostri peggiori difetti. Quel che è peggio, li ha spesso giustificati. Molto forte e polemico è il capitolo finale del libro, nel quale l’autore invoca una «coltivazione non retorica ma attiva e consapevole della memoria», come «l’unico autentico vaccino contro il risorgere del nazionalismo». Per descrivere il potere venefico delle parole, de Bortoli ricorre ad articoli di grandi firme del «Corriere» pubblicati nel 1938, l’anno delle leggi razziali. Articoli che oggi fanno rabbrividire, eppure «scritti da colleghi preparati, ammirati per la serietà del loro lavoro, condivisi da numerosi lettori, forse anche i nostri nonni, i nostri genitori». «Chi poteva opporsi al disegno di costruire “una stirpe italica”? Di rafforzare l’identità italiana? Quando oggi si dice “prima gli italiani” si dovrebbe riflettere. A lungo». Talvolta la rievocazione del nostro passato ci sorprende per quanto alluda al presente. «Sul “Popolo d’Italia” — era l’organo del fascismo, fondato dallo stesso Mussolini — il primo settembre del 1938 apparve un articolo con questo titolo: “Come è organizzata la pacchia”». Faceva il conto delle cariche cumulate da alcuni esponenti della comunità ebraica del tempo. Se dovessi sintetizzare in uno slogan il discorso di de Bortoli, direi che al motto «prima gli italiani» lui ci propone di sostituire «prima l’Italia». Di mettere cioè da parte un po’ dei nostri difetti per accrescere la virtù pubblica della nazione. Di riscoprire, a partire dalle scuole, l’educazione civica e il significato stesso della parola civismo (è la virtù del civis, l’abbiamo inventata noi nella Roma repubblicana). E questo non vale certo solo per il popolo, che si è sentito tradito dalle élite, ma per le élite stesse, una «classe dirigente con i figli all’estero», «espatriati inconsapevoli», cui l’autore non fa sconti: «Chi ha potere e disponibilità si è protetto dal rischio di una crisi finanziaria portando i soldi all’estero. Chi ha meno disponibilità e conoscenze non lo ha fatto o non lo ha potuto fare. Il paradosso è che i primi sono tutti sostenitori dell’euro e provano disprezzo per molti dei secondi che magari qualche dubbio ce l’hanno, essendosi impoveriti, e non di poco». Ma per fondare un «nuovo civismo» c’è a disposizione l’«esercito del bene», «il diffuso e capillare sistema del volontariato italiano», che l’autore, da presidente dell’associazione Vidas, ben conosce e frequenta. La più grande azienda del Paese: alla data del 31 dicembre del 2016 contava 812.706 dipendenti. Un Terzo settore, basato sul non profit, tanto operoso nella società quanto ignorato dalla politica. È descrivendo il filo della solidarietà e della comunità che ci arriva dal nostro passato, da quello della carità cristiana come da quello delle società operaie di mutuo soccorso, che de Bortoli scrive le pagine più ispirate del suo libro: vi si riconoscono i tratti di una moderna «religione civile», di rito ambrosiano ma di ambizione nazionale, che sappia rimediare alla desertificazione dei valori portata con sé dalla post-modernità e dal relativismo morale. Qualcosa deve pur tenere insieme questo nostro Paese. Se volete dare una mano, be civic, è il comandamento di Ferruccio de Bortoli. La verità è che una riscossa civica del Paese non può che passare dalle virtù del suo Terzo settore. Dalle tante associazioni che curano i bisogni degli altri surrogando l’attività di uno Stato in affanno finanziario, indebolito da una burocrazia cieca e inefficiente. Dalle tante persone, spesso di modesta condizione sociale ed economica, che ogni giorno fanno il bene degli altri. Alleviano le sofferenze di chi ha bisogno di aiuto. Hanno un moto di pietas. Senza dirlo, anzi schermendosi. Nascondendosi persino. Esattamente l’opposto di quello che accade sul palcoscenico della Rete. Quella del web. Dove tutto è vanità e rappresentazione estetica fine a sé stessa. Il Terzo settore è molto forte al Nord e al Centro. Ma non è debole al Sud. Nel volontariato le differenze di latitudine non sono così ampie come quelle del reddito. Anche questo è un segno di speranza.

Il Sud dei commissari agli affetti pericolosi. Gioacchino Criaco l'8 Dicembre 2019 su Il Riformista. Più di un secolo di politiche centrali e il Sud è fermo là, resta una questione criminale, un territorio di sola competenza del ministero dell’interno con al massimo un appoggio del ministero della giustizia. Il Sud si scioglie, come si scioglie l’argilla della sua terra a ogni scroscio di pioggia e il commissariamento è diventato la risposta buona: emissari istituzionali che risolvono tutto. E anche se poi non risolvono nulla, non hanno mai risolto nulla, incarnano una presenza muscolare. Illudono lo Stato e disilludono i Territori. Ora, dopo aver commissariato, a giro, gli enti locali, ci si attende un commissario all’amore nel mezzo del letto nuziale a dare i tempi e bocciare o approvare gli amplessi coniugali. Qualcuno che si porti via i figli per dargli un’educazione consona a un mondo civile che giù non ci può essere. Un burocrate che sciolga i rapporti affettivi, le parentele scomode, i vincoli amicali, le solidarietà ambientali. Un tecnico che autorizzi preventivamente la partecipazione ai matrimoni, ai funerali, le bevute ai bar. Il Sud attende una forza di liberazione che lo civilizzi e gli dia usi e costumi buoni alla sua evoluzione. E, certo, dopo che tutti avranno riacquistato la verginità, si saranno purgati del peccato originale, si potrà pensare a interventi di normale e dovuta natura statuale, tipo scuole, lavoro, strade, giustizia, pezzi di normalità. È un po’ la logica dei Cong, ripartire dalla purezza dei bambini. Per ora si andrà avanti a forza di ruspe, si continueranno a sciogliere gli enti pubblici non in seguito a reati accertati, continuerà a essere sufficiente la potenzialità criminosa, che per i Comuni si chiama possibile influenza mafiosa desunta anche, e soprattutto, da insidiosi rapporti affettivi, da pratiche sociali di frequentazione. E non è aberrante che a regolare gli scioglimenti dei Comuni sia una norma di prevenzione, è aberrante la vicinanza, prescindendo da responsabilità, a soggetti pericolosi. Per sciogliere un ente locale basta la potenzialità del condizionamento mafioso, anche se non c’è stato o non ci sarà negli atti amministrativi. In terra di mafia ogni giorno, ogni attimo, è resistenza al condizionamento. Si lotta e si resiste, ma nessuno può essere certo di lottare e di resistere in eterno. Forse servirebbe un commissario alla resistenza, uno Stato che affiancasse la lotta e non che sancisse l’impossibilità di vincere una forza criminale. È più facile sciogliere, mostrare i muscoli con chi lotta e resiste, ed è vittima della mafia e di abitare un territorio che la mafia vuole controllare. Purtroppo la mafia ha avuto la capacità diabolica di infettare attraverso parentele, amicizie, vicinanze, matrimoni, funerali, saluti. Al Sud basta respirare la stessa aria dei cattivi per essere un po’ colpevoli. Generazione dopo generazione si azzoppa la vita, si impedisce all’intelligenza e al cuore di partecipare ai contesti sociali, a quelli buoni, che restano prerogativa degli emissari del ministero degli interni.

Prima gli italiani? Alessandro Bertirotti l11 novembre 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… educazione permanente. “Prima gli italiani”! E va bene. Ma quali italiani? Del Nord o del Sud, oppure delle Isole? Quelli che lavorano, quelli che crescono, oppure quelli che decrescono ogni giorno che passa perché si avvicinano allo zero sul proprio conto corrente, grazie alle poche tasse? Insomma, decidiamo a quali italiani ci stiamo rivolgendo, perché siamo tutto tranne che riuniti in una classe di individui politicamente solidali, e nel miglior senso della locuzione in corsivo. È inutile dire che ci sentiamo italiani quando andiamo all’estero, oppure quando gioca la nazionale di calcio, ed ultimamente, per fortuna, quando gioca anche quella di Rugby, uno sport più educativo, educato e civile, certo, rispetto al calcio. Ma questa è un’altra questione, che ho comunque trattato anche su questo blog. Allora, se le cose stanno così, non sarebbe meglio dire: “Prima l’Italia che dobbiamo fare”? Sì, perché esiste una nazione Italia solo sulla carta, ma non in un sentimento di appartenenza che abbia davvero una ripercussione quando andiamo a votare. Non possiamo, e non dobbiamo, secondo me, dimenticare che il feudalesimo dal quale proveniamo storicamente è dentro la nostra mente, in quegli atteggiamenti localistici e provinciali che alimentano il clientelismo così caro ai politici. E sul clientelismo tutta la propaganda gramsciana e sinistrata ha fondato il suo potere, come sappiamo tutti molto bene. Non vi è riuscito, in tale meraviglioso ed esaltante compito civile, nemmeno Berlusconi , che aveva comunque tutti i mezzi per poterlo fare meglio della sinistra. Mi riferisco alle sue televisioni, che danno comunque di che vivere a molte persone, molto più di sinistra che di destra. In fondo, ad un imprenditore pecunia non olet. E così, abbiamo alimentato, ovunque, una crescente alienazione da quella storia recente che ci ha reso solo in apparenza una nazione indipendente, e mi riferisco alle tre Guerre di Indipendenza del nostro Risorgimento.

Cosa fare? Parlare molto, ma molto di più di Italia, lasciando perdere gli italiani, che ovunque vadano se la cavano sempre. Parlare della nostra arte da salvaguardare, della nostra weltanschauung, delle nostre sensibilità musicale, pittorica e scultoria, grazie alle quali abbiamo sviluppato quell’idea di bellezza che il mondo ci invidia. E dunque, verso tutte quelle nazioni che vogliono affermare la loro superiorità economica, cominci a comunicare la nostra superiorità artistica, architettonica e progettuale. In questo modo, anche se sembra assurdo, potremmo salvare molti posti di lavoro, in qualsiasi settore produttivo, anche in quello metallurgico. Perché le nostre industrie non sono degli elettori, ma dell’Italia.

Lettera al Corriere della Sera il 10 novembre 2019. Caro Aldo, sto leggendo Naploitation , il saggio di Marco Demarco. Mi ha molto incuriosito il capitolo su Sorrentino e la semifinale di Italia '90 al San Paolo, Italia-Argentina. Ma è così impossibile stabilire per chi hanno tifato i napoletani quella sera? 

LA RISPOSTA DI ALDO CAZZULLO. Caro Fabio, riassumo per i lettori la questione. In un' intervista al Corriere , Paolo Sorrentino raccontò di aver tifato Napoli, «come tutto lo stadio», per amore di Maradona. Demarco cita però un nostro bravo giornalista, Gianluca Abate, che invece testimonia il contrario: il San Paolo tifava Italia; e a suo sostegno porta i video su Youtube in cui si vedono striscioni pro-azzurri e si sentono fischi quando Maradona sta per calciare il suo rigore (l' Argentina ci eliminò appunto ai rigori). Un altro che in quella notte magica c' era, il mio amico Mimmo Noè, figlio del maresciallo dei carabinieri di Soccavo dove si allenava il Napoli di Maradona, sostiene che le tribune tifassero Italia, e le curve Argentina. Ovviamente la questione non è solo calcistica. Demarco la evoca per sostenere la sua tesi: ai napoletani piace recitare la parte dei napoletani; per cui tendono a raccontare che il San Paolo tifava Maradona pure contro gli azzurri, anche se non è vero. Ma se invece fosse vero, anche solo in parte? Sarei curioso di sapere quel che ne pensa il Napolista, uno dei migliori siti sportivi italiani. La mia idea, gentile Fabio, è che il cuore dei napoletani fosse diviso. Come quello di capitan Bruscolotti, che un giorno negli spogliatoi con le lacrime agli occhi si tolse la fascia e disse a Maradona: «La vedi questa fascia? È la cosa a cui più tengo al mondo. Sono napoletano, e fare il capitano del Napoli è stato l' orgoglio della mia vita. Ma io questa fascia la voglio dare a te, Diego. In cambio però ci devi fare vincere lo scudetto». Il finale è noto. In ogni caso, Napoli è oggi - nel bene e nel male - la vera capitale d' Italia, il luogo dove le virtù e i vizi nazionali sono elevati a potenza, la Washington DC della nostra cultura materiale. Non solo pizza, spaghetti, Gomorra e 'O sole mio; Totò, Eduardo, Elena Ferrante, Pino Daniele. All'estero pensano l'Italia come un'immensa Napoli. Quelli che accolgono i tifosi napoletani con striscioni tipo «Benvenuti in Italia» non hanno capito niente. Proprio come i neoborbonici quando parlano di «conquista piemontese».

Massimiliano Gallo per ilnapolista.it il 12 Novembre 2019. Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera, chiama in causa il Napolista per provare a dipanare un’intricata matassa nazionale. Italia-Argentina del 90 è uno snodo ineludibile della storia patria, calcistica e no. E anche della narrazione che Napoli ha scelto per sé, sempre più evidente col passare degli anni. Contraddistinta da un mix di auto-ghettizzazione, irrefrenabile desiderio di diversità e una suscettibilità sempre più debordante. La stessa che ha portato a bollare il recente – bellissimo – documentario di Kapadia su Maradona come un film contro Napoli, perché il regista ha osato mostrare la camorra, Forcella, i Giuliano. The dark side di Diego a Napoli. Un documentario potente, senza alcuna tesi precostituita, che si affida alle forza delle immagini. Scorrono anche quelle di Italia-Argentina che Kapadia descrive in assoluta buona fede, senza addentrarsi nella polemica. E mostra napoletani sì rispettosi per Maradona – non fischiarono l’inno argentino – eppure sinceramente schierati per l’Italia e infine affranti per la sconfitta. Il San Paolo, non ce ne voglia Paolo Sorrentino, tifò decisamente Italia. Chi scelse Maradona e l’Argentina – e io sono qui ad autodenunciarmi -, lo fece in silenzio. E non per questioni meridionalistiche. Maradona era il fratello, la fidanzata, l’amico. E poi era Maradona. Il “tifo contro” è per definizione minoranza. E può essere legato a mille motivi, non ultimi quelli strettamente estetici, calcistici. Giancarlo Dotto, nel suo libro su Carmelo Bene, ricorda il pomeriggio trascorso a tifare Brasile, quel 5 luglio del 1982. E nessuno ci ha imbastito un processo. Quella sera, nella conferenza post-partita, Vicini si aggrappò a una ciambella di salvataggio. Non lui che aveva sbagliato formazione, con Baggio in panchina e Vialli di nuovo in campo. Non Zenga che era uscito a farfalle su Caniggia. Non la squadra che si era ritrovata con le gambe molli dopo un Mondiale fin lì esaltante. Disse che sì, a Roma, all’Olimpico, nelle partite precedenti, il tifo era stato diverso. Umano. Comprensibile. La verità, in fondo, è quel che le persone vogliono sentirsi dire.

Il ministro per il Sud e Sala, lite su Milano: «Attrae senza restituire». Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 da Corriere.it. «Milano attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae». Fuoco amico sulla giunta di Beppe Sala, il sindaco che non più tardi di sabato ha espresso l’intenzione di provare un mandato bis nella primavera del 2021. La bordata contro la capitale del Nord, la città che nelle ultime stagioni ha rafforzato il suo primato di traino economico del Paese, porta la firma di Giuseppe Provenzano, ministro pd del governo Conte, ospite di un dibattito a Milano appunto, organizzato da Huffington post sul tema «il Meridione visto da Nord». Da ministro per il Sud, Provenzano punta il dito contro la città che vanta un Pil doppio rispetto al resto dell’Italia: «Tutti decantiamo Milano, ma non è la prima volta nella storia d’Italia che è un riferimento nazionale. A differenza di un tempo, però, oggi questa città attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae». Aggiunge: «Intorno ad essa si è scavato un fossato: la sua centralità, importanza, modernità e la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente all’Italia. È la sfida che dovremo provare a cogliere». In altri termini, Provenzano rovescia la narrazione che va per la maggiore a Milano. Ossia che sia il resto del Paese a non seguire Milano e che spesso la città sia lasciata sola dal governo, centrosinistra o centrodestra poco cambia. In questo caso però l’attacco non arriva da un avversario politico, ma da un esponente di governo del Pd che a Milano è l’architrave della maggioranza. Da qui la reazione del sindaco Beppe Sala: «Milano restituisce nella misura in cui ci viene chiesto e nella misura in cui veniamo messi in condizione di farlo. Non abbiamo nessun istinto egoistico». Il sindaco porta l’esempio le multiutility della città. «Per esempio, le ex municipalizzate milanesi sono un esempio di buona gestione. Vogliamo trovare una formula per cui allargano il loro raggio di azione anche altrove? Parliamone». Riconosce che la città sta vivendo un momento magico. «A oggi è vero che Milano sta un po’ fagocitando tutta la crescita che il nostro Paese potrebbe meritare — conclude Sala —. Ma, se mi chiedete da sindaco di Milano se è giusto, dico di no. Mettendosi nei panni delle imprese straniere, qui si sentono rassicurate perché sanno che il sistema funziona». Il riferimento è alle oltre 4.000 multinazionali che hanno trovato sede nell’area metropolitana. Ci vuole poco perché la polemica si allarghi a macchia d’olio in una curiosa confusione di ruoli politici. Va all’attacco la forzista Mariastella Gelmini: «È un’accusa irragionevole. Il governo prenda le distanze da Provenzano». Lo difende Pierfrancesco Majorino, eurodeputato Pd, ma per anni assessore di Sala: «Sono convinto che non volesse attaccare Milano, semmai dobbiamo lavorare tutti per fare di più squadra». Alla fine tocca allo stesso ministro smorzare i toni: «Nessun attacco a Milano, nessuna polemica con Sala. Solo una frase ripresa da un ragionamento sull’allargamento dei divari territoriali che riguarda l’Occidente. Milano è un punto di riferimento nazionale, un faro».

"Milano non restituisce nulla all'Italia". Polemica sul ministro Provenzano che chiarisce: "Nessun attacco, frase tratta da un ragionamento sui divari". Il responsabile del dicastero per il Sud è intervenuto al dibattito dell'Huffington Post sul tema "Il Meridione visto da Nord". La risposta del sindaco Sala: "La città restituisce se le viene chiesto". La Repubblica il 11 novembre 2019. Botta e risposta tra il ministro per il Sud e la Coesione Territoriale, Giuseppe Provenzano, e il sindaco di Milano, Beppe Sala. Intorno a Milano "si è scavato un fossato" a causa del quale "la centralità" della città "la sua importanza, la sua modernità, la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e delle interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente all'Italia". E' la riflessione sul ruolo di Milano del ministro espressa nel corso di un dibattito con il governatore ligure, Giovanni Toti, e quello lombardo, Attilio Fontana, organizzato dall'Huffington Post, sul tema "il Meridione visto da Nord". "Tutti decantiamo Milano, ma non è la prima volta nella storia d'Italia che Milano è un riferimento nazionale. A differenza di un tempo, però, oggi questa città attrae, ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae" ha aggiunto, rafforzando il concetto. "Questa è la sfida che dovremo provare a cogliere. Questo continua a fare la differenza tra destra e sinistra per un Paese che vuole diventare più moderno e vicino se riduce le distanze territoriali", ha concluso.

La replica del sindaco Sala. Non si è fatta attendere la risposta del sindaco, Giuseppe Sala. Milano "restituisce nella misura in cui ci viene chiesto e nella misura in cui veniamo messi in condizione di farlo. Per esempio le ex municipalizzate milanesi sono un esempio di buona gestione. Vogliamo trovare una formula per cui allargano il loro raggio di azione anche altrove? Parliamone". Sala ha aggiunto: "Non credo che abbiamo nessun istinto egoistico, ad oggi è vero che Milano sta un po' fagocitando tutta la crescita che il nostro Paese potrebbe meritare ma se mi chiedete da sindaco di Milano è giusto? Dico di no", tuttavia "mettendosi nei panni delle imprese straniere, qui si sentono rassicurate perchè sanno che il sistema funziona".

Provenzano puntualizza. In serata, dopo che numerosi esponenti della Lega lo hanno attaccato per le sue dichiarazioni, il ministro Provenzano è tornato sull’argomento. "Nessun attacco a Milano, nessuna polemica con Beppe Sala”, ha scritto su Facebook. “Solo una frase ripresa da un ragionamento sull’allargamento dei divari territoriali che riguarda tutto l’Occidente".

Peppe Provenzano l'11 novembre 2019 su Facebook. "Nessun attacco a Milano, nessuna polemica con Beppe Sala. Solo una frase ripresa da un ragionamento sull’allargamento dei divari territoriali che riguarda tutto l’Occidente. Tra le grandi città, come è Milano, e il resto dei territori, le periferie urbane e rurali, si scavano come dei fossati sempre più profondi. I processi di cambiamento e modernizzazione che vi si concentrano con fatica si diffondono oltre i confini delle grandi città. È una dinamica molto accentuata in Italia, che tuttavia resta un Paese popolato di piccoli centri, di province, di campagne deindustrializzate e aree interne. Solo che i “luoghi che non contano” poi si vendicano, è la cronaca di questi anni da Trump alla Brexit fino all’ascesa dei nazionalismi in tutta Europa. Milano è un punto di riferimento nazionale, un faro. Ma anche altre volte nella storia d’Italia lo è stata. Solo che oggi i giovani talenti che vi sono attratti difficilmente restituiscono al Paese l’esperienza professionale e civile che maturano in città. Quanti giovani del Sud che vanno a Milano in cerca di migliori condizioni di vita diventano classe dirigente del Paese? Ho ricordato il caso di Raffaele Mattioli, figlio di un commerciante abruzzese che va a Milano e diventa non solo un grande banchiere ma uno degli uomini più importanti della cultura italiana. Un uomo dell'economia e della vocazione politica al più alto livello, e anche per questo autorevole all'estero, che incarnava il superamento della contrapposizione tra Nord e Sud in cui invece ci stiamo avvitando da quasi trent’anni. Oggi tutto questo è lontanissimo dall’accadere. È responsabilità di Milano? No, di certo. Ma è un tema che dovrebbe interrogare anche i milanesi, specialmente democratici e di sinistra, giustamente orgogliosi della propria città. Questo era il senso del ragionamento di oggi in Fondazione Feltrinelli. Sala era in sala, sono sicuro che ne ha colto il senso e lo spirito. E infatti alla fine dell’intervento abbiamo discusso di come valorizzare sul piano nazionale le buone pratiche sociali, le innovazioni e le interdipendenze tra Nord e Sud, contro la retorica delle leghe".

Andrea Bassi per “il Messaggero” il 12 novembre 2019. Milano prende. E prende molto dal resto dell'Italia. Ma non restituisce quasi nulla. Una città sempre più disconnessa dal resto del Paese. Un'accusa pesante. Tanto più perché arriva dalla bocca di un ministro, quello per il Sud, Giuseppe Provenzano. «Tutti decantiamo Milano», dice parlando proprio nel capoluogo lombardo in un incontro organizzato dalla Fondazione Feltrinelli e dall'Huffingtonpost, «ma non è la prima volta nella storia d'Italia che è un riferimento nazionale. A differenza di un tempo però», aggiunge il ministro, «oggi questa città attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae. Intorno ad essa», sono le parole del ministro, «si è scavato un fossato: la sua centralità, importanza, modernità e la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente all'Italia. È la sfida che dovremo provare a cogliere».

LA REPLICA. Il sindaco Beppe Sala, anche lui presente all'evento, prova a replicare. «Milano», dice, «restituisce se messa in condizione di farlo». Ma poi ammette che «oggi è vero che Milano sta un po' fagocitando tutta la crescita che il nostro Paese potrebbe meritare. Ma, se mi chiedete da sindaco di Milano se è giusto», prosegue, «dico di no. Mettendomi nei panni delle imprese straniere, qui si sentono rassicurate perché sanno che il sistema funziona». In un post su Facebook il ministro Provenzano in serata, ha provato a correggere il tiro e chiarire il suo pensiero. «Oggi i giovani talenti che vi sono attratti», ha scritto, «difficilmente restituiscono al Paese l'esperienza professionale e civile che maturano in città. Quanti giovani del Sud che vanno a Milano in cerca di migliori condizioni di vita diventano classe dirigente del Paese? Ho ricordato», ha aggiunto ancora il ministro, «il caso di Raffaele Mattioli, figlio di un commerciante abruzzese che va a Milano e diventa non solo un grande banchiere ma uno degli uomini più importanti della cultura italiana. Un uomo dell'economia e della vocazione politica al più alto livello, e anche per questo autorevole all'estero, che incarnava il superamento della contrapposizione tra Nord e Sud in cui invece ci stiamo avvitando da quasi trent'anni».

I NODI. Il punto è anche un altro. L'uscita di Provenzano arriva in un passaggio molto delicato: la richiesta di autonomia delle Regioni del Nord, a partire proprio dalla Lombardia di cui Milano è il capoluogo. Qualche giorno fa il ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, ha inviato ai governatori Attilio Fontana e Luca Zaia, la proposta di una legge quadro per dare una cornice al regionalismo differenziato. Solo che il testo messo a punto da Boccia, di fatto, è una inversione ad U sul cammino che Fontana e Zaia avevano disegnato con il vecchio governo, quello a trazione leghista. I tempi del riequilibrio territoriale, sottolineati anche da Provenzano nel suo intervento di ieri, sono in parte già presenti nella proposta di Boccia. A cominciare dalla necessità di garantire che i servizi erogati siano uguali in tutto il Paese. Che insomma non ci siano cittadini di serie A e di serie B. Una linea che si ritrova perfettamente nelle parole pronunciate ieri da Provenzano, quando ha spiegato che «è essenziale avere una cornice nazionale», e che «scuola sanità e assistenza devono valere allo stesso modo». La proposta di Boccia mette il dito però, anche in un'altra piaga: la necessità di una «perequazione» infrastrutturale. Lo squilibrio tra strade, autostrade, alta velocità ferroviaria, tra Nord e Sud è uno dei tempi centrali da affrontare per ridare prospettive di sviluppo al Mezzogiorno. Ma questa impostazione del governo non piace ai presidenti delle Regioni del Nord che hanno presentato richiesta di autonomia. Tanto che ieri, sollecitato sul tema, lo stesso Fontana si è detto convinto che se le proposte sono queste la verità è che l'autonomia «in fondo non la vogliano fare». La vera partita, insomma, resta quella di un pezzo di Nord che si è convinto di poter fare da solo. Un'illusione perseguita cercando di restituire il meno possibile al resto dell'Italia.

Andrea Bassi per “il Messaggero” il 12 novembre 2019. Drena risorse finanziarie e capitale umano. Cresce e si internazionalizza, ma senza fare da vero traino per il resto del Paese. Il primo pensiero va a Roma, non solo impoverita da un trasloco che nel tempo assomiglia sempre di più a uno scippo. Ma anche indebolita nel suo ruolo di Capitale e come unico centro davvero in grado di mediare e compensare le esigenze dell'intero territorio nazionale. Per capire la questione Milano sollevata dal ministro Giuseppe Provenzano, bisogna leggere l'ultimo rapporto dalla Svimez, l'associazione della quale lo stesso Provenzano è stato vice direttore generale fino alla nomina nel governo. Quella fotografia mostra una parte del Paese che si sta allontanando sempre di più. Un'Italia che si sta spaccando ancor prima che questo processo venga certificato, come vorrebbero i governatori del Nord, dalle autonomie regionali. C'è il lavoro, innanzitutto. Per agganciare i livelli del Centro Nord servirebbe creare 3 milioni di nuovi posti. Ma soprattutto non ci sono più i giovani: la metà degli oltre due milioni di meridionali che hanno lasciato il Mezzogiorno dal 2000 ad oggi hanno meno di 35 anni. Questo determinerà nel giro dei prossimi cinquant'anni se nulla cambia, dice la ricerca della Svimez, la perdita di 5,2 milioni di persone, con la conseguenza di una perdita di quasi il 40% del Pil nel Mezzogiorno. Una parte dei cervelli meridionali sono attratti nei grandi centri del Nord, a partire da Milano. Una attrazione che deriva anche da uno squilibrio di risorse. Lo sviluppo recente di Milano è avvenuto spesso in assenza e talvolta a danno del resto del Paese, in termini di attrazione e allocazione di intelligenze e risorse. Una città in cui le pulsioni egoistiche che ieri il sindaco Sala ha negato dopo le accuse mosse da Provenzano, sono comunque presenti. L'Expo, finanziato con fondi nazionali ma interpretato più come un successo cittadino che come una vetrina per il Paese. Il salone del libro scippato a Torino grazie alla maggiore forza economica. Le enormi dotazioni finanziarie concesse a progetti come Human Technopole destinati esclusivamente alla città. Ma la domanda, in realtà, è se Milano e il Nord Italia può progredire senza la propulsione del Mezzogiorno. O persino a danno di quest'ultimo. I divari tra Nord e Sud durante la crisi si sono allargati. La Svimez, sempre nel suo ultimo rapporto, ha annunciato che il Sud entrerà in recessione, con un Pil stimato in calo dello 0,2%, a fronte del +0,3% del Centro-Nord (+0,2% la media nazionale). Il problema non è soltanto del Mezzogiorno. Rischia di diventarlo per tutto il Paese, anche per la parte più ricca che ancora registra tassi di sviluppo. Il Sud resta un importante mercato di sbocco delle merci prodotte nel Nord. E il mercato interno, in tempi di guerra dei dazi, è destinato ad assumere peso crescente. La forza trainante di Milano resta troppo debole per portarsi dietro il resto del Paese. La tentazione di «scavarsi un fossato attorno», come ha detto ieri il ministro Provenzano, può essere forte. Ma senza l'Italia e senza un centro che faccia da camera di compensazione, come Roma, rischia, come ha ricordato l'economista Gianfranco Viesti in un suo articolo, di ritagliarsi il ruolo come quello di un cantone Svizzero. Molto ricca ma che conta molto poco. E forse non è un bene nemmeno per Milano stessa.

·         I Fobo, ossia: gli indecisi. Cioè: gli italiani.

I Fobo, ossia: gli indecisi. Raffaella Silipo per ''la Stampa'' il 30 novembre 2019. Metti che finalmente quest' anno decidi di portarti avanti con gli acquisti di Natale e sfruttare gli sconti del Black Friday. Metti che hai pensato di regalare uno smartphone al figliolo adolescente iperconnesso - non è educativo, vero, ma bisogna pur sopravvivere - e trovi moltissime offerte, con un ottimo rapporto qualità prezzo. La situazione ideale? Fin troppo. Finisce che, paralizzato dalle possibilità, non sai scegliere e ti ridurrai il 24 dicembre ad arraffare l' ultimo modello rimasto, facendo naturalmente un pessimo affare. Benvenuto nel mondo dei Fobo: la nuova sindrome della nostra epoca ansiosa e accumulatrice è la «Fear Of Better Options», paura che arrivino occasioni migliori. È questo il nome dato all' indecisione 4.0 da Patrick McGinnis, l' imprenditore che aveva già individuato un' altra patologia della modernità, la Fomo, «Fear Of Missing Out», paura di essere esclusi. Dalla notte dei tempi, decidere significa prendere una strada a scapito di un' altra, chiudere una porta, che si tratti di un paio di scarpe o un fidanzato. Ma oggi Internet ha accelerato il processo e più sono le strade possibili, più ci sentiamo sopraffatti. Difficile impegnarsi con il compagno di classe, quando si pensa a tutti i principi azzurri che si nascondono nel web. E va a finire che la più bella non se la piglia nessuno, come dicevano le nonne con saggezza contadina, cercando di instillare nei bambini la poco nobile ma molto utile arte dell' accontentarsi. Dando voce a una filosofia spiccia - e consolatoria nei confronti di chi ha poche opzioni o poca libertà - che la scelta sia sopravvalutata: meglio averne poca. Già, perché la Fobo è una malattia dei fortunati, dei liberi, dei ricchi di chance: l' uomo è biologicamente programmato per volere il meglio ma è spesso costretto a prendere quel che c' è. La sua nemesi è l' incapacità di cogliere le occasioni e arenarsi nella paralisi. In quest' ottica, persino la Brexit è un caso di Fobo: non è che a Londra manchino le opzioni per uscire dall' impasse politico con l' Ue, è che a ogni voto rimanda sperando in una migliore. E quanto a immobilismo decisionale, in Italia non prendiamo lezioni da nessuno. Forse dovremmo iniziare a pensare al contrario: faites vos jeux, consapevoli di quanta fortuna ci sia nello scartare un' opzione. E quanta poesia: la strada che non abbiamo preso, la porta che non abbiamo aperto, resteranno sempre con noi, immutate nella loro bellezza, non consumate dall' urto con la realtà. Come uno smartphone rimasto sullo scaffale.

·         Italia. La Repubblica umiliata, fondata sui brogli al referendum Repubblica-Monarchia.

Roberto Fico, schiaffo agli italiani: "Il 2 giugno è la festa di immigrati e rom". Libero Quotidiano. 2 Giugno 2019. La festa della Repubblica secondo Roberto Fico. Il presidente della Camera grillino, infatti, era presente alla parata ai Fori Imperiali. E, conversando con i giornalisti, ha affermato: "Oggi è la festa di tutti quelli che si trovano sul nostro territorio, è dedicata ai migranti, ai rom, ai sinti, che sono qui ed hanno gli stessi diritti". Insomma, la festa della Repubblica è per tutti tranne che per gli italiani: evidente l'intento polemico di Fico nei confronti della Lega e di Matteo Salvini. Dunque, il grillino ha parlato anche delle polemiche su Elisabetta Trenta, il ministro della Difesa che ha dedicato il 2 giugno al tema dell'inclusione. "Non ci devono essere polemiche sterili e strumentali, oggi è la festa di tutti. Nel cielo sventola la bandiera della Repubblica, che significa libertà, democrazia e rispetto di tutte le persone che si trovano sul nostro territorio", ha concluso Fico.

Tagli e mancati inviti. La parata dell'inclusione umilia i nostri militari. La giornata "peace and love" ha avvilito tutti e imbarazzato i vertici delle Forze Armate. Chiara Giannini, Lunedì 03/06/2019 su Il Giornale. Un anno fa i politici presenti alla parata del 2 giugno sfoggiavano grandi sorrisi. Il governo si era insediato da un giorno e gli animi erano al settimo cielo. Ieri, invece, la sfilata lungo i Fori imperiali ha avvilito chiunque, militari in testa. «È la festa di tutti», hanno ricordato il premier Giuseppe Conte e il presidente della Camera Roberto Fico, che l'ha presa così alla lettera da dedicare l'evento a rom, sinti e migranti. Ma non era la festa della Repubblica italiana? Eh, no, perché la 73esima parata voleva celebrare l'inclusione visto che, come ricordato dal ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, esiste il «diritto di ogni singola persona di avere accesso ed esercitare, nella società di cui è parte, le stesse opportunità». Anche lei l'ha presa alla lettera e impettita, nel suo tailleur blu con camicia ciclamino, ha applaudito a ogni passaggio di schieramento, esultando letteralmente all'arrivo dei rappresentanti del corpo della Riserva selezionata, ovvero di quelli come lei, civili che indossano una divisa in quanto utili alle Forze armate. Ne saranno rimasti un po' delusi gli uomini della Folgore, i bersaglieri, i piloti dell'Aeronautica, i fucilieri del San Marco, ai quali la titolare del dicastero di via XX Settembre ha riservato sorrisi di circostanza. D'altronde, si sa, a lei che viene dall'insegnamento alla Link Campus interessano più gli aspetti civili e di analisi che non la parte operativa. È stata così tanto la festa di tutti che in testa al corteo ha sfilato persino Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, da sempre impegnato nell'opporsi sulla questione dei porti chiusi al ministro dell'Interno, Matteo Salvini, unico vero protagonista della parata, accerchiato ai Fori imperiali da centinaia di cittadini che lo hanno fermato per complimentarsi per il suo operato. L'aria che si respirava non era quella di sempre, gioiosa e festiva. Tra i militari soprattutto si notava imbarazzo. Per i mancati inviti, come quello alla leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, per le mancate partecipazioni, come quelle dei quattro ex Capi di Stato Maggiore (tutti e quattro dell'Aeronautica), Pasquale Preziosa, Mario Arpino, Dino Tricarico e Vincenzo Camporini. Ma soprattutto per ciò che il ministro sta facendo alla Difesa. Si va da istruttorie aperte nei confronti dei suoi generali fino ai balletti in pellegrinaggio in stile vacanze crociera. Parla dei civili del comparto, ma fa arrabbiare anche loro, come quelli dell'istituto Vallauri dell'Accademia navale di Livorno, a cui senza motivo è stato decurtato il 30 per cento dello stipendio, con gravi conseguenze (vedi blocco dei mutui) e senza alcun interesse da parte della Trenta. Insomma, un evento in salsa grillina, con il sapore amaro della forzatura mediatica, del dover far apparire quel lato «peace and love» che non solo alle Forze armate fa male, ma che le priva totalmente di significato. Meno male che a chiudere tutto è rimasto, almeno, lo spettacolo della Pattuglia acrobatica nazionale, che ha lasciato in cielo un lungo Tricolore, rimasto a ricordare che, in fondo, sopra a tutto rimane la Patria e che, per fortuna, si ha sempre la possibilità di cambiare.

La leggenda beffa dei brogli al referendum per Repubblica e monarchia. Stefano Dalla Casa 2 giugno 2018 su Wired. Per la festa della Repubblica ricordiamo la "Grande beffa" di Mixer, un falso scoop sui presunti brogli del referendum del '46. La scelta del Presidente della Repubblica Mattarella di opporsi a Paolo Savona come ministro dell’Economia lo ha trasformato per i critici in Re Sergio. Anche Napolitano è stato soprannominato Re Giorgio, sia in senso positivo che in negativo. Di sicuro in Italia la monarchia è esistita davvero, e la residenza del re(prima quella del papa) era proprio il Quirinale, dove lavora il presidente della Repubblica. Ma non è stato un cambiamento indolore. Il 2 e 3 giugno 1946 gli italiani votarono il referendum sulla forma istituzionale dello Stato: doveva rimanere una monarchia o diventare una Repubblica? Un mese prima della consultazione Vittorio Emanuele III aveva lasciato il Quirinale per trasferirsi in Egitto, abdicando in favore del più popolare figlio Umberto II. Nemmeno questo, però, servì a salvare la monarchia. Anche se la sua salma a dicembre è rientrata in Italia da Alessandria a bordo di un aereo dell’aeronautica militare italiana, era stato Vittorio Emanuele III a nominare Mussolini primo ministro e a firmare le leggi razziali. Lo spoglio rivelò un nord fortemente repubblicano e un sud ancora attaccato alla monarchia, ma alla fine il 54% degli italiani aveva scelto la Repubblica. Anche allora non mancarono le accuse di brogli, ma nel 1990 la storica trasmissione televisiva Mixer, condotta da Giovanni Minoli, fece credere ai telespettatori di avere le finalmente le prove: la confessione di uno dei protagonisti. Non ci poteva essere scoop più grande, ma era tutta una montatura per la quale gli autori rivendicarono un intento dimostrativo. Una storia che forse vale la pena ricordare in questo momento di crisi istituzionale e media ossessionati dalle fake news.

I presunti brogli. Lo svolgimento del referendum del 2 giugno 1946 è stato criticato a lungo. Per i monarchici erano stati commessi brogli che avevano ribaltato il risultato in favore della Repubblica. Di sicuro il clima in cui si svolgevano queste elezioni non era sereno. Il referendum era l’ultima chance dei monarchici, mentre molti di coloro che avevano liberato l’Italia ritenevano la monarchia già finita. Le province del Venezia Giulia furono escluse dal voto perché ancora contese tra Jugoslavia e Alleati. E anche molti prigionieri di guerra all’estero non poterono votare. Ma anche considerando questi e altri limiti di un paese che tornava al voto per la seconda volta dopo molto tempo, il consenso tra gli storici si potrebbe riassumere così: la nascita della Repubblica non fu certo facile, ma non c’è stato alcun complotto per truccare l’esito del voto popolare e far perdere i monarchici. Nel 2012 due studiosi hanno anche analizzato i verbali di ogni comune cercando di stabilire con metodi statistici la verosimiglianza dei brogli. I risultati, pubblicati sulla Rivista di Storia economica, raccontano ancora una volta che la Repubblica ha vinto onestamente. Lo spoglio era però stato lentissimo e macchinoso, e con un paese spaccato in due aveva dato l’impressione di apparenti rimonte dei monarchici, che dipendevano invece dai ritardi tra le sezioni. La sconfitta, con un margine inaspettatamente ristretto (circa 2 milioni di voti), non poteva certo essere accettata da chi si riteneva ancora suddito dei Savoia. Furono presentati migliaia di ricorsi alla Corte di Cassazione, denunciando ogni tipo di anomalie rivelatrici di un voto pilotato.  Per mettere i bastoni tra le ruote alla Repubblica, i monarchici chiesero anche di includere tra i votanti le schede bianche o nulle, sperando almeno di togliere la maggioranza assoluta raggiunta dai Repubblicani e aprire uno spiraglio per dichiarare il referendum non valido. La Corte rifiutò, ma anche se avesse agito diversamente la Repubblica avrebbe avuto comunque la maggioranza dei consensi (le schede erano circa un milione e mezzo). Al termine dell’esame dei ricorsi, la Repubblica sarà ufficialmente annunciata il 18 giugno.

La beffa di Mixer. Le controstorie sui brogli del 2 giugno non hanno mai smesso di circolare, almeno nella pubblicistica monarchica e nostalgica. Ma un giorno arrivarono in prima serata, e sembrò che tutto quello che si sapeva sulla Repubblica dovesse essere messo in discussione. Il 5 febbraio 1990 andò in onda su Raidue una nuova puntata di Mixer, settimanale di approfondimento condotto da Gianni Minoli. Il pubblico si ritrovò di fronte ad Alberto Sansovino, presidente di Corte d’appello in pensione, che tra le lacrime confessava l’impensabile. La notte tra il 3 e il 4 giugno 1946 faceva il presidente a Modena durante lo spoglio. Un misterioso professor Salemi chiese a lui e ad altri sei magistrati di fede repubblicana un atto che sembrava, allora, patriottico. Al Sud in troppi votavano monarchia, e bisognava prendere provvedimenti. I magistrati decisero di sostituire le schede monarchiche, che sarebbero state distrutte al ministero dell’Interno, con nuove schede a favore della repubblica fornite da Salemi. Si decise che l’ultimo dei sette giudici a rimanere in vita dovesse confessare pubblicamente, e il fardello era toccato a lui. Sansovino era in realtà non esisteva, era il generale Umberto Quattrocchi in veste di attore, ma la puntata conteneva anche interviste a monarchici e al costituzionalista Stefano Rodotà, inconsapevoli della beffa. Solo alla fine dello show, che conteneva anche falsi filmati d’epoca, Minoli rivelò che era tutta una bufala. La Grande beffa, come ne parlò Giuseppe d’Avanzo su Repubblica.

Una lezione sulla televisione? A Gianni Minoli si dà il merito di aver cambiato il linguaggio televisivo. Basta però guardare la versione di Mixer di Corrado Guzzanti per capire che non tutti i cambiamenti sono necessariamente miglioramenti. Dopo la puntata sui brogli, in occasione del decennale della trasmissione, la discussione è stata rovente. Alcuni hanno preso lo scherzo come tale, ma hanno nettamente prevalso le critiche, anche dall’estero. Dal parlamento si chiedeva addirittura a Giulio Andreotti, primo ministro, di intervenire. Minoli si difese: aveva annunciato che era in arrivo una puntata che avrebbe fatto discutere, intendeva mostrare quali capacità avesse il Quinto potere. In alternativa ai brogli, lui e i collaboratori della trasmissione avevano anche pensato a un’altra falsa notizia: annunciare che i bot fossero stati congelati (a proposito di tranquillità dei mercati). Che l’intento fosse davvero pedagogico o di altra natura, specialmente oggi sembra difficile non condividere la sostanza delle critiche. Non era il primo aprile, né Halloween (e Minoli non è Orson Welles). Nonostante lo scoop fosse già stato prima annunciato e poi smentito alle redazioni (che avrebbero riempito i giornali per giorni), i 3 milioni di telespettatori di Mixer non potevano avere idea dell’esperimento. Spiegare il potere della televisione con la stessa logica dietro a Megalodonte – La leggenda degli abissi, per di più su argomenti tanto delicati, forse è stata una lezione di televisione, ma chi già allora parlava del rischio di perdita di fiducia nel giornalismo forse aveva visto più in là di quanto immaginasse.

Sette storie sul referendum del 2 giugno 1946. Quali città non votarono? Dov'è che la monarchia ottenne più preferenze? E, una volta per tutte, la storia dei brogli è vera o no? Il Post giovedì 2 giugno 2016. Ogni anno la festa della Repubblica si celebra il 2 giugno, l’anniversario di quando, nel 1946, 24 milioni di italiani furono chiamati a votare per scegliere la forma di governo dell’Italia: repubblica o monarchia. In quei mesi l’Italia era appena uscita dalla Seconda guerra mondiale e il voto si svolse tra le macerie dei bombardamenti alleati e quelle delle demolizioni dei nazisti in ritirata, con centinaia di migliaia di italiani ancora sparsi per i campi di prigionia in tutto il mondo, intere province ancora sotto governo militare straniero e un clima che sembrava vicino a quello di una guerra civile. Alla fine, gli italiani scelsero la repubblica, con 12.718.641 voti contro i 10.718.502 della monarchia.

L’Italia divisa in due. Lo spoglio del risultato mostrò chiaramente che l’Italia era divisa in due metà. In tutte le province a nord di Roma, tranne due (Padova e Cuneo), vinse la repubblica. In tutte le province del centro e del sud, tranne due (Latina e Trapani), vinse la monarchia. La repubblica ottenne il risultato più ampio a Trento, dove conquistò l’85 per cento dei consensi. La monarchia ottenne il risultato migliore a Napoli, con il 79 per cento dei voti. Contemporaneamente, gli italiani votarono anche per eleggere i membri dell’Assemblea costituente. La Democrazia Cristiana ottenne la maggioranza relativa dei 556 deputati, 207, mentre al secondo posto arrivarono i socialisti e i comunisti arrivarono al terzo.

Non si votò in tutta Italia. Non tutti gli italiani ebbero l’opportunità di votare. Ad esempio, non votarono i militari prigionieri di guerra nei campi degli alleati (alcuni si trovavano addirittura negli Stati Uniti) e gli internati in Germania che stavano cominciando lentamente a ritornare. Non si votò nella provincia di Bolzano, che dopo la creazione della Repubblica di Salò era stata annessa alla Germania e che dopo la fine della guerra era stata messa sotto governo diretto degli Alleati. Non si votò nemmeno a Pola, Fiume e Zara, tre città italiane prima della guerra, ma che sarebbero passate alla Jugoslavia. E non si votò nemmeno a Trieste, sottoposta ad amministrazione internazionale e al centro di un complicato contenzioso diplomatico che si sarebbe risolto soltanto nel 1954, con il ritorno della città all’Italia.

Non ci fu alcun broglio. La leggenda è ancora molto diffusa, ma storici ed esperti, che hanno analizzato i risultati con tecniche moderne, concordano nel dire che il voto si svolse in maniera tutto sommato regolare. Un distacco di quasi due milioni di voti è difficilissimo da creare artificialmente: richiede la complicità di migliaia di persone e lascia dietro di sé una lunghissima scia di prove. La leggenda, comunque, è rimasta viva: in parte a causa del clima teso che si respirava in quelle settimane e che continuò per anni a incombere sull’Italia, in parte perché lo spoglio e il processo con cui venne annunciato il referendum furono gestiti in maniera incerta e a volte decisamente pasticciata.

C’era un clima da colpo di stato. Oggi il 2 giugno viene celebrato come una festa nazionale, ma 70 anni fa il clima era tutt’altro che festoso. I leader dei principali partiti, Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Comunista e Repubblicano, erano quasi tutti a favore della Repubblica, ma temevano che al sud i monarchici avrebbero potuto organizzare insurrezioni o rivolte e che in caso di disordini i carabinieri si sarebbero schierati con il re. Anche i repubblicani erano divisi tra di loro: i centristi temevano che i comunisti stessero organizzando un colpo di stato o una rivolta, non troppo diversa da quella scoppiata in Grecia in quei mesi. Dopo la proclamazione dei primi risultati, ci fu un vero e proprio scontro tra il governo provvisorio guidato dal leader della Democrazia Cristiana Alcide De Gasperi e la monarchia.

Lo scontro tra governo e monarchia. Al culmine, De Gasperi si rivolse al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, con una frase che, in varie forme, è entrata nella storia: «Entro stasera, o lei verrà a trovare me a Regina Coeli, o io verrò a trovare lei». Alla fine vinse de Gasperi, che il 13 giugno, prima che uscissero i risultati definitivi, proclamò il passaggio dei poteri dal re, Umberto II, al governo provvisorio. Il re denunciò il gesto, ma si rassegnò a lasciare il paese il giorno stesso, partendo in aereo per Lisbona dove era già arrivato suo padre, Vittorio Emanuele III, che aveva abdicato poche settimane prima, e il resto della famiglia reale.

La proclamazione dei risultati fu un pasticcio. Il periodo immediatamente successivo al referendum fu un complicato e poco chiaro, finendo per alimentare il sospetto di irregolarità. I primi risultati arrivarono il 4 giugno e sembravano dare in vantaggio la monarchia. Durante la notte e la mattina del 5, la Repubblica passò in netto vantaggio e il 10, la Corte di Cassazione proclamò il risultato: 12 milioni di voti a favore della Repubblica e 10 a favore della monarchia. A sorpresa, nel comunicato utilizzò una formula dubitativa, che rimandava l’annuncio definitivo al 18 giugno dopo l’esame delle contestazioni presentate soprattutto dai monarchici. La più importante – e improbabile – era arrivata da un gruppo di professori, secondo cui la Repubblica avrebbe potuto proclamarsi vincitrice soltanto in caso di conquista della maggioranza assoluta dei voti, cioè solo se avesse ottenuto la maggioranza di tutti i voti espressi, contando anche schede bianche e nulle. In altre parole, sostenevano, alla repubblica non sarebbe bastato superare la monarchia per proclamarsi vincitrice.

Gli scontri (e Giorgio Napolitano). Intanto, erano in corso scontri, soprattutto nel sud. A Napoli, un gruppo di monarchici attaccò una sede del Partito Comunista – in cui si era rifugiato anche il giovane Giorgio Napolitano (ne ha parlato in un’intervista alcune settimane fa) – e quando la polizia intervenne nove manifestanti furono uccisi. Il 13 giugno, il clima era divenuto così teso che De Gasperi decise di forzare la mano agli eventi e, senza attendere il responso della Cassazione, proclamò il passaggio di poteri dal re al governo. Il 18 la Cassazione confermò il risultato che mostrava come la repubblica avesse vinto la maggioranza assoluta dei voti espressi, anche contando schede bianche e nulle.

Il referendum del '46 fu truccato, l'accusa 70 anni dopo. Dai racconti di un carabiniere vengono alla luce fatti accaduti oltre settant'anni fa che avrebbero potuto cambiare le sorti del nostro paese. Alessandro Raffa su Blastingnews il 13 dicembre 2016. Una vicenda che parla di schede truccate e di brogli elettorali accaduta nel nostro paese oltre settant'anni fa e che per tutto questo tempo è rimasta custodita gelosamente nei ricordi di un uomo. I fatti in questione risalgono al 4 giugno del 1946, si era appena votato per il referendum istituzionale, dove i cittadini italiani poterono esprimere la propria preferenza riguardo la forma governativa di Stato. I risultati non erano ancora stati resi noti, eppure in quei giorni nella capitale si vociferava già per la presunta vittoria della Repubblica e quel che vide quell'uomo, il carabiniere Tommaso Beltotto, è venuto alla luce solamente quest'anno durante il processo sulla trattativa Stato-mafia.

Cosa ha visto il brigadiere Beltotto. Quella notte il brigadiere Beltotto si trovava presso il palazzo del Viminale, in quanto gli era stato affidato il compito di controfirmare una relazione scritta dal duca Riario Sforza, all'epoca capo dei corazzieri reali e devoto della famiglia Savoia. Nel rapporto venne riportato minuziosamente e nei dettagli il ritrovamento di molti pacchi di fogli nelle cantine del ministero degli interni, che avevano la stessa grafica delle schede elettorali utilizzate nel referendum dei giorni precedenti e sui quali era presente la spunta di scelta sul simbolo della Repubblica.

Festa del 2 giugno. La Repubblica Italiana è nata nel 1946. Se quelle false schede servissero per capovolgere un risultato sgradito o se addirittura fossero già state conteggiate per favorire la vittoria della Repubblica, purtroppo ancora oggi pare che nessuno lo sappia. Che fine ha fatto la relazione Secondo la testimonianza di un ex carabiniere che ha preso parte al processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia, la copia del rapporto o addirittura l'originale, sarebbe arrivata dopo vari passaggi nelle mani del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Si pensa che questa documentazione venisse custodita nella cassaforte della prefettura di Palermo, ma che nel 1982 dopo l'uccisione del generale sia sparita. Ad oggi purtroppo sia il duca Riario Sforza che il brigadiere Beltotto sono venuti a mancare, secondo i racconti del figlio del carabiniere però una copia della relazione potrebbe trovarsi a Cascais in Portogallo, nel luogo di esilio dell'ultimo Re d'Italia.

"Le schede truccate del referendum del '46, mio padre vide tutto". Negli scantinati del Viminale "pacchi di fogli con la croce per la Repubblica". Parla il figlio del brigadiere testimone dei brogli. Luca Fazzo, Lunedì 12/12/2016, su Il Giornale. Pacchi su pacchi di schede: «Così grossi, raccontava mio padre, che ci si potevano infilare le braccia». Tutte schede già votate, e tutte con la croce sullo stesso segno: a sinistra, sull'Italia turrita che simboleggiava la Repubblica, contro la monarchia rappresentata dallo scudo dei Savoia. Il giovane brigadiere Tommaso Beltotto vide quelle schede, negli scantinati del ministero degli Interni. Era la notte del 4 giugno del 1946, e i risultati del referendum non erano stati ancora annunciati, ma la voce nei palazzi romani già girava: vittoria alla Repubblica, Umberto II si preparava all'esilio di Cascais. Di ombre su quel risultato si è sempre parlato. Ma ora, a settant'anni di distanza, arriva il ricordo di un testimone oculare dei brogli. Tommaso Beltotto allora aveva venticinque anni, e già alle spalle una vita intensa. Controfirmò la relazione del duca Giovanni Riario Sforza, comandante in capo dei corazzieri reali, con la descrizione minuziosa di quei sacchi nelle cantine del Viminale. E proseguì la sua vita da carabiniere. Sono passati settant'anni, Beltotto è morto nel 2001. Di quei sacchi non ha più parlato, se non in famiglia. Oggi è suo figlio Gianpiero a raccontare in presa diretta al Giornale l'immagine quasi fotografica del referendum truccato, così come riferita da suo padre. A cosa dovessero servire quei sacchi di schede truccate, Beltotto non lo sapeva, e non lo sappiamo noi oggi: erano già state conteggiate come vere, o dovevano servire in caso di bisogno per ribaltare un risultato sgradito? Di sicuro, erano la prova concreta di un referendum fasullo.

Suo padre si era scandalizzato? «Era un uomo concreto, realista. Semplicemente, quando in televisione o sui giornali qualcuno ipotizzava brogli nel referendum del 1946, sorrideva: c'è poco da ipotizzare, i brogli li ho visti con i miei occhi». Il brigadiere Tommaso Beltotto non era lì per caso, la notte del 4 giugno. Nel settembre del 1943, quando comandava la stazione dell'Arma a Monterotondo, aveva avuto l'ordine di arrendersi ai tedeschi e consegnare le armi: se ne era ben guardato, e si era unito alla Resistenza con i suoi fucili e i suoi carabinieri. Durante la guerra civile aveva fatto da collegamento tra le truppe partigiane di montagna e i reparti che operavano a Roma: e fu testimone dei tentativi vani del Cln di bloccare l'attentato di via Rasella. «Insomma - dice suo figlio - aveva una fama di persona equilibrata e devota. Sono convinto che il maggiore Riario Sforza quei sacchi di schede truccate li avesse già visti prima, e che avesse bisogno di un testimone affidabile». Qualcuno, cioè, che non andasse a raccontare al bar l'incredibile scoperta: e che però fosse pronto, nel momento del bisogno, ad attestarne la verità.

Così quando il duca Riario Sforza (che pochi giorni dopo verrà ritratto in foto rimaste storiche, mentre saluta per l'ultima volta Umberto che lascia il Quirinale) dovette scegliere qualcuno che controfirmasse il suo rapporto, la scelta cadde quasi inevitabilmente su Beltotto, che non era un suo subalterno, ma che aveva avuto modo di conoscere in quei frangenti delicati e complessi. Erano due uomini perbene e rigorosi, il duca e il brigadiere. Il primo devoto di casa Savoia. Il secondo carabiniere fin nel midollo, «ma al referendum - dice il figlio - aveva votato Repubblica». Mettono per iscritto ciò che hanno visto, e sanno di avere fatto il loro dovere. Dell'esistenza del rapporto si è saputo nel settembre scorso, nell'aula del processo a Palermo per la presunta trattativa Stato-mafia, ormai evoluto in una bizzarra ricognizione giudiziaria dell'intera storia della Nazione. Un generale in congedo dei carabinieri, Niccolò Gebbia, ha raccontato che la relazione di Riario Sforza venne trasmessa al generale Romano Dalla Chiesa. L'originale, o una copia, arrivò nelle mani del figlio del generale, Carlo Alberto: che proprio per questo sarebbe stato corteggiato dal capo della P2, Licio Gelli, cui quel rapporto avrebbe fatto gran gioco; ma evidentemente non lo ottenne. E i fogli erano forse nella cassaforte della prefettura di Palermo che venne svuotata nel 1982 poco dopo che Carlo Alberto Dalla Chiesa era stato ucciso. Che fine abbia fatto il rapporto, insomma, non si sa: e potrebbe essere uno dei tanti misteri delle nebbie impenetrabili che avvolgono quegli anni. D'altronde Riario Sforza è morto da tempo, e sono morti anche i suoi due figli: e la nuora, Elisa, racconta che «in casa di questa vicenda non ho mai sentito parlare». Ma per fortuna nelle cantine del Viminale il duca non era da solo. C'era con lui il brigadiere Beltotto.

Era nato nel 1918 a Trinitapoli, in provincia di Foggia: e l'unica vera marachella della sua vita era stata alzarsi l'età, per arruolarsi nell'Arma prima ancora di essere maggiorenne. La sua biografia negli anni convulsi dopo l'armistizio è simile a quella di tanti italiani disabituati a decidere dal ventennio fascista, e che pure al momento di fare una scelta non si tirarono indietro. Ma Beltotto ad orientarlo aveva una stella polare: l'Arma. Perché gli alamari da carabiniere li aveva sulla pelle. E scelse la sua strada liberamente solo perché era stato il Re a scioglierlo dal giuramento che aveva prestato. D'altronde proprio Monterotondo, dove Beltotto era comandante, era stato teatro di uno dei primi e più cruenti scontri tra reparti italiani e truppe tedesche, paracadutate dalla Luftwaffe sulla cittadina per conquistare Palazzo Barberini, sede provvisoria dello Stato Maggiore. Fece la sua parte, con semplicità e concretezza, e non immaginava che di lì a poco si sarebbe trovato, in quella cantina del Viminale, a fare da testimone a un crocevia della storia. Della sorte del suo rapporto probabilmente non si preoccupò più, perché il suo dovere lo aveva fatto e concluso firmandolo. Di come una copia, o l'originale, potesse essere arrivata nelle mani di Dalla Chiesa forse non seppe niente, e comunque a casa non ne parlò. «Ma io sono convinto - dice il figlio Gianpiero - che un esemplare fosse comunque approdato a re Umberto, e che se si cercasse attentamente nelle carte di Cascais qualcosa forse salterebbe fuori». Una sola volta Beltotto ne parlò con un politico: avvenne a Ortisei, dove negli anni Sessanta, ormai maresciallo, indagava sugli attentati degli indipendentisti. Un politico passava spesso le vacanze in zona, e Beltotto confidò a lui la storia dei sacchi di schede. Ma il politico si chiamava Giulio Andreotti e, ovviamente, non lo disse a nessuno.

QUEI BROGLI AL REFERENDUM GRANDI QUANTO UNA REPUBBLICA. Un milione e mezzo di italiani non ammessi al voto, immissioni di schede e repressioni nel sangue con morti per chi contestava i risultati. Ecco come 71 anni fa nasceva la nostra Repubblica. A cura di Michele Gottardi – Sono trascorsi 71 anni dal referendum istituzionale tenutosi il 2-3 giugno 1946 che trasformò radicalmente la forma di Stato del nostro Paese, sette decenni lunghi e ricchi di storia in cui l’Italia è cresciuta e ha guadagnato un notevole peso a livello internazionale, anche se negli ultimi anni, causa la crisi economica, è apparsa debole e inerme. La politica, amata e odiata dai cittadini del Belpaese, ci ha svelato i suoi segreti più nascosti: scandali, processi, trattative con la mafia, brogli. È proprio di quest’ultimi che vogliamo parlare, non in riferimento alle consuete elezioni cui siamo chiamati a partecipare, ma proprio a quel referendum che è stato il seme dell’Italia repubblicana. Le vicende che tratteremo non sono molto conosciute sia perché sono state oscurate al loro nascere sia perché all’epoca era molto rischioso parlarne, ma sono convinto che oggi l’argomento non debba più essere un tabù, ma un aspetto della nostra storia cui siamo tenuti a confrontarci.

Il referendum era stato previsto addirittura due anni prima con il decreto luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944 che prevedeva, al termine della guerra, l’indizione di una consultazione popolare fra tutta la popolazione per scegliere la forma di Stato della “nuova Italia”. In ossequio a tale provvedimento, il 16 marzo 1946 il principe Umberto decretò che la forma istituzionale sarebbe stata scelta tramite un referendum da indirsi contemporaneamente all’elezione dell’Assemblea costituente. Nelle giornate del 2 e 3 giugno, gli Italiani (comprese le donne) furono chiamati a schierarsi dalla parte della monarchia o della repubblica e la risposta popolare fu molto soddisfacente: si recò ai seggi l’89,1% degli aventi diritto. La prima anomalia tecnica di tale consultazione fu che non poterono esprimere la loro opinione coloro che, a causa della guerra, si trovavano ancora al di fuori del territorio nazionale e i cittadini residenti nella provincia di Trento (tranne pochi paesi) e nei comuni di Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Zara, in quanto oggetto di contesa internazionale, per totale di 1.625.000 elettori. Le autorità dell’epoca fecero sapere che questi Italiani avrebbero votato in seguito, ma la promessa fu vanificata.

Una volta terminate le operazioni di voto, tutte le schede furono trasferite nella Sala della Lupa a Montecitorio dove, in presenza della Corte di Cassazione, degli ufficiali angloamericani e dei giornalisti, iniziò lo spoglio. Il 4 giugno l’Arma dei Carabinieri comunicò a papa Pio XII che la monarchia si avviava a vincere e il giorno successivo Alcide De Gasperi annunciò a re Umberto II che gli Italiani si erano espressi a favore della forma monarchica; a conferma di ciò giunsero a Roma i rapporti dell’Arma provenienti dai seggi che confermarono la vittoria della monarchia. Tuttavia nella notte tra il 5 e il 6 giugno i risultati si capovolsero con l’immissione di una valanga di voti di dubbia provenienza, tanto che analisi statistiche successive evidenziarono come il numero delle schede votate era di gran lunga superiore a quello dei possibili elettori. Si avviò allora un profondo scontro tra i servizi segreti americani (favorevoli alla repubblica) e quelli inglesi (inclini alla monarchia), mentre le truppe del maresciallo Tito si dichiararono pronte a superare il confine nel caso in cui la forma repubblicana non avesse prevalso. Contemporaneamente furono avviati migliaia di ricorsi per chiedere un conteggio più attento delle schede elettorali, ma il 10 giugno la Corte di Cassazione proclamò i risultati: 12.672.767 voti per la repubblica e 10.688.905 in favore della monarchia. Il verbale tuttavia si concludeva precisando che la stessa Cassazione avrebbe reso in altra sede il parere sulle contestazioni e i reclami presentati presso gli uffici delle varie circoscrizioni, nonché circa l’esito definitivo del voto. Di fronte alla notizia che la repubblica aveva prevalso, in molte città del Sud, territorio dove la monarchia aveva raggiunto un risultato bulgaro, scoppiarono proteste e tafferugli: celebre l’episodio avvenuto a Napoli dove un corteo cercò di assaltare la sede del PCI in via Medina per togliere una bandiera tricolore senza lo stemma sabaudo e la polizia aprì il fuoco uccidendo nove manifestanti e ferendone un centinaio. Re Umberto II, contrariato per i numerosi indizi di brogli e deluso del fatto che non era stato rispettato il decreto luogotenenziale del 1944 nella parte in cui recitava che la forma istituzionale vincitrice avrebbe dovuto aggiudicarsi il voto della “maggioranza degli elettori votanti” (la Cassazione infatti, nel conteggiare il totale dei votanti, non aveva preso in considerazione le schede nulle e c’era quindi la possibilità che nessuna delle due opzioni avesse raggiunto il 50%+1 dei voti) preferì prendere atto del risultato e lasciò l’Italia diretto in Portogallo.

Come già annunciato, l’ultima parola sull’esito della consultazione sarebbe spettata alla Cassazione che, il 18 giugno, con il voto di 12 magistrati contro 7, stabilì che per “maggioranza degli elettori votanti” si dovesse intendere la maggioranza dei soli voti validi. Inoltre, dopo aver respinto tutti i ricorsi, pronunciò l’esito definitivo della votazione: 12.717.923 voti per la repubblica e 10.719.284 per la monarchia. Nei mesi seguenti, in diverse zone d’Italia, vennero ritrovati sacchi contenti schede elettorali votate, ma ormai la partita referendaria era chiusa. Con il pronunciamento della Suprema corte ogni voce dissidente tacque e la forma repubblicana non fu mai più messa in discussione. Quelle che abbiamo raccontato sono solo alcune delle vicende e delle testimonianze che alcuni protagonisti dell’epoca hanno voluto svelare. Negli anni successivi al referendum sono state raccolte altre dichiarazioni, come quella del gesuita Giuseppe Brunetta che narrò come nelle cantine del Quirinale egli stesso aveva visto casse contenti schede mai aperte, ma il loro peso non può essere che storico, dal momento che politicamente non si può più tornare indietro. Forse non sapremo mai quale fu l’esito corretto del referendum, ma ciò di cui siamo certi è che quei giorni rappresentarono per il nostro Paese un momento solenne e nello stesso cruciale, in cui la storia era a un bivio: l’Italia si spaccò in due (da una parte il Centro-Nord repubblicano, dall’altra il Centro-Sud monarchico), ma fu unita dall’idea di partecipare in massa per scrivere il proprio destino, desiderio che settant’anni sembra purtroppo essersi spento.

Il 2 giugno e quei voti nei sacchi della munnezza. L'Inkiesta l' 1 giugno 2012. Quel 2 giugno 1946 non sarebbe finito che sedici giorni dopo, il 18 giugno, quando venne proclamata ufficialmente la Repubblica italiana. Ma già il giorno 11 è ormai sufficientemente certo che al referendum istituzionale ha vinto la repubblica. Risultato chiaro, sì, ma non così come potrebbe sembrare dalla logica dei numeri. Il Corriere della sera di martedì 11 titola sicuro: «È nata la Repubblica italiana» e sotto riporta i risultati: repubblica 12.718.019, monarchia 10.709.423. La Stampa, invece, è molto più possibilista, d'altra parte è il quotidiano di Torino, città sabauda. Il titolo lascia spazi all'ambiguità: «Il Governo sanziona la vittoria repubblicana». Quasi che il governo possa anche sbagliarsi e infatti nel testo dell'articolo ci si imbatte in questo passaggio: «C'è da chiedersi se la repubblica sia stata o no proclamata». Intanto il re, Umberto II, esita ad accettare i risultati e si intrattiene a colloquio con un sempre più perplesso (e infuriato) Alcide De Gasperi, presidente del consiglio. Interessante apprendere come si sia giunti alla proclamazione del risultato. Il 2 giugno e la mattina del 3 si vota contemporaneamente per l'elezione dell'Assemblea costituente e per il referendum istituzionale; non vanno alle urne le province di Bolzano, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Zara perché occupate dalle truppe anglo-americane o jugoslave. I risultati giungono con estrema lentezza, d’altra parte poco più di un anno prima l'Italia era ancora un Paese in guerra, diviso e con il Nord occupato dai tedeschi. Alla Costituente il partito di maggioranza risulta la Democrazia cristiana (35 per cento), seguito dai socialisti (20 per cento) e dai comunisti (19 per cento). Per il referendum, invece, bisogna aspettare ancora. Qualche idea di quel che stesse accadendo, in ogni caso, filtra lo stesso. La Stampa di mercoledì 5 giugno, sotto il titolo «Affermazione della Democrazia cristiana», ne riporta un altro più piccolo: «La repubblica in vantaggio di 1.200.000 voti» (alla fine il margine sarà più ampio: un paio di milioni). Interessante, invece, seguire come è stato effettuato il conteggio dei voti, con una procedura spettacolare e macchinosa, ben descritta nell'articolo pubblicato dalla Stampa dell'11 giugno. Tutto accade a Montecitorio, nella Sala della Lupa. I valletti della Camera dei deputati indossano la tenuta delle grandi occasioni: frac, farfallino bianca, bracciali tricolori e tosoni di metallo dorato. Un tavolo a ferro di cavallo è riservato ai presidenti e ai consiglieri di sezione di Cassazione. Le poltrone che gli stanno di fronte, al governo e ai giornalisti. Sul tavolo sono collocate due macchine calcolatrici, quella di destra riservata alla monarchia, quella di sinistra alla repubblica. Nel pomeriggio, a poco a poco, la sala si anima: entrano i giornalisti, arriva uno stinto tricolore che si dice sia quello della Repubblica romana del 1849, si accomodano gli ufficiali della Commissione alleata che masticano chewing gum e commentano l’antichità degli arazzi medicei appesi alle pareti. Quando giunge Vittorio Emanuele Orlando, possibile presidente della Repubblica, viene soffocato un tentativo di applauso. Alle 18 tutti in piedi: entra la Cassazione. Subito dopo vengono portati in sala i sacchi con i verbali e le schede provenienti da tutta Italia. Dalle sezioni del Nord arrivano sacchi delle poste della Repubblica sociale, dall’Emilia agricola sacchi che in precedenza avevano contenuto grano e farina, da Roma niente sacchi, ma plichi a mano, le schede di Napoli, invece, sono rinchiuse in sacchi per la monnezza. Si procede leggendo i dati dei verbali e con i “calcolatori” (il termine è riferito agli addetti alle macchine calcolatrici, non alle macchine stesse) che aggiungono cifra dopo cifra fino a ottenere i totali (ma non si fidano dei loro marchingegni e rifanno i conti a mano). Alla fine la somma dà 12 milioni 600 mila e rotti per la repubblica e 10 milioni 600 mila e rotti per la monarchia. Il risultato dovrebbe essere chiaro, ma invece rimane sospeso in una specie di limbo: i liberali (pro monarchia; i primi due presidenti della Repubblica, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi saranno entrambi liberali ed entrambi monarchici) hanno presentato un ricorso sulle schede bianche e nulle. Vanno considerate voti validi o no? La Corte di Cassazione opterà per non considerarli validi, ma anche se avesse deciso il contrario, il risultato finale non sarebbe cambiato: i voti nulli saranno 1.498.136 e quindi non avrebbero potuto inficiare il margine di due milioni per la Repubblica (ammesso e non concesso che fossero tutte schede di monarchici). L’incertezza, però, provoca tensione. La Cgil decide che ha vinto la Repubblica e proclama un giorno di festa. A Napoli, città che ha dato la maggioranza alla monarchia, gruppi di sostenitori di casa Savoia cercano di assaltare la sede del Pci che espone un tricolore senza lo scudo crociato sabaudo. Con prosa retorica, così La Stampa conclude l'articolo dell'11 giugno (che non è firmato, ma solo siglato “a.”): «Le grida degli strilloni [dei giornali] si confondono con i canti rivoluzionari dei cortei, con le canzoni dei gruppi monarchici. In quest'aria mossa e riscaldata non soltanto dal fiato della sera estiva crepitano i motori delle autoblinde in corsa dietro il lungo lamento delle loro allarmanti sirene». La Repubblica sarà proclamata soltanto il 18 giugno alle ore 18, dalla Corte di Cassazione, nella medesima Sala della Lupa. E così il 2 giugno diventa così Festa della Repubblica.

2 giugno 1946: come andò veramente il referendum istituzionale monarchia repubblica. Giovanni Bortolone intervistato da Giovanna Canzano 04/02/2008. Fonte: politicamentecorretto.

CANZANO. Come giudichi il libro del prof. Aldo Mola: “Declino e crollo della monarchia in Italia?”

BARTOLONE. E’ un’opera molto importante perché contribuisce a far chiarezza, alla luce di nuovi documenti della Corte di Cassazione, sul referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Ci sono molti dubbi sulla vittoria della repubblica. Per molti la repubblica è nata nel sangue e nella truffa. Altri aggiungono grazie ad un colpo di stato commesso dal governo, in un clima di guerra civile strisciante. Il ritorno alla democrazia non significò il suffragio universale. Moltissimi, troppi, italiani furono privati del diritto di voto. 

CANZANO. Puoi spiegarti meglio? Si dice che il voto fu regolare, a parte qualche disfunzione dovuta al lungo periodo di non voto, dovuto alla dittatura, ai registri elettorali non aggiornati, all’inesperienza degli scrutatori e dei presidenti di seggio ecc. 

BARTOLONE. Andiamoci in ordine. Il referendum si svolse in un Italia sconfitta, che avrebbe firmato qualche mese dopo il trattato di pace, il famoso Diktat. Era un'Italia ancora sotto il controllo di un governo militare straniero d’occupazione. In intere regioni dell’Italia centro-settentrionale, dove il predominio delle sinistre era assoluto, non si tenne nessuna manifestazione monarchica. 

CANZANO. Vuoi dire che in qualche modo la sinistra non ha permesso manifestazioni di propaganda elettorale?

BARTOLONE. Propagandare il voto per la Monarchia avrebbe significato esporsi a rappresaglie, minacce e violenze d’ogni tipo. In queste zone operavano ancora le “volanti rosse”, che quasi impunemente assassinavano gli avversari politici nei numerosi “triangoli della morte”. Nella stessa Roma le manifestazioni di massa monarchiche, come ad esempio quella del 10 maggio 1946, erano assaltate dagli “ausiliari di Romita”, ex partigiani inquadrati nella polizia. A Napoli i cortei monarchici erano attaccati a colpi di bombe a mano come accadde in Via Foria il 15 maggio 1946. 

CANZANO. Come si svolsero le operazioni di voto? 

BARTOLONE. Vero è che il 2 giugno si votò nella massima calma. Ma il clima delle settimane precedenti era stato, per dirla con il socialista Pietro Nenni: “O la repubblica o il caos”. Il ministro comunista delle Finanze, Mauro Scoccimarro, parlando a Frascati minacciò la rivoluzione in caso di vittoria monarchica al referendum. Sandro Pertini chiedeva la fucilazione del Luogotenente Umberto di Savoia. In molti benpensanti per evirare il caos decisero di votare repubblica. 

CANZANO. Però il 2 giugno votarono per la prima volta tutti gli italiani. 

 BARTOLONE. Non è vero. E’ falso. E’ un’altra leggenda da sfatare. Vero è che per la prima volta poterono votare le donn e per elezioni politiche. Per favorire la vittoria della repubblica, il governo composto nella quasi totalità di repubblicani, emise un decreto legislativo, il numero 69/1946, contrario Re Umberto – dalla caduta del fascismo al 1948, il governo godeva anche del potere legislativo – nel quale si privavano del diritto di voto gli abitanti della Venezia Giulia, della Dalmazia e dell’Alto Adige. Questi cittadini sarebbero stati consultati “con successivi provvedimenti”. In altre parole mai più. Si dimenticarono della Libia – allora territorio metropolitano. I cittadini italiani residenti in Libia furono privati del diritto di voto. Forse erano già convinti di cedere queste parti del territorio nazionale a stati esteri, oppure pensavano che gli abitanti potessero votare “Monarchia”, ritenendo che un'Italia monarchica potesse difendere meglio la permanenza delle loro terre all’Italia. Meglio non rischiare, fac endo votare questi cittadini italiani. Furono inoltre esclusi dal voto i prigionieri, gli sfollati, gli epurati. Gli epurati erano coloro che essendosi compromessi con il Regime, furono privati del diritto di voto. Idem i loro familiari. Ma chi, a parte una piccola minoranza, non si era compromesso col Fascismo durante il Ventennio? Non è contraria ad ogni civile principio di civiltà giuridica una legge con effetto retroattivo in materia penale? E i loro familiari che colpa avevano? Nei comuni c’era molta faziosità. Molti degli esclusi dal voto non erano fascisti, ma erano monarchici. In totale furono privati del diritto di voto circa il 10 percento degli italiani, esclusi i “libici”.

CANZANO. Però la repubblica ottenne la maggioranza dei voti. 

BARTOLONE. Non è detto. Il governo non comunicò in anticipo, come avviene in tutte le elezioni del mondo, il numero degli aventi diritto al voto. Anzi, secondo molti stu diosi, dalle urne non potevano venir fuori tutte quelle schede. In ogni Paese del mondo, c’è un rapporto costante tra gli aventi diritto al voto e la popolazione. I numeri sono numeri. Le leggi della demografia non lo consentono. I conti non tornano tra i “risultati” del referendum, i probabili aventi diritto al voto e la popolazione italiana del tempo. Ci sarebbero stati circa 2 milioni di voti in più nelle urne. Numerose persone ricevettero 2 o 3 certificati elettorali. Lo stesso accadde per molti defunti. Due operai comunisti impiegati ai Monopoli furono arrestati, mentre trafugavano pacchi di schede elettorali prima del voto. Prendendo per buoni i “risultati” ufficiali la repubblica avrebbe vinto per circa 250 mila voti in più rispetto al numero dei “votanti” ufficiali. Su circa 35 mila sezioni elettorali, furono presentati circa 21 mila ricorsi. Furono esaminati e respinti tutti in meno di 15 giorni. Mentre la Corte di Cassazione esaminava i ricorsi, il governo, prendendo per buoni i risultati provvisori del referendum, emise la notte del 13 giugno 1946, una dichiarazione con la quale trasferiva le funzioni di Capo dello Stato al Presidente del Consiglio in carica. Si poteva aspettare il 18, data della proclamazione dei risultati definitivi. Forse si sarebbe potuto avere una repubblica proclamata per decreto reale. Invece, forse per paura che i brogli sarebbero stati scoperti, il governo pose Umberto II di fronte al fatto compiuto. Il Re, con i risultati ancora provvisori e sub judice, fu ridotto al rango di privato cittadino e posto di fronte al dilemma: partire per l’esilio o scatenare una nuova guerra civile. Una nuova guerra civile avrebbe comportato, oltre a nuovi lutti, la probabile perdita di parti del territorio nazionale a favore della Francia, della Jugoslavia e dell’Austria e forse la secessione d’alcune regioni. In poche ore a Napoli furono raccolte decine di m igliaia di firme a sostegno di un manifesto del Movimento Separatista del Mezzogiorno d’Italia, dell’ing. Carlo Rispoli. I promotori sostenevano che con la vittoria repubblicana si era sciolto il Patto del 1860 con il quale si era accettata l’Unità d’Italia sotto la dinastia dei Savoia. Volevano ricostituire il Regno delle Due Sicilia con Re Umberto. Una simile dichiarazione emise ad Enna il 10 giugno il Movimento per l’Indipendenza Siciliana. Volevano un Regno di Sicilia con sovrano Umberto di Savoia. Incidenti, con morti e feriti, scoppiarono a Palermo, Taranto, Bari, Messina, e soprattutto a Napoli. A Napoli ci furono una dozzina di morti e moltissimi feriti. 

CANZANO. Perché a Napoli i disordini furono più numerosi? 

BARTOLONE. La situazione era particolarmente critica a Napoli. La città aveva votato per più dell’80%, in favore della Monarchia. Per controllare la situazione napoletana il governo, nel la persona del ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, non aveva trovato niente di meglio che militarizzare la città, facendovi affluire numerosi reparti di polizia ausiliaria. Questi reparti, alle dirette dipendenze dello stesso ministro, erano formati per la maggior parte da ex partigiani comunisti del nord. Da qui l’appellativo di “guardie rosse di Romita”. Usarono sempre con la mano pesante nei confronti della popolazione, considerata alla stregua di un nemico ideologico. 

CANZANO. Quale fu il bilancio? 

BARTOLONE. Il sangue a Napoli ricominciò a scorrere la sera del 6 giugno 1946, quando uno sconosciuto lanciò una bomba a mano, vicino la chiesa di Sant’Antonio a Capodimonte, contro un numeroso gruppo di giovani, reduci da una dimostrazione monarchica. Sono ferite otto persone. Una, Ciro Martino, morirà agli Incurabili. CANZANO. Come si organizzarono i napoletani? BARTOLONE. Quella stessa notte , al numero 311 di Corso Umberto I si costituisce il Movimento Monarchico del Mezzogiorno (uno dei nuclei fondatori del futuro Partito Nazionale Monarchico) e si adotta il simbolo di “Stella e Corona”. La mattina del 7 giugno, a Napoli si diffonde la notizia dell’arrivo d’Umberto. Il Re ha deciso di battersi per il suo buon diritto e ha scelto la città come suo quartiere generale. E’ un’esplosione di gioia popolare. Tutti i monarchici napoletani sono in piazza. Bisogna accogliere degnamente il Sovrano. Si forma un imponente corteo che, accompagnato dalle note solenni della “Marcia Reale” suonata da un’improvvisata banda musicale o da alti inni della Patria, avanza lungo il Rettifilo, diretto Palazzo Reale o a San Giacomo, ove si pensa che sia il Re. Si ricongiunge con il grosso concentramento degli universitari, in attesa presso la Federico II. A Piazza Nicola Amore c’è un largo, impenetrabile sbarramento di camionette degli “ausiliari di Romita”. Alla testa del corteo, che nel frattempo si è fermato dubbioso, un giovane scugnizzo di 14 anni, Carlo Russo, completamente avvolto in un grande tricolore con lo stemma sabaudo. E’armato solo di quella bandiera. E’ deciso a passare, nonostante i celerini. Avanza deciso. I mitra degli ausiliari sparano ad altezza d’uomo. Si contano molti feriti. Uno dei primi a cadere è Carlo Russo. Con la fronte squarciata, s’abbatte avvolto nel tricolore, diventato ora il suo sudario. Solo il deciso intervento dei Reali Carabinieri permetterà poi agli ausiliari di sfuggire al linciaggio della folla inferocita. Carlo Russo morirà, dopo un’atroce agonia, due giorni dopo. L’8 giugno muore lo studente Gaetano D’Alessandro, d1 16 anni. Il ragazzo stava tornando a casa dopo una manifestazione monarchica di protesta per le violenze del giorno prima. Aveva alle spalle un grande tricolore con lo stemma sabaudo. Nei pressi di Piazza dei Vergini, è fermato da una camionetta piena d’ausiliari. Gli intimano provocatoriamente di consegnare la bandiera. Il ragazzo sfugge ai poliziotti e si arrampica sul cancello di una vicina chiesa, sventolando la bandiera e gridando a squarciagola: “Viva il Re!” Alle grida accorre numerosa la popolazione, che subito circonda minacciosa la camionetta. I celerini devono abbandonare, scornati, il campo sotto un subisso di fischi e pernacchie provenienti da una schiera di giovanissimi scugnizzi. Un celerino, rabbioso, però vuole vendicarsi. Con fredda determinazione, con una raffica di mitra uccide il ragazzo ancora aggrappato al cancello. Nel cadere, il suo corpo si avvolge in quel tricolore che ha difeso a con la vita. Ora anch’egli ha una bandiera per sudario.

 CANZANO. Ci furono ancora molti morti per la bandiera tricolore? 

BARTOLONE. L’11 giugno è una giornata di passione e di sangue. Al balcone della Federazione del PCI di Via Medina, accanto alla consueta bandiera rossa con falce e martello, è esposta una strana bandiera tricolore. Si vede l’effigie di una testa di donna turrita nel campo bianco al posto del tradizionale stemma sabaudo. Per Napoli, che ha votato per l’80% Monarchia, è una vera e propria provocazione. Fulminea si sparge la notizia per la città. A migliaia, spontaneamente, si dirigono a Via Medina. La stragrande maggioranza è composta di giovani e giovanissimi. In molti hanno partecipato con coraggio nel 1943 alle cosiddette “quattro giornate “contro l’occupazione tedesca. Qualcuno ha le stesse armi di allora: pietre, solo pietre. L’obiettivo è: strappare e distrugge quel vergognoso vessillo, poi si tornerà festeggiando a casa. Dall’altra parte c’è qualcuno però che ha deciso di farla finita una volta per sempre e di soffocare nel sangue le proteste popolari. In Via Medina ora, oltre le camionette, vi sono decine di blindati e celerini in assetto di guerra. La sede comunista è difesa da numerosi militanti armati. I primi gruppi di dimostranti appena arrivati, rovesciano i tram per rendere difficoltosi i micidiali caroselli degli automezzi della Celere. Seguono salve di fischi, urla, insulti all’indirizzo della bandiera esposta. Poi un giovane marinaio di leva, Mario Fioretti, aggrappandosi ai tubi e alle sporgenze inizia a scalare il palazzo della federazione per arrivare al 2° piano e asportare quella bandiera. In minuto è quasi giunto al drappo conteso. Basterà allungare la mano, impadronirsene e tutto sarà finito. Da una finestra della federazione comunista però spunta un braccio armato di pistola, che a bruciapelo spara sul giovane marinaio. Mario Fioretti stramazza cadavere sul selciato, mentre dai presenti si levano urla d’orrore e di rabbia. Altri giovani, per nulla spaventati dalla morte del loro coetaneo, cominciano anch’essi la scalata verso quel balcone. Un gruppo di dimostranti duramente contrastato da un gruppo di celerini, cerca di guadagnare le scale per salire al piano superiore. Tra poco i dimostranti avranno la meglio, ma dalla caserma di polizia, posta quasi di fronte al palazzo assediato, s’incomincia a sparare contro i nemici che sono quasi arrivati alla bandiera. Sparano per uccidere. Cadono uno dopo l’altro e si sfracellano a terra: Guido Bennati, Michele Pappalardo, Felice Chirico. Michele Pappalardo doveva sposarsi l’indomani e invece della fidanzata è andato a sposarsi con la morte. Aveva detto alla madre: “Mammà piglio ‘a bandiera e po’ torno…’ Una bandiera tricolore con lo scudo sabaudo diventa il suo sudario. A Via Medina scoppia l’inferno. I feriti si contano a decine. Muore in un lago di sangue, sempre colpi to da pallottole, l’operaio monarchico Francesco D’Azzo. Le autoblindate della Celere hanno avuto finalmente ragione delle rudimentali barricate, alzate dai monarchici, e stanno per avventarsi con i loro terribili caroselli sui dimostranti, quando la studentessa Ida Cavalieri fa barriera col proprio corpo inerme nel disperato tentativo di fermarne la corsa. L’ordine è disperdere la folla, costi quel che costi. A Napoli, quel giorno, la vita umana non vale niente. Così Ida Cavalieri è stritolata dagli automezzi repubblicani. Non accade il miracolo di Piazza Tienanmen, a Pechino. Un appartenente alla Regia Marina, Vincenzo Guida cerca di organizzare la resistenza, innalzando una grande bandiera sabauda su di un palo. E’ colpito mortalmente alla nuca da un colpo di un moschetto, sparato da un celerino. Quando la strage è finita arriva la polizia militare americana che, insieme ai Reali Carabinieri, a stento riesce a sottrarre i celer ini e gli attivisti comunisti alla collera popolare. Alla fine della tragica giornata di sangue, si conteranno, oltre i morti circa 50 feriti gravi. Tra questi ultimi, tutti colpiti da armi da fuoco, Gerardo Bianchi di 15 anni, Alberto De Rosa di 17, Gianni Di Stasio di 14, Antonio Mariano di 12, Giovanni Vibrano di 11, Raffaele Palmisano di 10 e Tino Zelata di 8. Gli altri feriti avevano in media 20-30 anni. 

CANZANO. Che successe dopo? 

BARTOLONE. Il Re partì. Non voleva avere sulla sua coscienza di cattolico osservante i lutti di una nuova guerra civile e la fine dell’Unità nazionale conquistata durante il Risorgimento. Vi furono promesse e pressioni sulla Cassazione. Alla fine fu accolta a maggioranza, 12 contro 7, compreso il voto favorevole alle tesi monarchiche del presidente della Corte, Giuseppe Pagano, sostenute dal parere favorevole del procuratore generale Massimo Pilotti, la tesi repubblicana: è “votante” solo colui il quale abbia compiuto “una manifestazione positiva di volontà”. In pratica un milione e mezzo circa di votanti, in bianco o nulli, non avevano votato. Sicché la presunta maggioranza per la repubblica si ridurrebbe a 200 mila voti circa. La prova inconfutabile che fu un colpo di stato, è desumibile dalla Gazzetta ufficiale della repubblica italiana del 1° luglio 1946. Pubblicando il decreto del passaggio dei poteri di Capo dello Stato da De Gasperi a De Nicola, si precisò che De Gasperi deteneva tali poteri dal 18 giugno, cioè dal giorno in cui la Corte emise la sentenza definitiva. 

BIOGRAFIA. Giovanni Bartolone, nasce a Palermo nel 1953, ove insegna Diritto ed economia nelle Superiori. Vive a Bagheria (PA). E’ laureato in Scienze Politiche, indirizzo Politico Internazionale, con una tesi sul Referendum istituzionale del 1946. E' da molti anni impegnato in ricerche sulla II guerra mondiale, il Fascismo, il Nazionalsocialismo, il fenomeno della mafia, la Sicilia dallo sbarco Alleato alla morte di Salvatore Giuliano. Ha pubblicato nel 2005 a sue spese il libro “Le altre stragi”, dedicato alle stragi alleate e tedesche nella Sicilia del 1943/44 e il saggio Luci ed ombre nella Napoli 1943-1946, ISSES, Napoli, 2006. 

I brogli del referendum della Repubblica.

Il senso della democrazia secondo i resistenti antifascisti:

Assoluta assenza della par conditio e il palese condizionamento dei media nel nord Italia. La campagna elettorale fu a senso unico, con la stampa del nord apertamente repubblicana, mentre i giornali al sud erano poco diffusi. Re Umberto era il solo a fare campagna elettorale per i monarchici, senza propaganda, effettuata solo con la propria presenza. I manifesti per la monarchia affissi sulla pubblica via, quando non erano strappati, erano inutili dato l'alto tasso di analfabetismo.

L'intimidazione diffusa. Le voci fuori dal coro non erano tollerate ed erano sconsigliati i comizi di piazza della parte monarchica, mentre le piazze erano continuamente piene con innumerevoli eccelsi oratori di tutti i rispettivi partiti antimonarchici. Le ritorsioni contro i commercianti e gli imprenditori erano all'ordine del giorno.

La minaccia della guerra civile in caso di vittoria dei monarchici. Il fronte antimonarchico era già dilaniato nel suo interno, mentre era già martoriato tra fascisti ed antifascisti.

I brogli, o presunti tali, erano superflui in tale clima di condizionamento dove la vittoria era imperativa per i repubblicani. Il fatto che si parli di brogli, comunque, mina la fiducia nell'esito finale. Atto di nascita di una Repubblica già difettata.

Nascita della Repubblica Italiana. Alessio Bellè  10 Marzo 2016. La fine della Monarchia in Italia passò attraverso l’evento storico del referendum del 2 giugno 1946 cha sancì la nascita della Repubblica Italiana. Facciamo prima un passo indietro: l’Italia del 1945 era un paese cosparso di macerie, sovrastato dall’orribile spettacolo di piazzale Loreto, minacciato dalla carestia che fu prevenuta grazie all’intervento degli americani i quali, con le loro navi, trasportarono dei beni come il grano; ma, nonostante tutto, la voglia e la grinta per ripartire nel migliore dei modi fu notevole.

Indebolimento della Monarchia. La crisi della Monarchia dei Savoia fu uno dei temi più gettonati poiché, dalla metà del 1943 in poi, il Re Vittorio Emanuele III iniziò a perdere decisamente il consenso; ma egli fu ostinato, non si accorse che ormai la Monarchia stava per crollare e anzi, fu convinto di essere il solo a poter risollevare le sorti dell’Italia, rifiutando consigli e quant’altro, perché in quel momento iniziò a disprezzare tutti, a cominciare dal figlio Umberto II.

Monarchia o Repubblica? Dopo la fine della guerra, fu nominato capo del governo l’antifascista Ferruccio Parri, succeduto il 10 dicembre 1945 da Alcide De Gasperi. Con l’entrata in scena dello statista trentino cresciuto nel parlamento di Vienna, un dilemma dominava le prospettive future: Monarchia o Repubblica. La fine del consenso monarchico, per molti, si ebbe quando vi fu la cosiddetta “fuga di Brindisi”, durante la quale il Re Vittorio Emanuele III e il maresciallo Badoglio (in quel periodo capo del governo), abbandonarono Roma ormai in preda ai tedeschi per non cadere come loro prigionieri. I monarchici giustificarono sempre questo gesto, difendendo il Re che voleva assicurare la continuità dello Stato e della Monarchia; altri, invece, pensarono che se il Re, o chi per lui, in questo caso il principe ereditario Umberto II (che si era proposto di rimanere a Roma ad affrontare i tedeschi, ma si vide negata tale possibilità dal re) fosse rimasto a Roma ed eventualmente fosse stato fatto prigioniero dai tedeschi, assumendosi le proprie responsabilità, probabilmente, gli italiani avrebbero apprezzato e anche premiato questo gesto votando Monarchia per il Referendum del 2 giugno 1946.

Il Referendum del 2 giugno 1946. Questa appunto, fu la data decisiva che scelsero per decidere le sorti dell’Italia; si svolsero delle campagne elettorali, la stampa del nord fu maggiormente repubblicana, mentre quella del sud prettamente monarchica e la sfortuna della Monarchia fu che il solo Re, Umberto II (divenuto Re fino al Referendum dopo l’abdicazione inevitabile del padre che finalmente arrivò) era l’unico propagandista; invece, per la Repubblica scesero in campo le piazze, furono fatti degli slogan molto decisi, come quello di Nenni, “o la Repubblica o il caos” e il che aveva un fondo di verità poiché, se la monarchia avesse perso per qualche voto, non sarebbe insorto nessuno perché del tutto moderati, ma, se la Repubblica avesse perso per qualche voto, probabilmente ci sarebbero state delle insurrezioni. Quasi tutte le forze politiche antifasciste erano a favore della Repubblica. Anche nella Democrazia Cristiana, ove le posizioni erano alternanti, si decise di appoggiare, sotto la spinta di De Gasperi; invece, i Liberali si ritrovarono in posizioni discordi tra di loro. L’esito del voto lo si conobbe il 10 giugno 1946, con lo spoglio delle schede: la repubblica ebbe 12.717.923 votanti, mentre la monarchia 10.719.284.

Il sospetto di brogli elettorali. Al giorno d’oggi, ma anche in quello stesso periodo, ci si chiede se questo referendum fu leale o adulterato: molti pensarono che vi furono dei brogli in favore della Repubblica, poiché il Re Umberto II contestò, invocando la vidimazione dei risultati presso la corte di cassazione, che aveva bisogno di molto tempo per verificare la validità delle schede autenticate. Per De Gasperi il tempo d’attesa poteva essere pericolosissimo, in quanto la permanenza di Umberto in Italia poteva provocare una divisione ancora più marcata tra repubblicani e monarchici ed inoltre si temettero degli scontri che avrebbero potuto provocare delle guerre civili, per cui il governo, dapprima, supplicò Umberto di lasciar l’Italia e di aspettare l’esito della corte di cassazione presso il luogo del suo esilio (questo giudizio non arrivò mai). Sembrerebbe inoltre che si arrivò quasi alle minacce e dunque, Umberto, comprendendo il pericolo che poteva comportare la sua permanenza, decise di andar via. Umberto II fu il primo Re di un grande paese ad essere deposto dal trono senza tumulti e subbugli. Il tutto fu deciso dal popolo, attraverso la depositazione delle schede sulle urne; si aprì dunque una nuova pagina per lo Stato italiano. Un paese che poteva sembrare spaccato si riunì in poco tempo, accantonando la monarchia che era rimasta ormai come un fatto storico ma nostalgico per alcuni.

La nascita della Repubblica Italiana, l’assemblea costituente e il primo presidente della Repubblica Italiana. Enrico De Nicola fu eletto dall’assemblea costituente come capo provvisorio dello Stato, nonché primo tra i presidenti della Repubblica Italiana. L’assemblea costituente era formata dal 35% dai democristiani, 21% dai socialisti e dal 19% dai comunisti, costituita da 75 uomini, divisi successivamente in sottogruppi, ciascuno dei quali aveva delle competenze specifiche per redigere il testo che è caratterizzato da 139 articoli, definendo inoltre le caratteristiche dello Stato italiano: repubblicano, democratico, fondato sul lavoro, parlamentare, decentrato e non confessionale, poiché fu dichiarato che lo Stato sarebbe divenuto Laico.

Buon compleanno. Gianni Dell'Aiuto 2 giugno 2019. Due giugno 1946, referendum istituzionale per la scelta tra monarchia e repubblica. Compleanno e festa nazionale di una Repubblica che con i suoi 73 anni può essere considerata ancora giovane, nata dalla scelta elettorale democratica cui parteciparono anche le donne. Una novità epocale che giungeva al termine non solo del secondo conflitto mondiale da cui l’Italia doveva ancora sollevarsi, ma anche nel pieno di una vera e propria guerra civile i cui effetti, forse, si risentono ancora oggi. Ma il due giugno 1946 gli italiani si recarono alle urne, dopo un ventennio di dittatura in cui le voci fuori dal coro non erano tollerate.  Il referendum era stato previsto in un Decreto Luogotenenziale già nel giugno 1944, quando il Governo Bonomi recepì l’accordo con le forze che formavano il CNL  e sottopose alla firma di Umberto di Savoia, non ancora Re, bensì luogotenente del Regno, il risultato di quella che è definita la Svolta di Salerno: voto popolare sulla scelta della forma di governo e assemblea costituente. Si compiva forse la realizzazione del sogno di Mazzini, che voleva un’Italia unita e democratica; un progetto per l’epoca ambizioso che si scontrò contro Cavour e il Regno di Sardegna. Non andò meglio al progetto federalista di Carlo Cattaneo, e nel 1946 si affrontarono le elezioni ancora con lo Statuto Albertino che stava per compiere un secolo di vita. Quasi venticinque milioni di italiani esercitarono il loro diritto al voto. Quasi l’ottanta per cento. Viene tristezza pensare a simili percentuali, che oggi sembrano quasi impossibili da raggiungere. Gli elettori di quel giorno si erano guadagnati quel diritto sopravvivendo al fascismo e alla guerra, ed erano consapevoli che, anni prima, era loro impedito di esprimere un’opinione o, al massimo, accettare l’unica lista a disposizione. La stessa cosa che accade oggi in Cina o Corea del Nord e avveniva nell’Unione Sovietica Staliniana. In una barzelletta popolare dell’epoca le elezioni in Russia erano paragonate al momento in cui, nel Paradiso Terrestre, Dio creò Eva e disse ad Adamo “Scegli una compagna.” Nella nascente nuova Italia, vi era almeno un menù che offriva più alternative e gli elettori, oltre alla scelta tra Monarchia e Repubblica, avrebbero anche votato per l’Assemblea Costituente. I principali partiti erano la Democrazia Cristiana, nata anche della revoca del Non Expedit di Pio IX da parte di Benedetto XV; il fronte delle sinistre rappresentato dal Partito Comunista e dai socialisti. Fu la prima ad ottenere la maggioranza dei rappresentanti nel nuovo organismo, forse un po’ a sorpresa rispetto alle aspettative dei comunisti. Vittorio Emanuele Terzo, nel frattempo, aveva abdicato e lasciato il trono al figlio Umberto, il Re di Maggio, tanto durò il suo regno. Una scelta con forti fini di propaganda e volta ad incidere sull’esito del voto. La sua figura era sicuramente compromessa a più livelli: non solo per avere permesso la nascita e la presa del potere del fascismo, con ciò che ne era conseguito, ma anche per il suo comportamento dopo l’armistizio e la fuga da Roma. Se per molti aspetti, a cominciare dalla salvaguardia delle persone era opportuna, probabilmente da molti italiani non gli era stata perdonata. Vinse la Repubblica. Circa due milioni di voti fecero la differenza. Al nord la maggioranza andò alla Repubblica; anche in Piemonte, regione che si presumeva a maggioranza monarchica. De Gasperi Capo provvisorio dello Stato e definitiva uscita di scena dei Savoia, con l’esilio del Re in Portogallo. Umberto mai abdicò e, in tal senso, si può dire che continuò a dare un’immagine non positiva di Casa Savoia, iniziata con la scelta decisamente inopportuna di suo nonno Vittorio Emanuele Secondo di non voler essere il Primo re di Italia, volendo significare un ruolo preminente del Regno di Sardegna nelle vicende risorgimentali. La campagna elettorale fu quasi a senso unico, con la stampa del nord apertamente repubblicana mentre i giornali al sud erano poco diffusi. Forse anche questo incise.

Vi furono brogli? Oggi si può dire di no. Anche chi, come Indro Montanelli dichiarò di avere scelto la Monarchia, riconosce la legittimità della vittoria repubblicana. Il successivo 18 giugno la Corte di Cassazione, e non all’unanimità, respingendo i ricorsi dei monarchici riconobbe la vittoria mettendo quindi il sigillo definitivo alla nascita della Repubblica. Ma la festa nazionale, e il compleanno dell’Italia, giustamente vengono festeggiati il giorno in cui gli Italiani poterono finalmente esprimere il loro voto. Reazioni in tutto il mondo ma, tra le tante, spicca quella del Times di Chicago che volle porre in evidenza come il popolo italiano avesse trovato un nuovo modo per mandare via un Re. Osservazione che deve far riflettere su come una democrazia, se ben utilizzata, può portare gli stessi risultati, e senza violenza, di rivoluzioni e violenze. Come concludere? Semplicemente buon compleanno Italia. Nonostante quella che nacque poco ha a che vedere con quella di allora. Ma, come detto all’inizio, è una Repubblica Giovane che può ancora crescere. Se gli elettori di oggi si comporteranno come quelli di allora.

Referendum del 1946, Scalfari: "Perché votai per il re". Il ricordo del fondatore de 'la Repubblica', che all'epoca aveva 22 anni. "Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano". Simonetta Fiori il 29 maggio 2016 su La Repubblica. "Perché ho votato per la monarchia? Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano". Era già maggiorenne Eugenio Scalfari il 2 giugno del 1946. Ventidue anni, neolaureato in Giurisprudenza, appassionato lettore del filosofo napoletano. Quel referendum segnò la storia d'Italia ma anche la sua storia personale, l'ingresso nell'età adulta che l'avrebbe condotto nel cuore della vicenda repubblicana. Seduto sotto un prezioso dipinto veneziano, nella luce della sua casa affacciata sui tetti di Roma, s'abbandona a un racconto dove la vita privata scivola fatalmente in quella pubblica, e viceversa.

Così il futuro fondatore de "la Repubblica" scelse la monarchia.

"Croce era convinto che l'istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. Per molti cattolici l'Italia era 'il giardino del Vaticano'".

Temevate l'egemonia scudocrociata?

"Sì, ne discussi anche con Italo Calvino, che votò per la Repubblica. Lo ricordo bene perché fu l'ultima lettera, quella che chiuse il nostro scambio epistolare".

Fu questo voto divergente a intiepidire i rapporti?

"No, più semplicemente si era esaurita l'intimità adolescenziale. Eravamo ormai due persone adulte con una diversa esperienza alle spalle: Italo aveva fatto la guerra partigiana in Liguria; io ero rimasto a Roma dove la Resistenza era quella dei Gap, agguerrite formazioni comuniste a cui ero estraneo. Così per ripararmi dai tedeschi avevo trovato rifugio dai gesuiti, alla Casa del Sacro Cuore in via dei Penitenzieri. Rimasi lì dal marzo alla fine di aprile del 1944: un mese e mezzo di esercizi spirituali durissimi, fatti in ginocchio con le mani davanti agli occhi".

È per questo che poi avresti trovato un'intesa con papa Francesco?

"Ma no, io mi ero fermato dai gesuiti per ragioni di necessità. Quando l'ho raccontato al Papa, è rimasto sorpreso dalla durata degli esercizi. "Ma le saranno venuti i ginocchi della lavandaia", mi ha detto sorridente. "Santità, peggio: in quelle condizioni, a terra e con gli occhi mortificati, a molti di noi venivano i cattivi pensieri". "Beh, il minimo che potesse capitare".

Insomma, il tuo vissuto era diverso da quello di Calvino.

"Sì, ma non eravamo distanti. Anche Italo temeva una preponderanza democristiana, ma era convinto che il quadro politico si sarebbe evoluto in meglio. Però non riuscì a convincermi".

Anche Luigi Einaudi votò a favore della monarchia per poi diventare due anni dopo presidente della Repubblica.

"Era un liberale, come lo ero io. In realtà eravamo repubblicani. E infatti subito dopo il voto mi sentii lealmente schierato con la Repubblica".

Ma non fu subito chiaro a chi appartenesse la vittoria.

"In un primo momento circolò la voce che avessero vinto i monarchici: al Sud il loro voto era stato di gran lunga prevalente. C'era una grande confusione, anche il timore che la votazione non si fosse svolta in modo regolare".

Hai mai creduto all'ipotesi dei brogli orditi per favorire la Repubblica?

"Mah, il sospetto fu smentito con prove".

Un "miracolo della ragione", così Piero Calamandrei accolse la vittoria repubblicana. Fece notare la novità storica: non era mai avvenuto che una Repubblica fosse proclamata per libera scelta di un popolo mentre era sul trono un re.

"Sì, aveva ragione. Devo dire che io mi trovavo in una condizione molto strana. In fondo mi consideravo anche io un miracolato. E a salvarmi, tre anni prima, era stato il vicesegretario del partito nazionale fascista. Nell'inverno del 1943 ero ancora fascista, come la massima parte dei miei coetanei. Ed ero contento di esserlo, tra mitografie imperiali, la divisa littoria che piaceva alle ragazze, il lavoro giornalistico su Roma fascista. Finché fui cacciato dal Guf per un articolo in cui denunciavo una speculazione dei gerarchi. Se Carlo Scorza non mi avesse espulso, avrei vissuto il post-fascismo da fascista".

Avresti potuto scoprire il tuo antifascismo in altro modo.

"Fu dopo la cacciata dal Guf che cominciai a gravitare negli ambienti più illuminati di Giuseppe Bottai, fucina del dissenso per molti antifascisti".

Ti ho chiesto del voto referendario. Ma com'era l'Italia del Dopoguerra?

"Un Paese massacrato che però voleva dimenticare le ferite della guerra. Per rilanciare il turismo il governo consentì l'apertura di case da gioco. L'organizzazione di molte sedi dipendeva da mio padre, così gli proposi di occuparmene. "Sei matto?". Alla fine riuscii a convincerlo. E nel giugno del 1946 ottenni il mio primo lavoro: direttore amministrativo del casinò di Chianciano. Grande divertimento, due smoking con giacca nera e bianca. E anche il dinner jacket che mi faceva sentire una specie di Cary Grant".

Durò solo quattro mesi e poi la tua vita sarebbe stata molto diversa. Se dovessi scegliere un volto per illustrare una tua storia della Repubblica di questi settant'anni?

"Domanda imbarazzante. Però non mi sottraggo: i busti di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti".

Il simbolo più alto del riformismo italiano. Ma è vero che il primo governo di centrosinistra ebbe vita nel salotto di casa tua?

"Non esageriamo. Però è vero che nel 1963, agli albori di quella nuova stagione, ospitai una sera a cena Riccardo Lombardi, mio carissimo amico, e Guido Carli, allora Governatore della Banca d'Italia. Lombardi era stato incaricato da Nenni, vicepresidente del Consiglio, di preparare le grandi riforme. Così venne a casa per sottoporre a Carli alcune di quelle proposte - la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la riforma dei suoli urbani e la nominatività dei titoli - ma ricevette un sacco di critiche, specie sulle due ultime questioni. Lombardi era arrivato da noi molto prima di Carli: non riusciva a camminare perché gli si era rotta una stringa delle scarpe. Quindi la nostra prima preoccupazione fu risolvere il problema dei lacci".

Poi quella stagione riformista tramontò. Qual è stata l'altra grande occasione mancata della storia repubblicana?

"La grande riforma che aveva in mente Moro: rifondare lo Stato con l'indispensabile appoggio del partito comunista. I colpi di mitra dei brigatisti glielo impedirono. Pochi giorni prima del sequestro mi aveva mandato a chiamare. Non ci sentivamo da dieci anni perché lui mi aveva fatto condannare ingiustamente al processo per la campagna dell'Espresso contro il golpe del generale De Lorenzo. Ma fu un colloquio molto denso. E io ne avrei pubblicato il resoconto dopo la sua morte".

Con gli inquilini del Quirinale hai avuto rapporti alterni, molto polemici - Segni e Leone - o molto amichevoli, ad esempio con Scalfaro, Ciampi e l'attuale presidente Mattarella. Con chi hai avuto maggiore intimità?

"A Pertini mi legava un'amicizia perfino imbarazzante, che il presidente ostentava senza reticenza. Interveniva per telefono anche alle riunioni mattutine de 'la Repubblica', e la sua voce energica portava allegria. Con Francesco Cossiga invece era finita malissimo. Quando era presidente del Consiglio, ogni mercoledì mattina, avevamo l'abitudine di fare la prima colazione insieme. E l'amicizia durò anche al Quirinale, finché cominciò a togliersi i famosi "sassolini dalla scarpa". Dopo le due prime esternazioni, gli chiesi di essere ricevuto con la massima urgenza. "Non puoi smantellare i principi del patto costituzionale, tu sei il garante della Carta". E lui non volle più vedermi. Soffriva di ciclotimia, psichicamente fragile".

E il rapporto con Giorgio Napolitano?

"Nel corso della sua presidenza l'ho sempre sostenuto, ma non quando ha tollerato in silenzio la pugnalata di Renzi contro Letta. Tra noi c'è un rapporto di amicizia, che non comporta essere d'accordo su tutto: sull'attuale riforma costituzionale abbiamo pareri molto diversi".

Direttore, un'ultima domanda azzardata. Ma non è che nella scelta del nome "la Repubblica" per il tuo giornale abbia inciso anche il desiderio inconsapevole di espiare il voto monarchico di trent'anni prima?

"Ma no, me l'ero scordato del tutto. Scelsi il nome 'la Repubblica' perché volevo dare al giornale un carattere politico e nazionale. Il voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei ridiventato subito dopo".

Quando io votai repubblica e Montanelli monarchia. Il 2 giugno 1946 gli italiani furono chiamati alle urne per scegliere la forma di governo e per eleggere l’Assemblea Costituente. Mario Cervi, Mercoledì 31/05/2006, su Il Giornale. Agli appunti personali di Paolo Monelli sul referendum istituzionale del 2 giugno 1946 - oggi pubblicati per la prima volta nel nuovo numero della rivista Nuova storia contemporanea - sono molto interessato per più d’un motivo. Il primo è che ho una fiducia illimitata nell’onestà e nella precisione di Monelli come giornalista e come storico. Ho avuto la fortuna d’essergli amico, benché appartenessimo a due generazioni diverse, e conservo di lui un ricordo straordinario. Dietro lo snobismo del monocolo c’era un uomo generoso fino all’ingenuità, e uno scrittore di raro talento. Considero Roma 1943 un capolavoro. Le note che Monelli prese per una sua inchiesta sulla travagliata nascita della repubblica hanno l’impronta della genuinità. Il secondo motivo è che la narrazione delle vicende che precedettero e seguirono quel 2 giugno fatidico avrebbe potuto porre a Montanelli e a me, nel volume a quattro mani L’Italia della Repubblica, un problema che era insieme personale e professionale. Nel referendum Montanelli aveva votato monarchia, io Repubblica. Monarchia, lui, non perché sottovalutasse gli errori e le viltà di Vittorio Emanuele III ma perché se rinnegava la monarchia «l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità». Repubblica, io «per punire il Re che aveva accettato il fascismo, subìto la guerra, e poi era fuggito abbandonando il Paese e l’esercito al loro destino». Ma poi ci accorgemmo, nella stesura del libro, che le due opposte decisioni erano derivate da valutazioni compatibili. Scrivemmo: «I voti che la Monarchia ebbe non erano tutti propriamente monarchici. Erano, in particolare al nord, voti di moderati i quali ritenevano che dopo tanti sconvolgimenti la monarchia rappresentasse tuttora un’ancora solida, un simbolo di continuità e stabilità». Il terzo motivo sta nel tema - dai monarchici continuamente evocato e attizzato - dei brogli cui il ministro dell’Interno Giuseppe Romita avrebbe fatto ricorso per dare la vittoria alla Repubblica. Cercavo nei “frammenti” di Monelli, e nei suoi colloqui con personaggi di primo piano del drammna istituzionale, nuovi elementi di valutazione. Li ho trovati (forse il “nuovi” sarà da qualcuno contestato perché nella immane congerie di interviste, memoriali, dichiarazioni riguardanti il 2 giugno e la disputa sui risultati può essere trovato tutto e il contrario di tutto). Sta di fatto che nelle parole di alcuni esponenti monarchici la tesi dei brogli si attenua o sfuma. Non è che le «carte Monelli» cambino il profilo degli avvenimenti, e la caratterizzazione dei protagonisti. Umberto II è, in questi ricordi, tale e quale tutti l’abbiamo in mente: cortese, scrupoloso, diligente, un ottimo Re da ordinaria amministrazione. Ma privo d’iniziativa e di autorità. Il suo senso del dovere era formale e protocollare. Durante la «fuga di Pescara» - stando alle testimonianze - pensò coraggiosamente di tornare a Roma, e ne fu dissuaso dalla madre. Ma non risulta che lui, gratificato del ruolo di comandante del «gruppo armate sud», abbia mai domandato quale sorte avessero le armate del suo gruppo, e desse ordini per evitarne la totale disgregazione. Qualcuno ha definito i Savoia «spettatori della storia». Umberto II lo era. Quanto a De Gasperi, gli viene attribuita una propensione per la monarchia (la figlia Maria Romana ha tuttavia negato che così fosse, e raccontato che sia lei sia il padre votarono Repubblica). Credo che l’idea d’un De Gasperi sotto sotto monarchico sia ragionevole: ma il trono che rimpiangeva non era quello di Roma, era quello di Vienna.

I brogli dunque. Giovanni Artieri, giornalista insigne e fedelissimo del Re, non aveva dubbi. «Artieri è sicuro che il plebiscito sarebbe riuscito a favore di Umberto se non ci fosse stato il broglio. Egli stesso con il giornalista Vito Antonio Napoletano ha visto nelle soffitte di Montecitorio una enorme quantità di sacchi della Nettezza di Napoli pieni di schede non scrutinate, corrispondenti ai due milioni di voti scomparsi. Provenivano evidentemente dal sud, in grandissima maggioranza a favore della monarchia». Più cauto Falcone Lucifero, ministro della Real Casa: «Noi abbiamo raccolto una grande quantità di indizi a favore della teoria del broglio, ma non la prova del broglio». Ma l’attestazione più importante viene da Enzo Selvaggi, irruento segretario generale del Partito democratico italiano: uno degli attivisti monarchici che nelle ultime fasi della campagna elettorale avevano spronato Umberto ad essere - e nei limiti delle sue capacità lo fu - il propagandista di se stesso. L’esito del referendum era stato dapprima accettato dal Re, tanto che con De Gasperi aveva concordato le modalità della sua partenza. Ma alcuni giuristi sollevarono un problema procedurale. Il decreto luogotenenziale del 16 marzo precedente con il quale era stato indetto il referendum si riferiva a «maggioranza degli elettori votanti», non a maggioranza dei voti validi. Romita s’era limitato a indicare i voti per la Repubblica e i voti per la Monarchia, senza tener conto delle schede bianche e nulle. Per questa che Nenni definì «una questione da mozzaorecchi» Enzo Selvaggi chiese la messa in discussione del referendum, qualificò la attesa proclamazione della Repubblica come un «colpo di Stato strisciante», e propose di «subordinare la formazione di un eventuale governo ad un impegno di sottoporre a nuovo e regolare referendum il problema istituzionale». Per effetto della “bomba” Selvaggi la Cassazione, pur dando atto dei risultati, non annunciò la Repubblica, e Umberto II partì per l’esilio proclamando l’illegalità della procedura che l’aveva detronizzato. Selvaggi fu il nemico numero uno del referendum romitiano. Ma a Monelli disse: «Non credo ai brogli di Romita. Non credo nemmeno che avrebbero giovato molto i voti dei prigionieri che rappresentavano una incognita. Avendo girato dietro al Re in lungo e in largo l’Italia ebbi la maniera di prevedere che contrariamente alle attese Sicilia e Piemonte non sarebbero stati favorevoli alla monarchia... Non credo al broglio; un broglio così colossale avrebbe dovuto avere la complicità di troppa gente e qualche funzionario avrebbe finito col parlar chiaro. Certamente ci sono stati imbrogli e pasticci, gente che ha votato due volte, ma purtroppo questo avviene in ogni elezione italiana. È noto che i frati e le monache votano prima come corpo al convento e poi singolarmente nelle sezioni elettorali». Selvaggi concorda con il parere di molti osservatori imparziali: che cioè la Repubblica abbia vinto chiaramente, anche se contro la monarchia fu esercitata, soprattutto nell’Italia del nord, una pressione ambientale molto pesante. Il mio parere è che la monarchia non cadde il 2 giugno 1946: cadde l’8 settembre 1943, e da quel giorno la sua fu un’agonia senza speranza.

Indro Montanelli: "Il 2 giugno del '46, giorno del referendum istituzionale, votai per la monarchia. Lo feci perché ritenevo fosse pericoloso recidere il tenue filo che legava l'Italia all'unica sua tradizione nazionale: quella monarchica, appunto. L'Italia non s'era "fatta da sé", come pretendeva la nostra storiografia ufficiale. Era stata fatta dalla monarchia sabauda guidata dal genio diplomatico d'un suo diplomatico, Cavour, che voleva estendere il Regno di Sardegna al Lombardo-Veneto. Se poi ci scappò fuori l'Italia, non fu grazie al contributo degl'italiani, che non ne diedero punto. Fu perché la storia dell'Europa andava verso la costituzione degli Stati nazionali, e condannava a morte quelli plurinazionali come l'Impero austriaco. [...] Al posto di quel patrimonio, sia pure modesto, cosa prometteva la Repubblica? Si presentava come depositaria dei valori della Resistenza, un mito ancora più falso di quello del Risorgimento. Che non era stata affatto, come pretendeva d'essere, la lotta d'un popolo in armi contro l'invasore, bensì una lotta fratricida tra i residuati fascisti della Repubblica di Salò e le forze partigiane, di cui l'80 per cento si batteva (quasi mai contro i tedeschi) sotto le bandiere d'un partito a sua volta al servizio d'una potenza straniera". Soltanto un giornalista pp. 125-126.

La Storia d'Italia di Indro Montanelli (TV Series) IMDB.

Piazzale Loreto e la fine del fascismo (1999). La Repubblica italiana, della quale rievocheremo le vicende nella nostra carrellata storica, è nata, come recita la Costituzione, dalla Resistenza. Ma è anche l'erede d'una Monarchia sconfitta e d'una Repubblica vassalla. La Monarchia fu quella dei Savoia, compromessa irrimediabilmente dalla disfatta militare nella seconda guerra mondiale; la Repubblica vassalla fu quella definita «sociale», che sotto comando nazista ebbe a capo il Mussolini rassegnato e avvilito di Salò.

Interviewer: Perché non venne mai scatenata l'insurrezione generale contro i tedeschi quando erano in rotta - cosa che era stata preannunciata dal Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia?

Interviewed: Non ci fu perché non era possibile farla. Perché la Resistenza - chiamiamola finalmente col suo nome! - non fu una resistenza ai tedeschi, fu una guerra civile fra italiani.

Interviewer: E invece ci furono grandi lotte tra i partigiani e i repubblichini, cioè l'esercito di Salò?

Interviewed: Sì, lì sì. Lì ci furono delle lotte dei partigiani contro i repubblichini e delle lotte interne alle formazioni partigiane. Perché l'elemento comunista voleva il monopolio assoluto della Resistenza. Fu una bruttissima guerra che continuò anche dopo la Resistenza, anche dopo la fine della guerra, a dimostrazione che la resistenza non era stata ai tedeschi, era stata ad altri italiani.

Dalla Monarchia alla Repubblica (1999). Narrator: Fu deciso che la questione istituzionale sarebbe stata risolta il 2 giugno 1946 da un referendum nella cui imminenza, il 9 maggio, Vittorio Emanuele III finalmente abdicò in favore del figlio.

Interviewer: Lei, Montanelli, perché votò monarchico?

Interviewed: Io votai monarchico non per un Re, sebbene fossi convinto che Umberto sarebbe stato un eccellente Re, molto migliore di suo padre. Io votai per l'istituzione, perché quell'istituzione rappresentava l'unico capitolo di Storia nazionale italiana. Parlo di Storia nazionale: l'Italia aveva una grande Storia - per esempio culturale, che risaliva ai tempi delle Signorie - ma non era nazione, allora.

Interviewer: Lei lo intende come nazione.

Interviewed: Come nazione.

Interviewer: Perché il Risorgimento...

Interviewed: Il Risorgimento, che è l'unico capitolo di Storia nazionale anche se è stato adulterato dalle bugie di certi sacerdoti del Risorgimento, i quali hanno creduto di poterne ricostruire un altro, non vero, sulla retorica - malattia italiana. Però l'Italia non c'è dubbio che fu fatta dai Savoia, con il loro piccolo e antiquato ma serio esercito, e soprattutto con la sua diplomazia che, in mano a Cavour, seppe legare ai destini dell'Italia le potenze dell'Occidente. Quindi, l'Italia è stata fatta male, ma è stata fatta nell'unico modo in cui si poteva fare.

Interviewer: E quindi lei difendeva questa...

Interviewed: E io difendevo questo.

Interviewer: Mi dica una cosa, il referendum del 2 giugno fu genuino o adulterato?

Interviewed: No, non fu adulterato. Non fu adulterato. Vuol dire se ci furono dei brogli?

Interviewer: Sì, insomma. Umberto contestò il risultato, se ne andò senza abdicare.

Interviewed: Umberto non parlò di brogli. Umberto invocò la vidimazione dei risultati da parte, mi pare, della Corte di Cassazione. Era la Corte di Cassazione che doveva dire «Questi risultati sono autentici». La Corte di Cassazione aveva bisogno di tempo per arrivare a questo controllo. Per De Gasperi quel tempo era pericolosissimo, perché la permanenza di Umberto in Italia poteva spingere...

Interviewer: A una guerra civile.

Interviewed: ...a una guerra civile, o per lo meno a una divisione ancora più marcata fra il Nord e il Sud. Quindi lo supplicò - dapprima lo supplicò, poi arrivò quasi alle minacce - di andarsene subito e di aspettare, dal suo esilio, l'esito dei controlli e Umberto, comprendendo il pericolo - e nonostante l'avviso contrario di quasi tutti i suoi consiglieri - decise di sottrarre l'Italia a questo pericolo.

Dalla proclamazione della Repubblica al Trattato di pace (1999).  Narrator: Con il diktat firmato il 10 febbraio 1947 l'Italia perse l'Istria, divenuta jugoslava, Briga e Tenga passate alla Francia, il Dodecaneso passato alla Grecia, le colonie con un mandato temporaneo sulla Somalia. Venne creato un territorio libero di Trieste, di fatto diviso tra Italia e Jugoslavia. Trieste restò italiana, come Gorizia. Togliatti aveva invece proposto uno scambio; Trieste all'Italia, Gorizia alla Jugoslavia.

Interviewer: Il Trattato di Pace, impropriamente chiamato così perché l'Italia non trattò ma subì - in verità - le condizioni imposte dai vincitori, fu il meglio che si potesse ottenere? Cioè, a parte questa abilità di De Gasperi, lui fu anche un abile negoziatore?

Interviewed: Lui fu un abile negoziatore specialmente per quanto riguarda l'Alto Adige perché, prima di andare a Parigi alla Conferenza della Pace, si era messo d'accordo con Gruber, col ministro degli Esteri austriaco - non so poi quanto fu un buon affare - per conservare all'Italia il Tirolo, detto Alto Adige. Quindi lui certamente fu anche molto abile nelle trattative. Anche in seguito fu molto abile nel trattare con Adenauer, con Schuman. L'uomo godeva...

Interviewer: Di un prestigio personale.

Interviewed: ...di un prestigio personale.

Interviewer: In quella circostanza del Trattato di Pace ci un po' un'ambiguità perché in fondo noi eravamo vinti, però in qualche modo ci credevamo vincitori. O sbaglio?

Interviewed: Questa era la difficoltà di De Gasperi, che rappresentava un Paese che essendo vinto era abitato da dei cittadini che si credevano vincitori, pur sapendo che non lo erano, intendiamoci bene. Era una sceneggiata italiana; noi dobbiamo essere seduti fra i vincitori, dimenticandoci completamente non solo che avevamo perso la guerra, ma del modo in cui l'avevamo persa.

Interviewer: Bisognerebbe aprire anche una parentesi francese, però, in questa circostanza.

Interviewed: Beh no, ma i francesi non erano mai stati alleati della Germania. Noi sì.

Interviewer: Questo sì, però anche la Francia...

Interviewed: La Francia occupata poi - gran parte o perlomeno una cospicua parte della Francia - aveva collaborato coi tedeschi. Ma aveva collaborato dopo essere stata occupata, noi invece avevamo collaborato prima. Eh no, la nostra posizione era assolutamente intenibile. Quindi...

Interviewer: Però De Gasperi ne uscì con danni limitati.

Interviewed: ...De Gasperi ne uscì molto bene, e in fondo meglio di così non potevamo uscire.

Dall'assemblea costituente alla vigilia delle elezioni del 1948 (1999). Narrator: Ma in quel frattempo il panorama politico italiano era completamente cambiato, e non solo quello italiano ma anche quello europeo e mondiale. Sull'Europa calava la cortina di ferro, con l'asservimento dei Paesi occupati al dominio dell'Armata Rossa, e con il rifiuto di Mosca al piano Marshall che avrebbe dato un determinante aiuto economico anche all'Italia. Il Partito comunista avversò il piano Marshall strenuamente.

Interviewer: Per uscire un attimo dalla Costituzione e tornare alla situazione dell'Italia e dell'Europa in quel momento, si ha l'impressione che il Cremlino non attribuisse poi così tanta importanza alle elezioni italiane, che in fondo le considerasse forse un episodio minore nella sua strategia internazionale. Altrimenti non si spiegherebbe una successione rapida d'atti di forza brutali, che furono fatti e voluti da Stalin, che pareva fatta apposta per indignare e mettere allarme a tutti gli occidentali, e in modo particolare anche agli italiani. Ecco, si potrebbe dedurre da questo che Togliatti, nonostante tutto, non aveva così tanta influenza su Stalin?

Interviewed: O si può anche sospettare che anche a Togliatti questo calcolo di Stalin andasse bene. Cioè...

Interviewer: Cioè lui non voleva prendere il potere...

Interviewed: ...io non ho mai capito, veramente - e credo che rimarrà sempre un mistero, una materia di scommessa - se Togliatti veramente volesse l'instaurazione di un regime comunista in Italia, perché il regime comunista in Italia avrebbe rifatto di lui un luogotenente di Stalin.

Interviewer: Mentre così era più indipendente?

Interviewed: Così era più indipendente. Noti bene; è una mia semplice ipotesi, può darsi che non fosse così. Certamente Stalin considerò poco l'Italia. Considerò poco l'Italia perché permise ai regimi comunisti che si erano installati in tutti i Paesi - nei Balcani, in Polonia, in Cecoslovacchia - di mostrare la loro faccia più feroce, la loro faccia più intollerante; il povero Jan Masaryk buttato dalla finestra, i capi dei partiti dei piccoli coltivatori - che erano i veri vincitori delle elezioni sia in Romania che in Ungheria - arrestati e portati via, quindi tutto il potere soltanto al comunismo più stalinista che ci fosse. Tutto questo in Italia si cominciava a sapere, nonostante gli sforzi dell'80% della stampa italiana...

Interviewer: Di nasconderli.

Interviewed: ...di occultarli.

Interviewer: Ma - questo naturalmente è senno di poi - forse Stalin aveva interesse ad avere un partito comunista così potente, così forte, radicato nell'Occidente.

Interviewed: Come si fa a sapere che cosa pensava Stalin?

Speaker: Quando, tra il 4 e l'11 febbraio 1945, Roosevelt, Churchill e Stalin s'incontrarono a Yalta la sconfitta della Germania era prossima, infatti essa capitolò il 9 maggio seguente. Era perciò urgente che i tre grandi trovassero un accordo, a dispetto delle profonde divisioni d'interessi e ideologiche esistenti tra loro. I problemi più attuali erano il futuro assetto dell'Europa e il funzionamento delle Nazioni Unite, costituite il 1° gennaio 1942 a Washington. Nei primi mesi del 1945 Stalin godeva di un considerevole vantaggio militare rispetto agli Alleati. Nonostante le sconfitte inizialmente inflitte ad un'Armata Rossa impreparata, male equipaggiata, indebolita dalle purghe staliniane degli anni 1936-38, grazie anche agli aiuti americani l'invasione tedesca fu arginata. L'accerchiamento dell'Armata a Stalingrado, nel novembre 1942, e la sua capitolazione, nel febbraio 1943, segnarono il punto di svolta delle operazioni militari. Da quel momento l'iniziativa tornò alle truppe sovietiche. Mentre gli anglo-americani erano fermi sulle Ardenne, l'offensiva del gennaio 1945 consentì all'Armata Rossa di raggiungere l'Oder, cioè la Germania. Il vantaggio militare nel teatro occidentale e la necessità che gli americani avevano di avere l'appoggio sovietico nella guerra in estremo oriente consentirono a Stalin di ricevere dagli Alleati più di quanto avrebbero voluto concedergli, e cioè di ottenere il pieno riconoscimento del ruolo di grande potenza dell'Unione Sovietica nel dopoguerra. Roosevelt e Churchill, infatti, diedero un sostanziale avallo alla formazione della sfera d'influenza sovietica, cioè di quel blocco di Stati dell'Europa centrale, a protezione del territorio dell'Urss, realizzato fin dalle settimane immediatamente seguenti Yalta e destinato a sopravvivere quarant'anni.

Dalle elezioni del 1948 all'attentato a Togliatti (1999). Interviewer: Dopo i risultati clamorosi delle elezioni del 18 aprile De Gasperi disse «Speravamo che piovesse, ma non che grandinasse». Così commentò le elezioni. Cosa succedeva in De Gasperi, temeva l'eccesso di successo? Aveva paura di questa stravittoria?

Interviewed: No, De Gasperi non voleva governare da solo - cioè con la sola Democrazia cristiana - perché aveva benissimo capito che cosa era la Democrazia cristiana. La Demcorazia cristiana era solcata da profonde divisioni, ma soprattutto da una vena clericale di cui lui, che era un vero cattolico ma non un cliericale, non voleva essere prigioniero. Lui voleva stare coi laici.

Interviewer: Quindi avrebbe preferito un'alleanza con i laici?

Interviewed: Con i laici, e fu contento di doverla fare, perché è vero che alla Camera la Democrazia cristiana aveva la maggioranza assoluta, ma al Senato no. I voti che aveva raccolto erano il 48,5% - non era il 51 - quindi lui era ben contento di governare in nome anche delle forze laiche, senza restare prigioniero dei suoi.

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Narrator: L'11 maggio 1948 Luigi Einaudi, l'economista che aveva salvato la lira per quanto di salvabile c'era, fu eletto Presidente della Repubblica. De Gasperi avrebbe voluto Carlo Sforza ma la Dc, che cominciava così a denunciare le sue spaccature, gli si oppose. Un monarchico fu il primo Capo dello Stato repubblicano.

Speaker: Luigi Einaudi nacque il 14 maggio 1874 a Carrù, in provincia di Cuneo, e compì presso la Facoltà di Giurisprudenza di Torino gli studi di Economia, nei quali ebbe come maestro Salvatore Cognetti de Martiis. Einaudi riservò il suo liberismo pragmatico nell'insegnamento, dapprima negli istituti secondari, poi all'Università di Torino e presso la Bocconi di Milano, e soprattutto in una prodigiosa attività pubblicistica. Oltre ad essere autore di numerosi trattati d'economia teorica, di storia economica e storia del pensiero economico, collaborò con i principali quotidiani italiani - «La Stampa» di Torino e il «Corriere della Sera» di Milano - e le maggiori riviste del tempo - dalla «Critica Sociale» di Turati, alla «Riforma Sociale» fondata da Nitti, della quale fu direttore dal 1902 alla sua chiusura nel 1935 per ordine del fascismo, alla «Voce», all'«Unità». Fu favorevole alla guerra libica e interventista nel 1915. Nominato senatore nel 1919, manifestò un'iniziale entusiasmo nei confronti del primo governo Mussolini. In seguito all'assassinio di Matteotti, pur senza compiere gesti di rottura verso l'autorità costituita, assunse una posizione critica nei confronti del fascismo e della sua politica economica. Negli anni dell'occupazione tedesca dovette rifugiarsi in Svizzera. Al suo ritorno in Italia, oramai ultrasettantenne, svolse un ruolo politico centrale negli anni della ricostruzione: nel 1945 divenne governatore della Banca d'Italia, e nel 1947 vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio. Attuò allora una manovra economica che, al prezzo di un temporaneo raffredamento nella congiuntura, assicurò stabilità all'economia italiana e restaurò la fiducia degli operatori internazionali, ponendo le premesse per uno sviluppo più equilibrato negli anni seguenti. Nel 1948 fu eletto primo Presidente della Repubblica. Morì nel 1961.

Gli anni di Alcide De Gasperi (1999). Narrator: La politica estera italiana era saldamente delineata. Nel 1949 l'Italia aderì al Patto Atlantico, con furibonda opposizione dei comunisti, e furono abbozzate le prime istituzioni europee. Prendeva l'avvio il miracolo economico; l'Italia prevalentemente agricola si trasformava in un Paese industriale. Avveniva una autentica rivoluzione con l'apertura delle frontiere al commercio e con le tumultuose migrazioni interne, dalla campagna alla città e dal Sud al Nord. Nel Meridione avvenivano occupazioni di terre, ma quelle lotte erano anacronistiche; in realtà le terre venivano abbandonate.

Interviewer: In quegli anni quali furono gli errori che il governo e gli imprenditori commisero nel guidare il cosiddetto «miracolo economico»? In particolare, cosa pensa della politica agricola democristiana di quegli anni, della Cassa per il Mezzogiorno che nacque nel '50 e delle migrazioni interne?

Interviewed: Mah, intanto questo; che il maggiore errore commesso dal potere governativo, dalle cosiddette classi dirigenti - sia politiche che economiche - non fu di guidare in maniera sbagliata la rivoluzione che stava avvenendo in Italia, spontaneamente.

Interviewer: Cioè la rivoluzione industriale?

Interviewed: La rivoluzione industriale. Fu quello di non capirla, di non guidare per niente affatto. Non capirono quello che stava succedendo in Italia.

Interviewer: Ma chi non lo capiva? I governanti?

Interviewed: Non lo capì nessuno, tant'è vero che fecero una riforma agraria del tutto sbagliata, perché in ritardo di venti o trent'anni. Il loro scopo era di ripartire la terra, ma il problema da affrontare era che la terra veniva abbandonata. I contadini non la volevano, la terra: volevano andare a fare gli operai, perché c'era questo risucchio da parte dell'Italia che si stava industrializzando di mano d'opera, e il contadino voleva abbandonare la terra.

Interviewer: Cos'era? Il mito della Fiat, dell'Olivetti?

Interviewed: Ma certo. La Fiat, l'Olivetti che dovettero risolvere da soli questo problema. Io ero stato a Torino e avevo visto, la mattina alla stazione, queste banchine invase dagli emigranti del Sud che arrivavano a Torino, dove c'erano gli emissari della Fiat che andavano a reclutarli per portarli...

Interviewer: A lavorare in fabbrica.

Interviewed: ...a lavorare nei loro stabilimenti. Io in quei giorni incontrai Valletta...

Interviewer: Lui aveva capito questo processo?

Interviewed: Ecco, incontrai Valletta e allora gli dissi «Ma questa gente che voi ingaggiate, poi dove la alloggiate? Cosa fate per raccoglierli, per riceverli?». Lui mi disse, giustamente, «Ma questo è un problema che sorpassa la Fiat. A questo devono pensare le classi politiche e quelle amministrative: a creare alloggi, a creare punti di raccolta, a creare insomma tutto ciò che può favorire l'inserimento di queste masse in una città come Torino». E dissi «Ma ci pensano?». Disse «Neanche per idea».

Interviewer: Pensavano alla Cassa del Mezzogiorno.

Interviewed: Invece pensavano alla Cassa del Mezzogiorno, che fu sbagliata dalla prima all'ultima parola perché loro credevano che il Mezzogiorno si potesse riscattare con delle cattedrali nel deserto. Cattedrali che venivano erette, diciamo così, coi soldi dello Stato, anche da imprenditori privati che avevano capito la pacchia, che era quella di approfittare dei contributi statali per far nascere queste...

Interviewer: Queste cattedrali nel deserto.

Interviewed: ...queste cattedrali per scaricarvi i loro macchinari sorpassati, andare al fallimento e ricattare lo Stato dicendo «Io sono costretto a buttare sul lastrico questi operai». Allora lo Stato...

Interviewer: Interveniva.

Interviewed: ...rilevava questo. Questo è stato il giuoco a cui si sono prestati questi sprovveduti delle classi politiche.

La rivolta in Ungheria e l'elezione di Giovanni XXIII (1999).

Interviewer: E sempre per parlare di successori, perché poi li ritroveremo negli anni a venire, anche il Papa Pio XII muore - scompare - gli succede Papa Roncalli - Giovanni XIII - Papa del Concilio. Fu un costruttore o un distruttore nella storia della Chiesa? Anche Papa Roncalli lei lo ha conosciuto?

Interviewed: L'ho conosciuto abbastanza bene. Posso dire questo: non fu certamente il distruttore della Chiesa, fu il distruttore della costruzione, dell'architettura autoritaria della Curia, che gli aveva impresso Papa Pacelli. Papa Pacelli aveva parlato in nome e agito sempre in nome di una Chiesa che, dai tempi della Controriforma non era più esistita. Era la Chiesa armata di indice e di scomunica, armi che non facevano più paura a nessuno. Era una Chiesa a forma di piramidi...

Interviewer: Quasi la Chiesa dell'Inquisizione.

Interviewed: Era la Chiesa dell'Inquisizione. Papa Roncalli capì benissimo che questa non poteva essere la Chiesa nuova, e quindi certamente fu il distruttore della struttura curiale della Chiesa e l'iniziatore del nuovo corso della Chiesa - quello che Wojtyla sta portando alla perfezione; l'era non più autoritaria, ma missionaria della Chiesa.

I successori di De Gasperi e la politica italiana fino alla morte di Togliatti (1999).

Interviewer: Sempre per andare avanti e ripercorrere l'avvicendarsi dei fatti durante quegli anni, muore Papa Roncalli e gli succede Papa Montini. Sembrano personaggi tra loro molto diversi. Quanto lo furono, a suo avviso - lei che li ha conosciuti entrambi?

Interviewed: Montini l'ho conosciuto appena. Non diversi, antitetici. Assolutamente antitetici.

Interviewer: Già fisicamente.

Interviewed: Già fisicamente. Antitetici in due cose: nella concezione della Chiesa anzitutto, perché Montini era un prodotto della Curia romana. Appena presi i voti fu assunto nella segreteria di Stato, all'ombra di Pacelli - anche se poi, in seguito, il rapporto fra i due si guastò, ma era proprio un figlio, un frutto della Curia e la Curia era l'incarnazione della struttura autoritaria della Chiesa. Quindi Montini...

Interviewer: Abbiamo visto che Roncalli aveva rotto...

Interviewed: Roncalli era esattamente l'opposto. Non era mai stato in Vaticano, veniva dalla cura d'anime, era stato parroco - quindi veniva da una scuola opposta e detestava la Curia come strumento della struttura autoritaria della Chiesa - e fu lui l'iniziatore di quella trasformazione di una Chiesa autoritaria in una Chiesa missionaria, evangelica, di cui Papa Wojtyla è diventato l'interprete.

Interviewer: Montini invece...

Interviewed: Montini era la Curia.

Interviewer: Quindi ha interrotto di nuovo questo corso della missione.

Interviewed: Ma certo, l'ha interrotto. E poi c'era l'opposizione, l'antitesi, caratteriale: Montini era un uomo freddo, senza comunicativa, senza calore umano, lacerato dai dubbi. Io l'ho conosciuto appena, comunque suo grande amico era il mio grande amico Prezzolini, che ebbe con lui dei rapporti abbastanza...

Interviewer: Lui fu anche Arcivescovo di Milano?

Interviewed: Dopo, come...

Interviewer: Papa.

Interviewed: ...come Papa. Un giorno chiesi a Prezzolini «Ma senti un po' una cosa, dimmi la verità. Montini ci crede o non ci crede?» - volevo dire in Dio - e Prezzolini pensò un po' e poi mi rispose «Ci crede nei giorni pari, in quelli dispari ha qualche dubbio». Ora, Roncalli ci credeva davvero. Roncalli aveva questo calore umano, questa serenità, perché aveva la sicurezza della fede.

Il sessantotto e la politica di Berlinguer (1999). Narrator: Alla contestazione studentesca s'agganciò, senza mai veramente saldarsi con essa, l'autunno caldo sindacale del 1969. Era in corso il rinnovo dei 32 importanti contratti di lavoro e la loro discussione si svolse in un clima di pressioni e di intemperanze. I sindacati operai erano scavalcati dalle spinte anarcoidi della base. I comitati di base esigevano, tra l'altro, salari uguali per tutti in base al profondo principio che «tutti gli stomachi sono uguali». In questo clima, anche dopo incidenti molto seri, furono firmati i contratti.

Interviewer: Per il disordine e le abdicazioni padronali Giovanni Agnelli disse, riferendosi all'autunno caldo sindacale, «Quello fu l'inizio di dieci anni disastrosi di brutalità e di violenze in fabbrica che fu corretto solo dopo più di tremila giorni». Questo le sembra troppo pessimista?

Interviewed: No, non era pessimista, era una visione realistica di quello che stava per succedere. L'unico appunto che si può fare a Agnelli era questo; di aver visto solo il lato negativo di questa cosa, che naturalmente ci fu e fu quello che dice lui. Di non avere previsto la reazione che certamente questo avrebbe provocato, e che proprio a Torino si manifestò con la discesa in campo dei quarantamila, che posero fine al carnevale sindacale della città e dell'Italia. Quei quarantamila, che erano poi i gradi medi dell'azienda della Fiat: non erano mica i capi, erano i dirigenti intermedi che alla fine esasperati scesero in campo e fecero capire che c'erano anche delle altre forze. E lì finì il carnevale del pansindacalismo.

Interviewer: Quegli anni furono anni molto pesanti in Italia.

Interviewed: Furono pesanti sì, soprattutto per l'economia italiana, ma anche per la vita normale era difficile aggirarsi per le vie di Milano. Se si veniva riconosciuti si correvano dei grossi rischi. Quindi...

Interviewer: Quindi brutti anni.

Interviewed: ...brutti anni.

Interviewer: Lei quindi non ha nessun ricordo piacevole di quel momento del Sessantotto?

Interviewed: No, io non ho nessun ricordo piacevole, anzi ho dei ricordi molto sgradevoli e debbo dire che fui messo nella condizione di dovere abbandonare il giornale in cui avevo sempre militato per fondarne un altro a «operazione zero»; impresa che sembrava impossibile e invece grazie a Dio - ma non fui io solo, fummo tutto un gruppo che scelse me come conduttore, come capofila, ma insomma io ero affiancato bene. Però certamente furono anni estremamente difficili, anni in cui io incontravo per strada dei vecchi amici che fingevano di non riconoscermi, perché era meglio non avere a che fare con uno come me.

Piazza Fontana e dintorni (1999). Narrator: Mentre l'Italia attraversava la stagione drammatica della contestazione studentesca e dei fermenti operai le piombò addosso la tragedia di piazza Fontana; «La madre di tutte le stragi», come si disse. La bomba collocata il 12 dicembre 1969 nella Banca dell'Agricoltura - appunto in piazza Fontana, a Milano - provocò 16 morti e numerosi feriti. Dapprima fu seguita la pista anarchica e venne incriminato il ballerino Pietro Valpreda, poi furono accusati esponenti dell'estrema destra eversiva. Una serie interminabile di processi - e nuove inchieste sono anche attualmente in corso - non è approdata ad alcuna conclusione certa.

Interviewer: Montanelli, secondo lei la polizia sbagliò in buona fede o volle sbagliare, puntando sulla pista anarchica, per piazza Fontana?

Interviewed: Non è che volle sbagliare, è che l'unico indizio che sembrava avere un certo fondamento fu quello fornito da un taxista, che tra l'altro era un comunista - il famoso Rolandi -, il quale nelle foto che la polizia gli mostrò - di vari tipi che potevano avere portato la bomba - riconobbe Valpreda. Valpreda era un anarchico fra i più estremisti, ma non credo che avesse combinato dei grossi guai. Semplicemente era un ballerino che faceva l'anarchico, che per eccesso di zelo anarchico si era dissociato dal circolo Bakunin e ne aveva fondato un altro, il circolo XXII Marzo, che era - a parole almeno - più radicale, più bombarolo di quello di Bakunin. Quindi il discorso cambiava. Rolandi, tra le fotografie, riconobbe questa di Valpreda, che lui non conosceva, ma di cui disse che l'aveva portato con una borsa a piazza...

Interviewer: Fontana.

Interviewed: ...a piazza Fontana, e quindi dette un dirizzone alle cose. Siccome Valpreda era anche anarchico e predicava le bombe, anche senza gettarle...

Interviewer: Sì, c'era un nesso possibile.

Interviewed: C'era un nesso. Quindi le prime indagini si orientarono verso i circoli anarchici.

Interviewer: Lei ha mai incontrato Valpreda?

Interviewed: No, non l'ho mai incontrato. Poi Valpreda fu assolto perché questa...

Interviewer: Ma lei, in quel momento, trovava questa ipotesi verosimile, possibile?

Interviewed: Era verosimile. Io non conoscevo Valpreda, non conoscevo Rolandi. Questo povero Rolandi poi fu tormentato, per i pochi mesi che gli restarono da vivere, come traditore, spia, denunziatore d'un compagno. Lui seplicemente aveva riconosciuto...

Interviewer: Valpreda.

Interviewed: ...una fotografia. Quindi questo indirizzarsi delle ricerche della polizia sulla pista degli anarchici era autorizzato dall'unico elemento a cui ci si potesse rifare in quel momento.

Il terrorismo fino al sequestro e all'uccisione di Aldo Moro (1999).

Interviewer: Quando il terrorismo rosso cominciò a manifestarsi vi fu un lungo rifiuto dell'intellighenzia, della cosiddetta intellighenzia, ad ammetterne la matrice ideologica: si parlava di sedicenti Brigate Rosse. Da cosa derivò questa ostinata cecità?

Interviewed: Non era cecità, era il fatto che la matrice rossa era quella - anche - dei nove decimi della cosiddetta intellighenzia italiana, cioè dire i nove decimi degli intellettuali. Erano, o si attribuivano, una matrice rossa, quindi non gli conveniva che il terrorismo che seminava sangue e morte nelle strade italiane, nelle piazze, venisse in qualche modo attribuito alla stessa matrice, cioè che loro fossero dei complici.

Interviewer: Che rapporto quotidiano c'era tra il Pci, appunto tra gli intellettuali di sinistra schierati, e il fenomeno delle Brigate Rosse?

Interviewed: Non è che ci fosse un rapporto preciso, istituzionalizzato. Io non credo che le Brigate Rosse fossero molto lusingate dalla partecipazione dalla loro parte dagli intellettuali. Non credo. Erano gli intellettuali che volevano mettersi, casomai, al sicuro. Gli intellettuali italiani, si ricordi, per nove decimi stanno dalla parte di chi picchia, mai dalla parte di chi ne busca. È sempre stato così, non era soltanto in quel momento. È sempre stato così.

Interviewer: Secondo noti politologi, per esempio Giorgio Galli, ci fu indulgenza verso il terrorismo. Terroristi noti a quell'epoca potevano entrare nella mensa della Marelli - per esempio - e sedere ammirati, quasi come fossero stati dei moschettieri, al tavolo delle impiegate, o estremisti sfilavano nei cortei ostentando le armi e gridarono frasi tipo «Basta coi parolai, armi agli operai». Lei come lo spiega che ci fosse questa permissività? È d'accordo con Giorgio Galli?

Interviewed: Sì, son d'accordo. Non si trattò di permissività, si trattò di quiescenza per le ragioni che le ho detto prima: gli italiani stanno con chi picchia di più.

Interviewer: Insomma erano un po' come le camicie nere? Piacevano?

Interviewed: Un po' come le camicie nere. Poi si sarà mescolata anche la mondanità che li aveva accolti come gli eroi dell'era contemporanea, quindi li invitava nei salotti. Questa era la borghesia italiana.

Interviewer: Come i garibaldini.

Interviewed: Come i garibaldini. Sì, è così. Ma l'Italia è questa roba qua, non c'è niente di eccezionale.

Speaker: Moro fu assassinato il 9 maggio 1978, dopo quasi due mesi di sequestro, e fu ritrovato in via Caetani a metà strada tra la sede del Pci e quella della Dc, nel bagagliaio di una macchina. I partiti e il Vaticano avevano mantenuto la linea della fermezza, rifiutando di trattare il rilascio del presidente della Dc in cambio di quello di alcuni birgatisti reclusi: una soluzione dapprima avanzata da Moro nelle sue lettere, in seguito anche dalle Br. In occasione del sequestro Moro le Br non ottennero il riconoscimento di controparte implicito nella trattativa. Trattativa che ci fu invece in seguito a soluzioni di altri sequestri, e non trassero dalla vicenda quei benefici che si prefiggevano, quantomeno una frattura tra gverno e settori della polizia e della magistratura più direttamente impegnati nella lotta al terrorismo.

Giovanni Paolo II e la fine dell'URSS (1999).

Interviewer: Lei aveva mai pensato che l'Urss, il comunismo, i Paesi satelliti potessero sfaldarsi in un periodo così breve di tempo?

Interviewed: Lo confesso, no. Io credevo che questo fenomeno, che questo processo, sarebbe stato lungo, sarebbe stato tormentato. Io credevo che lo avrei lasciato in eredità ai miei figli e forse ai miei nipoti.

Interviewer: Non so se lei è un telespettatore ma, durante quell'autunno, lei vedeva le immagini di Berlino che cadeva, di Praga, di Budapest? Cioè che via via, ogni giorno, cadeva un nuovo regime.

Interviewed: Le dirò una cosa: io, che per tutta la vita avevo fatto l'anticomunista viscerale - come mi chiamavano -, fui spaventato. Io fui spaventato dalla subitaneità di quel crollo. Le dirò un'altra cosa - altro paradosso che mi è valso, poi, le invettive di molta gente -: io dissi, di lì a poco, che bisognava aprire una sottoscrizione per la ricostruzione del Muro di Berlino. Perché il suo crollo aveva sì inguaiato i comunisti e segnato la loro catastrofe, ma inguaiava anche noi anticomunisti. Noi non avevamo più il bersaglio. E guardi che nel mio paradosso c'era molta verità, che confermo oggi.

Interviewer: Ancora oggi vorrebbe questo?

Interviewed: Ancora oggi. Guardi che il Muro di Berlino ha fatto cadere non soltanto l'ideologia comunista, ma anche la nostra. Non c'è più linea di demarcazione, ma questo è un discorso estremamente complesso. Oggi non c'è più un conflitto ideologico.

Interviewer: È necessario che ci sia?

Interviewed: Beh, insomma, è necessario sì che ci sia. Altrimenti diventa solo una gara di potere e basta.

Interviewer: Quindi una politica basata sul potere.

Interviewed: Basata sul potere, quale è oggi. Non ci son più contrapposizioni.

Il caso Sindona e la P2 (1999). Narrator: Nell'agosto del 1990, mentre Andreotti era Presidente del Consiglio, fu autorizzata la divulgazione dei documenti che provavano l'esistenza dell'organizzazione Gladio, con i suoi 622 affiliati. Quel tipo di struttura segreta era stato creato negli anni Cinquanta, per iniziativa della Nato, in vari Paesi dell'Alleanza. Si trattava d'arruolare e addestrare persone fidate che, in caso d'invasione del nostro territorio, si dedicassero alla guerrigilia. «Stay-behind», star dietro, era il termine che in inglese qualificava l'organizzazione. Esistevano nascondigli di armi di cui i gladiatori potessero servirsi in caso di emergenza. Con il calare della tensione internazionale Gladio fu sostanzilamente cancellata, ma non disciolta.

Speaker: Gladio nacque il 28 novembre 1956, quando il generale De Lorenzo - per il Sifar - siglò un accordo con i servizi segreti americani per la gestione di una struttura finalizzata alla raccolta di informazioni e sabotaggio, in caso di invasione sovetica. La sua nascita incanalava, in un'organizzazione definita e riconosciuta, le molteplici iniziative svolte in un periodo di gestazione che durava dal primo dopoguerra. Come in fondo hanno chiarito anche nei loro interventi pubblici Andreotti e Cossiga, nel 1990, Gladio era un organismo segreto, inserito al massimo livello di segretezza. Della sua esistenza e attività vennero informati i massimi vertici dello Stato, sebbene - sembra - i servizi segreti filtrassero i destinatari delle informazioni sulla base della fedeltà atlantica. Nelle sue iniziali dichiarazioni Andreotti indicò, nel 1972, l'avvio dello smantellimento di Gladio, ma in seguito fu costretto ad ammettere la prosecuzione della sua attività. Quello che è dibattuto - e presumibilmente rimarrà tale, perché anche le indagini del giudice Casson sono state conclusive solo parzialmente - è se, e in che misura, anche Gladio sia rimasta coinvolta nelle azioni eversive portate avanti, da una parte almeno, dei servizi segreti italiani.

Interviewer: Lei disse, un giorno, che rimpiangeva di non essere stato gladiatore...

Interviewed: Certo.

Interviewer: ...e che se l'avessero invitato ad esserlo avrebbe accettato volentieri di esserlo. Rimane ancora oggi di questo parere?

Interviewed: Ma certamente, perché... che cosa fu Gladio? Fu una misura cautleativa presa dalla Nato - non nacque mica in Italia, Gladio. Gladio fu una misura presa dalle forze militari dell'Occidente, in tutti i Paesi dell'Occidente - che partiva da questa premessa, che era sacrosanta: nessuno può sapere cosa farà l'Armata Rossa, superarmata, ma una cosa si sa con sicurezza; che il giorno in cui vuole invadere l'Occidente non trova sul suo passaggio nessuna forza capace di resistere. Ed era vero. L'unica forza occidentale che era stata capace di resistergli, e anche di aggredirla, era stata quella tedesca - quella tedesca, poi, c'aveva lasciato la pelle in Russia -, la Germania non aveva più un'organizzazione militare, la Francia ne aveva una abbastanza debole, l'Italia non esisteva. Allora si parte da questo principio: l'Armata Rossa non trova ostacoli alla sua occupazione, può arrivare fino a Lisbona, tranquillamente. Allora bisogna organizzare una resistenza interna per dare tempo all'America, che frattanto ha disarmato, di intervenire. Ora, siccome io consideravo incombente questo pericolo comunista e già pensavo che non mi sarei mai rassegnato a subirlo, io ero pronto ad andare in montagna. Ero giovane, allora.

Interviewer: Ma questo fin dal '48?

Interviewed: Fin dal '48.

Interviewer: Sogno...

Interviewed: Sogno, eccetera. Fin dal '48 ero pronto. Io non avrei mai accettato un regime comunista - intanto il regime comunista non avrebbe accettato me, mi avrebbe messo al muro o sbattuto in un campo di concentramento - quindi io ero pronto a riprendere le armi. Quindi se la Nato mi avesse... ma la Nato erano 622 uomini in tutto. Erano il nucleo di una possibile resistenza anticomunista proiettata nel domani. Questo era la Nato.

Narrator: Il magistrato veneziano Felice Casson ha voluto procedere contro Gladio, ritenendola fuorilegge. Francesco Cossiga ha invece orgogliosamente rivendicato la sua azione, come sottosegretario alla Difesa tra il '66 e il '69, per migliorare quella struttura che, a suo avviso, era sì segreta, ma anche legittimissima.

Interviewer: La tesi dell'illegalità di Gladio non la convinceva, allora?

Interviewed: Mai. Non mi ha mai convinto. Tant'è vero che poi fu smentita dai nostri stessi governanti - da Cossiga e da Andreotti -, i quali sapevano benissimo del Gladio e l'avevano approvato come mebri della Nato. Il problema Nato si pose in tutti i Paesi del mondo occidentale-europeo, solo in Italia fece scandalo. Solo in Italia.

Interviewer: E perché?

Interviewed: Perché l'Italia era in mano alle sinistre dal punto di vista propagandistico: «Ecco la prova dell'imperialismo americano», eccetera. Ma sono delle buffonate italiane.

Interviewer: Beh, però fece molto rumore tutta questa vicenda.

Interviewed: Fece molto rumore.

Interviewer: Lei ricorda come...

Interviewed: Ma le imbecillità in Italia fanno sempre rumore.

Interviewer: Ma se le finalità di Gladio erano patriottiche perché la struttura non fu sciolta quando ne divenne evidente l'inutilità?

Interviewed: Vuol sapere la verità su questo? Io non ho i documenti, ma ne sono convinto. Subito dopo la guerra il «Corriere» mi incaricò di fare una inchiesta sugli enti inutili che dovevano essere soppressi e io ne trovai parecchi, tanti, e li denunciai in questa mia inchiesta. Un giorno, sempre il mio amico Trionfera - prima che nascesse «il Giornale», quando io ero al «Corriere» - mi disse «Guarda, te ne suggerisco uno che è veramente un caso talmente pittoresco e assurdo che ti ci divertirai. In Italia c'è ancora un ente per l'assistenza alle famiglie dei martiri dello Spielberg». Lo Spielberg era la prigione austriaca, era in Boemia poi...

Interviewer: Dove stava Silvio Pellico.

Interviewed: Dove stava Silvio Pellico, Maroncelli, eccetera. Dunque in Italia esisteva un ente per l'assistenza delle famiglie dei martiri di 200 anni fa. Allora riuscimmo a trovare l'indirizzo e io andai in questo caseggiato borgataro, non mi ricordo in quale strada periferica di Roma. Suonai un campanello - a un quarto o a un quinto piano, non ricordo - e mi venne ad aprire un ometto, che in quel momento stava cucinando due uova su un fornellino. Quello era l'ente per l'assistenza alle famiglie. Quando io gli dissi «Non sono un martire dello Spielberg, nè discendo dai martiri dello Spielberg. Sono un giornalista, ho saputo» sbiancò in faccia. Disse «Non mi rovini, io sono un povero pensionato. Le spese per questo ente sa a cosa si riducono? A questo sgabuzzino qua, dove io ho un letto e un cucinino. Ma io, con la mia pensione, non posso consentirmi niente e niente altro», e si vedeva proprio la miseria. Beh, caro Elkann, io le confesso che non ebbi il coraggio di denunziare questo ente inutile: sono un italiano anch'io! Ma come facevo a togliere quello sgabuzzino a quel povero disgraziato? Non so se esista ancora, magari esiste ancora.

Interviewer: E quindi non ne parlò.

Interviewed: E quindi non ne parlai. Gladio è la stessa storia. Gladio aveva certamente un generale, dei colonnelli, eccetera. Si faceva presto a sopprimere Gladio, ma come si faceva a sopprimere gli stipendi del colonnello, dei capitani che non avevano più truppa, oramai, perché il gioco era stato rivelato? L'Italia va avanti con questi compromessi. Ecco perché non si mise fuori legge Gladio, non si soppressero le strutture. Le strutture, per un esercito di 620 uomini - bah - erano queste: un colonnello, quattro capitani, un maggiore, eccetera, che però ne ricavavano di che vivere. Ecco, io son sicuro che si tratta di questo perché conosco il mio Paese. Perché l'Italia è così.

Tangentopoli (1999). Narrator: Borrelli, capo del pool milanese di Mani pulite, il suo vice D'Ambrosio, e i suoi sostituti più in vista - Di Pietro, Davigo, Colombo - arpionarono dapprima politici e boiardi di secondo piano.

Speaker: Il rigore giacobino usato nell'applicazione delle leggi vigenti ha consentito a uno sparuto gruppo di magistrati milanesi di dissolvere, nel giro di pochi mesi, le fortune elettorali del partito al governo del Paese da oltre quarant'anni, e dei suoi alleati. Dalle confessioni dei personaggi coinvolti a catena nelle indagini è emerso che corruzione o concussione, lungi dal configurarsi come un evento eccezionale, assumevano le proporzioni di un sistema generalizzato. Francesco Saverio Borrelli è il procuratore capo di Milano, ed è lui che ha sostenuto la formazione di un vero e proprio pool destinato a seguire Mani pulite. Il 17 febbraio 1992, il sostituto procuratore Antonio Di Pietro inchioda Mario Chiesa con le mani nella marmellata. Dalle confessioni di Chiesa, e a cascata degli imputati da lui coinvolti, la tesi del singolo mariuolo diventa una battuta umoristica e si delinea una trama che si ampia a dismisura, nella quale rientrano uomini politici ed esponenti del mondo economico - pubblico e privato - sempre più di primo piano. Nel marzo 1992 Di Pietro è affiancato dal sostituto procuratore Gherardo Colombo, che col collega Turone aveva scoperto l'elenco degli iscritti alla Loggia P2 e indagato sui fondi neri dell'Iri. In aprile si aggiunge Piercamillo Davigo, già impegnato nelle indagini sul boss Epaminonda. I tre magistrati sono coordinati dal procuratore capo aggiunto Gerardo D'Ambrosio, che aveva partecipato alle indagini sulla bomba di piazza Fontana.

Narrator: Poi fu la volta dei leaders. Anzitutto Bettino Craxi, che dell'immane macchina tangentizia era considerato il massimo manovratore e che reagiva alla sua maniera di cinghiale ferito, braccato, aggressivo. Poi Arnaldo Forlani, la cui immagine umana e politica sarà distrutta nel processo contro Sergio Cusani, una dei mediatori della tassazione tangentizia, e ancora Severino Citaristi, segretario amministrativo della Democrazia cristiana, e altri.

Interviewed: Clemenceau, che se ne intendeva, diceva «Non esiste una democrazia senza un minimo di corruzione». In Italia c'era un massimo, la differenza era questa.

Interviewer: Nel suo poscritto a «L'Italia dell'Ulivo», libro recentemente pubblicato, lei si dice convinto che la corruzione italiana, appunto, sia inestirpabile. Insomma lei crede che la corruzione sia continuata da allora, mentre Borrelli e i suoi continuavano a indagare, che stia continuando e che continuerà sempre?

Interviewed: Se sia continuata mentre Borrelli e i suoi facevano i processi, questo non lo so. Ma che sia inestirpabile, di questo sono sicuro perché dura da 2000 anni. La corruzione non è soltanto nella politica, è nella società italiana. Noi italiani abbiamo sempre corrotto tutti. Tutti coloro che sono venuti in Italia a fare i padroni li abbiamo corrotti. Quindi io non credo...

Interviewer: Ma questo non è tipico di molti Paesi mediterranei, molti Paesi del Sud?

Interviewed: Mah, non lo so, in Italia è certamente così e lo è da sempre. Noi dobbiamo metterci in testa che la lotta alla corruzione la si fa in un modo solo: cambiando gli italiani, non cambiando le classi politiche. Le classi politiche, anche quelle nuove, si corrompono. È inevitabile.

Interviewer: Qui, allora, ci si rifà a un discorso che le è caro, che è quello dell'educazione e della scuola.

Interviewed: Ma per l'educazione ci vogliono gli educatori, per la famiglia ci vogliono i capifamiglia, i genitori. Dove sono in Italia, fra queste due categorie, i veri educatori? Non ci sono. E quindi non si cambia niente.

Interviewer: Quindi, insomma, Tangentopoli non sarà che un momento.

Interviewed: Sarà un momento. Speriamo che serva non a estirpare la corruzione, ma ridurla a quel minimo di cui parlava Clemenceau. Ma è una speranza molto labile.

Interviewer: Ma quel bubbone, secondo lei, andava fatto scoppiare comunque?

Interviewed: Prima o poi scoppiava da se. Una volta aperta la strada perché finito l'incubo del comunismo, prima o poi si doveva arrivare perché si era veramente esagerato.

La guerra alla mafia (1999).

Interviewer: Durante il fascismo e sotto i colpi del prefetto Mori quale fu la condizione della mafia?

Interviewed: Sotto i colpi del prefetto Mori, che poi furono molto enfatizzati dal regime, la mafia adottò la sua strategia abituale, che è quella che i mafiosi chiamano «del giunco»: quando imperversa il temporale, il tornado, le folate, com'era quello rappresentato da Mori, la mafia si piega come il giunco per non farsi svellere dal terreno. Poi, quando il temporale è finito, ritorna fuori. E questo avvenne anche con Mori. Mori, in sostanza, non fu un vincitore, fu uno sconfitto perché la mafia, alla fine, attraverso il partito fascista locale, riuscì a farlo richiamare a Roma, sia pure insignito del laticlavio. Si disse che non gli aveva dato il tempo di arrivare alla conclusione della sua azione: quella è un'azione che non ha mai conclusione.

Narrator: Le strutture che indagavano sulla mafia si andavano, intanto, perfezionando. Magistrati intrepidi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, riuscirono a incriminare centinaia di mafiosi utilizzando le rivelazioni dei pentiti, Buscetta in testa, ma pagarono con la vita. Nel breve volgere di cinque mesi del 1992 furono assassinati Salvo Lima, eurodeputato della corrente andreottiana ritenuto vicino alle cosche, Giovanni Falcone con la moglie e la scorta - strage di Capaci -, Paolo Borsellino con la scorta - strage di via D'Amelio - a Palermo.

Interviewer: Lei, Montanelli, ha scritto che Oscar Luigi Scalfaro fu issato al Quirinale dalla carica d'esplosivo che annientò Giovanni Falcone. Nel senso che il Parlamento, impegnato in un ennesima defatigante elezione presidenziale, dovette decidere in fretta.

Interviewed: Sì, è vero.

Interviewer: La fine di Falcone e Borsellino rappresentò una svolta nella lotta alla mafia?

Interviewed: No, purtroppo no. Purtroppo segnò la fine di due grandi magistrati. Ma che quei due uomini bastassero a dare una svolta all'azione contro la mafia non ci credo, pur con tutto il rispetto per loro. Io non credo che l'azione contro la mafia possa avere svolte. Ci credo poco.

Interviewer: La mafia, secondo lei, è più fenomeno criminale, un fenomeno di costume, una mentalità?

Interviewed: È un fenomeno criminale innestato su un costume ancestrale e su una mentalità che oramai è quella di quelle regioni. È un fatto che ha degli episodi criminali, ma è un modo di vivere, di concepire la vita di relazione, ed è condizionata dal fatto che il siciliano ha più fiducia nella mafia che nello Stato. Ha meno paura dello Stato che della mafia e finché la situazione è questa non c'è niente da fare: la lotta è destinata alla sconfitta.

2 giugno 1946 – 2 giugno 2006 MONARCHIA O REPUBBLICA? Cristina Siccardi.

Il Referendum Istituzionale. L’Italia, sconfitta e affamata, umiliata e in ginocchio, listata a lutto e fiaccata, spogliata delle colonie, minacciata duramente al confine orientale dalle truppe del maresciallo Tito, occupata militarmente dagli angloamericani, è attraversata da bande di criminali e di borsari neri. Violenze, omicidi, banche rapinate, treni assaltati. Viaggiare era davvero un’avventura nel 1945. Occorrevano venti ore di treno per andare da Milano a Roma. Al sud banditismo e mafia agivano profondamente. La borsa nera, per chi se lo poteva permettere era la via per nutrirsi meglio. Chi possedeva argenteria era disposto a venderla in cambio di olio o bistecche. Dalle vie di Roma, come dalla maggior parte delle principali città italiane, sparivano i gatti per andare a finire nei piatti della gente ed il pane era fatto con la polvere di marmo; cioccolato e caffè surrogati. Fra le autorità politiche, governo, alleati e Quirinale, non si riusciva a trovare un accordo su come si sarebbe risolta la questione istituzionale: se con un plebiscito o con un referendum popolare oppure affidando la decisione ad un’assemblea elettiva. Facciamo, però, qualche passo indietro per capire meglio gli antefatti. Con la destituzione, da parte del Gran Consiglio, del 25 luglio 1943 e il successivo arresto di Benito Mussolini, avvenuto a Villa Savoia, re Vittorio Emanuele III affida al maresciallo Pietro Badoglio l’incarico di formare il nuovo governo. L’esecutivo Badoglio resta in carica fino al 22 aprile 1944, quando sarà sostituito da un nuovo governo guidato dallo stesso Badoglio, ma che avrà vita breve. Infatti, il 4 giugno 1944, gli alleati entrano a Roma e il giorno seguente Badoglio rassegna le dimensioni, per poi riottenere l’incarico dal luogotenente. Il Cln sorge ufficialmente a Roma il 9 settembre 1943 ed è composto dai rappresentanti di tutti i partiti antifascisti che si andavano riorganizzando (Democrazia Cristiana, Partito d’Azione, Partito liberale, Partito Sociale, Partito Comunista italiano). Protesta, sia perché la nomina è stata effettuata dal luogotenente Umberto, sia perché Badoglio è personaggio troppo compromesso con il passato regime. Il Cln ottiene così la nomina del proprio presidente, il demolaburista Bonomi (con l0assensop americano e l’opposizione inglese). Il nuovo governo, al quale partecipano tutti i partiti antifascisti, è reso possibile anche dalla cosiddetta svolta di Salerno, con la quale il leader comunista Palmito Togliatti propone di rinviare la soluzione della questione istituzionale e cioè: quale futuro per la monarchia? Un rinvio  per dare spazio alle urgenze del momento: la fine della guerra e l’avvio della ricostruzione del Paese. Fra i partiti del Cln non mancano contrasti e divergenze di vedute e già durante la fase dei governi di unità nazionale si cominciano a mettere a punto gli strumenti per la successiva, inevitabile, lotta per la conquista del potere. Il 2 giugno 1946 di sessant’anni fa, oltre al referendum istituzionale fra monarchia e repubblica, gli elettori votano anche per eleggere l’Assemblea Costituente, che dovrà ridisegnare l’impianto istituzionale italiano. La commissione alleata era più propensa per un plebiscito. Umberto di Savoia, nonostante avesse firmato il decreto che prevedeva l’elezione di un’assemblea, dichiarò ad un’intervista rilasciata al New York Times che un plebiscito avrebbe espresso meglio la volontà del popolo. Ma questa dichiarazione creò ulteriori contrasti perché considerata un’intrusione del luogotenente nella lotta politica. I partiti di sinistra, infatti, temevano che, con un plebiscito, l’opinione pubblica potesse essere manipolata a favore della monarchia. In quella stessa intervista al New York Times del 1° novembre 1944, Umberto esponeva la sua contrarietà alla formazione di un partito monarchico, perché voleva restare ad ogni costa sopra le parti e ciò gli guadagnò il rispetto sia degli Alleati che delle sinistre. Consapevole che troppi ex fascisti si avvicinavano alla sua persona, considerava questo fatto un pericolo in quanto «il peso del passato costituisce il più grave ostacolo per la monarchia». Pertanto intendeva lavorare per una «radicale revisione» del vecchio Statuto albertino datato 1848. Il 13 marzo 1945 Mussolini, tramite l’arcivescovo di Milano, il beato Ildefonso Schuster, fa pervenire ai comandi alleati a Roma una proposta di capitolazione, nella quale richiede che siano date a lui e a tutti coloro che hanno servito sotto la repubblica di Salò, garanzie di incolumità personale; ma gli Alleati rifiutarono di prendere in considerazione ogni proposta che non corrispondesse ad una resa senza condizioni. Il 13 del mese successivo, il generale Mark Clark, comandante delle forze alleate in Italia, lancia un messaggio alle formazioni partigiane, invitandole a rimandare ancora ogni iniziativa insurrezionale. Togliatti scrive a Luigi Longo insistendo affinché siano prese tutte le misure necessarie per l’avvio della sollevazione popolare nelle regioni settentrionali. Sottolinea, contrapponendosi proprio alle indicazioni del proclama del generale Clark, l’importanza «che l’armata nazionale e il popolo si sollevino in un’unica lotta per la distruzione dei nazifascisti prima della venuta degli Alleati… specialmente nelle grandi città». Nella sede arcivescovile di Milano, per iniziativa del cardinale Schuster, si svolge un incontro fra Mussolini e i capi del Cln, Raffaele Cadorna, Riccardo Lombardi, Achille Marazza, Giustino Arpesani e Sandro Pertini; i comunisti non mandano nessun rappresentante. A Mussolini è richiesta la resa incondizionata di tutti i fascisti e militari della repubblica di Salò e gli vengono concesse due ore per fare pervenire la risposta. In serata Mussolini fugge da Milano verso Como, verso l’ingloriosa morte. Quelli che lo seguirono «Non salivano sulle macchine», dirà il questore Lorenzo Bozzoli, «ma saltavano addirittura nell’interno di esse e ognuno partiva con la prima macchina che gli capitava». Il luogotenente ora vive in un appartamento del Quirinale, mentre Vittorio Emanuele si trova a villa Maria Pia a Posillipo. Le giornate di Umberto sono nutrite di mille e mille impegni. Si alza poco dopo le 7, riceve militari, nobili fedeli a Casa Savoia, uomini politici, funzionari dello Stato, reduci, mutilati, vedove di guerra, religiosi, studenti e partigiani. Raggiunge i fronti del Corpo italiano di liberazione (60 mila uomini), del quale aveva chiesto invano il comando. Visita gli Stati Maggiori, le truppe. Ma non basta, raggiunge paesi, città, piazze per incontrare di persona la gente. Due o tre volte al mese, approfittando delle ispezioni al sud, raggiungeva in aereo Napoli, dove andava a fare visita all’anziana duchessa d’Aosta, poi si recava a salutare i genitori: solitamente pranzava con loro e ripartiva subito dopo, visto che quelle visite lo opprimevano. Soccorre le famiglie diseredate a causa della guerra e continua ad essere vicinissimo ai soldati. Ma il suo animo è ormai bruciato ed una cortina grigia gli copre la mente, nonostante cerchi di essere sorridente: «Mi accorgevo che col crescere della lotta politica crescevano anche le posizioni fideistiche. Insomma si tornava indietro al “credere” cieco che ci eravamo lasciati alle spalle. Ricordo di aver fatto questa amara riflessione in occasione di una mia sosta a Poggibonsi. Il comando era sistemato in un palazzo sulla piazza. La campagna politica infuriava, dalle finestre aperte entrava la voce degli altoparlanti […] Erano giorni in cui sentivo il peso della storia. Ricordo soprattutto il mio volo del primo maggio 1945: decollai da Villafranca, presso Verona, con alcuni ufficiali americani, per una ricognizione. La linea tra zone liberate e territori ancora in mano ai tedeschi si faceva sempre più fluida. Partimmo con un caccia P51 e sorvolammo molti centri della Lombardia, poi ci abbassammo sulla Milano-Torino e notammo che i tedeschi in ritirata marciavano ancora con grande ordine, tanto che una loro batteria ebbe il tempo di fermarsi e di aprire il fuoco contro di noi. Riprendemmo quota per poi riabbassarci su Milano. La zona di San Siro era bloccata da veicoli ma non si capiva di chi fossero. Scendemmo sul centro e fummo sorpresi di vedere una folla immensa che inondava le vie. Piazzale Loreto brulicava di gente. Chiesi agli ufficiali americani se sapevano di cosa si trattasse, ma la cosa stupiva anche loro. Non sapevano che Mussolini era già stato ucciso e che pendeva dal distributore di quel piazzale» (L. Lami, Il re di maggio, Umberto II: dai fasti del «principe bello» ai tormentati anni dell’esilio, p. 251). Umberto, a Milano, era guardato male e di fronte a villa Crespi, dove ricevette il questore Elia, il generale Cadorna e il generale Utili, il partigiano Sandro Pertini sparò alcune raffiche di protesta. Invano il Luogotenente cerca, anche attraverso la distribuzione di  onorificenze e cavalierati, di ingraziarsi la simpatia degli Alleati. I militari degli Stati Uniti infatti erano ben disposti verso Umberto, ma il loro governo era vicino alle posizioni del Cln, dunque si optava per la formula repubblicana. Il nuovo governo di Ferruccio Parri, azionista, insidiatosi il 21 giugno 1945, viene sostituito da quello di De Gasperi il 10 dicembre, composto da ultra repubblicani: tre socialisti, tre comunisti, tre del Partito d’azione, tre democristiani, tre demolaboristi, due liberali. Le posizioni-chiave per l’abbattimento della corona sono quelle occupate da Togliatti e Romita (ingegnere socialista di Cuneo), rispettivamente ministro della Giustizia e ministro dell’Interno. «In Italia c’è un solo rivoluzionario: Nenni. Per fortuna c’è Togliatti a moderarlo», scrisse Francesco Saverio Nitti. Il pericolo per Casa Savoia è nell’aria. Vittorio Emanuele si decide ad abdicare in favore del figlio. È il 9 maggio 1946.

La posizione vaticana. Difficile comprendere la posizione vaticana di fronte alla scelta referendaria fra monarchia e repubblica. Recenti studi realizzati su documenti inediti da parte del gesuita padre Giovanni Sale (G. Sale, Dalla monarchia alla repubblica. 1943-1946 Santa Sede, cattolici italiani e referendum, Jaca Book, Milano 2003),  modificherebbero l’idea comune. Da tali carte risulterebbe che papa Pacelli non fosse ostile alla repubblica, seppure abbia preso una posizione di sostegno per il giovane re Umberto II costretto all’esilio per colpe ereditarie. Al contrario, sempre da tali ritrovamenti cartacei, De Gasperi, considerato dagli storici un fermo assertore della repubblica, avrebbe preferito che in Italia non si cambiasse regime istituzionale e la sua scelta finale sulla repubblica, conforme a quella della Democrazia Cristiana, venne dettata soprattutto da ragioni di realismo politico. Ma altre fonti ci rivelano un’altra realtà, dove il Vaticano appare favorevole alla conservazione della monarchia. Forse nello stesso ambiente della Santa Sede si dividevano fra monarchici e repubblicani. Leggiamo in un documento redatto dall’Ambasciatore argentino in Italia, Carlos Brebbia, e diretto al ministro degli esteri argentino, Juan J. Cooke e datato Roma, 21 marzo 1946: «Una repubblica turbolenta con maggioranza socialista e comunista, realizzandosi in Roma, costituirebbe una minaccia costante per la cristianità rappresentata dalla autorità spirituale del Papa. L’appoggio del Vaticano a favore della Monarchia è ostensibile e evidente affinché i cattolici sappiano a favore di chi dovranno votare. I vescovi hanno ordinato l’apertura dei conventi di clausura affinché le monache partecipino alle elezioni e durante l’ultimo Concistoro, tutti i cardinali presenti a Roma accolsero l’invito del luogotenente per presenziare ad un ricevimento dato in onore dei nuovi porporati nei saloni del Palazzo del Quirinale, al quale assistette il Corpo Diplomatico e l’alta società romana […] Alcuni si chiedono se le elezioni si terranno veramente il 2 giugno. Si può rispondere affermativamente a meno che ciò non venga impedito da cause elusivamente interne. Un motivo di dubbio sorge a proposito dei 371.000 prigionieri tuttora all’estero e che non potranno votare; e d’altra parte il fatto che 300/400.000 cittadini dell’Alto Adige non potranno farlo poiché non sono preparate le liste elettorali, così come le popolazioni della Venezia Giulia, che sono nell’impossibilità di andare alle urne. Se succedesse qualche fatto causato dall’esterno, come per esempio, un colpo di mano di Tito su Trieste, l’emozione in Italia sarebbe profondissima e altrettanto profonda l’irritazione contro il Governo e in special modo contro i comunisti, cosa che potrebbe originare tali tumulti e perturbazioni dell’ordine pubblico da obbligare a spostare le elezioni. È da osservare che anche quando la differenza tra monarchici e repubblicani fosse di poca importanza, il fatto che alcune centinaia di migliaia di italiani non abbiano potuto partecipare alla votazione, potrebbe indurre la parte perdente a reclamare l’invalidità dei risultati». Comunque sia, Casa Savoia continuò ad essere assai popolare e uscì dal referendum non certo umiliata, anche se sconfitta, nonostante la demonizzazione di Casa Savoia, in particolare della figura di Vittorio Emanuele III, ad opera dei fascisti durante la guerra civile, prima, e dei partiti antifascisti, dopo e durante la campagna elettorale. Le piazze, dove si svolgevano i comizi erano gremitissime, nonostante la distruzione economica e morale degli italiani, l’entusiasmo non era stato soffocato, c’era voglia di novità e le aspettative erano grandi. E l’America poi era vista come una sorta di Eldorado: gli Stati Uniti erano gli angeli liberatori e il sogno americano penetrava  ovunque con la sua musica, i suoi film e i suoi libri. Umberto II, incapace di vendersi, manifestò fino in fondo le sue doti di sovrano democratico, moderno ed europeo. Gli mancò comunque il tempo, quaranta giorni appena per riuscire ad offrire (senza il mezzo televisivo) all’Italia un’immagine autonoma rispetto all’imperante figura paterna.

Al voto. I certificati elettorali del referendum per la scelta fra monarchia e repubblica vengono stampati in due modelli. Il primo è quello inviato ai cittadini, il secondo è un duplicato, in caso di smarrimento. Sono stampati 40 milioni di esemplari, ma Romita annuncia solo 28 milioni di votanti. I sospetti di brogli hanno il loro avvio. La regina Maria José vota il 2 giugno a Roma, nella sezione di largo Brazzà. Con sé non ha documenti, allora il presidente del seggio fa testimoniare due persone perché venga riconosciuta e possa procedere alla votazione. La regina vota scheda bianca per il referendum. Indro Montanelli sosterrà che Maria José  il 2 giugno del 1946 votò per la Monarchia, per lealtà verso l’istituzione, ma senza illusioni. Umberto vota il 3 giugno in via Lovanio. È applaudito, ma il presidente del seggio arresta l’entusiasmo dichiarando che sono proibite manifestazioni di carattere politico. L’affluenza alle urne fu notevole: l’89,1 % dei votanti rispetto agli elettori. Il 2 giugno furono eletti i deputati dell’Assemblea Costituente. Fra i maggiori partiti, il 35,18% dei suffragi toccò alla Democrazia cristiana. Le operazioni referendarie furono gestite da tre ministri di sinistra del primo gabinetto dell’onorevole democristiano Alcide De Gasperi: il ministro per la Costituente, il socialista Pietro Nenni, per l’Interno il socialista Romita e per la Grazia e Giustizia il comunista Togliatti. «I loro apparati legislativi furono responsabili di testi e di formule spesso approssimativi, elusivi, sovente passabili di interpretazioni controverse. I seggi vennero chiusi alle ore 14 del 3 giugno. Presero a dipanarsi ore elettriche. Dopo un accentuato ritardo nell’afflusso dei verbali da parte del ministero della Giustizia, nelle prime ore del giorno 4 giunsero le prime percentuali e i voti fino ad allora scrutinati davano una maggioranza monarchica, ma i voti del sud, quelli più a favore dei Savoia, dovevano ancora arrivare. La percentuale repubblicana si collocava fra i 30 e il 40 per cento. Al mattino parve che per la repubblica non ci fosse niente da fare: “Mi chiusi nello studio per scorrere e riscorrere quei dati. No, non era possibile! Tornai a leggerli, prendendo appunti, facendo calcoli! No, non era possibile! Eppure le cifre erano lì, col loro linguaggio inequivocabile! Per riordinare le idee mi alzai in piedi e mi diedi a passeggiare su e giù per la stanza una, due, tre volte; quindi, d’improvviso spiccai una corsa e tornai allo scrittoio […] Non era possibile eppure era vero, verissimo, paurosamente vero: la Monarchia si presentava in netto vantaggio. Mi accasciai nella poltrona, gli occhi fissi verso l’alto soffitto in ombre […] Il telefono squillò più volte […] Ero affranto!”». E ancora: «Era vero, verissimo, paurosamente vero: la monarchia si presentava in netto vantaggio. La monarchia sta vincendo, mormorai… Che cosa avrei detto a Nenni, a Togliatti, a tutti gli altri che non volevano l’avventura del referendum?». «Che cosa avrebbe detto a coloro ai quali aveva promesso la repubblica?» (M. Caprara, L’ombra di Togliatti sulla nascita della Repubblica. Le pressioni del Guardasigilli sulla Corte di Cassazione, in «Nuova Storia contemporanea», novembre-dicembre 2002, n. 6, p. 135). Romita informò Togliatti che la Monarchia era al 54% dei voti. Quella stessa mattina del 4 giugno il presidente De Gasperi aveva inviato al ministro della real Casa, Falcone Lucifero, una significativa lettera manoscritta nella quale si annunciava una maggioranza, per il momento, di scelta monarchica, ma aggiungeva: «Romita considera ancora possibile la vittoria repubblicana». Il presidente del Consiglio affermava inoltre nel documento: «Io, personalmente, non credo che si possa – rebus sic stantibus – giungere a tale conclusione, cioè alla ormai improbabile vittoria repubblicana» (M. Caprara, L’ombra di Togliatti sulla nascita della Repubblica. Le pressioni del Guardasigilli sulla Corte di Cassazione, in «Nuova Storia contemporanea», novembre-dicembre 2002, n. 6, p. 135). La Corte di Cassazione avrebbe dovuto dire l’ultima parola e gli Alleati, che avevano ancora il controllo effettivo del Paese, «non intendono che il vostro governo assuma una posizione in contrasto con le decisioni della Corte di Cassazione» (M. Caprara, L’ombra di Togliatti sulla nascita della Repubblica. Le pressioni del Guardasigilli sulla Corte di Cassazione, in «Nuova Storia contemporanea», novembre-dicembre 2002, n. 6, p. 135). In un’approfondita indagine di Franco Malnati viene, passo dopo passo, esaminato tutto il «giallo» dei risultati referendari in un gioco delle parti assai travagliato, arrivando ad una forte conclusione: «Va detto ad alta voce che se col voto del 2 giugno 1946 il popolo italiano doveva impegnare il proprio avvenire istituzionale, scegliendo fra Monarchia e Repubblica, esso popolo italiano aveva il diritto di pretendere un voto regolare e controllato in ogni sua parte. Una volta stabilito che ciò non è avvenuto, e non solo per generici brogli, bensì per il capovolgimento doloso del risultato, ne derivano conseguenze importanti, sia sotto il profilo istituzionale, che viene rimesso completamente in discussione, sia sotto quello storico-politico, in quanto è evidente che va riveduta, da cima a fondo, ogni valutazione sugli avvenimenti italiani del ventesimo secolo» (F. Malnati, Come fu capovolto l’esito dl referendum istituzionale. Dai diari di Falcone Lucifero nuove prove del capovolgimento dei risultati del 2 giugno 1946, in «Nuova Storia Contemporanea», novembre-dicembre 2002, p. 147). È la mattina del 5 giugno. Sul Palazzo del Viminale viene ammainata la bandiera tricolore, già priva dello stemma sabaudo, quando De Gasperi viene ricevuto da re Umberto: «Maestà, il lavoro di spoglio ha portato alla constatazione di una considerevole maggioranza a favore della repubblica. Non le nascondo che a esserne per primo dolorosamente sorpreso sono io». In realtà, lo si saprà in seguito, Alcide De Gasperi aveva votato in favore della repubblica. Il re signore non fece alcun commento e non degnò di uno sguardo neppure i verbali che gli venivano presentati. Si limita ad affermare che non appena la Corte Costituzionale confermava e promulgava i dati ufficiali avrebbe lasciato l’Italia. Aveva già disposto che i gioielli di Casa Savoia venissero donati allo Stato. Poi invitò la moglie a partire subito insieme ai figli. Maria Josè era fortemente contraria, ma Umberto II non mutò idea. Vennero preparate le valige e la regina, insieme a Maria Pia di dodici anni, Vittorio Emanuele di nove, Maria Gabriella di sei e Maria Beatrice di tre, partirono alla volta del porto di Napoli per salpare alla volta del Portogallo sull’incrociatore Duca degli Abruzzi. Dal referendum istituzionale risultavano 12.717.923 schede a favore della repubblica contro 10.719.284 a favore della Monarchia. Ci si appellò ai ricorsi  per le illegalità commesse, fra i quali quelli di Edgardo Sogno che richiese l’annullamento del referendum in quanto non vi avevano partecipato le province di Bolzano e della Venezia Giulia. Mancavano internati, prigionieri ancora all’estero e profughi, circa due milioni di votanti. De Gasperi prese a fare la spola fra il governo e il Quirinale. Strattonato di qui e di là: comprendeva le ragioni legalitarie di Umberto II, ma allo stesso tempo il clima rivoluzionario del governo gli bruciava fra le mani. Pesanti scambi dialettici intercorrevano fra lo stesso De Gasperi e il ministro della real Casa Falcone Lucifero: «Domani mattina, o lei viene a trovare me a regina Coeli o io vengo a trovarci lei». La paura serpeggiava fra gli uomini di governo, sapevano che Umberto II avrebbe potuto reagire duramente sostenuto dalla fedeltà dei carabinieri e da una buona parte delle Forze armate. Pavidamente  i responsabili dei partitti, per primo lo stesso Palmiro Togliatti, la sera della rottura avvenuta fra il re e De Gasperi, andarono a dormire in casa di amici o in altri luoghi ritenuti più sicuri di casa propria. Sarebbe bastato un ordine di Umberto II per scatenare una nuova guerra civile fra l’Italia del Nord repubblicana e l’Italia del Sud monarchica, mentre le truppe di Tito premevano ai confini nordorientali e a Napoli e a Taranto scoppiavano tumulti popolari sedati a raffiche di mitra con la nuova polizia. A questo punto De Gasperi domanda ad Umberto di ritirarsi a Castel Porziano. La sera del 12 il re lasciò il Quirinale, ma restò a Roma andando a cena da un carissimo amico giornalista, Luigi Barzini, vicedirettore de il Tempo, il quale lascerà questa toccante testimonianza: «Era davvero il nostro re, in un certo senso il primo vero re d’Italia. Era l’uomo assolutamente privo di faziosità che occorreva al Paese dopo tanti disastri di faziosi. Nessuno degli uomini politici che l’hanno combattuto e calunniato con tanto accanimento e che oggi ha la scena politica tutta per sé può essergli paragonato, senza fargli grave torto» (L. Barzini, Il mio amico il re, in «Mercurio», luglio-agosto 1946). Barzini si allontanò per raggiungere la redazione del suo giornale a da lì telefonò a casa per avvisare che in quelle ore il Consiglio dei ministri, senza attendere le decisioni della Suprema Corte sui risultati del referendum, aveva  nominato De Gasperi capo provvisorio del nuovo Stato. Verso la mezzanotte Barzini fece sospendere la tiratura in corso del suo giornale e scrisse il titolo della prima pagina: «C’è stato il colpetto di stato». D’altra parte testimonierà, il 10 giugno 1946, monsignor Borgongini Duca, incaricato dalla Santa Sede di tenere i collegamenti della Santa Sede con governo e Casa reale: «… la Cassazione stasera non darà i risultati definitivi; quindi, se S.E. De Gasperi assumesse la Presidenza provvisoria e proclamasse scaduta la Monarchia, farebbe un atto non costituzionale. Vorrebbe la Santa Sede avvisare De Gasperi di non farlo. Mi pare però che De Gasperi abbia già detto chiaramente che, se la Cassazione non si pronuncia, la proclamazione di un governo repubblicano provvisorio sarebbe un Colpo di Stato, che non è nelle sue intenzioni». Eppure lo stesso De Gasperi alla domanda di monsignor Borgongini Duca del 13 giugno: «È proclamata o meno la repubblica?», l’onorevole così gli risponderà: «Il Governo ha evitato tale affermazione, però il nostro pensiero è che la monarchia è decaduta a termine di legge, dal momento che la Cassazione ha proclamato la maggioranza, quindi abbiamo una repubblica con regime transitorio per volontà sovrana del popolo».

Un «pasticciaccio» all’italiana. Dunque una repubblica con regime transitorio? Una cosa è chiara in tutto questo marasma, la repubblica è nata sotto l’egida di un «pasticciaccio» all’italiana. Qualcuno, temendo di essere arrestato per quel gioco, pensò di arrestare Umberto II giocando d’anticipo. Così, mentre Togliatti trovò riparo nell’ambasciata sovietica, il re, per non essere catturato, andò a dormire, sempre in quella notte fra il 12 e 13 giugno, in casa dell’amico ingegnere Corrado Lignina in via Verona. Falcone Lucifero la mattina del 13 giugno sottopose ad Umberto II quattro soluzioni:

1. Il re dichiarava decaduto il governo in carica, costituendone uno nuovo; inchiesta sul referendum e nuova consultazione.

2. Il re ignorava l’operato del governo e attendeva il giudizio della Cassazione, previsto per il 18 giugno.

3. Il re emanava un proclama che, denunciando l’usurpazione, si appellava al popolo.

4. Partenza del re senza alcuna abdicazione, nessun passaggio di poteri e con proclama alla nazione.

Il re accolse l’ultima ipotesi, non accettando neppure l’offerta che gli venne dal generale Anders, il quale gli offriva il suo appoggio con le sue truppe polacche rimaste in Italia dopo che la Polonia era stata occupata dai russi. Abbandonando ogni tipo di  azione di rivalsa, proposta da molti suoi consiglieri, il re preferì abbandonare il suolo italiano. Fin dal principio Umberto II rinunciò alla polemica sui voti: per il re l’illegalità più che dalle schede presto distrutte – impedendo ogni controllo postumo – derivava da quello che lui definiva Colpo di Stato avvenuto nella notte fra il 12 e 13 giugno. Scriveva ancora monsignor  Francesco Borgongini Duca a monsignor Giovan Battista Montini il 6 giugno 1946: «… Dopo cinque minuti di attesa sono stato introdotto da Sua Maestà: l’ho trovato pallido e addolorato, ma calmo. Quando mi ha veduto ha quasi sorriso. «Mi ha ringraziato del pensiero gentile di essere andato per salutarlo. Ho risposto che andavo da lui per missione espressa di Sua Santità e gli ho detto testualmente: “Sua Santità è stata sempre vicino a lei per tutto questo tempo, ma specialmente ora nel momento del dolore. Il Papa manda per mio mezzo la benedizione apostolica a vostra Maestà, alla regina ed ai bambini, perché sia loro di conforto e propiziatrice dei divini favori”.

«Mi ha detto parole di profondo ringraziamento e devoto omaggio a Sua Santità […]. «Quindi ha detto: “Ho fatto tutto il mio dovere e da solo con i miei piccoli mezzi, ho combattuto ed ho ottenuto 10.000.000 di votanti per la monarchia. Quando si pensi che gli altri hanno avuto per due anni piena libertà di azione, appoggio dagli Alleati e oro a profusione dalla parte che si sa, e con tutto questo hanno avuto solo 2.000.000 di maggioranza con un numero di votanti che è diviso e suddiviso in tante fazioni di partiti, si deve concludete che chi ha vinto il referendum è la monarchia, la cui massa di elettori è tutta compatta; perciò mi diceva ieri sera un ufficiale americano: “Il Presidente della repubblica dovrei essere io”. […] «Ho dato ordine a tutti i Principi di Casa Savoia di dimettersi dai posti dell’Esercito e della Marina […] Non volevo che per causa di qualche principe si inscenassero dimostrazioni pro o contro, le quali avrebbero potuto dare pretesto alle truppe di Tito di entrare in Italia per ristabilire l’ordine. «Quanto all’avvenire d’Italia non è facile fare previsioni […] ho dato precisi ordini circa le Cappellanie e fondazioni di messe che ho fatto sempre celebrare puntualmente, ma che ora non avrò più i mezzi di continuare a far celebrare. «”Circa la Santa Sindone, che è proprietà mia personale e che ho promesso al cardinale Fossati di rimandare a Torino […] ogni decisione sia sottoposta al Santo Padre”. «[…] nei momenti in cui ha mostrato maggiore pena, ho parlato di Dio e della fiducia che tutti dobbiamo avere in lui (su di che il re veramente era d’accordo) ed io aggiungo che dopo la bufera abbattutasi sull’Europa, la vita nostra è quella delle foglie nel vortice del vento, ma solo nell’Eternità avremo la vera pace. Ho detto pure a Sua Maestà che in questo momento egli dava grande esempio di calma, di patriottismo e di fede cristiana. Risposta: “Non ho mai nascosto questi miei sentimenti a nessuno”.

«Gli ho domandato quando intendeva partire. «Mi ha risposto: “Non appena saprò chi è il mio successore e gli avrò stretto la mano facendogli i miei auguri. Intanto la legge ancora mi riconosce come re ed oggi stesso verranno alcuni ministri per farmi firmare dei decreti in articolo mortis». In realtà non gli faranno stringere alcuna mano e senza seguire i dettami della legalità si  stabilì che l’Italia diventava repubblica: il 18 giugno venne proclamata, con effetto retroattivo dal 2 giugno, mentre la monarchia era decaduta il 13. Così per cinque giorni l’Italia non fu né monarchia, né repubblica. Il solo caso al mondo di uno Stato sospeso fra due sistemi. Ad Umberto II parve di vivere una situazione irreale. Fra le mani aveva un vasetto di vetro, dentro era contenuta terra italiana. Dal velivolo vide Roma in un velo grigio di pioggia e all’improvviso gli tornò il senso della durissima realtà. Fu allora che, non avendo più da recitare con alcuno, lasciò scivolare via le lacrime. Dirà più tardi, ormai lontano dal cielo italiano, durante il pranzo offerto in suo onore a Barcellona che fu costretto ad accettare per ragioni di educazione, ma che avrebbe preferito di gran lunga rifiutare: «Certo, in quelle ore non potevo essere brillante, da che – perché non dirlo? – durante quell’agitato viaggio, per religioso ch’io sia, avevo invocato la morte». È necessario precisare che soltanto gli storici e i monarchici hanno realizzato ricerche e approfondimenti sull’argomento Referendum 1946. I partiti repubblicani (la maggioranza) mai: nessuno di questi, infatti, ne avrebbe avuto convenienza.

In sintesi. I documenti decisivi per la prova dei brogli referendari sono essenzialmente due: una confessione pubblica del ministro Giuseppe Romita ed un prospetto ufficiale del Ministero degli Interni, con i dati del referendum alle ore 08,00 del 4 giugno 1946 che rettifica la confessione dello stesso Romita. L’acceso repubblicano, tredici anni dopo i fatti (1959) scrisse un libro Dalla Monarchia alla Repubblica, pubblicato dalla Casa editrice Nistri e Lischi diPisa, descrivendo le fasi del trapasso istituzionale. Un capitolo del saggio è intitolato «E una notte la Monarchia fu in vantaggio», dove l’autore pone bene in evidenza la gestione a senso unico impressa dallo stesso Romita alla consultazione popolare. La combinazione di queste due prove porta alla conclusione che verso le 2 del mattino del 5 giugno 1946, a scrunio pressoché finito e ormai «mescolato», la Monarchia si presentò in netto vantaggio per questa ragione Romita era disperato.. Il libro di Romita è introvabile, anche nelle librerie antiquarie. Insomma, la Monarchia aveva vinto e l’esito del Referendum è stato alterato artificialmente gonfiando la somma dei voti repubblicani in modo da attribuire alla Repubblica un vantaggio di due milioni di voti. Le statistiche parlano chiaro: su una popolazione italiana di 43 milioni di abitanti c’erano 25.800.000 elettori iscritti (Dati Istat). Come mai, allora, risulteranno presenti circa due milioni di schede in più rispetto agli elettori? Palmiro Togliatti ebbe paura che, per un motivo qualsiasi, i conteggi circoscrizionali dovessero essere rifatti. La legge, però, non prevedeva nulla del genere, perché ci si affidava alla «correttezza» dei funzionari circoscrizionali. Ci fu però il ricorso Selvaggi-Cassandro basato sulla lettura contraddittoria della legge, la quale affermava che sarebbe stata vittoriosa la forma istituzionale che avesse riportato «la maggioranza degli elettori votanti», fissando, così, un quorum che costringeva a tenere conto anche dei voti nulli. Nella sua prima seduta, quella del 10 giugno, la Cassazione lo accolse, avvertendo che in una seconda seduta (18 giugno) avrebbe indicato il totale degli elettori votanti. Ciò significava riaprire tutti i verbali. Tale incidente poteva mandare a monte tutto il disegno repubblicano dei comunisti.. Per tale ragione il Governo forzò i tempi e proclamò subito la Repubblica per impedire un reale controllo. Infatti, partito il Re per l’esilio  in Portogallo, il controllo non si fece affatto. E il 18 giugno la Cassazione non indicò il totale degli elettori votanti, respingendo il ricorso Selvaggi-Cassandro e affermando che la legge dichiarando «elettori votanti» aveva inteso dire «voti validi».

Questo il proclama con il quale Umberto II lasciò l’Italia: «Italiani! Mentre il Paese, da poco uscito da una tragica guerra, vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore e altre lacrime siano risparmiate al popolo che ha già tanto sofferto. Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto. A tutti coloro che ancora conservano fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia e il mio saluto a tutti gli Italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l’Italia! 13 giugno 1946».

Per i 60 anni dal Referendum è utile, per chi desidera approfondire lo scottante tema, leggere il libro di Massimo Caprara, L’inchiostro verde di Togliatti (Simonelli Editore). Caprara è testimonene diretto e vivente delle vicende referendarie dell’epoca: era segretario particolare di Palmiro Togliatti, al servizio di Stalin e leader del maggior partito repubblicano del Paese, nonché ministro della Giustizia nel Governo che organizzò il referendum. È interessante riportare alcune parole di questo testimone d’eccezione: «A Palermo, proprio a me era accaduto d’assistere a uno spettacolo teatrale di grande effetto e portata elettorale. Umberto di Savoia aveva appena finito di parlare da un balcone del Palazzo dei Normanni, quando, dall’aulico portone di fronte, uscì un corteo quaresimale, orante. In coda, il Cardinale Arcivescovo della città, con un grande manto rosso le cui code erano rette da gentiluomini e scambini di Curia con fede liturgica e fiaccole fiammeggianti. Il Cardinale traversò, con portamento fiero, tutto il lastricato e s’accinse a salire la gradinata, quando Umberto gli si fece incontro. Lasciò il balcone, ne scese regalmente gli scalini, poi si inginocchiò e baciò compunto l’anello del Presule. La folla impazzì di trasporto […] “Almeno a Roma la Dc ha detto sì alla Repubblica” feci mnotare a Togliatti, raccontandogli la parata. “È importante, ma non decisiva, questa scelta” replicò lui. “È decisivo che con quel voto i monarchici del parito cattolico si siano impegnati ad accettare l’esito della consultazione, qualunque esso sia”. “Ma la Democrazia Cristiana non potrà smentirsi” osservai. “Il paradosso sta in questo. La Dc è prevalentemente repubblicana nella sua dirigenza ma in maggioranza monarchica nel suo elettorato. La sua capacità di mediazione tra destra e sinistra, tra monarchia e partiti repubblicani, tra noi e l’amministrazione anglo-americana, che tutta repubblicana non è per timore delle sinistre, sta in questa doppiezza. Come ufficio del Guardasigilli, tocca noi, per ora, vigilare” concluse. «Ma appena furono noti i primi risultati della consultazione, Togliatti non solo vigilò, ma intervenne. In vista del Referendum, era stato costituito presso la Corte suprema di Cassazione del Regno, un ufficio elettorale speciale con il compito di sovrintendere alla raccolta, al controllo dei voti e, soprattutto, di provvedere alla proclamazione dei risultati. Presidente, il Presidente della Cassazione, Giuseppe Pagano; Procuratore generale, Massimo Pilotti. Alla chiusura dei seggi non risultò pacifico il numero dei voti e tanto meno chi avesse vinto: se la Monarchia o la Repubblica. La prima contava su poco meno di 11 milioni di voti; la seconda su poco più di 12.. Nacque una questione delicatissima di interpretazione. Gli avvocati della Real Casa, guidati dall’onorevole Vincenzo Selvaggi, deputato,, assunsero immediatamente il patrocinio del Quirinale. Come avrebbero dovuto essere computati i voti nulli e le astensioni? Se calcolati, il quorum sarebbe cambiato a svantaggio per la Repubblica. Giuseppe Romita […] mi telefonò allarmatissimo, pregando d’informare Togliatti della rischiosissima impasse. Nenni, ministro della Costituente, fece lo stesso. Togliatti sembrò, sulle prime, distratto, in attesa. Poi, qualche momento dopo queste comunicazioni, che ebbi immediatamente cura di trasferirgli, si sedette alla sua scrivania di Guardasigilli al Palazzo di via Arenula e intinse la penna nell’inchiostro verde. «Subito, al Presidente Pagano» m’ingiunse, consegnandomi una busta intestata del Ministero di Grazia e Giustizia. Arrivai all’abitazione del Presidente, in viale Regina Margherita, passando per Villa Borghese e poi per il centro.. Notai che dal Vicinale era stata ammainata la bandiera con lo stemma sabaudo, ma che il gagliardetto reale sventolava sulla torretta di Gian Lorenzo Bernini al Quirinale. Il Presidente mi ricevette mentre era a tavola e mi salutò con il tovagliolo infilato nel colletto. Aprì la lettera. «Avvisi il signor Ministro che provvederò come chiede» mi comunicò. L’ordinamento giudiziario allora in vigore stabiliva una certa dipendenza della magistratura dal Guardasigilli, specialmente in materia referendaria.

Il Presidente letteralmente non provvide. Non proclamò né smentì la nascita della Repubblica. Così gli aveva chiesto il Ministro. Il 10 giugno […] accompagnammo Togliatti a Montecitorio, dove, nella Sala della Lupa, era riunito, come stabilito dalla legge, l’ufficio elettorale della Corte suprema. «Andiamo a prendere un gelato in piazza del Parlamento, alle spalle dell’ingresso di Montecitorio» ci ordinò Togliatti. E aggiunse: «Vedrete, non succederà niente».

Nel salone in fermento, la voce del Presidente non annunziò chi avesse vinto. Si limitò a comunicare che lo spoglio delle schede era ancora in corso: come Togliatti confermò. Neanche una parola sulle schede nulle o le astensioni. La Repubblica non nacque dai voti, ma fu proclamata dal Consiglio dei Ministri, il cui Presidente, De Gasperi, assunse subito le funzioni straordinarie assegnategli dalla legge […] Nessuno ebbe più la forza di insistere.

«I parti difficili vanno assistiti e pilotati» ci disse Togliatti quando, ormai al tramonto, uscimmo dalla Camera dei Deputati».

I manifesti che venivano appesi per paesi e città del Sud proclamavano così: «Italiani Meridionali! La Democrazia Cristiana ci ha traditi! È venuta meno alla parola data in tutte le chiese, ci ha strappato il nostro re! Meridionali è l’ora di agire, De Gasperi crede che facendo circolare per Napoli e per tutto il Meridione d’Italia gli sgherri del Nord, crede di sfuggire alla giusta punizione che il Sud gli darà! Dalla Sicilia dalla Calabria dalle Puglie sono arrivati i rappresentanti di quelle regioni i quali ci hanno portato i desiderati di quelle popolazioni: Separatismo!!». Altro rancore, altro odio in un’Italia martoriata dalla destra, dalla sinistra e ora anche dal centro. Dalla Toscana in su aveva prevalso la repubblica, da Roma in giù la monarchia. La mancata saldatura fra il Nord e il Sud, fonte di reciproche incomprensioni, avrebbe costituito anche sotto la repubblica una remora per lo sviluppo armonico e la crescita civile. Il Sud accolse il responso delle urne come un’altra prevaricazione delle regioni settentrionali, dopo la conquista garibaldina del 1860. «Separatismo! Ecco il grido che risuona nel Meridione d’Italia, guerra alla Democrazia Cristiana traditrice nella nostra causa, Italiani del Sud, in alto i cuori, il nostro re, il nostro padre tornerà appena si sarà avverato il nostro desiderio, desiderio che non avrà sosta finché esisterà il nostro re! […] La parola d’ordine per il momento è boicottare tutto ciò che ci viene dal Nord […]. «Nessun Meridionale entri più in chiesa, tutte le nostre proteste dovranno essere mute! Noi non desideriamo alcun spargimento di sangue, noi su questo punto insistiamo perché se volevamo spargere sangue a quest’ora qui non esisteva nemmeno un dito di repubblicano […] è inutile che il Sig. De Gasperi mandi in giro per Napoli un esercito agguerrito di forza Pubblica per spaventarci […] ». I separatisti invitavano la popolazione ad astenersi dal comprare qualsiasi giornale, negli acquisti occorreva dare preferenza ai commercianti monarchici i quali nel loro negozio avevano un contrassegno visibile. Inoltre commercianti, industriali, professionisti, erano chiamati a licenziare il personale repubblicano. Ad albergatori, affittacamere, vetturini, taxisti veniva chiesto di non prestare servizio ai cittadini del Nord. Si domandava inoltre ai privati di non rispondere ai «nordisti» se avessero chiesto loro informazioni o se volevano potevano rispondere, ma in modo sbagliato. E poi ai ristoranti, di qualunque categoria, c’era l’invito di non dare da mangiare ai cittadini del Nord anche se accompagnati da «sudisti». Un noto industriale di Palermo, la cui identità è per noi ignota, offrì al movimento separatista la bellezza di 50 milioni di lire, per l’epoca un’enormità. Dei brogli del referendum gli Alleati se ne lavarono le mani, anche perché, come scrive l’8 giugno 1946 monsignor Borgongini Duca a monsignor Giovanni Battista Montini: «Alla Presidenza [del Consiglio, ndr] si lamentano i vari brogli avvenuti nei seggi elettorali, per cui il risultato del referendum è assai discutibile. Anche i verbali sembrerebbero fatti senza coscienza e molti di essi mancherebbero degli allegati riguardanti le schede annullate o in bianco. L’atteggiamento degli Alleati, che sembra quasi passivo, si ascriverebbe ad una presa di posizione della Russia, la quale avrebbe dichiarato di rompere le relazioni diplomatiche se essi tentassero di ingerirsi nel referendum, come hanno fatto in Grecia». Il 22 giugno Togliatti, segretario del Pci e ministro di Grazia e Giustizia, mise la sua firma sotto il più clamoroso dei provvedimenti di amnistia, valido per tutti i reati politici salvo quelli che fossero stati commessi da persone «rivestite di elevata responsabilità di comando civile o militare» e salvo i fatti di strage e di sevizie «particolarmente efferate» compiute anche sotto la repubblica di Salò. In poco più di un mese uscirono dalle carceri italiane 30 mila fascisti. Risultarono amnistiati 219.481 imputati, e fra questi ottennero l’indulto anche 2.979 fascisti accusati di «sevizie particolarmente efferate». Perché Togliatti prese questa decisione? Tanti prefetti, questori, magistrati del regime conservarono il posto che avevano durante il regime di Benito Mussolini: un rimpasto amministrativo. Insomma, erano sempre gli stessi italiani che lavoravano sotto un altro governo e Togliatti, con intelligenza acuta, pensò bene di agire con generosità, eliminando in tal modo spazi  a chi denunciava, dall’altra parte, il sangue sparso dai partigiani in una guerra civile che sembrava non aver conosciuto pietà.

Mio nonno non amava parlare del Referendum istituzionale e del suo breve regno in Italia quando mia sorella Elena ed io andavamo in vacanza a Villa Italia a Cascais. Ho sentito dei ricordi di questo periodo da mia madre, che all’epoca aveva quasi 12 anni. Primogenita di re Umberto II e della Regina Maria José, è l’unica ad avere vissuto la vita a Corte ed essere stata testimone di questo drammatico periodo, che terminò, per mia nonna e per i figli, a Napoli, nella casa dedicata a mia madre, Villa Maria Pia. Negli ultimi anni della vita di mio nonno, mi sono potuto rendere conto di quanto fosse ingiusta la storia divulgata per interessi di parte. Anche per questo motivo, ho accettato di scrivere la prefazione del libro di Micaela Mastronato, che nel volume Scacco al Re (Argo Editore) ha proposto alcune delle possibili riflessioni del Sovrano. Dopo 60 anni, queste pagine di sotria debbono essere scritte con la serenità e l’obiettività necessarie. Non si può negare, ad esempio, che l’8 settembre 1943 il re, conscio della necessità di trasferirsi a Brindisi per non lasciare l’Italia nelle mani di potenze straniere, gestì la «questione romana» sfidando la capitale ad un componente della Famiglia reale: suo genero, il generale Giorgio Calvi di Bergolo, il cui operato, per stessa ammissione del generale tedesco Kesserling, salvò Roma dal saccheggio e dalla distruzione. Non si può più negare che l’8 settembre ci fu un semplice trasferimento del governo, non una fuga, similmente a quanto, pochi anni prima, avevano fatto, in circostanze molto simili, sia il governo francese sia quelli olandese e russo. Non si può più negare la parte importante svolta dai partigiani e dai militari fedeli al Re, senza dubbio il maggior fattore di resistenza italiana al nazismo. Non si possono più negare l’impegno e il coraggio del principe Umberto a Monte Lungo, alla testa del 1° Raggruppamento Motorizzato, il nucleo del  risorto esercito regio che proprio in quella battaglia ebbe il suo vittorioso «battesimo di fuoco». Non si può più negare il coraggio della principessa Maria José nel tornare in Italia, con il rischio d’essere catturata dai nazisti, mentre avrebbe potuto rimanere comodamente  e al sicuro in Svizzera. Non si può dimenticare il sacrificio di tanti giovani a Napoli per la Patria e il Re, in particolare di quelli barbaramente assassinati in Via Medina. Non si può negare che, 60 anni dopo questi fatti, i miei bisnonni e i miei nonni aspettano ancora, in Egitto e in Francia, degna sepoltura in Patria, al Pantheon di Roma. Non ero ancora nato in quegli anni difficili e non giudico nulla e nessuno, però desidererei vedere l’affermazione della verità storica. Abbiamo dovuto aspettare oltre mezzo secolo per il riconoscimento della tragedia delle foibe. Quanti anni dovremo aspettare ancora per una vera pace nazionale? È il mio voto, anzi il mio sogno! Quando il Comitato Olimpico Internazionale e la Città di Torino, dove ho scelto di vivere sin dal mio arrivo in Italia quindici anni fa, mi hanno chiesto di ricevere le personalità venute ai Giochi olimpici del febbraio scorso, non ho esitato. Ho dedicato questo impegno a quello che fu un vero Principe di Piemonte e un vero Re d’Italia: mio nonno. Umberto II!. Principe Sergio di Jugoslavia. Cristina Siccardi Fonte: Dimensioni nuove

Primi vagiti di una Repubblica. Barbara Prampolini l'1 giugno 2019. Il 2 Giugno si festeggia la nascita della Repubblica. E’ un evento storico , un cambio radicale. Dalla nascita della Repubblica deriva la nascita della Costituzione , in gran parte quella alla quale ancora oggi facciamo riferimento. Per comprendere appieno il fenomeno e come avvenne questa metamorfosi  , compresa la composizione della Costituzione e soprattutto il significato che allora i Costituenti vollero attribuire alle parole in essa inserite è necessario comprendere il contesto storico nel quale essa nacque. Occorre prendere le mosse dall’ultima fesa della II Guerra Mondiale.

Siamo nel luglio del 1943 quando in Italia, ormai soggiogata  dalle gravissime sconfitte militari , occupata al nord dai tedeschi e con gli americani sbarcati al sud , il Gran Consiglio del Fascismo si riunì e  decise per la  revoca  di Mussolini dalla carica di Capo del Governo affidando di nuovo alla Corona la guida del Paese;  il Re quindi , Vittorio Emanuele III, fece arrestare Mussolini e nominò quale nuovo  Primo Ministro il maresciallo Badoglio con il compito di smantellare tutte le istituzioni che avevano contraddistinto il regime fascista. Nacque un governo di Unità Nazionale di tutte le forze antifasciste. Il Re Vittorio Emanuele III era convinto in questo modo di poter , a guerra terminata, ripristinare lo Statuto Albertino , una Costituzione che era stata promulgata il 4 marzo del 1848 e continuare quindi con un regime monarchico ma questo suo intendimento trovava ferma opposizione nelle forze antifasciste.

Il giorno 8 Settembre dello stesso anno l’Italia firma l’armistizio con gli anglo-americani. Il Re Vittorio Emanuele III e la Corte, compreso Badoglio si rifugiano  a Brindisi e lasciano Roma e l’esercito allo sbando. Questo da molti venne considerato un gravissimo errore tattico e strategico. Secondo il giornalista e scrittore Indro Montanelli il Re doveva mandare a Brindisi il Principe ereditario con poteri di luogotenenza e lui rimanere a Roma e sulla soglia della Reggia aspettare l’invasore tedesco per dirgli “ il responsabile di quanto accaduto sono solo io, non il Popolo italiano, nè l’esercito italiano”. Doveva insomma accentrare su di sé tutte le responsabilità della disfatta. Con questo gesto, a parere di Montanelli,  Vittorio Emanuele avrebbe salvato quel poco che restava dell’onore nazionale e avrebbe forse salvato la Monarchia perchè gli italiani avrebbero senza dubbio  apprezzato il gesto. La situazione pertanto dopo l’8 settembre vedeva da una parte le truppe tedesche che occupavano il centro-nord , gli anglo americani al sud e i partiti antifascisti che avevano formato un Comitato di Liberazione Nazionale con lo scopo di prendere la guida del Paese sotto un regime di democrazia. Ovviamente il CLN si rifiutava di collaborare col governo Badoglio.

Sempre nel settembre del’43  i fascisti, liberato Mussolini grazie ai paracadutisti tedeschi fondarono di concerto con i nazisti la Repubblica Sociale Italiana, detta anche Repubblica di Salò che restò attiva sino all’aprile del ’45.

29 ( o 28?)  gennaio 1944 : a Bari si chiude il Congresso del CLN ( comitato di liberazione nazionale) che condanna senza appello la Monarchia attribuendo alla Corona tutte le responsabilità delle sciagure dell’Italia. Per superare le evidenti contrapposizioni  in accordo con gli anglo-americani il Governo Badoglio propone una tregua istituzionale ma il CLN in prima battuta rifiuta. Le posizioni restano ferme da entrambi gli schieramenti.

Nel marzo del 1944 Palmiro Togliatti rientra dall’esilio sovietico e assume la gestione della “questione istituzionale”. Attraverso un lavoro certosino di mediazione riesce a trovare una soluzione provvisoria che prenderà appunto il nome di “svolta di Salerno” o “Patto di Salerno” che permise di sbloccare la difficile situazione italiana.

Il 12 aprile del 1944 In seguito al Patto di Salerno quindi Vittorio Emanuele III senza abdicare si ritira dalla vita pubblica e nomina suo figlio Umberto suo luogotenente ma con la precisazione che la nomina diverrà effettiva solo dopo la liberazione della Capitale. Allo stesso tempo il Monarca accettò il nuovo Governo Badoglio e di tale governo Togliatti divenne Vicepresidente del Consiglio.

Il 25 giugno del 1944 Dopo la liberazione di Roma il nuovo Governo Bonomi approva il decreto luogotenenziale 151 , la c.d. Costituzione provvisoria. Nel suddetto decreto si delineava la forma di governo sino alle determinazioni della Costituente; nel 1946 venne poi aggiornato il decreto 151 con la previsione che la questione istituzionale quindi la scelta tra Monarchia e Repubblica fosse demandata anzichè alla Costituente al popolo attraverso appunto un referendum istituzionale.

il 10 dicembre del 1945 il nuovo Presidente del Consiglio è Alcide de Gasperi e si riaccende il dibattito sulla sorte della Monarchia ; sorge l’interrogativo su chi deciderà la nuova forma dello Stato Italiano, se l’Assemblea Costituente o il Popolo attraverso il referendum . Gli americani tramite il capo della  commissione alleata di controllo propendono per il referendum. I partiti di sinistra però sono contrari.

Il 27 febbraio 1946 de Gasperi propone al Consiglio dei Ministri un Referendum costituzionale  da tenersi lo stesso giorno delle elezioni per l’Assemblea Costituente. La proposta è accettata e  viene fissata con decreto luogotenenziale revisionato, come accennato sopra,  la data del Referendum per il giorno 2 giugno del 1946. Socialisti, comunisti, repubblicani sono per la Repubblica, a favore della Monarchia si schierano liberali, monarchici.

Il 9 maggio 1946 il Re Vittorio Emanuele III firma l’atto di abdicazione in favore del figlio che diventa così Re Umberto II , contravvenendo alla tregua istituzionale per la quale si era impegnato. Di questo episodio Togliatti scriverà: «l’ultima fellonia di una casa regnante di fedifraghi che dimostra ad ogni passo di mancare a quella buona fede costituzionale che è essenziale per chi deve regnare non con una legge assoluta, ma con una costituzione che risponda alla volontà sovrana del popolo ». Meno intransigente e più tollerante De Gasperi e neutrali rispetto all’accaduto gli angloamericani , supervisori della legalità democratica. Il nuovo Re promise di «rispettare le libere determinazioni dell’imminente suffragio». Con l’atteggiamento conciliante e pacato di Umberto II e grazie anche ad una campagna elettorale frenetica e intensa i monarchici ripresero vigore non solo al Sud , notoriamente monarchico, ma anche a Roma, il che preoccupava non poco i Repubblicani.

2-3 giugno 1946  votazioni. La ricerca storica negli ultimi dieci anni ha sollevato numerosi dubbi e perplessità su quanto avvenne proprio nei giorni del Referendum per una serie di avvenimenti che lasciano quanto meno perplessi ma andiamo con ordine.

I protagonisti di questa vicenda sono:

Giuseppe Romita Ministro dell’Interno, socialista, ( scrisse nel 1959 i “Diari).

Alcide De Gasperi Presidente del Consiglio, democristiano.

Umberto II Re.

Palmiro Togliatti Segretario Partito Comunista nonchè Ministro di Grazia e Giustizia.

Giuseppe Pagano Presidente della Cassazione.

Massimo Caprara ex Segretario di Togliatti.

Giulio Andreotti ex Segretario di Alcide de Gasperi.

Franco Malnati storico di Casa Savoia.

ore 14:00 del 3 giugno si chiudono i seggi. Nella notte iniziano ad arrivare al Viminale, che allora era la sede del Governo, i primi dati. In queste ore gli animi sono concitati perchè l’andamento dei dati oscilla repentinamente ora verso la Monarchia e ora verso la Repubblica ma è in queste ore che va in scena un giallo nel giallo: secondo il Ministro dell’Interno Romita nella notte tra il 3 e il 4 sarebbe stata in vantaggio la Monarchia mentre secondo alcuni studiosi come per esempio Franco Malnati, storico di Casa Savoia,  la notte del vantaggio dei voti della Monarchia sulla Repubblica sarebbe la notte tra il 4 e il 5 giugno.

Nel 1990 per la trasmissione Mixer il giornalista Ugo Zatterin che all’epoca del referendum era cronista per il quotidiano socialista “l’Avanti” disse che si erano sentiti più volte con Romita e che quest’ultimo non voleva assolutamente che si desse alcuna notizia di vittoria della Repubblica  fino al 5 quando fu chiara la sorte dell’Italia. Ma perchè questo atteggiamento? Si può ipotizzare che Romita non volesse che nella fase di vantaggio della monarchia la divulgazione dei risultati portasse a tumulti o moti di euforia da parte dei monarchici salvo poi magari essere disillusi qualche ora più tardi. Sempre secondo Zatterin quindi l’atteggiamento di Romita era solamente un eccesso di prudenza, tanto che lo stesso giornale di Zatterin uscì la mattina del 5 con un titolo vago : “ Si profila la vittoria della Repubblica”, nel mezzogiorno uscì l’edizione straordinaria con il titolo a caratteri cubitali “Repubblica” . E’ evidente che questo ritardo fece pensare che Romita avesse messo mano nei voti…

Secondo le memorie di Romita quindi il vantaggio della Monarchia avvenne nella notte tra il 3 e il 4 e i giornali uscirono con la notizia della vittoria della Repubblica il 4 invece i giornali uscirono il 5 quindi questa incongruenza è passibile di letture molto diverse tra loro. Ma a gettare dubbi sulla versione di Romita vi è anche una lettera che Alcide de Gasperi scrisse al Ministro della Real Casa Falcone Lucifero che porta la data delle 8 di mattina del 4 giugno: ” Signor Ministro, Le invio i dati pervenuti al Min. dell’interno fine alle 8 di stamane. Come vede si tratta di risultati assai parziali che non permettono nessuna conclusione. Il ministro Romita ritiene ancora possibile la vittoria repubblicana. Io, personalmente, non credo che si possa rebus sic stantibus giungere a tale conclusione. Cordialmente. f.to Da Gasperi (originale con allegati i dati noti conservato presso l’archivio di Stato). Questa lettera appare quindi in netto contrasto con la versione di Romita per varie ragioni. Anzitutto le sezioni scrutinate sono pochissimi nella notte tra il 3 e il 4 perchè su un totale di 35.000 sezioni sono solo 4.000 quelle scrutinate ed inoltre mancano quasi tutte quelle del Sud notoriamente monarchico.

Quindi perchè Romita sbaglia a collocare il sorpasso della Monarchia sulla Repubblica collocandolo nella notte del 4 giugno anzichè in quella successiva? Secondo Malnati “trattasi di retrodatazione volontaria allorchè scrisse i suoi Diari nel 1959 allo scopo di non far intendere che il sorpasso fosse avvenuto nella notte tra il 4 e il 5 ovvero alla fine dello scrutinio quando non c’era più niente da fare “. Della stessa opinione Francesco Perfetti della “Luiss” di Roma e anche Aldo Ricci dell’Archivio Centrale dello Stato ipotizza che con questa retrodatazione si possa pensare che siano avvenuti fatti che non si conoscono ma che in qualche modo  possono aver stravolto il risultato. In definitiva che Romita possa aver commesso un involontario errore di datazione appare quanto meno abbastanza strano, compreso il fatto che tutti i Diari di Romita sono stati pubblicati proprio tranne quello del 1946…5 giugno 1946

ore 8.00. Massimo Caprara viene convocato da Togliatti affinchè consegnasse una lettera al Presidente della Cassazione Giuseppe Pagano. La lettera conteneva l’invito a Pagano di non proclamare il vincitore del referendum ma solo di dare il numero dei voti. Infatti il 10 giugno del 1946 Pagano non proclamò la vittoria della Repubblica ma si limitò a comunicare il numero dei voti per la Repubblica e quello per la Monarchia. Come mai? Secondo Caprara questo avvenne perchè in quel momento Togliatti si era accorto che era in vantaggio la Monarchia.

ore 17:00. Il Ministro degli Interni Romita nel corso di una Conferenza Stampa annuncia i dati del Referendum. Delle 35.000 sezioni restano  da scrutinare solo 1.200. 12.182.155 sono i voti per la Repubblica e 10. 362.709 sono per la Monarchia. Nella stessa giornata del 5 giugno Alcide de Gasperi sale al Quirinale per incontrare il Re Umberto II e tutto sembra procedere per il meglio ovvero che i Savoia accettano il verdetto del Referendum.

7 giugno 1946. Un gruppo di giuristi di Padova presenta ricorso contro l’esito del Referendum sostenendo che i dati presentati da Romita non possono essere considerati conclusivi in quanto nel computo non compaiono le schede nulle e le schede bianche ma solo i voti validi attribuiti alla Monarchia e quelli validi attribuiti alla Repubblica. Ancora un altro giallo. La legge sul referendum prevedeva  che i voti dovessero essere calcolati sulla base della “maggioranza degli elettori votanti”  quindi richiedeva una maggioranza qualificata del 50%+1 dei voti espressi comprensivi quindi anche delle schede nulle e delle schede bianche. Secondo il Prof. Sabbatucci dell’Università La Sapienza di Roma la formulazione del decreto luogotenenziale del 16 marzo recava questa dicitura per ottenere la vittoria della Repubblica: “ se la Repubblica otterrà la maggioranza degli elettori …votanti” . Questa parola “votanti” inserita o meno ad arte, condiziona molto il risultato perchè appunto si dovevano includere nel computo tutte le schede e quindi il non averle calcolate risulta giuridicamente un grave errore. In ogni caso è necessario attendere l’esito finale della Cassazione.

10 giugno 1946 ore 18:00. Il Presidente della Cassazione Giuseppe Pagano comunica l’esito del Referendum senza proclamare il vincitore appunto ma limitandosi solo a leggere i rispettivi voti : intorno ai 12 milioni per la Repubblica e 10 milioni per la Monarchia  rimandando ad altra seduta la definitiva proclamazione proprio per la necessità di analizzare i ricorsi. Dopo la seduta in Cassazione, secondo la testimonianza di Caprara si trovarono: Togliatti, Andreotti, De Gasperi e Marcella Ferrara madre del Direttore del Foglio e tutti furono estremamente meravigliati per la pronunzia del Presidente Pagano. De Gasperi stesso, secondo le parole di Caprara chiese a Togliatti spiegazione su quanto avvenuto ma questi in un primo momento non rispose affermando che nemmeno lui ne aveva contezza. Solo in un secondo momento Togliatti disse: “ quando i parti non escono bene bisogna aiutarlo…” come a significare che fu aiutata la Repubblica ad uscire bene.  Una Repubblica quindi nata con delle difficoltà. Secondo Caprara, Malnati  e Perfetti qualcosa è successo durante lo spoglio delle schede e anche questo per una serie di fattori:

tutte le operazioni elettorali erano controllare dal Ministro della Giustizia, Togliatti o da  suoi funzionari senza che tuttavia ci fosse alcun controllo….

Secondo Perfetti brogli ci sono stati sia a livello periferico che centrale.

Secondo Malnati ci sono state manipolazioni di voti che hanno portato in favore della Repubblica circa 2 m.ni , 2,5 m.ni di voti.

Altra cosa. 10 giugno 1946 ore 19.00. De Gasperi torna al Quirinale perchè per il Governo il passaggio dei voti dal Re al Presidente del Consiglio è automatico ma Umberto II si oppone perchè dal suo punto di vista i dati sono ancora provvisori . Al massimo il Re può delegare i suoi Poteri a De Gasperi fino a che la Cassazione non si pronunci in via definitiva. De Gasperi convoca un Consiglio dei Ministri ma la proposta del Re viene respinta. Si innesca così una situazione di crisi istituzionale che potrebbe arrivare alle estreme conseguenze. Da un punto di vista giuridico Umberto II aveva titolo e ragione per ritenere la pronunzia della Cassazione provvisoria perchè appunto mancavano nel conteggio le famose schede nulle e bianche, oggetto anche dei ricorsi presentati dai giuristi padovani.

11 giugno ore 12:00. Nuova riunione del Consiglio dei Ministri per tentare una soluzione al problema ma il problema pare senza soluzione perchè immediatamente dopo lo spoglio le schede furono distrutte. Altro mistero. Come mai tanti storici si chiedono le schede furono distrutte immediatamente….??La distruzione delle schede rende impossibile anche alla Cassazione una pronuncia definitiva perchè questa dovrebbe includere schede che sono state distrutte…Si apre un braccio di ferro tra il Re Umberto II e il Governo ma sia il Prof. Sabbatucci che il Prof. Perfetti sono concordi nel sostenere che da un punto di vista giuridico il Re aveva perfettamente ragione ma sempre gli stessi sottolineano quanto invece da un punto di vista politico fosse pericoloso questo tira e molla di poteri che avrebbe potuto condurre il Paese ancora sofferente verso altre e ulteriori tensioni e scontri se non verso la guerra civile.

Il 12 giugno 1946 il Re fa sapere di non avere intenzione di cambiare lo stato delle cose fino alla pronunzia definitiva della Cassazione. Il Governo forza la mano e De Gasperi comunica ai giornalisti di essere praticamente il capo dello Stato. A questo punto a Umberto II non restano che due alternative: l’esilio o la prova di forza. Il Re dopo varie consultazioni cede. Questo suo atto viene letto da molti  come un atto di responsabilità , da altri come un’inevitabile soluzione in mancanza di mezzi adeguati per proseguire nel braccio di ferro.

Il 13 giugno alle 22.50 il Giornale della Sera pubblica il Proclama d’addio di Re Umberto II: Italiani! Nell’assumere la luogotenenza generale del Regno prima, e la corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello stato. Eguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato la proclamazione dei risultati definitivi del referendum. Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali, fatta dalla Corte suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare, entro il 18 giugno, il giudizio sui reclami, e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta. Improvvisamente, questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza. Mentre il Paese da poco uscito da una tragica guerra vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore ed altre lacrime siano risparmiate al popolo che già tanto ha sofferto. Confido che la magistratura potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice della illegalità che il governo ha commesso, io lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come italiano e come re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della corona e di tutto il popolo, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni sospetto. A tutti coloro che ancora conservano la fedeltà alla monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio e rivolgo l’esortazione di voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con l’animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia Patria. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia, e il mio saluto a tutti gli italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l’Italia. Roma, 13 giugno 1946. Umberto 18 giugno ore 17:00.

La Cassazione comunica i risultati definitivi confermando la vittoria della Repubblica e nel computo delle schede ha tenuto conto solo dei voti validi… Tale espressione non ha fondamento giuridico poichè contraria alla legge ma visti i tempi si pensa che anche la Cassazione volesse  blindare il risultato per evitare altro caos e altra guerra civile in un Popolo già fin troppo provato. Così come ebbe a sottolineare Togliatti : “quando i parti non escono bene bisogna aiutarli…” Fu così che l’Italia divenne una Repubblica e fu da qui che si iniziò a stilare la Costituzione che fu un altro parto difficile ma ne parleremo in un altro capitolo….

Fonti:Indro Montanelli – Mario Cervi “L’Italia della Repubblica

Emilio Gentile “25 Luglio 1943”

Massimiliano di Pirro “Istituzioni di Diritto Privato”

Rescigno “Corso di diritto pubblico”

Gianni Minoli “La storia siamo noi”

·         L’imprudenza dei socialisti.

L’imprudenza dei socialisti. Pubblicato lunedì, 24 giugno 2019  Paolo Mieli su Corriere.it. L’otto maggio 1945 segna la fine della Seconda guerra mondiale. «Ma cosa speravamo? Che il giorno dopo la Liberazione le cose fossero già sistemate a dovere e prendessero il loro corso normale?», si domanda quel giorno in una pagina di diario la partigiana azionista Andreina Zaninetti Libano; «io penso che dovremo vedere qualcosa di peggio ancora… Non si risolve di botto una situazione come la nostra». La stagione bellica appena conclusa è stata anche uno «sconvolgimento morale» scrive Antonio Giolitti in Di guerra e di pace. Diario partigiano (1944-1945) edito da Donzelli; «per costruire la pace occorre anzitutto rieducare gli uomini — in gran parte abbrutiti dalla guerra — alla responsabilità e alla dignità della condizione umana». «È un momento curioso quello che attraversiamo», scrive qualche tempo dopo al marito, Fedele D’Amico, la sceneggiatrice Suso Cecchi: «Sai che impressione ho? Sta per scoppiare il dopoguerra. Finora è stato il limbo. Ora ci avviciniamo. Non potrei spiegare altrimenti questo sgomento indefinibile che ha preso un po’ tutti. Proprio tutti. E che non è né stanchezza, né preludio di violenza. Amore mio qui scoppia il dopoguerra. Speriamo che duri poco». Parole che si possono leggere nel libro Suso a Lele. Lettere (dicembre 1945-marzo 1947), edito da Bompiani. Esce in libreria giovedì 27 giugno, il volume di Mario Avagliano e Marco Palmieri «Dopoguerra» (il Mulino, pagine 496, euro 28)È il contesto di Dopoguerra. Gli italiani tra speranze e disillusioni 1945-1947, il libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri che sta per essere pubblicato dal Mulino. Quello ben descritto da un altro libro, di Keith Lowe, Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della Seconda guerra mondiale (Laterza): non la gioia per la ripresa di una vita civile e per l’annunciata ricostruzione, bensì l’incertezza, la paura, le idee confuse. E qualche orrore. Quella che Eduardo De Filippo, nella pièce teatrale Napoli milionaria (1945), anziché come un’alba radiosa, definisce «’a nuttata». Che, dice il protagonista della commedia Gennaro Jovine, «ha da passà». Incuriosisce — a tal proposito — la periodizzazione del saggio di Avagliano e Palmieri, il loro racconto si conclude con l’accurata disamina di dodici mesi considerati fin qui dagli storici come «di passaggio». E invece quell’anno, il 1947, iniziato, a gennaio, con il viaggio di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti, conclusosi a dicembre, con il voto sulla Costituzione (nei giorni in cui Vittorio Emanuele III muore esiliato in Egitto) contiene qualcosa che merita attenzione. Grande attenzione. 

Il 1947 inizia — oltre che con il viaggio americano di De Gasperi di cui si è detto — con la scissione socialista di Palazzo Barberini (11 gennaio): nascono i socialdemocratici guidati da Giuseppe Saragat. L’indomani, il leader del Psi Pietro Nenni annuncia l’intenzione di aprire la crisi di governo: intende dimettersi da ministro degli Esteri e tornare alla direzione dell’«Avanti!». Quel giorno stesso confida al compagno di partito Giuseppe Romita: «Ormai non c’è che da fare un unico partito dei lavoratori coi comunisti».

Il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, è — documentano Avagliano e Palmieri — assai più prudente del leader socialista. Capisce al volo che De Gasperi si servirà della crisi per «riequilibrare» il governo a vantaggio della Dc (Mario Scelba andrà all’Interno e Carlo Sforza agli Esteri) e giudica frettolosa la sollecitazione fusionista del leader socialista. Il 25 febbraio 1947 nasce il terzo governo De Gasperi, l’ultimo con comunisti e socialisti. Durerà poche settimane. Il clima nel Paese è sempre più teso: il 28 marzo a Gioia del Colle, in provincia di Bari, un gruppo di militanti di sinistra reagisce ad un incendio della Camera del lavoro, tentando di linciare il presunto autore e devastando poi le sedi dell’Uomo qualunque, dei monarchici e della Democrazia cristiana. Sul suo diario Giulio Andreotti intuisce l’importanza dell’episodio e si domanda se sarà un’«una tantum» o «l’inizio di un ciclo».

Proseguono intanto i lavori dell’Assemblea Costituente. Accanto a quelle ufficiali si svolgono sedute riservatissime (ma documentate) a cui prendono parte «tre professori» della Dc, La Pira, Dossetti e Moro, Lelio Basso per il Psi, e Togliatti in persona. Il quale Togliatti coglie di sorpresa il resto della sinistra (ma anche la Dc) accettando l’inserimento in Costituzione dei Patti Lateranensi. Per tutto il 1947 il segretario del Pci mantiene la porta socchiusa al partito cattolico. Anche se alcuni risultati elettorali sono per lui incoraggianti. Il 20 e 21 aprile si tengono le regionali in Sicilia: la Dc subisce un crollo e scende dal 33,6% al 20,5%; il Blocco del popolo, socialisti e comunisti, si attesta al 30,4%, guadagnando dieci punti rispetto all’anno precedente. Per Nenni è la prova che i due partiti della sinistra devono fondersi. Il 27 aprile, in una riunione della direzione democristiana, De Gasperi riferisce di aver notato che «Saragat e i repubblicani hanno paura dei comunisti». Ma ad aver paura è anche la Dc. Il 1° novembre Paolo Emilio Taviani annoterà sul diario: «Riunione sotto la mia presidenza dei segretari provinciali della Dc dell’Italia settentrionale… Sono tutti convinti — tranne quelli di Vicenza e di Savona — che la vittoria andrà certamente ai socialcomunisti». 

Il 1° maggio in Sicilia, a Portella della Ginestra, i banditi di Salvatore Giuliano aprono il fuoco sui partecipanti alla festa dei lavoratori. L’8 maggio i comunisti francesi sono costretti a lasciare il governo. Stessa sorte tocca agli italiani. Andreotti annota però nei suoi taccuini che i fastidi maggiori vengono dal Psi: «De Gasperi non ne può più… Il doppio gioco dei socialisti è tremendo». Il 13 maggio si apre la crisi ed è curioso come i democristiani ancora una volta si sentano provocati e sfidati più dai socialisti che dai comunisti. Togliatti sorprende (positivamente) De Gasperi scrivendogli una lettera per assicurargli la disponibilità del proprio partito ad accettare aiuti economici americani (osteggiati dall’Urss). Il 31 maggio nasce il nuovo governo De Gasperi senza Psi e Pci. 

Avagliano e Palmieri notano che la prima reazione del Pci all’estromissione dal governo è «tutto sommato pacata». Il liberale Epicarmo Corbino, non senza una qualche ingenuità, domanda a Togliatti se il Partito comunista ha in cantiere «qualche mossa insurrezionale». Togliatti gli risponde: «Lei non ha capito che cosa è il Pci; la via greca, quella della guerra civile, non rientra tra le nostre ipotesi». E il 1° luglio si presenta alla direzione comunista gloriandosi per «non aver messo in campo parole d’ordine insurrezionali», cosa che «ha accresciuto il prestigio del nostro partito in determinati strati sociali e specialmente tra i ceti medi». Nenni è molto più radicale e parla di «governo nero». È lui il primo a sostenere che De Gasperi, avendo rotto l’unità antifascista, può essere considerato come colui che ha spalancato le porte al nuovo fascismo. Il 31 maggio l’«Avanti!» titola Un governo da rovesciare. Presto anche il Pci si adeguerà a questi toni. Nel secondo congresso nazionale della Cgil (ancora unitaria), a Firenze dal 1° al 7 giugno, «l’atmosfera è così elettrica che durante tutti i lavori gli interventi dei delegati dc sono costellati di fischi e di interruzioni» tanto che a un certo punto Giulio Pastore va al microfono e avverte: «O lasciate che esprimiamo il nostro pensiero, o la corrente cristiana abbandona la sala». E quando uno dei leader cattolici, Luigi Morelli, si augura che la sua corrente diventi maggioritaria «per poter portare ovunque lo spirito del primo operaio, il Cristo di Nazareth», si scatena quella che l’«Osservatore Romano» definisce «una vergognosa gazzarra».

Ma Togliatti frena, frena e frena ancora: «Spera che il governo centrista sia una parentesi temporanea», scrivono Avagliano e Palmieri. Le manifestazioni di piazza si fanno più accese. Ma nel Paese c’è incertezza. Annota il 20 settembre nel proprio diario l’azionista Giorgio Agosti, questore di Torino: «La giornata è trascorsa calma. In piazza San Carlo non più di quindicimila persone. Stanchezza nelle masse e crescente senso di paura e di avversione negli ambienti borghesi. Ho l’impressione che sia stata per le sinistre una giornata nera: troppo simile ad altre del ’20 e del ’21». 

Tra il 22 e il 27 settembre si tiene a Szklarska Poreba (in Polonia) una conferenza dei partiti comunisti europei — per dar vita al Cominform, una struttura di coordinamento — nel corso della quale gli italiani vengono più volte accusati di essere stati troppo accomodanti con la Dc e di aver «reagito troppo debolmente» alla cacciata dal governo. È un segnale di Stalin a Togliatti. Il quale si affretta a presentare con Nenni una mozione di sfiducia al governo che viene respinta grazie ai voti dell’Uomo qualunque, i quali vanno provvidenzialmente ad aggiungersi a quelli centristi. Curiosità: la mozione, oltre che da Togliatti e Nenni, è firmata anche da Saragat, non ancora inglobato nella maggioranza degasperiana, nonostante proprio dalla conferenza in Polonia sia bollato come «traditore servo dell’imperialismo». Si vota a Roma per le amministrative, vengono violentemente contestati alcuni comizi del ricostituito partito fascista, il Movimento sociale italiano; viene ucciso — con una dinamica mai ben ricostruita — un ragazzo della Dc, Gervasio Federici. Annota con qualche disappunto il liberale Anton Dante Coda: «Stasera la città è sotto l’impressione dell’assassinio del giovane democristiano Federici, accoltellato da un comunista… è previsto che questo episodio gioverà elettoralmente alla Democrazia cristiana».

Il 17 ottobre di quello stesso 1947 si riunisce il comitato federale del Pci di Genova. Avagliano e Palmieri ne citano i verbali. Prende la parola il segretario, Secondo Pessi, e afferma: «Occorre anche un’azione extraparlamentare, occorre uno spirito di mobilitazione, di attacco e non lasciarci conquistare dal feticismo della legalità; la nostra lotta non vuol dire lotta pacifica, ma può anche dire lotta violenta, lotta armata». Dai verbali si desume che altri sono ancora più espliciti: «I compagni che hanno sempre parlato di mitra saranno i primi ad andare in cantina, riprendere le armi qualora la situazione dovesse diventare maggiormente tesa» (Bugliani); «Io mi spingo anche più in là, non solo è necessario per me far paura agli avversari, ma anche farne pulizia in modo concreto e attivo» (Fioravanti).

Il 7 novembre, la direzione del Psi torna alla carica e approva un ordine del giorno in cui si accusa il governo De Gasperi di «mettere in pericolo la democrazia e le istituzioni repubblicane»; di conseguenza propone «un raggruppamento di tutte le forze democratiche per la lotta della sinistra contro la destra». Togliatti «nutre qualche riserva», ma poi accetta la proposta con una singolare motivazione: i socialisti, se lasciati soli, non resisterebbero alla tentazione «di fare dell’anticomunismo». 

Il 9 novembre a Mediglia, nella campagna milanese, vengono esplosi colpi di arma da fuoco contro giovani comunisti che rientrano da una festa danzante. L’11 novembre alcuni manifestanti di sinistra circondano la cascina del qualunquista Giorgio Magenes, che reagisce uccidendo l’operaio Luigi Gaiot. Magenes viene linciato. A seguito di questo episodio il 28 novembre viene comunicato un «avvicendamento» prefettizio: Ettore Troilo, ex comandante partigiano, è sostituito da Vincenzo Ciotola che non ha uguali referenze. Un gruppo di attivisti comunisti occupa la prefettura. Giancarlo Pajetta, segretario regionale del Pci, gioisce per l’accaduto e se ne gloria. Ma Togliatti — innervosito dall’iniziativa — lo esorta a far uscire i manifestanti dalla sede prefettizia.

Il 12 dicembre a Milano attivisti della Volante rossa sequestrano l’ingegner Italo Tofanello, dirigente delle Acciaierie Falck, denudandolo e portandolo in piazza Duomo, dove viene rilasciato in mutande con un biglietto firmato «un gruppo di bravi ragazzi». Il 16 dicembre viene lanciata una bomba a mano contro la casa di Andrea Gastaldi, ex segretario del Pnf a Torino. «Episodi che poi negli anni Settanta verranno imitati dalle Brigate rosse», sottolineano Avagliano e Palmieri. Il 15 dicembre Saragat entra con il suo partito a far parte del governo De Gasperi. Il distacco di Saragat dai socialisti ormai è totale, forse anche perché in quel 1947 il partito di Nenni era stato, per così dire, più «comunista» dello stesso Pci.

Tra le testimonianze dirette sulle vicende della lotta partigiana e quelle immediatamente successive, un documento senza dubbio importante è il diario del futuro ministro Antonio Giolitti (all’epoca dirigente comunista) Di guerra e di pace, a cura di Rosa Giolitti e Mariuccia Salvati (Donzelli, 2015). Molto interessante anche l’epistolario Suso a Lele (Bompiani, 2016), che raccoglie le lettere scritte da Suso Cecchi D’Amico a suo marito Fedele D’Amico (detto Lele) tra il dicembre del 1945 e il marzo del 1947. Da segnalare sul piano storiografico: Keith Lowe Il continente selvaggio (traduzione di Michele Sampaolo, Laterza, 2013); Tony Judt, Dopoguerra (traduzione di Aldo Piccato, Mondadori, 2007; Laterza, 2017).

·         Il Piano Marshall ha salvato gli Stati Uniti.

Il Piano Marshall ha salvato gli Stati Uniti. Dietro le quinte della storia. Video Disponibile dal 31/01/2019 fino al 23/03/2019 scrive Arte TV. I posteri descrivono il Piano Marshall come un atto disinteressato, finalizzato a rilanciare un’Europa devastata dalla guerra. Siamo sicuri?

Europa, prima del piano Marshall, scrive Andrej Fomin il 12 Febbraio 2016 su voltairenet.org. Secondo un articolo del Telegraph, il direttore statunitense della National Intelligence è stato recentemente incaricato dal Congresso per "condurre una revisione importante nel finanziamento clandestino russo dei partiti europei negli ultimi dieci anni." Questa rivelazione oltre ad alimentare la "russofobia" ha lo scopo di mettere in guardia entità politiche disobbedienti ancora popolari in tutta Europa e ridimensionare le loro ambizioni per riequilibrare i ruoli e il peso dei loro stati nazionali all’interno dell’Unione europea. Quindi, in base alla storia del Telegraph, qualsiasi politico europeo che osa mettere in discussione l’espansione verso est della NATO, la politica delle anti-sanzioni alla Russia, o la posizione europea vigente sul conflitto ucraino è essenzialmente uno strumento inconsapevole di "guerra ibrida della Russia." In realtà, qualsiasi osservatore imparziale potrebbe porre alcune semplici domande: Perché diavolo agenzie di intelligence statunitensi si preoccupano per la sicurezza interna dell’Europa Non sono forse gli stessi agenti che finanziano, reclutano, e controllano innumerevoli organizzazioni politiche, individui e mezzi di comunicazione sul continente europeo? Perché così sfacciatamente rivelano il loro dominio in Europa? Un politicamente corretto sosterrebbe che gli Stati Uniti hanno salvato l’Europa dalla "minaccia comunista", dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha facilitato la sua ripresa economica rapida, ed è ancora a salvaguarda del continente sotto il suo ombrello nucleare. Forse. Ma una revisione del contesto storico non deve iniziare con il piano Marshall. Prima di tutto, è stato lanciato nel mese di aprile 1948. Dal momento che i nazisti capitolarono nel maggio 1945, un lettore disinformato potrebbe dedurre che gli Stati Uniti avessero elaborato un programma di massicci investimenti per l’Europa già tre anni prima e ... lui si sarebbe sbagliato. Secondo, alla Conferenza di Quebec, "OTTAGONO",nel settembre del 1944, il presidente Roosevelt e il segretario al Tesoro Henry Morgenthau Jr. presentarono al premier britannico Winston Churchill il loro programma di post-Surrender per la Germania. Tale documento strettamente confidenziale prevede la partizione e completa deindustrializzazione dello stato tedesco. Secondo il piano, la Germania doveva essere diviso in due stati indipendenti. I suoi epicentri delle miniere e dell’industria, tra cui il Protettorato della Saar, la valle del Ruhr, e Alta Slesia dovevano essere internazionalizzato o annessa alla Francia e Polonia. Di seguito sono riportati alcuni estratti:

• I [US] forze militari al momento dell’entrata in aree industriali [tedesco] devono distruggere tutti gli impianti e le attrezzature che non possono essere rimossi immediatamente. 

• Non più di 6 mesi dopo la cessazione delle ostilità, tutti gli impianti e le attrezzature non distrutto da un’azione militare industriali devono essere o completamente smantellati e rimossi dalla zona o completamente distrutti. 

• Tutte le persone all’interno della zona dovrebbero essere fatti per capire che questa zona non sarà di nuovo permesso di diventare una zona industriale. Di conseguenza, tutte le persone e le loro famiglie nella zona detenendo abilità speciali o formazione tecnica dovrebbero essere incoraggiati a migrare definitivamente dalla zona e devono essere il più ampiamente dispersi possibile. 

• Tutte le stazioni radio tedesche e giornali, riviste, settimanali, ecc. devono essere sospesi fino a controlli adeguati sono stabiliti e un programma appropriato formulati.

Questo è stato il programma di recupero del dopoguerra originale per la Germania, noto come il Piano Morgenthau. Il famigerato Joint Chiefs of Staff direttiva 1067 (JCS 1067) indirizzata al comandante in capo delle forze di occupazione in Germania, che è stato ufficialmente rilasciato nel mese di aprile 1945, è stato pienamente in linea con tale documento.

Divisione della Germania in base al Piano Morgenthau 1944. Il piano rapidamente si rivelò essere un errore strategico. Gli Stati Uniti hanno sottovalutato l’impatto ideologico e culturale dei sovietici sulle società europee. Gli strateghi americani non sono riusciti a capire l’attrazione verso un sistema socialista desiderato dalla maggior parte della popolazione delle nazioni liberate. Una vasta gamma di politici pro-socialista e pro-comunista hanno cominciato vincere le elezioni democratiche e guadagnare influenza politica non solo in Europa orientale, ma anche in Grecia, Italia, Francia e altri paesi europei. Così Washington capisce che la sua forzata deindustrializzazione dell’Europa potrebbe divenire reindustrializzazione in stile sovietico e l’eventuale dominio russo del continente ... Pertanto gli Stati Uniti hanno dovuto sostituire tempestivamente il Piano Morgenthau con uno chiamato dopo il segretario di Stato George Marshall ...Nel corso di quattro anni ha fornito l’Europa di 12 miliardi di dollari in crediti, donazioni, contratti d’affitto, ecc, al fine di acquistare ... macchine americane e altri beni. Anche se il piano indubbiamente rinverdisce le economie dell’Europa, il suo più grande effetto positivo era ... l’economia americana in sé! Contemporaneamente una ondata di repressione politica è stata lanciata in tutta Europa, in particolare in Germania. I media hanno in gran parte dimenticato un’iniziativa sovietica, proposta nel 1950, di ritirarsi dalla DDR e di riunificare una neutrale, non allineata, smilitarizzata Germania entro un anno dalla conclusione di un trattato di pace. È un dato di fatto, la risoluzione adottata nel corso della riunione di Praga dei Ministri degli Esteri del blocco sovietico il 21 Ottobre 1950 ha proposto l’istituzione di un Consiglio Costituente tutto tedesco, con pari rappresentanza da Germania Est e Germania Ovest per preparare la formazione di un "unico governo provvisorio, sovrano, democratico e amante della pace" in una Germania unita. Inutile dire, che il governo degli Stati Uniti e l’amministrazione della Germania Ovest in Bohn si oppose con forza all’iniziativa. Mentre un plebiscito sul tema "Sei contro la rimilitarizzazione della Germania e in favore della conclusione di un trattato di pace nel 1951?" È stato annunciato in entrambe le metà dello stato diviso, che il referendum si è svolto e ufficialmente riconosciuto solo in Germania orientale (con il 96% dei voti "sì") [5]. VTEK Le autorità della Germania occidentale controllata dagli Stati Uniti non sono riusciti a rispondere in modo veramente democratico. Hanno rifiutato di riconoscere i risultati preliminari del referendum che si erano ottenuti nel febbraio 1951 (dei 6,2 milioni di cittadini federali che avevano preso parte entro giugno 1951, 94,4 % ha anche votato "sì") e ha introdotto la draconiana cauto Criminal Law Amendment Act (del 1951 Blitzgesetz) il 11 luglio in base a tale normativa, chiunque colpevole di importazione di letteratura proibita, criticare il governo, o avere contatti non dichiarata con i rappresentanti della DDR , ecc doveva essere perseguito per "alto tradimento", che era punibile con 5 a 15 anni di carcere. Di conseguenza, tra il 1951 e il 1968, 200.000 dei 500.000 membri del partito comunista e di altri gruppi di sinistra in Germania sono stati accusati in base a questa legge. Diecimila persone sono state arrestate e la maggior parte di coloro che sono stati epurati da cariche istituzionali non hanno ripreso le loro attività politiche. Ulteriori modifiche legislative nel 1953 in realtà hanno abolito il diritto di tenere liberamente raduni e manifestazioni, e nel 1956 il Partito Comunista di Germania è stato vietato. Maggiori dettagli possono essere trovati nel 2012 il documentario di Daniel Burkholz “Verboten – Verfolgt – Vergessen” (Forbidden-Followed-Forgotten. Half a Million Public Enemies), Che è sorprendentemente disponibile su YouTube.

La repressione politica che si è verificata in Germania dal 1950 al 1980, ed eventi simili verificatesi in altri paesi europei nello stesso periodo, è un argomento molto tabù. Operazione Gladio in Italia, i crimini del regime dei Colonnelli in Grecia, e gli omicidi controversi dei politici europei realistici che apertamente sostenevano il compromesso storico con il blocco sovietico - come premier italiano Aldo Moro (1978) e lo svedese PM Olof Palme (1986) - tutti hanno ricevuto molto di più l’attenzione dei media. Le rivelazioni fatte da un ex corrispondente della Frankfurter Allgemeine Zeitung, Udo Ulfkotte, nel suo libro Gekaufte Journalisten ("acquistato giornalisti") circa il meccanismo di controllo dei media in Germania (ricordate il Piano Morgenthau?) Rappresentano solo la punta di un iceberg. La quasi totale assenza di reazione visto a Berlino dopo la comunicazione di Edward Snowden del spionaggio elettronico coperta di routine condotta contro leader tedeschi da parte della NSA significa che in realtà, la Germania ha riconosciuto la sua perdita di sovranità sul proprio paese e, quindi, non ha nulla da perdere.

Così, dopo l’assunzione di tutti questi fatti presi in considerazione e rileggere l’articolo del Telegraph, sei ancora così sicuro che gli Stati Uniti siano davvero il custode della sovranità dell’Europa? Non è forse più probabile che utilizzando la presunta "minaccia russa" per controllare e vessare l’establishment politico e della società civile in Europa, Washington sta facendo progressi verso un obiettivo semplice e primitivo - che è di limitarsi a mantenere le sue pecore all’interno dell’ovile? Andrej Fomin. Fonte Oriental Review (Russia).

"L’Unione europea? È un prodotto americano". "Gli Stati Uniti hanno voluto creare l’Europa unita e l'euro per estendere e rafforzare i propri interessi sul vecchio continente", scrive Luca Steinmann, Venerdì 04/12/2015, su Il Giornale. “Gli Stati Uniti hanno voluto creare l’Europa unita e l'euro per estendere e rafforzare i propri interessi sul vecchio continente”. A spiegarlo è Morris Mottale, professore di relazioni internazionali, politica comparata e studi strategici presso la facoltà di Scienze Politiche della Franklin University, università americana con sede a Sorengo, vicino a Lugano. Autore di diversi libri e di pubblicazioni su riviste scientifiche (tra le quali Limes, Diplomats and Foreigna Affairs e Diplomatist magazine) è uno dei massimi esperti di Medio Oriente e di politica estera americana. A Il Giornale racconta come il governo americano sia stato in grado di determinare tutte le decisioni più importanti nel processo di formazione della UE e di come oggi la sua capacità decisionale in Europa sia tutt’altro che limitata.

Professor Mottale, si parla spesso dei forti legami tra Unione Europea governo degli Stati Uniti. Da dove ha origine questo rapporto?

"Il nodo così stretto che lega gli Stati Uniti all’Europa inizia con la vittoria militare americana nella Seconda Guerra Mondiale. L’Europa occidentale, cioè quella parte di continente rimasta fuori dall’orbita sovietica, venne ricostruita attraverso i fondi provenienti dal piano Marshall e le prime forme di mercato unico europeo, cioè la CED e la CECA che furono l’anticamera dell’attuale UE, si realizzarono in un sistema in cui l’economia europea era fortemente vincolata a quella americana. Gli Stati Uniti non hanno mai nascosto che la creazione di un’Europa unita e da loro controllata fosse la premessa della propria politica estera. Per costruirla hanno utilizzato e utilizzano la NATO. Dal primissimo dopoguerra ad oggi ogni Paese europeo che voleva entrare a far parte del processo di integrazione europea è prima dovuto diventare membro dell’Alleanza Atlantica."

L’ingresso nella NATO è dunque l’anticamera per l’ingresso nella UE?

"Esattamente. Lo vediamo in questi giorni con il Montenegro, che per farsi ammettere nella UE ha richiesto l’ingresso nella NATO. Nonostante le opposizioni di alcune sinistre e dei nazionalisti tutti gli attuali Paesi della UE sono anche membri della NATO, tranne Irlanda e Svezia che però con la NATO hanno dovuto siglare una partnership. E’ una regola non scritta: se vuoi entrare in Europa devi prima entrare nell’Alleanza Atlantica."

Quali sono dunque le condizioni che la NATO pone ai Paesi europei perché ne diventino membri e di conseguenza possano ambire a entrare nella UE?

"Prima di tutto viene richiesta loro la liberalizzazione degli scambi economici. Tutti i Paesi devono abbassare le tariffe doganali sui propri prodotti per permettere al libero mercato di svilupparsi. La liberalizzazione degli scambi è quindi è l’idea sulla quale convergono sia gli americani che gli attuali leader europei. In secondo luogo non va dimenticato che a seguito della conferenza di Bretton Woods del 1944, quando la guerra stava per terminare e i vincitori stabilivano le regole per amministrare il mercato globale, il dollaro è diventata la moneta principale di scambio. Dal 1944 fino al 1950 avvenne la formazione di un sistema internazionale gestito dagli americani e inizialmente anche dagli inglesi, che però poi si sono defilati perché troppo deboli. Quando nei primi anni ’50 nacquero le prime forme di integrazione europea esse erano e saranno in seguito sempre promosse dagli Stati Uniti e seguiranno le regole dettate da Washington."

Un’ulteriore passo verso la creazione del mercato unico europeo è stata la nascita dell’Euro. Anche in questo caso hanno avuto un ruolo gli americani?

"Certamente. La moneta unica è da considerarsi a tutti gli effetti come un prodotto americano. Non è difficile capire perché: un’unica moneta al posto delle 32 che c’erano prima rende molto più semplici e razionali gli scambi commerciali tra Stati Uniti ed Europa e facilita la circolazione delle merci all’interno del mercato unico globale guidato dalle regole americane. La creazione, l’estensione e il rafforzamento del libero mercato e dei valori sociali ad esso connessi è da sempre il principale obiettivo della politica estera americana. Appena hanno avuto l’occasione di introdurre una moneta unica europea andasse in questa direzione non si sono lasciati sfuggire l’occasione."

In che contesto si è verificata questa occasione?

"Ciò che ha dato una spinta incredibile alla creazione della moneta unica è stata la caduta della Germania Est nel 1989. La Germania diventava improvvisamente una potenza di 80 milioni di abitanti con una forza economica di prim’ordine. Inglesi, francesi e molti americani erano terrorizzati dall’ipotesi di un ritorno sulla scena di un grande player globale come quello tedesco. Ciò era dovuto ad un retaggio storico ben preciso: chi conduceva la politica estera inglese, francese e americana aveva vissuto la Seconda Guerra Mondiale o aveva partenti morti nella Prima. La componente emotiva e il terrore di un ritorno dell’aggressività tedesca – peraltro per nulla plausibile – erano così forti da fare trovare tutti d’accordo nel volere creare uno strumento per controllare la Germania. E per questo venne inventata la moneta unica. Gli americani non erano tutti anti-tedeschi, ma sfruttarono l’occasione per veicolare l’introduzione dell’Euro per favorire i propri interessi economici. L’Euro venne dunque concepito come un modo per ingabbiare da Germania da parte di francesi, inglesi e anche di Andreotti, che per scongiurare l’ipotesi di un ritorno tedesco si coalizzarono per controllarne insieme l’economia attraverso una moneta comune. Gli americani sfruttarono questo loro sentimento condiviso per rafforzare il mercato unico da essi gestito. Spesso in Europa si parla dei complotti americani. Tutte cose false! Gli Stati Uniti hanno fatto tutto alla luce del sole: dissero apertamente di volere un’Europa unita per incentivare gli scambi commerciali e ottennero ciò che volevano. Ciò è oggi apertamente riconosciuto dalla politica americana, non dalle istituzioni comunitarie."

Gli Stati Uniti hanno dunque determinato ogni fase del processo di integrazione europea. Oggi in che modo sono in grado di determinare le decisioni della UE?

"Gli Stati Uniti esercitano in Europa una capacità decisionale notevole grazie alla propria forza militare e alle proprie politiche monetarie. E stanno cercando di estendere i loro interessi nel vecchio continente. Per farlo hanno offerto all’Europa un trattato di libero scambio, il TTIP. Gli europei devono decidere se accettarlo o meno e hanno diverse divisioni interne, per esempio il timore che la competizione europea con l’America non possa reggere. Le opposizioni sono forti perché ci sono delle obiezioni alla cultura americana."

Potrebbe il TTIP essere un mezzo degli americani per estendere il proprio potere non solo economico ma anche politico sull’Europa?

"No, perché non ne hanno bisogno. Hanno già la NATO. L’Unione europea ha totalmente fallito nello sviluppo di una difesa comune, che è completamente stata devoluta agli americani. Essi hanno già capacità decisionale perché sono i monopolisti della forza militare in Europa. E stimolando il timore reale o immaginario nei confronti della Russia per convincere gli europei che ciò sia un bene. Finché ci sarà la NATO l’Europa dipenderà totalmente dagli Stati Uniti."

70 anni fa partiva il Piano Marshall: ci rese liberi… o schiavi dell’America? Scrive lunedì 2 aprile 2018 Antonio Pannullo su Secolo d'Italia. Il 2 aprile 1948 gli Stati Uniti vararono il celebre European Recovery Program, da noi meglio conosciuto come Piano Marshall, dal nome del suo ideatore, il segretario di Stato americano del presidente Henry Truman. Fu infatti George C. Marshall, già generale dell’esercito e poi segretario di Stato, che progettò e portò a termine il Piano di aiuti all’Europa, devastata da una lunghissima guerra. Alla fine della Seconda guerra mondiale, gran parte dell’Europa fu distrutta. I bombardamenti aerei alleati durante la guerra avevano gravemente danneggiato la maggior parte delle grandi città e le strutture industriali erano particolarmente colpite. I flussi commerciali della regione erano stati completamente distrutti; milioni di persone erano in campi profughi che vivevano di aiuti di varie organizzazioni internazionali. La scarsità di cibo era grave, specialmente durante l’inverno rigido del 1946-47. Dal luglio 1945 al giugno 1946, gli Stati Uniti spedirono 16,5 milioni di tonnellate di cibo, principalmente grano, in Europa e anche in Giappone. Ammontava a un sesto del cibo americano totale. Particolarmente danneggiate erano le infrastrutture di trasporto, poiché ferrovie, ponti e banchine erano stati specificamente presi di mira da attacchi aerei anglo-americani, mentre molte navi mercantili erano affondate. Anche se la maggior parte delle piccole città e villaggi non aveva subito molti danni, la distruzione dei trasporti li lasciò economicamente isolati. Nessuno di questi problemi poteva essere facilmente risolto, poiché la maggior parte delle nazioni impegnate nella guerra aveva esaurito le loro risorse. Le uniche grandi potenze la cui infrastruttura non era stata danneggiata nella seconda guerra mondiale furono gli Stati Uniti e il Canada. Erano molto più ricchi di prima della guerra, ma le esportazioni erano un piccolo dato nella loro economia. Gran parte degli aiuti del Piano Marshall sarebbero stati utilizzati dagli europei per acquistare beni manufatti e materie prime dagli Stati Uniti e dal Canada.

Gli Usa misero 110 miliardi di dollari odierni. Il Piano Marshall (ufficialmente Programma europeo di recupero, ERP) fu quindi un’iniziativa unilaterale americana per aiutare l’Europa occidentale, nella quale gli Usa misero oltre 13 miliardi di dollari di allora (quasi 110 miliardi di dollari del 2016). Si trattava di un programma di assistenza per aiutare ricostruire le economie dell’Europa occidentale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Gli obiettivi degli Stati Uniti erano di ricostruire materialmente le zone distrutte dalla guerra, ma anche quello di rimuovere le barriere commerciali, modernizzare l’industria, migliorare la prosperità europea e anche prevenire la diffusione del comunismo. Il Piano Marshall infatti per essere attuato richiedeva una riduzione delle barriere doganali tra gli Stati, una diminuzione di molte normative, incoraggiando un aumento della produttività, l’appartenenza ai sindacati e l’adozione di procedure commerciali più moderne e veloci. Insomma, gli Usa volevano sì aiutarci e risuscitare dalle macerie della guerra, ma anche creare un sistema capitalista e consumista che avrebbe fatto dell’Europa un affidabile partner commerciale a cui vendere i prodotti made in usa. Ma anche l’inverso. Il Piano ebbe il sostegno bipartisan di democratici e repubblicani. Gli aiuti erano diretti in massima parte alle nazioni alleate, quindi Regno Unito e Francia, ma anche alle nazioni dell’Asse, come l’Italia, e a quelle che erano rimaste neutrali ma erano state coinvolte nel conflitto. Il maggior beneficiario del denaro del Piano Marshall fu il Regno Unito (che ricevette circa il 26% del totale), seguito da Francia (18%) e Germania Ovest (11%). In tutto 18 Paesi europei ebbero benefici dal piano. L’Unione Sovietica tuttavia, pur essendo stata invitata, rifiutò i benefici del Piano e bloccò anche i l’adesione dei Paesi satelliti del blocco orientale, come l’Ungheria e la Polonia, che pure erano state colpite duramente dalla guerra.

Pareri contrastanti sull’efficacia del Piano. Tuttavia, il ruolo del Piano Marshall nella ripresa rapida dell’Europa è stato discusso. La maggior parte degli storici rifiuta l’idea che la ripresa europea si dovette al Piano, poiché una ripresa generale era già in corso. La stessa, successiva, contabilità del piano Marshall mostra che gli aiuti rappresentarono meno del 3% del reddito nazionale combinato dei Paesi beneficiari tra il 1948 e il 1951, il che significa un aumento della crescita del Pil di appena lo 0,3%. Per gli economisti americani Bradford DeLong e Barry Eichengreen il piano Marshall ha però svolto un ruolo importante nel preparare il terreno per la rapida crescita dell’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Le condizioni allegate all’aiuto del Piano Marshall hanno spinto l’economia politica europea in una direzione che ha lasciato le economie miste post Seconda Guerra Mondiale con più mercato e meno controlli. Certamente fu di impulso almeno psicologico per le fragili democrazie occidentali sapere di poter contare su un aiuto concreto, anche se poi non fu così massiccio come si crede. In realtà ciò che contò furono gli effetti economici indiretti, in particolare nell’attuazione delle politiche liberali capitalistiche, e gli effetti politici, in particolare l’ideale dell’integrazione europea e delle partnership governative-commerciali, queste furono le principali ragioni della crescita insuperata dell’Europa. Come si accennava, per combattere gli effetti del Piano Marshall, anche l’Urss sviluppò il suo piano economico, noto come Piano Molotov, che pompò grandi quantità di risorse ai Paesi del blocco orientale dall’Urss. Lo stesso segretario Marshall si convinse a un certo punto che Stalin non aveva alcun interesse a contribuire al ripristino della salute economica nell’Europa occidentale.

Nel 1945 c’erano 5 milioni di case distrutte e 12 milioni di profughi. In ogni caso, nel 1952, alla fine del finanziamento, l’economia di ogni Stato partecipante aveva superato i livelli prebellici; per tutti i beneficiari del piano Marshall, la produzione nel 1951 era superiore almeno del 35% rispetto al 1938. Nei successivi due decenni, l’Europa occidentale ha goduto di una crescita e prosperità senza precedenti, ma gli economisti non sono sicuri di quale proporzione fosse dovuta direttamente al Piano Marshall, quale percentuale indirettamente e quanto sarebbe accaduta senza di essa. Quello che è certo è che il Piano contribuì a dare un nuovo impulso alla ricostruzione nell’Europa occidentale e un contributo decisivo al rinnovo del sistema dei trasporti, alla modernizzazione delle attrezzature industriali e agricole, alla ripresa della normale produzione, all’aumento della produttività e alla facilitazione degli scambi intraeuropei. In Germania, nel 1945-46, le condizioni abitative e alimentari erano pessime, poiché l’interruzione dei trasporti, dei mercati e delle finanze rallentava il ritorno alla normalità. In Occidente, i bombardamenti avevano distrutto cinque milioni di case e appartamenti e c’erano dodici milioni di rifugiati provenienti da est. Il Piano Marshall era stato programmato per terminare alla fine del 1953. Ogni sforzo per estenderlo fu fermato dal costo crescente della Guerra di Corea frattanto scoppiata e del riarmo. Repubblicani americani ostili al Piano avevano anche ottenuto parecchi seggi nelle elezioni del Congresso del 1950, e l’opposizione conservatrice al Piano fu quindi ripresa. Così il Piano si concluse nel 1951, sebbene varie altre forme di aiuti americani all’Europa continuarono anche negli anni successivi.

Il Piano certamente ridusse l’influenza comunista. Gli effetti politici del Piano Marshall potrebbero essere stati altrettanto importanti di quelli economici. Gli aiuti del Piano Marshall permisero alle nazioni dell’Europa occidentale di allentare le misure di austerità e il razionamento, riducendo il malcontento e portando stabilità politica. L’influenza comunista sull’Europa occidentale fu notevolmente ridotta, e in tutta Europa i partiti comunisti calarono in popolarità negli anni successivi al Piano Marshall. Le relazioni commerciali promosse dal Piano Marshall contribuirono a forgiare l’alleanza del Nord Atlantico che persisterà durante la Guerra Fredda nella forma della Nato. Il Piano Marshall ha svolto anche un ruolo importante nell’integrazione europea. Sia gli americani che molti dei leader europei hanno ritenuto che l’integrazione europea fosse necessaria per assicurare la pace e la prosperità dell’Europa, e quindi hanno usato le linee guida del Piano Marshall per favorire l’integrazione. Il Piano, collegato al sistema di Bretton Woods, ha anche imposto il libero commercio in tutto il continente. La domanda rimane: fu disinteressato altruismo o strategia per legare definitivamente l’Europa agli Stati Uniti?

Il vero volto degli aiuti, scrive il 15 Novembre 2012 su byoblu.com Claudio Messora. Venerdì scorso, a L’Ultima Parola, vi ho mostrato come in maniera evidente e incontrovertibile si possa affermare che dietro al “grande sogno degli Stati Uniti d’Europa” ci siano in realtà le lobby statunitensi, delle quali Mario Monti ha rappresentato a lungo – e ancora rappresenta? – gli interessi [Vedi: Per quale squadra sta giocando, Monti, la nostra partita?]. Gli Stati Uniti sono diventati il centro economico e politico del mondo occidentale dopo la devastazione prodotta dalla prima guerra mondiale. Mentre le fabbriche e le infrastrutture europee, fino ad allora invincibile locomotore del progresso e della produzione planetaria, venivano rase al suolo, l’America poteva coltivare indisturbata i suoi interessi e, con la scusa di erogare prestiti ai paesi del vecchio continente in guerra, indebitarli, acquisendo peso politico determinante nelle successive trattative di pace, con tutta la riorganizzazione che ne conseguì. Era cento anni fa. Con la seconda guerra mondiale le cose sarebbero peggiorate: l’influenza degli Stati Uniti d’America in Europa sarebbe diventata totale. L’Italia, uscendo dalla guerra come Paese sconfitto, subì una invasione in pieno stile. In Sicilia, grazie agli accordi storicamente acclarati tra la mafia locale e quella italo-americana per facilitare lo sbarco, la mafia prese il potere. De Gasperi fu chiamato in America e ricevette istruzioni per estromettere dal Governo le forze di sinistra (i socialisti e i comunisti, che fino ad allora avevano giocato un ruolo centrale). La campagna elettorale della Democrazia Cristiana venne finanziata massicciamente dalla Casa Bianca: vinsero con il 48,5%. Cambiammo per sempre. Oggi Monia Benini aggiunge un tassello, mostrando come anche dietro al Piano Marshall, il pacchetto di aiuti per la ripartenza dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale, ci fosse in realtà un grande, immenso regalo alle lobby internazionali.

LA MENZOGNA DEGLI AIUTI di Monia Benini, Teste Libere.  Recentemente in Grecia è stato imposto un nuovo pacchetto di misure, drammaticamente pesanti, per poter ottenere in cambio una tranche di 31,5 miliardi di aiuti dalla troika, ovvero Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e Banca Centrale Europea. Si tratta di tagli, di licenziamenti, di provvedimenti retroattivi su salari, stipendi e pensioni, oltre all’innalzamento a 67 anni dell’età pensionabile. Nel marzo di quest’anno, la Grecia aveva già ricevuto aiuti della troika per un importo di 130 miliardi di euro. Ma c’è qualcosa che non va, anzi direi che è proprio tutto sbagliato, tutto folle. A partire dal termine. Si ostinano a chiamarli aiuti, ma sono tutt’altra cosa. Si tratta di prestiti, da dover restituire con relativi interessi. Ad esempio, rispetto ai 130 miliardi ottenuti in aiuto, la Grecia dovrà restituire nell’arco di 20 anni ben 274 miliardi di euro, ovvero oltre il doppio! Ma non solo, di questi 130 miliardi, il 52% è andato alle banche internazionali, il 23% è tornato alla BCE, il 20% è andato alle banche private greche e solamente il 5% è andato nelle casse dello Stato greco che dovrà rifondere tutti i 274 miliardi. E questo sarebbe l’aiuto? E’ un atto di killeraggio verso i cittadini greci! Ma attenzione, si tratta degli stessi aiuti ai quali dovrebbe far ricorso la Spagna; degli stessi aiuti, nascosti sotto la sigla del MES (il Meccanismo Europeo di Stabilità), o di qualche altra diavoleria che ci spacceranno come salva-Stati, ma che in realtà altro non è se non un salva banche. La storia dei cosiddetti aiuti alle nazioni europee è di lunga data, ma dal punto di vista storico, il salvataggio più noto risale al 1948 con il Piano Marshall. Vediamo dunque di capire se ci sono meccanismi simili alla base degli aiuti di allora e di adesso. Il piano Marshall deve il nome all’allora segretario di Stato degli Stati Uniti, George Marshall, ed era un piano di aiuti concepito ufficialmente non solo per contrastare il blocco sovietico, ma anche per ricostruire un’area – l’Europa – devastata dalla guerra, rendere nuovamente prospero il Vecchio Continente, ammodernare l’industria e rimuovere le barriere al commercio. “I bisogni dell’Europa per i prossimi 3 o 4 anni (cibo, materie prime, carburanti) sono molto più grandi rispetto alla capacità di acquisto e importazione da parte di questa zona, specie dagli Stati Uniti, e serve quindi un grande sforzo affinché non ci sia un totale deterioramento economico, sociale e politico. Il rimedio sta nel rompere il circolo vizioso e nel ripristinare la fiducia degli europei nella ripresa economica futura” . Non è un discorso di oggi, bensì un estratto dal discorso tenuto da Marshall ad Harvard nel 1947. Da lì a poche settimane, gli Stati Uniti crearono le agenzie nazionali e le strutture internazionali necessarie per i negoziati per la concessione degli aiuti all’Europa. Il piano Marshall ha fornito una piccola percentuale di aiuti a fondo perduto, ma principalmente un cospicuo ammontare di prestiti (con relativi interessi) a lungo termine che consentirono agli stati europei di finanziare gli acquisti negli USA. La portata di questi prestiti è tracciabile, come nel caso dell’Irlanda, che ottenne circa 146 milioni di dollari in prestito attraverso il piano Marshall, ma solamente 18 milioni a fondo perduto. Nel 1969, a oltre 20 anni dall’inizio del salvataggio, l’Irlanda aveva un debito dovuto al piano Marshall di ben 31 milioni di sterline, su 50 milioni totali del debito estero irlandese. Dopo la seconda guerra mondiale, le nazioni europee avevano quasi completamente esaurito le proprie riserve di valuta estera, necessarie per importare le merci di cui vi era bisogno. Fra l’altro l’Italia era già stata invasa con lo sbarco alleato dalle Amlire, una moneta fatta negli Stati Uniti, che ci aveva già resi dipendenti dall’America. Ma per tornare al piano Marshall (attivo dal 1948 al 1951), questo rappresentò l’unico modo per poter ottenere in prestito quanto bastava per acquistare i beni di cui c’era bisogno dagli Stati Uniti, che poterono affermare una posizione di predominio in larga parte dell’Europa. Il piano Marshall divenne quindi un utilissimo cavallo di Troia degli Stati Uniti per soggiogare l’economia e gli apparati produttivi europei. Fu lo stesso sottosegretario statunitense per gli affari economici Will Clayton a dichiarare i motivi profondi che si nascondevano dietro al piano Marshall: “Ammettiamolo apertamente,” disse in difesa dell’idea degli aiuti esteri “che abbiamo bisogno di mercati – grandi mercati – nei quali comprare e vendere.” In sostanza dunque l’intenzione non è di aiutare i paesi stranieri; è di ricompensare le multinazionali di casa che effettivamente ottengono i contanti mentre il governo acquista influenza politica all’estero. Will Clayton pubblicizzò il Piano Marshall come il trionfo della “libera impresa” e un’altra sua dichiarazione, nell’ipotesi che il comunismo fosse arrivato in Europa, fu: “la situazione che affronteremmo in questo paese sarebbe molto grave, dovremmo riordinare e riadattare la nostra intera economia in questo paese se perdessimo il mercato europeo”. Successivamente il presidente Truman organizzò un nuovo ufficio – l’Amministrazione per la Cooperazione Economica (ECA) – per distribuire gli aiuti, composto dai vertici dei maggiori interessi industrial-corporativi che beneficiarono ampiamente del Piano. Il piano Marshall giocò un ruolo fondamentale per la fondazione della Comunità Economica Europea, la CEE. Ben 13 miliardi di dollari furono concessi, in larghissima parte sotto forma di prestiti con interessi da restituire, ai paesi europei che si riunirono nell’organizzazione per la cooperazione economica europea, la OCEE, che divenne immediatamente il terreno per la creazione delle strutture che nel giro di pochi anni sarebbero state utilizzate dalla Comunità Economica Europea. La OCEE aveva il ruolo di allocare i prestiti statunitensi, mentre l’ECA – l’agenzia USA, composta dai rappresentanti dei maggiori interessi industriali corporativi a stelle e strisce – si occupò della vendita delle merci, che vennero quindi pagate in dollari. Più chiaramente, nel 1950 la OCEE fornì la cornice per le negoziazioni delle condizioni per l’area di libero commercio europeo e per istituire la CEE. Ora, seguendo I vari passaggi di questi presunti aiuti – in realtà prestiti – del piano Marshall, risulta ancora più evidente il peccato originale di questa Europa, nata non solo sul pilastro essenziale degli scambi economici, ma anche per soddisfare le esigenze del mercato e degli interessi delle corporationstatunitensi. A partire dal piano Marshall dunque, appare evidente come gli aiuti siano stati concessi non certo con intento di salvataggio dei paesi in difficoltà, bensì per soddisfare gli appetiti delle lobby a stelle e strisce. E ancora oggi il meccanismo è lo stesso. La Grecia ce lo dimostra apertamente, con ciò che la Troika spaccia per aiuti: sono debiti pesantissimi da ripagare per finanziamenti concessi prevalentemente ai grandi gruppi bancari. E per ottenere questi aiuti ha dovuto cedere di tutto, e proprio alle grandi lobby internazionali: dalla gestione del sistema idrico, all’industria mineraria, a quella petrolifera, per non parlare di porti, aeroporti, infrastrutture, persino il sistema di difesa ellenico. Sarebbe dunque il momento di imparare la lezione dalla storia, creando nuove relazioni con gli altri paesi europei e con i paesi al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti che possono creare una nuova rete di rapporti commerciali e geopolitici. E soprattutto, quando sentiamo parlare di aiuti dalla Banca Centrale Europea o dal Fondo Monetario Internazionale, non rincorriamo le sirene che ci spingono ad impiccarci con nuovi debiti. Si abbia il coraggio di guardare cosa c’è nella pancia del cavallo di Troia e di gridare: “No grazie! Non vogliamo essere aiutati!”.

·         Giugno 1944: gli Italiani in Normandia nei giorni dello sbarco.

Giugno 1944: gli Italiani in Normandia nei giorni dello sbarco. 75 anni fa migliaia di italiani si trovavano in Normandia e Bretagna. Chi erani i militari arruolati dai Tedeschi dopo l'armistizio per le battaglie seguite al D-Day del 6 giugno 1944. Edoardo Frittoli il 7 giugno 2019 su Panorama. Quando all'alba del 6 giugno 1944 scattò l'Operazione Overlord, lungo la costa settentrionale francese tra Normandia e Bretagna c'erano migliaia di Italiani. Erano sia militari sia civili. I primi si dividevano tra prigionieri di guerra catturati e deportati nei campi di internamento francesi dopo l'8 settembre 1943 e effettivi delle forze della Repubblica Sociale Italiana, tra cui i Marò e agli ex prigionieri arruolati successivamente nei ranghi delle SS Italiane. I civili erano invece principalmente artigiani e lavoratori del settore delle costruzioni dipendenti di aziende italiane appaltatrici come la ditta Rizzotto di Arcole, nel veronese. Altri italiani erano infine inquadrati nei reparti tedeschi della difesa antiaerea Flak (Flugzeug Abwehr Kanone) provenienti dai disciolti reparti di artiglieria del Regio Esercito e della antiaerea italiana Dicat. Nel documentario realizzato dal regista Mauro Vittorio Quattrina "D-Day, lo sbarco in Normandia: noi Italiani c'eravamo" si raccolgono le preziosissime testimonianze di chi visse lo sbarco alleato dalle coste della Normandia e della Bretagna 75 anni fa. La dislocazione dei soldati e dei civili italiani abbracciava un tratto della costa settentrionale francese comprendente le province della Normandia e della Bretagna orientale, compresi i centri abitati dell'interno. I militari prigionieri di guerra e i lavoratori italiani coatti inquadrati nell'Organizzazione militare Todt erano operativi nelle zone dello sbarco già mesi prima del D-Day in numero variabile tra le 20.000 e le 40.000 presenze tra militari e civili (i dati non sono ancora certi).

Alpini sulle coste dello sbarco. La presenza di un nucleo di penne nere sulle coste francesi è certificato dai documenti storici e dalle testimonianze dirette dei reduci registrate nel documentario di Quattrina. Gli Alpini erano soldati del Battaglione "Trento"  che erano stati catturati all'armistizio mentre si trovavano dislocati tra le alture di Grenoblein Savoia e le coste meridionali della Francia. Mentre molti alpini furono direttamente deportati nei campi di prigionia, una selezione di penne nere del "Trento" furono raggruppate e trasferite via ferrovia verso la Francia settentrionale. Giunti nella zona del futuro sbarco, gli alpini furono impiegati dai tedeschi nella costruzione di parte delle fortificazioni del "Vallo Atlantico". Gli italiani, stremati dalle fatiche e dalle privazioni, stesero migliaia di chilometri di filo spinato e di pali appuntiti per interdire i lanci di paracadutisti nelle radure. L'intensificarsi dei bombardamenti sulle coste e sui centri abitati in vista del D-Day significò altre e durissime fatiche per gli alpini del "Trento", che furono costretti allo sgombero delle macerie e allo scavo di trincee mentre l'inferno di fuoco cadeva sulle loro teste. Con lo sbarco alleato del 6 giugno 1944 le penne nere, dopo aver visto molti paracadutisti alleati morire anche a causa delle difese costruite da loro stessi, fuggirono nelle campagne circostanti. I superstiti saranno impiegati dall'esercito della Francia Libera per altro pesantissimo lavoro coatto e tornarono a casa l'anno successivo alla fine delle ostilità, nel 1946.

I Marò e la difesa dell' Isola di Cézembre (agosto-settembre 1944). Anche nel caso dei Marò, si trattava di uomini catturati dopo la resa ai Tedeschi seguita all'armistizio. Nello specifico il personale dell'ex Regia Marina fu reclutato a Bordeaux dove era attiva un'importante base di sommergibili (BetaSom - Bordeaux Sommergibili) comandata dal Capitano di Vascello Ezio Grossi. Fu il comandante di BetaSom a trattare direttamente con l'Ammiraglio Doenitz a Berlino, chiedendo ed ottenendo di preservare una forza di Marinai e Fucilieri di Marina evitando deportazioni o requisizioni dirette. Il contingente fu inquadrato nella Marina Nazionale Repubblicana e denominato "1a Divisione Atlantica Fucilieri di Marina". Poco dopo gli italiani vennero trasferiti tra Bretagna e Normandia per partecipare al rafforzamento delle difese costiere e delle isole del Canale. I Marò saranno integrati da oltre 5.000 ex internati italiani che scelsero di combattere per la RSI. Tra le isole fu fortificata quella di Cézembre, uno scoglio di 750 x 300 metri di fronte al punto strategico rappresentato dal porto di Saint-Malo. Parte dei Marò italiani vi furono trasferiti e posti sotto il comando di un fedelissimo di Hitler, l'Oberleutnant della Kriegsmarine Richard Seuss. L'isola fu coinvolta negli scontri circa due mesi dopo il D-Day, nei primi giorni dell'agosto 1944, quando gli Alleati cinsero d'assedio Saint-Malo. La guarnigione italo-tedesca aprì il fuoco contro i mezzi anglo-americani, disturbando in modo rilevante le operazioni militari per la presa dell'importante porto. Nascosti negli anfratti e nelle grotte dell'isola rocciosa i difensori di Cezémbre riuscivano inizialmente ad approvvigionarsi nottetempo con l'impiego di motoscafi veloci. L'ostacolo difeso dai tedeschi e dai Fucilieri di Marina divenne un problema sempre più pressante per i Comandi alleati, fatto che spinse il Generale Patton ad un intervento diretto. La decisione del generale d'acciaio diede il via ad una concentrazione di fuoco talmente massiccia da superare ancora oggi i grandi bombardamenti sul Vietnam e sull'Iraq. Durante l'assalto a Cézembre gli Americani utilizzarono per la prima volta i micidiali ordigni al napalm, oltre a quasi 20.000 bombe sganciate da centinaia di bombardieri diurni e notturni. All'attacco dal cielo si aggiunse un'intera batteria di cannoni da terra puntati sulle rocce dell'isola martoriata e avvolto dalle palle di fuoco del napalm. Seuss rifiutò più volte la resa, mentre i due ufficiali italiani e i circa 100 Marò presenti sull'isola avrebbero preferito cessare le ostilità. Il 2 settembre 1944 gli Americani decisero di porre fine alla resistenza di Cézembre con uno sbarco anfibio. Alla vista delle scogliere rese irriconoscibili dalle esplosioni, i Marines notarono la bandiera bianca issata dai Marò che non intendevano sacrificarsi per uno scoglio in terra straniera dopo giorni di resistenza inutile all'inferno di fuoco e morte. Il comandante tedesco costrinse tuttavia gli ufficiali statunitensi -per spregio nei confronti degli ex-alleati- ad una resa con due cerimonie separate. I 68 superstiti della difesa di Cézembre saranno fatti prigionieri e trasferiti nei campi di internamento in Texas. Faranno tutti ritorno a casa.

Le Waffen-SS Italiane in Normandia. Furono circa 500 gli italiani che presero parte ai combattimenti seguiti allo sbarco in Normandia sotto l'insegna delle due rune. Come nel caso degli altri corpi militari italiani, furono gli eventi seguiti all'8 settembre 1943 a determinare la loro presenza sulle coste dello sbarco. Rastrellati dai reparti italiani dislocati sul territorio francese, i soldati che optarono per la Repubblica Sociale furono riorganizzati e inquadrati nella 17a Panzer Division delle Waffen-SS "Gotz Von Berlichingen" nella città di Tours. La divisione corazzata fu protagonista delle più violente battaglie seguite al D-Day e partecipò alla difesa della cittadina di Carentan, dove fu gravemente ferito il comandante Werner Ostendorff  (che morirà nel maggio 1945). Le SS italiane saranno rimpatriate negli ultimi mesi di guerra e impiagate nuovamente nella Legione SS italiana. Dopo la ritirata e l'ultima tentata difesa di Norimberga, la divisione si arrenderà agli Americani ad Achensee il 7 maggio 1945. Le perdite degli italiani nei combattimenti con le Waffen-SS in Normandia saranno ingentissime: dei 500 effettivi, torneranno in Italia solamente un centinaio di uomini.

·         Prigionieri militari italiani in Russia: Il Pci nascose tutto.

Prigionieri militari italiani in Russia: Il Pci nascose tutto, scrive Francesco Fiore e pubblicato da Claudio Pira il 17 febbraio 2016 su riscriverelastoria.com. Questa che mi appresto a raccontare è la poco conosciuta storia di un autentico dramma che ha interessato molti giovani italiani. Le loro disavventure, le loro paure, le loro preghiere oggi sono state dimenticate. A farle precipitare nel baratro dell'oblio, quasi a metà tra sogno e realtà, non c'è però lo zampino del tempo, bensì un subdolo desiderio umano di nascondere per i propri fini delle verità compromettenti. Calandoci nel contesto storico che stiamo esaminando, andiamo a conoscerne i protagonisti. Per fare ciò è necessario tuttavia uscire dai limiti di cui dispongono le nostre conoscenze. Non dovendo prepararci per un interrogazione, possiamo allontanarci dalla classica e semplicistica visione della Seconda Guerra Mondiale insegnataci dai manuali di scuola. Sì, è stato il grande conflitto tra le ideologie novecentesche, e gli USA e l'URSS ci hanno salvato dal giogo del terrore instaurato dall'Asse. Ma talvolta, occorre approcciarsi a queste vicende con l'occhio critico di chi sa che in situazioni di guerra ogni organismo politico cerca di fare del suo meglio con i mezzi che ha a disposizione. Se in futuro poi una versione prende più piede di un'altra è perché, si sa, la Storia è scritta dai vincitori. La questione che vorrei proporre alla vostra attenzione, nasce in seguito agli sviluppi della Campagna di Russia, sul "fronte orientale". Essa ebbe inizio il 21 Giugno 1941 con l'Operazione Barbarossa (tributo al celebre imperatore del Sacro Romano Impero). Obiettivo dell'attacco, procedere celermente nel cuore del territorio russo lungo 3 direttive d'avanzata principali. Hitler aveva sempre saputo che prima o poi sarebbe arrivato il giorno del confronto diretto con le truppe di Stalin. Anche il "trattato Molotov-Ribbentrop " siglato nel 1939, che prometteva la non aggressione reciproca da parte dei due stati, sembrava in realtà più che altro una temporanea soluzione per gli interessi comuni; ne è prova la divisione della Polonia. Nel periodo che va dal 1939 al 1942, le forze armate tedesche erano riuscite a soggiogare gran parte d'Europa ad eccezione dell'Inghilterra, che ostinatamente si difendeva dalle incessanti incursioni della Luftwaffe. Contro il parere di molti all'interno del suo Stato Maggiore, Hitler decise di spostare l'attenzione ad est tra le lande sconfinate dello stato socialista, il vero "spazio vitale" della Germania Nazista. Distrutta la potenza russa (nonché il seme dell'ideologia comunista), l'Inghilterra sarebbe stata costretta ad arrendersi in men che non si dica. L'importanza dello scontro tra la Germania Nazista e l'URSS è intuibile dal tono delle parole che trapelano dal cosiddetto " Decreto dei commissari", firmato dallo stesso Führer: La guerra contro la Russia non può essere combattuta secondo le regole cavalleresche. Si tratta di una guerra di ideologie e differenze razziali, e dovrà essere condotta con durezza senza precedenti, senza pietà e senza tregua. Una battaglia ideologica, quindi, dagli scopi "metastorici". Ma, in Russia, i sogni del dittatore di ottenere una vittoria rapida e decisiva svanirono come neve sciolta al sole. Tanti furono i fattori della sconfitta tedesca; in primis Hitler non riuscì mai a legittimare le sue conquiste presso le popolazioni locali. La Capitale di un paese si può conquistare con la forza delle armi, ma se non si conquista la mente e il cuore degli abitanti, prima o poi avverrà il tracollo. Dal canto loro, i Russi erano ostinati più che mai a non arrendersi, in quella che per loro sarà ricordata, esaltata dalle autorità comuniste, come la "Grande Guerra Patriottica". A fare da cornice agli aspri combattimenti che dilagavano a più riprese nel cuore del territorio di Mosca, il grande freddo della steppa, già reso tristemente noto in Europa dalle cronache dei fortunati sopravvissuti alla catastrofica Campagna di Russia del 1812, guidata da Napoleone. Il "Generale Inverno" si schierò ancora una volta a difesa della sua terra, come se esistesse un tacito accordo "politico" tra i venti, i nuvoloni e il silenzio della steppa interrotto dalla polvere da sparo. La battaglia di Stalingrado poi, combattuta dal Luglio 1942 al Febbraio 1943, rappresentò il punto di non ritorno. Moltissimi oggi sono concordi nell'assegnare, all'esito di questa battaglia, il merito di aver fiaccato definitivamente la forza militare nazista e, anche in seguito alle sconfitte sul teatro africano, di averne avviato il successivo declino. Due anni dopo, infatti, una Berlino ridotta in macerie assisteva al dilagare dell'Armata Rossa. Gli orrori subiti in patria potevano essere lentamente dimenticati, ora che la bandiera dell'Unione Sovietica sventolava trionfante sul Reichstag, il parlamento tedesco nonché cuore simbolico del Terzo Reich.

Bene, adesso che abbiamo in breve inquadrato più o meno come andò la faccenda, possiamo soffermarci su quel genere di questioni che, ne accennavamo prima, non finiscono nei libri di scuola. Anzi, sono proprio vicende che partono laddove finisce la verità raccontata nei libri di scuola. Protagonisti? La pelle degli italiani in mano ai fascisti, la pelle degli italiani in mano al PCI. Tutti sappiamo che Mussolini ha trascinato il popolo italiano in una guerra sconclusionata, solo perché servivano "qualche migliaio di morti " da buttare sul tavolo delle trattative per essere tra i vincitori. Per quanto riguarda la Campagna di Russia, poi, la responsabilità è del tutto sua. Lo Stato Maggiore Italiano, persino Badoglio, aveva ipotizzato ed evidenziato una forte impreparazione delle forze armate italiane qualora fosse stato necessario affrontare un'operazione militare su così grande scala, come la guerra all'Unione Sovietica richiedeva. Nessuno aveva reclamato l'intervento italiano. Hitler stesso riteneva prioritario che l'Italia non perdesse tempo in altri scenari che non fossero quelli del "bollente" fronte africano, dove la sconfitta era stata appena scongiurata in extremis dalla Germania grazie all'invio dell'Afrika Korps di Erwin Rommel, la "volpe del deserto". In ogni caso, dopo tante smancerie, il Führer non poté non cedere alle incessanti pretese dell'italico alleato. Scriveva infatti, per l'ennesima volta, Mussolini: Sono pronto a contribuire con forze terrestri e aeree, e voi sapete quanto lo desideri. Vi prego di darmi immediata risposta. A partire da metà luglio di quello stesso anno, le prime tradotte di giovani soldati italiani si muoveranno in direzione est, in Ucraina e poi finalmente in Russia. Sarebbe bello poter dare loro il giusto onore raccontando delle loro gesta e delle loro sofferenze, ma non siamo qui per questo. Ci basta solo dire che, come auspicabile, le nostre forze militari si trovarono sempre in grandissima difficoltà, sia contro un nemico molto più tenace del previsto, sia a causa della scarsa organizzazione logistica di cui potevano vantare. L'esperienza correlata alla disastrosa ritirata, poi raccontata in libri come "Il sergente nella neve" di Rigoni Stern o "Centomila gavette di ghiaccio" di Bedeschi, avvenuta in seguito allo sfondamento dei sovietici presso i settori italiani sul fiume Don tra il Dicembre 1942 e il Gennaio 1943, meriterebbe uno spazio infinito. Non basterebbe tutta la carta del mondo per descrivere ogni singolo dramma che, interiormente, ogni soldato ha vissuto durante quella umiliante rotta nella neve, durata settimane. Questo è stato il modo in cui la libertà e la vita dei nostri nonni e bisnonni sono state usurpate dai folli sogni di dominio di due soli uomini. Fin qui, in realtà, niente di nuovo.

Concentriamoci però ora finalmente sull'aspetto centrale, il tema del nostro articolo. Ma i soldati italiani fatti prigionieri dai Russi, dove finivano? Ecco la seconda parte, quella dove a giocare con la pelle degli italiani è il PCI. È una storia che è stata sempre censurata dalla leadership del comunismo italiano, dai politici che nel dopoguerra hanno governato il nostro paese; demonizzando i loro predecessori fascisti, non hanno fatto altro che scrivere le pagine del loro presente con altrettanta vigliaccheria. Il Partito Comunista Italiano nasce a Livorno il 21 Gennaio 1921. Tale realtà deve inserirsi nell'ottica più ampia dell'Internazionale Comunista (o Komintern), appunto l'organizzazione internazionale dei partiti comunisti, che faceva ovviamente riferimento alle decisioni di Mosca. Soprattutto a causa delle divergenze interne che caratterizzarono la storia del Partito negli anni '20 e '30, e poi in seguito alla violenta repressione nei confronti degli oppositori al fascismo, furono molti i socialisti e i comunisti italiani che trovarono asilo politico nella Madre Russia. Alcuni di loro ben presto diventarono dei vitali punti di contatto tra i leader sovietici a Mosca e i comunisti rimasti nell'ombra in Italia in attesa di giorni migliori. Il più celebre tra questi "fuoriusciti", sicuramente lo speaker italiano di Radio Mosca. La sua voce giungeva attraverso la radio ai cuori italiani fedeli all'Internazionale. Lui stesso, del resto, era stato il rappresentante del Partito Comunista d'Italia presso il Komintern nel periodo 1928-1929; esattamente stiamo parlando di Palmiro Togliatti. Grazie a questo prestigioso incarico, poté visitare numerose volte Mosca e incontrare i leader politici del socialismo. Nel 1934 decise di stabilirsi definitivamente con la moglie e il figlio nella capitale sovietica, ospitato, insieme ad altre famiglie, nel palazzo governativo della Lubjanka. Nel Luglio del 1946, l'Ambasciata sovietica di Roma dichiarava definitivamente concluso il processo di rimpatrio di tutti i militari italiani. Dopo la caotica ritirata nel gelo di quell'inverno 1943, i dispersi erano moltissimi. Pur non riuscendo a chiarire del tutto quanti fossero effettivamente dispersi e quanti invece fossero vivi ma prigionieri, mancavano all'appello niente meno che 70.000 militari tra quelli inviati sul fronte russo. Durante la ritirata, furono moltissimi i soldati che non riuscirono a tenere il passo della colonna in marcia, avanzante nel gelo della steppa. Alcuni, stremati, sì accasciavano ai bordi del lungo serpente che i soldati in fila creavano sullo sfondo candido della neve. Si inginocchiavano e non sapevano più alzarsi. A volte, congelavano in quella stessa posizione dopo pochi minuti. I feriti non più trasportabili venivano lasciati nelle isbe, con la speranza che, se fossero arrivati i soldati russi, li avrebbero sicuramente assistiti meglio di quanto avrebbero potuto fare i nostri medici. Capitava inoltre che qualche gruppetto isolato restasse indietro; e molti erano quelli che, per un motivo o per l'altro, non si univano al grosso della formazione. Alcuni restavano nei villaggi, altri ancora decidevano di dire semplicemente basta con la loro testa a tutto ciò.

Riportiamo solo questo esempio, che ne vale per migliaia di simili. Ci è reso noto dalla cronaca della ritirata scritta da Giulio Bedeschi, che ha vissuto in prima persona come reduce l'orrore di quella esperienza, prima di affermarsi come noto autore di saggi storici: Una voce cantava, cinquanta metri innanzi, il vento portava i toni squillanti e quasi allegri; il canto s'avvicinava gradualmente inserendosi tra le folate sibilanti, finché a fianco della "ventisei" in cammino gli uomini videro anche il cantore; era un soldato che procedeva con comoda lentezza, incurante di mantenere il passo degli altri, cantava a voce spiegata, accompagnando il ritmo con una mano, con l'altra stringeva la giubba e la camicia strusciandole sulla neve; aveva una gran barba nera, e il torace ricoperto della sola maglia; gettò in aria la giubba e calpestò allegramente la camicia come fosse un bimbo che gioca. È impazzito - disse Serri a Zoffoli - cerchiamo di ricoprirlo. S'avvicinarono; appena il soldato li ebbe dinanzi smise di cantare. Zoffoli tese un braccio dicendo qualche parola, l'altro indietreggiò, trasse in un baleno la baionetta dal fodero e si mise improvvisamente a correre a lato allontanandosi dalla colonna. Si disperse in distanza. Si sentiva soltanto che aveva ripreso a cantare, felice. Ma dove va? - sospirò Zoffoli. I più fortunati (o sfortunati ?) di loro potevano salvarsi dalla morte gelida qualora venissero presi prima dai soldati russi. Solo che, arrivati a questo punto, per loro forse iniziava un'esperienza ancor più terrificante.

C'è da ricordare che la Russia non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra. Certo la decisione di Stalin è da considerare maggiormente sotto l'ottica dello scontro con Hitler, ma praticamente anche agli italiani toccò la stessa sorte. In ogni modo, non sarebbe mai stato possibile garantire ai prigionieri italiani lo stesso trattamento dei soldati sovietici (come vogliono le disposizioni internazionali per i diritti umani), perché in quel periodo il sistema politico sovietico stentava persino a mantenere i comuni contadini e cittadini russi. Quando i nostri soldati furono chiusi nei campi di prigionia scoprirono di non essere gli unici nemici dell'URSS; c'erano moltissime donne, bambini e uomini, pur se comunisti (persino italiani, rinchiusi e torturati lì da molto prima che scoppiasse la guerra). Tutti gli scomodi al Partito venivano mandati a marcire in questi centri. Prigionieri politici, prigionieri di guerra, a volte semplici criminali locali; insieme in un unico grande minestrone. Era questa la realtà che si viveva nei Gulag. Tale realtà, ovviamente, non era certo sconosciuta a tutti quegli italiani che, ne abbiamo parlato prima, avevano precedentemente raggiunto ruoli di prestigio (come Togliatti) all'interno del Partito stesso di Russia. Ma non dissero niente.

Scrive Arrigo Petacco: Conoscevano per esperienza diretta la drammaticità delle condizioni generali in cui versava l'Unione Sovietica ed erano consapevoli che oltre la metà dei nostri prigionieri era probabilmente stata falcidiata nei primi mesi dopo la cattura dalle tragiche "marce del Davai", dal freddo, dalla fame e dalle malattie. Essi per fedeltà cieca al Partito, non denunciarono mai in Italia le atrocità che venivano riversate sulle migliaia di loro connazionali, prigionieri nei campi sparsi per tutta la Russia. Con l'apertura degli archivi del Kgb nel 1992, moltissimi studiosi hanno ficcanasato nei segreti più "oscuri" del Partito Comunista. Per quanto riguarda il numero di prigionieri, sono uscite cifre altamente più spaventose di quanto fosse stato dichiarato dall'URSS. Si evinceva inoltre il pieno coinvolgimento nella faccenda del PCI, muto sulla questione per più di 50 anni. Dopo la guerra, vale la pena ricordarlo, il comunismo dilagava in Italia; infuocato dal mito della resistenza partigiana, finalmente il PCI stava riscuotendo il consenso che tanto aspettava, desideroso di guidare il Paese secondo i precetti di Mosca. Dal 1944 in poi, con la tripletta in successione Bonomi-Parri-De Gasperi, la demonizzazione di qualsiasi forma di politica diversa dal comunismo sarà totale. Già il ritorno dei reduci scampati alla Campagna fu scomodo per i nostri leader di sinistra. Quello che avevano patito in Russia, poteva mettere in discussione il "paradiso sovietico" di cui tanto si parlava in Italia. Immaginarsi poi, a guerra finita, cosa avrebbero potuto raccontare tutti i nostri soldati quando fossero stati rilasciati dalla prigionia. Avrebbero parlato di tutte le percosse ricevute, le umiliazioni subite dagli odiati Kapò (anche Italiani fedeli ai Russi). Avrebbero raccontato della cattiveria dei capi politici sovietici, della loro sete di emergere davanti al Partito. Perché quindi non continuare a farli marcire nei Gulag? Sapete quando fu rilasciato l'ultimo prigioniero italiano dalla Russia? Nel Febbraio del 1954. Nove anni dopo la fine della guerra ancora si moriva lontano da casa, trattenuti dall'URSS in condizioni disumane, senza neanche la possibilità di scrivere ai propri cari e far saper loro di essere ancora vivi da quando, ventenni, li avevano salutati alla stazione del loro paese per essere immischiati in una storia più grande di loro. In tutti i modi, all'interno del campo, si cercò di riconvertire al comunismo il pensiero degli internati. Edoardo D'Onofrio, che viveva in Russia e lavorava per il Partito proprio come Togliatti, in qualità di capo dei commissari, girava per i campi e teneva di queste "lezioni pratiche per il Comunismo". Terminato un comizio, disse: "Chi non la pensa come me, si alzi". Il capitano Magnani, della Divisione Alpina Julia, si alzò. Gli furono aggiunti undici anni di prigionia.

Più volte furono rivolte accuse pesanti (e reali) al PCI, che in ogni caso riusciva sempre ad uscirne pulito dopo i dovuti accorgimenti e stratagemmi. Ne è un esempio il cosiddetto "Processo D'Onofrio". Quando nel 1948 la DC accusò lui e altri "istruttori" di aver svolto con eccessiva cattiveria i loro compiti di "riconvertitori ideologici" all'interno dei campi, D'Onofrio e il Partito decisero di portare la cosa in tribunale, diffamando coloro i quali si erano permessi di dire tali bugie. Ne uscì, ovviamente, un processo farsa. Dei trecento testimoni portati in aula, molti dei quali della stessa UNIRR (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia), ne furono ascoltati solo trenta. Contro di loro, altrettanti testimoni dalla parte di D'Onofrio. Tutti figli della sua scuola, lo descrissero come un uomo retto e generoso. Lo stesso uomo che, sul finire del processo, si lasciò scappare: Avete fatto male ad insistere sulla mia condanna. Se sarò condannato, non staranno meglio quelli che sono rimasti in Russia. Morirà nel 1973, dopo essere stato il nostro vicepresidente della Camera. Vale inoltre la pena riportare il commento encomiabile pubblicato su "L'alba" e altri giornali italiani, di una certa Contini; dopo una visita al campo di Suzdal insieme a Di Vittorio (segretario generale della CGIL) e ad altri sindacalisti, dichiarò: Qui tutto fila a dovere. Ho visitato la cucina organizzata alla perfezione, dove si preparano sostanziose minestre e il cuoco si fa in quattro a tagliare bistecche per i prigionieri, dall'aspetto floridi e allegri. Questo è stato il modo in cui è stata ricostruita l'Italia nel dopoguerra. Per anni siamo stati schiavi di dettati e dogmi morali basati sul puro inganno, che si manifestano tuttora nel nostro squallido presente. Francesco Fiore. Fonti:

Martin Gilbert, La grande storia della seconda guerra mondiale

Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve

Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio

Arrigo Petacco, L'armata scomparsa

·         Così l'Italia è entrata nella Grande guerra contro nemici e alleati.

Così l'Italia è entrata nella Grande guerra contro nemici e alleati. Un saggio riesamina le scelte del governo Salandra. Combattere era l'unica possibilità, scrive Eugenio Di Rienzo, Martedì 05/03/2019, su Il Giornale. Nel primo conflitto mondiale, che è stato a giusto titolo definito l'«apocalisse nella modernità», la nostra classe dirigente non entrò, come si è spesso ripetuto, affetta da uno stato d'incosciente «sonnambulismo». Fa ora giustizia di questa leggenda storiografica l'importante volume di Giuseppe Astuto, La decisione di guerra. Dalla Triplice Alleanza al Patto di Londra, appena uscito nella prestigiosa collana di «Studi Internazionali», fondata dal compianto Luigi Vittorio Ferraris (Rubbettino, pagg. 577, euro 25). Salandra, Sonnino, Cadorna e gli altri esponenti della casta militare, come il generale Luigi Capello, avevamo, infatti, ben presente lo stato d'impreparazione morale e materiale del Paese (sul piano finanziario, industriale, della produzione e dell'approvvigionamento di materie prime e di armamenti). Una situazione critica, questa, aggravata dall'infelice situazione strategica della Penisola sprovvista di un confine militare sicuro a nord-est e del tutto vulnerabile da un attacco via mare, considerata l'enorme estensione delle coste e soprattutto la porosità di quella adriatica settentrionale priva di difese naturali e pressoché sprovvista di efficienti basi navali. E della consapevolezza delle difficoltà della guerra italiana, il più grande storico italiano della prima metà del Novecento, Gioacchino Volpe, volle dare testimonianza nell'articolo Radiose giornate di maggio (proposto al Corriere della Sera, nel marzo 1939, poi respinto dalla censura interna del quotidiano milanese) il cui paragrafo d'esordio si apriva ricordando le preoccupazioni del governo Salandra, per le deficienze strutturali dell'Italia, posta dopo il 28 luglio 1914, al bivio tra pace e guerra, «in un momento in cui il Paese era sotto la minaccia del conflitto civile, con le finanze in mediocre ordine, il Parlamento irrequieto ed esigente, e a rischio, se fossimo restati fedeli all'alleanza con gli Imperi centrali, di essere privati delle materie prime essenziali, il carbone, la lana, il grano, il petrolio e il cotone che ci venivano dall'Inghilterra o attraverso il mare dominato dall'Inghilterra». L'impossibilità evidenziata da Volpe, di non poter affrontare uno scontro con le «Potenze marittime», era stata sostenuta con forza nella lettera del 1° agosto 1914, inviata dal Capo di Stato Maggiore della Marina, Paolo Thaon de Revel, a Salandra, dove la scelta di non impegnarsi contro l'Intesa era motivata, più che da ragioni ideali o di affinità politica verso Londra e Parigi, da un calcolo necessariamente e brutalmente legato alla posizione geopolitica del nostro Paese. Thaon de Revel, infatti, non nascondeva al capo del governo che «in un conflitto armato marittimo, contro Francia e Inghilterra, nel quale certamente la Regia Marina farebbe tutto e intero il proprio dovere, la lotta che si prospetta non darebbe alcun affidamento di poter sicuramente conquistare quel dominio del mare necessario alla protezione del litorale nazionale contro le offese del nemico». Eppure, nonostante le tante debolezze della Nazione italiana, quella guerra era apparsa, a Volpe, già il 4 ottobre 1914, «necessaria», sia che fosse dichiarata all'Austria-Ungheria o all'Intesa. Restare neutrali nella grande contesa europea avrebbe corrisposto alla scomparsa politica del nostro Paese dallo scacchiere internazionale, alla fine della speranza di ricostituire la sua integrità territoriale e al sorgere di una più grave minaccia sul confine orientale. Se, infatti, «la vittoria del blocco austro-tedesco, cioè del germanesimo, sarebbe la fine del Trentino italiano e il nostro schiacciamento politico, militare, economico nell'Adriatico», il successo di Francia e Inghilterra, con le loro simpatie per i partigiani di una «Grande Serbia» e del nazionalismo iugoslavo, avrebbe corrisposto «all'annichilimento etnico dell'elemento italiano in Dalmazia, Fiume, in Istria e, probabilmente, all'affacciarsi dello slavismo in casa nostra, tra quei 40 o 50mila slavi del Friuli italiano». La guerra italiana sarebbe stata, comunque, una «guerra su due fronti»: contro l'Austria e l'espansionismo teutonico da combattere sul campo, e contro «gli alleati nostri ma di noi non amici» da condurre, senza quartiere, con gli strumenti della diplomazia, per «ottenere il riconoscimento concreto della nostra esistenza e del nostro diritto di svilupparci». Era indispensabile, dunque, prevalere in entrambi i fronti, pena il rischio di «perdere anche vincendo», sosteneva Volpe, anticipando le apprensioni di Sonnino esposte, il 16 febbraio 1915, al nostro ambasciatore a Londra, perché questi le rappresentasse al governo britannico. Il nostro ministro degli Esteri insisteva sul fatto che «nel partecipare alla guerra ci troveremo a fianco alcuni compagni d'arme, certo stimabilissimi ma che hanno, per qualche riguardo, interessi e ideali politici diversi e in parte perfino opposti ai nostri». Da qui derivava l'assoluta necessità di garantirci che, dopo la vittoria, «le nostre speranze non abbiano a restare frustrate per effetto della pressione che avessero a esercitar a nostro danno quegli stessi compagni al cui fianco avremmo combattuto, e ciò specialmente per quanto riguarda l'appagamento di alcune nostre antiche aspirazioni nazionali e le indispensabili garanzie della nostra situazione militare nell'Adriatico». Erano timori sensatissimi che si sarebbero tramutati in esatta profezia, quando al termine della Conferenza di pace di Parigi, i nostri alleati ci avrebbero defraudato del compenso della vittoria, acquistata al prezzo di oltre di 650mila caduti e di uno sforzo economico di straordinarie proporzioni che richiese non solo l'impegno di tutte le risorse del Paese, ma anche il sacrificio di una gran parte della ricchezza nazionale, accumulata da decenni.

·         4 novembre 2018: una data divisiva. Una inutile carneficina o una grande vittoria per l’Unità d’Italia?

"L'assessore ha umiliato i soldati morti per la patria".  Il Giornale Martedì 05/11/2019. «Come uomo, come italiano, come consigliere regionale e come consigliere comunale di Paullo io mi vergogno del post pubblicato oggi dall'assessore del Comune di Paullo Franco Maria Morabito. Nella Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate, questo signore pubblica una foto con un soldato morto su un filo spinato, con una frase di Dürrenmatt Quando lo Stato si prepara ad assassinare si fa chiamare Patria. Morabito non è un privato cittadino, ma un esponente delle istituzioni e un assessore di un Comune. Tant'è che ieri era andato alla commemorazione organizzata dalla sua maggioranza alla quale, tra l'altro, i consiglieri dell'opposizione non erano stati invitati. Tralasciando la bassezza di non invitare una parte politica a una festa nazionale, adesso viene anche il dubbio di quanto fosse sentita, date le parole che oggi vengono fuori da un uomo della maggioranza ritenuto dal sindaco meritevole di ricoprire il ruolo di assessore». A denunciarlo Franco Lucente, capogruppo di Fratelli d'Italia in Regione e consigliere comunale a Paullo con la lista Insieme per Paullo. «Come consigliere comunale, insieme con la capogruppo Roberta Castelli, chiedo che Morabito si scusi pubblicamente e tolga il post che umilia e infanga i tantissimi giovani che combattono e hanno combattuto per la nostra Patria, purtroppo spesso anche pagando con la vita il coraggio di stare in prima linea per tutti noi. Mi appello anche al sindaco, perché faccia eliminare immediatamente il post al suo assessore. Oppure se ne prenda le responsabilità insieme a lui di fronte a tutti i nostri soldati e a tutte le famiglie dei nostri caduti. Vergogna».

I primi sette mesi  della Grande guerra. Cadorna sprecò un’occasione. Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 su Corriere.it da Lorenzo Cremonesi. «1915: l’Italia va in trincea» di Gastone Breccia è la seconda uscita della serie in edicola «Le guerre degli italiani», dedicata ai conflitti vissuti dal nostro Paese. Fu una terribile doccia fredda. In quei primi sette mesi di guerra, nel 1915, si passò dall’illusione del «tutti a casa per Natale», nell’ubriacatura collettiva della vittoria facile, alla crudezza monotona della routine dei massacri. Alla chimera nazionale della liberazione immediata di Trento e Trieste si sostituì il rassegnato realismo all’inevitabilità di un conflitto lungo, difficile e costosissimo. Gastone Breccia, l’autore di 1915: L’Italia va in trincea, in edicola dal 5 novembre con il «Corriere», sottolinea con enfasi gli errori iniziali, la gravità della mancata iniziativa da parte del capo di stato maggiore, Luigi Cadorna, che non approfitta dei primissimi giorni, quando l’esercito austriaco non è affatto pronto. È paradossale: l’Italia dichiara la guerra, le sue forze pronte all’attacco sono oltre il doppio di quelle nemiche, eppure non si muove, non sfrutta la situazione favorevole. Le unità italiane restano a guardare. Danno tempo agli austriaci di organizzare le difese. Soltanto un mese dopo perderanno migliaia di uomini per cercare di occupare posizioni che poco prima sarebbero state conquistate di corsa. Non possiamo che concordare con Breccia quando osserva che, se è vero che per comprendere l’Europa odierna occorre capire quella di cento anni fa, è però anche vero il contrario. Quel mondo è davvero lontano, resta remoto per valori, mentalità, riferimenti. Scrive: «Quegli uomini, quegli eserciti, quelle terribili tempeste d’acciaio che rovesciarono la terra e dilaniarono un’intera generazione ci sono profondamente, se non totalmente, estranei». È infatti superficiale sostenere che le «guerre sono tutte eguali». Tutt’altro. Oggi le sfide tra droni, le battaglie sul web, il ruolo unico di pochissime teste di cuoio ben attrezzate non hanno nulla a che fare con i fanti che accerchiavano Gorizia nelle trincee puzzolenti, o con gli alpini abbarbicati d’inverno tra i cunicoli e le baracche. Eppure, alcune caratteristiche restano simili nelle dinamiche dei conflitti. Per esempio, la velocità repentina con cui i piani di battaglia vengono smentiti, cancellati, per poi essere recuperati, oppure dimenticati. I fautori della «primavera araba» siriana nel 2011 mai avrebbero pensato di dipendere dalla Turchia di Erdogan otto anni dopo per cercare di ricavarsi un ruolo nella Siria del trionfante Bashar Assad, garantito da Vladimir Putin. In guerra gli errori di valutazione si pagano carissimi. Le prospettive cambiano di continuo. Così nel 1915 i comandi italiani, e con loro buona parte del Paese a partire dagli intellettuali interventisti, mostrarono di non aver imparato nulla da ciò che era accaduto sugli altri fronti nei dieci mesi precedenti. E dire che bastava leggere le relazioni degli osservatori e le cronache dai campi di battaglia. Non si era appresa alcuna lezione dalla dinamica dei combattimenti sul campo, per cui dagli slanci iniziali si era passati rapidamente alla guerra statica di trincea. Nulla dagli effetti terrificanti delle nuove armi del «conflitto industriale». E ben poco dal ruolo dell’aviazione e dal fatto che fosse assolutamente necessario adattarsi, cambiare le concezioni di stampo ottocentesco che ancora guidavano gli insegnamenti nelle scuole militari. Il generale Cadorna aveva un bel rimpiangere «gli antichi criteri» dell’arte militare. Non ci sarebbero più stati duelli, cariche di cavalleria, o manipoli di coraggiosi capaci di cambiare le sorti di una battaglia con gli assalti alla baionetta. Ormai la maggior parte delle vittime era provocata dai bombardamenti dei grossi calibri da distanza. Coloro che sparavano e quelli che morivano in gran parte dei casi non si sarebbero neppure più visti. Era una guerra anonima, fatta di numeri, oggetti meccanici, capacità di produrre bombe e mezzi per portarle alle artiglierie. Cambiavano anche i criteri dell’onore militare. Se sino alla seconda metà dell’Ottocento l’eroe era ancora concepito come un personaggio attivo, eccezionale nelle sua dinamica capacità di sfidare gli avversari, adesso al contrario si distinguevano coloro che nelle trincee sapevano restare fermi, immobili, passivi. Il nuovo eroe era il calmo per eccellenza, colui che abbassava la testa, ma col sangue freddo di rialzarla appena dopo il cessare dei tiri avversari per mirare col fucile dal parapetto del suo rifugio. Così tra il maggio e dicembre 1915 l’Italia precipitò molto rapidamente in quello che è stato definito il «suicidio dell’Europa». La modernità bellica, l’assurdo esistenziale della «terra di nessuno», l’orrore dei campi coperti di cadaveri, la morte anonima divennero parte essenziale delle prime quattro «grandi spallate» sull’Isonzo. Le volle Cadorna con burocratica spietatezza, rivelando un’enorme sfiducia nelle capacità combattenti dei suoi soldati, e causarono oltre 250 mila perdite tra morti, feriti e dispersi, senza praticamente mutare la linea della frontiera. Alla fine dell’anno l’Italia era spossata, vicina al collasso. Eppure, proprio in quei mesi di scioccante tirocinio si posero i semi per la tenuta nei tre anni seguenti e persino per la capacità di ripresa dopo Caporetto.

Il 4 novembre spiegato a Giorgia Meloni. Sergio Lima Movimento CentoPassi - Claudio Fava il 2 novembre 2019 su Ilfattoquotidiano.it. Ventotto volumi, pomposamente chiamati “albo d’oro”, contengono i nomi degli oltre 600mila morti per cause belliche. A questi vanno aggiunti, e non c’è neppure una statistica ufficiale, centinaia di migliaia di civili morti per “avversità belliche”, che tradotto significa fame e malattia. Intere generazioni spazzate vie sulle trincee e sugli altopiani, migliaia di uomini fucilati per mantenere la disciplina su ordine di tribunali militari speciali. Interi reggimenti sottoposti alla pratica della decimazione. Questa è stata la guerra italiana ’15-’18. Questa e non l’eroico racconto di chi la guerra l’ha raccontata, dopo, da comode e calde case. O dai “letti di lana” come recita un verso della vera cantata della guerra, che non è la “canzone del Piave”, ma “Gorizia tu sei maledetta”. Per questo il 4 novembre non è tanto la data della vittoria, quanto la data che segna la fine dell’inutile strage. Non un trionfo ma una data che ricorda la follia della guerra e l’orrore del militarismo frutto esasperato del nazionalismo. La proposta di Giorgia Meloni di fare del 4 novembre la data della festa nazionale è, quindi, non solo un modo per occupare qualche spazietto sui giornali ma, ed è peggio, un affronto al senso stesso che quella data ha occupato nella memoria del paese. E non casualmente la proposta è infarcita di richiami alla vittoria, al Sacro Piave, all’eroismo. Le stesse parole e la stessa narrazione di chi mandava, in folli strategie, i soldati a crepare davanti le mitragliatrici e fucilava chi riusciva a tornare indietro. Se il 4 novembre ha un significato è esattamente il contrario, a 100 anni dalla fine di quel massacro dovrebbe ricordarci altro. Dovrebbe essere un monito, terribile. Un monumento alla follia umana. Ma questo significherebbe abbandonare il terreno della propaganda, che per ironia della sorte proprio nella prima guerra mondiale diventa arma al pari di cannoni e gas tossici, e incamminarsi su un terreno più accidentato, quello della riflessione e della comprensione. Terreni ostici di questi tempi. Sulle trincee e sui luoghi delle carneficine e delle fucilazioni di massa bisognerebbe tornare, per vedere per capire. Un esercizio di memoria utile non per celebrazioni di confini ma per evitare che un domani un paese senza memoria, un mondo senza memoria, possa pensare di ripiombare in quell’orrore chiamato guerra. Sarebbe il modo giusto per celebrare il 4 novembre e, magari, chiedere scusa.

La Prima Guerra Mondiale non va festeggiata, ma solo ricordata con rigore storico per quello che fu: un’inutile carneficina, Friuli Sera il 28 ottobre 2019. Si avvicina il 4 novembre  Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate fu istituita nel 1919 per commemorare la vittoria italiana nella prima guerra mondiale, evento bellico considerato allora completamento del processo di unificazione risorgimentale ma che se forse poteva avere un senso a quell’epoca, oggi diventa anacronistico far coincidere una festa con una delle peggiori carneficine militari della storia dell’uomo. Volendo anche giustamente dedicare una giornata alle Forze armate la data andrebbe modificata o quantomeno tolta la retorica relativa al primo conflitto mondiale e alla “vittoria”. La Prima Guerra Mondiale fu infatti uno scontro tra grandi potenze imperialiste che portò solo milioni di morte, atrocità, barbarie, distruzione e devastazione e divenne prologo di quella che sarà pochi anni dopo la seconda guerra mondiale che allargò ulteriormente la strage ai civili e fu preludio ideologico al fascismo e la nazismo che ammorbarono la convivenza civile in Europa e nel mondo. Insomma se il 4 novembre resta legato a quegli episodi di guerra andrebbe abolito, soprattutto dopo che da tempo gli storici hanno evidenziato la realtà di quanto accaduto. La Prima Guerra Mondiale, combattuta tra l’estate 1914 e l’autunno 1918, vide coinvolti ben 28 Paesi divisi in due schieramenti: l’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia, Italia e alleati tra i quali gli Stati Uniti entrati in guerra nell’aprile 1917) e gli Imperi Centrali (Austria-Ungheria, Germania e alleati). Teatri di guerra, oltre all’Europa, furono anche i territori dell’Impero Ottomano, quelli delle colonie tedesche in Asia, nonché tutti i mari. Si stima che in totale siano stati mobilitati circa 65 milioni di uomini, con un bilancio di vittime calcolato in 9,7 milioni di morti e 21 milioni di feriti molti dei quali con gravi mutilazioni. Per comprendere quanto davvero la Prima Guerra Mondiale sia stata uno dei conflitti più sanguinosi della storia dell’umanità basta ricordare le stime di quanti persero la vita. Tra gli Alleati si contarono circa 2 milioni di morti tra i soldati russi, 1,4 milioni francesi, 1,1 dell’Impero britannico, 370.000 serbi, 250.000 rumeni e 116.000 statunitensi. Nello schieramento degli Imperi Centrali: 2 milioni i soldati tedeschi oltre a 1,1 milioni di austro-ungarici, 770.000 turchi e quasi 100.000 bulgari. Per quel che riguarda l’Italia (che all’epoca poteva contare su una popolazione di poco superiore ai 35 milioni di abitanti) il bilancio fu pesantissimo. L’Italia mobilitò nella Prima Guerra Mondiale ben 6 milioni di uomini: di questi furono 651.000 i militari morti. Poi si devono aggiungere più di 500.000 di vittime civili. Insomma i numeri sono drammaticamente chiari ed è chiara anche la ragione di quella guerra non fatta certamente per migliorare le condizioni del popolo, eppure l’inutile strage continua ad essere festeggiata e si perpetua la propaganda della “vittoria” ma in realtà non ci fu nessuna vittoria ed il paese uscì con le ossa rotte preludio all’avvento della dittatura che presto si affacciò ad ammorbare il paese. Se proprio si volesse ricordare quei tragici eventi di guerra si dovrebbero commemorare le vittime, ma quelle di ogni guerra, esprimendo un lutto che sia anche solenne impegno ad opporsi alle armi come metodo di risoluzione delle controversie internazionali, del resto in questo viene in aiuto la Costituzione Italiana che all’articolo 11 è chiarissima: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Viene da chiedersi se in questi anni abbiamo davvero rispettato il dettato Costituzionale o se con le vari definizioni di “operazioni umanitarie o di polizia internazionale” abbiamo davvero onorato il dettato costituzionale. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano. Diciamo che dopo oltre 100 anni di guerre, lutti e carneficine in nome degli interessi, non certo dei popoli, a 20 anni dai bombardamenti su Belgrado e a 18 anni dall’inizio della “guerra al terrore” che ha distrutto l’Afghanistan e l’Iraq, per non parlare di Libia e Siria, il mondo non è certo più sicuro. Anzi la netta sensazione è che in nome della “civiltà” si siano creati mostri che hanno reso il mondo molto più insicuro e disumano. Se non altro per questo, festeggiare una vittoria militare, appare, a dir poco, decisamente stucchevole.

Claudio Morselli (Movimento Nonviolento) (pubblicato sulla Gazzetta di Mantova il 02.11.2017). Per il ministero della difesa, e per la maggior parte delle celebrazioni, il 4 novembre è la Festa delle Forze armate, “Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze armate”, ovvero “la data in cui andò a compimento il processo di unificazione nazionale”, con gli italiani che “si trovarono per la prima volta fianco a fianco, legati indissolubilmente l’un l’altro sotto la stessa bandiera”. In alcuni casi viene aggiunta la sottolineatura: “99° anniversario della vittoria”. Si è scelto, quindi, e me ne rammarico, di proseguire sulla strada della retorica nazionalista e dell’apologia della guerra che il fascismo costruì per diffondere il mito della patria fondata sull’affratellamento delle trincee e sul ”sacrificio eroico” dei soldati, Ma così si nega e si nasconde la verità della colpevole e inutile carneficina di oltre un milione di italiani, militari e civili, che è la vera essenza della Grande Guerra, definita dal papa di allora, Benedetto XV, come una “inutile strage”. Non bisogna dimenticare che, come riconobbe lo stesso Giolitti, l’Italia poteva evitare di entrare in guerra ottenendo come contropartita, dall’Austria, la cessione di Trento (che era ormai già acquisita) e Trieste. Il neutralismo, alla fine del 1914, era in Italia ampiamente prevalente, ma le mire espansionistiche e gli interessi di alcuni grandi gruppi industriali alimentarono una martellante campagna propagandistica che, in pochi mesi, consentì alla politica interventista di portare l’Italia al delirio collettivo e alla follia dell’inutile sacrificio di tante vite umane. Con totale disprezzo per la loro vita, i soldati vennero mandati al macello con ripetuti e assurdi assalti alle trincee nemiche, sotto il controllo dei carabinieri che, alle loro spalle, sparavano a chi esitava nell’eseguire gli ordini ricevuti. Un milione e mezzo di soldati (quasi il 30% di tutti i militari chiamati alle armi) furono processati – molti in contumacia perché emigrati all’estero – per renitenza, diserzione, disobbedienza, ammutinamento e per atti di autolesionismo. Un numero incalcolabile di soldati venne fucilato con esecuzioni sommarie eseguite a sorteggio, come da circolare del generale Cadorna, di fronte all’impossibilità di accertare le responsabilità personali degli atti di insubordinazione. Finita la guerra, per evitare l’esplosione del malcontento popolare, che aveva già provocato la rivolta di Torino del 1917, il governo fu costretto a proclamare l’amnistia per quei reati militari. Il rientro dei reduci – disorientati, sconvolti e senza lavoro – contribuì inoltre all’ondata di inquietudine sociale e di violenza che travolse l’Europa post-bellica. La Grande Guerra produsse, è vero, un elemento di “unità nazionale”, che è diventato però una spregevole caratteristica del nostro Paese, di cui però poco o nulla si parla perché chiama in causa le responsabilità della politica italiana: la corruzione di sistema. Quella “crudele e delittuosa avidità di denaro – disse Giolitti – che spinse uomini già ricchi a frodare lo Stato imponendo prezzi iniqui per ciò che era indispensabile alla difesa del paese; a ingannare sulla qualità e quantità delle forniture con danno dei combattenti; e a giunger fino all’infamia di fornire al nemico le materie che gli occorrevano per abbattere il nostro esercito”. Una corruzione che coinvolse, in modo organico, con ramificate collusioni e affari giganteschi, ampie aree del mondo imprenditoriale e fette consistenti delle classi dirigenti e della pubblica amministrazione, civile e militare. Una corruzione sistemica che dilagò sovrana. Il più grande episodio di corruzione sistemica della storia d’Italia. Tutto documentato nei voluminosi atti della specifica commissione parlamentare d’inchiesta, che Mussolini censurò e occultò negli archivi del Parlamento. Un altro effetto di “unificazione nazionale” – anche questo poco onorevole – che si è poi riprodotto fino ad oggi in modo esponenziale, senza alcun beneficio per la maggior parte dei cittadini, fu il nostro debito pubblico, che dai 13 miliardi del 1914 schizzò, alla fine del 1919, alla cifra iperbolica (per allora) di 94 miliardi di lire. A quasi cent’anni dalla fine della guerra sarebbe utile, da parte delle istituzioni, un po’ di verità su questa pagina funesta della nostra storia. Claudio Morselli (Movimento Nonviolento)

I falsari della Storia. Il nostro spirito nazionale forgiato in trincea. Sarà per questo che si fa di tutto per mascherare la ricorrenza da spot pacifista. Marcello Veneziani il 3 novembre 2018 su Il Tempo. Dopo un anno di commemorazioni masochiste per auto-mortificarci, arrivò finalmente il giorno in cui siamo costretti a ricordarci della Vittoria e del suo centenario. Eccolo, il 4 novembre, anzi il IV novembre, la giornata della Patria. Ma avrete già sentito come viene trasformato quell'anniversario nel Racconto Ufficiale fatto da presidenti, ministri, media e professori: la Vittoria sparisce, la Nazione pure, alla Patria solo un timido sbuffo di cipria e dei caduti se ne parla come povere vittime del nazionalismo e dei loro capi. Il resto sarà tutta una celebrazione della pace, dell'Europa, dell'umanità col sottinteso che eroi e vittime di guerra sono caduti invano, per una sanguinosa illusione. La memoria della Grande Guerra viene esattamente rovesciata: diventa la celebrazione dell'Europa e la mortificazione delle nazioni identificate nei nazionalismi. Ma la verità storica dice esattamente il contrario: la prima guerra mondiale fu il funerale dell'Europa e il trionfo dell'Italia, pur mutilato. Da quel conflitto l'Europa uscì infatti sfasciata e indebolita, non fu più il centro del mondo, perse gli Imperi Centrali che ne erano la spina dorsale, il mondo cominciò a dividersi tra l'Ovest americano e l'Est comunista, schiacciando l'Europa nel mezzo o relegandola a periferia. Nacque da quel conflitto il comunismo e poi la reazione ad esso, nacque la frustrazione tedesca che portò al nazismo, nacque il fascismo. Con la seconda guerra mondiale, il tramonto dell'Europa avviato dalla prima raggiunse il suo epilogo. Gli occhi dell'ideologia pacifista non vogliono vedere la realtà tragica e gloriosa di quell'evento. Invece, sul piano nazionale, la Prima Guerra mondiale consacrò l'Italia, per la prima volta uscita vincitrice da un conflitto, al rango di nazione e patria comune. Il Risorgimento era stato un'impresa di pochi, voluta da pochi, rispetto a una popolazione contadina, cattolica, soprattutto meridionale, in buona parte non partecipe se non refrattaria al processo unitario. Fu la Prima Guerra Mondiale a sancire nel sangue e nel dolore la comune appartenenza all'Italia. Quando dicono che la Prima Guerra Mondiale fu per noi la conquista di Trento e di Trieste, si rimpicciolisce – con tutto il rispetto per le terre irredente – la portata e il significato del Conflitto. No, in quella occasione per la prima volta, un popolo intero si sentì nazione, si scoprì patria. La leva obbligatoria, l'educazione nazionale seppure a tappe forzate, il sentimento di appartenenza tramite i propri ragazzi al fronte, portarono per la prima volta a sentirsi veramente italiani le genti del nord insieme alle genti del sud; i borghesi e i proletari, gli intellettuali e i contadini. Sarebbe ipocrita negare che molti di loro furono riluttanti e la prima guerra mondiale fu voluta anch'essa – come il Risorgimento – da una minoranza. Forse la Grande Guerra ebbe meno consenso popolare della seconda guerra mondiale, che almeno inizialmente godette di fervore e adesione degli italiani. Ma l'effetto che produsse la Vittoria fu il rafforzarsi del legame nazionale. La sua consacrazione avvenne con la proclamazione della Vittoria, il ritorno dei combattenti e reduci, il ricordo dei caduti, la salma del Milite Ignoto. E la consacrazione dell'Altare della Patria a lui, al Soldato italiano senza nome. Fu in quel passaggio, da Monumento funebre al Re Vittorio Emanuele II ad Altare per il Milite Ignoto, il vero passaggio da un Regno a una Nazione, un Popolo. Perciò quando si parla di IV novembre si deve ricordare insieme al sacrificio di tanti soldati, al dolore delle loro famiglie, anche l'orgoglio di dirsi italiani, pagato col sangue; la fierezza di un sentimento di appartenenza nazionale. Dove finisce invece nella retorica ufficiale l'amor patrio? Sparisce, per far posto alla parola umanità che almeno in questo caso è fuori luogo, è storicamente falsa e bugiarda, comunque fuori posto. Ma non solo. Si prosegue nell'autoflagellazione. Abbiamo visto nei giorni scorsi nei tg di Stato, che il ministro/la ministra della difesa ha ricordato in una speciale cerimonia apposita non i 650 mila caduti italiani ma qualche centinaio di caduti ebrei italiani nella prima guerra mondiale. Per poi dire: loro erano caduti per l'Italia e l'Italia poi li ripagò con le leggi razziali. Insomma tutti i discorsi servono per portare sempre là, alla nostra Autoflagellazione quotidiana. Senza considerare che gli ebrei si consideravano ed erano considerati italiani a pieno titolo, che gli ebrei – per esempio – a Trieste, furono ferventi patrioti e anche nazionalisti; e molti di loro diventarono pure fascisti. E comunque non si possono ricordare in modo speciale solo alcune centinaia di caduti di fronte a centinaia di migliaia di caduti... Ma questo è funzionale per far slittare l'amor patrio nell'antifascismo. Pura propaganda ideologica, pura distorsione. E se si parla dei soldati della prima guerra mondiale la preferenza va verso i disertori non verso gli eroi, verso chi fu ucciso perché non voleva combattere (proposito umano che merita pietà, non ammirazione) e non verso chi ha dato volontariamente la sua vita alla patria. Siamo rimasti eredi di Caporetto più che di Vittorio Veneto, siamo fermi a Cadorna, non siamo arrivati a Diaz. Per questo è necessario ricordare che il IV novembre fu il battesimo di una nazione antica in epoca moderna, fu la conversione di un'identità plurale in una patria comune, di un sentimento unitario e di una lingua gloriosa e plurisecolare in nazione. L'Italia disegnata dalla geografia finalmente combaciò con l'Italia disegnata dalla storia. Un grande evento di fondazione. Per questo dobbiamo onorare senza se e senza ma i caduti, la Vittoria e la nascita di un popolo che si scoprì nazione.

Il Piave, una storia italiana: il 4 Novembre una vera festa nazionale. Giuseppe Basini lunedì 19 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia.  Riceviamo da Giuseppe Basini e volentieri pubblichiamo: I giorni delle celebrazioni del centenario della vittoria nella prima guerra mondiale sono finiti. Ma si può parlare di vere celebrazioni, come quelle che in passato, per anni, abbiamo fatto? Credo purtroppo di no e allora penso che il 4 Novembre, per la sua importanza nel determinare il nostro modo di considerarci tra Italiani, debba tornare festa nazionale a tutti gli effetti, lo dobbiamo a noi stessi, alla nostra storia e ai nostri figli . E vediamo perché . “Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio, dei primi fanti il ventiquattro Maggio” così iniziava quella “Canzone del Piave” che Giovanni Ermete Gaeta (E.A.Mario) scrisse proprio nei giorni finali del tentativo austriaco di sfondare definitivamente le nostre linee sul Piave e vincere così la Grande Guerra. Era il Giugno del 1918 e Gaeta scriveva mentre proseguiva la durissima battaglia di resistenza definita del Solstizio. Fu una canzone scritta di getto sull’onda dei drammatici avvenimenti, un inno alla resistenza senza alternativa, per difendere il nostro essere popolo, con la sua storia, la sua lingua, i suoi confini, nel momento in cui la nostra identità era di nuovo minacciata, dopo soli cinquant’anni di ritrovata unità nazionale. E dalla contemporaneità con i tragici eventi, con il rischio reale della sconfitta e dell’invasione, nasce il fatto che la canzone suoni realmente epica e ancora capace di suscitare fortissimi sentimenti, perché fu un vero grido dell’anima del compositore, che semplicemente rifiutava che potessimo scomparire come popolo e scritta proprio nel momento in cui sembrava ancora che ciò fosse possibile. La quarta strofa dell’inno, quella che inneggia alla vittoria e alla riconquista di Trento e Trieste, fu infatti aggiunta solo dopo, nel Novembre, dopo la vittoriosa conclusione. Armando Diaz, uno dei pochi generali capace sul serio di vedere nei suoi soldati degli uomini in uniforme, lo riconobbe in uno storico telegramma all’autore, in cui attribuiva a quella canzone, divenuta popolarissima tra le truppe, un vero grande contributo alla resistenza e alla vittoria. Ecco perché comincio col Piave questa rievocazione della Grande Guerra, perché nella poesia di E.A.Mario c’è la sintesi di un’intera epoca, dal Risorgimento ( nel rifiuto di tornare “come allora”) alla sua conclusione, con la fusione di un popolo avvenuta nelle trincee, dove centinaia di migliaia di Italiani del sud salvarono gli Italiani delle città del nord, non dalla barbarie degli austriaci (inesistente invenzione della propaganda bellica) ma dal tornare ad essere cittadini di serie b, come erano davvero (e per secoli) stati. Fu un’inutile strage, come disse Benedetto XV ? Certo che lo fu e la scomparsa degli imperi centrali non fu affatto un bene per la civiltà europea, ma peggio, molto peggio sarebbe stato per noi Italiani, perderla quella guerra, non da noi fatta scoppiare né voluta, ma che se avesse avuto un altro esito sarebbe finita con la fine dell’Italia, anziché dell’Austria-Ungheria. E d’altronde i milioni di borghesi, popolani e contadini, che furono strappati dalle loro vite e dai loro affetti, capirono in tutti i paesi l’importanza della posta in gioco, l’insipienza colpevole e disprezzata delle classi dirigenti, nel non evitare una guerra civile europea, non impedì infatti ai soldati di fare il loro dovere, consci che una sconfitta avrebbe aggiunto una catastrofe alla catastrofe. Sogni, progetti, amori andarono perduti nel fuoco della guerra, le vite normali furono sconvolte, ma imparammo perfino a riderci su – antico rimedio contro la paura – come nella storiella dell’ufficiale piemontese che, a guerra finita, a un ballo corteggiò una madamin, dicendole che la sua pelle era bianca come la neve dell’Adamello e le sue labbra rosse come il sangue dei nostri soldati e, chiestole il nome, si senti rispondere che il suo nome era ciò che i fanti sognavano in quei giorni gloriosi, al che lui suggerì Bernarda, per sentirsi rispondere, ma no, Vittoria. Sa di antico rosolio, ma i drammi personali, le famiglie distrutte, le giovinezze perdute, furono reali. Eppure non cedemmo, la grande maggioranza sentì che dovere, senso dell’onore, interesse nazionale, insomma l’etica di quei tempi, li spingeva, magari confusamente, verso una sola possibile risposta : non cedere. Sul Piave e poi a Vittorio Veneto, si compì un miracolo, ma non solo quello del valore, che gli Italiani hanno molto spesso dimostrato, dagli arditi ai paracaditisti, dai MAS della grande guerra ai siluri a lenta corsa della seconda, no il miracolo vero fu quello dell’organizzazione. Per la prima volta gli Italiani si dimostrarono capaci di coordinare le grandi unità, a livello di armate e di corpi d’armata, in un’azione corale tesa a distruggere l’esercito avversario. L’abilità dei capi militari, la risolutezza di un Re che seppe imporre, a Peschiera, agli stati maggiori alleati la decisione di arrestare il nemico sul Piave anziché arretrare ancora, l’umanità e la capacità strategica di Diaz, portarono allo straordinario risultato di un Italia capace di fare sistema in una grande guerra moderna. Ci sono memorie e documenti, che meriterebbero di essere menzionati nelle nostre scuole, che, ripercorrendo gli ultimi mesi di guerra, descrivono i preparativi della Germania per proseguire e vincere la guerra, grazie alle risorse in arrivo dalla sconfitta Russia, prostrata ma ricca di materie prime e alla progettata mobilitazione in massa di Polacchi a cui promettere in cambio l’indipendenza, la Germania insomma era tutt’altro che sconfitta sul fronte occidentale, però sopravvenne, grazie proprio a noi, il crollo del fronte austriaco. Ludendorff, il generale a capo, insieme a Hindemburg, dello stato maggiore Tedesco scrisse il 7 novembre 1919 al conte Lerchenfeld: “Nell’ottobre 1918 ancora una volta sulla fronte italiana rintronò il colpo mortale. A Vittorio Veneto l’Austria non perse una battaglia, ma la guerra e sé stessa, trascinando anche la Germania nella propria rovina. Senza la battaglia distruttrice di Vittorio Veneto noi avremmo potuto, in unione d’armi con la monarchia austro-ungarica, continuare la resistenza”. Quando i Tedeschi, a seguito della resa Austriaca (e del telegramma dell’Imperatore Carlo D’Asburgo, che comunicava di non poter più difendere il confine con la Baviera) cessarono l’occupazione del suolo francese e ripiegarono ordinatamente in Germania, al passaggio di alcuni ponti sul Reno le ragazze gettarono loro fiori, perché quello non era un esercito sconfitto sul campo, la guerra si era infatti risolta in Italia, con la sconfitta del loro alleato. Certo che si poteva e doveva evitare la guerra, ma questo nulla toglie all’onore, al valore, al coraggio, degli Italiani che seppero diventare Nazione vincendo la prova per sé e per gli altri. E’ strano il comportamento degli uomini, la nostra vita è limitata, lo è naturalmente e non ci possiamo fare nulla, eppure questa vita limitata a volte sembra acquistare senso proprio quando siamo disposti a perderla, per una causa o una situazione, che spesso non sappiamo definire, ma che quando si presenta in qualche modo sentiamo giusta. Così nascono gli eroi, che quasi mai sono i responsabili degli avvenimenti che li coinvolgono. All’epoca ovviamente non c’ero, ma gli echi di quegli avvenimenti ancora duravano quando ero bambino, mi ricordo distintamente quando i miei partirono con la macchina imbandierata per andare a Trieste per festeggiare la città che tornava all’Italia, avevo sette anni e l’eccitazione, il pathos, la felicità che sentivo, mi fecero capire che doveva essere qualcosa di importante. Di quel viaggio, mi resta un filmato otto millimetri in bianco e nero, con mia madre, le piazze piene di triestini con i tricolori, le navi italiane nel porto, delle scolaresche inquadrate, che riproduce meglio di qualunque discorso un’atmosfera, così come mi resta una registrazione su filo metallico della mia voce mentre canto l’inno del Piave. Fu una sorta di “imprinting” ? Certo, ma io di quell’imprinting sono enormemente grato ai miei genitori e spero di averlo saputo trasmettere ai miei figli. Ho sempre rispettato i patrioti di tutti i paesi, perché da mio Padre, ufficiale volontario in guerra e restato fedele al giuramento al Re, ho imparato a vedere e rispettare negli altri patriottismi il riflesso del nostro, mentre ho sempre nutrito una forte e istintiva diffidenza per coloro che premettono di essere contro ogni retorica (ho il sospetto che siano capaci di tutto) . Credo anche che i patriottismi si possano comporre in una unione che possa essere Patria comune e, anche se mi auguro tempi che non abbiano bisogno di eroi, spero che un giorno ci sia qualcuno capace anche di rischiare la vita gridando Viva L’Europa”, ma, pur se europeista convinto, mi è ancora molto difficile immaginarlo davvero e allora, attendendo, Viva l’Italia. Sempre.

·         Quando Calamandrei voleva collegare politica e magistratura.

Quando Calamandrei voleva collegare politica e magistratura. Un saggio di Giovanni Guzzetta, “La Repubblica transitoria, analizza la maledizione istituzionale italiana. Alla ricerca di una soluzione, scrive Maurizio Tortorella il 12 febbraio 2019 su Panorama. Prima è stata colpa delle antiche divisioni ideologiche, esaltate dalla Guerra fredda: comunisti contro democristiani. Poi è venuto il crollo della Prima Repubblica, con il referendum sul sistema elettorale, ma anche i nuovi equilibri instabili hanno impedito la creazione di un sistema istituzionale ben assestato. Oggi lo scenario politico, nella sua totale approssimazione e volatilità, rende ancor più improbabile la definizione di un quadro istituzionale veramente saldo. Stanno purtroppo nella nostra storia contemporanea la maledizione e l’anomalia italiana di cui scrive Giovanni Guzzetta nel suo ultimo saggio, La Repubblica transitoria (Rubettino editore, 80 pagine, 15 euro). Avvocato, docente di diritto costituzionale all’Università di Roma Tor Vergata, autore di decine di saggi, da anni Guzzetta si batte per la grande riforma e per un nuovo assetto presidenziale. Lo sta facendo anche da qualche mese, con l’ipotesi di un referendum e di un’assemblea costituzionale per la riforma dello Stato. La Repubblica incompiuta, nella descrizione di Guzzetta, è un disastro collettivo. Dove impera una costituzione parallela, una mala pianta che è germogliata e ormai si è avvinghiata alle istituzioni grazie agli spazi lasciati aperti dalla Costituzione formale. È questa la “Repubblica transitoria” del saggio: che in questo momento, più che mai, rischia di trascinare il Paese in avventure poco rassicuranti. Perché le troppe regole non stabilizzate lasciano varchi pericolosi: quei varchi che per esempio hanno portato allo stravolgimento dell’equilibrio tra poteri, con la crescita abnorme di quello giudiziario. In un Paese che da decenni è incredibilmente bloccato sulla spiaggia della separazione delle carriere tra magistrati e giudici, Guzzetta va utilmente a rileggere la discussione che si svolse all’interno dell’assemblea costituente nel 1946, e ritrova i passaggi degli interventi di Piero Calamandrei, che raccomandava allora un “Procuratore generale commissario di giustizia, che avrebbe dovuto rappresentare l’organo di collegamento tra magistratura e governo”: un magistrato che avrebbe dovuto essere scelto tra i procuratori generali delle corti d’appello e della Cassazione, e una volta nominato dal presidente della Repubblica avrebbe preso parte alle sedute del Consiglio dei ministri, rispondendo di fronte alle Camere del buon andamento della magistratura. Calamandrei prevedeva che il Procuratore commissario potesse essere addirittura sfiduciato dalle Camere, sul modello britannico. Una figura impensabile, oggi, ma che forse sarebbe stata in grado di evitare i conflitti disastrosi tra politica e tribunali ai quali mille volte abbiamo assistito e continuiamo ad assistere. Un problema ancora più grave, che Guzzetta tratteggia nell’ultima parte del saggio, è però quello dei partiti politici: la spina dorsale che è venuta a mancare, con la depoliticizzazione sociale che ha determinato la departitizzazione. La società oggi è portatrice di istanze autonome, che quel che resta dei vecchi partiti ormai rincorre senza alcun potere di indirizzo. Ed è qui che nasce la deriva della presunta democrazia diretta, con le pulsioni populistico-grilline per l’abbandono della democrazia rappresentativa e le ricorrenti, inquietanti dichiarazioni di obsolescenza del Parlamento stesso. Giustemente, Guzzetta scrive che “l’esaltazione fondamentalista per la democrazia diretta parte da un errore di analisi: confonde la democrazia della delega, come si è sviluppata in Italia, con una sana democrazia rappresentativa. Da noi, la crisi del parlamentarismo è purtroppo un dato storico. L’impostazione assemblearista dell’Assemblea costituente ha prodotto il paradosso che il Parlamento serva solo a ratificare decisioni imposte, come i decreti-legge, o a legittimare compromessi di sottogoverno”. Con qualche apprensione in chi legge, il saggio balena nel nostro futuro potenziali venature autoritarie. La soluzione di Guzzetta è il presidenzialismo, per il quale si batte da tempo. Per arrivare a una Repubblica adulta, in grado di affrontare con strumenti adeguati le grandi sfide che il futuro (ma in realtà già il presente) ci sta per presentare. Speriamo sia ascoltato.

·         11 gennaio 1948, Mogadiscio: la strage degli Italiani.

11 gennaio 1948, Mogadiscio: la strage degli Italiani. Sotto l'amministrazione britannica dell'ex colonia italiana, i Somali filo-inglesi massacrarono i residenti italiani. I soldati di Sua Maestà favorirono l'eccidio senza intervenire, scrive Edoardo Frittoli il 10 gennaio 2019 su Panorama. 54 morti e 55 feriti: questo fu il bilancio del massacro di Mogadiscio, perpetrato l'11 gennaio 1948 contro la comunità italiana residente nella capitale della Somalia durante l'Amministrazione provvisoria britannica. Le vittime furono tra quei cittadini italiani rimasti nella capitale somala dopo la perdita della colonia dell'Africa Orientale Italiana nel 1941, che tentavano faticosamente di continuare a vivere e lavorare nel luogo in cui anni prima avevano cercato una nuova vita e -se possibile- la fortuna. I rapporti tra gli Italiani e buona parte dei Somali si erano mantenuti buoni anche dopo la caduta della colonia fascista e l'Amministrazione militare inglese. Al contrario, i nuovi governatori della Somalia ex italiana avevano gestito il paese con durezza, senza che il loro pugno di ferro impedisse una forte recrudescenza del caos tribale che caratterizzava da secoli la storia del Corno D'Africa e lasciando che corruzione e violenza riprendessero piede. Fatto ancor più grave fu che nell'immediato dopoguerra l'Autorità militare inglese iniziò a far affluire dalla vicina colonia della Somalia britannica e dal Kenya alcuni gruppi di Somali della Syl (Lega dei Giovani Somali) oltre che Kenioti e Indiani di salda fede alla Corona britannica, accomunati da un violento sentimento anti-italiano (molti di loro avevano combattuto contro il Regio Esercito durante la guerra). Spinti dalla fame di conquista e di saccheggio le schiere dei Giovani Somali preparavano lo scontro con gli Italiani e con i connazionali che li sostenevano, proprio nel periodo in cui le Nazioni Unite discutevano sull'opportunità di affidare all'Italia l'Amministrazione fiduciaria della sua ex colonia.

La manifestazione a favore dell'Amministrazione fiduciaria italiana e la strage. Per l'11 gennaio 1948 fu indetta una manifestazione a favore dell'opzione Italiana, sostenuta da buona parte della popolazione somala di Mogadiscio. I Giovani Somali filobritannici e i loro alleati ne approfittarono per indire la propria contromanifestazione al fine di concretizzare l'attacco agli avversari. In questa situazione di per sè già esplosiva, si inserì il comportamento opportunisticamente inadeguato della forza pubblica inglese capitanata dal Tenente Colonnello Thorne, il quale vide l'opportunità di colpire indirettamente i mal sopportati Italiani, già ex-nemici e ora definitivamente sconfitti agli occhi del mondo. Quella domenica mattina infatti, le autorità britanniche vietarono improvvisamente, dopo averla autorizzata, la manifestazione dei filoitaliani mantenendo il permesso per quella degli avversari della Syl. Poco dopo il nuovo ordine, le orde dei Somali filobritannici iniziarono una violentissima caccia agli Italiani rimasti al palo dopo la revoca dell'autorizzazione. Di fronte alle violenze e ai primi morti, le forze di sicurezza britanniche composte da King's African Rifles (i fucilieri africani scelti del Re) lasciarono che il massacro si compisse, senza reagire. Gli scontri si protrassero per due lunghissime ore (dalle 11 alle 13), rendendo il bilancio finale delle vittime ancora più grave. A fianco degli Italiani caddero anche 14 somali che si erano mossi in loro difesa tra cui una donna, Hawo Tako, che sarà celebrata in seguito come eroina nazionale. I feriti tra i sostenitori degli Italiani saranno una quarantina. Mentre i Somali filobritannici attaccavano all'arma bianca i loro bersagli e provvedevano a bordo di autocarri al saccheggio, circa 800 italiani trovarono fortunosamente rifugio all'interno della grande cattedrale di Mogadiscio rimanendovi asserragliati per ore, in attesa che le autorità inglesi disperdessero l'orda della morte. Alla loro liberazione gli Italiani furono prelevati dalle forze dell'ordine britanniche e custoditi in uno squallido centro di raccolta, detenzione che le vittime delle violenze furono costrette addirittura a pagare a titolo di compenso.

L'amministrazione fiduciaria all'Italia, la commissione d'inchiesta. Le vittime della strage dell'11 gennaio verranno sepolte nel cimitero di Mogadiscio dove rimasero fino alla traslazione in Italia nel 1968. Pochi mesi dopo i fatti, l'ONU assegnava all'Italia l'Amministrazione fiduciaria (AFIS), che durerà un decennio fino alla definitiva indipendenza del 1960. Esattamente ciò che i militari inglesi avrebbero voluto impedire con il comportamento tenuto durante lo svolgimento dei tragici fatti. Come prevedibile, il Governo italiano allora presieduto da Alcide De Gasperi chiese a Londra di individuare le responsabilità della strage, incalzato dalle numerose interrogazioni come quella di Umberto Terracini. Come altrettanto prevedibile, la Commissione di inchiesta britannica (Commissione Flaxman) mantenne il silenzio sulle responsabilità dei compatrioti nonostante le drammatiche deposizioni dei testimoni del massacro. Il Ministro degli Esteri Carlo Sforza fu costretto ad assecondare il silenzio della stampa e della diplomazia internazionale in nome del recupero delle relazioni con Londra agli albori della Guerra Fredda. Soltanto nel 2000 i documenti della commissione Flaxman saranno declassificati. Dalle pagine del rapporto è stato possibile ricostruire tardivamente le responsabilità dell'amministrazione britannica attraverso le deposizioni dei tanti testimoni, che indicarono addirittura una partecipazione attiva dei King's African Rifles e di alcuni bianchi Rhodesiani e Neozelandesi all'assalto contro gli Italiani di Mogadiscio, oltre ad alcune prove della premeditazione dell'eccidio. Una delle più evidenti è stata individuata nella facilità di fuga degli automezzi carichi di oggetti trafugati dalle case degli Italiani nonostante la presenza di numerosi posti di blocco inglesi lungo le strade dirette a nord verso la Somalia britannica e a sud verso il Kenya.

Ecco il “tesoretto” dimenticato dell’Italia nelle ex colonie Somalia, Libia, Eritrea ed Etiopia. Antonio Pannullo martedì 18 giugno 2019 su Secolo d'Italia. Sulla rivista online L’Italia coloniale, diretta da Alberto Alpozzi, compare una interessante indagine sui beni appartenenti all’Italia in terra d’Africa, e in particolare nelle nostre ex colonie. L’elenco di questi beni è pubblicato sul sito del nostro ministero degli Esteri e scorrendolo si apprende che è proprio in Somalia, la più lontana e dimenticata, e anche martoriata, colonia, che l’Italia vanta le maggiori proprietà. In questo Paese, devastato da decenni di guerra civile e dal terrorismo islamico, diventata ormai una terra senza legge e probabilmente senza possibilità di redenzione, lo Stato italiano, racconta ancora l’Italia coloniale, possiede ancora 16 immobili, tra scuole, terreni e cimiteri. Nella capitale Mogadiscio, in via Gibuti, c’è la struttura che comprendeva il Consolato generale italiano e le scuole italiane, mentre in via Alto Giuba c’è la celebre Villa Italia, oggi Villa Galletti, dove c’era l’ambasciata italiana e le sue pertinenze; nelle strade vicino la capitale abbiamo altri edifici con annesso terreno, tra cui la ex residenza del console generale italiano (in piazza Zavagli), mentre in corso Italia c’è un complesso dove durante il Ventennio c’erano le scuole italiane di ogni ordine e grado, dalle elementari al liceo. Infine, in via Franchetti, sempre a Mogadiscio, c’è il cimitero italiano con il relativo ossario. Fuori Mogadiscio, l’Italia possiede un edificio con terreno ad Afgoi, un edificio e un cimitero a Chisimaio, un edificio a Gesira, un terreno a Holmessale e il cimitero a Merca. Molte di queste località sono apparse agli onori delle cronache durante la guerra civile per le battaglie che vi sono sostenute. Per quanto riguarda le altre colonie italiane, dall’elenco della Farnesina risultano tre proprietà in Libia, due in Eritrea e altrettante in Etiopia. A Tripoli, la capitale (almeno per ora) possediamo il complesso dell’ambasciata, assaltata negli anni scorsi e più volte a rischio di chiusura begli ultimi mesi, e la residenza del capo missione, mentre a Bengasi abbiamo l’edificio del Consolato generale italiano. All’Asmara abbiamo due edifici celebri: Villa Roma, nella ex via Bianchi, che era la residenza del capomissione, mentre in via da Bormida c’era la ex Casa degli Italiani, attiva fino a pochi anni fa. Anche nella capitale etiope, Addis Abeba, lo Stato italiano ha due proprietà: Villa Italia, dove ha sede l’ambasciata, e il complesso immobiliare dove ha sede l’Istituto italiano di Cultura. Ovviamente sono molte le nazioni ove l’Italia possiede edifici, soprattutto la sede delle ambasciate, ma in nessun altro Paese l’Italia ha più immobili di quanti ne ha in Somalia, se si eccettua il caso della vicina Francia, dove l’Italia ha ben 14 proprietà, tra cui la Rappresentanza permanente, il consolato e le scuole italiane, ma va considerato che alcune strutture riguardano anche i rapporti con la Ue a Strasburgo.

·         C'era una volta uno Stato.

Ilva e Banche, c'era una volta uno Stato. Avevamo acciaierie, fabbriche di auto, centrali a gas, banche. Oggi siamo un deserto economico. Mario Giordano il 22 novembre 2019 su Panorama. C’era una volta lo Stato. E lo Stato aveva una fabbrica. Era una grande fabbrica, a Taranto, che produceva acciaio e purtroppo inquinava. Le persone morivano e nessuno se ne curava. Soprattutto non se ne curava lo Stato. Un giorno la fabbrica venne venduta (qualcuno disse svenduta) a una famiglia privata. Neanche loro si preoccuparono di risanare la fabbrica e così la gente continuava a morire. Lo Stato allora intervenne, attraverso i magistrati, che dissero: «Ehi tu, famiglia privata, perché non hai risistemato la fabbrica?». Quello rispose: «Nemmeno tu, caro Stato, l’avevi risistemata». Avevano ragione tutti e due. Cioè avevano torto tutti e due. Lo Stato, però, decise di riprendersi la fabbrica portandola via alla famiglia privata cui l’aveva venduta. Ufficialmente la commissariò. Qualcuno disse che la scippò. C’era una volta lo Stato che aveva una fabbrica. Era la stessa di prima, a Taranto, e continuava a inquinare. «Ora che lo Stato se l’è ripresa, vedrai che la sistemerà», penseranno i miei lettori. Invece no. O, almeno, solo un po’. La fabbrica rimase lì altri sei anni e la gente non smetteva di morire. Lo Stato allora cercò di rifilarla a qualcuno. Passava di lì un principe indiano, mezzosangue francese, e disse: «Se volete me ne occupo io». «Prendila». «Sì, ma voglio una garanzia». «Quale?». «Questa fabbrica continuerà a inquinare, mentre io la sistemo». «E allora?». «Non voglio che lo Stato mi condanni mentre completo il piano di sistemazione concordato con lo Stato». Qualcuno disse che era ragionevole, qualcuno disse che non lo era. Qualcuno disse che era inutile. Comunque lo chiamarono scudo penale. Prima lo Stato disse sì, poi disse no, poi disse nì, poi lo modificò, poi lo tolse del tutto. E allora il principe indiano s’arrabbiò: «Se è così vi restituisco la fabbrica e me ne vado». Qualcuno disse che era solo un pretesto. Ventimila persone videro il loro posto di lavoro precipitare dentro un buco nero. C’era una volta lo Stato che finanziava una fabbrica. Era un’altra fabbrica importante che aveva la sede principale a Torino e produceva automobili. È stato calcolato che nel decennio tra il 1990 e il 2000 questa fabbrica ricevette dallo Stato 10 mila miliardi di lire, cioè 5 miliardi di euro, sotto forma di aiuti vari. Poi questa fabbrica decise di trasferirsi fuori dall’Italia: un po’ Londra, un po’ in Olanda, un po’ negli Stati Uniti, alla fine qui da noi restarono soltanto gli avanzi della produzione e un po’ di dimenticati operai. La fabbrica di automobili (che era stata italiana) decise di fondersi con un’altra fabbrica di automobili (che era rimasta francese, e aveva pure lo Stato francese nel suo azionariato). E tutti dissero: è un’operazione straordinaria, la Borsa brindò, i mercati fecero festa. Gli operai delle fabbriche rimaste ancora in Italia si guardarono in faccia l’un l’altro un po’ stupiti. «È vero che ora comandano i francesi?». «Sì». «Ed è vero che prima o poi ci chiederanno sacrifici?». «Può essere». «E se comandano i francesi, secondo te, i sacrifici dove li faranno? A Metz o a Pomigliano?». Tutti parlarono di nuovi tagli in arrivo. C’era una volta lo Stato che aveva le banche. E tutti cominciarono a scandalizzarsi: «Lo Stato non deve gestire le banche». Così la banca chiamata Credit venne venduta. Finì nelle mani di un altro sovrano (fondo sovrano, per lo più) e di un signore francese che voleva sempre molto internazionalizzare, con l’occhio rivolto più a Parigi che a Milano. La banca aveva delle azioni di un altro istituto italiano molto importante, dove una volta passava tutta la finanza del Paese, e di un’assicurazione che sembrava un leone (di Trieste ovviamente). Due istituzioni. Due nomi importanti. Due realtà che da sempre avevano fatto l’orgoglio del nostro Paese. E che d’improvviso si trovarono in balia degli eventi. Pronti a finire chissà dove. C’era una volta lo Stato che proteggeva le banche popolari. Poi arrivò Renzi e le banche popolari finirono ai fondi stranieri. C’era una volta lo Stato che possedeva le reti telefoniche. Poi arrivò la privatizzazione e le reti telefoniche finirono a società straniere. πC’era una volta lo Stato che gestiva i porti, poi è arrivata la globalizzazione e i porti finirono ai cinesi. Persino la Borsa italiana passò alla London Stock Exchange Group che è controllata dal Qatar. E cinque delle principali centrali a gas finirono alla Eph, una società della Repubblica Ceca. Così, da quel momento, una parte importante dei rubinetti energetici italiani venne aperta e chiusa da un signore di Praga. Vi sentite tranquilli? C’era una volta un Paese che si diceva industrializzato. Ora sta diventando un deserto economico. E lo Stato? C’era una volta lo Stato.

·         Lo Stato che non rispetta i patti (senza sensi di colpa).

Lo Stato che non rispetta i patti (senza sensi di colpa). Le leggi retroattive non sono solo ingiuste, ma anche immorali e irrazionali. Francesco Alberoni, Domenica 08/09/2019, su Il Giornale. La mia collega Cristina Cattaneo, che si occupa di psicoterapia, mi dice che molte nevrosi, sofferenze e sensi di colpa sono dovuti a un errore logico e temporale. Prendiamo il caso di una madre che non si è trasferita a casa del figlio per curare il nipotino perché era convinta che la suocera non dovesse vivere con la famiglia del figlio. Ma poco dopo il figlio muore e lei si tormenta per non essere andata da lui. Non poteva sapere che il figlio sarebbe morto, si rimprovera qualcosa di cui non può essere colpevole, retrodata un sapere che non conosceva, si dà una colpa che non poteva avere. Un altro caso è quello della madre che si tormenta tutta la vita perché un giorno ha prestato la sua macchina al figlio e lui è morto in un incidente. La morale razionale che rispetta la sequenza temporale è il fondamento del nostro rifiuto emozionale per tutto ciò che è retroattivo. Il nostro pensiero sano normale, la nostra morale universale, ci impone di rimproverarci solo quello che abbiamo fatto in base alle conoscenze che avevamo allora, non ciò che avremmo conosciuto nel futuro. Non è perciò solo in base a una astratta norma giuridica che le leggi retroattive stridono con la coscienza morale, ma perché sono assurde e ingiuste. E quando incominciano a essere usate dal governo di un Paese, vuole dire che questo si accorge che nel passato ha sbagliato ma non se ne assume la responsabilità e cerca di correggere l'errore «modificando il passato», in realtà colpevolizzando gli innocenti. Una classe politica che viola questi principi producendo leggi retroattive non mantiene gli impegni che ha preso e così rende la gente incerta, paurosa. Essa viola la legge che sempre i romani ci hanno ricordato: pacta sunt servanda. È quanto sta succedendo in modo sempre più frequente in Italia. Recentemente una sentenza della Corte di giustizia dell'Ue ha richiesto l'Iva alle scuole guida e l'Agenzia delle entrate italiana ha approfittato per imporre l'Iva retroattivamente a chi ha fatto la patente nel passato, quando questa norma non esisteva. Ha cosi colpito le famiglie e i ragazzi disoccupati e più poveri. È un brutto segno di immoralità, cecità e sopruso.

Autoscuole, rischio pagamento (anche arretrato) dell'Iva, ma non mancano i dubbi. Una circolare dell'Agenzia delle Entrate derivata dalla Corte Europea parla del versamento Iva anche per gli arretrati di 5 anni. Ma non è detto che si debba pagare. Luciano Quarta il 13 settembre 2019 su Panorama. La categoria delle autoscuole (o scuola guida) si ritrova invischiata in quello che rischia di essere un brutto pasticcio fiscale legato a tasse nuove ed arretrate da pagare: fino ad oggi, anche sulla base di reiterate circolari dell’Agenzia delle Entrate, infatti, era pacifico che le attività di formazione delle autoscuole non fosse soggetta ad IVA. E questo per molti anni. Sennonché, la Corte di Giustizia UE, con la sentenza 14.3.2019 in causa C-449/17 ha affermato che la formazione per il rilascio di patenti B e C1 non rientra nella formazione scolastica e universitaria, esente da IVA. L’Agenzia delle Entrate italiana, quindi, con la risoluzione n. 79 del 2 settembre 2019, ha ritenuto direttamente applicabile in Italia il principio stabilito dalla Corte. Di conseguenza ritiene che gli operatori di questo settore dovranno versare l’Iva non solo per il futuro, ma anche su tutto quanto hanno fatturato dal 2014 ad oggi. Tutto questo, rischia di danneggiare un settore che conta migliaia di operatori e mette a rischio preziosi posti di lavoro: secondo una valutazione approssimativa di ANTARES, una delle principali associazioni di categoria, la somma che il fisco si accinge a recuperare si avvicina a circa un miliardo di euro. Il punto però è che non è affatto detto che le cose stiano come sostiene il fisco italiano perché le statuizioni della sentenza della Corte europea potrebbero non essere applicabili sic et simpliciter al caso italiano. Ma procediamo con ordine.

Tanto la direttiva 2006/112/CE sull’IVA quanto il DPR 633/72 prevedono che le prestazioni di formazione scolastica ed universitaria non sono soggette ad IVA. Inoltre entrambe le normative prevedono che non sono soggette ad IVA le prestazioni relative a “formazione o la riqualificazione professionale” erogate da “organismi riconosciuti dallo Stato membro interessato come aventi finalità simili” (art. 132 Par. 1 lett. i) ripreso in modo quasi identico dall’art. 10 comma 1 n. 20 DPR 633/72). In base a queste definizioni il fisco italiano ha costantemente ritenuto che le attività delle autoscuole, anche sul rilascio delle patenti B e C1 fossero esenti da IVA, e lo ha scritto e ripetuto in risoluzioni che si sono susseguite nel tempo: la n. 83/E-III-7-65258 del 1998 e n. 134/E del 2005. Queste indicazioni, univoche e reiterate, avallate dal fisco per molti anni senza segni di ripensamento, determinano quello che in gergo si definisce un legittimo affidamento da parte del contribuente. Vedremo oltre che tipo di conseguenze questo comporta. Un paio di ultimi tasselli: in Italia l’attività delle autoscuole è soggetta ad autorizzazioni e a penetranti, rigorosi controlli delle province e degli uffici della Motorizzazione. Una cosa che non necessariamente accade e comunque, non con le medesime modalità, in altri paesi dell’UE. Inoltre l’art. 123 del Codice definisce testualmente le autoscuole “scuole per l'educazione stradale, l'istruzione e la formazione dei conducenti” attribuendo loro un esplicito connotato scolastico – educativo. A questo si aggiunge un elemento di estrema rilevanza: ai sensi dell’art. 230 del Codice della Strada, l’educazione stradale, che comprende molte nozioni e materie incluse nella formazione necessaria per il conseguimento delle patenti di guida B e C1, è materia di insegnamento scolastico per espressa previsione di legge. Ora, la Corte di Giustizia, si è occupata della questione nell’ambito di una controversia che non investiva lo Stato italiano (e quindi le norme fiscali e quelle di settore italiane) ma l’Amministrazione finanziaria tedesca. La Corte, quindi, ha esaminato la questione tenendo conto delle specificità del mercato e del sistema normativo tedesco. Un sistema in cui l’attività delle scuole guida non ha gli stessi connotati pubblicistici previsti in Italia, dove all’educazione stradale si attribuisce la dignità di formazione scolastica. La sentenza, quindi, si è limitata a considerare il perimetro delle attività di formazione sulle patenti B e C1 così come astrattamente indicati nella direttiva.

Tuttavia non ha considerato questioni inerenti lo status riconosciuto alle scuole guida nei vari paesi europei; né che in certa misura le materie insegnate nei corsi di scuola guida possano rientrare nei programmi scolastici pubblici e che nell’ordinamento di alcuni stati membri (com’è per l’Italia) alle autoscuole si conferisce una funzione e un connotato scolastico - educativo. E neppure ha esaminato l’intera questione sotto il profilo della formazione e riqualificazione professionale. Quando a sua volta l’Agenzia delle Entrate, a seguito l’interpello di un contribuente, è stata chiamata a chiarire quali effetti concreti sortisse la decisione della Corte europea, rispetto alla situazione di consolidata esenzione in Italia, si è limitata a riscontrare che quando un principio viene affermato dalla Corte è efficace nei confronti di tutti gli stati membri e quindi anche dell’Italia. Da qui fa discendere la presunta necessità del recupero dell’IVA mai addebitata fino ad oggi, andando a ritroso fino all’anno 2014, anno per il quale entro il 31 dicembre 2019 può essere emesso un avviso di accertamento da parte del fisco.

Quali sono i punti critici di questa posizione?

Il primo è che, come si è detto, le autoscuole sono sottoposte ad autorizzazioni e controlli pubblici, il che permette di qualificarle come “organismi riconosciuti dallo Stato membro” per la formazione professionale. Dunque, tutte le attività di formazione delle autoscuole italiane, se sono funzionali alla formazione e alla riqualificazione professionale ricadono nella casistica di esenzione prevista dall’art. 132 par. 1 lett. i) e della direttiva, e dall’art. 10 co. 1 n. 20 DPR 633/72. E non c’è dubbio che le autoscuole in Italia siano operatori per legge riconosciuti come formatori per la professione. Per di più, proprio la patente C1 in Italia può essere (e normalmente viene) rilasciata per esigenze di natura squisitamente professionale, poiché abilita alla guida di mezzi pesanti che possono essere legittimamente impiegati per il trasporto di merci in proprio. In altre parole, la patente C1 la prende chi, ad esempio, lavorando per un’impresa edile è impiegato a guidare i camion per il trasporto di materiali o attrezzature. E questo è puntualmente previsto sia a livello comunitario, nell’ambito della direttiva 2006/126/CE, che nella normativa italiana di recepimento (il D.Lgs. 59/2011). La formazione per questo tipo di patenti, dunque, ha un connotato di formazione per fini professionali ed è erogata da soggetti (le autoscuole) che sono legalmente riconosciute dallo stato membro (in questo caso l’Italia).

Secondo punto di caduta: in Italia l’educazione stradale è materia di insegnamento scolastico, per espressa previsione di legge e, come abbiamo visto, le autoscuole vengono definite dalla legge come “scuole per l'educazione stradale”. Senza contare il fatto che le nozioni di educazione stradale ricadono all’interno dei programmi di formazione per il conseguimento delle patenti B e C1, perché riguardano la conoscenza delle regole di circolazione e sicurezza stradale che sono alla base del programma di apprendimento di qualunque patente. Tutto questo, perciò, avrebbe richiesto almeno un approfondimento specifico, per comprendere se, per come è disciplinato in Italia lo svolgimento delle attività di autoscuola e comunque rispetto alla valenza scolastica attribuita dal legislatore italiano all’educazione e alla sicurezza stradale, attribuisca al rilascio delle patenti B e C1 in Italia un carattere diverso ed aggiuntivo rispetto a quello che in altri paesi (come la Germania) può essere riconosciuto.

Non è finita. Cosa succede con il legittimo affidamento? È la stessa Agenzia delle Entrate che riconosce che a seguito delle sue reiterate risoluzioni tale affidamento si sia ingenerato, tanto che essa stessa, sulla base dell’art. 10 dello Statuto del contribuente (L. 212/2000), esclude che possano essere addebitati sanzioni o interessi. Tuttavia il problema va posto anche rispetto al recupero del tributo. Infatti, è vero che lo Statuto tratta solo di sanzioni ed interessi, ma è altrettanto vero che quello del legittimo affidamento è un principio generale, che assume rilievo ogni qualvolta vi siano dei vantaggi economici che la pubblica Amministrazione erroneamente attribuisce o riconosce al cittadino il quale ne fruisce del tutto incolpevolmente, sulla base di atti e condotte della p.A. Dottrina e giurisprudenza hanno discusso a lungo sul tema e l’opinione prevalente è nel senso che tale principio opera anche con riferimento al recupero dei tributi, al di là del fatto che la norma dello Statuto del contribuente menzioni esplicitamente solo interessi moratori e sanzioni. Ebbene, posto che l’IVA è un c.d. tributo armonizzato (cioè, soggetto a disciplina europea), è bene chiarire che proprio la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE afferma con forza persino maggiore rispetto alla giurisprudenza italiana la rilevanza di questo principio. Ad esempio, il legittimo affidamento è stato identificato come una situazione di vantaggio assicurata ad un privato da uno specifico e concreto atto o comportamento dell’autorità amministrativa, che non può essere in seguito rimossa, salvo che ciò non sia strettamente necessario per la tutela dell’interesse pubblico e fermo restando, in ogni caso, l’indennizzo della posizione acquisita (Corte giust., 3 maggio 1978, C 112/77, Topfer/Commissione). Indirizzo confermato da numerose successive pronunzie (Corte giust., 19 maggio 1983, C 289/81; 19 settembre 2000, C 177/99, 181/99, Ampafrance and Sanofi; 18 gennaio 2001, C 83/99, Commission/Spain e altre ancora). Insomma, non è affatto scontato che il fisco italiano abbia titolo a recuperare tutto quello che per un periodo ampio e prolungato, ha dato specifiche indicazioni ai contribuenti di non pagare. Anche qui, dunque, la risoluzione 79 del 2.9.2019 appare deficitaria in termini di adeguato approfondimento giuridico. Il quadro, dunque, è estremamente complesso.

La questione, dunque, richiederebbe un intervento legislativo che quanto meno ponga rimedio al pregresso. D’altro canto questo è esattamente quello che è stato fatto in passato in occasione di altra vicenda, molto simile sotto molti punti di vista: quella delle prestazioni mediche non curative (come lo sono certi interventi di chirurgia estetica) che la Corte europea con le sentenze 20/11/03, in cause C-307/01 e C-212/01 ha ritenuto soggette ad IVA. In quel caso il legislatore nazionale è prontamente intervenuto con una norma di legge mediante la quale “sanava” il pregresso, stabilendo che l’assoggettamento ad IVA avrebbe avuto decorrenza dall’anno successivo. Certo, le autoscuole non possono vantare le stesse influenze della lobby dei medici. Ma nel caso, anche un intervento di questo tipo lascerebbe comunque fuori la questione di fondo: quanto della sentenza europea può essere effettivamente trasposto nell’ordinamento italiano?

·         La Società signorile? Comunisti e non Capitalisti.

Dario Di Vico per il “Corriere della sera” il 22 ottobre 2019. Come si concilia la fine della crescita economica con l' affermarsi di un consumo opulento di massa? Come possono stare insieme due fenomenologie apparentemente opposte come quella dei Neet e dei ristoranti pieni? Alle domande che in diverse occasioni ci siamo posti un po' tutti arriva oggi una risposta secca del sociologo torinese Luca Ricolfi: «L' Italia è un tipo unico di configurazione sociale. È una "società signorile di massa", il prodotto dell' innesto di elementi feudali nel corpo principale che pure resta capitalistico». La vis polemica di Ricolfi è conosciuta e apprezzata da tempo ma nel suo ultimo lavoro, La società signorile di massa (La nave di Teseo) il sociologo torinese si è dato un obiettivo più ambizioso: una rilettura delle basi sia antropologiche sia materiali di una società dove il numero di cittadini che non lavorano ha superato ampiamente il numero di quelli che lavorano, l'accesso ai consumi opulenti ha raggiunto una larga parte della popolazione e la produttività è ferma da 20 anni. Nella definizione che fa da titolo all' intero lavoro Ricolfi riconosce un debito culturale nei confronti del suo antico maestro Claudio Napoleoni. Ad alimentare i consumi sono per prime le rendite, la fonte su cui da sempre nobili, proprietari e classe agiata hanno poggiato le loro vite. Siamo diventati signori senza essere stati capitalisti. È tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila che la ricostruzione di Ricolfi colloca i passaggi-chiave verso una società opulenta, che poi descrive così: «Non l'auto ma la seconda auto con gli optional. Non la casa, ma la seconda casa al mare o in montagna. Non la bici ma le costose attrezzature da sub o da sci. Non le solite vacanze d'agosto dai parenti ma weekend lunghi e ripetuti. E ancora: i corsi di judo, l'apericena, i mega schermi piatti. Un consumo che eccede i bisogni essenziali, supera il triplo del livello di sussistenza». Come testimoniano anche i 107 miliardi di spesa per il gioco d' azzardo, il 65% di vacanze lunghe, un' auto e mezza per famiglia, le ripetizioni a manetta per i figli, il 36% iscritto a palestre e centri fitness e la cifra-monstre di 8 milioni di consumatori di sostanze illegali. Questa società signorile, che consuma più di quanto produca, a Ricolfi appare indubitabilmente malata e si regge su tre pilastri. La ricchezza reale e finanziaria accumulata dai nonni, la distruzione della scuola e, infine, la formazione di un'infrastruttura schiavistica, un esercito di paria al servizio dei Signori. Nel 1951 la ricchezza media della famiglia italiana era di circa 100 mila euro, negli anni '90 era salita a 350 mila - grazie al debito pubblico e alle bolle speculative immobiliari - e oggi viaggia su quota 400. «La ricchezza è cresciuta più del reddito» annota Ricolfi. Che riserva parole durissime allo stato di (cattiva) salute della scuola. È stata l'istruzione senza qualità a generare il fenomeno della disoccupazione volontaria che il sociologo riassume simbolicamente nella storia di un pizzaiolo piemontese tra i migliori d' Italia che in otto mesi non è riuscito a coprire un posto da cameriere nel suo locale. «I titoli di studio rilasciati dalla scuola e dall'università sono eccessivi rispetto alle capacità effettivamente trasmesse - rincara Ricolfi - La scolarizzazione di massa ha moltiplicato il numero di aspiranti a posizioni sociali medio-alte ma il numero di tali posizioni resta invariato». I giovani però possono permettersi di rifiutare offerte di lavoro che giudicano inadeguate perché nonni e padri hanno accumulato una quantità di ricchezza senza precedenti. Infine il lato oscuro della società signorile: la «struttura paraschiavistica», quella parte della popolazione residente, per lo più straniera, collocata in ruoli servili a beneficio dei cittadini italiani. Chi sono i paria di Ricolfi? Lavoratori stagionali spesso africani, prostitute, colf, dipendenti in nero, facchini della logistica, muratori dell'Est. Un esercito di 2,7 milioni di persone che genera surplus e eroga servizi a famiglie e imprese e «senza i quali la comunità dei cittadini italiani non potrebbe consumare come fa». Ma l'Italia dei Troppi Signori e dei Tanti Paraschiavi ha un futuro? La sentenza di Ricolfi non lascia adito a dubbi: «Il nostro stupefacente equilibrio è destinato a rompersi, la stagnazione diverrà declino. La società signorile è un prodotto a termine».

Pier Francesco Borgia per “il Giornale” il 24 ottobre 2019. L'Italia si è fermata. E si crogiola in una condizione che è un unicum nel panorama internazionale. Ma questo suo poltrire senza preoccuparsi del futuro potrebbe esserle fatale. È l' allarme contenuto nell' ultimo libro di Luca Ricolfi, in uscita in questi giorni, dal titolo La società signorile di massa (La nave di Teseo). Il sociologo, che ha acquistato fama anche tra i non addetti ai lavori con il bestseller Perché siamo antipatici (2005) in cui analizzava lo «scollamento» della sinistra rispetto ai problemi del Paese e la supposta superiorità morale che finiva per rendere invisa la sua classe dirigente non sono alle opposizioni ma anche ai non schierati, torna in libreria con una tesi molto forte e provocatoria: l' Italia è un Paese caratterizzato da una società signorile di massa. Ovvero una società non povera. E del tutto differente, tra l'altro, rispetto alla narrazione che quotidianamente uomini politici di tutte le provenienze e giornali continuano a proporre. Non siamo senza lavoro, non siamo assediati da immigrati, non siamo senza benessere. Al contrario. La nostra società si fonda su tre pilastri ben precisi. Il primo riguarda la ricchezza accumulata dal dopoguerra a oggi. Ricchezza che consente alla maggioranza degli italiani (in età lavorativa) di non produrre o lavorare. Il secondo pilastro è l' istruzione o meglio il decadimento progressivo che dagli anni Sessanta a oggi vive la scuola e l' accademia italiana. E il terzo (più recente perché presente dalla metà degli anni Ottanta) è un'«infrastruttura paraschiavistica» della società alimentata dall' arrivo degli immigrati. Questo, spiega Ricolfi, porta la nostra società capitalistica a distaccarsi notevolmente dal modello tradizionale (modello «caldo» secondo la nota definizione di Claude Lévi- Strauss). Viviamo insomma in una società sì capitalistica ma «fredda» che mostra anche una connotazione quasi «medievale» con la ricchezza determinata più dalle rendite che dalla produzione. Ricolfi mette poi insieme la sensibilità di Berlusconi e quella della Fornero. «Ci sarà pure la crisi - sosteneva una decina di anni fa il Cavaliere - ma vedo i ristoranti sempre pieni». Frase citata nel libro di Ricolfi insieme con la definizione della Fornero che definiva i nostri giovani choosy e svogliati. Ed è proprio questo il punto. L'Italia ha il record poco invidiabile (come mostra il grafico) dei Neet, cioè giovani che non studiano e nemmeno cercano lavoro. Giovani che vivono nel peggiore, in famiglie dove le pensioni dei nonni permettono loro di vivere senza tante preoccupazioni. Ricolfi, che conosce bene il sistema accademico (insegna all' Università di Torino) assegna una pesante responsabilità anche alla scuola che dagli anni Sessanta a oggi ha abbassato progressivamente l' asticella, producendo un esercito di laureati ignoranti e frustrati. Il confronto con le altre società è impietoso. Questo però non vuol dire che stiamo messi male. Tutt' altro. La nostra è una società opulenta che in Cinquant' anni ha visto quadruplicare il tenore di vita delle famiglie italiane. L' unico serio problema è appunto che questa società è «fredda» e a somma zero (l' emancipazione sociale di uno porta all' impoverimento dell' altro). Il livello paraschiavistico dei lavori più umili e faticosi, che permettono, alla maggioranza di condurre una vita comoda non potrà sostenere a lungo la nostra economia. Ricolfi è sicuro. Ci vuole un radicale cambiamento. Senza dare ricette avverte: una volta che si sono esaurite le pensioni e le rendite: come faranno i Neet a sopravvivere?

·         Sfaticati e contenti.

Da repubblica.it l'1 ottobre 2019. Gli adolescenti italiani sono fortemente sedentari, hanno uno stile di vita a tavola troppo spesso non corretto. E per loro aumenta il rischio alcol con comportamenti estremi come le abbuffate alcoliche. È quanto emerge dal rapporto dell'Istituto superiore di sanità sui ragazzi fra gli 11 e i 15 anni.

Poco moto e molto schermo. Una percentuale che oscilla tra il 20 e il 30% degli studenti non fa la prima colazione nei giorni di scuola. Solo un terzo dei ragazzi consuma frutta e verdura almeno una volta al giorno e meno del 10 per cento svolge un'ora quotidiana di attività motoria, come raccomandato dall'Organizzazione mondiale della sanità. Mentre uno su quattro supera le 2 ore al giorno davanti a uno schermo tra videogiochi, internet e tv. Ma il dato più allarmante riguarda i quindicenni: nel 2018, il 43% dei ragazzi e il 37% delle ragazze ha sperimentato almeno una volta nell'ultimo anno le abbuffate alcoliche, il cosiddetto "binge drinking". I ragazzi tuttavia hanno un'alta percezione della loro qualità di vita, anche se le loro abitudini non sono poi così corrette. A "rimandare" in salute gli adolescenti italiani è la rilevazione 2018 del Sistema di sorveglianza Hbsc Italia (Health Behaviour in School-aged Children), promosso dal ministero della Salute/Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, coordinato dall'Istituto superiore di sanità insieme alle Università di Torino, Padova e Siena. L'indagine, presentata oggi a Roma, ha coinvolto 58.976 in tutte le regioni. Aumentano i fenomeni estremi come il binge drinking e la preferenza, soprattutto tra le ragazze, per trascorrere tempo online con gli amici piuttosto che incontrarsi 'dal vivo'. Di contro, l'Italia risulta tra i Paesi meno interessati dal bullismo.

Cibo e cattive abitudini. Quanto al peso, il 16,6% dei ragazzi 11-15enni è in sovrappeso e il 3,2% obeso; l'eccesso ponderale diminuisce lievemente con l'età, ed è maggiore nei maschi e al Sud (valori questi tendenzialmente stabili rispetto alla precedente rilevazione, del 2014). Tra i comportamenti alimentari scorretti, il report ha evidenziato l'abitudine frequente a non fare colazione nei giorni di scuola, con prevalenze che vanno dal 20,7% a 11 anni al 26,4% a 13 anni e al 30,6% a 15 anni; una percentuale maggiore  fra le ragazze in tutte le fasce d'età, e in leggero peggioramento negli ultimi anni. Solo un terzo dei ragazzi mangia frutta e verdura almeno una volta al giorno (lontano dalle raccomandazioni), un po' meglio le ragazze. Rispetto al 2014, aumenta il consumo almeno una volta al giorno di verdura, ma diminuisce quello di frutta in tutte le fasce d'età e per entrambi i generi. Pane, pasta e riso sono gli alimenti più consumati in assoluto. Le bibite zuccherate/gassate sono consumate maggiormente dagli undicenni e dai maschi; il trend è però in discesa. Quanto al moto, se l'Oms raccomanda almeno 60 minuti di attività tutti i giorni per i giovani (5-17 anni) tra gioco, sport, trasporti, ricreazione ed educazione fisica, è "in regola" solo il 9,5% dei ragazzi 11-15 anni, e il dato diminuisce con l'età ed è maggiore nei maschi.

Azzardo e dipendenze. La quota dei non fumatori è stabile: 89% nel 2018, rispetto all'88% del 2014. Ma le 15enni italiane fumano più dei coetanei maschi: il 32% delle ragazze rispetto al 25% dei ragazzi ha fumato almeno un giorno nell'ultimo mese. Il 16% dei 15enni e il 12% delle 15enni, inoltre, ha fatto uso di cannabis negli ultimi 30 giorni. E aumentano i fenomeni estremi legati al consumo di alcolici. Più di quattro studenti su dieci hanno avuto qualche esperienza di gioco d'azzardo nella vita, i maschi (62%) il triplo delle coetanee (23%). La quota di studenti a rischio di sviluppare una condotta problematica è pari al 16%, con un +10% rispetto al 2014. Quanto al rapporto con i genitori, più del 70% dei ragazzi (11-15 anni) ci parla molto facilmente; più dell'80% dichiara di avere amici con cui condividere gioie e dolori e più del 70% di poter parlare con loro dei propri problemi. Oltre il 60% dei ragazzi ritiene i compagni gentili e disponibili e il 62,4% dichiara di avere fiducia negli insegnanti. Più complessa la questione dei social media: a farne un uso problematico è l'11,8% delle ragazze e il 7,8% dei ragazzi. E soprattutto le ragazze di 13 anni (19%) si dicono "d'accordo o molto d'accordo" nel preferire le interazioni online per parlare dei propri sentimenti.

Umberto Galimberti: «A 18 anni via da casa, serve il servizio civile». Pubblicato sabato, 14 settembre 2019 su Corriere.it da Stefano Lorenzetto. Il filosofo: la tecnica domina, i giovani consumano e basta. Filosofo. Antropologo. Psicologo. Psicoanalista. Sociologo. Dal professor Umberto Galimberti ti aspetteresti un eloquio iniziatico all’altezza delle materie che ha insegnato, compendiate nelle 1.637 pagine del Nuovo dizionario di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (Feltrinelli), alla cui stesura ha faticato per 15 anni. Invece parla ancora come «il numero 8» — si definisce così — dei 10 figli di Ernesto, ex partigiano, venditore di cioccolato Theobroma improvvisatosi impiegato bancario, che in un paio di locali aprì a Biassono la prima agenzia del Credito artigiano e morì di tumore il giorno dell’inaugurazione. «Da bambino andavo in ufficio ad aiutarlo: mi faceva timbrare gli assegni. Avevo 14 anni quando mancò. Sognavo di diventare medico. Ma due borse di studio mi spalancarono le porte di Filosofia alla Cattolica di Milano. Lì trovai i miei maestri: Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Righi ed Emanuele Severino, con il quale mi laureai. C’erano anche Gianfranco Miglio e Francesco Alberoni. Poi lavorai per tre anni nel manicomio di Novara, dove conobbi il primario Eugenio Borgna. Fui io a obbligarlo a scrivere, prima non lo conosceva nessuno. Li sento ancora, Severino e Borgna. Ci vogliamo molto bene. Non ho mai capito il parricidio».

Fortunato ad avere dei padri così.

«Aggiunga Karl Jaspers, che frequentai a Basilea e che mi avviò alla psicopatologia. E Mario Trevi, con cui feci il percorso psicoanalitico. Oggi l’analisi non è più possibile. L’ultimo che ho accompagnato per cinque anni è stato il regista Luca Ronconi. Ma solo perché lì c’era un uomo. Capace di riflettere, incuriosito dalla sua vita».

Eppure qui nello studio vedo che c’è ancora il lettino dello psicoanalista.

«Non ho mai smesso di ricevere. La gente mi chiede di risolvergli i problemi. Invece la psicoanalisi è conoscenza di sé: sapere chi sei è meglio che vivere a tua insaputa. Quanto al dolore, non lo puoi cancellare con i farmaci».

L’angoscia più frequente qual è?

«Quella provocata dal nichilismo. I ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo. Per loro il futuro da promessa è divenuto minaccia. Bevono tanto, si drogano, vivono di notte anziché di giorno per non assaporare la propria insignificanza sociale. Nessuno li convoca. Non potendo fare nulla, erodono la ricchezza accumulata dai padri e dai nonni».

Stanno male anche i genitori?

«Eccome. Senza che lo sappiano, non sono più autori delle loro azioni. Nell’età della tecnica sono diventati funzionari di apparato. Vengono misurati solo dal grado di efficienza e produttività. Nel 1979, quando cominciai a fare lo psicoanalista, le problematiche erano a sfondo emotivo, sentimentale e sessuale. Ora riguardano il vuoto di senso».

La mia è la prima generazione che consegna ai suoi figli un futuro ben peggiore di quello lasciatoci in eredità dai nostri padri, spesso nullatenenti.

«Fino a 37 anni ho insegnato storia e filosofia nei licei. Guadagnavo 110.000 lire al mese. Un appartamento ne costava 75.000 al metro quadro. In famiglia abbiamo tutti studiato. Le mie cinque sorelle frequentavano l’università e intanto facevano le colf. Oggi mi tocca aiutare la mia unica figlia, che ha tre bambini».

Ai figli dei nostri figli che accadrà?

«Non riesco a vedere il loro futuro. Il domani non è più prevedibile. La tecnica ha assoggettato il mondo. Scambia lo sviluppo per progresso. È regolata da una razionalità rigorosissima, raggiunge il massimo degli obiettivi con il minimo dei mezzi e mette l’uomo fuori dalla storia. Ma l’amore non è razionalità, e neppure il dolore, la fede, il sogno, l’ideazione lo sono».

Il destino dei giovani dovrebbe essere in cima all’agenda del governo?

«Certo. Ma la politica non è più il luogo della decisione. Ha delegato le scelte all’economia, e l’economia alla tecnica. È finita l’idea di bene comune che c’era negli anni Cinquanta. Rimane solo quella della poltrona. Non vi è alcun dubbio che i 5 Stelle stanno al governo solo per non tornare a fare i disoccupati e i leghisti volevano votare per avere la maggioranza assoluta e instaurare il sovranismo al soldo di Vladimir Putin».

Forse spariranno i nipoti: solo il Giappone procrea meno dell’Italia.

«Colpa dell’edonismo sfrenato: i figli lo ostacolano. Siamo il popolo più debole della terra. Per mangiare, apriamo il frigo anziché sudare nei campi. Ci difendiamo dal resto del mondo con il colonialismo economico, che ha sostituito quello territoriale. L’impero romano cadde così, fra postriboli e spettacoli circensi. Non lavorava più nessuno. Dovette importare i barbari per fare le guerre e le opere idrauliche. Un tempo pensavo che le civiltà finissero per cause economiche. Ora invece sono certo che muoiono per decadenza dei costumi».

Mi pare che gli italiani lavorino.

«Ho parlato alla Confartigianato di Vicenza. I padri si lamentavano perché i figli non vogliono saperne di portare avanti le loro aziende. Per forza, quando compiono 18 anni gli regalano la Porsche! Si è mai chiesto perché, su 5 milioni d’immigrati, 500.000 siano imprenditori? Vedo negli africani una potenza biologica che noi abbiamo perso».

Questo tempo di pace è segnato da rivolte di piazza, guerriglie negli stadi, aggressività. Che la guerra fosse un grande evento regolatore?

«Lo è sempre stato. Nell’Ottocento ci furono tre guerre d’indipendenza, nel Novecento due guerre mondiali. Siamo ormai alla terza generazione che non ha conosciuto questo male assoluto. Ma non vi è dubbio che periodi prolungati di pace inducono a una lassitudine nei comportamenti. Le sofferenze psicologiche hanno soppiantato quelle fisiche, come potevano essere la fame e le malattie. Quanta gente c’è in giro che se la mena senza un perché? Spesso sono costretto a dire ai miei pazienti: ma scusi, questi sono problemi, secondo lei?».

Ha un suggerimento per uscirne?

«Un rito iniziatico che interrompa l’adolescenza perenne: a 18 anni servizio civile per 12 mesi, ma a 1.000 chilometri da casa. Bisogna separare i figli da padri e madri. E cacciare dalla scuola i genitori, interessati più alla promozione che alla formazione. Tullio De Mauro nel 1976 calcolò che un ginnasiale conosceva 1.600 vocaboli. Oggi sono 600. Il più volgare, “c...”, viene usato per dire tutto. L’Italia è ultima nella comprensione di un testo, certifica l’Ocse. Ma non puoi avere più pensieri di quante parole possiedi, insegnava Martin Heidegger».

Sono i malesseri del benessere.

«Il denaro è diventato l’unico generatore simbolico di valori. Non sappiamo più che cosa è bello, vero, giusto, santo. Pensiamo solo a che cosa è utile. Ho visto salire una ragazza con un’arpa sul treno Milano-Venezia. Un signore distinto ha cominciato a porle domande. Alla fine l’ha raggelata: “Scusi, signorina, ma qual è il suo business?”».

Per questo costruiamo solo «cristogrill» al posto delle cattedrali?

«Padre David Maria Turoldo celebrò le mie nozze. Sosteneva che le chiese oggi sono ridotte a garage in cui è parcheggiato Dio. Ma la gente per credere ha bisogno della liturgia, del canto, dell’organo, dell’incenso. L’ho detto anche a papa Francesco. E ho aggiunto: Santità, lei ha messo le persone davanti ai princìpi, però ha un polmone solo, lavora come un pazzo, è pieno di nemici; stia attento a non morire, altrimenti dopo ne eleggono uno che rimette i princìpi davanti alle persone. Lui ha riso e mi ha abbracciato, sussurrando: “Si ricordi che Dio salva le persone, non i princìpi”».

Il cardinale Gianfranco Ravasi, suo compagno di liceo, l’ha convertita?

«No, io resto greco. Non mi colloco neppure fra i laici, i quali sono credenti in un’altra maniera. Per me la morte è una cosa seria, mentre i cristiani pensano che dopo vi sia la vita eterna».

Tuttavia sul cristianesimo ha scritto un saggio.

«È diventato la religione del cielo vuoto, ha completamente smarrito il senso del sacro, e questo mi procura tanta rabbia. La dimensione religiosa è essenziale nell’uomo. Perché negare che la fede offra conforto a tante persone?».

Ha sofferto per le accuse di plagio che le hanno mosso in passato?

«Ho copiato solo da me stesso, mai dagli altri. Recensendo un libro sui giornali, talvolta inserivo due righe dell’autore che mi sembravano efficaci, senza virgolettarle, anche perché non le riportavo integralmente. Quando questi articoli sono stati raccolti in un volume, ho messo le virgolette nei soli casi in cui riuscivo a reperire la citazione: un mio errore, che però non mi era mai stato contestato fintantoché la recensione appariva sulla stampa. Montare su questi elementi una campagna denigratoria non mi pare ancora oggi un’operazione innocente, come peraltro documenta una tesi di laurea sul mio caso discussa nel 2018 all’Università dell’Insubria».

In che cosa spera?

«In niente. La speranza è una virtù cristiana».

Stava meglio quando stava peggio?

«No, da giovane rischiavo di saltare i pasti. Ma oggi la tecnica ha come unica finalità il proprio autopotenziamento e viaggia a una velocità tale che la psiche proprio non ce la fa a tenerle dietro. È lenta, la psiche».

Il senso dell’esistere qual è? Se c’è.

«Lo devo cercare nell’etica del limite, in quella che i greci chiamavano la giusta misura».

Nel call center di Milano che non trova operatori a 1200 euro al mese. «Colpa del reddito di cittadinanza e del modello Ferragni». Pubblicato giovedì, 20 giugno 2019 da Antonio Crispino su Il Corriere della Sera. Non è un call center di quelli classici che offrono promozioni telefoniche, si occupa di gestione e recupero crediti societari. Per lavorarci occorre una laurea in materie giuridiche o economiche e capacità relazionali. Nell’open space di Corsico, periferia di Milano dove ha sede la Goodman & Marshall, su venti postazioni ne troviamo occupate solo la metà. L’amministratore delegato, Riccardo Terrana, non riesce a trovare impiegati. Pur offrendo un contratto da novecento euro netti il primo mese e di mille e duecento già al quarto mese con assunzione a tempo indeterminato, ogni volta che fissa i colloqui non si presenta nessuno. Motivo principale: la sede di lavoro è a Corsico, troppo lontana dal centro di Milano. In effetti, la distanza dalla Modonnina è di dieci chilometri e richiede un tempo di percorrenza di circa trenta minuti.  Contattiamo telefonicamente alcuni dei candidati che hanno rinunciato. La prima è di San Donato Milanese, ventuno chilometri dal potenziale posto di lavoro. Ci conferma che ha rifiutato perché non vuole lavorare nella periferia di Milano. Stesso discorso per una sua collega di Vermezzo (stesso tempo di percorrenza) o per Denise che abita in via Crespi, in centro a Milano, e il colloquio di lavoro lo pretendeva via Skype, troppo distante anche per andare a vedere di che si trattava. Poi c’è chi ha preferito un posto come collaboratrice «in uno studio notarile più sotto casa». Altri colleghi, invece, pur non trovando un’occupazione diversa hanno preferito lo stesso rinunciare alla chiamata. «Sono fiducioso di trovare un lavoro migliore» ci dice Gianmarco. Era stato contattato all’inizio di febbraio scorso per iniziare a lavorare ma non si è presentato all’appuntamento. «Probabilmente non hanno bisogno di lavorare o pensano che possano ottenere qualche sostentamento da parte del Governo» dice Terrana cercando una spiegazione. Ci ha contattati dopo la prima puntata dell’inchiesta del Corriere.it sul lavoro povero, quella in cui si parlava del call center Almaviva di Palermo pieno zeppo di laureati con 110 e lode, unica vera opportunità di lavoro per tanti giovani che cercano di evitare l’emigrazione al Nord. «Abbiamo il problema opposto a quello di Palermo e pur offrendo stipendi più alti e mansioni diverse rispetto a un normale call center non riusciamo a trovare lavoratori», lamenta mentre mostra il fac simile del contratto che offre persino la quattordicesima. Dopo un po’ arriva la segretaria, sotto il braccio ha un plico pieno zeppo di curriculum. Sono quelli che hanno fissato un colloquio e poi non si sono presentati (o hanno disdetto). Sono poco meno di cento. La stragrande maggioranza residenti a Milano. Tra coloro che hanno rifiutato l’offerta di lavoro ci sono neolaureati che chiedevano una mansione dirigenziale già al primo incarico, pur non avendo alcuna esperienza lavorativa. «In genere provengono da università prestigiose. Pensano di poter fare subito carriera senza sapere nulla del lavoro. E’ un’aspirazione legittima ma bisogna considerare anche che Milano ha lo stesso numero di avvocati presenti in tutta la Francia - aggiunge Terrana -. Altri si presentano qui con l’idea di lavoro diffusasi con Chiara Ferragni, ossia fare un non lavoro e guadagnare molto. Al di là se possa essere o meno definito un lavoro, non so nemmeno se hanno le sue capacità per farlo».

Mancano i carpentieri. Ma i giovani fanno i "rider". L'ad Bono: "Si accontentano. Da specializzati guadagnerebbero 1.600 euro". Ma è un Paese che non ha testa e ha perso le mani. Vittorio Macioce, Giovedì 11/07/2019 su Il Giornale. Qualcuno ancora ricorda il Rex, il transatlantico dei sogni, quello di Fellini in Amarcord, che scivola come un'apparizione sulle coste dell'Adriatico, come la sagoma di una giovinezza perduta. Era così grande e veloce da fare invidia al mondo. Ora non è che gli italiani non sappiano più progettare le navi. Lo fanno, e forse siamo ancora i migliori, solo che si fatica a trovare saldatori, carpentieri, falegnami, operai specializzati. Il lavoro c'è, ma nessuno lo vuole. È il paradosso di una penisola che non si riconosce più. È una mattina di un'estate troppo calda e Giuseppe Bono, amministratore delegato di Fincantieri, sta parlando a una conferenza della Cisl, uno di quegli incontri dove aziende e sindacati cercano di capire cosa non funziona. Le parole del vecchio manager sono semplici, ma così spiazzanti da ribaltare ogni prospettiva. Dice. «Nei prossimi due o tre anni avremo bisogno di 5-6mila lavoratori ma non so dove andarli a trovare. Abbiamo lavoro per dieci anni e cresciamo a un ritmo del 10% ma sembra che i giovani abbiano perso la voglia di lavorare. Non capisco perché ci si accontenta di fare il rider per 500-600 euro, da noi un lavoratore medio prende 1.600 euro: purtroppo mi sembra che su questo abbiamo cambiato cultura». Questo non è il mondo alla rovescia di Fincantieri. La ricerca di operai è un ritornello che si ripete in tutto il Nord. A Torre de' Roveri, alle porte di Bergamo, c'è un'azienda siderurgica. Il proprietario si chiama Roberto Barbetta e racconta: «Siamo come i sarti che confezionano abiti su misura. Non abbiamo sentito la crisi e le commesse sono cresciute. Vorremmo assumere, ma da un anno non troviamo profili giusti». Lo stesso discorso arriva da un produttore di bottoni bresciano leader nel mercato europeo. La piemontese Valvo Metal non trova operai meccanici. Si può andare avanti per ore. Il caso c'è e sta diventando difficile chiudere gli occhi. Che sta succedendo? Certi lavori fanno paura. Sono i lavori del Novecento, pesanti, fordisti, da posto fisso, sicuri, con i turni di otto ore, gli straordinari pagati, le ferie d'agosto, tanta fatica, poca incertezza. Non sono lavori per tutti, perché certi mestieri devi saperli fare. Il sospetto è che siano fuori da questo tempo. È questa la mutazione culturale di cui parla Bono. Non ci appartengono più. È come se fossero scomparsi dall'orizzonte di una generazione in cerca di lavoro. È più semplice fare il fattorino per Deliveroo. Non è più bello. Ti pagano di meno, ma per paradosso è più affine a questa era precaria e incerta. Il rider è un mestiere improvvisato. Non serve formazione. Nessuno pensa di farlo per tutta la vita. Ti lascia aperte le porte all'imponderabile. Non ti imprigiona. C'è l'illusione di potere gestire il tempo, quella della giornata, quello del futuro. Non è solo una necessità. Qualche volta può essere la scelta, magari sbagliata, di un male minore. È, appunto, una rivoluzione culturale del lavoro. Tutto questo ha però un costo individuale e sociale. L'Italia sembra un animale sospeso in una metamorfosi interrotta. È il risultato di una mutazione genetica ferma a metà. Ha rinnegato il passato senza avere un futuro. Non ha operai e neppure laureati. Non ha la testa e ha perso le mani. È il Sud senza imprese e il Nord senza lavoratori. È un paese di vecchi che si credono giovani e giovani che si sognano vecchi. È amarcord senza memoria. Tutti, generazione dopo generazione, stiamo qui ad aspettare il passaggio del Rex, ma nei cantieri non c'è più nessuno che lavora per costruirlo.

·         Italiani sfiduciati.

Barletta, tra gli spazzini «110 e lode» anche la figlia modella di un consigliere comunale. Tra i primi classificati al concorso, 9 su 13 sono laureati. Potrebbero essere adibiti a mansioni di ufficio. Massimiliano Scagliarini il 10 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La storia di Giuseppe, il laureato con 110 e lode in ingegneria che ha vinto il bando della municipalizzata di Barletta per diventare netturbino, ha fatto il giro d’Italia. Ma ora, spenti i riflettori, il caso diventa politico e nel mirino finisce la Barsa, la società comunale che ha lanciato il concorso per 13 assunzioni a tempo indeterminato: i primi 9 della graduatoria pubblicata la scorsa settimana sono, infatti, dotati di laurea. Mai accaduto in nessun’altra parte d’Italia. Il punto è semplice. In casi di questo tipo, per l’assunzione dei netturbini o di lavoratori con altre qualifiche di base normalmente si ricorre ai centri per l’impiego. Invece la Barsa ha, inaspettatamente, previsto nel bando 9 punti per la laurea. Il risultato è, appunto, aver premiato concorrenti che normalmente non avrebbero partecipato a una selezione pubblica per operatore dell’igiene urbana, o che comunque si sarebbero confrontati senza poter far valere il proprio titolo di studio. A Barletta in questi giorni l’elenco dei vincitori del concorso passa di mano in mano alla ricerca di coincidenze. Una è stata trovata quasi subito, nell’assoluto silenzio della politica locale. Al posto numero 8 figura la dottoressa Teresa Rita Bufo, 23 anni, con laurea triennale in lettere e - a quanto dimostrano i profili social - la partecipazione ad alcuni concorsi di bellezza. La dottoressa Bufo è figlia di Giuseppe Bufo, avvocato, ottima famiglia, e soprattutto consigliere comunale di maggioranza della lista Cannito Sindaco, già assessore socialista ai tempi del sindaco Salerno. Una coincidenza, senza dubbio. Come lo è la voce ricorrente che girava ieri, a margine del Consiglio comunale. Ovvero quella che la procedura per la selezione dei netturbini laureati che ha fatto il giro d’Italia sia il preludio a una «promozione» a ruoli meno faticosi, dietro una scrivania. Anche questa una voce senz’altro fantasiosa e immotivata.

Figli, un genitore su 3 che lascia il lavoro lo fa perché non può seguirli. Indagine della Uecoop su dati dell'Ispettorato del lavoro il 07 dicembre 2019 su La Repubblica. Lavoro e figli, conciliare è difficile. In Italia un genitore su tre (36%) che si licenzia dal posto di lavoro lo fa per incompatibilità fra i propri impegni di lavoro e le esigenze  dei figli. È quanto emerge da un'analisi dell'Unione europea delle cooperative (Uecoop) su dati dell'Ispettorato del lavoro. I nonni non ci sono più o non possono aiutare e i ritmi dei ragazzi uniti a un clima di incertezza sul futuro provocano una situazione difficile da gestire. Così oltre 49mila papà e mamme nel 2018 hanno deciso di dare le dimissioni per l'assenza di parenti di supporto (27%), per i costi di assistenza al neonato fra asilo nido e baby sitter (7%) o per il mancato accoglimento dei figli al nido (2%). Una situazione che sempre più spesso porta il welfare privato a integrare quello pubblico grazie ad accordi aziendali nei quali ai primi 4 posti dei servizi più richiesti ci sono proprio quelli che riguardano la scuola e l'istruzione dei figli (79%), la salute (78%), l'assistenza (78%) e la previdenza (77%) secondo un'analisi di Uecoop su dati Assolombarda. I servizi legati all'infanzia hanno un ruolo strategico soprattutto con genitori che lavorano visto che negli asili nido italiani c'è posto solo per 1 bambino su 4, il 24% di quelli fino a tre anni d'età contro il parametro del 33% fissato dalla UE per poter conciliare vita familiare e professionale. Per rispondere a questa domanda di assistenza - sottolinea Uecoop - sono sempre più diffusi asili aziendali per i figli dei dipendenti oppure iniziative di mini nido con 'tate' che seguono piccoli gruppi di bambini.  Con il mondo cooperativo socio sanitario segue già 7 milioni di famiglie grazie al lavoro di oltre 355mila addetti - conclude Uecoop - la sfida del futuro è quella di potenziare l'assistenza creando un sistema che integri risorse pubbliche e private.

LA CAREZZA: Il caro Censis, gli italiani e la scienza del dottor Kranz. Francesco Merlo per “la Repubblica” il 10 dicembre 2019. Chi non sapeva che in Italia va forte l' uomo forte, capitano, duce, arruffapopolo e mazziere? Eppure, sabato scorso, il Censis, che è l' acronimo latineggiante di un' importantissima istituzione che si chiama Centro Studi Sociali, ce l' ha rivelato ex cathedra: «disamorati e risentiti, gli italiani vogliono essere governati da un uomo forte al di sopra del Parlamento». Dunque scrivevano il vero tutti quei libri di storia che ci mettevano in guardia su Garibaldi e l' archetipo nazionale dell' uomo d' azione come uomo di mano e uomo d' ordine, mai leader ma sempre grande capo come gli squadristi Balbo e Farinacci, e ovviamente D' Annunzio e Mussolini. Ed era scientifica l'ossessione del «qui ci vuole un uomo» non importa se mezzo vero e mezzo finto, se autocelebrativo, declamatorio ed anche un po' ridicolo, come il Craxi decisionista con gli stivaloni, come il celodurista Bossi e Sua Emittenza Berlusconi, e ora il truce Salvini, perché sempre "l' uomo della provvidenza" in Italia è un eroe comico e drammatico: Di Pietro e D' Alema, Renzi e Beppe Grillo "e quando c' era lui, caro lei". Grazie al Censis, possiamo addirittura dar ragione a Giorgio Bracardi che per Renzo Arbore cantava (1974): «Se ce fosse Pippe Baude a comandar. La situazione è grave, non se ne può più / la gente invoca l' uomo forte:/ se ce fosse Pippe Baude a comandar. Peeeeee! Peeeee!». Per farmi perdonare l' ironia da Giuseppe De Rita, che so spiritoso e che del Censis è il dominus dal 1964, passo ora alle sostanze identitarie profonde svelate dal rapporto presentato sabato scorso: gli italiani "sono stressati", "si arrangiano", "si rifugiano nel privato e nel piccolo", "non ne possono più dei politici in tv", "i giovani più preparati fuggono all' estero", e "tutti stanno incollati allo smartphone". Ma va? E magari l' anno prossimo, nel già attesissimo rapporto del 2020, il Censis scoprirà che lo facciamo trillare ad alto volume sui treni e non lo spegniamo neppure in chiesa. Ci viene il dubbio che in 55 anni di raggi X sociologici, il Censis ci abbia detto tutto, proprio tutto quello che... sapevamo. Ma come si riesce a vestire di autorevolissima sapienza il luogo comune? Con la scienza sociale, ovviamente, misterioso e sussurrato contrappunto della banalità. Ecco: solo illuminando l' ozio post industriale con la memoria semantica, il Censis ha potuto certificare l' amore dell' italiano per la mamma. E non si potrebbe accertare la nostra terribile diffidenza vero lo Stato e i suoi titoli, i famosi Bot, se non studiando le variabili qualitative, le variabili quantitative e quelle misurabili (base per altezza) dei gruppi in formazione. Ancora: solo valutando le socialità visuocostruttive e lo sfondo mnesico si può stabilire non solo che ci piace la pizza, ma che la consideriamo un bene rifugio. Non dico che la sociologia scientifica sia come la medicina del dottor Tersilli (Alberto Sordi), quello che faceva il saltello. Ma ho il sospetto che talvolta, somigli alla scienza del dottor Kranz di Paolo Villaggio, quello che gridava: «Chi viene voi adesso?».

Rapporto Censis: gli italiani senza più fiducia mollano anche i Bot. "Un popolo in cerca di nuove strategie per sopravvivere". La crisi, il venir meno dell'ascensore sociale, la mancanza di aspettative nei riguardi della politica e nel Pubblico spingono alla ricerca di "muretti a secco" per difendersi. Mentre il 75% non si fida più del prossimo, persino l'Unione Europa ridiventa una certezza a cui aggrapparsi, con la nuova sensibilità per l'ecologia. Rosaria Amato il 06 Dicembre 2019 su La Repubblica. Impoveriti dalla crisi, privati dell'ascensore sociale che per decenni aveva garantito un futuro migliore a si dimostrava in grado di conquistarlo, le ultime sicurezze portate via da un welfare sempre più traballante, ora gli italiani si ritrovano anche con il rischio di perdere quegli ultimi "stratagemmi individuali" che assicurano la sopravvivenza, dalla casa ai Bot a quello che il Censis definisce con convinzione, da sempre, il "nero" di sopravvivenza. Eppure non è il declino del Paese che questo 53esimo Rapporto, "La società italiana al 2019", vuole raccontare. Piuttosto emerge la faticosa ricerca di soluzioni individuali e collettive, in attesa che ci siano nuove élite in grado di conquistare la fiducia degli italiani, guidandoli fuori dalla trappola della non crescita, del ridimensionamento demografico e della finta crescita dei posti di lavoro. "Fino ad oggi ha vinto il furore di vivere degli italiani che hanno messo in campo stratagemmi individuali per la difesa del futuro", afferma Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis. Stratagemmi che il Rapporto definisce "muretti a secco", barriere modeste ma solide di contenimento della caduta del Paese. Alcuni sono muretti di vecchia data, che da sempre proteggono e fanno crescere il Paese: in testa la dimensione manifatturiera, industriale, che vanta ancora per ampie fasce la capacità di innovare. Ma poi c'è anche la maggiore resilienza di alcune aree del Paese, che non condividono i numeri del declino, e anzi vantano "un tasso di crescita del prodotto interno lordo e dei consumi paragonabili alle migliori Regioni europee": in particolare il nuovo triangolo industriale tra Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, la fascia dorsale lungo l'Adriatico. Ma ci sono anche muretti a secco nuovi: il più importante è la nuova sensibilità ai problemi del clima, che favorisce la partecipazione sociale e avvia, sia pure lentamente, forme di economia innovative come l'economia circolare. Ci sono muretti a secco che ritornano, come l'adesione all'Unione Europea, che adesso ridiventa maggioritaria, con il 62% degli italiani che è convinto che non bisogna uscire dall'Europa . E ci sono muretti a secco che vacillano: l'investimento immobiliare e quello in titoli di Stato e la liquidità, che da sempre ha favorito una "rimessa in circuito" non sempre ortodossa, ma che ha garantito negli anni, osserva il Censis, "una sostanziale tenuta sociale". Dal 2011 la ricchezza immobiliare delle famiglie ha subito una decurtazione del 12,6% in termini reali. E il 61% degli italiani non comprerebbe più i Bot, visti i rendimenti microscopici. Inoltre il lavoro da tempo non è più una certezza, e l'aumento dei posti di lavoro registrato negli ultimi anni si è ampiamente rivelato un bluff: rispetto al 2007, nel 2018 si contano 321.000 occupati in più, in realtà c'è stata una riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e un aumento di 1,2 milioni di occupati a tempo parziale. Nel periodo 2007-2018 il part time è aumentato del 38% e anche nella dinamica tendenziale (primo semestre 2018-2019) è cresciuto di 2 punti. Oggi un lavoratore ogni cinque ha un impiego a metà tempo, e spessissimo si tratta di part-time involontario. "Il lavoro è la preoccupazione numero uno degli italiani. Viene prima di sicurezza e immigrazione", ribadisce Valerii. E gli italiani, pur cercando strategie di sopravvivenza, da un lato non hanno più fiducia in nulla, non nella Pubblica Amministrazione, non nella politica, dall'altro precipitano nell'ansia. Il 74% degli italiani si è sentito molto stressato per questioni familiari, per il lavoro o senza un motivo preciso e addirittura, rileva il Censis, il 55% dichiara che talvolta "parla da solo" (in auto, in casa). Del resto, nel giro di tre anni (2015-2018) il consumo di ansiolitici e sedativi (misurato in dosi giornaliere per 1.000 abitanti) è aumentato del 23% e gli utilizzatori sono ormai 4,4 milioni (800.000 di più di tre anni fa). Il 75% degli italiani non si fida più degli altri, il 49% ha subito nel corso dell’anno una prepotenza in un luogo pubblico (insulti, spintoni), il 44% si sente insicuro nelle vie che frequenta abitualmente, il 26% ha litigato con qualcuno per strada. Eppure, gli italiani sperano nel meglio. E continuano ad avere una vita decente sotto profili diversi da quelli strettamente economici e lavorativi: nel 2018 la spesa delle famiglie per attività ricreative e culturali è stata pari a 71,5 miliardi di euro. Mentre gli italiani che prestano attività gratuite in associazioni di volontariato sono aumentati del 19,7% negli ultimi dieci anni, del 31,1% quelli che hanno visitato monumenti o siti archeologici, del 14% quelli che hanno visitato un museo. E sono 20,7 milioni le persone che praticano attività sportive. Soluzioni che hanno arginato la crisi, ma non sono sufficienti a superarla: "Alla crisi economica c'è stata una risposta individuale, lo sforzo degli italiani nel mettere in campo forme di reazione come il 'viver bene' individuale, ma non basta. - osserva Giorgio De Rita, segretario generale del Censis - Serve anche il 'viver bene' collettivo. Non bastano dunque i singoli, ma serve una risposta collettiva". Si cercano politici integri, che guardino al futuro. Secondo il 47% degli italiani "ha ancora chance di raccogliere il giusto consenso il politico che pensa al futuro e alle giovani generazioni, piuttosto che esclusivamente al consenso elettorale (3%)".

Censis, italiani incollati agli smartphone: primo e ultimo gesto della giornata. Nel rapporto annuale si svela il "bluff" del recupero dell'occupazione: redditi al palo. La fuga dei giovani. Effetto Greta: la sostenibilità entra nelle scuole. La Repubblica il 06 Dicembre 2019. "Toglietemi tutto, ma non il mio smartphone", si potrebbe dire parafrasando il noto spot pubblicitario. Ma a vedere - nero su bianco - i numeri del rapporto tra italiani e cellulare, un poco ancora si sobbalza. Secondo il 53esimo Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese, oltre la metà (il 50,9%) controlla il telefono come primo gesto al mattino o l'ultima attività della sera prima di andare a dormire. Dati che testimoniano come la diffusione su larga scala dei telefonini 'intelligenti' nell'arco di dieci anni abbia finito con il plasmare i nostri desideri e i nostri abitudini. Nel 2018 il numero dei cellulari ha superato quello delle tv: in ogni famiglia ci sono in media 4,6 dispositivi mobili. In particolare, nelle case degli italiani ci sono 43,6 milioni di smartphone e 42,3 milioni di televisori. L'horror vacui del nuovo millennio pare esser diventato quello di restare senza carica: il 25,8% di chi possiede uno smartphone non esce di casa senza il caricabatteria al seguito. In un rapporto che complessivamente delinea la forza degli italiani nell'aggrapparsi a strategemmi - sia individuali che di gruppo - per la sopravvivenza in attesa della classe politica, il Censis mette in fila alcuni risvolti curiosi (o meno) della nostra società.

Occupazione, il recupero è un bluff...Una radice alle insicurezze economiche arriva dal versante del lavoro. Per il Censis, l'aumento dell'occupazione nel 2018 (+321.000 occupati) e nei primi mesi del 2019 è un "bluff" che non produce reddito e crescita. Il bilancio della recessione è di -867.000 occupati a tempo pieno e 1,2 milioni in più a tempo parziale. Il part time involontario riguarda 2,7 milioni di lavoratori, con un boom tra i giovani (+71,6% dal 2007). Dall'inizio della crisi al 2018, le retribuzioni del lavoro dipendente sono scese di oltre 1.000 euro ogni anno. I lavoratori che guadagnano meno di 9 euro l'ora lordi sono 2,9 milioni.

...e i giovani scappano. Di fronte a questi numeri, si capisce perché nel 2017 il 31,1% degli emigrati italiani con almeno 25 anni era in possesso di un titolo di studio di livello universitario e il 53,7% aveva tra i 18 e i 39 anni (età media di 33 anni per gli uomini e di 30 per le donne). I famosi "cervelli in fuga". Tra il 2013 e il 2017 è aumentato molto non solo il numero di laureati trasferiti all'estero (+41,8%), ma anche quello dei diplomati (+32,9%). Tra il 2008 e il 2017 i saldi con l'estero di giovani 20-34enni con titoli di studio medio-alti sono negativi in tutte le regioni italiane. Quelle con il numero più elevato di giovani qualificati trasferiti all'estero sono Lombardia (-24.000), Sicilia (-13.000), Veneto (-12.000), Lazio (-11.000) e Campania (-10.000). Il Centro-Nord, soprattutto Lombardia ed Emilia Romagna, ha compensato queste perdite con il drenaggio di risorse umane dal Sud. Intanto l'Italia è via via più rimpicciolita e invecchiata: dal 2015 - quando è cominciata la flessione demografica, ed è stata una novità nella nostra storia - si contano 436.066 cittadini in meno, nonostante l'incremento di 241.066 stranieri residenti.

Greta a scuola: sostenibilità tra i banchi. I giovani studenti che restano mostrano che l'etica ambientalista negli studenti è cresciuta, grazie all"effetto Greta": a pensarlo è il 73,9% dei 1.012 dirigenti scolastici intervistati dal Censis nel 53mo Rapporto. Il 60,9% ritiene che i propri alunni siano molto sensibili e partecipi delle esperienze che la scuola propone al riguardo. Il 17,4% riferisce che sono loro stessi a farsi promotori di una nuova etica ambientale presso le famiglie, per il 12,9% spesso si fanno latori di nuove iniziative presso le scuole stesse. Nell'87,9% degli istituti si è optato per una ottimizzazione dei materiali di consumo e nell'85,3% per la riduzione, il riutilizzo e il riciclo dei rifiuti. La salute e la corretta alimentazione degli alunni hanno rappresentato gli ambiti di intervento nel 66% delle scuole, dove sono stati aboliti cibi preconfezionati (snack, merendine, bibite gassate, ecc.) dai distributori automatici installati nei plessi scolastici (42,5%) o sono stati rimossi i distributori automatici, introducendo snack e merende preparate a scuola con cibi sani e prodotti locali (23,6%). Vi sono poi molti progetti finalizzati all'abolizione dell'uso della plastica a scuola, con la fornitura di borracce o l'installazione di distributori per l'acqua. Il 68,7% dei dirigenti di scuole dell'infanzia, primarie e secondarie di I grado, e il 24,3% di quelli delle scuole secondarie di II grado hanno attivato orti scolastici. Nel 49,2% delle scuole gli studenti sono coinvolti in attività di giardinaggio e manutenzione del verde scolastico.

Stanchi dei politici, schiacciati dalle incertezze: gli italiani guardano all'"uomo forte" al potere. Il rapporto Censis: per il 48% dei cittadini ci vorrebbe una figura al di sopra del Parlamento e delle elezioni. Problema razzismo e antisemitismo in crescita. Aumenta il risentimento verso il sistema previdenziale, sanità sempre più "privata". La Repubblica il 06 Dicembre 2019. Gli italiani non ne possono più della politica. O meglio, non vogliono più vedere i politici: il 90% dei telespettatori, per intendersi, non li vorrebbe 'tra i piedi' mentre fa zapping. Se a questa stanchezza si uniscono tutte le incertezze sul fronte economico e sociale che caratterizzano questi tempi, ecco farsi strada nella mente dei concittadini una soluzione: l'uomo forte, al di sopra del Parlamento, che rassicuri. Fa paura, pensando alla nostra storia, quel che emerge dall'ultimo rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese. Lo stato d'animo dominante tra il 65% degli italiani è l'incertezza. Dalla crisi economica, l'ansia per il futuro e la sfiducia verso il prossimo hanno portato anno dopo anno ad un logoramento sfociato da una parte in "stratagemmi individuali" di autodifesa e dall'altra in "crescenti pulsioni antidemocratiche", facendo crescere l'attesa "messianica dell'uomo forte che tutto risolve". Per quasi la metà degli italiani, il 48% per la precisione, ci vorrebbe "un uomo forte al potere" che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni.

Monta l'odio contro gli immigrati. Problema antisemitismo. Non è tutto. I moltiplicati segnali di pericolosa deriva verso l'odio, l'intolleranza e il razzismo nei confronti delle minoranze trovano conferma nel senso comune: il 69,8% degli italiani è convinto che nell'ultimo anno siano aumentati gli episodi di intolleranza e razzismo verso gli immigrati. Eppure proprio gli stranieri sono sempre più funzionali al tessuto produttivo italiano: al primo semestre del 2019 i titolari di impresa nati all'estero che esercitano la propria attività nel nostro Paese sono 452.204 e rappresentano il 14,9% dei 3.037.661 titolari di impresa attivi in Italia. Tornando al problema dell'odio, significativo come per il 58% degli intervistati sia aumentato anche l'antisemitismo.

Tra Ue e ritorno alla lira. Pur in questo clima, gli italiani restano convinti al 62% dei casi che non si debba uscire dall'Unione europea, ma il 25%, uno su quattro, è invece favorevole all'Italexit. Se il 61% dice no al ritorno della lira, il 24% è favorevole e se il 49% si dice contrario alla riattivazione delle dogane alla frontiere interne della Ue, considerate un ostacolo alla libera circolazione di merci e persone, il 32% sarebbe invece per rimetterle.

Delusi dalle pensioni. Probabilmente a far disamorare gli italiani del sistema politico è anche l'incertezza per il sistema previdenziale, verso il quale aumenta il risentimento. Per il 45,2% degli italiani l'età pensionabile non deve seguire l'andamento della speranza di vita, mentre per il 43,2% speranza di vita ed età del pensionamento devono camminare insieme. Quasi 2 milioni di pensioni in Italia sono erogate da trent'anni o più (il 12% del totale), a fronte di una durata media di 24 anni. Sono il riflesso di periodi in cui era più facile andare in pensione, che però oggi generano cosi significativi per la previdenza. Il 53,6% delle pensioni erogate in Italia è inferiore a 750 euro mensili. Non sorprende allora che il 73,9% degli italiani siano d'accordo con la necessità di portare le pensioni minime a 780 euro al mese con risorse pubbliche. Stenta poi a decollare il sistema sostenibile, specialmente tra i giovani. Nel 2018 erano quasi 8 milioni gli iscritti alla previdenza complementare, vale a dire il 34,3% degli occupati, ma la quota di iscritti scende al 27,5% tra i lavoratori millennial. Sono il 23,3% degli italiani dichiara di sapere bene che cosa sia la previdenza complementare (il 19,4% tra i 18-34enni).

Sanità, sempre più privati. In ambito sanitario, invece, il sistema pubblico non basta più: gli italiani sono costretti a rivolgersi al Servizio sanitario nazionale ma anche a operatori e strutture private, a pagamento. In particolare, quasi una prenotazione su tre per prestazioni che dovrebbero essere garantite dal pubblico si "dirottano" poi sul privato. Nel complesso, nell'ultimo anno il 62% degli italiani che ha svolto almeno una prestazione nel pubblico ne ha fatta anche almeno una nella sanità a pagamento: il 56,7% di chi ha un reddito basso e il 68,9% di chi ha un reddito di oltre 50.000 euro annui. Ci si rivolge al di fuori del Ssn sia per motivi soggettivi, per il desiderio di avere ciò che si vuole nei tempi e nelle modalità preferite, sia per le difficoltà di accedere al pubblico a causa di liste d'attesa troppo lunghe. I dati parlano chiaro: su 100 prestazioni rientranti nei Livelli essenziali di assistenza che i cittadini hanno provato a prenotare nel pubblico, 27,9 sono transitate nella sanità a pagamento. Mentre su 100 visite specialistiche 36,7 finiscono nella sanità a pagamento, così come 24,8 accertamenti diagnostici su 100.

Media e umore: gli "arrabbiati" guardano i Tg. A influenzare l'umore degli italiani ci pensano poi i media. Secondo il Censis, cambiano gli umori a seconda dei mezzi di comunicazione: Gli "arrabbiati" si informano prevalentemente tramite i tg (il 66,6% rispetto al 65% medio), i giornali radio (il 22,8% rispetto al 20%) e i quotidiani (il 16,7% rispetto al 14,8%). Tra gli utenti dei social network "compulsivi" (coloro che controllano continuamente quello che accade sui social, intervengono spesso e sollecitano discussioni) troviamo punte superiori alla media sia di ottimisti (22,3%) che di pessimisti (24,3%). Per leggere le notizie scelgono Facebook (46%) come seconda fonte, poco lontano dai telegiornali (55,1%), e apprezzano i siti web di informazione (29,4%). Facebook (48,6%) raggiunge l'apice dell'attenzione tra gli utenti "esibizionisti" (pubblicano spesso post, foto e video per esprimere le proprie idee e mostrare a tutti quello che fanno). I "pragmatici" (usano i social per contattare amici e conoscenti) si definiscono poco pessimisti (14,6%) e più disorientati (30,7%). Mentre gli "spettatori" (guardano post, foto e video degli altri, ma non intervengono mai), sono poco pessimisti (17,1%).

Corrado Zunino per la Repubblica l'8 dicembre 2019.

Professor Giuseppe De Rita, 55 anni fa contribuì a fondare il Censis. Da tre stagioni non ne scrive più i rapporti, ma scoprire che il 74 per cento degli italiani nel 2019 si sente molto stressato, anche senza un motivo, e il 55 per cento parla da solo che effetto le fa?

«Non stiamo diventando un popolo di matti, no. Quel parlare da soli è un ruminare quello che abbiamo dentro pensando a domani. Il passato non nutre i sentimenti, noi siamo quello che pensiamo di poter essere. E oggi non lo sappiamo. Siamo un popolo stressato perché non abbiamo un traguardo, una prospettiva. Ci manca il futuro e per questo il presente diventa faticoso, fastidioso».

Il 75 per cento degli italiani non si fida più di nessuno. Probabilmente ha ragione.

«C' è un problema fondamentale ed è la nostra incapacità di rapporto con l' altro. Negli ultimi dodici anni lo slogan della società, esplicito e implicito, è stato il "vaffa" e questo ha rotto ogni relazione. È la vera tragedia di questo Paese: non c' è ricchezza di rapporti umani e così l' individuo incorpora le proprie ansie che, in solitudine, diventano rancori. Negli ultimi due anni, va detto, il rancore è diminuito, ma la rottura delle relazioni resta ed è l' elemento fondamentale da curare. Ci siamo riusciti dopo la guerra quando la sfiducia era totale. In Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, siamo nel 1951, si vede un ragazzino che esce dall' orfanotrofio e inizia a salutare tutti. Al decimo "buongiorno", finalmente un passante gli chiede perché. Ecco, dobbiamo tornare a dire "buongiorno" senza una ragione. Quella sceneggiatura era di Cesare Zavattini, artista e sociologo».

Diceva che il rancore è in riflusso da due anni: forse perché i Cinque Stelle sono andati al governo e la rabbia da social si è sgonfiata.

«Si è esagerato e il livore e la minaccia sono andati fuori moda. Ai Cinque Stelle è successa una cosa semplice: hanno conosciuto coloro che avevano violentemente attaccato per anni, a destra, a sinistra, senza conoscerli. La conoscenza favorisce prima la misura e poi l' educazione. Gli italiani si stanno stufando di frasi fatte e richieste di impeachment».

È sicuro che si siano stufati dei modi di Salvini? Il 48 per cento, dice il Censis, vuole l' uomo forte.

«Salvini, aiutato dai suoi consulenti, ha caricato l' aspetto formale della violenza orale, ma non diventerà un leader continuando a fare il truce».

A quale italiano somiglia l' italiano del 2019? Una pausa, l' esercizio della memoria.

«A quello della fine degli Anni '80, la vigilia di Tangentopoli. La stanchezza, la valutazione negativa: tutti ladri. Quel sentimento è stato il substrato culturale della grande inchiesta. Oggi, però, l' atteggiamento distruttivo non cresce, c' è attenzione a non esasperare la rabbia».

Bastano due dati per spiegare i sentimenti di frustrazione contemporanei: dal 2011 la ricchezza immobiliare delle famiglie ha subito una decurtazione del 12,6 per cento e quasi tre milioni di italiani guadagnano meno di 9 euro lordi l' ora.

«L' Italia non è un Paese povero, ovunque vai vedi girare soldi. Siamo cresciuti a ondate veloci e successive: la ricostruzione, il boom industriale, poi l' avanzata delle piccole imprese, quindi il sommerso. Siamo riusciti a uscire dalla crisi del 2008-2014 con un atteggiamento di massa: la sobrietà. E oggi abbiamo recuperato le posizioni pre-crisi. Certo, non siamo felici quando siamo sobri, il consumismo è il nostro habitat, ma siamo un popolo che si sa adattare e che si adatterà anche alla prossima svolta».

Questo è il nocciolo del carattere degli italiani: la capacità di adattarsi?

«Pensi a quanti meridionali sono diventati settentrionali. Ci siamo adattati all' Europa, all' austerity della Merkel, al tre per cento. Ci adatteremo al Salva-Stati, il Mes. Più che l' uomo forte gli italiani chiedono l' uomo che consenta di stare in pace, semplifichi le loro vite, permetta alle loro case di rendere senza che siano erose dalle tasse. Come dice Ricolfi, siamo un popolo signorile che vorrebbe vivere da signore, ma oggi la ricchezza è diventata motivo di cruccio. Gli italiani non hanno bisogno di fermare i migranti nei porti, piuttosto di qualcuno che tolga loro un po' di ansie».

Se dobbiamo individuare una causa del nostro declino? Una.

«Siamo fatti di storia e di invenzioni: questi due elementi in cent' anni hanno trasformato un plebeo in un cittadino, poi in un signore. Ecco, oggi c' è una mancanza di senso storico e di invenzione economica che si traducono nell' assenza di un' idea di futuro».

Da quale emergenza dovremmo partire?

«Dall' istruzione, ma lì abbiamo perso all' inizio dei Sessanta quando cattolici e comunisti scelsero la scuola per la scuola e per i professori invece che la scuola per il lavoro e l' impresa. Poi c' è il calo demografico. Non facciamo più figli per una serie di ragioni così larghe e profonde, la caduta del desiderio, il narcisismo egoistico, l'idea di futuro fin qui sviluppata, che è difficile uscirne. Il futuro ce lo porteranno altri e noi, ancora una volta, ci adatteremo».

Dagospia l'8 dicembre 2019. Da radiocusanocampus.it. Paolo Crepet, psichiatra e sociologo, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Secondo il Censis gli italiani sono sempre più incerti, stressati e dipendenti dallo smartphone. “Un quadro abbastanza scontato –ha affermato Crepet-. Dire che gli italiani sono sempre con lo smartphone è come dire che mangiano la pasta. Non so se siamo campioni mondiali o siamo vice, mi pare anche un dato sottostimato. Lo smartphone è uno strumento di lavoro e comunicazione, ma anche di svago. Su questo non farei una battaglia punica, il problema è educativo semmai. Se poi, per parlarci, usiamo una scrittura tipo whatsapp e non usiamo più le parole, gli sguardi, gli incontri, io sarei preoccupato ma non solo per l’Italia, per il mondo”. La rabbia sociale dovuta anche all’informazione. “Che ci sia gente che approfitta di uno strumento che ti rende visibile dalla tua caverna è abbastanza comprensibile. I 3 minuti di notorietà li ottieni bestemmiando e non certo facendo un ragionamento raffinato. Il problema è se la classe dirigente ragiona così o no. Se così ragiona un signore che ha anche i suoi motivi per essere arrabbiato col mondo va anche bene, se è la classe dirigente che si informa e che informa attraverso questi strumenti comincio ad avere qualche perplessità. La formazione, sapere le cose è fondamentale”. 4 milioni di italiani usano psicofarmaci. “Gli psicofarmaci sono molto vicini al nostro umore. E’ chiaro che se uno ha una preoccupazione, 40 anni fa era molto complicato andare in una farmacia a prendere un ansiolitico, oggi basta andare da qualsiasi medico di base e te lo dà. 4 milioni mi sembrano anche pochi, a volte c’è un uso saltuario, sintomatico. Questo fa parte anche della cattiva cultura sanitaria che abbiamo, legata a forum, chat, cose che si leggono sulla rete. Siamo in un periodo in cui non vogliamo affrontare le cose, le vogliamo risolvere temporaneamente, buttiamo molta polvere sotto al tappeto”.

·         Senza prospettive, sogni, giovani e anziani (che se ne vanno).

Gioventù bloccata, ai più  poveri 5 generazioni prima  di avere il reddito dei genitori. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 su Corriere.it da Giuliana Ferraino. Secondo il rapporto Oxfam i figli del 10% degli italiani più poveri avrebbero bisogno di 5 generazioni per percepire. Il reddito medio nazionale. Il nodo della scuola. L’ascensore sociale in Italia è bloccato e le aspirazioni dei giovani a un futuro più equo appaiono oggi fortemente compromesse. Secondo il Rapporto Oxfam, intitolato significativamente «Non rubateci il futuro», i figli delle persone collocate nel 10% più povero della popolazione italiana, sotto il profilo retributivo, avrebbero bisogno di 5 generazioni per arrivare a percepire il reddito medio nazionale. Allo stesso tempo, ai due estremi della distribuzione della ricchezza, un terzo dei figli di genitori più poveri, è destinato a rimanere fermo al piano più basso dell’edificio sociale, mentre il 58% di quelli i cui genitori appartengono al 40% più ricco, manterrebbe una posizione apicale. Da qui l’appello lanciato da tanti giovani e sostenuto da Oxfam, AIM, Felcos, Istituto Oikos, Re.Te. e WeWorld, per chiedere alle Istituzioni italiane un immediato cambio di rotta.Nel mirino gli investimenti insufficienti in istruzione. Rispetto a quanto accadeva in passato, oggi il sistema dell’istruzione italiano offre infatti minori garanzie di emancipazione sociale. A parità di istruzione, le origini familiari hanno impatti non trascurabili sulle retribuzioni lorde dei figli: il figlio di un dirigente ha oggi un reddito netto annuo superiore del 17% rispetto a quello percepito dal figlio di un impiegato, che abbia concluso un ciclo di studi di uguale durata. Con un investimento pari al 3,7% del Pil nel 2017, proiettato al 3,5% nel 2020 nell’ultimo Def, il sistema dell’istruzione italiano soffre di un cronico sotto-finanziamento, mostra accentuati squilibri in termini di qualità dell’offerta formativa, e una forte incidenza degli abbandoni precoci, risalita al 14,5% nel 2018 e con picchi nel Mezzogiorno ben al di sopra della media nazionale. Il 13% degli under 29 è «working poor», denuncia Oxfam. I giovani che ambiscono a un lavoro di qualità devono fare oggi i conti con un mercato del lavoro disuguale, caratterizzato, nonostante la ripresa dei livelli occupazionali dal 2008, dall’aumento della precarietà lavorativa e dalla vulnerabilità dei lavori più stabili. Il lavoro non basta più a garantire un livello di vita dignitoso: nel 2018 circa il 13% degli occupati nelle fasce d’età tra i 16 e i 29 anni era working poor, faceva cioè parte di una famiglia con reddito inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. Il fenomeno è riconducibile in buona parte agli inadeguati livelli retributivi che vedono i giovani penalizzati da quasi 40 anni nei livelli delle retribuzioni annue medie, rispetto agli occupati più anziani. Un fenomeno che va di pari passo con la proliferazione di contratti di breve durata e il boom degli occupati in part-time involontario che ha visto un incremento di 1.500.000 di unità nel decennio 2008-2018. «Dai un taglio alle disuguaglianze» è lo slogan scelto dai giovani protagonisti della campagna «People Have the Power» per richiamare l’attenzione pubblica e sollecitare l’azione dei decisori politici verso l’attuazione di urgenti misure di contrasto alle disuguaglianze che stanno fortemente compromettendo il loro futuro. La campagna nasce all’interno di un progetto finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) per favorire la comprensione da parte dei giovani delle cause di una sempre di una disuguaglianza economica sempre più accentuata e dell’impatto sui livelli di povertà ed esclusione sociale.

Senza prospettive, sogni, giovani e anziani (che se ne vanno). Questo deve diventare un'emergenza politica, scrive Mario Giordano il 21 febbraio 2019 su Panorama. Simone Perna ha 33 anni. È nato a Pavia, ha studiato, si è laureato in dietistica, ha un master in nutrizione, un dottorato in sanità pubblica e in statistica, ha fatto un’esperienza importante all’Istituto Santa Margherita e ha pubblicato oltre 60 articoli su riviste scientifiche. Una preparazione solida, insomma. Riconoscimenti ad alto livello. Eppure, come ha spiegato qualche mese fa alla Provincia Pavese, «per me qui in Italia non ci sono opportunità». Dal settembre 2018 fa il professore nel Bahrein. Coordina un corso universitario al College of Science degli sceicchi. Secondo gli ultimi dati della Farnesina sono 5 milioni e mezzo gli italiani che hanno ormai lasciato l’Italia e vivono all’estero. La crescita degli espatri è impetuosa: oltre il 60 per cento in più negli ultimi dieci anni. Soltanto nel 2018 sono volati oltre confine 123.193 connazionali, cioè circa 350 al giorno, cioè 14 l’ora. Cioè uno ogni 5 minuti. Nel giro di un anno è come se fosse sparita una città come Monza o Pescara. La maggior parte di chi se ne va, è istruito: il 34,8 per cento ha un diploma, il 30 per cento una laurea. Tanto per dire: i nostri connazionali rappresentano ormai il 7 per cento degli assistenti universitari ai docenti della Germania. Siamo diventati il gruppo internazionale più numeroso negli atenei tedeschi. E il sindacato Anaoo Assomed ha denunciato che ogni anno se ne vanno all’estero anche 1.500 medici, nonostante il grande bisogno che c’è negli ospedali italiani. «Considerando quello che abbiamo speso a formarli» accusano «è come se regalassimo 1.500 Ferrari l’anno ai Paesi stranieri». Il dato nuovo è che la fuga dal tricolore non riguarda solo i giovani. Anzi: l’età si sta rapidamente alzando. Aumentano le partenze delle persone tra i 35 e i 49 anni, aumentano le partenze degli over 60 che vanno a godersi la pensione in Portogallo o alle Canarie (più 35 per cento fra i 65-74 anni, addirittura più 78 per cento negli over 85), e aumentano le partenze anche delle famiglie al completo, mamma, babbo e bebé al seguito. L’impressione è che a spingere gli italiani all’estero non siano soltanto il bisogno, la fame e la necessità, che pure ci sono. C’è anche la sfiducia. Gli italiani non credono più in questo Paese. Sul quotidiano economico Italia Oggi, Domenico Cacopardo ha raccontato di aver incontrato un dirigente di una primaria azienda italiana di marketing che si era appena licenziato, nonostante la promessa di un aumento di stipendio. Si era già accasato a Cincinnati. I suoi sei collaboratori, tutti laureati, tutti assunti a tempo indeterminato, hanno a loro volta lasciato. Nel giro di una settimana si sono occupati di nuovo. Nessuno in Italia. «Ho avuto modo di parlare con il quadro che ha scelto Sydney» racconta «e credo di aver capito che queste generazioni ormai non nutrono un particolare interesse per il nostro Paese». E questa crisi di fiducia, ancor più grave della crisi economica, rende difficile rispondere alla domanda, che pure bisogna farsi: questa emorragia si può fermare? Mauro Querci, bravo collega che ogni settimana si prende cura del Grillo Parlante, amerebbe molto saperlo. Ma io devo deluderlo. Non lo so. Di recente mi ha colpito la dichiarazione del vicepresidente di Confindustria Moda, Cirillo Marcolin, imprenditore molto conosciuto nel settore, gran visir del Bellunese: «Per le mie figlie non vedo nessun futuro qui in Italia» ha detto. E se nemmeno un imprenditore di successo vede un futuro possibile nel nostro Paese per le sue figlie, mi domando: chi lo può vedere? Però, ecco, forse bisognerebbe almeno cominciare a parlarne. Bisognerebbe considerarlo un’urgenza, un’emergenza, un tema di discussione al pari dell’ultima dichiarazione dell’onorevole Tizio o Caio o del senatore Sempronio, non vi pare? Invece niente: qui da noi i dati scioccanti sugli espatri non accendono nemmeno un po’ di dibattito. Rimaniamo lì, incatenati come sempre al chiacchiericcio del Palazzo, chiusi nella sterile polemica di giornata, affogati nella quotidiana tempesta nel bicchiere d’acqua. E non ci accorgiamo che il Paese ci sta sfilando via sotto gli occhi e ci fa bye-bye da lontano. Ce ne renderemo conto, prima o poi? Temo che, in ogni caso, sarà troppo tardi. Fatta l’Italia, si diceva una volta, bisogna fare gli italiani. A riuscire ancora a trovarli, però.

·         E’ un paese per vecchi.

Istat, l’Italia in testa per ultracentenari. Il nostro è un paese per vecchi (che si divertono). Alessandra Arachi il 20 giugno 2019 su Il Corriere della Sera. Il nostro è un paese per vecchi, secondo al mondo per longevità soltanto al Giappone, insieme alla Francia contiamo oltre 15 mila persone sopra i 100 anni. E i nostri anziani se la cavano piuttosto bene in un’Italia che soffre una doppia recessione - economica e demografica - ma che lascia spazio e divertimento alla vita di quelli più in là con gli anni (+ 12,4% quelli che vanno al cinema rispetto al 2018) e calcolando che all’inizio del 2019 gli italiani con più di 85 anni sono 2,2 milioni. I giovani infatti non vivono una vita piuttosto semplice, soprattutto rispetto ai nonni e ai padri e d a qui la doppia recessione, anche se nel primo trimestre del 2019 si è registrato un lieve recupero del Pil condizionato dalla modesta crescita di consumi ed esportazioni.

«Culle mai così vuote da un secolo». Dalle pagine del rapporto Istat 2019 viene fuori una vecchia e irrisolta storia: le culle vuote. Nel 2018 sono stati registrati all’anagrafe nemmeno 500 mila bambini - 439 mila per la precisione, ovvero circa 140 mila in meno rispetto al 2008. Ma questa recessione demografica che sta colpendo l’Italia, ormai dal 2015, ha qualcosa di epocale. E’ inevitabile, i figli del «baby boom» hanno dovuto smettere da alcuni lustri di poter aver loro i figli e quindi di qui al 2050 la quota dei 15-64 anni - la cosiddetta popolazione attiva - scenderà drammaticamente. In una stima si calcola che i si fermerà a poco più del totale della popolazione, ovvero il 52 per cento. Non c’è possibilità di ricambio nella popolazione. Ma a guardare il rapporto Istat del 2019 non c’è nemmeno possibilità di riscatto. Dice Giancarlo Blangiardo, presidente dell’Istat che stiamo vivendo un calo demografico di cui «si ha memoria nella storia d’Italia solo risalendo ad un secolo fa, ovvero al lontano biennio 1917-1918, un’epoca segnata dalla Grande Guerra e dai successivi drammatici effetti dell’epidemia di `spagnola». Quello che Blangiardo non esplicita lo si piò leggere nelle pagine del rapporto.

Conflitto generazionale. Si può leggere di un «conflitto» generazionale che si misura in stili e qualità della vita, con i nonni sempre più pimpanti e più ricchi e i giovani e giovanissimi inchiodati ad un ascensore sociale che non accenna a decollare. I ragazzi escono sempre più tardi dalla famiglia di origine e nel 2018 u 9 milioni 630 mila ragazzi tra i 20 e i 34 anni è più della metà - 5,5 milioni - che vive e a casa con mamma e papà. Del resto se guardiamo gli indicatori della povertà assoluta che risultano più che raddoppiati negli ultimi dieci anni (dal 3,6 all’8,4%) vediamo che l’indicatore tocca il massimo proprio tra i minorenni e i giovani tra i 18 e i 34 anni per i quali si registra il maggior incremento degli ultimi dieci anni (rispettivamente +8,9 e +6,4 punti percentuali).

Nonni sprint. Dall’altra parte, i nonni, che godono di buona salute, su tutti i fronti. Intanto sono di più, tanti di più, quest’anno in Italia si contano ben 2, 2 milioni di ultra 85 enni (oltre più di 15 mila ultracentenari). E soprattutto godono di ottima salute in assoluto, oggi un uomo può godere in media di buona salute fino a quasi 60 anni (59,7) e una donna per 57,8 anni. Ecco quindi che tra la popolazione di 65 anni e su si osserva una maggiore diffusione di stili di vita e abitudini salutari. Aumenta la pratica dello sport, passando dall’8,6 del 2008 al 12,4 del 2018 e al tempo stesso si riducono i comportamenti sedentari. E se l’abitudine al fumo tra gli over 65 rimane pressoché stabile, diminuisce il consumo eccedentario di bevande alcoliche (dal 25,2 del 2008 al 19,2 de 2018).

I giovani anziani. Ma c’è di più: quest’anno per la fascia d’età tra i 65 e i 69 anni viene coniato un neologismo «i giovani anziani», quelli che nel tempo hanno aumentato la partecipazione sociale e, soprattutto, la partecipazione culturale: se dieci anni fa andavano al cinema e a teatro il 14 per cento di questa fascia d’età, adesso ci va il 17, lo stesso vale per i musei (si sale al 24,7 per cento contro il 21,2). E’ una piramide che fatica a rovesciarsi, quella demografica, e se il presidente Blangiardo ci fa notare che negli ultimi vent’anni la popolazione italiana è cresciuta soltanto grazie agli immigrati oggi sono residenti 5 milioni 234 mila), ci ricorda anche che i problemi non sono soltanto quelli della popolazione. Anzi. «L’Italia è una realtà composita, eterogenea, bellissima e contraddittoria. È una terra ricca di tesori, arte e bellezza ma è altresì una nazione ricca di problemi irrisolti, talvolta a seguito di alcune eredità, una per tutti quella del tema ricorrente circa il debito pubblico, che certo avremmo preferito acquisire con beneficio di inventario».

Pil a rischio contrazione. Nel secondo semestre di quest’anno il PIl potrebbe avere una contrazione: «C’è un panorama internazionale in continuo movimento e nei nostri modelli teniamo conto anche di questo», ha detto il presidente Giancarlo Blangiardo. Ma poi ha aggiunto: Questo non vuol dire necessariamente che sia in discussione la stima fatta su base annua, ovvero dello 0,3%, che riteniamo possa continuare a reggere grazie ad una discreta tenuta nella seconda parte dell’anno ».

Dossier denatalità, perché  in Italia ci sono 8.000 nati  in meno rispetto al 2018? Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 da Corriere.it. Che l’Italia non faccia più figli è aldilà di ogni ragionevole dubbio. Siamo l’ultimi in Europa per nascite ogni mille donne, ultimi per l’età delle puerpere al primo parto (trentuno anni e due mesi), terzultimi per l’età media alla quale le madri mettono al mondo una bambina o un bambino in genere (quasi trentadue anni). Si contano più di 146 mila nascite all’anno in meno rispetto a undici fa, quando il Paese raggiunse l’apice di una pur timidissima ripresa. Con una popolazione comparabile nei due Paesi, i neonati di genitori entrambi italiani sono praticamente la metà dei neonati francesi. Tra l’altro l’onda lunga continua ad avanzare: l’Istat, l’istituto statistico, mostra che le nascite continuano a calare di circa il 2% e nel 2019 dovrebbero esserci ottomila neonati in meno rispetto al 2018. Ubriacarsi di cifre sulla recessione demografica è diventato così facile che essa entrata nelle coscienze persino dei politici. Non passa governo che non pensi a qualche misura perché gli italiani riprendano a riprodursi. I giallo-verdi al potere fino a due mesi fa offrivano un bucolico un appezzamento del demanio da coltivare, a partire dal terzo figlio in poi. I giallo-rossi al potere oggi, più vicini alle correnti europee, preferiscono più asili nido dove madri e padri possano lasciare i piccoli per andare al lavoro. Ogni cultura in Italia ha la sua certezza da vendere. C’è chi è convinto che le carriere femminili scoraggino la riproduzione; chi mostra invece come nei Paesi dove le donne lavorano di più, per esempio in Scandinavia, si facciano anche più figli. Eppure c’è qualcosa che nessuno fa, prima di spendere i soldi dei contribuenti per questa o quella misura: cercare di capire cosa succede esattamente, dando un’occhiata a come cambiano le nascite nei diversi territori d’Italia. Non ovunque l’andamento è uguale: nella provincia di Cagliari dal 2008 sono quasi dimezzate (contro un calo del 21% in media nazionale), in quella di Sassari sono salite di un quinto. Non ovunque si nota la stessa assenza di asili nido, pubblici o privati: a Caserta si trovano solo 5,7 posti ogni cento bambini fra gli zero e i trentasei mesi d’età, a Ravenna ce ne sono 46 e dunque più di quanto raccomandato dall’Unione europea. E non ovunque per una donna resta altrettanto difficile trovare lavoro come lo era dieci anni fa. In media nazionale l’occupazione femminile - sempre bassa - è salita del 3,9% in un decennio. Ma è cresciuta di un quarto nella provincia di Oristano, mentre si è quasi dimezzata in quella di Ascoli e stranamente a Milano è crollata del 16% (rispetto al 2007, nella capitale economica del Paese lavorano 120 mila donne in meno). Può essere che queste differenze incidano sulla scelta di fare figli? Se per esempio più posti disponibili nei nidi o più lavoro per le donne nei vari territori corrispondessero a una migliore dinamica delle nascite, o a una peggiore, allora sapremmo su quali tasti battere. E quali evitare. Ma è così? No. I dati su 103 provincie nell’ultimo decennio dicono che in Italia non c’è alcuna correlazione positiva fra l’offerta di asili-nido e l’evoluzione delle nascite. Non c’è correlazione neanche con l’aumento del lavoro femminile o con l’occupazione in genere. In 57 provincie l’offerta di posti nei nidi è superiore alla (scarsa) media nazionale di 24 posti ogni cento bambini; eppure fra queste province virtuose, ben trentacinque nell’ultimo decennio hanno visto un crollo delle nascite persino più drammatico della già terribile media nazionale di meno 21%. Non solo il livello è basso, ma la loro evoluzione è stata peggiore. È tutta l’Italia più ricca: Torino, Aosta, Bergamo, Pavia, Cremona, Mantova, Lecco, Vicenza, Venezia, Padova, Udine, Ancona. Neanche all’aumento del lavoro per le donne corrisponde necessariamente, come in Europa del Nord, un andamento un po’ migliore – o almeno meno peggio – della procreazione. Nelle 49 province in cui l’occupazione sale più che nella media nazionale nell’ultimo decennio, ben 23 registrano crolli delle nascite oltre la media nazionale. Questa è l’Italia ricca e non solo: Caltanissetta, Taranto e Brindisi, ma anche Livorno, Lucca, Alessandria e Treviso. C’è però un punto in comune fra tutte queste zone demograficamente più depresse, benché sulla carta più virtuose per le condizioni di sostegno alle famiglie. Dev’essere la chiave del mistero italiano, perché qui la correlazione è stretta. Quasi infallibile. Delle 35 aree del Paese con più nidi ma un crollo delle nascite peggiore della media, tutte meno una manciata presentano un elemento costante: in quei luoghi il numero delle donne in età fertile – formalmente fra i 15 e i 49 anni – è crollato più che nel resto del Paese negli ultimi anni. Invecchiano più in fretta. E così anche nelle 23 province dove il calo delle nascite è più rapido, benché il lavoro delle donne cresca più che altrove: in quasi tutte, invariabilmente, il numero di donne in età fertile sta scendendo più che nel resto d’Italia. In altri termini una delle grandi cause di questa recessione delle nascite è semplicemente che in Italia ci sono sempre meno donne in grado di procreare: quasi un milione in meno rispetto al 2008. Anche con la stessa propensione a fare figli di dieci anni fa, ne fanno meno. Ciò non significa che non occorrano più asili nido, più possibilità per le famiglie di poter contare su un doppio reddito e su un’assistenza. Luigi Guiso, un economista esperto (anche) di bilanci familiari, ricorda che questa ricetta è parte del successo scandinavo. Mario De Curtis, ordinario di pediatria alla Sapienza, sottolinea l’importanza del sostegno pubblico ai genitori meno abbienti. Ma oggi l’Italia paga un’incuria di decenni sulle politiche familiari. La prima recessione di nascite fra il 1975 e il 1995 sta riducendo oggi il numero di donne fertili e ciò accelera una seconda crisi e, in futuro, rischia di innescarne a catena altre più gravi. Una finestra biologica si sta chiudendo. Per riaprila, nessuno può escludere a priori che occorra dare uno sguardo nuovo anche a un’immigrazione gestita con ordine. (Ha collaborato Riccardo Antoniucci)

Calabria, l’anziano che vende le nespole in strada: la dignità del Sud in una foto diventata virale sui social. Pubblicato sabato, 22 giugno 2019  da Enrico Galletti su Corriere.it. A Civita, paesino della provincia di Cosenza, nel cuore del Parco nazionale del Pollino, vivono 912 abitanti. E lì, come in molti altri piccoli centri, tutto sembra essersi fermato a tanti anni fa. Ci sono alcune vetrine con le serrande abbassate e le tradizioni di un tempo che restano immortali. Lo dimostra uno scatto diventato virale nelle scorse ore su Facebook, che ritrae un signore anziano dallo sguardo tenero, accostato al muro, che aspetta che i suoi concittadini gli vadano incontro per chiedere le sue nespole. Appoggiata sul pavimento c’è anche una bilancia. La foto, che in queste ore sta ottenendo migliaia di like e condivisioni sui social, è stata scattata da Francesco Mangialavori, fotografo per passione di 38 anni. Ed è proprio lui a raccontare la vicenda che si nasconde dietro lo scatto. «Stavo passeggiando per le vie di quel piccolo comune che portano al belvedere quando mi sono imbattuto in questa scena che non poteva passare inosservata. Questo signore non urlava, non voleva attirare a tutti i costi l’attenzione su di sé. La gente si fermava a parlare con lui e capiva che essere lì era un modo per restare ancorato alla sua terra, per non dimenticare le tradizioni del suo passato. L’umiltà di quell’uomo è disarmante. E’ arrivato vestito elegante e ha appoggiato a terra le sue nespole, poi si è fatto da parte, guardava per terra. Ho scattato quella foto cercando di non disturbarlo, mi è venuto spontaneo». Il clamore sui social è arrivato dopo. «Non mi aspettavo che il mio scatto avesse questo successo – spiega Francesco -. Mi piace però pensare che in quella foto la gente riconosca la semplicità e la dignità del Sud, quella di persone anziane che non rinunciano alla loro terra, e che ancora riescono a commuovere».

Carlo Vergani: «Geni e ambiente. Ecco come si diventa giovani anziani». Pubblicato sabato, 22 giugno 2019 da Giangiacomo Schiavi su Corriere.it. Anziano a chi? A Renzo Arbore, che a 81 anni vive di musica e concerti? A Franca Valeri, che a 99 anni rifiuta l’anagrafe? A Ferruccio Soleri, che solo a 88 anni ha smesso di essere Arlecchino? Attenti a quel che dite nell’Italia dello tsunami grigio, dove ogni cento giovani sotto i 15 anni ci sono 168 senior, che di anni ne hanno più di 65. Nella stagione più longeva della storia il sorpasso certificato dall’Istat è diventato una fuga: nel 2050 gli over 65 supereranno i 20 milioni e gli under 25 saranno meno di 14 milioni. Se il Novecento aveva associato l’invecchiamento alla parola «pensione», dal 2020 si dovranno riconsiderare le età della vita. A 65 anni ne comincia un’altra. E a 80 si potrà dire: vecchio sarà lei. «Quando ho iniziato a interessarmi degli anziani, in Italia la speranza di vita alla nascita era di 70 anni. Oggi è salita a 83», dice Carlo Vergani, medico, geriatra, uno dei maggiori esperti di problemi legati ai processi biologici dell’invecchiamento. «Viviamo mediamente 13 anni in più e ci sono due pensionati ogni tre occupati. Più nonni che nipoti». Ma lo Stato pensa ad altro, i giovani sono schiacciati dalla spesa previdenziale, gli anziani restano condizionati dai limiti del sistema sanitario. «È suonato il gong», avverte Vergani. La nuova longevità ha creato un intermezzo, terza e quarta età sono saltate: non si è più giovani, non si è ancora vecchi. Arrivati a sessanta, di anni se ne possono programmare altri trenta, in cui la parola «anziano» suona quasi offensiva se si è in buona salute e si possono schierare competenze, esperienze, intuizioni, affettività. «Vedo avanzare un anziano nuovo, inedito, che respinge la rottamazione, si impegna nel volontariato e non vuole essere una risorsa inutilizzata», sostiene Vergani. Eppure c’è anche l’opaca disperazione di chi non vive ma sopravvive tra ricoveri, ospedali, case di cura, anticamera di solitudini e abbandoni, di costi sociali e drammi familiari. C’è un invecchiamento triste, faticoso, drammatico che accusa le distrazioni del welfare e dell’assistenza. «Su questo ha ragione papa Francesco: dobbiamo contrastare la cultura dello scarto, che per gli anziani è un’eutanasia nascosta. Certi beni relazionali non vanno nel Pil, ma rappresentano la nostra umanità».Invecchiare è come essere in un fortino assediato, si perde qualcosa ogni giorno.

Lei, professore, si sente assediato?

«Anche sotto assedio c’è sempre qualcosa da fare. Leggere, studiare, tenere attivo il cervello, fare leva sulle proprie esperienze».Gli anni si contano o si pesano?«La profondità del tempo è più importante della sua durata».Ma la vita più si svuota, più diventa pesante.«Bisogna applicare il suggerimento di James Hillman: arrivati a 50 o 60 anni si deve incominciare un’altra terapia, quella delle idee».

Quando si comincia a diventare vecchi?

«Non c’è un cartello, come in autostrada. La soglia che definisce il passaggio all’eta avanzata è dinamica. A meta del secolo scorso chi aveva 65 anni poteva disporre di altri 13 anni di vita. Oggi 13 anni sono l’aspettativa di vita di un uomo di 75 anni».

Roth diceva: la vecchiaia è un massacro...

«Abbiamo una pletora di strutture e funzioni nell’organismo che ci consente di compensare l’usura e le perdite occasionali e mantenere l’omeostasi, cioè l’equilibrio interiore».

Che significa...

«Solo quando la perdita supera la capacità di compensare, subentra l’invecchiamento. Ci si impoverisce, si diventa fragili, facilmente destabilizzabili...».

Possiamo rallentare questo decadimento?

«Il fenotipo senescente, cioè l’insieme delle caratteristiche osservabili nell’organismo vivente che invecchia, è il risultato dell’azione dei geni e dell’ambiente. L’ambiente non scivola via, è tutto ciò che ci può cambiare come l’esercizio fisico, la dieta, l’abitudine al fumo, l’aria che respiriamo, le sostanze chimiche, compresi i farmaci, a cui siamo esposti».

I sessant’anni sono un’età da ridefinire?

«Alcune statistiche pongono i 60 anni sulla parte avanzata della traiettoria della vita. È un errore: i 60enni oggi sono i giovani vecchi».

Che cosa cambia a settant’anni?

«Si diventa invisibili. Ricordo l’esempio che faceva Valentino Bompiani: in una sala d’aspetto entra una bella ragazza che cerca qualcuno, fa il giro con gli occhi e quando arriva a te non ti vede, ti salta come un paracarro. La vecchiaia comincia allora...».

È una visione un po’ maschile del problema.

«Le stagioni della vita non si possono cancellare. Dopo una certa età ognuno è responsabile della sua faccia, diceva Camus. Le donne lo avvertono prima, ma certe rughe, come ricordava Anna Magnani, hanno il loro fascino».

Poi c’è la boa degli ottant’anni...

«Gli ottantenni rappresentano il segmento di popolazione in più rapida espansione. In meno di trent’anni sono raddoppiati: oggi sono piu di quattro milioni, il 7% della popolazione residente. Molti sono attivi e prestigiosi, carichi di saggezza e responsabilità. Hanno superato l’harvest effect, l’effetto raccolta: i più deboli, i meno dotati, sono gia stati eliminati».

Sembra la difesa d’ufficio della vecchiaia.

«Gli ottantenni hanno in mano la combinazione vincente: geni e ambiente favorevoli. Hanno passato le colonne d’Ercole. Andando avanti negli anni gli orizzonti si aprono, non si chiudono. A cento anni ci sono mediamente ancora quattro anni di vita residua...».

Dei grandi vecchi che ha conosciuto e avuto in cura, che cosa l’ha colpito di più?

«La serenità. Il non rimpianto. Uno stato di intrinseca adeguatezza: ho fatto quello che dovevo e ho potuto fare. È importante essere in armonia con se stessi. In alcuni casi bisogna anche saper dipendere dagli altri. Il cardinale Martini lo riassumeva con queste parole: in età avanzata bisogna imparare a mendicare...».

Suggerimenti pratici per la salute?

«Dobbiamo prevenire o dilazionare l’insorgenza delle malattie croniche, come le malattie cardiovascolari, l’insufficienza respiratoria, il diabete e i disturbi cognitivi con sane abitudini di vita da instaurare fin dall’infanzia».

Com’è il bollettino medico degli anziani?

«In Italia l’80% degli ultrasettantacinquenni presenta una o più malattie croniche e il consiglio dell’Oms è astenersi dal fumo, controllare il peso corporeo, fare esercizio fisico. La foto degli italiani è questa: il 20 per cento fuma a partire dai 14 anni. Uno su dieci è obeso. Uno su tre è in sovrappeso. E il 50 per cento della popolazione non pratica esercizio fisico».

Possiamo dire che la vecchiaia comincia con la perdita di memoria?

«C’e la smemoratezza benigna dell’anziano, il non ricordarsi il nome delle persone e delle cose. Si chiama anomia. E c’è la perdita della memoria immediata che ci consente di mantenere in stand by nel cervello le informazioni utili per procedere oltre con il lavoro. Ma tutto ciò non è patologico».

Quando è il caso di doversi preoccupare?

«Quando affiorano i crateri spenti della memoria. Per esempio davanti alla perdita della memoria semantica: non ricordare il nome dei mesi o la capitale della Francia. O nel caso di perdita della memoria procedurale che ci consente di compiere azioni finalizzate (radersi, infilare la cintura nei pantaloni). O ancora davanti alla perdita della memoria episodica o autobiografica che ci ricorda il vissuto personale, il chi, il dove, il quando della nostra vita».

Così inizia il decadimento cognitivo?

«Piano. C’è un’altra memoria, importante. La memoria del cuore. Il ricordo permane più a lungo quando c’è un coinvolgimento affettivo. Apprendre par coeur dicono i francesi, per imparare a memoria».

C’è l’Alzheimer, che terrorizza tutti.

«L’Alzheimer rappresenta il 60% di tutte le forme di demenza e colpisce il 5% degli ultrasessantacinquenni. In Italia le persone che ne sono affette sono circa 600 mila, ma l’incidenza aumenta in età avanzata».

Azioni di prevenzione possibile?

«È importante lo stimolo intellettivo che sfrutta la plasticità sinaptica, cioè l’aumento dei contatti tra i neuroni nel cervello, e produce la riserva cognitiva».

Innamorarsi aiuta a restare giovani?

«Oggi prevale la patetica aridità del lifting. Eppure soltanto in autunno, scrive Marguerite Yourcenar, si percepisce il vero colore degli alberi. Quando si è avanti negli anni c’è più tempo per amare. E c’è tempo per amare di più».

Cosa significa la parola pensionamento?

«Quando si smette di lavorare, la vita vacilla, il tempo perde il contrappeso, un punto d’appoggio, l’avversario e il limite. Ma oggi vecchiaia e pensionamento non coincidono più: bisogna introdurre elementi di flessibilità nel mondo del lavoro che consentano di anticipare o posticipare il pensionamento».

Riusciremo a sostenere l’onere dell’assistenza agli anziani e il progressivo aumento della durata della vita?

«Il sistema sanitario è ancora troppo orientato sulla malattia acuta, è ospedalocentrico. Questo dilata i costi, mentre l’anziano portatore di malattia cronica ha bisogno di assistenza continuativa, integrata, cioè sociosanitaria, e di una rete di servizi sul territorio».

Ma troppi anziani minano il welfare e il sistema previdenziale.

«Sfatiamo certi luoghi comuni. Un quarto della spesa sanitaria totale è out of pocket, pagata direttamente dal paziente. In Italia ci sono quasi dieci milioni di persone, in gran parte anziane, che per non pagare di tasca propria rinunciano a farmaci e cure. Ma se ne parla poco. Quanto all’Inps, sconta gli eccessi del passato. Un invecchiamento sano avrebbe effetti positivi sui conti dello Stato».

 Qual è la prima paura per l’anziano?

«La perdita dell’autonomia e la solitudine. È importante avere una rete di protezione su cui fare affidamento, in famiglia e fuori».

Come si fa a vivere bene la vecchiaia?

«Dando un senso alla vita, e alle sue stagioni. Bisogna uscire dalla buia palude interiore in cui pare che ogni certezza e ogni speranza si dissolvano. La vecchiaia positiva è quella che investe nelle speranze».

Crede nell’alleanza generazionale?

«Il debito demografico nei confronti delle generazioni future per sostenere gli anziani bisognosi, non autosufficienti, è destinato a salire. Non ha senso una guerra giovani-vecchi. Le soluzioni si trovano insieme. “Il conflitto generazionale che dobbiamo temere di più — ha detto il presidente Mattarella — è quello che nasce dall’esclusione”».

 L’anziano inedito arriverà con l’ingegneria genetica?

«Oggi si parla di enhancement, di uomo aumentato, medicina rigenerativa, potenziamento delle capacita psicofisiche dell’individuo come dice il codice di deontologia medica. È il sogno di Prometeo che nasconde tante insidie...».

Oltre l’uomo?, si domanda Claudio Magris.

«Scrive Magris: “È l’umanesimo, la fede nella centralità dell’uomo che potrebbero vacillare; è l’uomo così come lo conosciamo e il nostro volto che potrebbero venire alterati come nelle metamorfosi del mito antico”. L’anziano nuovo è anche il suo vissuto, il passato che lo segue. L’uomo è più dei suoi 21 mila geni».

·         La memoria del criceto. Le amnesie italiane.

Memoria da criceto: ecco perché è così corta. La Redazione di animalovers.it l'8 Febbraio 2018. Sapete perché si dice “memoria da criceto”? In effetti c’è un fondo di verità. Ecco perché.

I criceti sono dei roditori molto utilizzati come animali da compagnia, oltre che che come cavie da laboratorio. In genere hanno un’indole gentile e docile, anche se sono animali solitari che raramente vanno d’accordo con altri esponenti dello stesso sesso, verso cui possono anche avere comportamenti aggressivi. I criceti sono animali abbastanza intelligenti. Non sono generalmente molto comunicativi, visto che in natura sono molto solitari, ma sono in grado di risolvere semplici problemi, ricordarne le soluzioni se il problema viene riproposto più volte e addirittura riconoscere il proprio nome e memorizzarlo. I criceti hanno una scarsissima memoria a breve termine. Questo significa che tendono a dimenticare rapidamente quello che è appena avvenuto. Riescono ad imparare e ricordare odori, richiami, posizione degli oggetti e molti altri fatti, ma solo dopo che li hanno sperimentati più volte. Il criceto sa bene dove trovare il cibo all’interno della sua gabbietta o come ritrovare l’uscita di un labirinto che ha già trovato più volte. Questo perchè queste azioni sono abitudinarie e quindi non si trovano all’interno della memoria a breve termine. Spostando la posizione degli oggetti all’interno della gabbia, cambiando la posizione dell’acqua o del cibo il criceto si sentirà inizalmente spaesato e nervoso. Questo perchè la sua mappa mentale della gabbia è cambiata e quindi non ritrova gli oggetti al loro solito posto. Sarà sufficiente però un periodo di tempo molto breve perchè il criceto memorizzi la nuova posizione di acqua e cibo e si abitui alla nuova situazione. La memoria a breve termine è una funzione del cervello che è attiva anche nell’uomo. Questa è in grado di memorizzare una piccola quantità di informazioni per un periodo molto breve, che negli esseri umani è di circa 20 secondi. Per tutto il resto, anche per ricordare gli eventi recenti, interviene la memoria a lungo termine, dove vengono salvati gli eventi sia occorsi da poco che più remoti nel tempo. La memoria a breve termine ha una funzione per lo più operativa, tanto da essere chiamata dagli psicologi cognitivi anche memoria di lavoro. Il suo compito è in pratica memorizzare informazioni di cui si ha bisogno subito e devono essere immediatamente accessibili, senza pensarci. Conclusa la loro funzione, queste informazioni vengono eliminate. Il cervello del criceto funziona un po’ allo stesso modo, salvando le informazioni considerate importanti, come la posizione del cibo o l’odore del padrone, e trascurando le altre. Il fatto che la memoria del criceto sia corta non significa affatto che sia un animale stupido o non sia in grado di memorizzare determinate cose, soprattutto dopo un numero sufficiente di ripetizioni. Un criceto è in grado di riconoscere sia le persone che gli altri animali che incontra più di frequente nella sua vita. L’importante è non proiettare mai su un animale, criceto o altro compagno a quattro zampe, il modo di pensare e ragionare degli esseri umani, perchè ogni specie ragiona a proprio modo e ha priorità e obiettivi diversi. Questi condizionano profondamente sia il modo di pensare che di memorizzare le cose.

La memoria del criceto. Viaggio nelle amnesie italiane. Sergio Rizzo. Editore: Feltrinelli. Data di Pubblicazione: settembre 2019.

Descrizione del libro. Nel nostro Paese abbiamo un serio problema: dimenticare tutto e in fretta. “La memoria del criceto” di Sergio Rizzo prende ironicamente in giro il popolo italico e le sue abitudini. “Viaggio nelle amnesie italiane” è il sottotitolo del libro e infatti è proprio un tour nelle memorie e nei luoghi quello che fa Rizzo. Tra ironia e terribile verità, ricordiamo o vediamo per la prima volta gli scempi compiuti nel nostro Paese, gli errori giudiziari e politici, le leggerezze, le promesse urlate al vento e mai mantenute. La storia italiana la vediamo allora per quella che è: un ripetersi di errori e di alterne vicende, sempre le stesse che in qualche modo reiterano atteggiamenti e gravi conseguenze. Nel nostro Paese tutto sembra essere già successo perché è accaduto veramente cinquanta o cent’anni prima. Dall’Unità d’Italia alla Lega dei nostri giorni si era già discusso di un Paese unico o di una moneta unica. Ora quello che possiamo fare è cercare di non ripetere gli stessi errori ancora una volta, senza aver imparato nulla, proprio come i criceti in gabbia che semplicemente dimenticano i meccanismi precedenti. E poi c’è il territorio che dovremmo proteggere, ma che, invece, viene continuamente maltrattato, usurpato e ad ogni scossa di terremoto ci si meraviglia se crollano case o si perdono vite. La storia del potere in Italia è molto frastagliata e imponente, ma, soprattutto talmente ripetitiva da sembrare un film che viene riavvolto. “La memoria del criceto” descrive questo meccanismo e lo fa ridendo di se stesso.

La memoria del criceto.  

DESCRIZIONE. Non è vero che i criceti sono poco intelligenti. Il loro problema è un altro: hanno una pessima memoria. Se uno stimolo non viene ripetuto moltissime volte, se ne dimenticano. Ma non sono i soli: questo problema lo hanno anche interi Paesi. Paesi come l’Italia. Da più di un secolo diciamo di voler combattere la corruzione, ma non riconosciamo le sue radici e creiamo leggi che la incentivano. Per non parlare delle grandi opere: dalle Autostrade alla Tav, ci lamentiamo che non si riescono a costruire o a completare. Però facciamo di tutto perché finisca sempre così. O della guerra ai privilegi del Palazzo: un ritornello che ci accompagna da decenni. Senza che la guerra si riesca mai a vincere. La storia del potere e delle sue appendici si ripete sempre uguale a se stessa. Sergio Rizzo ci presenta un catalogo esilarante e al tempo stesso desolante di vicende e lotte che appartengono al nostro passato e si ripetono tragicamente oggi senza soluzione di continuità. Così scopriamo la catena italiana di intrecci ricorrenti, di tira e molla e di leggi rimandate, approvate, blindate e poi mai veramente applicate. Una galleria di storie sotterranee che denuncia l’eterna ripetizione delle promesse e delle menzogne con cui siamo stati felicemente ingannati e continuiamo a ingannare noi stessi. Dalla privatizzazione della Rai al salvataggio dell’Alitalia, sino alla lotta alla burocrazia: in Italia tutto ci è sempre già stato promesso dalla politica. Solo che lo abbiamo dimenticato, e così continuiamo a ripetere sempre gli stessi errori. A chi conviene un’Italia senza memoria?

CONOSCI L’AUTORE. Sergio Rizzo. Sergio Rizzo è vicedirettore di “Repubblica”. È stato inviato e editorialista del “Corriere della Sera”, dopo aver lavorato a “Milano Finanza”, al “Mondo” e al “Giornale”. Tra i suoi libri: Rapaci, La cricca e Razza stracciona. Con Gian Antonio Stella ha scritto La Casta, La Deriva, Vandali, Licenziare i padreterni e Se muore il Sud (Feltrinelli, 2013). Sempre da Feltrinelli ha pubblicato Da qui all’eternità. L’Italia dei privilegi a vita (2014), Il facilitatore (2015), La repubblica dei brocchi (2016), Il pacco. Indagine sul grande imbroglio delle banche italiane (2018), 02.02.2020. La notte che uscimmo dall’euro (2018) e La memoria del criceto. Storie da un paese che dimentica (2019).

·         Le code ed il richiamo del mare.

Le code ed il richiamo del mare. Riflessioni su cosa ci spinga ogni estate a metterci in fila in autostrada (senza passare per stupidi). Davide Rondoni il 24 giugno 2019 su Panorama. La fila è continua da Bologna fino a Rimini, quasi ferma. E viene da ben prima, Parma, forse su da Milano... Primo sabato mattina dopo la chiusura delle scuole. Percorro l'autostrada di lato, in moto, a filo sulla corsia di emergenza. Ho un appuntamento di lavoro in una località della costa romagnola e come sempre in questa stagione vado in scooter. Le altre tre corsie sono murate. Come è ovvio. Eppure anche se è ovvio, o almeno altamente probabile, e annunciato, e prevedibile, eccoli in migliaia, sfidando ogni logica, semiparalizzati nel caldo crescente in un serpentone quasi immobile, luccicante sotto i primi soli feroci. Impiegheranno ore, alcuni cinque sei otto ore, per arrivare a una spiaggia. Mossi da una specie di ipnotico richiamo, di magia, di folle calamita. Anche se viene da pensare: sono tutti matti, è ovvio che ci sarebbe stata fila, si poteva anticipare, o posticipare un po' o scaglionare le partenze. E invece no. Eccoli, sono tutti scemi ? No, non lo penso, mentre superando da destra le tre file e sbirciando dentro vedo bizzarre famigliole, ragazzi buttati sui sedili a chattare, impettiti pensionati in vestiti eleganti, e signore accaldate coi mariti. Beh, una domanda te la fai... Ma "misero e nudo trionfi l'umano" scriveva la migliore poetessa italiana del dopoguerra, Giovanna Sicari. E questo verso mi accompagna ogni volta che le persone mi sorprendono per una insondabile, spaventosa o grottesca ricerca della gioia o almeno dello stare meglio. Anche in modi abominevoli. Come tutti noi. Vera gloria. Come il cacciarsi in fila per ore sull'autostrada con testarda caparbietà. Ma sì, ci dev'essere un richiamo irresistibile, un magnete formidabile. È lui, il mare. Quel verdeazzurro (ok anche grigiastro in certe zone) maledetto benedetto magnete che orienta questi cuori assurdamente viandanti. Ognuno avrà mille motivi, certo, che so: mollare i bambini alla suocera, o cercare un po' di pensieri leggeri, o abbronzarsi o cercare un colpo di vita, però tutto là, al mare. Al suo cospetto, alla riva delle sue onde e dei suoi silenzi. Siamo disposti a fare viaggi assurdi che non faremmo se non per pochissimi altri motivi al mondo, e lo si fa per arrivare da lui, al mare. Per arrivare dove qualcosa di immenso ci parla. Mettetela come volete, ma ci sono solo due possibilità: o sono tutti matti e rincoglioniti questi finiti in fila perché era ovvio che c'era la fila, oppure come un popolo in "esodo" ( strano termine biblico applicato infatti alle code estive) cerca di uscire dalla schiavitù, va irrefrenabile, come antichi camminatori tra foreste e deserti, verso una specie di fonte della vita. Li attrae una strana creatura gigantesca e imprendibile. Le sue onde, lo sfumare lontano, il fondersi a volte col cielo, il sentimento di abisso, il timore...Queste cose sono certo in fondo al cuore di costoro che brutalmente, grottescamente, inspiegabilmente si fiondano (ma a passo d'uomo) verso le coste. Il fascino prepotente e pur misterioso del mare si mescola con odore di abbronzanti, pesce, vino bianco e luci stroboscopiche e pizzerie. Ma c'è, e batte in fondo, come un secondo cuore. O meglio come un segreto abisso misterioso al centro del cuore. 

·         Gli impegnati.

Quirinale, Mattarella premia 32 cittadini che si sono distinti per l'impegno nella società. Il presidente conferisce per la quinta volta i riconoscimenti al merito della Repubblica agli "eroi del quotidiano". La Repubblica il 20 dicembre 2019. Eroi del quotidiano, ovvero cittadine e cittadini che si sono distinti per l'impegno nella solidarietà, nel soccorso, nella cooperazione internazionale, nella tutela dei minori, nella promozione della cultura e della legalità, per le attività in favore della coesione sociale, dell'integrazione, della ricerca e della tutela dell'ambiente o per atti di eroismo. Anche quest'anno, è la quinta volta che accade, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha deciso di conferire, motu proprio, trentadue onorificenze al Merito della Repubblica Italiana a persone, tra i tanti esempi presenti nella società civile e nelle istituzioni, che si sono segnalate come casi significativi di impegno civile, di dedizione al bene comune e di testimonianza dei valori repubblicani. L'annuncio è stato dato da una nota del Quirinale che ha quindi diffuso l'elenco dei premiati.

Alessandra Rosa Albertini, 68 anni (Pavia), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per la esemplare generosità con cui ha sostenuto, in prima persona, la ricerca scientifica ribadendo il suo strategico valore per il futuro del nostro Paese". Biologa genetista, ha lavorato all'Università per 40 anni e da gennaio 2019 è in pensione. Dal 2012 è stata direttrice del dipartimento di Biologia e Biotecnologie allo "Spallanzani" di Pavia, dove era entrata nel 1970 con un assegno di addestramento scolastico e scientifico. Nel febbraio 2019, ha donato all'Università 250mila euro da utilizzare per cofinanziare le posizioni di ricercatori a tempo determinato, junior, e di assegnisti di ricerca.

Gaetano Angeletti, 76 anni (Corridonia-MC), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo quotidiano impegno nel sostegno alle famiglie con problemi di disagio giovanile e nel contrasto alla tossicodipendenza". Pensionato, già titolare della tipografia Taf srl e presidente dell'Associazione "La Rondinella" di Corridonia. Nel 2005 il figlio Manolo, di 30 anni, muore per un'overdose di cocaina. Questa tragedia è alla base del suo impegno, insieme alla moglie Gabriella, per la fondazione e promozione dell'Associazione "La Rondinella". La Onlus ha l'obiettivo di sostenere le famiglie con problemi di disagio giovanile legato alla dipendenza da droghe. Nel 2016, a causa del terremoto, la sede dell'Associazione è stata ritenuta inagibile ma le attività di aiuto alle famiglie sono proseguite nella sua tipografia.

Pompeo Barbieri, 25 anni (San Giuliano di Puglia - CB), Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo encomiabile esempio di reazione alle avversità e di impegno sociale". Il 31 ottobre 2002, giorno del crollo della scuola "F. Jovine" di San Giuliano di Puglia, frequentava la classe terza elementare. Estratto vivo dalle macerie è stato ricoverato per gravi danni da schiacciamento e gli è stata riscontrata la lesione del midollo che lo costringe su una sedia a rotelle. Nel 2013, insieme ad altri sopravvissuti di quel tragico crollo, ha fondato l'Associazione di volontariato "Pietre Vive" che "nasce dal desiderio di gratitudine per il dono della vita perchè ciò che ci era stato regalato potesse diventare un dono per gli altri". Tramite l'Associazione finanzia progetti di grande rilevanza sociale in Italia e all'estero. Grazie alle terapie riabilitative in piscina ha scoperto la passione per lo sport diventando campione di nuoto paralimpico. Il 4 marzo 2019 ha vinto due medaglie d'oro nei 50 metri e 100 metri stile libero ai Campionati assoluti invernali nuoto paralimpico.

Suor Gabriella Bottani, 55 anni (Milano), Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per la totale dedizione con cui da anni è impegnata nella prevenzione, sensibilizzazione e contrasto alla tratta degli esseri umani". Suora comboniana, per anni in missione in Brasile, è la coordinatrice di "Talitha Kum", una rete internazionale contro la tratta di esseri umani di iniziativa dell'Unione Internazionale delle Superiore Generali. Talitha Khum opera in 77 Paesi, con oltre duemila suore impegnate in prima linea per realizzare attività di contrasto ai trafficanti, per lavorare nel recupero e reinserimento, anche sociale e lavorativo, delle vittime.

Christian Bracich, 44 anni (Trieste), Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo esemplare contributo nella promozione di politiche aziendali fondate sulla conciliazione tra vita professionale e familiare e sulla tutela del valore della persona anche nel mondo del lavoro". Amministratore Unico della Cpi-Eng, azienda triestina di ingegneria e progettazione meccanica con circa 40 dipendenti. Christian nel 2005 ha dato vita alla Cpi-Eng Srl con l'idea che "per crescere bisogna innovare, investire in nuove idee e proporre servizi innovativi". Nell'aprile 2018 ha trasformato un contratto a tempo determinato di una dipendente  in attesa di un figlio in uno a tempo indeterminato con un aumento di stipendio. L'azienda si distingue per una attenta politica di conciliazione. In assenza di un nido, ha stabilito un accordo con una associazione culturale triestina che cura uno spazio di coworking con educatrici dedicate ai bambini. Bracich considera il welfare una importante leva strategica aziendale e il dipendente una risorsa da formare e valorizzare.

Romolo Carletti (noto come Romano), 84 anni (Montemignaio - FI), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per lo straordinario esempio di generosità e solidarietà che lo ha visto ogni giorno accompagnare a scuola un bambino non vedente altrimenti impossibilitato a frequentarla". Pensionato. Vive in una zona montana, nella piccola frazione della Consuma, nel comune di Montemignaio. Tutte le mattine accompagna e riprende da scuola Xhafer, un bambino macedone di 7 anni, non vedente dalla nascita che vive con la famiglia in una casa vicina. Il padre di Xhafer lavora come taglialegna e già dall'alba è nei boschi, la madre non ha la patente. Lo scuolabus non è utilizzabile senza una specifica assistenza che al momento non è stato ancora possibile predisporre. La scuola è a Pelago, e per Romano sono 60 km al giorno di curve e tornanti tra gli abeti.

Elisabetta Cipollone, 57 anni (Milano), Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo encomiabile impegno, in memoria del figlio Andrea, per garantire l'accesso all'acqua potabile in Paesi disagiati". Nel 2011 ha perso il figlio Andrea, di 15 anni, in un incidente stradale. In sua memoria ha dato vita ad un progetto volto a raccogliere fondi per realizzare pozzi di acqua potabile in Etiopia. L'idea è nata dai disegni di Andrea, da bambino, dedicati al tema dell'acqua. Quando, dopo la morte del ragazzo, entrò in contatto con i salesiani impegnati in Etiopia con il Volontariato internazionale per lo sviluppo (VIS), Elisabetta decise che avrebbe aperto "Un pozzo per Andrea" (da cui ha preso nome il progetto). Dall'inizio del progetto sono stati aperti 24 pozzi e altri sono in cantiere.

Maria Coletti, 50 anni (Roma), Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per l'appassionato e coinvolgente contributo a favore di una politica di pacifica convivenza e piena integrazione" Rappresentante dell'Associazione "Pisacane 0-11", formata da genitori dei bimbi che frequentano la scuola dell'infanzia e primaria Carlo Pisacane, nel quartiere di Torpignattara di Roma, uno degli istituti italiani con il maggior numero di studenti "stranieri" (molti dei quali sono nati in Italia). L'Associazione è nata nel 2013 dalla necessità di supportare la scuola con progetti e attività aperti anche al territorio, alla comunità del quartiere. I volontari dell'associazione, nell'ambito del doposcuola autogestito, si impegnano soprattutto nel supportare nell'apprendimento dell'italiano e nell'aiutare con i compiti i bambini con genitori stranieri che non parlano bene la nostra lingua.

Giovanna Covati, 58 anni (Piacenza), Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per lo straordinario coraggio e altruismo con cui, senza esitazione, ha protetto, con il proprio corpo, una bambina dal violento impatto con un trattore fuori controllo". Nell'agosto 2018, nella località Le Rocche, sulle colline di Bobbio (Piacenza), in occasione della vendemmia, un trattore fuori controllo, senza alcun conducente, sbanda in un vigneto. Giovanna Covati si trovava nel vigneto, vicino a lei c'era una bambina, Caterina. Quando il trattore si avvicina, Giovanna si butta d'istinto su Caterina facendole da scudo mentre il trattore le investe. Caterina si salva mentre Giovanna subisce fratture e lesioni da schiacciamento. In prognosi riservata giunge all'ospedale di Parma, reparto rianimazione. Dopo 50 giorni è cominciata la riabilitazione.

Samba Diagne, 52 anni (Senegalese) Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo prezioso contributo in soccorso di un caporalmaggiore dell'esercito italiano aggredito con delle forbici e ferito dall'attentatore a Milano". Giunto in Italia quasi 30 anni fa. Dopo aver svolto diversi lavori, da circa 4 anni è occupato come addetto alla sicurezza in alcuni negozi milanesi. Padre di cinque figli. Nel settembre 2019 è intervenuto in soccorso del caporalmaggiore dell'Esercito Matteo Toia, aggredito con delle forbici e ferito da Mohamad Fathe in Piazza Duca d'Aosta a Milano. Mentre l'aggressore cercava di darsi alla fuga, Samba è riuscito a fermarlo e disarmarlo. L'aggressore è stato poi arrestato.

Giuseppe Distefano, 70 anni (Riposto - CT), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per la sua dedizione e il suo encomiabile impegno nella divulgazione e promozione della cultura del dono degli organi". Pensionato, già dirigente scolastico in Istituti superiori del vicentino. Trenta anni fa, a seguito di un incidente stradale, ha perso il figlio di 15 anni, Luigi. Insieme a sua moglie decisero di acconsentire all'espianto degli organi. Da allora si è impegnato nell'Associazione Italiana per la Donazione di Organi (Aido), anche in qualità di referente regionale. Organizza incontri nelle scuole con lo scopo di sensibilizzare i giovani sul valore della vita e sulla "cultura del dono".

Emanuela Evangelista, 51 anni, Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo costante impegno, in ambito internazionale, nella difesa ambientale, nella tutela delle popolazioni indigene e nel contrasto alla deforestazione". Biologa, è Presidente di Amazonia Onlus e Vicepresidente dell'Associazione Trentino Insieme. In Amazzonia dal 2000, anno in cui scrisse la sua tesi di laurea, vi si è trasferita nel 2013. Vive in un villaggio della tribù dei Caboclos, regione dello Xixuaù nel cuore della foresta, nello stato brasiliano di Roraima. E' impegnata in progetti di cooperazione volti a favorire la conservazione della foresta e il contrasto all'esodo dei nativi. Il suo contributo è stato determinante per la costruzione della scuola e dell'ambulatorio.

Marco Giazzi, 26 anni (Castiglione delle Stiviere - MN), Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo esempio e l'ammirevole contributo nell'affermazione dei valori della correttezza sportiva e della sana competizione nel mondo dello sport". Rappresentante dell'Associazione Sportiva Dilettantistica Alto mantovano e allenatore della squadra "Amico Basket" di Carpenedolo, della categoria Under 13. Durante una partita in casa contro la squadra Negrini Quistello, in seguito a proteste e insulti dei genitori della squadra avversaria nei confronti dell'arbitro (di soli 14 anni), ha chiamato il time out chiedendo ai genitori di smettere di protestare. Non avendo ottenuto i risultati sperati ha ritirato i propri ragazzi nonostante il vantaggio di 10 punti. Ha spiegato "non hanno perso i ragazzi in campo ma il basket, lo sport".

Dino Impagliazzo, 89 anni (Roma), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per la sua preziosa opera di distribuzione di pasti caldi e beni di prima necessità ai senzatetto presenti in alcune stazioni ferroviarie romane". Ex dirigente INPS in pensione. A Roma è conosciuto come "lo Chef dei poveri". Ha cominciato molti anni fa preparando dei panini per i senzatetto della stazione Tuscolana di Roma. La portata del suo impegno sociale è cresciuta, grazie all'aiuto di familiari, vicini e parrocchie, finchè nel 2006 ha fondato l'Associazione (che dal 2015 si chiama Romamor) che riunisce circa 300 volontari e garantisce pasti per oltre 250 persone al giorno grazie a prodotti alimentari invenduti o in prossima scadenza, che riceve gratuitamente da negozi, supermercati o dalla grande distribuzione.

Claudio Latino, 59 anni (Aosta), Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per lo straordinario impegno e la dedizione ai valori del volontariato in favore delle persone in condizioni di disagio". Lavora presso la Direzione regionale Valle d'Aosta di Trenitalia. Da sempre impegnato nel sociale: dal 2016 al 2017 è stato segretario nazionale dell'Aido (Associazione italiana per la donazione di organi); dal 2017 è Presidente del CSV (Centro di Servizio per il Volontariato) della Valle d'Aosta. CSV è un'Associazione che riunisce 88 tra le 161 organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale attive in Valle d'Aosta.

Donato Matassino, 85 anni (Ariano Irpino-AV), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo generoso contributo per il sostegno al diritto allo studio per i bambini nei Paesi svantaggiati e per la promozione della ricerca scientifica in Italia" Già Professore ordinario di Zootecnica dell'Università "Federico II" di Napoli. E' fondatore e Presidente del Consorzio per la Sperimentazione, Divulgazione e Applicazione di Biotecniche Innovative (ConSDABI). Dal 2007, sempre con fondi propri, finanzia premi per giovani laureati e dottori di ricerca. Ha erogato 140mila euro all'Accademia dei Georgofili e 40 mila euro alla Associazione scientifica di Produzione Animale (ASPA) per il riconoscimento di premi annui.

Stefano Morelli, 42 anni (Roma) Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il prezioso contributo che offre in ambito internazionale operando gratuitamente bambini affetti da labiopalatoschisi, ustioni e traumi di guerra". Laureato in medicina e specializzato in anestesia e rianimazione. Assunto all'ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma come cardio-anestesista pediatrico, ha iniziato contemporaneamente a coordinare le attività Anestesiologiche e di Rianimazione della ONG Emergenza Sorrisi, operando gratuitamente bambini affetti da labiopalatoschisi, ustioni e traumi di guerra. Da dodici anni organizza missioni in: Africa, Medio Oriente, Europa dell'Est, Sud Est Asiatico, Sud America e America Centrale. Nel corso di queste missioni svolge anche attività di formazione ai medici ed infermieri locali.

Alfredo Murgo, 52 anni (L'Aquila), Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo contributo, quale libraio, nella tenuta della coesione sociale della comunità aquilana duramente colpita dai terremoti del 2009 e del 2016". Titolare della libreria "Il Cercalibro" de L'Aquila. E' stato il Coordinatore regionale di una distribuzione gratuita di libri per 1.500 studenti in stato di difficoltà nelle aree colpite dal terremoto del Centro Italia. L'iniziativa, che è nata da un accordo tra editori, Associazione librai italiani e Ministero dell'Istruzione, ha voluto riconoscere il ruolo fondamentale delle librerie sul territorio come punto di riferimento per una comunità.

Greta Reinberg Mastragostino, 89 anni (Genova), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per portare avanti con passione e dedizione il servizio dell'associazione, fondata dal marito, Silvano Mastragostino, impegnata nel recupero chirurgico-ortopedico di bambini ed adolescenti in due missioni del Kenya". Presidente dell'Associazione Silvano Mastragostino, già Genova Ortopedia per l'Africa (G.O.A), fondata nel 1996 dal marito, Silvano Mastragostino, all'epoca Primario della 2  divisione di Ortopedia e Traumatologia dell'Istituto Pediatrico Giannina Gaslini di Genova.

Mauro Pelaschier, 70 anni (Monfalcone - GO), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo autorevole contributo nella sensibilizzazione al rispetto e alla tutela degli ecosistemi marini". Tra i nomi più noti della vela italiana, già timoniere (1983) di Azzurra, la prima barca italiana in America's Cup. Il 29 giugno 2018 ha compiuto il periplo d'Italia a vela come ambasciatore della Fondazione One Ocean per testimoniare il rispetto degli ecosistemi marini e diffondere la Charta Smeralda, un codice etico di comportamenti virtuosi per la conservazione dell'ambiente marino. E' testimonial Telethon.

Giacomo Perini, 23 anni (Roma), Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per la sua straordinaria testimonianza in prima persona della forza e delle difficoltà proprie dei pazienti oncologici". Atleta paralimpico, è il rappresentante legale dell'Associazione Cresos. Dal primo giorno di ospedale, ha cominciato a scrivere un libro, dal titolo "Gli anni più belli", edito dall'Associazione italiana medicina da cui è nato anche un docufilm. Ha realizzato uno spettacolo teatrale "I fuori sede" che dà voce ai malati di cancro e testimonia il dolore ma anche la forza e l'energia necessarie per affrontare la malattia. Nonostante la malattia lo abbia costretto ad abbandonare l'equitazione, sua grande passione, non ha abbandonato l'attività sportiva ed oggi fa parte della Nazionale paralimpica di canottaggio. Lavora al Coni presso la Federazione Triathlon, settore paralimpico, gira per le scuole per parlare ai ragazzi della propria esperienza e portare loro un messaggio di speranza e resilienza.

Angelo Pessina, 57 anni e Francesco Defendi, 55 anni (Bergamo), Ufficiali dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il coraggio e l'altruismo con cui, a proprio rischio, sono intervenuti in soccorso dei passeggeri del velivolo privato che, nel settembre 2019, in provincia di Bergamo, è precipitato al suolo, prendendo fuoco". Nel settembre 2019, Pessina, già ispettore della Polizia di Stato e Defendi, già dipendente di una società di costruzioni metalliche, hanno visto davanti all'Aeroclub Taramelli il velivolo privato Mooney M-20, appena precipitato al suolo. Nonostante le fiamme e il fumo intenso, hanno aperto le portiere e tirato fuori il pilota, Stefano Mecca, e le figlie Chiara e Silvia. Purtroppo, a seguito delle deflagrazioni, non sono riusciti ad estrarre la terza figlia, Marzia, che, incastrata tra le lamiere, già non dava segni di vita. A seguito delle ferite riportare, il 28 ottobre scorso, è deceduto anche il Signor Stefano Mecca.

Massimo Pieraccini, 56 anni (Firenze), Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo encomiabile contributo, la cura e la costanza con cui da anni è impegnato nelle delicate attività di trasporto urgente connesse a donazione e trapianto di organi". Dal 1993 è il rappresentante legale del Nucleo Operativo di Protezione Civile di Firenze (NOPC), Associazione di volontariato, da lui stesso fondata, che presta servizi in relazione al trasporto urgente di medici per prelievi d'organo, campioni per tipizzazioni tissutali, plasma, midollo osseo e altri materiali biologici e sanitari, nonchè farmaci salvavita e pazienti trapiantandi. E' un "angelo dei trapianti". Nell'ottobre 2018 il NOPC ha raggiunto il traguardo delle 10mila vite salvate in 25 anni di attività. 

Giuseppe Pistolato, 93 anni (Venezia), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per l'impegno profuso, nel corso della sua vita, nella promozione del valore della solidarietà". Pensionato e vedovo, è conosciuto come "Bepi", il diacono operaio. Ha lavorato per 40 anni nel cantiere navale Breda di Porto Marghera, prima come ribattitore e poi come carpentiere. Nel 2018, dopo 21 anni, ha concluso il suo servizio di carità nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore. Nella diocesi veneziana, è il primo diacono permanente ad essere entrato in una struttura penitenziaria. Ogni giorno, per venti anni, ha dedicato due ore del suo tempo ai detenuti all'interno del carcere.

Paolo Pocobelli, 48 anni (Milano), Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per la forte testimonianza offerta e l'instancabile contributo alla rimozione dei limiti e alla promozione di una politica di pari opportunità per le persone con disabilità rispetto alle attività di volo". Appassionato di volo, a 22 anni di età, durante un lancio con il paracadute, ha subito un incidente che lo ha costretto su una sedia a rotelle. Nonostante la disabilità, non ha mai rinunciato al sogno di volare: è stato il primo paraplegico in Italia ad ottenere tutte le licenze di volo (sportiva, privata e commerciale) e, nel 1993, ha fondato l'Associazione "Ali per tutti" per permettere ai portatori di handicap di prendere il brevetto per guidare velivoli ultraleggeri o di aviazione generale con piccole modifiche strutturali.

Tiziana Ronzio, 49 anni (Roma), Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per l'impegno e lo spirito di iniziativa con cui si dedica alla riqualificazione strutturale e sociale del quartiere di Tor Bella Monaca a Roma". Operatrice sanitaria, abita nel quartiere di Tor Bella Monaca, a Roma, in una delle torri dell'Ater di 15 piani di Viale Santa Rita da Cascia, per anni uno spazio utilizzato dagli spacciatori. Nel 2015 ha fondato l'Associazione "Tor più Bella" con cui ha realizzato iniziative per riqualificare, dal punto di vista strutturale ma anche sociale, la torre - attraverso piccoli interventi di manutenzione, lavori di giardinaggio, realizzazione di murales nell'androne - e rendere più vivibile e sicuro il quartiere. Grazie all'aiuto del quartiere sono state avviate attività a favore degli anziani e di recupero dell'ambiente circostante come la bonifica di viale dell'Archeologia. Per questa sua attività Tiziana Ronzio è stata più volte minacciata e aggredita.

Rosalba Rotondo, 61 anni (Scampia - NA), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per la sua totale dedizione alla formazione delle giovani generazioni all'insegna della tutela del diritto allo studio e della piena inclusione delle minoranze". Preside dell'Istituto comprensivo di Scampia Ilaria Alpi - Carlo Levi che, tra elementari e medie, conta oltre 250 ragazzi Rom. In un territorio difficile, Rotondo è in prima linea nel contrasto alla devianza giovanile e nella fattiva costruzione di un percorso di reale inclusione sociale. La scuola è conosciuta per la sua esperienza di piani etno-didattici ed educativi per gli studenti Rom. E' stata anche riconosciuta dalla Comunità europea e dal Consiglio d'Europa quale sede di una "Legal Clinic JustRom", servizio legale volto a tutelare la popolazione Rom, ed in particolare le donne, in un'ottica di antidiscriminazione razziale.

Carlo Santucci, 34 anni (Roma), Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per l'altruismo e l'impegno profuso nel delicato intervento di primo soccorso che, nell'agosto 2019, ha permesso di salvare la vita a una donna in arresto cardiaco su un treno austriaco diretto a Dobbiaco". Medico chirurgo precario. Per molti anni ha lavorato nelle ambulanze e al momento è insegnante di primo soccorso. In vacanza in montagna, il 27 agosto scorso, mentre era in treno è intervenuto, su richiesta dei passeggeri, in soccorso di una donna in arresto cardiaco. In mancanza di un defibrillatore sul treno, ha praticato il massaggio cardiaco tenendola in vita per quaranta minuti, finchè non è arrivato l'elisoccorso austriaco che l'ha trasportata in ospedale.

Mons. Filippo Tucci, 90 anni (Roma), Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per aver dedicato tutta la sua vita all'accoglienza e all'inclusione delle persone in condizioni di disagio e di abbandono". Fino al maggio 2019 Primicerio dell'Arciconfraternita di San Rocco all'Augusteo e Rettore della Chiesa di San Rocco. La parrocchia è da mezzo secolo un punto di riferimento per i poveri del centro storico. Le persone assistite sono per lo più senza fissa dimora. L'intervento nei loro confronti si concretizza in assistenza spirituale, sanitaria (inclusa la donazione di farmaci di prima necessità), refezione, docce e servizi igienici, donazione di biancheria nuova, indumenti, coperte.

Angel Micael Vargas Fernandez, 20 anni (Casalmaiocco - LO), Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il suo coraggioso intervento in soccorso di un bambino di 4 anni che stava precipitando da un balcone di un edificio". Padre argentino e madre peruviana, di cittadinanza argentina e da 12 anni in Italia. Di giorno lavora in una stazione di servizio di Casalmaiocco nel Lodigiano, la sera studia informatica ai corsi serali dell'istituto Alessandro Volta di Lodi. Nel settembre scorso ha salvato la vita a un bambino di 4 anni che stava precipitando dal secondo piano di un palazzo sul piazzale davanti alla stazione di servizio. Corso sotto al balcone, è salito sul tetto di un furgone lì posteggiato e proprio mentre il bambino cadeva si è buttato riuscendo a prenderlo al volo. Entrambi sono finiti sull'asfalto ma Angel con il proprio corpo ha attutito la caduta del bambino.

Riccardo Zaccaro, 22 anni (Roma), Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: "Per il coraggio e l'altruismo con cui, a proprio rischio, è intervenuto in soccorso di una coppia di anziani rimasti intrappolati dalle fiamme". Studente alla facoltà di Architettura all'Università La Sapienza. Soprannominato dai giornali "l'eroe seriale": a 22 anni ha già salvato la vita a tre persone, un suicida e due anziani dal rogo della loro casa. Il primo evento risale a due anni fa quando Riccardo ha soccorso un ragazzo che minacciava di gettarsi dal cavalcavia dell'autostrada A1. E' stato tra i primi ad arrampicarsi e a cercare di fermarlo, riuscendoci. Il secondo evento risale invece al maggio scorso: in via Alfredo Fusco, nel quartiere Balduina, a Roma, ha salvato dalle fiamme due anziani rimasti intrappolati nell'appartamento situato al piano inferiore al suo.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Italia, terra di scandali dimenticati.

Italia, terra di scandali dimenticati. Jacopo Ventura il 13 luglio 2019 su metropolitanmagazine.it. Dalla Prima Repubblica ad oggi, la lista degli scandali politici “made in Italy” non ha mai smesso di arricchirsi di nuovi casi degni di nota e di vergogna. Nel frattempo, la memoria degli italiani diventava sempre più fragile. L’Italia ha smesso ormai da tempo di essere un “paese”, se lo si analizza nella sua accezione puramente politica. Gli scandali di cui i nostri governanti si sono particolarmente resi protagonisti dal 1948 (anno in cui venne proclamata la nascita della Prima Repubblica) ad oggi, uniti alla conclamata capacità del circo mediatico di gonfiare come un palloncino l’episodio più ridicolo al punto da farlo sembrare una mongolfiera, ha reso ogni quotidiano appuntamento con la notizia quanto di più simile a quello di un fanatico con la propria serie televisiva. E in questo senso, non fa eccezione alcuna lo scoop delle ultime ore rimbalzato su ogni angolo del web ad opera della società BuzzFeed, nel quale vengono segnalati legami sospetti tra il Ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, e il presidente russo, Vladimir Putin. Per essere più precisi, ad essere pubblicata è stata la registrazione della presunta conversazione telefonica avvenuta tra l’ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini (nonché presidente dell’Associazione Lombardia-Russia) alla presenza di altri 5 connazionali e 6 dell’entourage del Cremlino presso l’Hotel Metropol di Mosca. In ballo, un accordo per l’importazione di petrolio russo in Italia, attraverso un meccanismo che sembrerebbe coinvolgere direttamente anche l’Eni: un affare da 65 milioni che finirebbero nelle casse della Lega. Tra scetticismo, aggiornamenti buoni solo per il clickbaiting, video dirette al limite del penoso, minacce di querele e inchieste aperte dalla magistratura, ciò che è possibile veramente constatare dietro le facce dei cittadini italiani (nascosti o meno dietro il ruggito o il miagolio dei commenti social) è la vecchia, tradizionale espressione da “menefreghismo fisiologico”. E, a dimostralo, è ancora una volta la “memoria a breve termine” che ci contraddistingue in relazione ai vecchi, prestigiosi scandali politici che hanno caratterizzato il nostro Paese nelle scorse decadi, con conseguenze (in certi casi) a dir poco ignobili.

Dallo “Scandalo Tabacchi” a Tangentopoli…

Bisogna portare indietro le lancette fino al 1965, per provare a fare i conti con quello che probabilmente è stato il primo clamoroso caso di corruzione che ha destato l’attenzione dell’opinione pubblica. Parliamo dello scandalo che coinvolse l’ex ministro delle Finanze democristiano, Giuseppe Trabucchi, in merito ai finanziamenti illeciti ai partiti. Nello specifico, Trabucchi venne accusato all’epoca di aver accordato licenze mai giustificate per favorire l’importazione di tabacchi a due società di proprietà di un ex deputato (anch’esso della DC), in cambio di denaro.Contrabbando, abuso di potere, interessi privati: tutte accuse dalle quali Trabucchi venne assolto dalla Commissione Parlamentare, per salvare la credibilità dell’intero sistema politico.

Bastano appena 10 anni per spostare i riflettori su un nuovo scandalo, che stavolta vede implicati politici e dirigenti italiani ed americani (oltre che di altri paesi come Germania Ovest, Paesi Bassi e Giappone): si tratta del caso Lockheed, “passato alla storia” per l’incarcerazione del socialdemocratico Marco Tanassi (ex Ministro della Difesa, il primo in assoluto ad essere condannato per corruzione). Forti somme di denaro, infatti, venivano dispensate all’epoca dall’azienda americana Lockheed Corporation (costruttrice di aerei “Hercules C-130”) per favorire i partiti notoriamente di destra (in particolare la DC), in cambio dell’esclusività sugli acquisti aviatori.

Ma è sicuramente il 1992 a segnare la crisi più nera del sistema democratico italiano, a causa dello scandalo Tangentopoli. L’accusa di concussione e il conseguente arresto dell’ingegnere ed esponente del PSI, Mario Chiesa, porta allo scoperto un gigantesco giro di corruzione per miliardi delle vecchie lire in tangenti, per lo più basati sulla vincita di appalti pubblici previo pagamento ai politici (che potevano così finanziare in maniera occulta i propri partiti). Sostanzialmente, gli imprenditori coinvolti pagavano la “mazzetta” attraverso il peggioramento dei prodotti e l’aumento dei prezzi, dando modo così all’intero sistema di consolidarsi al punto tale che ogni partito aveva un cassiere che regolava il flusso di queste entrate illecite. 25400 avvisi di garanzia, 4525 arresti, 3200 richieste di rinvio a giudizio, 1254 condanne, 910 assoluzioni, un debito pubblico che girava intorno ai 250000 miliardi di lire: questi i numeri che di fatto segnarono la fine della Prima Repubblica, con la conseguente scomparsa dei grandi partiti di massa come DC e PSI e l’ascesa di nuove realtà come Forza Italia, Lega Nord e Alleanza Nazionale.

Rapporti diretti con la Mafia (fino allo scandalo Dell’Utri condannato per i passaggi di bustarelle a Cosa Nostra dal 1974 al 1992), compravendita di senatori (per far cadere il secondo governo Prodi, nel 2008), il “Processo Mediaset” (una frode fiscale fruttata ben 280 milioni di euro), il caso BNL-Unipol (per il reato di rivelazione del segreto d’ufficio a seguito dell’intercettazione Consorte-Fassino) , il processo SME, l’accusa di frode fiscale per 100 miliardi e violazione della Legge antitrust spagnola, il caso Ruby. E, naturalmente, tutte le “leggi ad personam” studiate appositamente per scampare ai processi (dalla Legge Tremonti del 1994 fino a quella per il Legittimo Impedimento del 2010, passando per la legge-delega per Falso in Bilancio del 2002, il Lodo Maccanico-Schifani del 2003, l’Indulto del 2006). Sicuramente, il primo posto sul “podio degli impuniti” va all’ex Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che con il suo talento imprenditoriale e il suo potere mediatico è riuscito non solo a fare dell’Italia una gigantesca azienda da spremere fino all’osso (favorendo quella nel 2008 è stata di fatto definita come una delle più gravi “crisi economiche” della storia del Paese, finanziaria e industriale), ma anche della corruzione, dentro e fuori dai tribunali, il biglietto da visita ufficiale dell’intero Stivale. In molti infatti, dal piccolo al grande imprenditore, hanno assimilato e fatta propria la lezione del vecchio Cavaliere, imperniata sulla logica del “guadagno ad ogni costo”, senza etica, rispetto e morale. E gli effetti sono tutt’ora visibili, dato che ogni azione rimasta impunita e atto politico sporco sono riusciti a minare profondamente la fiducia nella magistratura italiana, la salute della cultura (con tassi di ignoranza e analfabetismo tra i più alti in Europa), la libertà stessa di pensiero e parola (basti pensare all’ “Editto bulgaro” del 2002 e alle sue ripercussioni, oltre che sulle figure di Santoro, Biagi e Luttazzi, sull’intera stampa giornalistica), la credibilità dell’intera democrazia più di quanto già non fosse. Ma di tutto questo, se chiedete in giro, qualcuno si ricorderà soltanto degli show nei talk televisivi, delle barzellette, della fama di “gran puttaniere”, delle corna durante il vertice dei ministri degli Esteri europei del 2002. Forse perché ai danni che ora ci tocca sopportare e porre rimedio, in realtà, non interessa a nessuno (o nessuno li vuole vedere, che è la stessa cosa).

…fino a Mafia Capitale ed Expo 2015.

E arriviamo, quindi, a considerare i tempi più recenti, dove il dato più allarmante risulta essere l’incremento continuo del coinvolgimento in queste reti della criminalità organizzata. Si faccia riferimento, fra i casi più noti e preoccupanti di tangenti e corruzione contemporanei, all’Expo di Milano, Mafia Capitale e il caso Mose. Nella prima inchiesta, è il nome di Primo Greganti a risaltare fra tutti gli imputati, tra i vari ex plenipotenziario della Dc lombarda Gianstefano Frigerio, l’ex senatore Pdl Luigi Grillo, il direttore della pianificazione acquisti di Expo, Angelo Paris, l’imprenditore Enrico Maltauro, il direttore generale delle Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni, e l’intermediario genovese Sergio Catozzo. Storico tesoriere del Pci e del Pds già finito in carcere nel 1993 in seguito alla vicenda di “Mani Pulite”, è stato infatti nuovamente arrestato con l’intento di portare alla luce una volta per tutte i rapporti tra la “cupola” e i politici di centrosinistra.

Nel secondo caso, è Roma a fare da sfondo alla vicenda più “suonata” dall’orchestra politica italiana, dove il personaggio di spicco risulta l’ex ras delle cooperative rosse, Salvatore Buzzi. Insieme ai vari Massimo Carminati (ex terrorista di estrema destra dei Nar ed ex membro della Banda della Magliana), Gianni Alemanno (ex sindaco, accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso), i consiglieri regionali Eugenio Patanè (dem) e Luca Gramazio (Forza Italia), l’assessore alla casa Daniele Ozzimo (Pd) e un altro centinaio di indagati, è finito sotto accusa (e quindi in stato di arresto) alla fine del 2014 con l’accusa di essere il principale responsabile del traffico illecito di denaro ottenuto attraverso lo sfruttamento dei centri d’accoglienza per l’emergenza immigrati, con una mole di profitti, stando agli inquirenti, paragonabili a quelli ottenuti col traffico di stupefacenti (se non maggiore, come si evince dalle intercettazioni).

A “chiudere il cerchio” (per così dire) della lista degli scandali politici italiani più o meno caduti nel dimenticatoio è lo “Scandalo Mose”, famoso per i milioni di tangenti e fondi neri ottenuti dall’ex presidente del Veneto già ministro della Cultura, Giancarlo Galan, e l’ex sindaco del Pd, Giorgio Orsoni. Dopo 1 anno e 4 mesi di processo, 70 mila pagine di faldoni d’inchiesta, 32 udienze dibattimentali (e 11 preliminari) e 102 deposizioni da parte di alcuni testimoni, sono state a malapena 4 le sentenze di condanna emesse dal Tribunale, assolvendo di fatto dall’accusa di finanziamento illecito ai partiti Orsoni. A finire in carcere per il cosidetto “business delle bonifiche”, invece, sono stati rispettivamente l’imprenditore veneziano Nicola Falconi, l’avvocato Corrado Crialese, l’ex ministro Altero Matteoli ed Erasmo Cinque dell’impresa Socostramo.

La domanda, alla fine della fiera, che verrebbe più o meno spontaneamente da porsi è “dopo tutto quello che è successo in passato, com’è possibile che l’Italia non abbia ancora imparato dai propri errori?”. E le risposte potrebbero essere molteplici, ma per comodità mi limiterò ad una semplice, ma comunque essenziale, osservazione personale: gli italiani sono vittime di quella “cultura malata” che hanno contribuito a diffondere nello momento stesso in cui il singolo opportunismo (manifesto tipico della maggior parte dei partiti politici e dei suoi leader) ha cominciato a trasformarsi in un’eventualità molto più concreta di qualsiasi ideale comunitario. Con la conseguenza di esserci fatti ridurre a spettatori di una fiction tragicomica della quale, piuttosto che cambiare la sceneggiatura, aspettiamo semplicemente la prossima puntata. Jacopo Ventura

Dai rubli a Lucano. Alessandro Bertirotti il 15 luglio 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… interessi non universali. Mentre si cercano i rubli di Mosca, si scoprono gli euro italiani, destinati a gestire l’immigrazione in Calabria. Come al solito, tutto il mondo è paese, e anche noi, che non desideriamo essere secondi a nessuno, specialmente nelle cose peggiori, continuiamo a dimostrare quanto significativi siano i soldi. Ossia, sarebbe meglio dire il potere. È ovvio che la faccenda della corruzione internazionale, di cui è accusato il signore esponente della Lega della prima ora, come ha dichiarato Maroni, durante un’intervista televisiva, il certo Sig. Savoini, ha una dimensione che supera i confini della nostra nazione. Sono d’accordo in effetti con Paolo Guzzanti, quando afferma che Donald Trump ha tutto l’interesse a portare dalla sua la Gran Bretagna, stimolando una destabilizzazione dell’Unione Europea (con la Brexit), contro la Russia e la Cina. Ed ogni comportamento italiano che vada invece nella direzione di accogliere proposte commerciali russe e cinesi deve essere in qualche modo fermato. Ecco che allora spunta, proprio dagli States, questa serie di intercettazioni. E come abbiamo fatto per far fuori Berlusconi? È intervenuta la magistratura, e quindi, anche in questo caso, si ripete il solito copione. Vedremo come va a finire, ma è chiaramente sotto gli occhi di tutti ciò che ho appena scritto. Vi sono però varie correnti all’interno della magistratura italiana, e, dico io, per nostra certa fortuna. In effetti, ora si scopre che i soldi destinati alla immigrazione, per far alloggiare poveri esseri umani, abbandonati ad arte nel Mar Mediterraneo, sono destinati, all’interno del meraviglioso modello di accoglienza cosiddetto “lucano“, all’accoglienza di amicissimi attori italiani, insieme alla loro troupe. In effetti, i nostri attori possono essere considerati semi-nomadi, passando da una rete all’altra e da una produzione milionaria all’altra. E, quando si accingono a interpretare una nuova fiction che non andrà mai in onda, la loro azione mentale deve essere supportata da alloggi adeguati.

Bene, perché ricordo a tutti noi queste due faccende?

Perché, secondo me, fanno tutte parte di un disegno internazionale funzionale a destabilizzare la nostra nazione e quindi l’Europa. In effetti, che l’Europa sia già rovinata, grazie a se stessa, è ormai evidente. Ma quando accadono cose di questo genere, è bene per alcuni rivoltare con maggiore determinazione la lama nella ferita. E la comunità internazionale, interessata a stritolare l’Europa (della Merkel e di Macron) sta facendo proprio questo, specialmente gli States nei confronti dell’oriente. In questo scenario, inoltre, cosa c’è di meglio che minare la base delle strutture istituzionali del nostro Paese? Quindi, ecco che escono i casi della indagine nei confronti di Palamara, la bufera sul CSM, la scoperta improvvisa della corruzione in università (come non lo sapessimo da decenni…), il caso di Bibbiano in Emilia, il Papa al servizio di non si sa cosa, ed ora l’ulteriore inchiesta in Calabria, con il suo “modello Lucano”. Chi sa perché tutto insieme, eh? Quindi, si tratta di una destabilizzazione etico-morale specialmente del popolo italiano, il quale, in queste condizioni, si sta sempre più rendendo conto che da qualsiasi parte volga il proprio sguardo trova solo del marcio. Non c’è altra soluzione che rivolgersi ad un commissariamento esterno. È esattamente questo ciò che evidentemente si vuole. Perché? Molto probabilmente, per farci comprendere che nessuno dei nostri politici è adatto a guidare una nazione che non ha più il minimo polso della situazione in sé stessa. Alcuni politici di questa nostra penisola sembra persino abbiamo problemi con l’identità nazionale, ammesso che si sia mai avuta una nostra identità. E non è un caso che alcuni altissimi vertici istituzionali siano sprofondati in un assordante silenzio. Vi sono altri che smanettano, al posto loro.

·         I pirati della strada.

Chi di noi paga le multe? Antonella Boralevi il 29/06/2019 su La Stampa. A leggerli distrattamente, sembrano i soliti numeri lamentosi dei Comuni italiani. Due anni fa, nel 2017, aspettavano dalle multe inflitte agli automobilisti, 2,6 miliardi di euro. Invece, ne hanno incassati solo 1. Ormai, chi le paga, le multe? Se non le paghi, prima devi essere scoperto. Poi sanzionato. More, interessi. Ma nel frattempo arriva di sicuro la rottamazione delle cartelle esattoriali . E così le more e gli interessi li risparmi. In Sicilia pagano in 2 su 10. Nel Nord-Est in 6 su 10. La media fa 4 su 10. È interessante, io credo, il tema delle multe non pagate da chi le subisce. Dieci anni fa, pagava la multa, entro i 60 giorni di legge, il 60% dei cittadini. Una ragione ci sarà. I dati che vi ho citato sono ufficiali. Arrivano dal Cgia, il Centro Studi degli Artigiani di Mestre. Il numero dei cittadini rispettosi della legge, con i decimali, è 40,8%. La multa stradale in genere è una seccatura. Anche perché, spesso, ci viene comminata da una persona in carne e ossa, con la divisa da vigile urbano e quindi entra in gioco anche la dinamica dei rapporti umani. «Lei non sa chi sono io!», «Concilia?». Come nei film di Totò. Ma se solo in 4 su 10 riconosciamo di avere sbagliato e scegliamo di pagare il nostro debito con lo Stato, forse bisogna farsi una domanda diversa. Sgradevole. Necessaria, io credo. Quanti di noi credono, ancora o finalmente, nella legge? E nel patto sociale che fonda lo Stato sulle regole condivise? Quanti (ancora) sono convinti che lo Stato sia capace di farcela rispettare?

Sei automobilisti su 10 non pagano le multe. La Cgia analizza i dati Istat: incassato solo un miliardo su 2,6. Gettito +68% in 10 anni. Rita Bartolomei il 30 giugno 2019 su Quotidiano.net. Sei automobilisti su dieci nel 2017 - ultimo dato disponibile - non hanno pagato le multe dei vigili urbani. Le percentuali erano invertite solo dieci anni fa, quando l’importo delle contravvenzioni era più basso di quasi il 70%. L’ufficio studi della Cgia di Mestre elabora i dati Istat di gennaio e ricorda: i Comuni hanno incassato appena 1 miliardo su 2,6. Anche se, per completezza, bisogna mettere in conto l’ipotesi della rottamazione. Le cartelle esattoriali, com’è noto, si estinguono dopo cinque anni, se l’amministrazione non promuove azioni per riscuotere. Ma il coordinatore della Cgia, Paolo Zabeo, è certo: "Sono aumentati morosi e gettito, anche per la diffusione capillare di velox, che alla fine diventano vere e proprie tagliole". La mappa d’Italia è molto diversificata: nei Comuni del sud la riscossione si ferma al 32%; nel Nordest quasi raddoppia, sfiorando il 59%; scende al 33% al Centro e si avvicina al 46% nel Nordovest. Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta e Basilicata sono tra le amministrazioni più virtuose, tutte sopra il 60%. Il picco negativo in Sicilia, chi paga supera di poco il 20%. Però su queste statistiche Anci è prudente. "Migliaia di persone - osserva il comandante Luigi Altamura – hanno chiesto la rottamazione. Non solo: spesso si spedisce la lettera pre-ruolo, un invito a pagare prima della cartella esattoriale, che di solito arriva entro un anno e mezzo-due. Anche se certe amministrazioni sono messe così male che rischiano di inviarla a 5 anni dall’accertamento, quando scatta la perenzione". Resta il tasto dolente spesso ripetuto: velox come bancomat. "Gli apparecchi fissi vengono installati solo dopo un decreto prefettizio - protesta Altamura –. Contano incidenti stradali e tipo di strada. Insomma, ci devono essere motivazioni precise". Sull'aumento del gettito, infine, il dirigente Anci avvisa: "Sempre più comuni attivano le zone a traffico limitato, quelle sì che producono moltissime sanzioni". Eppure nelle statistiche mondiali risultiamo tra i paesi con il più alto numero di velox... "Sono appena tornato dalla Francia, ho trovato impianti ogni tre chilometri - ribatte Altamura, che è anche comandante della polizia locale a Verona –. E continuo a notificare ai cittadini del mio comune verbali di postazioni svizzere, tedesche e francesi". Resta un ultimo mistero da chiarire: come vengono spesi i soldi delle multe? Sono pochi i sindaci che oggi lo comunicano a Roma. Perché scatti quell’obbligo, serve un decreto attuativo. Lo stesso che garantirà "un uso corretto degli autovelox". L’ha promesso il ministro Toninelli. Era il 20 marzo, alla Camera.

Lascia il finestrino dell’auto aperto, multato per “istigazione al furto”. Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Alberto Pinna su Corriere.it. «Istigazione al furto» per aver dimenticato il finestrino dell’auto aperto in un parcheggio. Incredulo, un turista in vacanza ad Alghero ha pensato a uno scherzo quando ha trovato sul parabrezza il tagliando con la multa: 41 euro per aver violato l’articolo 158 del Codice della strada. La conferma che era tutto vero l’ha avuta al comando della polizia locale, dove - cortesi ma irremovibili - gli hanno mostrato il testo che al comma 4 recita: «Durante la sosta e la fermata il conducente deve adottare tutte le opportune cautele atte a evitare incidenti e a impedire l’uso del veicolo senza il suo consenso». Il turista è Renato Ricci, 76 anni. Nato a Sassari, vive da 60 anni a Torino (dove è emigrato quando ne aveva 17 in cerca di lavoro). È in pensione, ha acquistato una casetta ad Alghero, torna ogni anno in Sardegna per le ferie. Alto, corporatura massiccia, è allibito: «Mai vista una cosa simile!». Era ad Alghero da qualche giorno con la compagna e il suo cane. Mercoledì sera ha parcheggiato il suo Suv in via Kennedy, non lontano dall’appartamento che ha affittato nel centro storico. La sorpresa l’indomani mattina, quando ha portato il cane, un grosso spinone, a spasso. È entrato in un negozio vicino: «Possibile?», ha chiesto. Altri commercianti hanno confermato: «Mai vista una cosa simile». Paolo è andato via fra l’irritato e il rassegnato: «Non posso credersi… assurdo». La zona intorno a via Kennedy è tranquilla, rarissimi sono i furti, spesso accade che turisti parcheggino l’auto per fare shopping e lascino i finestrini aperti. Che si ricordi, mai una multa. Ma il vigile che ha erogato la sanzione non ha commesso un abuso, il codice – precisa un avvocato esperto in normative della strada - è chiaro. L’onere di scoraggiare eventuali malintenzionati ricade sul proprietario dell’auto (o sul conducente), che deve provvedere a compiere ciò che è necessario per evitare incidenti e l’utilizzo del veicolo senza il suo consenso e, naturalmente, impedire che vengano commessi reati (nel caso specifico il furto dell’auto o di oggetti e documenti presenti a bordo). L’eccesso di zelo del vigile (probabilmente uno stagionale) e l’interpretazione del Codice della strada hanno scatenato commenti e discussioni da spiaggia. «E se invece di un Suv il turista avesse avuto una spider?». «E se il finestrino fosse stato aperto a metà?» «E se per il caldo uno dovesse lasciare aperta la finestra di un appartamento al piano terra?». Indignati molti commercianti: «Alghero è una città turistica, d’estate raddoppia i residenti, ospita più di 30 mila villeggianti», ha protestato il gestore di un ristorante. «Vigilare d’accordo, ma possibile che si sia così rigidi?».

Alghero, multato perché lascia finestrino aperto: "Un invito ai ladri". Lo stupore del turista: applicato articolo del codice che regola lo stato del veicolo in sosta. La polizia municipale: "Agito su segnalazione di un passante. Non è la prima volta, fatto anche verbali per auto lasciate aperte". Monia Melis il 28 giugno 2019 su La Repubblica. L'estate è la stagione giusta per conoscere meglio il Codice della strada. Questa la magra consolazione di un turista che ad Alghero, secondo quanto riporta La Nuova Sardegna, ha trovato sul suo Suv un contrassegno con una multa di 42 euro. Il motivo? Niente sosta selvaggia entro le linee blu per residenti, o limiti del centro storico. Il parcheggio non c'entra. L'incauto automobilista aveva lasciato aperto il finestrino. Una distrazione che certo gli sarebbe potuta costare ben più cara, se a notare la cosa non fosse stato un passante. Quello spiraglio d'aria è passato inosservato ai potenziali malintenzionati, ma non a una persona che ha avvisato la polizia municipale. Agli agenti non è rimasto che applicare un articolo ben noto agli addetti ai lavori: il numero 158 del Codice della strada che regola la sosta, o meglio lo stato del veicolo in sosta. In particolare è il comma 4 a dettare prudenza e stabilire la responsabilità per evitare che qualcuno compia reati su o con l'auto. "Durante la sosta e la fermata – si legge - il conducente deve adottare le opportune cautele atte a evitare incidenti ed impedire l'uso del veicolo senza il suo consenso". Attenzione quindi al freno a mano, ma anche alla chiusura di portiere e, appunto, finestrini. Da qui la sanzione tra l'incredulità del diretto interessato e dai residenti locali consultati. A metà mattina negli uffici della polizia municipale sono tutti impegnati: solito via vai estivo in una cittadina turistica di mare. In pochi hanno letto i giornali locali ed è caccia – vana - all'autore del verbale, si rimbalzano le chiamate tra colleghi impegnati anche all'aeroporto Riviera del corallo. Poco stupore, però: "Quell'articolo esiste anche per evitare che vengano fatti atti vandalici. Non sarebbe di certo la prima volta ad essere applicato". Soprattutto d'estate, quando il traffico aumenta per la presenza dei villeggianti. Anzi, il vigile centralinista aggiunge dettagli sulla vasta casistica: "C'è chi lo conosce bene l'articolo sullo stato del mezzo in sosta. Addirittura tempo fa siamo stati rimproverati da un utente perché non abbiamo fatto il verbale per un'auto lasciata aperta". Un esempio estremo di gara di zelo in punta di codice.

«Il 16% degli automobilisti fugge se tampona e non viene visto». Pubblicato domenica, 23 giugno 2019 su Corriere.it. Un antico adagio recita «italiani brava gente» ma alzi la mano chi, dopo aver parcheggiato la propria auto, non l’ha mai ritrovata senza un graffio. Secondo un’indagine — condotta dal portale di comparazione assicurativa Facile.it e che il Corriere ha potuto visionare prima della sua pubblicazione — sono 1,3 milioni (il 16% del totale) i guidatori del nostro Paese che fuggono senza lasciare i propri dati, se nessuno li vede danneggiare un veicolo. A tagliare la corda, cercando di farla franca, sono per la maggior parte gli uomini mentre le donne si dimostrano notevolmente più oneste e, fra di loro, appena l’ 8,5 per cento ha dichiarato di essere andata via senza alla chetichella. Nella fascia d’età fra i 25 ed i 34 anni c’è la maggior percentuale di «furbetti» (31%), seguita da quella compresa fra i 45 ed i 54 anni (21,5%). Invece, la più «onesta» è quella fra i 65 ed i 74 anni (8,8%) per cento degli intervistati e, degna di nota, c’è quella fra i 18 ed i 24 anni (12,5%) con buona pace degli stereotipi sui neopatentati. A livello geografico, invece, gli Speedy Gonzales dell’innesto della prima e della conseguente sgasata si trovano nel Centro (18,8%), al Sud e nelle Isole (18,5%). Fra tutte, le «scuse» — perché proprio di motivazioni non si può trattare — quella più utilizzata è la convinzione di aver causato un danno minimo, seguita dalla paura di dover rifondere un danno economicamente troppo alto per le proprie tasche. Terzo e quarto posto per due giustificazioni sono da campionato mondiale «faccia da bronzo»: nessuno mi ha visto o, anche, perché «tanto nessuno lascia mai bigliettini». Una versione che manderà in bestia chi poi è costretto a rivolgersi al carrozziere e pagare al posto del «pirata» della strada.

Tamponamento auto in sosta: ogni anno 1,3 milioni scappano dopo il danno. Sotto accusa il sistema Bonus Malus e le tante franchigie: si vanifica in parte l'obbligatorietà dell'RcAuto. Vincenzo Borgomeo il 24 giugno 2019 su La Repubblica. I numeri parlano chiaro: 1 automobilista su 6 scappa dopo aver tamponato un'auto in sosta. Parliamo di 1,3 milioni di automobilisti l'anno che non si assumono la responsabilità e - approfittando dell’assenza del proprietario del veicolo danneggiato - si danno alla fuga. L'analisi arriva da uno studio realizzato per Facile.it da mUp Research e Norstat su un campione di 1220 persone rappresentativo della popolazione adulta con età compresa tra i 18 ed i 74 anni e svela come il malcostume sia talmente diffuso da meritare una riflessione in tema di RcAuto. Già perché numeri così importanti sono la prova che il sistema Bonus Malus, portato all'esasperazione come è oggi per ottenere il massimo risparmio, non funziona: carica l'automobilista di un'enorme responsabilità per evitare incidenti. Stesso discorso per le franchigie sulle polizze che scattano come mannaie in caso il cliente incappi in un sinistro. Con questo non si vuole giustificare chi provoca un danno e fugge via, per carità, ma è chiaro che con questi balzelli post-incidente si mina lo spirito della legge sull'obbligatorietà dell'RcAuto, introdotta in Italia nel 1959, che puntava proprio a dare "tranquillità" alla circolazione stradale, con la certezza che tutti i danni sarebbero stati pagati. Ma - a proposito di assicurazioni, c'è anche dell'altro: in caso di veicolo danneggiato da ignoti l’RC auto non rimborsa, ma anche la garanzia contro gli atti vandalici potrebbe non essere sufficiente. Torniamo allo studio di mUp Research e Norstat: a “scappare” cercando di farla franca sono soprattutto gli uomini (tra di loro lo ha fatto il 21,3%), mentre le donne si dimostrano notevolmente più oneste e, nel campione femminile, appena l’8,5% di chi ha fatto un danno se ne va senza lasciare al danneggiato i dati per essere ricontattata. "Considerando invece le fasce d’età - spiegano i ricercatoti - la maggior percentuale di “furbetti” (31%) si incontra in quella fra i 25 ed i 34 anni. Di contro, gli automobilisti più corretti sembrano essere coloro che hanno tra i 65 ed i 74 anni; fra loro si dà alla fuga solo l’8,8% degli intervistati che dichiarano di avere danneggiato un veicolo in assenza del proprietario. A livello geografico, le aree dove si sono registrate le percentuali maggiori di automobilisti che, in questa situazione, hanno ingranato la prima e se ne sono andati via di corsa sono il Centro ed il Meridione. In Centro Italia hanno dichiarato di averlo fatto il 18,8% del campione; appena meno (18,5%) al Sud e nelle Isole". I ricercatori sono anche andati ad analizzare il fenomeno più in generale, scoprendo che sono circa 7,7 milioni gli automobilisti italiani ai quali è capitato almeno una volta di danneggiare un veicolo terzo in sosta in assenza del relativo proprietario, vale a di dire il 17,7% dei titolari di patente. I problemi, invece, nascono nel momento in cui il responsabile del danno scappa senza lasciare i propri recapiti e in assenza di testimoni. "È bene sapere che questo genere di danni non sono coperti dalla polizza RC auto obbligatoria – spiega Diego Palano, responsabile assicurazioni di Facile.it - ma richiedono una copertura aggiuntiva opzionale; quello contro gli Atti vandalici. Attenzione però perché la garanzia contro gli Atti vandalici non copre tutte le tipologie di danno subito; ci sono alcune componenti dell’automobile, ad esempio il parabrezza, i finestrini e il lunotto posteriore, che richiedono un’ulteriore coperture aggiuntiva, in assenza della quale il danno causato da terzi non verrà rimborsato".

·         I Topi d’appartamento.

TUTTO QUELLO CHE C’E’ DA SAPERE SUI TOPI D’APPARTAMENTO. Domenico Affinito e Milena Gabanelli per Il Corriere.it il 27 giugno 2019. Le famiglie italiane che hanno avuto la sfortuna di ricevere la visita di un topo d’appartamento nel 2017 sono state lo 0,755%: 195.824. Il furto in casa è uno dei reati più odiosi ed è tra quelli che fanno reclamare a gran voce maggiore sicurezza. Ma tra l’emotività e la realtà ci sono i numeri: i furti in casa sono in calo costante dal 2014, meno 8,5% negli ultimi due anni, meno 23,5% fra il 2014 e il 2017. Merito di allarmi, inferriate e porte blindate, ma anche dell’attività di prevenzione delle forze dell’ordine che, da qualche anno a questa parte, hanno nella statistica una valida alleata. L’analisi di dati e flussi si tramuta in prevenzione e, quindi, in minore incidenza dei reati. E così la percentuale delle famiglie che hanno ricevuto una «visita» è scesa dallo 0,991% del 2014 allo 0,755% del 2017. A dirlo i dati consolidati del ministero degli Interni.

Le regioni più colpite. Scorrendo i dati si nota subito che quello del furto in casa è un fenomeno concentrato principalmente al Nord: Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Toscana le Regioni più colpite. Sicilia, Sardegna e Calabria quelle più «tranquille». La capitale italiana dei furti è Pisa con 789 casi nel 2017 (l’1,7% delle famiglie), seguita da Modena (1,6%). Le realtà più tranquille Cosenza (0,1%) e Nuoro (0,05%). Per le grandi realtà metropolitane meglio Roma (0,5% delle famiglie) di Milano (0,96%).

Le «abitudini» dei topi d’appartamento. I ladri adottano comportamenti diversi a seconda della città in cui operano. A Verona, dove l’incidenza dei furti è sotto la media nazionale, si ruba più nelle zone periferiche popolate che in centro: Borgo Trento, Borgo Roma e Borgo Milano le zone più colpite. Venerdì e sabato, dalle 14 alle 20, il periodo preferito. A Torino, dove l’incidenza dei furti è superiore del 18% rispetto alla media nazionale, i mesi più caldi sono marzo, luglio, agosto e dicembre. A settembre, invece, i ladri sono ancora in vacanza. Venerdì e sabato i giorni preferiti, mentre è la domenica il giorno con meno furti. I quartieri più colpiti sono il centro, Barriera di Milano, San Donato e il Lungo Po. A Milano, 28esima città d’Italia per furti in appartamento con un’incidenza di quasi il 30% superiore alla media nazionale, i topi di appartamento entrano in azione il pomeriggio tra le 16 e le 20 con il 23,63% dei furti e la notte dalle 24 alle 8 con il 25,66%. Negli anni le abitudini dei ladri meneghini non sono cambiate di molto: anche nel 2012 agivano soprattutto tra le 15 e le 21, ma si aggiungeva come fascia prediletta quella delle 9/12. È cambiata, invece, la mappa delle zone più colpite: nel 2012 erano Città Studi, Buenos Aires e XXII Marzo. Oggi è uscita XXII marzo e sono entrate Lambrate e Forlanini. È variata anche la distribuzione nei mesi. Sette anni fa gli episodi si concentravano soprattutto nei mesi invernali, con il picco a dicembre. Oggi è il contrario, da gennaio a luglio la media è costante con circa il 10% dei casi. Poi cala e dicembre è il mese più tranquillo dell’anno. A Milano, dove lo studio analitico dei furti è più avanzato, si hanno anche i dati sulle modalità. Nel 7% dei casi l’accesso dei ladri è avvenuto senza effrazione: i milanesi si sono semplicemente dimenticati la porta aperta. Nel 20% sono entrati dalla finestra, e nel 67% dalla porta d’ingresso forzata. Il piano più colpito non è quello a livello strada o rialzato (15,71%), ma il primo, con il 21,7% dei casi. Il secondo piano concentra invece il 13,11% delle «visite».

Le tecniche più usate. L’effrazione della porta d’ingresso avviene con danno, nei casi di porta non blindata, ed è il campo d’azione di nomadi, romeni e italiani. Ma i veri professionisti sono i serraturieri moldavi, albanesi e georgiani che riescono a entrare superando quasi qualsiasi serratura senza lasciare traccia. Lo fanno con la tecnica del «lock picking» per le serrature a doppia mappa (bloccando il meccanismo con un tensore e inserendo la cosiddetta chiave bulgara, una chiave «morbida» che prende la forma interna della serratura), o con la nuova tecnica del «key bumping» per le serrature più moderne (usando un chiave passepartout limata che viene inserita nella serratura e picchiettata con il martello).  In entrambi i casi si tratta di un «lavoro» di pochi minuti. I sudamericani, più piccoli e leggeri, preferiscono invece arrampicarsi lungo le facciate ed entrare dalla finestra o dal balcone. C’è poi una nicchia di ladri italiani specializzati nell’apertura delle serrature elettroniche e nella disattivazione di allarmi. Questi ultimi, però, prendono di mira soprattutto gli esercizi commerciali e le abitazioni di prestigio.

Da dove arrivano i ladri. A livello nazionale negli ultimi tre anni è aumentata la percentuale di ladri italiani. Stando ai dati del Viminale, tra denunce a piede libero e arresti, i nostri connazionali sono passati dal 45% del 2015 al 52% del 2017. Seguono albanesi, romeni, georgiani, marocchini, serbi, montenegrini e croati. Quello dei furti in appartamento sembra, comunque, essere un fenomeno ad appannaggio dei delinquenti europei: nel 2017 il 62,4% di quelli denunciati o arrestati proveniva di Paesi dell’Unione Europea. Dato confermato da Milano, l’unica ad aver fornito la specifica informazione a Dataroom, dove nel 2018 i comunitari arrestati sono stati il 61% e quelli indagati il 65%. Seguiti da georgiani, albanesi e cileni.

Lo studio dei dati porta risultati (Milano). Il monitoraggio e l’analisi dei dati serve ad arginare e a prevenire. A Milano hanno iniziato nel 2012, e in 6 anni il calo dei furti in casa è stato del 22,55%. A Verona in un solo anno, dal 2017 al 2018, è stato di oltre il 22% (da 990 a 770) e a Torino, nello stesso periodo, è stato dell’11,12% (da 3.958 a 3.518). E tutto questo senza che ci fosse la nuova legittima difesa. Va detto che anche i ladri hanno cambiato «organizzazione». Quello solitario è sempre più raro, mentre crescono le squadre di ladri e questo agevola il lavoro degli investigatori, perché quando ne hai catturato uno, hai più facilmente sgominato l’intera banda.

·         Test del portafoglio.

Test del portafoglio, l’Italia lo passa per un soffio. Nel mondo, la maggior parte delle persone che trova un borsellino zeppo di banconote farebbe di tutto per riconsegnarlo al legittimo proprietario. Nel nostro Paese solo una persona su due. Valentina Dardari, Venerdì 21/06/2019 su Il Giornale. Un esperimento sociale conosciuto come il test del portafoglio, avrebbe dimostrato che il mondo non è abitato solo da delinquenti. Molte persone che trovano per terra un borsellino cercherebbero infatti in tutti i modi di farlo riavere a chi lo ha smarrito. L’Italia non è proprio andata benissimo. Nel nostro Paese infatti solo un italiano su due riconsegnerebbe quanto trovato. Il test è stato condotto in 355 città appartenenti a 40 Paesi diversi, tra i quali appunto anche l’Italia. L’esperimento è stato condotto da alcuni ricercatori dell’Università di Zurigo e di quelle americane di Utah e Michigan. I risultati sono poi stati pubblicati sulla rivista scientifica Science. Gli studiosi hanno seminato portafogli più o meno zeppi di banconote in strade, musei, sale d’aspetto, e hanno registrato, attraverso delle telecamere, le reazioni dei passanti. Contro tutti i malpensanti esistenti, un gran numero di persone ha fatto di tutto per riuscire a essere utile e a ritrovare il legittimo proprietario. E più il borsellino conteneva soldi, maggiormente veniva restituito. Dei portafogli vuoti è stato infatti restituito il 40%, contro il 51% di quelli che contenevano pochi contanti. Dato degno di noto è quello riguardante i portafogli più carichi di denaro, il 72% di questi è stato riconsegnato al proprio padrone. Che poi gli onesti lo facciano per paura di passare da ladri o proprio perché altruisti non si può sapere con esattezza. Come ha spiegato Nicola Bellè, esperto di scienze comportamentali applicate al management della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, “Questo è uno studio illuminante sui meccanismi complessi che guidano il nostro comportamento. I risultati ci dimostrano che sebbene la violazione di una regola etica comporti un vantaggio materiale, come il guadagno di una somma di denaro, d'altra parte determina anche un costo personale che non sempre siamo disposti a pagare, cioè la distruzione dell'immagine che abbiamo di noi stessi come di persone oneste”. I più onesti in assoluto sono risultati gli svizzeri, ben l’80% ha restituito portafoglio e contenuto. I peggiori invece sono risultati i cinesi, dove solo il 20% ha rinunciato ai soldi, riconsegnandoli. L’Italia non è propriamente un Paese di persone onestissime. O meglio, il test ha dimostrato che solo una persona su due, circa il 50%, riconsegnerebbe quanto trovato casualmente, così come la Grecia e il Cile. Secondo la ricerca poi, posti che dovrebbero essere assolutamente onesti, come per esempio le zone intorno al Vaticano, sono stati tra i peggiori.

L'OCCASIONE NON FA L'UOMO LADRO. Alessandro Fulloni per Corriere.it il 22 giugno 2019. «Vorresti restituire questo portafogli perduto?». Sorpresa: in un caso su due (con il borsellino visibilmente zeppo di contante) la risposta è stata quella del sì. A dimostrazione che non sempre l’occasione fa l’uomo ladro. Lo sostiene una ricerca mondiale — un serissimo test sull’onestà i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science— riguardante i portafogli smarriti e restituiti con il loro contenuto intatto. Si tratta di un mega esperimento sociale condotto — a metà tra rigore scientifico e passo da candid camera — in 355 città di quaranta Paesi, Italia compresa, da un team dell’Università di Zurigo e da quelle americane dello Utah e del Michigan. Camuffati da anonimi passanti, per 17.303 volte i ricercatori sono entrati in banche, teatri, musei, uffici postali, hotel e stazioni di polizia, per consegnare alla velocità della luce un portafoglio, dicendo di averlo trovato casualmente per strada e chiedendo di restituirlo al proprietario di cui erano presenti alcuni documenti personali, una lista della spesa e a volte dei contanti di valore variabile. «Non posso farlo io perché vado di corsa: ci pensi lei a restituirlo», è stata la giustificazione ripetuta costantemente davanti a poliziotti, commessi, impiegati che si sono visti lasciare in mano il borsellino. A questo punto il ricercatore spariva. Ma l’esperimento prendeva inizio: i risultati rivelano evidenti differenze tra Paesi, in ciascuno dei quali sono stati «persi» in media 400 portafogli: gli svizzeri e gli scandinavi sono risultati i più onesti. In «maglia nera» ci sono Cina, Marocco, Perù e Kazakistan che chiudono la classifica. Noi italiani non siamo piazzati né bene né male: siamo praticamente in mezzo, al ventiquattresimo posto, e ci superano Francia, Grecia, Spagna e Romania. Abbiamo riconsegnato i borsellini nel 48 per cento dei casi. Dal Trentino alla Sicilia quasi una persona su due si è dunque rivelata onesta. Un discreto risultato che però pare difficilmente accostabile a quelli registrati in Danimarca e Svezia dove le restituzioni sono avvenute nell’83 per cento dei test. L’elemento comune osservato praticamente ovunque — nel corso della ricerca costata 600 mila dollari messi a disposizione da un think tank svizzero specializzato in economia — è che più il contenuto del portafogli è prezioso, e più le persone hanno contattato il legittimo proprietario. In media è stato restituito il 40% dei portafogli senza denaro, rispetto al 51% di quelli contenenti almeno 13 dollari o l’equivalente corrispettivo in euro. Con il timore che questa somma fosse troppo bassa, sono stati anche infilati 94 dollari nelle prove fatte in Usa, Inghilterra e Polonia: e la media mondiale delle riconsegne è balzata al 72 per cento. In tutti i continenti lo standard dei test è stato il medesimo: nel borsellino — uno di quei contenitori per carte trasparenti, in modo che il contenuto potesse essere visibile — c’erano una chiave, uno scontrino e tre business card con l’indirizzo del proprietario il cui nome — chiaramente finto — veniva scelto in modo che sembrasse quello di un cittadino del posto, facilmente contattabile. Un’altra sorpresa viene dai portafogli che non sono stati riconsegnati ai legittimi proprietari: tra questi, alcuni erano stati «smarriti» in posti nei paraggi del Vaticano e di alcuni enti anti-corruzione. Casi in cui i borsellini non sono stati restituiti. «I risultati ci dimostrano che sebbene la violazione di una regola etica comporti un vantaggio materiale — commenta Nicola Bellé , esperto di scienze comportamentali applicate al management della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa — come il guadagno di una somma di denaro, d’altra parte determina anche un costo personale che non sempre siamo disposti a pagare, cioè la distruzione dell’immagine che abbiamo di noi stessi come di persone oneste».

L’INTERVISTA. «I portafogli? Più contengono soldi e più ci sentiamo ladri se non li restituiamo». Parla Nicola Bellè, laurea in Economia ed esperto di Scienze comportamentali applicate al management della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa: «Paghiamo un costo psicologico se deviamo dalla norma, questo esperimento lo dimostra». La propensione a restituire maggiormente il portafogli se è pieno di soldi? «È la focalizzazione plastica del costo individuale dell’aggirare le regole. Paghiamo un costo psicologico se deviamo dalla norma: più è alta la somma nel borsellino e più nitidamente percepiamo il fatto che, in caso di mancata restituzione, stiamo errando sotto il profilo etico. Nicola Bellè, laurea in Economia ed esperto di Scienze comportamentali applicate al management della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, non si stupisce nel leggere i risultati della ricerca condotta in 40 Paesi del mondo. «Uno studio articolato, ben costruito e illuminante sui meccanismi complessi che guidano il nostro comportamento», commenta. «I risultati ci dimostrano che sebbene la violazione di una regola etica comporti un vantaggio materiale, come il guadagno di una somma di denaro, d’altra parte determina —ragiona l’esperto — anche un costo personale che non sempre siamo disposti a pagare, cioè la distruzione dell’immagine che abbiamo di noi stessi come di persone oneste». Il nostro comportamento è tanto più etico quanto più è integerrima l’immagine che ci siamo costruiti: «Ciò dipende dal posto in cui cresciamo e dagli insegnamenti che riceviamo, è un fatto culturale», spiega Bellè.

·         I Furbetti del Cartellino.

Scalea, arrestato il sindaco: «furbetto del cartellino»: invece di lavorare si appartava con una donna. Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 da Corriere.it. Il lavoro d’ufficio per il sindaco di Scalea Gennaro Licursi era subordinato alle sue attività personali. Dipendente dell’Azienda sanitaria di Cosenza, negli ultimi due anni, ha collezionato oltre 650 ore di assenze ingiustificate. Il «furbetto del cartellino» con incarichi di governo cittadino è stato arrestato e posto ai domiciliari dal giudice delle indagini preliminari Maria Grazia Elia su richiesta del procuratore capo di Paola, Pier Paolo Bruni. Il sindaco, eletto a giugno del 2016 con una lista civica di centro sinistra, è accusato di truffa aggravata ai danni dello Stato, falsa attestazione della presenza in servizio, è stato sospeso dall’esercizio della funzione pubblica. Le assenze nulla hanno a che fare con la sua carica di primo cittadino. Gennaro Licursi dopo aver timbrato il cartellino se ne usciva dall’ufficio per svolgere attività personali o intrattenendosi spesso con amici. Molto personali. Nell’ordinanza si dice che: «In più occasioni l’attività di pedinamento ha consentito di filmare Gennaro Licursi negli orari in cui avrebbe dovuto essere in servizio, all’interno del Parco del Corvino (nelle immediate adiacenze del Centro sportivo), in sosta all’interno di un’area circondata da una folta vegetazione insieme a una donna». Arrestati anche tre dipendenti dell’Asp che hanno coperto il sindaco durante le sue assenze. Per coprire i suoi allontanamenti volontari il sindaco di Scalea si era inventato false missioni di servizio. Per due anni è stato sottoposto ad intercettazioni telefoniche, seguito con il Gps e filmato in tutte le sue azioni quotidiane che hanno provato le sue continue assenze dal lavoro. È il quinto sindaco arrestato dalla procura di Paola dopo quelli di Aieta, Guardia Piemontese, Maierà e Fuscaldo, coinvolti in indagini sulla pubblica amministrazione. Nel merito dell’inchiesta «Ghost Work» che ha portato all’arresto del sindaco di Scalea, va giù duro il procuratore Paolo Pier Paolo Bruni commentando la proposta del Pd al ministro Bonafede, avanzata dei giorni scorsi sulla prescrizione. Il suggerimento è quello di dare la pagella ai pubblici ministeri e obbligare i capi delle procure a consultarsi con le istituzioni locali prima di stabilire i «criteri di priorità» dei reati da perseguire. «Dovrei interloquire con questi sindaci che hanno commesso reati nelle loro funzioni?», dice il magistrato. «In questi anni come procura, ridotta all’osso con oltre il 40 per cento di personale che manca, abbiamo spedito in galera sindaci per reati come appropriazione di soldi pubblici, corruzione e bancarotta».

Truffa sul gettone  di presenza, a Catanzaro indagati 29 consiglieri su 32. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. Percepivano il gettone di presenza per la partecipazione a commissioni quando invece non andavano affatto o erano presenti solo per poco tempo rendendo, di fatto, impossibile il reale svolgimento della riunione. È l’accusa mossa dalla Procura di Catanzaro a 29 dei 32 consiglieri comunali di Catanzaro ai quali è stato notificato un avviso conclusione indagini con le accuse, a vario titolo, di truffa aggravata per erogazione pubbliche, falsità ideologica, uso di atti falsi. Gli indagati sono complessivamente 34. La truffa sarebbe avvenuta attraverso la falsificazione dei verbali delle sedute ; solo i due mesi del 2018 l’incasso indebito sarebbe stato di 22.000 euro. In altri casi i consiglieri sarebbero stati assunti da imprese compiacenti che si facevano rimborsare le ore di assenza dal lavoro (per la falsa partecipazione alle sedute) dal municipio di Catanzaro., Che in questo modo avrebbe speso senza giustificazione 300.000 euro.

Brindisi, sospesi dal lavoro 31 dipendenti assenteisti: devono restituire 35mila euro. Il provvedimento del gip va da un minimo di quattro mesi ad un massimo di dieci. La guardia di finanza, intanto, ha sequestrato i conti correnti degli indagati, tutti in servizio presso gli uffici distaccati della Regione Puglia. La Repubblica il 12 dicembre 2019. BRINDISI - Gli investigatori l'hanno ribattezzata "Porte girevoli" l'operazione che ha sospeso dal servizio 31 dipendenti pubblici assenteisti. Sequestrati anche 35 mila euro indebitamente percepiti. In azione i finanzieri del Comando provinciale di Brindisi, coordinati dalla locale procura e in esecuzione del provvedimento del gip di sospensione dall'esercizio di pubblico servizio da un minimo di quattro mesi ad un massimo di dieci. Contestualmente, le fiamme gialle hanno sottoposto a sequestro i conti correnti degli indagati, al fine di recuperare le somme incassate a fronte di prestazioni lavorative mai eseguite. Le indagini sono state condotte attraverso numerosi servizi di osservazione effettuati anche con mezzi tecnici installati nei pressi degli uffici brindisini di un ente pubblico e hanno permesso di accertare numerosi episodi di allontanamento ingiustificato da cui sono scaturite le denunce per truffa e falso. In particolare gli impiegati, dopo aver attestato, con il proprio badge personale, l'ingresso sul luogo di lavoro, ovvero timbrando anche per conto di colleghi assenti, si sono allontanati dagli uffici, anche più volte nel corso della giornata, per motivi esclusivamente personali (per spese presso locali commerciali, per accompagnare figli a scuola o, semplicemente, per sostare all'esterno della sede di lavoro). Durante il periodo monitorato (luglio-novembre 2018) è stata accertata la percezione di emolumenti per un importo pari a circa 35 mila.

·         I furbetti della bolletta fanno sparire 10 miliardi.

I furbetti della bolletta fanno sparire 10 miliardi. Angelo Allegri, Mercoledì 05/06/2019, su Il Giornale. «E io pago», diceva l’avaro Totò nell’indimenticabile «47 Morto che parla». «E io non pago», dicono migliaia di italiani ogni giorno. L’affermazione vale in tutti i sensi: si spende sempre meno per godersi la vita, come dimostra il ristagno dei consumi, ma si fa fatica anche a ripagare i debiti. Così il 2018 è stato l’anno record per i «buffi» (il termine, comune nel romanesco, è in realtà originario dell’Italia Settentrionale) non onorati. A fine dicembre i mancati pagamenti hanno raggiunto gli 82 miliardi; e nella voce c’è un po’ di tutto: rate di mutui, di prestiti al consumo, o più semplicemente bollette. Tutte finite nel cestino o, nella migliore delle ipotesi, nel cassetto. Per un motivo o per l’altro. La montagna di carte e di solleciti nell’anno appena trascorso ha superato di gran lunga (+15%) i livelli del 2017 quando i debiti non saldati erano solo, si fa per dire, 71 miliardi. La colpa, certo, è della crisi economica che non finisce mai: si saltano le rate perchè i soldi non ci sono. Ma non solo, se è vero che più o meno 10 miliardi non riscossi vengono attribuiti a una categoria sempre più numerosa di pataccari, che fino ad ora mancava alla lista, sempre foltissima in Italia, dei furbetti a spese altrui. La nuova tribù, cresciuta negli ultimi anni fino a diventare un fenomeno, è quella dei cosiddetti «turisti della bolletta»: giocolieri di luce, gas o telefonini che sfruttando con destrezza la liberalizzazione del settore, riescono a stare in equilibrio, passando da un gestore all’altro e risolvendo creativamente il problema dei pagamenti.

CLIENTI E FATTURATI. A dare un po’ di numeri sul rapporto tra gli italiani e i loro debiti è, come ogni anno, il rapporto di Unirec, l’associazione (fa parte di Confindustria) che riunisce le imprese che si occupano di recupero crediti. Se si parla di finanziamenti, alle aziende di Unirec spetta fornire l’ambulanza, intervenire nei casi in cui c’è qualche cosa che non va. Un’immagine che, comprensibilmente, non soddisfa del tutto gli operatori del settore: «In realtà tendiamo a occuparci di quello che c’è prima della patologia», spiega il presidente Francesco Vovk. «Potrà sembrare singolare ma noi vediamo il debitore come un cliente: il primo obiettivo è trovare con lui un percorso condiviso di rientro dall’inadempimento». Sia come sia, in un’Italia che non paga, le imprese che si occupano di assistere i creditori nel recupero dei propri soldi non conoscono la parola crisi: il fatturato del settore era di 900 milioni un paio d’anni fa, ha superato di slancio il miliardo (1,068, per la precisione) nell’ultimo periodo di cui si hanno i dati, il 2017. Gli 82 miliardi citati all’inizio, i debiti non saldati, sono quelli affidati dai creditori alle aziende di Unirec. Secondo le statistiche il 35% (corrispondente più o meno a un valore assoluto di 28 miliardi abbondanti) sono prestiti concessi da finanziarie, molto spesso come forma di finanziamento per il consumo. Vengono poi i prestiti bancari veri e propri, per un ammontare di circa 23 miliardi. La terza categoria è quella delle bollette, che pesa per il 24% del totale, con un valore pari a 19,6 miliardi. Non tutti i mancati pagatori di luce, gas e telefono sono da inserire nella categoria dei furbetti. Anche in questo campo c’è chi resta indietro perché non riesce a tirare la fine del mese. Ma un calcolo sulle prodezze dei «turisti della bolletta» e sui loro 10 miliardi di debiti non pagati, è possibile sulla base di un altro dato. «Il 45% delle somme non onorate si riferisce a utenze ancora attive», spiega Vovk. «Il caso tipico è quello della famiglia che salta qualche pagamento, ma poi si rimette in linea appena può». Più della metà delle bollette non riscosse si riferisce invece a contratti cessati. E questi ultimi sono («tolta una piccola percentuale di utenti a cui effettivamente e per bisogno vengono staccati luce o gas»), quasi tutti giocolieri delle utenze che lasciano dietro di sé un debito medio di 722 euro.

IL TRUCCO C’È E SI VEDE. Il meccanismo, che vale per ogni tipo di utility, dal gas ai telefonini, è sempre identico: si sottoscrive un contratto e si inizia a utilizzare il servizio. Poi di fronte alle richieste e ai solleciti di pagamento si fa prova di sovrana indifferenza. Un attimo prima dell’irreparabile (il taglio dei fili o della linea), si cambia gestore. E il gioco può ricominciare. In campo telefonico i «morosi volontari», come si chiamano in linguaggio tecnico, possono spesso godere di una vantaggio in più: molte offerte comprendono l’assegnazione di uno smartphone di nuova generazione, che rimane a disposizione dell’utilizzatore anche se non paga. Il trucco usato dai malintenzionati è comunque del tutto scoperto e le aziende dei diversi settori interessati ne sono da sempre consapevoli. Ma tra l’individuazione di un problema e la sua soluzione possono frapporsi talvolta complicati problemi tecnici. L’Asstel, l’associazione degli operatori telefonici, lavorava almeno dal 2015 a una linea di difesa contro i furbetti delle bolletta, una banca dati in cui inserire i loro nomi. Il traguardo è stato raggiunto solo quest’anno, e la banca dati dei «reprobi» (si chiama Simoitel) a cui tutti i gestori possono accedere, è operativa dal mese di marzo. Le preoccupazioni erano legate soprattutto alla privacy, il timore era che una società potesse inserire un utente nel registro dei cattivi (rendendogli difficile sottoscrivere nuovi contratti) per motivi gratuitamente punitivi. Per questo si viene iscritti in Simoitel solo se si verificano condizioni severe: non ci devono essere contestazioni tra l’interessato e il gestore non pagato, il debito deve superare i 150 euro, ci devono essere bollette non onorate nei primi sei mesi di contratto e non ci possono essere altri rapporti contrattuali tra le due parti. D’ora in poi comunque il gestore a cui si chiede l’allacciamento avrà modo di controllare se il cliente potenziale fa parte di un blacklist di cattivi pagatori. In questo caso potrà rifiutare motivandola, la sottoscrizione del contratto.

RICHIESTA DI INDENNIZZO. Per il settore luce e gas valgono più o meno e le stesse regole. Qui però il sistema di protezione è entrato in funzione già da qualche tempo e secondo una ricerca di facile.it nel 2018 sono stati 120mila gli italiani che si sono visti rifiutare la sottoscrizione di un contratto di fornitura, un numero che corrisponde al 2,8 delle richieste di allacciamento. La motivazione: il non aver pagato le bollette precedenti o anche l’aver presentato nei 12 mesi precedenti un numero elevato di richieste di cambio fornitore. Un dato, quest’ultimo, che viene considerato come indizio di un potenziale comportamento opportunistico. Il gestore ha la facoltà di concludere comunque il contratto. Ma il fornitore non pagato ha comunque una possibilità di rivalersi sul cliente moroso anche se questi è riuscito a cambiare gestore: attraverso il cosiddetto SII (Sistema informativo integrato, un cervellone con tutti i dati del sistema gestito dall’Acquirente Unico elettrico) può chiedere un indennizzo per quanto dovuto. Nel caso la richiesta venga ritenuta legittima dal SII il risarcimento sarà inserito dal nuovo fornitore nella nuova bolletta del cliente moroso. Nonostante la maggiore attenzione delle aziende del settore e la riduzione dei mutui casa non onorati (vedi anche l’altro articolo in pagina) per le aziende incaricate di recuperare i crediti le prospettive di mercato rimangono buone.

REDDITO E OBBLIGHI. «La materia prima su cui lavoriamo sono i debiti non pagati, destinati a crescere ancora», dice Vovk. Altra questione, invece, è quella di quanto i creditori riescono a portare a casa dopo l’intervento di società specializzate. Il cosiddetto tasso di recupero per il 2018 (7,8 miliardi) è appena superiore rispetto all’anno precedente e decisamente inferiore al periodo 2014-2016. Colpa di mutui sottoscritti per la casa, “saltati” nel periodo peggiore della crisi e che col passare del tempo diventano sempre più difficili da riscuotere. Ma anche del fatto che, dicono gli esperti, il tasso di recupero dipende dal reddito disponibile. Intuitivamente, le famiglie a cui arrivano più soldi possono destinarne una parte maggiore per sanare vecchie pendenze. Ma da questo punto di vista gli ultimi dati sull’economia non lasciano eccessive speranze. Per molti la montagna di debiti è destinata a rimanere tale.

·         I falsi invalidi.

Falsi invalidi, indagata la madre di Arisa: la sedia a rotelle per messinscena. Dopo gli arresti a Potenza nel blitz "Il canto delle sirene", agli atti di indagine spunta la madre della popolare cantante. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Settembre 2019. La madre della cantante lucana Arisa è tra gli indagati nell’inchiesta «Il canto delle sirene" sulle percezioni indebite di pensioni di invalidità e assegni di accompagnamento ai danni dell’Inps: la notizia anticipata stamani dalla trasmissione di Canale 5 «Mattino Cinque» ha trovato conferma negli ambienti giudiziari di Potenza. Assunta Santarsiero, di 62 anni, di Pignola (Potenza) - accusata di truffa in concorso - secondo quanto emerge dagli atti dell’inchiesta coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza (che ieri ha portato a cinque arresti domiciliari eseguiti dalla Squadra mobile del capoluogo lucano, e a 40 indagati complessivi), avrebbe ottenuto la condizione di invalidità civile e i benefici dell’indennità di accompagnamento "fingendosi affetta da gravi patologie - ha scritto nell’ordinanza il gip Lucio Setola - tali da renderla incapace di attendere autonomamente agli atti quotidiani della vita senza un’assistenza continuativa».

Cieco ma gioca a carte, scoperto da Gdf. La donna nel 2017 fu «accompagnata dal marito e trasportata su carrozzina» nel Tribunale di Potenza, «perché non in grado di camminare autonomamente» e «al momento dell’esame clinico si dimostrò impossibilitata a provvedere ai suoi elementari bisogni e a svolgere gli atti quotidiani della vita senza assistenza», "traendo così in inganno» il perito nominato dal giudice del Tribunale civile. Secondo gli investigatori, però, «la visita sulla sedia a rotelle era evidentemente tutta una messinscena": dai pedinamenti degli agenti della Squadra mobile è invece emerso che la donna sarebbe stata «grado di uscire da casa da sola e di muoversi autonomamente, portandosi persino nel terreno adiacente alla sua abitazione per dedicarsi ai lavori dei campi senza aver bisogno di essere accudita da alcuno e senza documentare difficoltà deambulazione». 

Simona Pletto per “Libero quotidiano”il 25 settembre 2019. "Sincerità", cantava Arisa. Una nota che ora stona in casa di Rosaria Pippa, questo il vero nome dell' artista. La madre della cantante di Pignola, Assunta Santarsiero, 62 anni, è finita nell' inchiesta denominata "Il canto delle sirene", aperta dalla procura di Potenza sui furbetti delle pensioni di invalidità. Nel fascicolo c' è di tutto: falsi ciechi che giocano a carte, finti depressi che danno spettacolo, disabili che camminano. Proprio come la mamma dell' ex giudice di X Factor, ora indagata a piede libero nell' indagine che ha svelato compravendite di attestati di invalidità e finti certificati medici. Ad incastrare la donna, un video diffuso dalla Questura che la ritrae mentre si dedica al giardinaggio, chianata a zappare la terra o mentre cammina senza difficoltà. Una sorta di miracolo, visto che per l' Inps la signora Santarsiero sarebbe affetta da disabilità e quindi impossibilitata a deambulare in modo normale. Una menomazione valutata così importante da farle percepire dal 2017 un assegno di 800 euro al mese per l' accompagnamento. Per ottenere i benefici, si era sottoposta a una visita da un medico nominato dal tribunale e all' udienza si era presentata in sedia a rotelle, affermando di non essere in grado di camminare. Particolare evidentemente poco sincero, viste poi le immagini in cui si diletta col giardinaggio. «Non l'ho mai vista in carrozzina», conferma chi la conosce, anche se qualcuno aggiunge: «So che ultimamente ha avuto problemi gravi». La madre della cantante, ospite a "Mattino Cinque", ha parlato dei suoi problemi di salute: «Sto combattendo contro la bestia», ha affermato riferendosi a un tumore. Effettivamente anche agli inquirenti risulta che negli ultimi tempi la donna si stia curando da un cancro, ma secondo loro questi problemi non hanno un legame con i motivi per i quali la mamma di Arisa avrebbe ottenuto l' invalidità, ottenuta grazie a un avvocato e a un intermediario. Oltre ad Assunta Santarsiero, agli arresti domiciliari sono finite altre sei persone, un' altra è stata interdetta dai pubblici uffici e sono state eseguite perquisizioni per completare il quadro delle indagini, che al momento vedono coinvolte, a vario titolo 40 persone. Tra gli indagati più noti c' è anche il cantautore folk Agostino Gerardi, che pur risultando affetto da gravi patologie e percependo quindi una pensione, si esibiva quasi quotidianamente in spettacoli pubblici. Nell' inchiesta sono inoltre coinvolti faccendieri che, con l' ausilio di medici e avvocati compiacenti, truffavano l' Inps percependo indebitamente pensioni e indennità di accompagnamento per migliaia di euro. Dal 2018, da quando è partita l' inchiesta, frodi per 530mila euro. Tutto fa pensare che la condotta criminosa andasse avanti da anni. «Un'indagine molto lunga» ha dettto il procuratore Francesco Curcio, che ha messo in luce come «stabilmente venivano effettuate truffe sui falsi invalidi, e di un sistema per le pratiche di invalidità dell' Inps, abbastanza vulnerabile». Come detto, le presunte invalidità passavano grazie all' aiuto di medici compiacenti, pagati fino a mille euro per le certificazioni, e ad avvocati che portavano avanti le pratiche. Un sodalizio criminale: alcuni reclutavano persone anziane intenzionate ad avviare l'iter per il riconoscimento dell'assegno fittizio, altri provvedevano a creare la falsa documentazione, altri ancora fornivano l'assistenza legale. I casi più eclatanti riguardano un falso cieco ripreso mentre giocava a carte, o chi dichiarava gravi forme depressive ma partecipava a rassegne canore, addirittura un uomo in carrozzina ritrovato a zappare un campo agricolo. Imbroglioni che potrebbero cavarsela con una multa. In barba ai veri invalidi, costretti davvero a vivere murati in casa.

·         Le pensioni eterne.

Le pensioni eterne. Si moltiplicano i casi di persone che nascondono la morte del genitore o dei genitori per continuare ad incassare l'assegno Inps. Mario Giordano 30 maggio 2019 su Panorama. Lo zio Italo era morto da tre anni. La mamma Nerina da sei mesi. Li aveva nascosti nel fienile della sua cascina, a Sant’Urbano, provincia di Padova. Quando i carabinieri, avvertiti dalla banca e dal Comune che si erano insospettiti, hanno scoperto i due cadaveri, l’uno avvolto nel cellophane, l’altro sistemato in una cassa da morto provvisoria, Federico Bernardinello, 55 anni, ha subito ammesso: “Sono stato io a metterli lì”. “E perché?”, gli hanno chiesto i militari. “Perché così continuavo a incassare la loro pensione”. Ovvio, no? Come non capirlo subito?

Correva l’anno 1997, nei negozi s’usava ancora la vecchia liretta e Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, era un moccioso che andava alle scuole medie. E già allora veniva lanciato dalla Cgil il grido di dolore: “Basta con le pensioni ai defunti, ne paghiamo a migliaia”. La direzione del Tesoro, in quel frangente confermò: “Sono almeno 30 mila”. E vennero fuori anche casi singolari come quel paesino dove secondo l’Inps abitavano 38 centenari: peccato che nessuno di loro, al primo controllo risultò in vita. Un bidello, originario di Torre Annunziata e in servizio ad Arezzo, riuscì a battere tutti i record di truffa continuata: si scoprì, infatti, che stava incassando la pensione del padre morto dalla bellezza di 16 (sedici!) anni. Ogni mese prendeva il permesso di lavoro, scendeva in treno dalla Toscana al paese natio, si presentava allo sportello e metteva in scena la rappresentazione. “Eh, magari il prossimo mese potesse venire lui di persona…”.

Sono passati più di vent’anni. A turno abbiamo sentito indignazioni di ogni genere. Ma alla fine le pensioni ai defunti abbiamo continuato a pagarle. Puntualmente. Nel settembre 2016 i carabinieri di Biella sono stati chiamati nella frazione di Triviero. Gli abitanti si erano preoccupati perché da un po’ di settimane non vedevano più Nonna Irma, 103 anni. “Come mai non si affaccia dalla finestra?”, chiedevano al figlio Pierangelo. E lui: “Il medico le ha detto di stare a letto”. “Possiamo passare a trovarla?”. “Meglio di no”. Poi un giorno l’avevano visto entrare in casa con un congelatore enorme. “Che cosa se ne fa di quel congelatore?”, chiesero i carabinieri a Pierangelo, appena entrati in casa. E lui: “Ci tengo i fagiolini”. “Ma quanti fagiolini congela lei?”. “Eh, cosa vuole, bisogna essere previdenti, maresciallo”. Si capisce: la previdenza prima di tutto. Quando i carabinieri aprirono il congelatore, infatti, ci trovarono dentro nonna Irma, fredda come la morte e anche un po’ di più. Il figlio, bontà sua, teneva al caldo soltanto l’assegno Inps. Previdenziale, per l’appunto.

Qualche tempo prima era successo ad Aosta. “Nonno Olmo è tanto malato”, diceva il figlio Gaetano a amici e conoscenti. “Si cura in un clinica lontana”. Poi un giorno mise la casa in vendita. Arrivarono due potenziali acquirenti. L’agente immobiliare fece visitare i locali: “Qui c’è la caldaia”, “qui la cantina”, “qui il box auto”. “E qui c’è il freezer, guardate com’è spazioso”. Ma certo: molto spazioso. Ci sta dentro anche nonno Olmo. “Come ti è venuto in mente?”, chiesero in tribunale a Gaetano. E lui: “Signor giudice, la pensione…”. A Pietrasanta (Lucca) è stata beccata una donna di 49 anni, che incassava la pensione d’invalidità del compagno morto da 8 anni. A Crotone un uomo ha fatto di meglio: ha incassato per 10 anni (dieci!) due pensioni, quella della mamma e quella della zia, entrambe morte. Che ci volete fare? Il ricordo delle persone amate dura in eterno. L’assegno Inps, pure.

In fondo, ci vuole poco. Basta fingere un po’. E in questo noi italiani siamo maestri. Una bugia qui, una bugia lì, “sì, anche mia mamma la saluta tanto”, “zia Rosetta non sta bene ma la pensa sempre”, e il gioco è fatto. Quando si tratta di fare i furbi non ci batte nessuno. Come quel mitico quarantenne che, scoperto con le mani nella marmellata previdenziale, scoppiò in lacrime davanti alla Guardia di Finanza che lo stava interrogando. “Perché continua a incassare la pensione di suo padre che è morto da cinque anni?”, gli chiesero. E lui, disperato: “Papà è morto? Davvero? Io non lo sapevo! Che disgrazia! Che disgrazia!”. Sempre meglio di quell’altro che alla domanda: “Perché continua a incassare l’assegno di suo padre defunto?”, rispose: “Davvero lo incasso? Non me ne ero accorto”. Non se ne era accorto, ecco. Ma noi quando ci accorgeremo che così proprio non va?

·         Le 11 truffe online più sofisticate in giro in questo momento.

Le 11 truffe online più sofisticate in giro in questo momento. Occhio a non cascarci! Emma Witman il 24/4/2019 per it.businessinsider.com. Le truffe online approfittano dell’empatia, della paura e dell’avidità degli utenti di Internet.

Alcune truffe su Internet, come il phishing e la temuta email “principe nigeriano”, esistono da decenni, ma stanno diventando sempre più sofisticate. Abbiamo elencato 11 delle più grandi truffe presenti oggi su internet. Via via che Internet continua ad espandersi in ogni aspetto della società, le truffe online stanno anch’esse diventando più sofisticate. Dalle truffe di phishing ai falsi venditori di biglietti, le truffe online si aggrappano a sentimenti diversi che ci guidano, come la simpatia, la paura e l’avidità. Quello che le truffe online hanno in comune è che approfittano dell’ingenuità e dell’ignoranza del loro pubblico. Alcune delle truffe più elaborate che sono in giro per tutto il world wide web in questo momento, vanno dalla prima pagina di YouTube alla tua casella di posta. Ecco alcune delle truffe online più sofisticate su Internet.

Il phishing ha gravi conseguenze per le vittime. Una delle truffe online più diffuse è il phishing. Nel 2016, a seconda di chi si interpella sull’argomento, il phishing ha persino fatto deragliare la candidatura presidenziale di Hillary Clinton e, come minimo ha rivelato la deliziosa ricetta del suo manager di campagna elettorale per un risotto cremoso. Il phishing, quando ha successo, induce l’utente a consegnare inconsapevolmente le proprie password al truffatore, spesso attraverso email dall’aspetto professionale che fingono di provenire da aziende affidabili. Il risultato del giochino è generalmente l‘acquisizione di informazioni personali, come i numeri di carta di credito e dei documenti. Secondo il gruppo di lavoro anti-phishing, ogni mese vengono segnalati circa 100.000 tentativi di phishing. Recentemente, il phishing è stato usato come un’arma per diversi gradi di sofisticazione con una tecnica chiave:furto d’identità. Il trucco è stato sufficiente per convincere un dipendente di Gimlet Media, che gestisce il podcast su tutto ciò che riguarda internet “Rispondi a tutti”, ad aprire un’email inviata da un suo “collega”. Peccato che il mittente non era un suo collega, ma un hacker che tentava un test di phishing autorizzato sui dipendenti della società. Il furto d’identità è una tattica online per la quale bisogna essere particolarmente cauti sui social media, dove le immagini e gli pseudonimi degli amici sono a portata di mano per essere imitati. Gli account duplicatipescano informazioni personali dietro la maschera della familiarità.

La truffa del principe nigeriano è uno dei tranelli più vecchi su internet. La truffa del principe nigeriano è una delle più vecchie truffe su internet. La truffa venne alla ribalta negli anni ’90 ed è indicata dall’FBI come “Frode nigeriana” o “419”. La premessa è semplice: ricevi un’email e, all’interno del messaggio, un principe nigeriano (o investitore o funzionario governativo) ti offre l’opportunità di lucrosi guadagni finanziari. La trappola? Pagare una piccola parte dell’importo in anticipo o consegnare le informazioni sul conto bancario e altre informazioni identificative in modo che il trasferimento possa essere effettuato. Ovviamente, perdi quel “denaro iniziale”, non ricevendo mai neanche una monetina in cambio. Secondo un articolo su Wired del 2018, la cospirazione è cresciuta in termini di sofisticazione, risultando in milioni di dollari in truffe e in uno status di quasi celebrità per coloro che costruiscono le truffe delle email “nigeriane” che commettono la frode. “Sono il malware e il phishing combinati con un’ingegneria social intelligente e acquisizioni di account”, ha dichiarato James Bettke, ricercatore presso la società di sicurezza Secureworks, al giornalista di Wired Lily Hay Newman nel 2018. “Non sono molto sofisticati dal punto di vista tecnico, non sanno programmare, non usano molta automazione “, ha aggiunto. “Ma i loro punti di forza sono l’ingegneria social e la creazione di truffe agili: passano mesi a setacciare le caselle di posta, sono silenziosi e metodici.”

Le frodi sui biglietti portano all’acquisto di biglietti falsi per eventi di sport e musica. Un’altra popolare truffa online è la frode sui biglietti, in cui i consumatori sono indotti a comprare biglietti falsiper eventi sportivi, concerti e altri eventi. Gli scammer di solito puntano a eventi di alto profilo i cui biglietti probabilmente vanno esauriti in modo che possano trarre vantaggio dall’aumento della domanda. Spesso i biglietti che inviano ai clienti hanno codici a barre contraffatti o sono copie duplicate di biglietti legittimi. Altre volte, i consumatori non riceveranno alcun biglietto dopo aver pagato. Più del 10% dei millennial sono stati vittime di frodi sui biglietti e il Better Business Bureau raccomanda ai clienti di prendere diverse precauzioni prima di acquistare i biglietti online.

Alcune persone sono state contattate via messaggio da imitatori di celebrità. Una variante della truffa di phishing è quando i truffatori online si mascherano da celebrità e influencer. A gennaio, la star di YouTube Philip DeFranco ha dovuto avvisare i suoi oltre 6 milioni di abbonati di una di queste truffe. “Se hai ricevuto un messaggio da me o da qualsiasi altro artista su YouTube che assomiglia a qualcosa del genere, è molto probabile che qualcuno cerchi di imbrogliarti”, ha detto DeFranco in un video pubblicato sul suo canale. Il finto DeFranco si è infilato nei messaggi di YouTube di utenti-target, promettendo “regali” se avessero cliccato su un collegamento ipertestuale. Il vero scopo del truffatore: il furto di identità per guadagni finanziari attraverso un classico sistema di phishing online. Più di 150 utenti di YouTube nella pagina della community hanno dichiarato di essere caduti nella trappola. “Siamo consapevoli e abbiamo avviato l’implementazione di ulteriori misure per combattere il furto d’identità”, ha scritto un dipendente di YouTube in risposta a reclami di truffa. “Nel frattempo, abbiamo rimosso account identificati come spam.” La società ha anche detto che gli utenti potrebbero bloccare qualsiasi account che li copre di spam e che i canali che lo fanno, possono essere segnalati attraverso il suo strumento di segnalazione.

Altre volte, le persone si sentono truffate dai veri influencer. Una cosa è essere ingannati da una celebrità finta. Ma c’è anche una tendenza a sentirsi truffati dagli influencernella vita reale. Un thread virale su Twitter ha accusato l’influencer di Instagram Caroline Calloway di usare la sua immagine online per truffare quelli che avevano pagato $ 165 per partecipare al suo “laboratorio di creatività”. E folle inferocite per il fiasco che è stato il Fyre Festival – un evento talmente riuscito male da giustificare che non uno, ma due documentari su di esso – hanno diretto gran parte della loro ira contro gli influencer e celebrityche avevo sponsorizzato l’evento. I truffati hanno criticato la mancanza di trasparenza su quanto gli influencer sono stati pagati per sponsorizzare il festival con i loro milioni di follower online, anche se non tutti hanno concordato sul fatto che meritassero di essere incolpati.

Ma a volte gli stessi influencer possono essere truffati. Un genere di truffa online ha come vittime gli stessi influencer, e usa tattiche di frode identiche al phishing. All’inizio di quest’anno, una truffatrice nelle vesti dell’imprenditrice e investitrice Wendi Murdoch, ha utilizzato indirizzi di posta elettronica e altre tecniche così convincenti che star dei social media sono state indotte a comprare i propri voli per l’Indonesia e a pagare per falsi permessi di fotografia come parte della truffa. Le vittime, tra cui influencer e fotografi di viaggio, sono stati derubati di migliaia di dollari. L’FBI e il Dipartimento di polizia di New York hanno aperto le indagini sulla truffa nel 2018, secondo The Hollywood Reporter. Partecipa anche l’azienda investigativa K2 Intelligence, che ha tracciato il perno della truffa dalle celebrità agli influencer. “Per molto tempo hanno perseguitato persone a Hollywood. [Ora, loro] prendono di mira regolarmente influencer – star di Instagram, fotografi di viaggio, persone che fanno cose che li portano a viaggiare in tutto il mondo”, ha detto a INSIDER a gennaio Nicoletta Kotsianas, una direttrice di K2 Intelligence. “Si tratta di convincere alcune persone che esiste qualcun altro, manipolarle, farle sentire coinvolte e creare un mondo tutto intorno a loro”, ha aggiunto. “Stanno facendo un po’ di soldi, ma quello che davvero conta è il processo che hanno intrapreso.”

Un attacco Ransomware ha tenuto in ostaggio un’intera città nel 2018. Alcune delle truffe online più insidiose riguardano il ransomware. In un attacco ransomware, gli hacker installano malware su un computer o su un sistema di computer che limita l’accesso di una vittima ai loro file. Il pagamento di un riscatto, spesso sotto forma di bitcoin, è richiesto per annullarlo. Il governo di Atlanta è stato colpito da un attacco di ransomware nel 2018 e, secondo un rapporto Wired, è costato alla città più di $ 2,6 milioni. Gli hacker dietro la truffa “si sono impegnati deliberatamente in un’estrema forma di ricatto digitaledel 21° secolo, attaccando ed estorcendo denaro a vittime vulnerabili come ospedali e scuole, vittime che sapevano sarebbero state disposte e in grado di pagare”, ha detto a novembre Brian Benczkowski, il capo della divisione criminale del Dipartimento di Giustizia. Non c’è da meravigliarsi che la minacciosa forma di attacco sia diventata parte della trama di “Grey’s Anatomy”.

Le trappole ransomware false possono essere altrettanto dannose. Nel peggiore dei casi, le frodi ransomware minano il senso di sicurezza e privacy della vittima. E in una terrificante variante, gli hacker rivendicano via email di aver hackerato una webcam mentre la vittima guardava un film porno. L’annuncio di cam-hacking, che è sostenuto dalla ripetizione della password dell’utente nell’email, è un mezzo per ricattare: inviaci bitcoin o inviamo il filmato a tutti i tuoi contatti. La realtà? Manipolazione pura. I truffatori non hanno dossier di filmati. Non hanno nemmeno mai violato le tue informazioni. Come? Perché la password che si sono vantati di avere non è stata hackerata, ma raccolta, presa da database disponibili pubblicamente di password e email trapelate. Quindi non c’è bisogno di coprire la fotocamera del portatile. Per adesso.

I fake di crowdsourcing tipo GoFoundMe sfruttano la generosità delle persone. Un esempio degno di nota viene da una bella storia del 2017 su una coppia che ha raccolto $ 400.000 per un veterano senzatetto che gli aveva prestato i suoi ultimi $ 20. Come hanno scoperto i pubblici ministeri, il trio ha inventato l’intera storia, e non solo hanno affrontato un misto di accuse federali e statali, ma GoFundMe ha rimborsato le donazioni di tutti i 14.000 donatori. Un altro esempio di storytelling strategico nell‘arte di usare il crowdsourcing per truffe: una studentessa universitaria nera che ha raccolto denaro dai repubblicani su GoFundMe dopo aver affermato che i suoi genitori l’hanno rinnegata per aver sostenuto Trump. La narrazione era sospettosamente convincente – perché era una bufala. Sebbene abbia rapidamente restituito i soldi che ha raccolto, ha anche mostrato con quanta facilità puoi sfruttare la generosità delle persone.

Truffe di P&D ovvero ‘Pump and Dump’ servono a gonfiare artificialmente il valore di una valuta. La criptovaluta è spesso la forma di pagamento nelle truffe online, ma in una truffa, la cripto stessa è la frode. Le truffe di investimento sono sempre state destinate a prosperare online. Usando il web verso un target di massa di potenziali investitori, un truffatore può commettere quello che è categoricamente vietato dalla Securities and Exchange Commission, ovvero “pompare“artificialmente il valore delle azioni agli occhi delle masse per poi “far crollare” il valore delle azioni su un rendimento falsamente inflazionato. Secondo The Outline, migliaia di persone si ritrovano online su app come Discord e complottano per “pompare e scaricare” criptovalute (note come “shitcoins” e “scamcoin” a quelli ingannati dallo stratagemma): “[L’] ethos è semplice: compra a poco, rivendi a tanto. L’implicazione è che gli investitori al di fuori del gruppo P&D vedranno il rapido aumento del prezzo e avranno fretta di acquistare, ansiosi di non lasciarsi scappare la prossima corsa all’oro in stile Bitcoin”, ha scritto Paris Martineau di The Outline.

E le notizie-bufala possono alimentare il problema. La manipolazione online si spinge anche oltre. Secondo Buzzfeed, diffondere notizie false online è una delle tattiche “pump” usate dai truffatori per derubare gli sprovveduti in quella foresta del tutto non regolamentata che è la criptovaluta. “Ci sono molti gruppi che si sono concentrati sulla disinformazione”, ha detto Laz Alberto, un investitore di criptovalute ed editore della newsletter Blockchain Report, ai giornalisti di BuzzFeed Ryan Mac e Jane Lytvynenko nel 2018. “Ovviamente è illegale, ma non c’è alcuna regolamentazione e quindi hanno potuto farlo indisturbati.” Un fondatore di criptovalute è stato anche lui stesso obiettivo di una notizia falsa nel 2017, quando si diffuse la notizia che Vitalik Buterin, cofondatore della criptovaluta Ethereum, era morto in un incidente automobilistico. Le false notizie sulla morte di Buterin fecero crollare nel mercato la valutazione di Ethereum – e in seguito rimbalzò in alto, quando il vivissimo Buterin in carne ed ossa sfatò la voce.

·         Il Paese della corruzione percepita. Gli italiani e il senso civico: per uno su tre è giustificabile non pagare le tasse e farsi raccomandare.

Gli italiani e il senso civico: per uno su tre è giustificabile non pagare le tasse e farsi raccomandare. Lo rivela una ricerca Istat. La corruzione viene giudicata un fatto naturale e inevitabile per un cittadino su quattro. Quasi la metà degli intervistati asseconderebbe, inoltre, la richiesta di una prestazione professionale in nero o la mancata emissione dello scontrino, scrive Salvo Introvaia il 22 marzo 2019 su La Repubblica. Gli italiani e il senso civico: possibilisti sull' evasione fiscale. Per uno su tre è ammissibile non pagare le tasse e per più di un quarto farsi raccomandare. La corruzione è ritenuta inevitabile per un cittadino su quattro. Lo rivela una ricerca dell'Istat. Dal lato dei giudizi di ammissibilità dei comportamenti, rilevati nel 2016, il 76,1% e il 72,5% dei cittadini assegnano un giudizio di gravità massimo al voto di scambio e alla corruzione mentre solo il 53,5% valuta allo stesso modo l’infedeltà fiscale che, in ordine di gravità, precede solo l’affissione selvaggia di manifesti, avvisi e pubblicità su pali, cassonetti o muri (41,4%). Un quarto delle persone giudica la corruzione un fatto naturale, sei persone su dieci considerano pericoloso denunciare fatti di corruzione mentre oltre un terzo (36,1%) lo ritiene inutile. Quasi la metà dei cittadini asseconderebbe, inoltre, la eventuale richiesta di una prestazione professionale in nero o la mancata emissione dello scontrino non chiedendo la ricevuta. Un terzo dei cittadini ritiene anche che il copiare a scuola non sia un comportamento grave ma un danno per chi copia; solo il 29% lo valuta come un comportamento che danneggia tutti. Il 23,4% degli intervistati ritiene poi, in determinate condizioni, accettabile parcheggiare in sosta vietata, il 18,5% concede deroghe all’uso del cellulare alla guida, il 28,3% ritiene tollerabile farsi raccomandare per avere un lavoro e il 29,3% non pagare le tasse. Guidare dopo aver bevuto, passare con il rosso, non indossare il casco sono giudicati gravi rispettivamente dall’87,2%, dal 79,0% e dal 78,2% dei rispondenti. Una quota decisamente più bassa (52,6%) giudica grave usare il cellulare alla guida. Per quanto riguarda i comportamenti negli spazi pubblici, l’84% delle persone di 18 anni e più nel 2018 riporta di non gettare carte per strada (in aumento rispetto al 2014), il 74,4% degli automobilisti di non parcheggiare in doppia fila e poco più della metà di questi dichiara di prestare abitualmente attenzione a non adottare comportamenti rumorosi alla guida.

Il Paese della corruzione percepita, scrive il 30 gennaio 2019 Diego Martone su Il Giornale. Secondo il più recente report di Transparency International l’Italia rimane saldamente nelle ultime posizioni europee nella classifica che mette in fila 180 paesi del mondo nel Corruption Perceptions Index. Si tratta di una rilevazione che tende a misurare tramite un’indagine che si ripete ogni anno e che intervista uomini d’affari ed esperti e che disegna una mappa mondiale molto interessante. L’Europa (vedi immagine) è il continente che si conferma quello con il punteggio migliore (più è alto il valore, più il paese o la regione è percepita come “sana” ovvero esente da corruzione) in modo stabile rispetto all’anno precedente. L’Italia nello specifico arretra di un punto (da 53 a 52), denotando come tutti gli sforzi che si stanno facendo in questi anni da parte del legislatore, abbiano lasciato la situazione sostanzialmente immutata. Possiamo consolarci con il fatto che i due terzi dei paesi messi sotto osservazione hanno un punteggio inferiore a 50? O che la media del punteggio sia 43 e quindi che siamo 9 punti al di sopra?

·         Evasori ed indigenti.

«Far pagare le tasse agli italiani, la più grande delle utopie»: parola di Leonardo Sciascia. Il grande scrittore e intellettuale parlava sull'Espresso dell'evasione fiscale come "piaga numero 1". Un breve intervento datato 21 dicembre 1980 ma che sembra scritto oggi. Leonardo Sciascia il 24 ottobre 2019 su L'Espresso. Quale il vizio, il difetto la remora da colpire principalmente negli italiani cominciando, come troppo tardi si comincia, a parlare di una “questione morale”? Qualche anno fa, da pochi giorni in Italia, un diplomatico straniero mi chiese: “da dove si comincia in questo paese? Dalla scuola?”. Risposi: “dalle tasse”. E continuo a pensarla così. Non avendo dello Stato un’idea mitica o mistica, considerandolo come un insieme di servizi al cui mantenimento i cittadini dovrebbero concorrere principalmente devolvendogli una parte considerevolmente proporzionata del loro reddito, ritengo che il sottrarsi a questo dovere implichi necessariamente una condizione di indifferenza o di rassegnazione o addirittura di avversione nei riguardi di quei servizi che si dovrebbero pretendere in cambio. Insomma: si pretende di avere per quel che si paga. Quando non si paga, si ha soltanto quel tanto che non si paga: del denaro che non può diventare servizio, specie in un mondo e in un’epoca in cui i servizi non possono essere gestiti e assicurati che dall’organizzazione di vaste collettività. Se si riuscirà a vincere negli italiani l’orgoglio di non pagare le tasse, e anzi a trasformare il sentimento di orgoglio in sentimento di vergogna – e ciò, purtroppo, non potrà avvenire che attraverso un fatto repressivo – credo che ciascuno e tutti cominceranno a pretendere di più dai servizi dello Stato: di più nella giustizia, di più nella scuola, di più nella sicurezza pubblica… far pagare le tasse a tutti gli italiani che le debbono: è forse l’utopia più grande che possa darsi in questo paese. Ma bisogna pur provare a realizzarla. Perciò mi piace Reviglio. Quando lo vedo seduto al banco del governo, con lo sguardo un po’ sperso e senza quell’aria di sicurezza che hanno altri ministri, mi sento un po’ confortato. Farà magari qualche errore, ma crede in questa grande utopia. Speriamo che lo lascino lavorare.

Da ilfattoquotidiano.it il 24 ottobre 2019. “Evasione fiscale? Non c’è una reazione della collettività tale da prendere le distanze da questi comportamenti. La gente si infuria per un borseggiatore, ma non per chi non paga le tasse, che servono a far funzionare gli ospedali e i servizi. Fanno danni ben maggiori”. Sono le parole di Piercamillo Davigo, presidente della II Sezione Penale presso la Corte suprema di Cassazione e membro togato del Csm, a Dimartedì (La7), rispondendo a una domanda del conduttore Giovanni Floris sulla scarsa sensibilità generale al tema dell’evasione fiscale. Riguardo alle nuove norme che prevedono il carcere per i grandi evasori, Davigo è scettico: “Quello che non va bene riguarda i reati che implicano sostanzialmente un accertamento globale sui redditi, rendendo molto più complicati i processi. Ricordo che la magistratura italiana è passata attraverso una serie di emergenze una dopo l’altra: il terrorismo, la criminalità mafiosa, la grande corruzione, adesso abbiamo anche la protezione internazionale per i richiedenti asilo – continua – Non è che possiamo caricare i magistrati di altro lavoro, perché, se da anni si dice che bisogna ridurre il numero dei processi, non si può pensare di risolvere il problema aumentandoli. E’ una macchina che già funziona male di suo e abbiamo un codice con tempi di realizzazione dei processi lunghissimi. Ci è stato detto che tutto funzionerà perché per l’evasione fiscale ci saranno riti alternativi. Ma non è vero”. E spiega: “In America il 90% degli imputati si dichiara colpevole, perché evita sanzioni più dure, da noi pochissimi ammettono le responsabilità, perché non succede niente se ti dichiari colpevole. Lì c’è un certo terrore di andare a giudizio, da noi no, perché male che vada prendi la prescrizione. Secondo me, la soluzione è la confisca dei beni, come avviene per i soggetti appartenenti alle organizzazioni mafiose. Se, cioè, ti trovo nella disponibilità di beni non compatibili coi redditi da te dichiarati, te li confisco. Dici che appartengono a un altro? Lo risarcirai tu”.

Sandro Iacometti per “Libero Quotidiano” il 19 giugno 2019. L'Istat ci ha spiegato ieri, come fa ogni anno, che in Italia ci sono molti milioni di indigenti, 5 in povertà assoluta e altri 9 in povertà relativa. Nelle stesse ore il presidente di Confartigianato, Giorgio Merletti, ricordava il fatto, definito «surreale», che nel nostro Paese su 60 milioni di abitanti ce ne sono 30 che non pagano neanche un euro di tasse. Entrambi hanno ragione, ma i conti, evidentemente, non tornano. Partiamo dall' Istat. Utilizzando soglie predefinite, basate sul paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia in rapporto all' età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza, l'istituto di statistica verifica il livello di spesa mensile per consumi e individua chi è sotto e chi è sopra. Per avere un'idea la soglia di un adulto che vive da solo è di 834 euro mensili al Nord, 749 al Centro e 563 al Sud. Chi non arriva a coprire il paniere è considerato assolutamente povero, chi ci arriva a malapena è sempre povero, ma solo relativamente. Il conto complessivo indica che nel 2018 nella prima fascia ci sono 1,8 milioni di famiglie (per circa 5 milioni di individui) e nella seconda 3 milioni di famiglie (9 milioni). Valori che non si discostano molto da quelli rilevati lo scorso anno, ma che hanno comunque scatenato le solite dosi massicce di allarmismo, indignazione e polemiche rivolte a chi non ha fatto nulla malgrado le promesse, come il povero Luigi Di Maio, che della povertà aveva addirittura annunciato l'abolizione.

Zero redditi. Passiamo al fisco. Merletti non ha fatto altro che sottolineare quello che molti non sanno o fingono di non sapere. E cioè che un italiano su due non sborsa un centesimo di imposte. Per confermare la tesi basta sfogliare i rapporti periodici del dipartimento delle Finanze sulle dichiarazioni Irpef. Su 60 milioni di cittadini residenti il numero di contribuenti che comunica il proprio reddito all' Agenzia delle entrate si attesta a 40 milioni. Questo significa che 20 milioni di italiani non hanno reddito. E già qui ci si accorge che qualcosa non funziona. Ma non è finita. Perché tra quelli che presentano la dichiarazione ci sono altri 10 milioni che dicono di avere entrate nulle (o addirittura negative) oppure di non aver superato i 7.500 euro l'anno, soglia che esenta dal pagamento di tributi o lo limita a poche decine di euro. Il risultato è che la metà dei cittadini non guadagna a sufficienza per pagare i balzelli necessari a finanziare il funzionamento dello Stato, dalla sanità ai trasporti fino alla scuola e alla sicurezza. A questo punto non resta che tirare le somme. L'Istat ci dice che circa 14 milioni di italiani se la passano così male da avere difficoltà ad acquistare beni primari, come il cibo e i vestiti, o servizi essenziali, come la luce, l' acqua e il gas. Il fisco, invece, ci spiega che 30 milioni di italiani non possiedono reddito, o lo possiedono così basso da non poter provvedere ai propri bisogni.

Truffe e inganni. Prendendo per buone, come sono, entrambe le rilevazioni, ballano almeno 16 milioni di italiani, che per il fisco sono nullatenenti, ma per l' Istat hanno tranquillamente di che vivere. Com' è possibile? Non siamo di fronte ad un paradosso spazio-temporale né ad un' anomalia quantistica, ma al problema più antico dell'Italia, che non è il regno dei poveracci e della disperazione, ma dei ladri e dei furbetti. Lo scostamento così elevato tra le due cifre, al netto di chi all' interno del nucleo famigliare è a carico di altri, per l' età o per scelta, si spiega solo con l' enorme esercito di concittadini che vive nell' illegalità. Da una parte quelli che tentano di accedere ai benefici assistenziali pubblici attraverso ogni mezzo, falsificando certificati medici, intestando proprietà ad altri, spostando residenze, dall' altra quelli che lavorano in nero, non emettono fattura, truccano i documenti contabili. Il risultato è non solo, com' è evidente, che i poveri, con tutto il rispetto per chi lo è davvero, sono molto meno di 5 milioni, ma anche che a finanziare la spesa pubblica sono pochissimi italiani, quelli che solitamente vengono presi di mira dai vari provvedimenti di inasprimento fiscale o taglio delle pensioni. A versare oltre il 57% dei circa 160 miliardi di Irpef, infatti, ci pensa il 12% dei contribuenti. Super ricchi? Macché. Lo scaglione più corposo va dai 35mila ai 55mila euro lordi l' anno.

·         Viaggio nelle feste dei collettivi: un cocktail a 5 euro (in nero).

Morto al rave, viaggio nelle feste dei collettivi: un cocktail a 5 euro (in nero). Pubblicato lunedì, 24 giugno 2019  Fabrizio Roncone su Corriere.it. Tutte le ricostruzioni coincidono. Casino totale. Scena di folla. Un rave. Il posto: università La Sapienza, quel prato davanti la statua della Minerva. Sotto al Rettorato, tra le facoltà di Lettere e Giurisprudenza. Almeno duemila ragazzi. Venerdì notte. Il buio attraversato da lame di luci stroboscopiche. Molta droga, molto alcol. La musica fa bum bum. Tutto abusivo, senza permessi. Non si capisce dove siano gli uomini del commissariato di polizia interno all’ateneo. Nemmeno a cercarli, quelli della vigilanza privata. Da notare che il cancello di piazzale Aldo Moro è aperto. La folla entra da lì, vengono giù percorrendo il vialetto alberato. Nessuno sente le urla di Francesco Ginese. È rimasto con una gamba infilzata nell’inferriata di viale dell’Università, stava scavalcando, arteria femorale tranciata, perde sangue: ha 26 anni, originario di Deliceto (Foggia), laurea in Economia alla Luiss, stage in una multinazionale a Bologna; poi l’idea di venire a questo rave. I suoi amici lo soccorrono, un’ambulanza lo porta al Policlinico Umberto I. Ma dalla terapia intensiva non esce più. Muore all’alba di domenica. Adesso: il nastro di plastica bianco e rosso della Scientifica intorno all’inferriata e due mazzi di fiori, margherite e rose gialle. Poi anche molti titoli sui giornali, nei tigì le immagini della bolgia notturna dentro l’università più grande d’Europa — 113 mila studenti, 11 facoltà, una buona presenza nei ranking internazionali di qualità. Il rettore Eugenio Gaudio — 62 anni, insegnante di Anatomia umana — spiega che la cosiddetta «Notte Bianca» è un evento che si tiene «in quasi tutte le altre università italiane». Solo che qui alla Sapienza gli organizzatori ci avevano aggiunto: «Sapienza Porto Aperto». Modesto giochino di parole polemico nei confronti di Matteo Salvini. La verità è che i collettivi studenteschi non sono più quelli di una volta, certo niente è più come una volta, e nemmeno a stargli a spiegare la magnifica creatività degli Indiani Metropolitani di quarant’anni fa; preistoria, non capirebbero che dentro c’era molta politica e niente del business al quale loro sembrano invece essere piuttosto sensibili. Per capirci. Un bicchiere di birra: 3 euro. Un cocktail: 5 euro. E tutto al nero. Un affare da almeno ventimila euro a festone — l’ultimo, il «Teppa Fest», un mese fa. Poi sui volantini c’era però scritto: «Partecipate alla nostra iniziativa artistico-culturale che sarà articolata in dibattiti sull’attualità, sport, musica e danze». Ci aveva creduto poco, il rettore. Così, mercoledì scorso, ha partecipato ad un vertice con il questore e il prefetto.

Professor Gaudio, un vertice inutile. «Premesso che mi dispiace tremendamente per la disgrazia capitata a quel ragazzo, voglio sia chiaro che io non ho mai autorizzato il rave».

Ripeto: un vertice inutile. «Sa… i vertici…».

Il ministro Salvini si chiede perché lei tolleri comunque questo genere di festicciole. «Ma io non tollero proprio un bel niente!».

In rete ci sono numerosi filmati relativi ad altri rave. «Io sono rettore da quattro anni e mezzo e, da quando mi sono insediato, ho fatto 60 segnalazioni e presentato 19 denunce in Procura. Aggiunga che, a seguito di tutto questo, ci sono 21 persone indagate».

Non ha altro da dire a Salvini? «Non è mia abitudine replicare ad una autorità di governo. Naturalmente spero sia chiaro a tutti, compreso al signor ministro dell’Interno, un concetto: io non posso entrare nel commissariato di polizia che è dentro il mio ateneo e ordinare agli agenti cosa devono o non devono fare».

Perché il cancello pedonale, venerdì notte, era aperto? «Io sono un rettore, non uno sceriffo». Questa è la versione del rettore. Quella degli studenti è molto più netta. Voci raccolte fuori la facoltà di Chimica. «Qui i rave si sono sempre fatti». «No, mai nessun problema con la polizia». «Se Salvini volesse partecipare ad una delle nostre feste, ne uscirebbe sicuramente più rilassato». Di fronte, c’è la facoltà di Fisica. L’aula E. Majorana è occupata. Esce un ragazzo in bermuda, i capelli corti, All Star rosse ai piedi, l’aria — vagamente — da duro. «Niente nome né cognome, ché la Digos ci mette un attimo. Però posso dirti…».

Cosa ci fate con i soldi che incassate con i rave? «Servono a pagare gli avvocati che difendono i nostri compagni».

E poi? «Poi che?».

Non vi resta nemmeno un euro in tasca? «Ma scherzi?».

No. Mi risulta che dietro la gestione delle vostre feste ci siano anche persone adulte, che non hanno niente a che fare con l’università. «Ti risulta male».

Pensaci bene. «Cioè, aspetta: è chiaro che quando fai una festa gigantesca, e devi trovare le casse acustiche e tutto l’occorrente… sì, magari può pure darsi che devi chiedere aiuto a qualcuno e che quel qualcuno voglia essere pagato».

Quindi qualche estraneo c’è? «Sì, c’è. Però, scusa: dov’è il problema?».

Un’ultima cosa: la droga. «Gira ovunque, perciò gira anche qui. Il giorno è un problema del rettore. La notte, durante le nostre feste, vigiliamo noi. La nostra discoteca non può diventare un piazza di spaccio».

(Mentre parlavamo, una ragazza è andata al pannello di legno e ha appeso un foglietto: “Morire per una festa/ giovinezza recisa/ conquista l’eterno/ più bel fiore della Sapienza”).

·         La mancia per gli evasori.

La mancia è una somma di denaro oltre al dovuto che viene elargita come ricompensa per il servizio prestato[1] (in particolar modo in ambito della ristorazione e facchinaggio).

Etimologia. Il termine deriva probabilmente dal termine francese manches, ossia manica. Nei tornei, infatti, i cavalieri ricevevano in dono questa parte del vestito, da parte delle loro dame. La mancia nei diversi Paesi del mondo:

Africa:

In Egitto la mancia (bakscisc in arabo) è una consuetudine molto diffusa. Ciò nasce dal fatto che gli stipendi medi degli egiziani sono notevolmente bassi e trovano così un modo per raggiungere un livello più dignitoso. Nell'ambito della ristorazione la prassi è di lasciare un 10% del conto al cameriere. Da notare che la mancia è richiesta anche da chi fa piccoli lavori (come i parcheggiatori, i facchini e gli addetti alle toilette) per un ammontare di circa una sterlina egiziana.

In Madagascar è d'uso elargire una mancia nei ristoranti, per un ammontare pari al 5% del conto, alle guide nei parchi naturali per un valore pari al 10% del biglietto d'entrata. Agli autisti/guide si dà dai 5000 ai 20000 Ariary, per ogni giorno di cui si è usufruito del servizio. Ai tassisti e ai baristi non è consuetudine pagare alcunché oltre al prezzo del servizio.

Sudafrica: In Sudafrica le mance vengono applicate per qualsiasi tipo di servizio ricevuto a causa soprattutto dei bassi salari della popolazione lavoratrice. Ammonta a circa il 10-15% della prestazione di cui si è usufruito.

America:

In Cile la mancia (propina in spagnolo) è fortemente consigliata (se non obbligatoria) nei ristoranti nella misura minima del 10%, escludendo le catene di fast food estere e i bar, oltre che per lavori di facchinaggio e alle guide turistiche. Vista la forte presenza di europei dove non è consuetudine lasciare la mancia la frase «Si consiglia una mancia del 10%» che viene stampata sugli scontrini è spesso sottolineata. Durante i pagamenti con carta di credito successivamente all'importo speso il terminale POS chiede se si vuole lasciare una mancia. Non è invece consuetudine lasciare una mancia ai tassisti, in quanto il tassametro rilascia un piccolo scontrino con quanto dovuto.

In Perù la consuetudine di lasciare la mancia (propina) è meno radicata e analogamente ai Paesi europei si lascia come segno di apprezzamento per la cena o il servizio ricevuto.

Negli Stati Uniti la mancia corrisponde di solito al 15-20% del servizio utilizzato. Nei ristoranti infatti il servizio non è incluso e pertanto la mancia costituisce una vera e propria retribuzione nei confronti del personale di sala. Stessa regola vale per i servizi alberghieri con il facchinaggio.

Asia:

In Cina non vi è l'abitudine a lasciare la mancia. Nei ristoranti che propongono un servizio di livello medio alto nel corrispettivo da pagare è già compresa una voce dedicata al servizio.

In Giappone non è consuetudine lasciare la mancia, essendo il servizio già ricompreso nel conto e indicato espressamente (per un valore pari al 10-15% circa della prestazione ricevuta).

Europa:

In Austria nel servizio alberghiero e nella ristorazione il prezzo è già comprensivo della mancia. Tuttavia i camerieri di alcuni caffè famosi ed eleganti sono soliti dire che il servizio si paga a parte e rifiutano una piccola mancia. I facchini e gli addetti alle pulizie si aspettano una mancia che consiste nell'arrotondare l'importo pattuito o aggiungere una somma che va dal 5% al 10%. Anche i tassisti si aspettano una mancia del 10% circa. Allo stesso modo anche i parrucchieri e gli addetti al guardaroba.

In Belgio la mancia non è obbligatoria, in quanto il servizio è già compreso nel prezzo della prestazione. Ciononostante è gradita una mancia come segno di apprezzamento del servizio ricevuto.

In Bosnia ed Erzegovina si è soliti lasciare la mancia unicamente ai tassisti e nei ristoranti raffinati.

In Bulgaria vi è la consuetudine di lasciare la mancia soltanto se si è soddisfatti del servizio e in generale si tende ad arrotondare per eccesso la somma del conto da pagare o si aggiunge un 10% allo stesso.

In Croazia è di uso arrotondare in eccesso quanto dovuto, nonostante il prezzo del servizio sia già comprensivo di tutto e generalmente la mancia è del 10% del prezzo della prestazione. Le guide turistiche si aspettano sempre una mancia.

In Finlandia la mancia non è generalmente prevista per alcuna prestazione, essendo il servizio già ricompreso nel prezzo.

In Francia la mancia è compresa nel servizio, pertanto nulla è dovuto. Qualora si volesse lasciare una mancia come gratificazione per il servizio di cui si è usufruito, nei ristoranti è consigliato donare un 10% del totale speso.

In Germania il servizio è incluso nei ristoranti e negli alberghi. È però accettata la mancia e in certe regioni è consuetudine lasciare un 10% qualora il servizio sia reputato soddisfacente.

In Grecia la parola mancia viene tradotta in italiano come «regalo per un amico» (in greco è filodorima). Ciò sta a sottolineare che è libertà di chiunque arrotondare il prezzo della prestazione ricevuta in eccesso, per la percentuale che desidera e se lo vuole.

In Italia la mancia non è né obbligatoria né di consuetudine, essendo il servizio già compreso nel costo della prestazione. Il Contratto Collettivo Nazionale del Turismo ne vieta inoltre esplicitamente la richiesta da parte del personale. La stessa è comunque considerata da un punto di vista giuridico un'obbligazione naturale caratterizzata dalla spontaneità. Nelle case da gioco italiane le mance lasciate dai giocatori ai croupier sono considerate reddito da lavoro dipendente e quindi soggette anche a contribuzione previdenziale.

In Irlanda è necessario distinguere dal soggetto da cui si ottiene la prestazione. Negli alberghi e ristoranti di alto livello la mancia è già ricompresa nel prezzo, pertanto non è necessario lasciare alcuna mancia. Negli altri locali si può lasciare una mancia pari a circa il 10% del valore del servizio utilizzato, anche se di solito non viene fatto pagare il servizio. Questa ultima regola vale anche per i taxi. Nei bar non vi è la consuetudine di pagare nessun extra.

In Islanda non vi è la consuetudine di lasciare alcuna mancia, essendo questa già compresa nel servizio.

A Malta vi è la convenzione di lasciare una mancia pari a circa il 10% del servizio goduto a tassisti e camerieri.

In Norvegia la mancia non è di uso nelle relazioni contrattuali e il prezzo di qualsiasi servizio è comprensivo di qualsiasi costo e tassa.

Nei Paesi Bassi vi è la consuetudine di lasciare il 10% in più del prezzo pagato ai tassisti, ma tale consuetudine non si estende ad altri tipi di servizi.

In Polonia il servizio è compreso nel prezzo, quindi di regola non vi è l'abitudine di lasciare mance.

In Portogallo i ristoranti classificati di alto livello dovrebbero già comprendere nel prezzo del servizio la mancia. Negli altri locali è gradita una mancia che si aggiri tra il 5% e il 10% del totale pagato, ma sempre se si è soddisfatti del servizio avuto. Nei bar e nei caffè basta lasciare qualche spicciolo e non è consuetudine lasciare alcuna mancia ai tassisti.

Nel Regno Unito la mancia è una consuetudine per determinate prestazioni (prettamente di lavoro manuale: facchini, camerieri e servizio in camera). Corrisponde al 10% o 15% circa del prezzo della prestazione e non viene elargita qualora il servizio sia stato insoddisfacente.

In Repubblica Ceca non vi è l'obbligo di lasciare alcuna mancia e qualora si volesse lasciare una mancia al ristorante non la si lascia al tavolo, ma va pagata direttamente al momento del pagamento del conto (è prassi calcolare un 10% sul conto che viene arrotondato in eccesso).

In Russia soltanto nei ristoranti più raffinati è consuetudine lasciare una mancia del 10% circa.

In Slovacchia non è di uso pagare alcuna mancia, fatta eccezione per i ristoranti con servizio al tavolo in cui è prassi lasciare un 5-10% del totale pagato come mancia.

In Slovenia. Nel paese non vi è una regola fissa in materia di mance. Si lascia una mancia di circa il 10%, che può arrivare al 15% se il servizio è stato di buon gradimento, unicamente nei casi in cui la prestazione non sia già comprensiva del servizio. Nel servizio di taxi, si è soliti arrotondare in eccesso il prezzo da pagare 

In Spagna il servizio è ricompreso nel prezzo della prestazione. È gradita, ma non obbligatoria per alcuni servizi quali quelli alberghieri, di piccola ristorazione e nei confronti dei tassisti e varia dal 5 al 10% della somma spesa.

In Svezia mancia non è mai obbligatoria, essendo il servizio compreso nel prezzo. Nei ristoranti e ai tassisti è consuetudine arrotondare il conto. Per i servizi di guardaroba è possibile che si debba versare una somma di circa 10 corone svedesi per ogni capo dato in custodia.

Medio Oriente:

In Giordania nei ristoranti di alto livello è di uso lasciare il 10% del conto per il servizio svolto dal cameriere, mentre negli altri ristoranti e i tassisti basta lasciare qualche spicciolo per arrotondare il conto.

In Israele si usa lasciare una mancia al fattorino negli alberghi, mentre non è di uso lasciarla ai tassisti. Al ristorante è bene lasciare una mancia pari al 12% circa di quanto speso, a meno che il locale non abbia già compreso il servizio.

Nei territori palestinesi non è usuale nella ristorazione lasciare la mancia, eccezion fatta per i ristoranti siti nei luoghi maggiormente interessati dall'afflusso turistico.

Somme percepite come mance. Italia Oggi, n. 198, pag. 33 del 22 agosto 2005. Svolgo attività stagionale che mi consente oltre allo stipendio fisso di ricevere diverse mance. Come sono considerati questi ulteriori importi da un punto di vista previdenziale? Lettera firmata. Risponde Sandra Mauro. Il dpr 917/86 stabilisce che le somme percepite dal lavoratore a titolo di mancia devono essere considerate integralmente nell'imponibile previdenziale.

Mance: come ti devi comportare quando un cliente vuole lasciare una mancia. 17 Giugno 2018 efficaciafiscale.com. Quante volte ti è capitato di lasciare il “resto mancia” dopo aver ricevuto un servizio perfetto? Le possibilità di ricevere la mancia sono in Italia, piuttosto basse, ma considerando la globalizzazione e il numero sempre maggiore di turisti stranieri che scelgono di visitare il bel Paese, anche le mance iniziano a diventare un’usanza “atipica” italiana. La questione delle mance è molto diffusa nei paesi d’oltreoceano, per poi contagiare anche stati europei, come Spagna e Germania. In Italia lasciare la mancia è un fatto sporadico perché non rientra nelle nostre tradizioni, e noi siamo molto tradizionalisti, ciò nonostante sta prendendo piede anche da noi. Quante volte sei andato in un ristorante e dopo esserti rimpinzato a dovere hai scelto di lasciare il resto come mancia? “Resto mancia” se è questione di pochi centesimi è da cafoni, ma spesso parliamo di importi un po’ più cospicui e, in questi casi, alla fine del mese possono rappresentare un bel gruzzoletto che i dipendenti dovranno spartirsi. In Italia qualsiasi passaggio di denaro dev’essere documentato, ma con le mance, come dobbiamo comportarci? Dobbiamo tassarle? E come distinguiamo la mancia dal corrispettivo? Il primo passo per risolvere il problema delle mance e non doverci rimettere, è capire in quale contabilità operi. Se la tua azienda segue la contabilità semplificata, allora il problema non si pone, dato che a livello contabile non devi registrare le movimentazioni bancarie, sarà sufficiente tenere distinto il corrispettivo dalla mancia lasciata dal cliente. Se invece, la tua azienda opera in contabilità ordinaria, e di conseguenza hai l’obbligo di indicare le modalità d’incasso e pagamento delle fatture e dei corrispettivi, facendo quadrare i conti, la questione si fa leggermente più complicata.

Le due possibilità per regolamentare la mancia ed evitare di pagarci tasse e contributi. Dato che non esiste una regolamentazione precisa è importante che tu trovi il modo per giustificare con documenti validi l’importo ricevuto a “titolo mancia”, diversamente potresti essere accusato di evasione fiscale.

Le possibilità per gestire la “questione mance” in Italia sono 2:

La prima possibilità consiste nel chiedere al cliente che intende lasciare la mancia di erogare l’importo in contanti. In questo modo l’azienda non dovrà giustificare l’importo e procedere con l’accantonamento per i dipendenti.

La seconda possibilità si avvera quando il cliente effettua il pagamento con carta di credito, se insiste nel voler lasciare la mancia con questo sistema di pagamento dovrai annotare sul registro dei corrispettivi l’importo corretto della vendita, e annotare su un foglio di calcolo l’importo della mancia così da poter provvedere successivamente ad elargire la somma tra i tuoi dipendenti.

In questo modo, quando il tuo consulente registrerà i corrispettivi e gli incassi, riuscirà a far quadrare i conti e non farti pagare imposte sulle somme ricevute come mance.

Queste sono due soluzioni pratiche al problema mance in Italia, dove ad oggi non esiste una Legislazione chiara che comunichi come procedere e come muoversi, ecco perché, per te, è importante trovare una soluzione che ti permetta di dimostrare che non è un sistema per evadere le tasse.

E per i dipendenti? Come funziona?

Così come tu, in veste di titolare d’azienda non devi pagare le tasse, neanche i tuoi dipendenti dovranno essere soggetti a tassazione per gli importi ricevuti come mance. Nei ristoranti è ormai abitudine, dividere le mance in parti uguali tra tutti i dipendenti, e tu, come datore di lavoro puoi inserire l’importo in busta paga sotto la voce di “erogazioni liberali” così da permettere ai tuoi lavoratori di non essere soggetti a tassazione.

Ovviamente, nel caso in cui si avveri la seconda possibilità di regolamentazione, la somma delle erogazioni liberali deve coincidere con l’importo annotato sul foglio di calcolo, in questo modo avrai un’occasione in più per dimostrare che non stai evadendo.

ATTENZIONE: I Contratti Collettivi Nazionali dei Lavoratori (CCNL) non si sono espressi in merito agli importi minimi o massimi, ma, soprattutto nell’ambiente dei pubblici esercizi, hanno inserito una clausola che prevede norme sanzionatorie nel caso in cui i dipendenti richiedano mance ai clienti. E la punizione più estrema è il licenziamento. Le mance sono quindi, considerate una liberalità che possono essere erogate dal cliente direttamente al cameriere lasciando completamente escluso dal rapporto il proprietario del ristorante. La Legislazione nazionale non si è enunciata espressamente, ma è altrettanto vero che potresti trovare un riferimento della tua specifica regione che ti riconduce ad un massimale, superato il quale l’importo della mancia sarà soggetto a tassazione.

Come devi comportarti? Ora che hai le idee un po’ più chiare, e hai la facoltà di decidere quale possibilità scegliere non ti resta che capire come muoverti. La cosa fondamentale e da non dimenticare, è che in caso di un controllo, è sempre indispensabile avere delle “pezze giustificative” che dimostrino l’importo erogato a titolo di mancia, separatamente dall’importo oggetto del servizio erogato al cliente. Quindi, valuta come muoverti e non impuntarti con il cliente se quest’ultimo insiste con il voler pagare la mancia con la carta di credito, in quanto, come hai visto, c’è una soluzione che ti permette di dimostrare perché hai indicato un corrispettivo differente rispetto all’incasso. Per quanto riguarda i dipendenti, ricorda che l’importo della mancia deve essere suddiviso tra tutti i dipendenti (non è un obbligo ma è consigliato) e soprattutto deve passare dalla busta paga a titolo di “erogazione liberale”, così da avere una “pezza giustificativa “aggiuntiva, che dimostri l’assoluta buona fede della movimentazione. Le erogazioni liberali sono una soluzione “tampone” perché ti permettono di non assoggettare le somme a tassazione e avere una voce specifica per la “questione mance”.

Conclusioni. Non ti resta che metterti al lavoro e fornire un servizio al top per far sì che la “questione mance “diventi un uso costante del tuo ristorante.

Il cliente lascia la mancia, entra la Guardia di Finanza e fa la multa. Il titolare del negozio: ''Non ho mai chiesto soldi per un consiglio, ora passo da evasore". Carlo Orlando è titolare del negozio 'Assistenza OC' per computer e smartphone. "Per risolvere i piccoli problemi non ho mai chiesto soldi e in signore ha insistito per lasciare sul banco 10 euro: da bravo artigiano che aiuta i clienti sono diventato un evasore".  Donatello Baldo 2 novembre 2018 su ildolomiti.it. Un uomo ha lasciato sul bancone 10 euro di mancia, insistendo perché fossero accettate nonostante Carlo Orlando avesse detto che no, non serviva pagare per un consiglio. Pochi minuti e nel negozio Assistenza Oc si sono materializzati due militari della Guardia di Finanza che hanno puntato il dito sulla banconota: "Dov'è la fattura? Multa!". "Ho sempre aiutato chiunque avesse bisogno di una consulenza - afferma il titolare - e non sto parlando del cliente standard che viene in laboratorio per un problema importante ma di quei clienti che magari poco pratici passano per chiedere una mano per delle sciocchezze. Ho aiutato stranieri che avevano difficoltà con la lingua italiana, ho aiutato un ragazzo sordomuto ad aprire una pratica di assistenza telefonica con la TIM che per ovvie ragioni non avrebbe potuto mai fare da solo, prendendomi carico di seguirla fino alla risoluzione del problema". "Ho aiutato anche i ragazzini che avevano bisogno di configurare il cellulare e le persone anziane che credevano di avere il telefono rotto quando bastava premere due tasti e alzare il volume. Dico aiutato e non servito -sottolinea Orlando - perché in questi casi la mia prestazione è stata sempre gratuita (o nel caso della pratica Tim, che ci sono voluti giorni, ho chiesto solo 20 euro con tanto di fattura emessa)". Ai clienti che ringraziavano del servizio gratuito diceva questo: "Non ti preoccupare, siamo a posto così, magari fammi una buona pubblicità se ti capita di parlare di me". Racconta che una volta una signora si presentò con un iPhone 6 che aveva il connettore di carica pieno di polvere e cotone. Una volta rimosso lo sporco le disse: "La polvere, signora, è gratis, alla prossima e buona giornata". Insomma, Carlo Orlando non ha mai fatto i soldi sui clienti che si recavano al suo negozio per chiedere un consiglio, un favore, un intervento di pochi minuti. "L'ultima volta, però, un signore aveva una sciocchezza al computer, risolta in 3 minuti. Di sicuro non potevo chiedergli 20 o 30 euro e come sempre, in questi casi straordinari, gli ho detto 'ma cosa vuoi darmi? siamo apposto così, per così poco, non si preoccupi e buona giornata'. Ma dopo 30 secondi arrivano due finanzieri". In Italia la mancia non è contemplata, quei dieci euro si sono trasformati quasi in refurtiva. "La mancia era di 10 euro. Ancora sul bancone, nemmeno messi in cassa". Ma inesorabile, la legge ha decretato: "Multa!". E nemmeno una signora che era presente, testimone, ha potuto convincere i militari: "Carlo non ha chiesto soldi, li ha lasciati il signore come mancia". Niente da fare, è evasione fiscale. Multa! "Lì per lì mi sono sentito sprofondare. Da bravo artigiano che aiuta una persona, trasformato in delinquente che evade... per una mancia", afferma. "Capisco se avessi fatto il furbo", perché il titolare ha pure la partita Iva con i minimi, al 5% del prelievo. Su 10 euro avrebbe evaso 50 centesimi. Non se la prende con i due uomini della Guardia di Finanza che gli hanno fatto la multa: "No, erano mortificati anche loro, hanno capito benissimo che non sono un evasore, che si trattava soltanto di una mancia lasciata insistentemente da un cliente a cui avevo fatto un favore. Alla fine, dopo che ho firmato il verbale, siamo rimasti in chiacchiere. Ho lasciato loro anche i biglietti da visita, chissà che non spargano la voce e che qualche loro collega venga a farsi sistemare il Pc o lo smartphone...". Ma Carlo Orlano se la prende con "questa Italia". E spiega: "Questa è l'Italia dove un imprenditore, prima o poi, riceverà un torto o un'ingiustizia. Poi ci sono i giovani (imprenditori e non) che scappano all'estero... chissà perché?", si chiede amaramente. E aggiunge: "Avrei preferito fosse stata una rapina, almeno il torto me lo avrebbero fatto dei delinquenti e non dei rappresentanti del nostro Governo. Governo che dovrebbe tutelare i lavoratori". Adesso, per non dover incorrere più in questa situazione, Carlo Orlando ha deciso di fissare un prezzo per ogni singolo intervento. "A me cambia poco, anzi, guadagnerò più soldi. D'ora in poi se ci metterò 3, 10, 20 minuti a spiegare qualcosa ad una persona mi farò pagare. Non sai come si collega il caricabatteria del cellulare? 20 euro e fattura". Però ha deciso anche un'altra cosa, sempre per poter continuare a dare aiuto a chi chiede un semplice consiglio: "Da qui a Natale ci sarà la formula “Carlo ti aiuta” e a sorteggio il cliente che avrà bisogno della prestazione paghera 1 centesimo di euro, ovviamente rilasciando regolare fattura. Per formattazione e installazione del sistema operativo e per altri piccoli interventi che non costano in termini di materiali ma soltanto in tempo, mi affiderò ai dadi: se il cliente mi batte, paga un centesimo che fatturerò regolarmente". 

Ora il Fisco dà la caccia alle mance dei camerieri. Sotto indagine gli extra, mai dichiarati, incassati dal personale di alberghi e ristoranti. E certi tenori di vita che sembrano sospetti. Inchiesta concentrata sugli hotel di lusso di Venezia. Marino Smiderle, Giovedì 22/10/2009, su Il Giornale. Lo schema è piuttosto semplice e collaudato. Dunque, caro portiere di questo leggendario albergo a 5 stelle extra lusso, mi darebbe un consiglio su dove poter cenare come si deve a lume di candela? E poi mi organizza un giro in gondola tipo «Venezia, la luna e tu»? Se, infine, mi indica il miglior negozio di Murano dove poter acquistare una vera opera d’arte in vetro, le sarei infinitamente grato. Chiamiamola mancia, per cominciare. A cui seguiranno, però, le «commissioni» riconosciute dai titolari di tutti gli esercizi commerciali che avranno usufruito dei consigli un tantino interessati. Domanda? Tutti questi introiti extra-stipendio vengono inseriti nella denuncia dei redditi? Ovviamente no, e così la Guardia di finanza di Venezia, secondo quanto riferisce Il Gazzettino, ha deciso di andare a caccia anche di questi evasori fiscali. Non tutte le mance sono uguali, però. Perché vien da sorridere se dipingiamo il cameriere marocchino della pizzeria all’angolo come un incallito evasore solo perché non dichiara i due euro che gli lasciamo una volta alla settimana. Quanto può farci in un mese contando tutti i clienti? Cento euro? «Quando gli va di lusso - osserva Oscar Zago, presidente degli albergatori di Vicenza -. E anche i camerieri dei miei alberghi (uno a Vicenza e uno a Verona) non diventano certo ricchi. Piuttosto, e parlo sulla base dei racconti di colleghi, nelle grandi città d’arte, soprattutto nelle strutture di lusso, che ospitano clienti danarosi, succede che il portiere d’albergo, per dirne una, diventi una professione da tramandare di padre in figlio. Perché è lo stipendio ufficiale che rischia di diventare una mancia, se paragonato con gli introiti extra». La Tenenza lagunare della Guardia di finanza ha deciso di indagare in maniera generale sul fenomeno. Perché, se in altri Paesi (vedi gli Stati Uniti che nello scontrino della carta di credito lasciano uno spazio bianco in cui il cliente è obbligato a indicare la tip, la mancia, che in realtà è il costo del servizio) l’importo assegnato al cameriere a fine mese viene incluso nella denuncia dei redditi dal sistema stesso, in Italia bisognerebbe invece autodenunciarlo e inserirlo nel modello reddituale. Un’impresa impossibile a queste latitudini. Per questo l’indagine avviata dalle Fiamme gialle pare assai complicata, anche se par di capire che sia indirizzata più a individuare i reati fiscali di chi lavora in posizioni privilegiate nelle grandi strutture, a cui sarebbe possibile contestare un tenore di vita incompatibile con il reddito imponibile che compare in cima al modello 101. «Trent’anni fa cominciai a lavorare come semplice impiegato alla concierge di un grande albergo milanese - racconta un portiere d’albergo veneto - e ricordo che mi venivano affidate le mansioni più incredibili da parte dei clienti, tipo andare a prendere una medicina in una farmacia di Roma. Al ritorno mi davano 300 mila lire per il disturbo. Dico la verità, a fine mese mi dimenticavo perfino di andare a ritirare il mio stipendio da quanto avevo guadagnato con questi favori». «Va bene tutto - osserva Marco Michielli, presidente di Confturismo Veneto e albergatore nel Veneziano - ma credo che mettersi a indagare su questo filone non possa condurre molto lontano. Anche perché questa storia delle “stecche” per i portieri d’albergo è un fenomeno non certo veneziano e nemmeno italiano: succede in tutto il mondo. Come rappresentante degli albergatori non posso fare altro che ricordare che, a livello contrattuale, le mance sono vietate. Ma se lei vuole fare un atto di liberalità a un cameriere perché ha apprezzato il servizio, non vedo come potrei impedirlo. Ed essendo una liberalità, non so come possa essere trattata fiscalmente. Piuttosto, pensando a Venezia, c’è da vergognarsi pensando agli intromettitori, a quelli cioè che si infilano tra i turisti e rifilano loro truffe memorabili. I portieri d’albergo magari ci guadagneranno pure, ma non si possono permettere di truffare il cliente. Sennò, al posto della mancia, ricevono una denuncia».

Roberto Rotunno per “il Fatto quotidiano” 26 aprile 2019. Ci sono i "Ferragnez", Fabio Rovazzi e pure la coppia Wanda Nara e Mauro Icardi. Questi, più una ventina di altri calciatori, artisti e influencer, sono finiti nella lista nera stilata dai rider che consegnano il cibo a domicilio e che è in costante aggiornamento. "Sono i vip che ordinano spesso il pranzo o la cena attraverso l' app, ma non lasciano mai la mancia al fattorino, anche se questo ha pedalato sotto la pioggia", spiega l' associazione Deliverance Milano. La pubblicazione della black-list di vip è l' ultima iniziativa dei sindacati autonomi degli addetti alle consegne. Da tempo denunciano un sistema che si basa su pagamenti a cottimo e sull' assenza di diritti, ma di fatto ancora non è cambiato nulla. Nemmeno dopo giugno 2018, quando il ministro del Lavoro appena insediato, Luigi Di Maio, ha promesso di affrontare di petto la loro situazione. Così, hanno deciso di alzare l' asticella e di scegliere una mossa di grande impatto che stavano studiando da settimane: ieri mattina hanno pubblicato su Facebook l' elenco dei personaggi noti che in questi mesi, stando alla loro stessa esperienza, avrebbero servito senza ricevere alcuna mancia. Ci sono i rapper più famosi, come Fedez, Clementino e Rocco Hunt. Poi i calciatori che militano, o hanno militato fino a pochi mesi fa, nelle squadre milanesi. C' è l' attaccante dell' Inter Icardi con la moglie-procuratrice, Gonzalo Higuain e Leonardo Bonucci. E ancora voci radiofoniche come Albertino e volti televisivi come Teo Mammucari. I rider si sono anche tolti un sassolino dalla scarpa, inserendo nella lista alcuni vertici delle stesse società del food delivery come Matteo Sarzana, general manager di Deliveroo Italia, Matteo Pichi, country manager di Glovo e Gianluca Cocco, ex amministratore delegato di Foodora (società che a novembre ha lasciato il nostro Paese). "Inutile dire che questi personaggi famosi vivono in quartieri residenziali extralusso - aggiungono da Deliverance Milano - o nel centro delle città e che è significativo riscontrare come sia più facile ricevere la mancia se si consegna in zone popolari o in quartieri periferici, piuttosto che in distretti o in civici fighetti e più pettinati". La scelta di rendere nota la black-list ha suscitato reazioni differenti. Qualcuno l' ha condivisa, incoraggiando l' associazione dei fattorini ad andare avanti. Secondo altri, invece, dare la mancia non è un obbligo, nemmeno per il cliente benestante che non deve sostituirsi all' azienda che paga poco il suo lavoratore. Ed è questo il punto. La lotta per i diritti dei rider, infatti, a partire almeno dal 2016 ha avuto un' eco mediatica molto forte ed è difficile che qualcuno non conosca le loro condizioni. Non c' è un salario orario, la paga è di circa 4 euro a consegna (che in genere è ottenuta da una somma di voci tra cui una tariffa parametrata sui chilometri percorsi) e secondo uno studio Acli i rider - che spesso non hanno altri lavori - guadagnano poco più di 800 euro al mese. Inoltre, le app possono applicare prezzi di consegna vantaggiosi per i consumatori proprio facendo leva anche su un costo del lavoro basso. Per questo le mance - che tra l' altra se inserite all' atto dell' ordinazione sono anche tassate - spesso costituiscono un aiuto. L' iniziativa ha poi un altro obiettivo, è una provocazione: far notare alle piattaforme del food delivery che anche i fattorini hanno carte da giocarsi per aumentare il proprio potere negoziale. Una di queste è la conoscenza delle abitudini dei loro clienti, a partire dai vip, e la possibilità di renderle pubbliche. Deliverance Milano si augura infatti che la questione rider possa tornare nell' agenda politica. A gennaio la Corte d' Appello di Torino ha stabilito che, pur non avendo diritto a essere riconosciuti come dipendenti, ai fattorini vanno assicurate le stesse tutele del lavoro subordinato, come la retribuzione che non può essere a cottimo ma agganciata al contratto collettivo di settore. Subito dopo, il governo aveva promesso di recepire la sentenza introducendo lo stipendio fisso all' ora con un emendamento al decretone sul reddito di cittadinanza. Poi però ha fatto marcia indietro tradendo ancora una volta i rider. Le app hanno quindi continuato ad applicare i pagamenti a consegna, in alcuni casi legandoli addirittura alle votazioni lasciate dai clienti, sperando che la Cassazione ribalti quanto deciso dai magistrati di secondo grado. Intanto, pur avendo ancora bilanci in perdita, continuano a espandersi e ad aumentare i servizi. C' è chi si sta attrezzando per il pagamento alla consegna. I rider non ci stanno: pretendono un' indennità di cassa, perché se dovessero andare in giro con tanti contanti rischierebbero di diventare prede di rapine e aggressioni.

Filippo Conticello per “la Gazzetta dello sport” il 26 aprile 2019. Lasciare la mancia non è mai un obbligo, nemmeno se si è un calciatore famoso (e danaroso). Ma in certe occasioni, quando picchia forte la pioggia, forse si potrebbe allungare qualche euro al rider che consegna a casa la cena: pare che Mauro Icardi, Gonzalo Higuain, Leo Bonucci (e tanti altri) di solito scelgano di non farlo. E per questo sono stati pubblicamente messi alla berlina da Deliverance Milano, collettivo di fattorini precari nel delivery food. Ieri il gruppo ha pubblicato una propria «black list», un elenco di star e vip che regolarmente ordinerebbero da mangiare via app e non lascerebbero la mancia a nessun fattorino. «Nemmeno in caso di pioggia!», aggiunge il comunicato decisamente minaccioso. Nella lista ci sono cantanti, influencer, personaggi tv, più un lungo elenco di calciatori di oggi e di ieri: in porta Cristian Abbiati, difesa a quattro con Danilo D' Ambrosio, Philippe Mexes e Paolo Cannavaro assieme a Bonucci. C' è poi Wanda Nara assieme al marito Mauro, che ha il Pipita come compagno d' attacco argentino, Nel resto della compagnia spiccano i Ferragnez , la coppia Fedez-Chiara Ferragni, e i rapper Marracash Clementino e Rocco Hunt. la protesta Il sindacato, autonomo e autorganizzato, ha scelto una azione Social plateale e assai invasiva: l' obiettivo è far montare le polemiche con le multinazionali del settore come Glovo o Deliveroo. La scelta della pubblicazione nel giorno della Liberazione non è, infatti, casuale: «Se l' informazione è potere, noi rider liberiamo i dati!», si legge sulla pagina Facebook del collettivo. Tengono a far sapere di conoscere gli indirizzi dei clienti e, come dimostra la provocazione di ieri, anche la loro generosità in tema mance: «Che cos' è la privacy nel 2019?», si chiedono quindi. Ed ecco la risposta: «Per noi è un nuovo welfare, indotto dal denaro raccolto dalla monetizzazione dei nostri dati e la redistribuzione di tale ricchezza». il tema Il tema dei riders, tra diritti minati e paga da fame, è da mesi nell' agenda politica: sono circa 10 mila, soprattutto giovani o giovanissimi, e prendendo in media circa 12,5 euro lordi l' ora. Dopo scioperi e sentenze che hanno riconosciuto il diritto a ferie e malattia, ieri hanno però rotto un principio sacro nella cosiddetta «gigconomy»: la segretezza dei dati, base del rapporto di fiducia tra azienda e clienti. Da lì le parole aggressive: «Attente, piattaforme digitali: noi produciamo i dati, noi conosciamo i vostri punti deboli e non esiteremo ad usarli contro di voi». L' obiettivo? Togliere l' Iva sulle mance pagate via app. Insomma, i giocatori col braccino sono finiti in mezzo a una battaglia molto, molto più grande.

Fedez contro i rider: “Mance non plus ultra dello sfruttamento del capitalismo”. Redazione Blitz Quotidiano 26 aprile 2019. Dopo Marracash anche Fedez risponde alle accuse dei rider, secondo i quali lui ed altri vip sarebbero molto avari in quanto a mance a chi consegna loro il cibo a domicilio. E dal suo hotel in Polinesia, dove si trova con la moglie Chiara Ferragni, liquida le mance come “parte di un retaggio americano che è il non plus ultra dello sfruttamento del capitalismo”. In un post pubblicato su Facebook il 25 aprile i fattorini di Deliverance Milano hanno pubblicato una lista di nomi di personaggi famosi rei, secondo l’accusa, di “ordinare regolarmente con le app e non lasciare la mancia a nessun fattorino, nemmeno in caso di pioggia!”. Su Instagram la replica di Fedez: “Mi sono appena svegliato leggendo questa fantastica notizia della lista segreta dei personaggi famosi che non lasciano le mance ai fattorini rider di Deliveroo. Al di là della totale infondatezza della notizia, che poco importa, parlano tutti di lotta di classe 2.0. Le mance fanno parte di un retaggio americano che è il non plus ultra dello sfruttamento del capitalismo. In America le mance sono obbligatorie perché il datore di lavoro ti può pagare di meno. E se tu non dai la mancia causi un danno, peccato che è il modo meno sindacalizzato e tutelato per lavorare. La tua sopravvivenza di lavoratore non può essere garantita dal cliente perché rischi di fare una vita di merda. E non capire questo e spostare l’attenzione sulle “mancette” è la cosa meno di sinistra e meno lotta di classe possibile, è stupido. E aldilà di tutto ci tengo a dire che a me le liste di proscrizione pubblica hanno sempre puzzato di fascio”. (Fonti: Instagram, Facebook)

Rider furiosi, ecco i calciatori che non lasciano la mancia. I fattorini 2.0 hanno pubblicato sui social una lista di "tirchi" tra cui nomi celebri del nostro calcio. Corrieredellosport.it venerdì 26 aprile 2019 19:10. Ricchi e tirchi. Cantanti, calciatori, sportivi, musicisti...sono tanti i vip che fanno parte della lista nera realizzata dal collettivo dei rider che in bicicletta portano il cibo nelle case di tanti italiani. I fattorini 2.0 hanno infatti pubblicato su "Deliverance Milano" i nomi dei personaggi meno generosi. L’iniziativa nasce come come arma nella battaglia contro le aziende delle consegne a domicilio. E la denuncia è sicuramente forte: «Ricordatevi sempre una cosa clienti: entriamo nelle vostre case, vi portiamo il cibo e qualsiasi altra cosa vogliate, praticamente a tutte le ore del giorno, siamo in strada sotto la pioggia battente o sotto il sole cocente, senza assicurazione. Sappiamo tutto di voi. Sappiamo cosa mangiate, dove abitate che abitudini avete.»

Da Bonucci a Higuain, i calciatori avari con i fattorini. Nell'elenco non c'è solo calcio: tra i nomi anche la coppia Fedez e Chiara Ferragni, i rapper Marracash, Noyz Narcos, Clementino e Rocco Hunt e perfino Salvatore Aranzulla... I rider contro i vip: "Ecco quelli che non lasciano la mancia". L'azienda: "Sconcertati dalle minacce". Pubblicata una lunga lista di nomi di personaggi famosi: cantanti, star di Instagram, calciatori, attori, personaggi del mondo dello spettacolo, musicisti, dj, influencer.  TiscaliNews il 25 aprile 2019. "Siamo sconcertati dalle dichiarazioni pubblicate su Facebook 'Deliverance Milano', soprattutto in relazione al tema della privacy e alle minacce, neanche troppo velate, che sono state rivolte ad alcuni consumatori". Lo spiega AssoDelivery, associazione che rappresenta le principali piattaforme di food delivery (Deliveroo, Glovo, Just Eat, Social Food e UberEats) in relazione alla lista di vip pubblicata da un collettivo di rider, chiarendo di aver "già segnalato l'accaduto alle autorità competenti". "Questa è la nostra 'blacklist', un elenco di tutte le star e i vip che regolarmente ordinano con le app e non lasciano la mancia a nessun fattorino, nemmeno in caso di pioggia!". Con queste parole comincia il messaggio pubblicato da un collettivo di rider, ossia i fattorini che fanno le consegne del cibo, e lavoratori precari, che pubblica una lunga lista di nomi di personaggi famosi: cantanti, star di Instagram, calciatori, attori, personaggi del mondo dello spettacolo, musicisti, dj, influencer.

La lista. Questa la lista pubblicata su Facebook dal collettivo dei rider. Dj Albertino, Teo Mammuccari, Fedez e Chiara Ferragni, Andrea Musacco, Cristian Abbiati, Paolo Cannavaro, il cestista David Moss, il terzino dell'Inter D'Ambrosio. I rapper Noyz Narcos e Marracash, il guru del problem solving al pc Salvatore Aranzulla, Alessandro Gentile, Leonardo Bonucci, Fabio Rovazzi, Mauro Icardi e Wanda Nara, Matteo Sarzana, Giancluca Cocco, Matteo Pichi. Per chiudere, i calciatori Gonzalo Higuain e Philippe Mexes, i rapper Clementino e Rocco Hunt, e infine Platinette.

La minaccia sulle mance. "Ricordatevi sempre una cosa clienti - si legge nel post su Fb, che suona a tratti 'minatorio' - entriamo nelle vostre case, vi portiamo il cibo e qualsiasi altra cosa vogliate, praticamente a tutte le ore del giorno, siamo in strada sotto la pioggia battente o sotto il sole cocente, senza assicurazione. Sappiamo tutto di voi. Sappiamo cosa mangiate, dove abitate che abitudini avete. E come lo sappiamo noi, lo sanno anche le aziende del delivery. Queste piattaforme come sfruttano noi lavoratori senza farsi alcuno scrupolo, sfruttano anche voi, speculando e vendendo i vostri dati".

Le rivendicazioni. E ancora: "Buon 25 aprile e buona festa della liberazione a tutti! Se l'informazione è potere noi rider liberiamo i dati!". L'elenco, attacca ancora il collettivo - che chiede "diritti sindacali, salario minimo, una previdenza sociale adeguata" e che le mance non vengano tassate - "verrà aggiornato in tempo reale e reso pubblico ogni qualvolta lo riterremo necessario. Invitiamo tutti i nostri colleghi a mandarci altre segnalazioni". E ancora: "Attente quindi piattaforme digitali del delivery food, perché se non volete parlare con noi, confrontarvi con le nostre rappresentanze autonome e i gruppi organizzati che sono in stato di agitazione sindacale permanente, questo è il futuro che vi aspetta: noi produciamo i dati, noi conosciamo i vostri punti deboli e non esiteremo ad usarli contro di voi".

Blacklist dei rider, le aziende di food delivery: “Privacy rispettata”. Tg24.sky.it 26 aprile 2019. AssoDelivery, l'associazione che rappresenta le principali piattaforme di food delivery (Deliveroo, Glovo, Just Eat, Social Food e UberEats), è intervenuta con una nota sul caso della ‘lista nera’ dei vip che non danno la mancia 

"Siamo sconcertati dalle dichiarazioni pubblicate su Facebook dal gruppo Deliverance Milano, soprattutto in relazione al tema della privacy e alle minacce, neanche troppo velate, che sono state rivolte ad alcuni consumatori". E’ quanto fa sapere AssoDelivery, l'associazione che rappresenta le principali piattaforme di food delivery (Deliveroo, Glovo, Just Eat, Social Food e UberEats), sul caso della ‘lista nera’ stilata dai rider e pubblicata su Facebook dei vip che non danno la mancia a chi consegna loro quanto ordinato.

Le minacce alla privacy. In una nota, l’associazione smentisce la minaccia secondo cui le aziende di delivery "sfruttano" i clienti tanto quanto i fattorini, "speculando e vendendo i dati", si legge nel post in questione. "Le piattaforme aderenti ad AssoDelivery - si specifica -, trattano i dati dei propri clienti nel totale rispetto della normativa vigente in materia di privacy e pertanto prendono le distanze da quanto pubblicato su un gruppo Facebook".

"Questione segnalata alle autorità". E ancora: "Le dichiarazioni sono molto gravi - prosegue AssoDelivery - e abbiamo già segnalato l'accaduto alle autorità competenti, al fine di andare a fondo sulla questione e prendere i dovuti provvedimenti, compresa l'interruzione dei rapporti con le persone coinvolte in attività illegali. La legalità e la sicurezza dei nostri clienti sono una nostra priorità". A proposito della mance, AssoDelivery sottolinea: "Le mance sono qualcosa di positivo, alle quali siamo favorevoli e restano una possibilità a totale discrezione dei clienti. Nelle piattaforme in cui è disponibile la funzione, le mance vanno completamente ai rider. A questi compensi si applica la normale tassazione prevista dalla legge, senza nessuna trattenuta da parte delle piattaforme".

·         Il governo dei condoni: ecco tutti i regali a evasori e furbetti.

Il governo dei condoni: ecco tutti i regali a evasori e furbetti. L'esecutivo gialloverde aveva promesso di non farne più. E invece abbiamo scoperto sanatorie, regalie per chi non ha pagato le tasse. E non mancano i conflitti d'interesse nei confronti di chi ha finanziato la campagna elettorale, scrivono Paolo Biondani e Gloria Riva il 30 gennaio 2019 su "L'Espresso". La madre dei condoni è sempre incinta. Lega e Cinquestelle avevano promesso ai cittadini di varare il governo del cambiamento. Ma su un tema fondamentale per i conti pubblici italiani come la lotta all’evasione, la politica gialloverde consacra nei fatti un grande ritorno al passato. Con una pioggia di sanatorie, tagli, sconti e agevolazioni di ogni tipo. Che ipotecano anche le entrate future. In una clima di condono generale. Che oggi si chiama pace fiscale. La novità politica è che il condono si fa, ma non si dice. Il decretone fiscale varato d’urgenza dal governo Conte il 23 ottobre non usa quella parola imbarazzante. Ma contiene una serie di norme che hanno gli stessi effetti delle più contestate sanatorie fiscali e previdenziali della prima e seconda repubblica. In tutta la prima parte del decreto, ogni articolo è un condono. Chi non ha pagato tasse e contributi può mettersi in regola senza nessun aggravio di spesa. Niente sanzioni, zero interessi. L’evasore può sanare ogni addebito anche se è già stato scoperto, limitandosi a versare le stesse imposte che erano dovute in partenza, quelle che i cittadini onesti hanno già pagato. Le nuove norme prevedono anche forti sconti dei debiti fiscali, con casi di totale azzeramento, e tempi più lunghi di riscossione. Mentre i contribuenti onesti continuano a dover saldare tutto ad ogni scadenza stabilita, i furbi vengono autorizzati a pagare meno e in ritardo. Giuristi ed economisti che studiano il sistema fiscale sottolineano un’anomalia assoluta dei nuovi condoni. «Ogni provvedimento di sanatoria, storicamente, ha benefici di breve termine per la casse dello Stato e costi elevati nel medio e lungo periodo. Il paradosso dei nuovi condoni è che, stando ai numeri del governo, sono molto limitati anche i benefici immediati», osserva Alessandro Santoro, professore di scienza delle finanze all’università di Milano Bicocca, che è componente tecnico di alcune commissioni ministeriali e fa parte del comitato di gestione dell’Agenzia delle entrate. «In ogni condono è intrinseco un messaggio di lassismo fiscale, che riduce il gettito negli anni a venire, per l’aspettativa di altre sanatorie future. Mentre nel breve periodo c’è un aumento delle entrate: chi aderisce al condono versa imposte che altrimenti non avrebbe pagato. In base alla relazione tecnica del nuovo decreto, invece, gli incassi previsti sono molto modesti e, quando sono rilevanti, si verificano non prima del 2020».

"L’Agenzia delle entrate dovrà destinare parte del personale alla gestione dei condoni, riducendo le risorse umane disponibili per combattere l’evasione fiscale. E si incoraggiano le aziende a non pagare tasse". Parla Carlo Cottarelli

«Nello specifico», argomenta il professore, «la definizione agevolata dei verbali dovrebbe incrementare il gettito fiscale di 51 milioni nel 2019 e di 68 milioni a partire dal 2020, mentre con la definizione delle liti pendenti è previsto un aumento di 75 milioni nel 2019 e di 100 milioni dal 2020. La rottamazione-ter potrebbe avere addirittura un effetto negativo sulle entrate del 2018, quantificato nella relazione tecnica in 414 milioni, dovuto alla possibilità di rinviare i versamenti già previsti dalla rottamazione-bis del 2017. La stessa misura non prevede alcun effetto netto per il 2019 e dovrebbe iniziare a generare gettito solo nel 2020, per un valore stimato di circa 1,2 miliardi. Siamo quindi di fronte all’assurdo di una serie di condoni che, oltre a minare la certezza della pena e aumentare l’iniquità del sistema, generano maggiori entrate di importo trascurabile». L’Italia si riconferma così una nazione fondata sui condoni. Dal lontano 1900 fino ad oggi, si contano almeno 67 provvedimenti generali di perdono pubblico dell’evasione fiscale e del lavoro nero. In media, uno ogni due anni. Con effetti aggravati dalla durata. Ogni sanatoria infatti non riguarda solo il momento in cui viene approvata, ma si estende anche agli anni precedenti. E in qualche caso vale pure per il futuro. Il grafico pubblicato in queste pagine riassume proprio gli effetti dei vari tipi di condoni (fiscali, contributivi, edilizi e penali) cumulati nel tempo: a conti fatti, le annate escluse sono pochissime. E si concentrano nei primi anni Novanta: il periodo di Mani Pulite, quando nessuno osava parlare di amnistia o impunità. Tra i nuovi condoni gialloverdi, il più vistoso è proprio la definizione agevolata dei processi verbali di constatazione (pvc): l’atto d’accusa iniziale, firmato dalla Guardia di Finanza dopo mesi o anni di verifiche e indagini. Il decreto prevede lo sgravio totale, cioè l’azzeramento di sanzioni e interessi, per tutti i verbali notificati fino al 24 ottobre 2018. L’evasore già pescato dalle Fiamme gialle, dunque, può tornare immacolato pagando solo le tasse che avrebbe dovuto versare dall’inizio. La definizione agevolata consente di annientare anche i successivi avvisi di accertamento: l’accusa definitiva, formalizzata dall’Agenzia delle entrate. Il nuovo tipo di condono, insomma, ha effetti immediati, anzi anticipati: fa morire sul nascere l’accusa stessa di evasione. E permette ai furbi di pagare a rate, nell’arco di cinque anni. Questa misura riguarda tutte le tasse più importanti, come Irpef, Iva e Irap, ma soccorre anche i soggetti, di solito ricchi, che hanno dimenticato di pagare le imposte sul valore dei beni detenuti all’estero (Ivie e Ivafe). Restano escluse solo le tasse europee, altrimenti l’Italia avrebbe rischiato condanne internazionali. Oltre alle tasse, la sanatoria vale per i contributi, quindi anche per i casi di lavoro nero. Le associazioni dei commercialisti e dei consulenti del lavoro hanno pubblicato vari studi dove osservano che il doppio premio (zero sanzioni, zero interessi) si conquista con la prima rata: per chi non paga quelle successive, non sono previste multe o decadenze. I soggetti più scaltri possono quindi tentare il bis: gli evasori ormai scoperti potrebbero trasformarsi in furbetti delle rateazioni.

Il governo Conte ha giustificato tutte queste forme di pace fiscale con una nobile scelta politica: non perseguitare masse di cittadini impoveriti dalla crisi. Il problema è che tutti i condoni sopra descritti non hanno limiti di reddito o di patrimonio: si applicano anche nei casi di evasioni multimilionarie. Lega e Cinquestelle hanno rilanciato e allargato anche la rottamazione varata dal governo Renzi, che provoca il solito colpo di spugna (zero sanzioni e interessi), spalmato questa volta su tutte le cartelle esattoriali notificate dal 2000 al 2017. A rimanere paralizzati sono gli atti esecutivi, con cui lo Stato reclama il saldo di tasse non contestabili. Con la rottamazione, si paga solo il debito originario, più il compenso (aggio) per le società di riscossione. Nella legge di bilancio è apparsa però la cosiddetta super-rottamazione, chiamata «saldo e stralcio», che taglia pure gran parte del debito a monte, fino a livelli tra il 16 e 35 per cento: è l’unica norma pensata per le famiglie più povere (con indicatore Isee fino a 20 mila euro). Ma in un Paese con un’evasione gigantesca come l’Italia (130 miliardi all’anno), come osserva l’economista Carlo Cottarelli, c’è il rischio che la misura per gli indigenti diventi un regalone ai furbi arricchiti con i soldi in nero. In aggiunta, il decreto azzera tutte le cartelle fino ai mille euro mandate in riscossione dal 2000 al 2010: qui nessuno paga più nulla. E questa amnistia fiscale vale per tutti, poveri e ricchi. A completare il quadro della pace fiscale è la definizione agevolata dei processi tributari: anche i soggetti che hanno fatto causa al fisco possono cavarsela pagando solo una percentuale. La tariffa è del 90 per cento se si attende ancora la prima sentenza. La quota si abbassa di molto per i contribuenti che hanno vinto i vari gradi di giudizio: se manca solo l’ultimo verdetto della Cassazione, si paga il 5 per cento. Per gli esperti, sono le norme più sensate. I maxi-sconti infatti premiano i contribuenti che stanno vincendo i processi, dove lo Stato rischia di non incassare nulla. Molto meno chiare sono le ragioni che hanno spinto il governo ad approvare condoni favolosi solo per alcune fortunate categorie di soggetti. I produttori di sigarette elettroniche o altri dispositivi anti-tabacco, in particolare, hanno ottenuto una sanatoria eccezionale per le loro tasse di settore (chiamate imposte sui consumi): possono pagare solo il 5 per cento dell’evasione accertata. Un ventesimo delle tasse che avrebbero dovuto già versare, in teoria, dal 2014 al 2018. Per ogni milione di debito fiscale, il governo si accontenta di 50 mila euro, pagabili in dieci anni, in 120 rate mensili. Se poi non pagheranno nemmeno quelle, spiegano gli esperti, le imprese interessate perderanno solo il beneficio della rateazione, ma non il condono. Questo favore fiscale è stato approvato con un emendamento della Lega. Il quotidiano La Stampa ha rivelato che, prima del condono, il partito di Matteo Salvini aveva ricevuto una donazione di 75 mila euro dalla Vaporart, una delle prime aziende del settore. La Lega ha dichiarato e fatto inserire nel contratto di governo il taglio delle tasse sulle sigarette elettroniche per il futuro: il condono per il passato è invece una sorpresa, che secondo la relazione tecnica dovrebbe costare alle casse statali circa 200 milioni di euro. L’Espresso ha scoperto che questo regalo politico è stato approvato in giorni drammatici per la Vaporart, che era finita al centro di una verifica della Guardia di Finanza, proprio per le imposte sui consumi non pagate: un’indagine che si è appena chiusa con una maxi-denuncia per evasione fiscale. Un’altra sanatoria misteriosa premia i patron di associazioni sportive e società dilettantistiche iscritte al Coni: possono condonare tutto, versando solo metà delle tasse dovute e un ventesimo delle sanzioni, fino a un tetto di trentamila euro per ogni imposta. In totale, nei codicilli delle nuove leggi, L’Espresso ha contato 17 forme di condono. I Cinquestelle hanno bocciato le sanatorie-scandalo dei reati, che il partito di Salvini proponeva per le fatture false e per quelle forme di peculato (rimborsi-truffa) che vedono imputati plotoni di leghisti. Nel decreto per Genova però è passata la riapertura delle pratiche dei vecchi condoni edilizi per Ischia e altre zone terremotate, da valutare, come ha denunciato Legambiente, in base alle norme del 1985, quando non esistevano vincoli. Gli esperti temono che un boom dell’evasione possa derivare anche dalla famosa flat tax targata Lega: la tassa fissa del 15 per cento per tutte le partite Iva che nel 2018 hanno dichiarato meno di 65 mila euro. L’economista Vieri Ceriani, che ha lavorato come tecnico alla Banca d’Italia e al ministero prima di diventare sottosegretario con il governo Monti, vede in quel limite «un muro che spingerà molte piccole imprese a crescere nel sommerso, cioè a non dichiarare i ricavi superiori ai 65 mila euro, e a non trasformarsi in società di capitali». Ceriani evidenzia che la legge di bilancio ha abolito riforme fiscali già approvate come l’Ace e l’Iri, che dal 2019 avrebbe garantito alle piccole imprese la stessa tassazione al 24 per cento delle società di capitali, «eliminando un ostacolo alla crescita, che ora invece ritorna più forte». Da notare anche l’assenza di tagli delle aliquote per i lavoratori dipendenti, che continueranno a versare le tasse più alte del mondo: nell’aziendina-tipo, a conti fatti, gli operai pagheranno il doppio dei padroni. Un altro provvedimento che rischia di far esplodere i pagamenti in nero è la riforma del lavoro occasionale. Al posto dei voucher, ora c’è il libretto famiglia. Che permette di registrare badanti e domestici solo «al termine della prestazione lavorativa», come spiega il sito aggiornato dell’Inps, «non oltre il terzo giorno del mese successivo». Con il governo del cambiamento, la lotta al lavoro nero diventa retroattiva: se arriva l’ispettore, basta dire che si è in attesa di regolarizzazione futura.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Dai tiranni al popolo: radiografia del potere.

Dai tiranni al popolo: radiografia del potere. Corrado Ocone l'8 Agosto 2019 su Il Dubbio. Rieditato dopo oltre 40 anni “saggio sui potenti” una brillante analisi dello storico Piero Melograni. Il potere non si muove mai in modo unidirezionale: si può manipolare l’opinione pubblica ma alla fine sono le masse che decidono quando il capo ha esaurito il suo dominio. Cosa è il potere? Fiumi di inchiostro sono stati sparsi nei secoli per rispondere a questa domanda, in modo diretto o indiretto. Nulla più del potere sembra sia correlato alla vita degli uomini in società. E niente più del potere genera all’un tempo fascino e timore, attrazione e repulsione, amore e odio. L’impressione è che però del potere se ne abbia ancora un’immagine mitologica, illusoria, non corrispondente alla realtà effettuale. Esso, dopo tutto, non lo si riesce a definire con precisione. Meglio perciò partire dai potenti, o presunti tali, cioè da coloro che a prima vista sono i titolari del potere. Forse, dalle loro vite e dalle loro azioni sarà possibile capirci un po’ di più. È questo ragionamento che suppergiù dovette fare più di quarant’anni fa ( nel 1977 per la precisione) il grande storico Piero Melograni, che scrisse e poi pubblicò per Laterza un pamphlet di facile lettura che intitolò Saggio sui potenti. Con parole semplici e con tanti esempi ( tratti soprattutto dalla storia novecentesca che più frequentava), egli si ripromise di accompagnare quasi per mano il lettore lungo un percorso che doveva approdare a un esito addirittura sorprendente: i potenti sono molto meno potenti di quanto si pensi, e il potere è molto più diffuso e molecolare di come noi ci siamo abituati da sempre a considerarlo. Va dato perciò atto alla casa editrice Einaudi di aver compiuto una bella operazione rimettendo in giro in una nuova edizione il libro di Melograni (ET Saggi, pagine 131, euro 12), che possiamo considerare un piccolo classico, che non invecchierà mai, proprio perché tocca problemi connaturati all’essere umano e sa parlare a tutti e con il linguaggio di tutti, senza lasciare minimamente trasparire o pesare la profonda cultura che sta in sottofondo. Una virtù propria del grande maestro, quale indubbiamente Melograni era. Ma anche una virtù propria del grande storico che, con un semplice e piano argomentare, sa smontare ad una ad una tutte le costruzioni intellettualistiche sul potere che sono proprie degli scienziati della politica. I quali, per la metodologia ( positivistica) della loro disciplina, sono impossibilitati per principio a cogliere il cuore pulsante e ultimo della realtà. Non è un caso che nella breve antologia posta al termine del volume, Melograni citi moralisti ( Montaigne), storici ( Tocqueville), scrittori ( Tolstoj e Roth), ma non scienziati della politica in senso stretto e empirico. Negli ultimi decenni sono cambiate tante cose, che Melograni come chiunque altro poteva solo vagamente immaginare negli anni in cui scriveva queste pagine: il potere dagli ambiti classici della politica, militare o ecclesiastico si è esteso al mondo dell’economia e ancor più a quello della finanza. E ha preso poi corpo sempre più il potere dell’opinione di massa, di cui già Melograni discorre ma il cui discorso sviluppa considerando i mezzi di comunicazione tradizionali e non quei new media che avrebbero di lì a poco portato profondi sconvolgimenti persino nella vita reale. Si è anzi creata una alleanza fra l’opinione di massa, che prima della sana reazione “populistica” di questi ultimi anni, aveva assunto le forme predominanti ( e oggi comunque ancora forti) del “politicamente corretto”, e gli interessi commerciali delle grandi companies. Senza dimenticare che il potere assunto dalla burocrazia, come ulteriore fattore condizionante del potente, su cui pure Melograni insiste, ha oggi assunto le forme di un’ulteriore accelerazione di quel processo di razionalizzazione che caratterizza la modernità e che, con il suo forte carattere di regolamentazione e proceduralizzazione della vita sociale, rischia di ingabbiare ancor più la libertà umana. In sostanza, Melograni ci fa capire che il potere non si muove mai in modo unidirezionale: il capo è condizionato dai sottoposti, i quali perciò hanno modo, per vie dirette o indirette, di influire su di lui. Anche i moderni meccanismi di comunicazione e persuasione politica mostrano sempre in atto questa dialettica: si possono usare le tecniche più sofisticate per ( pensare di) manipolare l’opinione pubblica, ma c’è sempre uno scarto fra l’azione e la reazione di quella che non è da considerarsi una massa informe una cera pronta ad essere plasmata. Anzi si può dire che il potere di un capo finisce nel preciso momento in cui quella massa non risponde più alle sue sollecitazioni. E questo può avvenire all’improvviso, per un movimento imitativo degli individui che la compongono e che agiscono in gruppo all’unisono e come un sol corpo ( come ci ha magistralmente insegnato lo Elias Canetti di Masse e potere). Ciò ci fa capire che l’essenza del potere, anche quello che si serve della più dura coercizione o violenza, è sempre in un qualcosa di immateriale, è prima di tutto nella testa degli uomini. Tanto che Melograni può arrivare a dire, forzando forse un po’ la mano che «il potere risiede fuori dai palazzi dei capi, nelle grandi forze spirituali e materiali che si agitano nelle società. Ciò che accade all’interno di quei palazzi è spesso importante e a volte decisivo ma soltanto a volte, in brevi momenti di crisi. E ha effetti incontrollabili». Dalle considerazioni svolte nel libro emerge quello che potremmo chiamare il carattere sovraindividuale della storia, che si dipana attraverso sintesi dagli uomini spesso nemmeno immaginate. Certo, in essa ognuno gioca la sua parte, ed indossa le sue maschere ( ecco perché ad esempio i potenti hanno bisogno nelle loro epifanie di cerimoniali e pompe). Ma comunque c’è un quid che sembra manovrare dall’alto tutte le vicissitudini particolari in modo da farle muovere verso una coerenza che comunque può leggersi solo a posteriori. I cattolici hanno parlato di Provvidenza, i laici di Spirito, ma il senso ultimo è che il tutto, nella storia umana, risulta in qualche modo sempre molto diverso dalla somma delle sue parti. Il potente, si sia in una democrazia o in una tirannia, non ha mai un potere assoluto. Anche un despota è infatti condizionato dalla realtà esterna, che gli impone di prendere certe decisioni piuttosto che altre per evitare che i sudditi, e in genere i sottoposti, non siano più a lui fedeli, o semplicemente per far sì che non emerga un potere contrario. «Applauditi finché gli eventi procedono in modo favorevole, i potenti sanno di poter divenire i capri espiatori non appena il corso degli eventi s’inverte. Grandi masse di uomini, infatti, cercano di sfuggire alle loro insicurezze non soltanto immaginando un capo sicuro, potente e lungimirante, ma anche ribaltando questa figura di capo nel momento dell’insuccesso. Di fronte all’insuccesso molti preferiscono immaginare che tutti gli errori, tutte le colpe e tutti i mali appartengano a un capo demoniaco, e non anche, in misura più o meno grande, a loro stessi». E Melograni fa l’esempio di Benito Mussolini, il cui cadavere, barbaramente appeso per i piedi e con la testa in giù insieme a quello di Claretta Petacci, fu insultato e dileggiato da una folla che era composta quasi sicuramente da quelle stesse persone che fino a qualche anno prima lo osannavano in ogni piazza d’Italia. Il potente ha poi sempre il timore di essere ucciso: un timore che spesso sfiora la paranoia, come i casi di Josef Stalin e Adolf Hitler mostrano ampiamente. Tuttavia anche le democrazie hanno visto capi assassinati, a cominciare ad esempio dai tanti presidenti degli Stati Uniti morti in agguati o attentati ( uno su cinque ai tempi in cui il libro veniva pubblicato la prima volta). Con impeccabile humour, Melograni osserva che «non esistono dubbi sul fatto che i capi di Stato costituiscano, nel mondo, la categoria di lavoratori di gran lunga più esposta a incidenti mortali sul lavoro». C’è poi un elemento, da Melograni non toccato, che spiega, a mio avviso, il potere: la maggior parte degli uomini sono gregari, imitativi, meschini. Seguono sentieri che altri hanno tracciato. Sono profondamente insicuri e hanno bisogno di qualcuno, il potente, per l’appunto, alla cui ombra costruirsi un abbozzo di personalità. Costoro, e il vero capo ben lo sa, saranno i primi a “tradirlo” quando la ruota della fortuna girerà in senso contrario. Eppure, forse per rassicurarsi a sua volta, il capo ama circondarsi di persone servili, di “leccapiedi”. I quali, fra l’altro, non porteranno mai al capo informazioni che pensano di poterlo turbare, né gli daranno i consigli giusti per evitare certe débâcle. Ed è qui, in questo preciso punto, che matura e si alimenta molta di quella “ignoranza dei potenti” di cui invece Melograni, all’inizio del suo volume, abbondantemente parla. In sostanza, lo storico romano ci propone una decostruzione o demistificazione del potere che muove da più fronti e procede per diverse vie. Richiamando la classica dialettica hegeliana di servo e padrone, potremmo dire che, in un primo momento, come il filosofo di Stoccarda ci ha insegnato, c’è quel rapporto di dipendenza del padrone dal servo, che, proprio in forza di questa dipendenza, può ribaltare da un momento all’altro i poli del rapporto. Poi però c’è anche il fatto da considerare che, ancor più in una società complessa come la nostra, l’individualità si forma sempre all’incrocio di diverse relazioni di potere, ognuna valida in uno specifico e non in un altro ambito della nostra attività. Socrate era il re della piazza di Atene, ma, tornato fra le mura domestiche, trovava Santippe che con il suo carattere forte lo dominava completamente Ma il potere non è nemmeno stabile, come abbiamo visto: lo si può perdere facilmente. Né è controllabile nei sui effetti, e anzi le cosiddette conseguenze intenzionali delle azioni intenzionali stanno lì a ricordarci che i progetti umani di un segno si convertono, al contatto con la realtà storica, quasi sempre in altri diversi e addirittura opposti. È poi ingenuo pensare che esistano potenti “buoni” e potenti “cattivi”: sia perché tutti siamo un inestricabile fascio di passioni positive e negative insieme; sia perché, nella considerazione piena di senso storico che Melograni fa di certe questioni, è evidente che chiunque, “buono” o “cattivo” che sia, è dominato e condizionato dalle situazioni a cui deve corrispondere. Benedetto Croce diceva che non è l’uomo che è responsabile delle sue azioni, ma è la società che ci fa diventare responsabili. In conclusione, vorrei però dire che, a mio avviso, l’unica pecca di un libro assolutamente fuori dall’ordinario è che Melograni sottovaluta un po’ l’efficacia che il potere in atto, nel momento preciso in cui viene esercitato, può avere. Nonostante il suo indubbio realismo, c’è qualcosa di consolatorio, a volte, nel suo modo di considerare la questione di un potere che, egli insiste, non è mai pieno. Proprio il realismo deve però portarci a considerare che il potere sa essere anche “diabolico” e che, soprattutto, è con forze diaboliche che ha a che fare chi decide di operare nel mondo e non rinchiudersi in un eremo. Niccolò Machiavelli, dopo tutto, ha ancora molto da insegnarci.

·         Il costo della democrazia: se la politica diventa un passatempo per ricchi.

Plutocrazia: se la politica diventa un passatempo per ricchi. Cristiano Puglisi il 4 dicembre 2019. In Italia ci si lamenta spesso (e in maniera piuttosto demagogica) dei costi della politica. Che sono poi il costo… della democrazia. Così, cominciando con l’abolizione del finanziamento pubblico, è iniziata a partire dagli anni Novante una battaglia sempre più aggressiva volta a ridurre i contributi statali alle attività di partiti e movimenti. Per risparmiare (poco, pochissimo), ma non solo. “Dobbiamo prendere a esempio la più grande democrazia del mondo, gli Stati Uniti d’America”, si sente spesso dire. Ebbene per capire quale sia il modello cui ci si vorrebbe ispirare, basti dire che, nella “più grande democrazia del mondo”, è appena accaduto che una candidata alle primarie del Partito Democratico per le prossime elezioni presidenziali, Kamala Harris, abbia dovuto alzare bandiera bianca per… mancanza di fondi. “Non sono miliardaria. Non posso finanziarmi da sola. E con il procedere della campagna è diventato sempre più difficile raccogliere i soldi che ci servono per competere”, ha scritto la senatrice americana, aggiungendo di aver dovuto prendere questa decisione con “profondo rammarico”. Quel “non sono miliardaria” è un campanello d’allarme enorme, che smaschera le reali intenzioni di tutti quelli che si sperticano in lodi per la plutocrazia d’oltreoceano, alla quale vorrebbero che le democrazie europee somigliassero sempre di più. Come se non fosse bastata l’erosione dei diritti dei lavoratori dell’ultimo trentennio, ci si troverebbe infatti di fronte a un “Governo dei miliardari”, con la politica ridotta a passatempo per i ricchi. Tra una partita di golf e una sortita in barca. Esattamente come nei veneratissimi Stati Uniti. Dove, per inciso, la maggior parte dei membri del Congresso, i “rappresentanti del popolo”, sono milionari. E, in percentuale, continuano ad aumentare. Di fronte a questi dati una domanda sorge spontanea: ma davvero la principale minaccia per la libertà e la sovranità dei popoli europei, come sentiamo ripetere ossessivamente di recente, proviene dalla Cina? O, piuttosto, si vuole tacere il fatto che il pericolo, quello vero, l’Occidente lo ha già nel proprio ventre?

·         Perché la democrazia rappresentativa è in crisi.

Perché la democrazia rappresentativa è in crisi. Dopo l'annuncio di nuove elezioni in Israele, il professor Vittorio Emanuele Parsi spiega le cause dell'impasse in cui si trovano gran parte dei Paesi occidentali. Elisabetta Burba il 13 dicembre 2019 su Panorama. «La crisi delle democrazie rappresentative è un problema culturale, prima ancora che politico». Il professor Vittorio Emanuele Parsi è tranchant: per uscire dall'impasse in cui si trovano gran parte dei Paesi occidentali ci vuole un'inversione di rotta. Gli israeliani l'11 dicembre hanno dovuto prendere atto che il 2 marzo 2020 dovranno tornare alle urne per la terza volta in meno di un anno. Gli spagnoli il 10 novembre hanno votato per la quarta volta in quattro anni, senza per questo raggiungere una maggioranza parlamentare. I britannici stanno cercando di uscire dall'Ue da tre anni mezzo ma, nonostante la vittoria elettorale di Boris Johnson, se va bene approderanno alla Brexit il 31 gennaio 2020. Per non parlare del record di 535 giorni trascorsi in Belgio senza un governo tra il 2010 e il 2011 (ma, anche adesso, da maggio Bruxelles sta cercando di mettere insieme una coalizione di governo). Non è messa meglio l'Italia, dove la durata media dei governi della storia repubblicana si attesta intorno a un anno e due mesi. Il virus dell'ingovernabilità, insomma, dilaga in tutta Europa, dove oltre un quarto degli attuali parlamenti è stato eletto nel corso di elezioni anticipate. Per orientarsi in un sistema ormai fuori controllo, Panorama ha chiesto aiuto a Vittorio Emanuele Parsi, l'ordinario di Relazioni internazionali che ha scritto il saggio Titanic. Il naufragio dell'ordine liberale.

Professor Parsi, che cosa sta succedendo alla democrazia rappresentativa occidentale?

«Il punto principale è che la democrazia rappresentativa è costituita da vecchi partiti, che non si sono dimostrati così efficaci nel gestire la fase di transizione fra le ideologie del Novecento e il nuovo millennio. Peraltro, questi partiti non sono riusciti ad affrontare da un lato il tema delle crescenti diseguaglianze socio-economiche e dall'altro le trasformazioni delle sovranità nazionali in sistemi interdipendenti».

A causa della globalizzazione?

«Esatto. Ma questo ha avuto conseguenze inaudite. Dal Dopoguerra a oggi, un po' in tutte le democrazie occidentali lo spettro dell'accettabilità politica era uno spettro di centro, centro-sinistra o centro-destra. Non andava oltre».

Si sta riferendo al vecchio arco costituzionale?

«Detto all'italiana, si può definire così. Da qualche anno a questa parte, invece, i partiti che guadagnano in termini elettorali sono i partiti anti-sistema. E questo può rappresentare un problema, perché quei partiti magari poi non riescono a fidelizzare il consenso raccolto. Oppure perché, quando vanno al governo, non riescono a fare quello che hanno promesso. O ancora perché al governo non ci arrivano proprio».

Eppure c'erano partiti anti-sistema anche in passato: il Partito comunista italiano è un caso emblematico...

«L'anomalia di un partito come il Pci, che non andava mai al governo ma reggeva e anzi cresceva, era legato a una forte carica ideologica e a un'altissima produzione di contenuti. I partiti attuali sono invece molto deboli nella produzione di contenuti».

Dal punto di vista dell'elaborazione teorica, oggi tutti i partiti sono molto carenti.

«Sì, a tutti manca l'elaborazione concettuale. Il risultato è una comunicazione sparata su temi «attention getting», che attraggono attenzione. Ma, mancando l'elaborazione concettuale, i partiti sono costretti a sviare di continuo l'attenzione».

Perché? Che cosa succederebbe se entrassero nel merito?

«Si smonterebbe tutto. Se si guarda a molti partiti dei giorni nostri, il rapporto con i loro sostenitori è da curva Sud, da tifoseria che va tenuta sempre infiammata perché altrimenti si affloscerebbe.  Scomparso il voto di opinione, scomparso il voto di appartenenza, è rimasto solo il voto di pancia, che è irrazionale e umorale. Voto che, peraltro, non è più di identità ma di identificazione nella figura del leader. Per andare oltre ci vorrebbe o la fede o la speranza. E qui non c'è né fede né speranza».

Ma il sistema non dovrebbe adeguarsi a un cambiamento così clamoroso?

«I sistemi elettorali non determinano i sistemi politici».

Il sistema francese, grazie al ballottaggio, riesce però a garantire stabilità.

«Ma il sistema elettorale non basta. Se in Francia il presidente Emmanuel Macron non fosse stato capace di proporsi come interprete del nuovo, non sarebbe andato da nessuna parte. Non basta il doppio turno per uscire dall'impasse in cui si trova la democrazia rappresentativa».

E allora, come se ne esce?

«Con la costituzione di nuovi soggetti politici, che siano capaci di intercettare il malessere dell'elettorato e offrire risposte razionali e fattibili».  

È un percorso lunghissimo...

«Certo, ma la gestazione della crisi è stata lunga. E sarà lunga anche l'uscita».

Ci vorranno decenni?

«Magari decenni no, ma vari anni sì. Se un sistema non produce contenuti nuovi, non va da nessuna parte».

Intravvede qualche soggetto che possa realizzare questo cambiamento?

«Come già capitato in passato, vedo segnali interessanti oltreoceano. Personaggi come i leader democratici Bernie Sanders, Elizabeth Warren e anche Alexandria Ocasio-Cortez stanno portando avanti proposte di un cambiamento radicale».

Ocasio-Cortez for president?

«No, non penso che l'attivista Ocasio-Cortez diventerà il futuro presidente degli Stati Uniti. Ritengo però che rappresenti una grande novità».

Anche dal Regno Unito arrivano segnali massimalisti: il programma di Jeremy Corbyn era un manifesto contro il «capitalismo vorace». Non a caso si intitolava «È il momento di un vero cambiamento».

«Al di là della sconfitta elettorale, il caso di Corbyn è interessante. La sinistra deve uscire dai paradigma del neoconservatorismo e del neoliberismo, che hanno spostato l'asse del sistema politico verso destra».

Già... Sempre più spesso le classi svantaggiate si sentono più rappresentate dalla destra che dalla sinistra.

«La destra vince perché offre proposte radicali. Quindi la sinistra, per vincere, deve costruire proposte altrettanto radicali, ovviamente nel solco della tradizione progressista».

Interessante anche il programma di Elizabeth Warren, che propone riforme radicali per la classe media.

«Quella di Elizabeth Warren è una cura radicale del sistema, per indurre un'inversione di tendenza.

E in Italia? Intravvede qualche segnale di cambiamento?

«Nessuno».

E le Sardine?

«Massì, forse le Sardine. Se il problema è culturale, prima ancora che politico, un movimento che rilancia una cultura politica ha una sua forza. È quello che può servire in questa fase. Se la crisi è prepolitica, per risolverla può essere utile un movimento prepolitico. Molto più utile della creazione dell'ennesimo partito politico, alla Matteo Renzi per intenderci».   

·         In che giorno si vota?

PERCHÉ IN REGNO UNITO SI VOTA DI GIOVEDÌ? Nadia Ferrigo per lastampa.it dell'8 giugno 2017. Da 85 anni nel Regno Unito si vota sempre di giovedì. Elezioni politiche o referendum, nulla cambia. C’è anche l’eccezione che conferma la regola: nel 1931 si votò martedì 27 ottobre il governo di unità nazionale guidato da Ramsay MacDonald. Ma perchè? Le risposte sono più d’una. Tradizionalmente il giovedì era un giorno di mercato: gli abitanti delle aree rurali avevano quindi più possibilità di capitare in città e andare a votare. Il giovedì è anche un giorno perfetto per scongiurare l’influenza del sermone domenicale sulle scelte degli elettori. Altra interpretazione: i risultati elettorali arrivano il venerdì mattina, il che significa che il nuovo primo ministro ha tutto il fine settimana per formare un Gabinetto e tornare alla normale attività già il lunedì successivo. E poi nel Regno Unito il venerdì è il giorno di paga, come da tradizione speso nei pub. Votando il giovedì aumenta la ragionevole certezza di poter contare su elettori... Sobri. Nel 2008 la commissione elettorale inglese si interrogò sull’opportunità di votare la domenica, come succede in gran parte d’Europa. La proposta finì in un nulla: non c’era infatti nessuna prova del fatto che il voto nel fine settimana potesse attirare più elettori. Anzi, si sottolineò che soprattutto chi abita in campagna avrebbe avuto più difficoltà a raggiungere i centri elettorali con i mezzi pubblici, senza contare le possibili obiezioni da parte di alcuni gruppi religiosi. E così, come da tradizione, anche quest’anno si voterà di giovedì.

E negli Stati Uniti? Dal 1845 negli Stati Uniti si vota per le elezioni federali il martedì dopo il primo lunedì di novembre: la decisione fu del Congresso, che decise di stabilire un’unica data per tutti gli Stati. Escluso il lunedì, perché avrebbe costretto gli americani a mettersi in viaggio di domenica, il giorno dedicato al riposo. Per raggiungere i seggi, ci voleva infatti in media un giorno di viaggio. Il mercoledì era il giorno dei mercati, il giovedì quello di lavoro più intenso per i contadini. E anche oggi che non esistono più né i viaggi in carrozza né i mercati, la tradizione è rimasta anche se diversi movimenti nati negli anni ritengono che l’electoral tuesday sia una delle principali cause dell’alto tasso di astensione che colpisce le elezioni americane.

·         I Picconatori.

Vittorio Feltri tratteggia la figura di Pertini: "Ha unito gli italiani ma diviso l'Italia". Libero Quotidiano il 9 Ottobre 2019. Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull' evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest' uomo che ha segnato la storia del nostro Paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d' animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente "senza peli sulla lingua". Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all' ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell' elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l' unica persona seria della compagnia romana. Un' esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l' era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori. Quando egli entrò al Quirinale sulle ali del trionfo (832 voti su 995 votanti: un primato) circolò una battuta: finalmente ci tocca un evaso e non un evasore. Il riferimento era duplice. Al passato del nuovo inquilino, che tra carcere e confino, durante il fascismo, fu prigioniero del regime per 15 anni; e alla sua proverbiale onestà. Quest' ultima qualità non è considerata sufficiente per reggere uno Stato, però non guasta. Pertini aveva una forma maniacale di rispetto per il denaro non suo. «Andai a trovarlo - racconta Enzo Biagi - alla Camera, di cui era presidente. Bevemmo un caffè, e lui accennò a pagare. Ma gli uscieri glielo impedirono. Un finimondo. Lui si offese a morte, protestò. E alla fine riuscì a saldare il conto. Non si può dire che a quel tempo gli premeva che si sapesse in giro dei suoi scrupoli: non era ancora capo dello Stato, e nessuno avrebbe scritto l' episodio sui giornali. No, sulla sua correttezza non vi sono dubbi in assoluto».

Aneddoti - Aneddoti simili si sprecano. Forse vale la pena di rammentare solo l' ultimo, o almeno il più clamoroso. Il parlamento propose di aumentare l' appannaggio del Quirinale, che era veramente ridicolo: poco più di cento milioni. La legge sarebbe stata approvata in cinque minuti e all' unanimità. Ma Pertini, come ne venne a conoscenza, si inalberò: "Finché qui rimango io, non verrà dentro una lira in aggiunta. Quel che piglio, mi basta e avanza". Mentiva. Era in bolletta nera. Se non ci fosse stato Maccanico, che si faceva anticipare di un biennio gli stipendi del personale, e depositandoli in banca usufruiva degli interessi, i quattrini per pagare tutti ogni mese non ci sarebbero stati. Onestà non soltanto in senso generale, ma anche intellettuale. Pertini non è mai venuto meno agli ideali, neanche a quelli che considerava doveri. Fin da giovanissimo. Era contrario all' intervento dell' Italia nella prima guerra mondiale, essendo già simpatizzante socialista, ma al primo tonare di cannone era già in prima linea: allievo ufficiale nei mitraglieri. Aveva poco più di 19 anni e appena terminato il liceo. Non riteneva nemici coloro che erano al di là della linea, ma compagni di sventura; tuttavia, benché pacifista e convinto che sotto il sole nascente non vi fossero divisioni nazionali, combatté senza mai risparmiarsi. Aveva il senso dello Stato, e sapeva che "imboscarsi" avrebbe danneggiato i suoi compagni di trincea. Fu proposto addirittura per una medaglia d' argento, che non ebbe mai per "disguidi burocratici". Questo il motivo agli atti. In realtà, non gliela diedero perché era "rosso".

Studi e militanza - Dopo il conflitto, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Genova. E alla sezione socialista del suo paese, Stella (Savona), dov' era nato nel '96. Il padre, piccolo proprietario terriero, morto giovane; la madre, Maria Muzio, ebbe altri tre figli, due maschi e una femmina. Una famiglia borghese, tradizionalista, né ricca né povera. Sandro si laureò in fretta, e bene. Ma aveva altri orizzonti oltre quelli del diritto. E si trasferì a Ca' Foscari, a Venezia, dove - sempre a gran velocità - ottenne il secondo dottorato: scienze sociali. Non era soltanto un uomo d' azione come è apparso a noi negli ultimi anni e si evince dal suo curriculum nella Resistenza: aveva una inclinazione piuttosto schietta per gli studi. Nei quali, però, non esauriva tutta la carica che aveva dentro. Ecco perché, nel partito, si buttò con ardore. Conobbe Treves e Turati e stabilì con loro una collaborazione intensa. Non si limitava ad arringare le folle; in piazza, ci andava anche a fare i volantinaggi, da umile attivista. E fu in una di queste circostanze, nel 1925, che esordì in galera. Era di maggio. Lo sorpresero nei pressi di casa sua, a Stella, mentre distribuiva una rudimentale pubblicazione intitolata: «Sotto il barbaro dominio fascista», stampata in proprio. Scattarono le manette. Processo al tribunale di Savona: otto mesi di reclusione. Comincia per lui il "dentro e fuori". Un dettaglio rivelatore dal carattere dell' uomo: durante l' udienza, egli non si difende affatto. Anzi, con un tono quasi di sfida, ammette di essere socialista e sottoscrive ogni responsabilità che gli viene addebitata. Accanto, c' è un colonnello dei carabinieri che strabilia. È ammirato da quel giovane col «pelo sullo stomaco», e si mette sugli attenti in segno di deferenza. Se non nei riguardi dell' imputato, almeno del suo coraggio.

A Milano - Nel '26 Pertini è a Milano, ospite di Carlo Rosselli. E insieme con Adriano Olivetti e Ferruccio Parri organizza la fuga di Filippo Turati. Un' impresa da matti. Partono in motoscafo da Savona e arrivano in Corsica per miracolo: il mare è grosso, l' imbarcazione sta insieme con lo spago. Turati scende. I "complici" si sparpagliano. Parri, Olivetti e Rosselli rientrano, e come mettono piede dalle nostre parti sono prelevati e condotti in cella. Sandro, che è rimasto in Francia per tenere i collegamenti con gli esuli, è condannato in contumacia. Sono anni tremendi. Gli tocca fare di tutto: lavamacchine, muratore. Cose di cui si è già scritto molto. Ma un particolare forse, se non inedito, è poco noto. Pertini, a un certo punto, decide che è ora di svegliare gli italiani. Come? La stampa clandestina è un fiasco perché non riesce a penetrare nelle maglie della censura; di fare riunioni carbonare, non se ne parla neanche. La circolazione delle idee, anche se affidata alle chiacchiere, è pericolosa: ogni persona può essere una spia. La soluzione ci sarebbe, la radio. Ma i costi sono pazzeschi. Lui, il "ribelle", fa presto: vende la sua quota di eredità - podere e fattoria - e investe il ricavato in un impianto adatto all' alfabeto morse. Il "bip" del dissenso valica il confine e giunge in Liguria. L' autore dei messaggi si firma con lo pseudonimo Jaques Gauvin, ma suscita subito sospetti nelle autorità del fascismo che fanno una soffiata alla polizia d' oltralpe. L' emittente è costretta a tacere, sequestrata. E il proprietario rischia cinque anni di galera e l' espulsione. Ma gli va bene che i francesi colgano l' occasione del processo per svergognare la dittatura del Duce; la magistratura lo condanna a un mese con la condizionale e gli consente di rimanere sulla Costa Azzurra. Chiunque altro si sarebbe calmato, almeno per un periodo. Pertini non molla un secondo: con passaporto falso intestato a Luigi Roncaglia, va in Svizzera ampliando i reticoli dell' opposizione al regime. Poi si stufa di stare all' estero ed eccolo a Milano. Non si contenta, gira al Centro e al Meridione, su e giù in treno: nella borsa, solito materiale sovversivo. Fatale che lo becchino. Ancora prigioni, in una delle quali incontra Gramsci e diventano amici, per quanto, ogni tanto non manchino di litigare. Il leader sardo un giorno esprime un giudizio pesantuccio su Turati e Treves. Apriti cielo. L' altro gli risponde malamente e si imbroncia: non c' è verso di rasserenarlo. E soltanto quando Gramsci si scuserà, affermando che si trattava esclusivamente di una valutazione politica, Sandro sorriderà e gli stringerà la mano. La madre, che da anni non lo vede, preoccupata per la sua salute, di sua iniziativa chiede la grazia e lui non ne vuol sapere, scrive questa lettera al presidente del tribunale speciale: «Non mi associo a simile domanda perché sento che mancherei alla mia fede politica, che più d' ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme». E rimprovera la povera donna che aveva agito per amore: «Mamma, con quale animo hai potuto fare questo». Anche a lei terrà a lungo il broncio. Intanto, fra un' amnistizia e nuovi arresti, condoni e libertà provvisorie, Pertini compie 40 anni: in pratica è sempre stato detenuto. Ovvio che il suo livore per le camicie nere sia incontenibile, e si traduca col tempo, specialmente durante il secondo conflitto mondiale, in un piano per toglierle di mezzo. Nella guerra partigiana, dal 1943, alla Liberazione, il suo ruolo sarà determinante insieme con quelli di Saragat e Nenni e di molti altri. Due capitone fondamentali: le insurrezioni di Firenze nel '44 e di Milano nel '45 furono capeggiate da lui. Fece di tutto: lo stratega e il manovale, l' ideologo e la sentinella, a seconda del bisogno.

Medaglia d'oro - E a Liberazione avvenuta, nonostante la medaglia d' oro (stavolta arrivò), i meriti acquisiti sul piano politico e militare, e per la solidificazione del socialismo, nel partito gli riservano sistematicamente posti senza potere, benché di prestigio: direttore dell' Avanti! e del Lavoro, per esempio. È naturale, non aveva correnti, aborriva gli intrighi di corridoio, le cordate, le scalate; nessuna vocazione ai patteggiamenti, alle mediazioni, alle spartizioni, alle lottizzazioni. Mai entrato nella stanza dei bottoni dal 1946 al 1968, quando fu eletto presidente della Camera, seggiola che abbandonò nel 1976, l' indomani dell' avanzata comunista, e qualcuno pensò che alla falce e martello spettasse la guida di un ramo del Parlamento, a scopo di legittimazione democratica. Pertini, che negli otto anni aveva avuto esclusivamente consensi per aver retto la carica alla grande, mai guardando in faccia a nessuno se occorreva far osservare le regole, abbozzò: salutò il nuovo presidente, Pietro Ingrao, e non accese polemiche, per quanto non gli mancassero le ragioni. Il salto al Quirinale, due anni più tardi, fu casuale. Leone era stato costretto a dimettersi su pressioni del Pci, che era nella maggioranza e contava. Ma non esisteva un' alternativa accettabile a tutti i partiti della famosa ammucchiata, eufemisticamente definita "solidarietà nazionale". Ogni candidato si bruciava in tre minuti. Inutile, trascorsero 10 giorni; quindici scrutini vani. Il Paese non ne poteva più. Ci fu del panico nelle segreterie della Dc, del Psi e dello stesso Pci: che figura facciamo? Craxi tirò fuori dal cilindro la vecchia bandiera: Pertini. Sul quale - al punto in cui si era - piovvero i voti del cosiddetto arco costituzionale al completo. Alla gente il vecchio fu subito simpatico: immaginiamo che le ispirasse tenerezza, almeno all' inizio; poi venne la venerazione. Fu una conquista lenta e graduale, la sua; il pubblico cominciò ad apprezzare. E ora lo rimpiangiamo. di Vittorio Feltri

E Pertini insegnò a Cossiga come picconare…Claudio Rizza l'11 Agosto 2019. Era il 23 dicembre 1983 quando il presidente della Repubblica più amato dagli italiani impugnò la clava. «Dobbiamo andare via dal Libano, è una guerra che non ci riguarda, lo dirò in tv a fine anno. Io dico quello che penso, non mi interessa sapere se i partiti concordano». Sarebbe una domanda da quiz. Chi è stato il primo picconatore della Repubblica? Risposta: il capo dello Stato, Francesco Cossiga. Sbagliato! Il primo, vero picconatore, colui che sbalordì il Colle tra sconcerti e sorpresa, fu Sandro Pertini. E siamo qui a dimostrarlo. Era la mattina del 23 dicembre 1983, dunque proprio sotto Natale. Da quattro anni il Quirinale aveva voltato completamente pagina: da fortezza inespugnabile, silenziosa e austera, quasi sempre irraggiungibile, era diventato una casa molto più trasparente, con un presidente ciarliero e alla mano, popolare e populista a modo suo, amante dei bagni di folla, delle frasi estemporanee, fuori dagli schemi ingessati e paludati che avevano attanagliato fin lì il più alto palazzo della Repubblica. Giovanni Leone si era dimesso il 15 giugno del ’ 78, coinvolto e martellato dai media per lo scandalo Lockeed, accusato di essere Antilope Cobbler, soprannome misterioso che nascondeva il regista delle tangenti pagate per acquistare gli Hercules C- 130 dagli Usa. Che ancora volano. E il povero Leone dovette aspettare vent’anni prima di essere riabilitato e ricevere le scuse del Colle e del Parlamento da Scalfaro, Napolitano e anche dai radicali Pannella e Bonino. Era il 1998, il giorno che Leone compì 90 anni e finalmente puliva gli schizzi di fango. Pertini era stato eletto l’8 luglio 1978 e aveva subito sconvolto cerimoniali, regole e prassi. Il 1978 fu un anno incredibile e indimenticabile, che moltiplicò i germi rivoluzionari all’interno di istituzioni sonnolente. Infatti il 16 ottobre, tre soli mesi dopo Pertini, veniva eletto il primo papa straniero, l’immenso e roccioso Karol Wojtyla, che avrebbe segnato la Storia con un papato lungo 27 anni. E in Italia ci ritrovammo improvvisamente in un’altra era, con una coppia formidabile, un papa e un presidente moderni, che andavano d’accordo. Anche se Pertini era un socialista laicissimo, e nonostante un presidente del Consiglio certo non remissivo né baciapile come Bettino Craxi. «Se sbaglio mi corrigerete», disse il papa appena eletto dal balcone di San Pietro, nel modo più simpaticamente sciolto e anticonvenzionale che la storia ricordi. Presto avrebbe abbattuto ben altri Muri, era un papa che sciava, che usciva in segreto a passeggio nella notte romana, un papa mediatico. Questi erano i tempi e i personaggi. Pertini aveva toccato uno dei vertici della sua popolarità assistendo alla vittoria Mundial contro la Germania nell’82, Rossi- Tardelli- Altobelli, saltando in piedi ad ogni gol accanto al re Juan Carlos e a quel poveraccio educatissimo del cancelliere Helmut Schmidt, annichilito dal grido «non ci prendono più». In aereo era diventata famosa la partita a carte con Bearzot, Zoff e Causio. Quel 23 dicembre ’83 dunque il ciarliero Sandro Pertini decise di convocare i giornalisti, giornali e tv, per scambiarsi gli auguri di Natale, così come aveva fatto da presidente della Camera e come era d’uso in Parlamento: auguri di Natale e il Ventaglio a fine luglio prima delle ferie estive. Salimmo lo scalone e ci accomodammo in una sala tutta poltroncine e divani. Si mise comodo in poltrona e entrò a piedi uniti nella cronaca. Sostenne che l’Italia doveva andarsene dal Libano, per non rimanere invischiata «in una guerra che non ci riguarda». «Lo dirò nel messaggio in tv di fine d’anno», annunciò Pertini. Ma il governo lo sa? I partiti lo sanno? E lui: «No, ancora no. Devono sentirlo alla tv. A me non interessa sapere se le forze politiche sono d’accordo o meno con questo mio pensiero. Io lo dico, del resto ho sempre detto quello che penso, anche se questo molte volte mi ha procurato guai». I cronisti, compreso il sottoscritto, saltarono sulle sedie, piegarono le schiene sui taccuini e iniziarono a prendere appunti. Mai successa una cosa del genere nella storia della Repubblica. Un presidente che senza sentire il governo auspica la ritirata. Uno strappo politico potenzialmente lacerante, chissà Bettino che avrebbe detto. Roba forte. Piovve un silenzio improvviso, misto di sgomento e imbarazzo. Occhi sgranati, sorrisi maliziosi di chi stava gustando questo nuovo piatto sopraffino e inaspettato, sconcerto di chi non sapeva come avrebbe fatto a raccontarla, i colleghi della tv certo non potevano riprendere le immagini di questa sortita che era nata off the record. Si sentiva solo il tintinnìo del grande lampadario di cristallo che vibrava per il traffico su via del Quirinale. «Io in Libano ci sono stato e non mi hanno accompagnato – proseguiva Pertini –. Come è successo a coso…». Coso? Quale coso? «… a Spadolini che è andato con i capi di stato maggiore. Mi volevano infilare il giubbotto antiproiettile. Macché, gli ho detto, ci perderei la dignità. Sì, qualche pallottola è passata vicino, ma erano quelle che in guerra chiamavamo vaganti». L’operazione Libano 1 era iniziata in agosto. La Grado e la Caorle, scortate dalla Perseo, sbarcarono a Beirut 519 uomini, bersaglieri e carabinieri, due compagnie meccanizzate, il genio, più 200 mezzi. Dovevano garantire la sicurezza dei palestinesi che lasciavano la capitale libanese, creando una linea verde tra forze israeliane e palestinesi, per portarli oltre il confine siriano. Due giorni dopo la nostra partenza il presidente Gemayel, appena eletto, venne ammazzato in un attentato assieme ad altri 25. Il 16 di settembre la ritorsione fu il massacro nei campi profughi di Sabra e Chatila. Il 24 settembre scattò la seconda missione guidata dal generale Angioni e una forza di pace che salì a 2400 uomini. Craxi aveva appoggiato le missioni e Pertini si schierò contro. Accomodato sul divanetto iniziò la difesa del suo amico Arafat e dell’Olp, l’organizzazione per la liberazione della Palestina. E giù critiche agli americani. «Diciamo la verità, gli americani non stanno lì per difendere la pace ma per difendere Israele. La grande nave che spara tonnellate di bombe sta lì apposta. Ora i palestinesi vengono dispersi per il mondo, come accadde agli ebrei». «Arafat non può essere considerato un terrorista. Ricordate quanti applausi ricevette a Roma per l’Interparlamentare? Il terrorista è Abu Mousa, un diavolo, un mostro. Fu lui il responsabile dell’attentato alla sinagoga di Roma. Lo dissi subito al rabbino (era il mitico Elio Toaff). Arafat non avrebbe mai avuto interesse ad attaccare la Sinagoga». Forse Pertini pensava ad Abu Nidal. Due picconate che lasciavano voragini nei rapporti con gli Usa e con Israele. Ma non la finì certo lì. «Poi c’è quel morfinomane di Jumblatt: così me lo ha dipinto il mio amico Hussein di Giordania». Così il Medio Oriente era sistemato. Walid Jumblatt, leader druso nemico di Israele ma anche dei siriani. Diventò ancor più famoso nei rotocalchi italiani come amante della moglie di Moravia, Carmen Llera.

I cronisti incalzarono Pertini. Allora i soldati bisogna ritirarli? «Sì. Nel messaggio di fine d’anno dirò agli italiani quello che ha scritto il Washington Post: che i nostri soldati sono buoni e generosi. La popolazione è loro grata. Per questo non sono mai stati attaccati. Ma ora che ci stanno a fare? Certo, un soldato prende due milioni e mezzo al mese e magari ha il padre contadino che gli dice: resta, resta che compriamo un’altra vacca». Il presidente sapeva benissimo cosa stava dicendo. Il volto del bambino impertinente, gli occhi fiammeggianti, di chi lo fa apposta per vedere l’effetto che fa. Sapeva essere birbante quanto basta.

Va detto subito che nel messaggio di fine anno, una settimana dopo, disse esattamente quello che aveva anticipato. Che era molto preoccupato del mancato dialogo tra Usa e Urss, temeva fortemente una guerra, spezzò una lancia per il disarmo globale da perfetto pacifista e disse che la forza di pace italiana stava facendo benissimo, come provava l’articolo del Washington Post (ne lesse una parte tenendo il foglio che lo impallava davanti al viso, in barba alle riprese tv). Ma se a Beirut fosse esploso il conflitto, precisò, «il mio pensiero personale è che bisogna togliere il contingente; è il mio pensiero personale che non vuole influire sul pensiero del governo».

La picconata non era finita. Capitolo, politica italiana. «Ammiro molto Andreotti, uno dei nostri migliori ministri degli Esteri. Anche Colombo, certo, era bravo. Poi… mi ha mandato un bellissimo regalo, di gran gusto: due gemelli d’oro». Grandi elogi al re Baldovino del Belgio, al presidente greco Karamanlis («un grande temperamento, ha persino cacciato a calci la moglie» ), risatine, lazzi e frizzi.

E aneddoti. La moglie di un ministro greco che per tutta la durata di un pranzo ripeteva a Pertini: «Sa che Karamanlis ha delle belle gambe?». E lui ridendo malizioso: «Me l’avrà ripetuto dieci volte, tanto che mi sono chiesto: avrà fatto un sopralluogo?». Il Pertini impertinente. Il suo successore? «Quando sono stato eletto ho avuto oltre 800 voti. Ma ora la metà si saranno pentiti. Perché? Perché non ho mai fatto gli interessi dei partiti, né tantomeno del mio. I socialisti volevano che nominassi uno di loro senatore a vita (Riccardo Lombardi). Invece ho nominato Edoardo De Filippo, in omaggio a Napoli».

Il quintetto pertiniano fu inarrivabile: Valiani, Ravera, Bo e Bobbio. Nominare delle senatrici a vita? Il ragazzaccio replicò: «Certo, sono un po’ racchie». Altre risate. Non che avesse torto, le donne in Parlamento erano pochissime ma di grande cultura e ingegno, la Rossanda, la Ravera, la Iervolino, la Falcucci… nulla a che vedere con le vamp scelte nella seconda repubblica da Berlusconi e soci. Presidente, ma li farebbe altri sette anni al Quirinale? «Io sono favorevole all’accorciamento a sei anni, a iniziare da me. Sei sono più che sufficienti. Poi uno si abitua e non vuole più andare via». Com’é vero.

Poi nell’85 il Quirinale toccò a Cossiga. E per cinque anni la picconata pertiniana rimase unica e inimitabile. Anche seminascosta e dimenticata. Perché i cronisti che scesero lo scalone del Quirinale alla fine si divisero attorno al dilemma: pubblicare tutto o tacere? Erano frasi off the record, oppure si poteva osare? Fu un confronto breve e lacerante. Alla fine, come al solito, si procedette in ordine sparso. Ci fu chi ruppe il silenzio, tra le agenzie fu l’Agi, ma con delicatezza, pochi osarono, molti censurarono, aggiustarono, ingentilirono. Il Secolo XIX pubblicò tutto, figurarsi, il presidente era nato a Stella, in provincia di Savona. Ma la bomba non esplose. Per la seconda picconata della Storia dovemmo aspettare la caduta del muro di Berlino nell’89 e il sesto anno del fu silenzioso Cossiga. Poi furono di nuovo fuochi artificiali. Ma il primo picconatore è stato Pertini. Poche storie.

In ricordo del Presidente Francesco Cossiga. Stefania Craxi su Il Corriere del Giorno 17 Agosto 2019. Il 17 agosto di 9 anni fa veniva a mancare Il Presidente Francesco Cossiga. La senatrice Stefania Craxi lo ricorda con questo testo, uscito come speciale per l’Adnkronos. La Fondazione Craxi pubblica nel giorno in cui si celebra il nono anniversario della morte di Francesco Cossiga, una lettera inedita, custodita nei suoi archivi, che il leader socialista Bettino Craxi scrisse all’allora presidente del Consiglio durante gli anni del suo esilio ad Hammamet. A quasi un decennio dalla sua scomparsa, Francesco Cossiga resta una delle figure di maggior spessore politico e di altro profilo istituzionale della nostra storia repubblicana. Una personalità enigmatica, le cui scelte e decisioni sono state spesso di difficile lettura, a tratti incomprensibili, e mai definitive. Era anche questa una delle cifre caratterizzanti del rapporto con Bettino Craxi. Dalle dimissioni anticipate dalla Presidenza della Repubblica alle oscure vicende di “Tangentopoli“, passando alla sua mutevole relazione con il “giudice” e il “politico” Di Pietro – senza tralasciare le vicende degli anni ’80 come Sigonella, in cui i due gestirono la vicenda l’uno dal Quirinale l’altro da Palazzo Chigi – sono molti i momenti che congiungono due personalità diverse ma con sensibilità comuni. Su tutto, basti pensare al tema delle riforme istituzionali che mai come in questi giorni, segnati da una crisi che più di governo potremmo definire l’ennesima crisi di sistema, si presenta come questione aperta. Infatti, dopo il saggio “VIII legislatura” vergato da Craxi sulle colonne de “L’Avanti” nel settembre del 1979 in cui il leader socialista invocava una "grande riforma" che abbracciasse insieme l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale, fu proprio Cossiga a recuperare con forza il tema delle riforme in un messaggio alle Camere del giugno ’91. È sufficiente rileggersi le cronache del tempo per comprendere il clamore, l’isolamento e la portata riformatrice di quel messaggio presidenziale che evidenziava la necessità, un anno e mezzo dopo la caduta del muro di Berlino, di adeguare il dettato costituzionale, specie alla vigilia del varo di Maastricht. Cossiga come sappiamo fu bersagliato e isolato. Il suo messaggio trovò di fatto, non a caso, il solo Craxi come sostenitore, vista la freddezza di una parte della DC e, addirittura, la richiesta di messa in stato di accusa da parte del PCI. Ma quell’atto presidenziale resta ancora oggi un punto di riferimento, poiché ha il merito di indicare le principali direttrici di una ‘vera’ riforma costituzionale: dalla forma di governo al ruolo delle autonomie, passando per la disciplina dell’ordine giudiziario, ai nuovi diritti di cittadinanza, fino agli strumenti di finanza pubblica che, tra l’altro, da lì a poco le norme europee avrebbero radicalmente modificato. Il messaggio resta quindi, oggi come ieri, un prezioso vademecum per le riforme’, ignorato quanto utile, anche perché individuava le procedure possibili ed alternative, seppur rispettose del 138, per una revisione organica della Carta. Altro che le riforme "un tanto al chilo" di cui si parla oggi! Ma, il rapporto tra Craxi e Cossiga continuò, tra diversità e comunanze di vedute, anche dopo la "falsa rivoluzione" di "Mani pulite" e negli anni dell’esilio tunisino. Craxi si chiese spesso il perché di quelle dimissioni anticipate dalla Presidenza che, guardate a posteriori, cambiarono e influirono molto sugli accadimenti successivi. Viste i suoi legami internazionali e la nuova geopolitica che si schiudeva, era conoscenza di qualcosa? Viveva un altro dei suoi contrasti interni come negli anni del delitto Moro? Molto c’è ancora da capire e su molto c’è ancora da indagare e studiare. Ad ogni modo ricordo la sua visita ad Hammamet pochi mesi prima della morte di Bettino. È un incontro che ancora oggi mi emozione modi e intensità. Fu un pranzo tra due vecchi amici, con poche parole e molti sguardi, un incrocio tra due combattenti, duri e franchi, con due stili diversissimi, con alcune domande di Bettino e alcuni silenzi di Cossiga. Fu proprio l’ex Presidente a chiedere in quella occasione a Craxi di raccontare la verità sulla vera natura del finanziamento irregolare del PSI e sul suo principale impiego, ossia il sostengo a quanti, da Est a Ovest, in Medioriente come in Sudamerica, lottavano per la democrazia e la libertà. Ma in quella circostanza la perseveranza di Cossiga non ebbe la meglio. Craxi gli rispose che non avrebbe mai e poi mai mischiato le cause di libertà di mezzo mondo con le miserie italiane. Chissà, nell’opportunismo e nella confusione delle contingenze, nell’incapacità di leggere e agire nel quadro internazionale, quanti sarebbero oggi coloro disposti a farlo! Nel giorno in cui si celebra il nono anniversario della morte di Francesco Cossiga, la Fondazione Craxi pubblica una lettera inedita, custodita nei suoi archivi, che il leader socialista scrisse all’allora presidente del Consiglio durante gli anni del suo esilio ad Hammamet.

La lettera di Bettino Craxi a Francesco Cossiga. “Caro Presidente, mi auguro che tu stia bene e leggo con piacere ciò che scrivi a proposito di questa Araba Fenice chiamata ‘riforma costituzionale’. Leggo però anche cosa scrivi riguardo a Di Pietro: ‘Poveretto ha tanti guai. Lasciate in pace Di Pietro’. Ti confesso che sin dall’inizio non ho mai capito la tua posizione a proposito di questo signore. Mi sono chiesto tante volte a che cosa fosse dovuta” si legge nell’incipit della missiva. Gran parte della lettera è dedicata all’ex pm di Mani pulite, definito un “avventuriero” ma l’ex leader del Psi assicurava a Cossiga: “In ogni caso non starò zitto io. Sino ad ora subendo quello che ho subito e subisco, ivi compresa una sentenza della Cassazione che si è messa sotto i piedi anche una pronuncia chiarissima della Corte Costituzionale, senza che un’ombra di costituzionalista levasse una parola di protesta, mi sono imposto una condotta di estrema responsabilità. Aspetto ancora con pazienza una soluzione politica”. “Se non verrà e se mi convincerò che è inutile farsi illusioni – proseguiva Craxi – credo che la mia reazione, peraltro molto documentata, non mancherà, e renderà un buon servizio all’Italia e alla storia. Quanto al Di Pietro, come un suo libro, certo non scritto da lui, non meritava una tua prefazione, la sua attuale situazione non merita proprio quello che dici. Io mi auguro ancora che tu stesso riprenda il tema della ‘operazione verità’ di cui si è parlato e si parla. Ricordo, di tanto in tanto, i tempi passati e ti invio un fraterno saluto. Bettino Craxi”.

Br, l'intervista a Cossiga del 2003: "Terroristi come partigiani". Le Iene 20 gennaio 2019. Dopo il caso Battisti e la nostra intervista all'ex brigatista latitante Alvaro Lojacono, vi riproponiamo una nostra intervista del 2003 all'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga sugli "anni di piombo". Dopo la cattura e l’estradizione di Cesare Battisti e la nostra intervista all’ex brigatista Alvaro Lojacono (scovato e intervistato da Gaetano Pecoraro in Svizzera, dove è latitante, mentre in Italia è stato condannato all’ergastolo), ci sembra importante riproporre questa nostra intervista del 2003 all’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Cossiga, nemico giurato dei terroristi rossi, si era fatto promotore di un’iniziativa per l’amnistia sugli anni di piombo. Sulla base di un concetto, a cui fa riferimento lo stesso Lojacono e che l’ex Capo dello Stato, scomparso nel 2010, ribadisce anche davanti alle nostre telecamere: “Fu il tentativo di innescare una guerra civile: chi combatté lo fece non con l’animo del terrorista ma con l’animo del partigiano”.

Cesare Lanza per “la Verità” il 2 ottobre 2019. Tutto cominciò quando dirigevo La Notte, alla fine degli anni Ottanta. Mi urtavano i continui attacchi, le perfidie, le malizie e i sottintesi da cui Francesco Cossiga - presidente della Repubblica - era tormentato: in particolare le allusioni alla sua salute mentale. L' intento dei suoi critici era evidente, a volte esplicito, dichiarato: indurlo alle dimissioni. E così un giorno scrissi un fondino, per esprimergli simpatia e stima. Non ricordo con precisione il contenuto del mio breve articolo, ma il titolo sì, che mi inventai lì per lì: «Uno, due, dieci, cento, mille Cossiga». In breve sostenevo che un uomo come Cossiga bisognava tenerselo caro, e peccato che non ce ne fosse un migliaio di altri simili, nella vita politica del nostro Paese. Cossiga mi ringraziò con una formula affabile, ma convenzionale: pensai che non fosse di suo pugno, sapevo che aveva l' abitudine di scrivere biglietti estrosi, bizzarri, spontanei. Non avevo avuto questo onore, e invece nacque un rapporto reciprocamente corretto e cortese, oserei dire amichevole. Qualche volta andai a trovarlo al Quirinale, gli attacchi contro di lui non erano affatto cessati, anzi l' accanimento era diventato più feroce. Una volta gli chiesi: «Cosa avresti fatto al posto di Leone, quando i delegati del Pc e della Dc gli chiesero, o ingiunsero, di dimettersi?». Cossiga replicò con uno sguardo beffardo e disse: «Semplice, avrei chiamato i carabinieri!» (Leone invece, sgomento, si dimise subito e lasciò il Quirinale. Era innocente di fronte a tutte le accuse che gli erano rivolte, ma cedette alla arrogante violenza degli alleati comunisti e democristiani). In seguito, lessi risposte più o meno uguali di Cossiga, quando gli rivolsero una domanda come la mia. Il Presidente però non ebbe mai la necessità di chiamare i carabinieri. Leone era un personaggio timido, uno studioso estraneo ai veleni della politica. Cossiga aveva un carattere forte, risoluto, sbeffeggiava perfino i suoi avversari. Era detestato, ma temuto. Qualche anno dopo commisi un errore professionale molto grave. Lasciai La Notte, dove mi trovavo benissimo anche se i popolari giornali del pomeriggio erano destinati a sparire, e accettai un' offerta principesca di un finanziere temerario e spregiudicato, Gianmauro Borsano. Si trattava di fondare e dirigere un nuovo giornale, La Gazzetta del Piemonte, nelle sue intenzioni erede di un quotidiano, La Gazzetta del Popolo, molto amata non solo a Torino, e purtroppo scomparsa, da tempo, dalla scena. Borsano aveva acquistato la squadra del Torino e astutamente, conoscendo la mia passione per il calcio, mi offrì la vicepresidenza, per superare le mie esitazioni. Per mia fortuna l' incarico non fu mai formalizzato: in seguito infatti tutti i consiglieri di amministrazione furono indagati, coinvolti - a prescindere - dai disastri che Borsano aveva combinato. Portai Borsano con me al Quirinale e fummo accolti con cordialità, alla vigilia dell' uscita della Gazzetta. Chiesi a Cossiga di promettermi di farci visita a Torino, in redazione, e lui me lo promise. Sinceramente, non me l' aspettavo. E invece, promessa mantenuta! Qualche settimana dopo, il Quirinale ci inserì nel quadro di una visita di Cossiga a Torino: c' eravamo noi, un giornalino neonato, e non c' era La Stampa, uno dei più grandi quotidiani italiani, di proprietà della famiglia Agnelli! Con Cossiga non ne parlai mai, ma intuii il retroscena: il risentimento che nutriva verso il grande giornale torinese, che non gli risparmiava critiche pungenti e frecciate. Ad accogliere il Presidente c' erano non solo i giornalisti e tutto il personale della Gazzetta, ma anche tutti i calciatori del Torino e il loro allenatore, Emiliano Mondonico. Devo dire che l' esperienza con la Gazzetta fu tormentosa e infelice, ma con il calcio mi divertii moltissimo: quarto posto in campionato e finalissima in Coppa Uefa (oggi Europa League): risultato mai più raggiunto dalla gloriosa squadra granata.

La visita di Cossiga si svolse secondo tradizione. Fotografie, discorsi, scambi di regali...Ma c' è un episodio che merita di essere ricordato, per il divertimento dei lettori. All' arrivo di Cossiga, un suo timido ammiratore, agricoltore ad Alba, si era fatto avanti e aveva offerto al Presidente un gigantesco cesto di tartufi. Cossiga aveva ringraziato e benignamente aveva fatto cenno a un suo collaboratore di posare quel ben di Dio sul mio tavolo... Dopo un' ora, finita la visita, Borsano e io, insieme con la scorta, avevamo accompagnato il Presidente fino alla sua automobile. Tornai nel mio ufficio e notai subito che i tartufi erano spariti. Chiesi alla mia segretaria... «Direttore, è arrivato Borsano di corsa e se li è portati via!». L' attrazione che Cossiga esercitava su di me era incentrata, tra altri aspetti, sulla sua meravigliosa qualità di esprimersi controcorrente, secondo i casi con audacia e impertinenza, sempre con ironia. Una volta mi disse che la strage di Bologna era nata da un fortuito incidente, gli attentatori non avevano l' Italia nel mirino. Mi ero abituato a credere a tutto ciò che diceva, a rispettare battute e rivelazioni. Perciò scrissi tranquillamente di ciò che mi aveva detto. Nessuna reazione. C' erano argomenti di cui il nostro mondo preferiva non occuparsi. E fu così anche, tranne qualche eccezione, quando fu pubblicato un suo straordinario libro, La versione di K. Sessant' anni di controstoria (Rizzoli, Rai Eri). «Anche se talvolta misteri inestricabili si sono addensati in alcuni passaggi della vicenda italiana - scriveva - la mia impressione è che ormai nessuno creda più alla realtà così come è. E dunque c' è sempre una seconda realtà da ricercare. Non credo che sia un principio sbagliato, e non posso certo dirlo io che ancora non ho smesso di scavare, chiedere, provocare. Ma aspirare sempre alla quadratura del cerchio fa sì che spesso ombre riottose sfidino le leggi della percezione e affollino impazzite la scena fino a oscurarla del tutto». Come dire: attenzione che le cose sono più semplici di come si crede, ma proprio perché sono semplici non vogliamo crederci e andiamo alla ricerca del retroscena e del mistero, infilandoci in un tunnel senza via d' uscita. È così che la verità, a portata di mano, finisce per allontanarsi per sempre.

Tragedie come Ustica, Piazza Fontana, il caso Moro, la strage di Bologna, andrebbero rilette senza frequenti, artificiosi scenari dietrologici. Molte facili convinzioni e vecchie ricostruzioni giornalistiche, e persino giudiziarie, potrebbero mostrare tutta la loro inconsistenza. Cossiga: «Ci si accanisce sulla strage di Bologna, si chiedono a gran voce giustizia e verità. Capisco. Come potrei non capire il vuoto e la disperazione prodotti da quell' esplosione del 2 agosto 1980? Ottantacinque morti, oltre 200 feriti: un bilancio insopportabile. Ma perché non credere a Giusva Fioravanti e a Francesca Mambro che si dicono innocenti per quello che è successo a Bologna, pur dichiarandosi responsabili di altri atti criminali? [] Per me fu un incidente, un drammatico incidente di percorso. Una bomba trasportata da terroristi palestinesi che non doveva essere innescata in quell' occasione e che invece, chissà perché, per un sobbalzo, una minaccia, un imprevisto, scoppiò proprio in quel momento». Questa audacia di analisi, mi attrae. Cossiga offre anche una interessante rilettura del rapporto mafia-politica, di quella contiguità fra Cosa nostra e la Democrazia cristiana siciliana della quale «molto si è detto e molto si è immaginato. Forse troppo». Argomento di grandissima attualità. La ricostruzione di Cossiga parte dallo sbarco alleato in Sicilia, e arriva alle prime elezioni amministrative, per ricordare ai troppi che lo hanno dimenticato che la mafia si presentava come apertamente antifascista e fece convergere i voti sulla più antifascista delle forze politiche: il Partito comunista. La circostanza mise in allarme i moderati. Allora, ecco Cossiga: «Fu il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, a mettere in guardia la Dc. "Se volete i voti dovete andare a cercare quelli lì" disse. E con "quelli lì" intendeva i mafiosi. L' ingrato compito toccò a Bernardo Mattarella, vicepresidente dell' Azione cattolica». Cossiga è convinto che non esistano «politici mafiosi», mentre «esistono uomini vicini alla mafia, collusi, ma non mafiosi». La spiegazione: Cosa nostra può ammettere nelle sue fila professionisti, medici, avvocati, ma non politici, rappresentanti cioè di un altro potere organizzato. Cossiga tante volte mi ha detto quanto sia impervio spazzare via i «luoghi comuni». Sia per pigrizia, comunque sono duri a morire. E concordo con chi ha scritto che nei libri «forniva il suo punto di vista, la sua visione sui cosiddetti "misteri italiani". In troppi, superficiali e altezzosi, lo liquidarono come "le solite cose del picconatore"».

Eppure cose da leggere e rileggere. E proprio in omaggio a Cossiga, uno che di intelligence se ne intendeva, va proposto ai lettori questo scritto, uno degli ultimi. «L' Italia dei misteri. O forse l' Italia senza misteri. Siamo abituati da sempre a cercare un grande burattinaio, anzi "il grande vecchio", dietro spezzoni della nostra storia, dietro le tragedie che hanno travagliato il nostro Paese, dal dopoguerra a oggi. [...] Il fatto è che nessuno fino a oggi ha saputo dare una risposta a domande-chiave: perché l' Italia dal 1969 è stata funestata dal terrorismo e dalla violenza politica con centinaia di morti e migliaia di feriti? Perché le inchieste giudiziarie hanno dato finora molta importanza al ruolo dei Servizi segreti definiti "deviati", della P2, della Cia, con il risultato di non approdare ad una verità giudiziaria e ad una verità storica condivisa? Forse è ancora presto per parlare di Storia, in un Paese che non ha ancora superato il trauma e la lacerazione dell' 8 settembre e soltanto adesso comincia a fare i conti con il Risorgimento».

Quirinale: 1985, ecco il "sardomuto" Cossiga, il picconatore. Ci lavorò De Mita che gli impose Maccanico segretario generale.  Marco Dell'Omo il 20 gennaio 2015 su L'Ansa. Nel 1985 non c'è ancora il picconatore: casomai c'è il "sardomuto", un politico schivo, riservato, che non ama le luci della ribalta. Francesco Cossiga ha appena 57 anni, e viene dal correntone della sinistra democristiana, quella che negli anni del compromesso storico ha voluto l'accordo con i comunisti. Subito dopo il tragico epilogo del sequestro Moro si è dimesso da ministro dell'Interno, prendendosi la responsabilità di non essere riuscito a salvare la vita al presidente della dc finito nelle mani dei brigatisti rossi. Per la sinistra extraparlamentare , negli anni '70, era "Kossiga" con le due esse del cognome scritte come quelle delle SS tedesche: una trovata grafica che negli anni della contestazione era stata già utilizzata per il segretario di stato Usa Kissinger. E' a quest'uomo che non brilla per comunicativa ma che è ben addentro nelle stanze della politica e che può vantare anche un discreto rapporto con il Pci (tra l'altro è cugino di secondo grado di Berlinguer) che la dc pensa per rimpiazzare Sandro Pertini alla scadenza del suo mandato: l'alternanza impone che nel vecchio palazzo dei papi e dei re questa volta salga un democristiano, e la balena bianca vuole archiviare i fuochi d'artificio del settennato di Pertini. Chi meglio del sardo Cossiga, in quel momento presidente del Senato, per riportare il Quirinale nell'alveo della tradizione che vuole la presidenza della Repubblica come un luogo di potere silenzioso? Non potendo immaginare che di lì a qualche anno il freddo Cossiga si sarebbe trasformato in una specie di Savonarola, il segretario della Dc De Mita spende tutta la sua abilità nel preparargli la volata. A palazzo Chigi, da due anni, c'è il capo del Psi Bettino Craxi: anche per questo una riconferma di Sandro Pertini, che pure la desidera, è impensabile (i socialisti non possono fare l'en plein delle cariche istituzionali). De Mita, leader in crescita della sinistra democristiana orfana di Moro, è soprattutto preoccupato di non vedere la replica delle epiche guerre intestine che in tutte le precedenti elezioni hanno terremotato la Dc. Il suo pallino è di arrivare al giorno della prima seduta del Parlamento con un accordo a prova di bomba siglato da tutti i grandi partiti. Cominciano così gli incontri con gli altri leader. A Botteghe Oscure c'è Alessandro Natta, eletto al vertice del Pci dopo l'improvvisa morte di Berlinguer. A lui De Mita fa i nomi di due big democristiani: Giulio Andreotti, che con il Pci ha governato all'epoca del compromesso storico, e Arnaldo Forlani, espressione della grande area centrale che è ben visto da Craxi. Nessuno dei due ottiene il vie libera del bottegone. A quel punto De Mita getta la carta di Cossiga. E' presidente del Senato e la sua appartenenza alla sinistra democristiana lo rende un candidato con un certo appeal anche nel pci, anche se da presidente del consiglio era stato lui a far votare la legge che aveva consentito l'installazione a Comiso degli euromissili puntati contro l'unione sovietica. Per convincere Natta a dare il suo sì, De Mita ricorre a tutta la sua arte dialettica : "Senti, ti propongo di votare il presidente del Senato, che voi avete già votato in quella carica. Sappi che se dici di no possiamo far eleggere Forlani con i voti dei socialisti". Natta si fa due conti e dà il suo assenso, anche per evitare che Craxi, fresco trionfatore nel referendum sulla scala mobile in cui il Pci è stato sconfitto, possa cantare vittoria. Sul nome di Cossiga Craxi non può dire di no (tanto più che Pertini si è sperticato in pubbliche lodi) e i sempre riottosi capi corrente dc hanno dovuto piegare la testa di fronte all'accordo stretto con gli altri partiti. De Mita chiama Cossiga mentre si trova furoi dall'Italia per una visita di Stato e gli dà la notizia: "Vedi di tornare che ti votiamo come presidente della Repubblica". Unica condizione che viene posta da De Mita a Cossiga è la conferma al Quirinale del segretario generale Antonio Maccanico, irpino come lui. Il 24 giugno l'elezione va liscia come l'olio: Cossiga ottiene 752 voti su 977, con 141 schede bianche. Ai franchi tiratori sono state tagliate le unghie: 16 voti per Forlani, cinque per Fanfani, 3 per Andreotti, 12 tifosi di Pertini che volevano la sua rielezione. Il metodo De Mita ha funzionato in pieno. Poi toccherà a Oscar Luigi Scalfaro.

Cossiga, il presidente picconatore che sopravvisse alle Br e a Gladio. Da Sassari al Quirinale, l'avventura politica di uno dei protagonisti della storia repubblicana. Le dimissioni dopo la morte di Moro, la presidenza del Senato e il settennato bifronte al Quirinale. In mezzo i "processi" in Parlamento per le vicende Donat Cattin e Stay Behind. Salvatore Mannironi il 17 agosto 2010 su La Repubblica. Nessun altro protagonista, nella storia della Repubblica, ha avuto tante vite istituzionali quanto Francesco Cossiga. Non si può capire altrimenti come la sinistra italiana lo abbia accusato di tutto ai tempi del sequestro Moro, quando era ministro dell'Interno, lo abbia poi sostenuto e votato come presidente della Repubblica e ne abbia, pochi anni dopo, chiesto la messa in stato d'accusa per la vicenda Gladio. Nella storia che cambiava e ogni tanto presentava il conto, Cossiga è rimasto elasticamente fedele a una sua idea della politica e del mondo, rapportando le proprie scelte ai cambiamenti della sua epoca finché questa, crollato il Muro di Berlino, non si è conclusa. L'esempio più chiaro è forse il sostegno accordato al governo D'Alema, che sanciva, come egli stesso spiegò espressamente, la fine della "conventio ad escludendum" verso i comunisti italiani, ormai inutile alla luce degli eventi. In maniera più superficiale, il grande cambiamento di Cossiga è sempre stato individuato nel corso del suo settennato al Quirinale, quando il riserbo tutto sardo che lo aveva accomunato al cugino Enrico Berlinguer, lasciò il posto all'improvvisa vena "esternativa" che lo trasformò nel Picconatore. Nato a Sassari il 26 luglio del 1928 (ma di sempre rivendicate origini pastorali di Chiaramonti), Cossiga è stato il più giovane ministro degli Interni, il più giovane presidente del Senato e il più giovane capo dello Stato nella storia della Repubblica. La sua attività politica è iniziata a 17 anni quando si iscrisse alla Democrazia cristiana e proseguì, passando per la Fuci, fino alla battaglia dei "giovani turchi" contro la vecchia classe dirigente dc in Sardegna, che lo portò, alla fine degli Anni Cinquanta, alla Camera dei deputati. Nel 1966 divenne sottosegretario alla Difesa nel terzo governo Moro, consolidando nel tempo sia la conoscenza sua delle segrete cose e dei meccanismi dello Stato, sia l'immagine di servitore riservato e fedele del partito di governo e delle sue alleanze. Il 12 febbraio del 1976, a 48 anni, iniziò al Viminale l'esperienza che, come raccontò in seguito, gli cambiò la vita. Nel paese in ebollizione, con i manifestanti uccisi per le strade militarizzate del '77 (Francesco Lorusso prima, Giorgiana Masi poi), il suo nome scritto con la K dilagò sui muri delle città, mentre l'offensiva brigatista raggiungeva il culmine e i membri della P2 invadevano posti chiave dello Stato, inclusi quelli alle sue dirette dipendenze. L'avventura da "giovane" ministro degli Interni si concluse con le dimissioni, presentate dopo l'uccisione di Aldo Moro da parte delle Br: "Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle - disse in un'intervista - è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro". Un anno dopo divenne presidente del Consiglio ed anche questa esperienza, attraversata dalle stragi e dai misteri di Ustica e Bologna, si concluse traumaticamente, dal punto di vista politico, per un altro frutto velenoso degli Anni di piombo. Il Pci ne chiese l'incriminazione davanti al Parlamento, accusandolo di aver favorito la fuga all'estero di Marco Donat Cattin, comunicando a suo padre Carlo, collega di partito e di governo, l'imminente arresto del figlio nell'ambito delle indagini sul gruppo terroristico Prima linea. Fu Enrico Berlinguer in persona a sostenere che il premier fosse l'autore della fuga di notizie. In Parlamento la Dc e gli alleati fecero muro e votarono l'archiviazione, ma la polemica costò a Cossiga un periodo di "accantonamento" dai ruoli di primo piano, che si concluse nel 1983 quando fu eletto presidente del Senato. Il lavoro a Palazzo Madama gli valse il consenso, due anni dopo, per diventare sin dal primo scrutinio l'ottavo presidente della Repubblica, succedendo a Sandro Pertini. Il suo mandato fu caratterizzato da due fasi ben distinte. Fino al 1989, fu il "presidente notaio", attento soprattutto a far rispettare la Costituzione, le forme e i rapporti istituzionali da essa regolati. Crollato il Muro, fu come se fosse giunta l'ora, per Francesco Cossiga, di disvelare le ipocrisie e i retaggi che dal passato ingessavano la vita della Repubblica, incluso il rapporto di dipendenza che legava l'Italia agli Usa ed alla sua Intelligence. Si aprì così l'epoca del "presidente picconatore", in cui molte delle figure cardine della storia italiana del Dopoguerra - dai partiti politici con la Dc in prima fila, ai magistrati, dalla Consulta fino alla Cia - furono oggetto di critiche, riletture provocatorie, altolà e polemiche. Cossiga lasciò il Quirinale - dove peraltro non visse mai nel corso del mandato - il 28 aprile del 1992, con due mesi di anticipo sulla scadenza del mandato e nel pieno della bufera scatenata da una delle sue esternazioni: le rivelazioni su Gladio, la struttura più superficiale e "innocua" della rete atlantica Stay Behind di cui Cossiga si era occupato sin dagli inizi dell'esperienza governativa. Cos'era? In caso di allarme o "pericolo rosso" per lo Stato (sarebbe bastata una maggioranza elettorale di sinistra), cellule dormienti di "civili" fedeli all'alleanza atlantica, recuperando armi Nato custodite in depositi "nasco" sparsi per il Paese, avrebbero dovuto "neutralizzare" gli esponenti di punta della sinistra, del sindacato e dei partiti, che poi sarebbero stati rinchiusi o confinati. Eravamo, insomma, ufficialmente, una democrazia a sovranità limitata e sotto tutela straniera, ma "tutti sapevano", disse Cossiga, accusando il Pci di aver montato il caso per anticipare eventuali altre "rivelazioni" in arrivo da Oltrecortina dopo il crollo del Muro. Nel luglio del 1994, il tribunale dei ministri (come pure la procura di Roma) dichiarò infondata ogni accusa nei suoi confronti e Cossiga ricominciò a fare politica. Tangentopoli e Mani Pulite avevano nel frattempo concretizzato molte delle sue previsioni sulla fine della prima Repubblica, disperdendo la sua Dc tra centrodestra e centrosinistra. Nel 1998, fondò l'Udr che poi si unì al Cdu e si trasformò nel Ccd. Dietro l'appartenenza o meno a una sigla, da allora Cossiga ha portato avanti la sua attività in Senato e nella politica da battitore libero, valutando di volta in volta, assicurando i voti necessari al varo del governo D'Alema (1998) prima e al secondo governo Prodi (2006) poi, salvo votare un anno dopo la fiducia a Silvio Berlusconi. Oltre la politica, Francesco Cossiga ha continuato a coltivare i suoi studi (è stato docente di Diritto Costituzionale), la sua cultura vasta e le sue passioni. Dai soldatini da collezione all'esoterismo, dalla letteratura di spionaggio all'Irlanda, un'isola così lontana eppure così simile a quella dove, tra pecore e muretti a secco, era iniziata la sua avventura umana.

Francesco Cossiga e la leggenda metropolitana del picconatore. Massimo Fini, Giornalista e scrittore, il 19 agosto 2010 su Il Fatto Quotidiano. Che Francesco Cossiga sia stato “il picconatore” della Prima Repubblica, come hanno titolato ieri tutti i giornali, di destra e di sinistra, è una leggenda metropolitana che non si capisce come si sia potuta creare. Se “picconò” mai qualcosa fra il 1990 e il 1992, quando era Capo dello Stato, fu proprio quello che allora veniva chiamato “il nuovo che avanza”: la Lega, la Rete, Leoluca Orlando, Mani Pulite.

La telefonata a Miglio. Prima delle elezioni del 1990, violando ogni regola di imparzialità imposta dalla sua carica, attaccò pesantemente la Lega allora agli albori e qualche mese dopo definì i leghisti “criminali”. Inaudita è la telefonata intimidatoria che fece a Gianfranco Miglio, il principale consigliere di Bossi, come qualcuno ricorderà, il 26 maggio 1990, pochi giorni dopo le elezioni, e che lo stesso Miglio ha raccontato in un libro: “Rovinerò Bossi facendogli trovare la sua automobile imbottita di droga; lo incastrerò. E quanto ai cittadini che votano per la Lega li farò pentire: nelle località che più simpatizzano per il vostro movimento aumenteremo gli agenti della Guardia di Finanza e della Polizia, anzi li aumenteremo in proporzione al voto registrato. I negozianti e i piccoli e grossi imprenditori che vi aiutano verranno passati al setaccio: manderemo a controllare i loro registri fiscali e le loro partite Iva; non li lasceremo in pace un momento. Tutta questa pagliacciata della Lega deve finire” (Io, Bossi e la Lega, Mondadori, 1994, p. 28). E Miglio così proseguiva: “Confesso che la sorpresa provocatami in questa sfuriata mi lasciò senza parola. Cossiga era per me un amico ma era anche il Presidente della Repubblica! Mi avevano detto che piccoli operatori economici in odore di leghismo, avevano ricevuto insistenti ispezioni della Finanza; ma se addirittura il custode della Costituzione era pronto ad avallare atti illeciti a danno di cittadini colpevoli soltanto di avere un’opinione politica diversa da quella dominante, dove andavano a finire le garanzie dello Stato di diritto?”. Cossiga non ha mai querelato Miglio per queste affermazioni gravissime che denunciavano atti (la telefonata intimidatoria con i suoi corollari) che andavano ben oltre la violazione clamorosa del galateo istituzionale ma che non possono essere definiti altrimenti che criminali e che non hanno precedenti, nella pur nebulosa storia dell’Italia repubblicana e che in qualsiasi altro Paese avrebbero provocato l’avvio immediato di un procedimento di impeachment. Ma gli scricchiolanti partiti della Prima Repubblica, che stavano per essere abbattuti dai colpi di maglio della Lega e di Mani Pulite, si guardarono bene dal muovere orecchia, plaudirono anzi alle iniziative antileghiste e anti-magistratura così come oggi altri partiti, diversi nei nomi ma non nella sostanza, e le più alte cariche dello Stato lo beatificano come “Padre della Patria” e definiscono “insigne costituzionalista” un uomo che ha sistematicamente violato, e nei modi più gravi, la Costituzione (sia detto di passata: docente di Diritto Costituzionale Francesco Cossiga non ha mai scritto un rigo in materia se non, nel 1950, una nota sulla Rassegna di diritto pubblico che conteneva un clamoroso errore sulle attribuzioni dei Pubblici ministeri e nel 1969, fatto credo unico, il Consiglio di Facoltà dell’Università di Sassari, su richiesta degli studenti, gli revocò la cattedra dopo che il futuro “Presidente emerito” era stato bocciato due volte agli esami per diventare ordinario, per salvarlo gli inventarono una cattedra di “Diritto costituzionale regionale”).

Il grande difensore. In compenso, se picconava “il nuovo che avanza”, Cossiga difese fino all’ultimo i socialisti che dell’ancien régime e delle sue sozzure, delle sue tangenti, delle sue prevaricazioni erano considerati l’emblema. “Perché li difende?” gli chiesi una volta che mi aveva invitato al Quirinale dolendosi per alcune critiche che gli avevo mosso. “Oh bella – rispose – perché i socialisti difendono me”. Che non mi sembra un bel modo di ragionare per un Presidente della Repubblica. Del resto nella Prima Repubblica, e proprio nel suo centro, la Democrazia Cristiana, aveva fatto tutto il suo “cursus honorum”. Lui stesso ammise, in un momento di rara lucidità, di essere “un puro prodotto dell’oligarchia”. Forse l’averlo confuso con un “picconatore” deriva dal fatto che negli ultimi due anni del suo settennato si mise a insultare, nel modo più gratuito e sguaiato, uomini politici e non, con cui aveva vecchie e nuove ruggini personali: “piccolo uomo e traditore” (il dc Onorato), “cappone” (il dc Galloni), “zombie con i baffi” (il pds Occhetto), “poveretto” (il dc Flamigni), “analfabeta di ritorno” (il dc Zolla), “mascalzone, piccolo e scemo” (il dc Cabras), “cialtrone e gran figlio di puttana” (Wallis, caporedattore della Reuter) e, infine, un onnicomprensivo “accozzaglia di zombie e di superzombie” appioppato all’intero Parlamento. Da allora si aprirono le cateratte e furono una serie di messaggi trasversali, cifrati, allusivi, intimidatori, secondo il suo miglior stile. Ricattò il governo con una grottesca e inapplicabile “autosospensione”, minacciò undici volte le dimensioni, minacciò una crisi perché due parlamentari si erano permessi di concedere un’intervista a La Repubblica, giornale a lui sgradito. Finito il suo mandato si sperò che di Francesco Cossiga non si sarebbe sentito parlare più. E invece ha continuato a mestare, a mandare messaggi trasversali, a creare partitini (l’Udr, l’Upr, l’Associazione XX settembre, il Trifoglio) che otterranno sempre percentuali di albumina, senza però dismettere mai quell’aria di arrogante superiorità che non si capisce bene su che si fondasse se non sul suo delirio narcisistico che tutto riportava a sé, tutto riferiva a sé, come se il mondo intero ruotasse intorno alla sua augusta persona. È stato un vecchio malvissuto. E noi non saremo così ipocriti da scrivere ora, perché è morto, cose diverse da quelle che scrivevamo quando era vivo.

Cossiga, il "picconatore" della Prima Repubblica. Cossiga resterà famoso come il picconatore. L’appellativo gli fu appioppato nella fase finale del suo mandato presidenziale quando iniziò a menare fendenti senza risparmiare nessuno. Il Giornale. Martedì 17/08/2010. Resterà famoso come il "picconatore". L’appellativo gli fu appioppato, e da lui orgogliosamente rilanciato e rivendicato, nella fase finale del suo mandato presidenziale quando iniziò a menare fendenti a destra e a manca, senza risparmiare nessuno ed alcun tema, con foga dissacrante e veemenza politica.

Il politico dei record. Francesco Cossiga (nato a Sassari il 26 luglio del 1928) è stato un unicum nel panorama politico italiano: non solo per essere stato il più giovane presidente della Repubblica (dal 1985, a 56 anni, dopo essere stato il più giovane presidente del Senato dal 1983), ma per la quantità di scosse date ad un ambiente sensibile alle dichiarazioni e rivelazioni. Il suo nome resterà indelebilmente legato ai terribili 55 giorni del rapimento di Aldo Moro nella primavera del 1978 ad opera delle Brigate Rosse, conclusisi con l’assassinio dell’uomo politico democristiano. In quei giorni Cossiga era ministro dell’Interno e presiedette il comitato di crisi da lui stesso istituito presso il ministero e tutto composto (come si scoprì in seguito) da affiliati alla loggia massonica P2.

Una Repubblica di misteri. Uomo dei misteri e disvelatore degli stessi (fu il primo a parlare di Gladio, organizzazione paramilitare filoamericana istituita in Italia semiufficialmente in funzione anticomunista), dalla fase terminale del suo mandato presidenziale in poi ha giocato il ruolo di destabilizzatore di equilibri politici e di anticonformista. Ha vissuto gli ultimi decenni della vita politica italiana in simbiosi con un altro leader democristiano di lunga carriera, Giulio Andreotti, rispetto al quale si è spesso trovato su fronti opposti. Orgogliosamente legato alla sua Sardegna, era cugino dei Berlinguer, famiglia il cui esponente politico più noto, Enrico, fu segretario del Pci. Da un punto di vista internazionale, Cossiga è stato un grande amico della Gran Bretagna, dell’Irlanda e dei Paesi Baschi ed è stato un fiero oppositore di tutti i nemici dei suoi "amici". E’ stato uno studioso di Rosmini e Tommaso Moro.

Le lotte studentesche. Come ministro dell’Interno, oltre che per il caso Moro (alla cui conclusione si dimise dall’incarico), fu famoso per la repressione delle lotte studentesche nella seconda parte degli anni 70 e della riforma dei servizi segreti. Fu accusato della "responsabilità morale" della morte della studentessa Giorgiana Masi ad opera della Polizia nel corso di scontri ad una manifestazione nei pressi di Trastevere a Roma nel 1977; erano i tempi in cui graffitari politici scrivevano il nome del ministro con la K ed il simbolo delle Ss naziste. E’ sempre stato un grande esperto ed appassionato dei temi correlati alla intelligence ed alle tecnologie di trasmissione dati via etere, collezionando le trasmittenti più sofisticate ed ogni tipo di telefono cellulare, oltre che radioamatore. In una incredibile intervista dell’ottobre 2008, bissata da uno stupefacente intervento parlamentare, confermò di avere infiltrato il movimento studentesco degli anni 70 con agenti provocatori per cercare poi sostegno popolare alla repressione poliziesca. Del resto l’uomo ha sempre amato gesti eclatanti, clamorosi e anticonformisti come la scelta di dimettersi dal mandato presidenziale due mesi prima della scadenza (onde evitare un "ingorgo istituzionale" con le elezioni politiche).

Le svariate tendenze. Da allora in poi la sua attività politica ha assunto le più svariate tendenze: nel 1998 permise la nascita del governo D’Alema (il primo governo in Italia presieduto da un esponente dell’ex Partito comunista) dando vita ad una nuova formazione politica (l’Udr) che diede a questo governo in Parlamento la maggioranza necessaria; negli anni successivi sostenne invece contestate iniziative del governo Berlusconi con espliciti interventi. E’ stato probabilmente il simbolo della difficile transizione italiana dagli anni dei governi democristiani a quelli del bipolarismo.

Le "picconate" di Francesco Cossiga. Le celebri frasi del presidente emerito.  Tgcom24 il 17.8.2010. Ottavo presidente della Repubblica, ministro, presidente emerito, praticamente un pezzo di storia italiana, ma non solo. Francesco Cossiga è stato anche il "picconatore". Fendenti come i colpi dell'arnese agricolo, le celebri e brucianti frasi di Cossiga hanno fatto la storia della cronaca politica italiana. Restano famose quelle su Occhetto, "lo zombie coi baffi", o Violante, "il piccolo Vishinski'' (pronunciata nel 1991, in risposta all'allora esponente del Pds).

"Adesso gli scherzi sono finiti", disse, è arrivato il tempo delle "picconate", come lui stesso le definì il 23 marzo 1991. Quando intervistato alla Fiera di Roma, Cossiga minaccia lo scioglimento delle camere. "Ho dato al sistema picconate tali che non possa essere restaurato ma debba essere cambiato'', ripetè l'11 novembre 1991, alla presentazione del libro Cossiga, uomo solo di Paolo Guzzanti. ''Facevo parte di una formazione di giovani democristiani armati - raccontava -, armati dall'arma dei carabinieri, per difendere le sedi dei partiti e noi stessi nel caso che i comunisti, perdute le elezioni, avessero tentato un colpo di stato''. 

Ne aveva per tutti. Di Achille Occhetto, il 22 gennaio 1992, in risposta al Pds che lo attaccava "sul piano Solo, P2, su golpismo e impeachment'', disse che aveva il potere di far rivivere ''le cose più abbiette e più volgari del paleo-stalinismo''.  Neanche Berlusconi rimase estraneo ai suoi affondi, "è il nuovo De Gasperi - disse -? Io allora sono il nuovo Carlo Magno" (in risposta a don Gianni Baget Bozzo che, il 18 aprile 1998, lo esaltava). 

Battute brucianti anche contro l'allora responsabile della giustizia dei Ds, Pietro Folena, ''quando lo vedo - riferì ai giornali il 22 giugno 1998 - penso sempre a quanto ha perduto la moda e quanto poco ha guadagnato la politica. Con la sua eleganza, la sua finezza, è chiaramente un mancato indossatore''.

Ironico, caustico, dotato di un sarcasmo tagliente ma sempre freddo e obiettivo. Sul caso Moro, 15 febbraio 2001, riconobbe: "Ho concorso ad uccidere o a lasciar uccidere Moro quando scelsi di non trattare con le Brigate Rosse e lo accetto come mia responsabilità, a differenza di molte anime candide della Dc''.

Riguardo a Calciopoli, il 6 luglio 2006, se ne uscì con una delle sue: "La giustizia sportiva è una buffonata!". Mentre, da sempre attaccato sulla sua adesione alla loggia massonica, il 16 ottobre 2009, disquisì: ''E' anche vero che io abbia una origine familiare di grandi tradizioni repubblicane, antifasciste. radicali e massoniche. Ma non sono stato e non potrò mai essere massone perché sono cattolico''.

·         Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

Il Civil Law, ossia il nostro Diritto, è l’evoluzione dell’intelletto umano ed ha radici antiche, a differenza del Common Law dei paesi anglosassoni fondato sull’orientamento politico momentaneo.

Il Diritto Romano, e la sua evoluzione, che noi applichiamo nei nostri tribunali contemporanei non è di destra, né di centro, né di sinistra. L’odierno diritto, ancora oggi, non prende come esempio l’ideologia socialfasciocomunista, né l’ideologia liberale. Esso non prende spunto dall’Islam o dal Cristianesimo o qualunque altra confessione religiosa.

Il nostro Diritto è Neutro.

Il nostro Diritto si affida, ove non previsto, al comportamento esemplare del buon padre di famiglia.

E un Buon Padre di Famiglia non vorrebbe mai che si uccidesse un suo figlio: eppure si promuove l’aborto. 

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe avere dei nipoti, eppure si incoraggia l’omosessualità.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe difendere l’inviolabilità della sua famiglia, della sua casa e delle sue proprietà, eppure si agevola l’invasione dei clandestini.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe che la Legge venisse interpretata ed applicata per soli fini di Giustizia ed Equità e non per vendetta, per interesse privato o per scopi politici.

Mi spiace. Io sono un evoluto Buon Padre di Famiglia.

Diffidate di chi sostiene che destra e sinistra non esistono più. Chi lo sostiene vuole nascondere quali sono i criteri che lo ispirano nel fare politica. Perché le ideologie non muoiono mai Roberto Saviano il 21 luglio 2019 su L'Espresso. Mi chiedo spesso cosa vogliano dire alcuni politici quando decretano la morte delle ideologie. L’idea che mi sono fatto è che chi ha una storia, che sia di destra o di sinistra, ci tenga in qualche modo a mantenere una continuità. Solo chi non ha una storia, o più spesso chi intende rinnegarla, ragiona in termini di superamento delle categorie tradizionali. Ma cosa significa superarle? Con cosa si possono sostituire? Cosa potrà riempire il vuoto? Riabilitare i termini con cui ci siamo formati e che abbiamo riempito di significati non significa far tornare in vita una politica che ci ha delusi, ma significa qualcosa di profondamente diverso. La storia dell’uomo la studiamo utilizzando categorie che all’inizio hanno un’utilità basilare, ovvero quella di fornire un elenco facile da capire e da memorizzare. Crescendo e conoscendo diamo spessore e profondità a quell’elenco, creiamo collegamenti, magari ci capita di non essere d’accordo con alcune teorie o ci imbattiamo in nuove scoperte che modificano il quadro delle nostre conoscenze oppure, banalmente, facciamo esperienza del mondo. Questo per dire che da qualcosa e da qualche luogo bisogna partire. Non riesco a immaginare me stesso nei panni di un sedicenne cui venga detto: destra e sinistra non esistono più, ora ci siamo noi.

Immagino la prima domanda: ma voi chi? Cosa siete voi? Rispondere in maniera sincera è difficilissimo: noi siamo come te - qualcuno risponderà - e tuteliamo i tuoi interessi.

Ma come fate a essere come me? Io sono uno studente e cerco di orientarmi e capire chi di voi non farà semplicemente i miei interessi, ma lavorerà perché tutta la società possa migliorare. Perché, alla fine, anche se vi ha eletto una parte del tutto, è sul corpo unico, è sul tutto che le vostre competenze e decisioni incideranno e avranno effetto. Con questo spirito, da adolescente, seguivo in televisione le tribune elettorali, per capire non tanto chi potesse fare i miei interessi, ma da dove venisse e cosa ispirasse chi chiedeva voti. Mi interessava capire cosa fosse la politica e, senza una dimensione diacronica, sarebbe stato impossibile riuscire a radicare me stesso nel mio tempo. Prima ancora di pensare a cosa possa sostituire la destra e la sinistra che, ci dicono, non esistono più, nemmeno come categorie astratte, direi che dovremmo chiarire cosa intendiamo per “politico”: cosa è “l’agire politico” oggi? Scopriamo così che “politico” ha sempre lo stesso significato e che si modifica, si amplia e si espande a seconda del contesto su cui incide. Una città, una regione, una nazione, un insieme di nazioni; in ciascuno di questi casi tutto ciò che riguarda la politica deve necessariamente riguardare l’individuazione di problemi reali e la ricerca di soluzioni concrete. Dal momento che non tutti individuiamo gli stessi problemi e che quando li individuiamo magari proponiamo soluzioni differenti, dobbiamo finire con l’ammettere che la parte ideologica della politica, quella meno pratica, quella che avrebbe a che fare non con il mondo come è, ma con il mondo come, secondo noi, dovrebbe essere o con il modo in cui lo percepiamo, ha una influenza enorme sulla vita pratica.

È possibile trovare una sintesi? Probabilmente no, nemmeno ammettendo che esistono istanze pratiche che potrebbero vincere sulla “lista dei desideri”. Però una cosa sento di doverla dire, una cosa che ha a che fare con la politica pratica e con l’idea di mondo che abbiamo: non esiste differenza tra i diritti umani, di cui oggi si fa strame impunemente spaventando le persone con ogni sorta di balla, e i diritti civili di cui ormai quasi nessuno in politica si occupa più. Non sembra essere chiaro, nonostante secoli di lotte, che lo stato sociale si fonda sul principio di uguaglianza e il principio di uguaglianza deve riguardare tutti i diritti, anche quelli che non ci sembrano immediatamente legati alla sopravvivenza e che spesso vengono trattati come il capriccio di élite salottiere, agiate e oziose. Anche perché, quando poi si parla di sopravvivenza vera, è un attimo che diventa anche quella - quando a rischiare la vita non siamo noi direttamente - un capriccio delle élite che, non essendo popolo, hanno il tempo per interessarsi alle miserie altrui. Diritti civili, diritti umani e stato sociale: se viene meno uno di questi termini, decadono anche gli altri due.

Testo Destra-Sinistra - 1995/1996 di Giorgio Gaber dall'Album "E Pensare Che C'era il Pensiero. 

Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia, ma io dico che la colpa è nostra, è evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

Fare il bagno nella vasca è di destra, far la doccia invece è di sinistra, un pacchetto di Marlboro è di destra, di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

Una bella minestrina è di destra, il minestrone è sempre di sinistra, quasi tutte le canzoni son di destra, se annoiano son di sinistra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

Le scarpette da ginnastica o da tennis, hanno ancora un gusto un po’ di destra, ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

I blue-jeans che sono un segno di sinistra, con la giacca vanno verso destra, il concerto nello stadio è di sinistra, i prezzi sono un po’ di destra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

La patata per natura è di sinistra, spappolata nel purè è di destra, la pisciata in compagnia é di sinistra, il cesso é sempre in fondo a destra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

La piscina bella azzurra e trasparente è evidente che sia un po’ di destra, mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare sono di merda più che sinistra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

L’ideologia, l’ideologia malgrado tutto credo ancora che ci sia, è la passione l’ossessione della tua diversità che al momento dove è andata non si sa, dove non si sa dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra, la mortadella è di sinistra, se la cioccolata svizzera é di destra, la nutella é ancora di sinistra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

La tangente per natura è di destra, col consenso di chi sta a sinistra, non si sa se la fortuna sia di destra, la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

Il saluto vigoroso a pugno chiuso è un antico gesto di sinistra, quello un po’ degli anni '20 un po’ romano è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

L’ideologia, l’ideologia malgrado tutto credo ancora che ci sia è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché, con la scusa di un contrasto che non c’è, se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.

Canticchiar con la chitarra è di sinistra, con il karaoke è di destra.

I collant son quasi sempre di sinistra, il reggicalze é più che mai di destra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

La risposta delle masse è di sinistra, con un lieve cedimento a destra.

Son sicuro che il bastardo è di sinistra, il figlio di puttana è a destra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

Una donna emancipata è di sinistra, riservata è già un po’ più di destra, ma un figone resta sempre un’attrazione, che va bene per sinistra o destra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

Tutti noi ce la prendiamo con la storia, ma io dico che la colpa é nostra, é evidente che la gente é poco seria, quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?

Immigrati in Toscana.  È tutta questione di… organizzazione. Alessandro Bertirotti il 18 luglio 2019 su Il Giornale. Dovremmo tutti, e dico proprio tutti, imparare da quelli del PD. E questa notizia, del 10 luglio scorso, anche se passata,rimane sempre attuale. Perché dovremmo imparare da questa rosa, bancaria e radical chic sinistra? Per una seria di motivi e che vi enumero qui di seguito. Innanzi tutto, la sinistra, con la grande tradizione che possiede, specialmente in questa nazione, è nelle condizioni di proporre e far passare a tutti l’idea di essere al di sopra di ogni sospetto morale, etico e comportamentale. La sinistra è migliore, etica, rivolta al benessere delle persone, a favore dell’accoglienza della diversità, legata alla famiglia cristiana, disponibile al colloquio, e così via. E molte persone, ancora oggi, nonostante tutto quello che si vede (da #Bibbiano, #Seawatch e #Lucano, etc.), continuano a dare credito a queste miserie propagandistiche. Quindi, anche la destra dovrebbe cominciare, a spron battuto, ad affermare le stesse cose. E forse, grazie anche all’approvazione del Codice Rosso (e ricordo a tutti che in Parlamento la sinistra PD si è astenuta in sede di votazione, dimostrando quello che è…), si comincia a comprendere che la propaganda vera non è solo quella difensiva, ma quella propositiva, migliorativa presente in questa Nazione. Il secondo insegnamento è quello legato al fatto che la campagna elettorale non finisce mai, e la si fa nel silenzio delle cooperative, delle associazioni culturali, dei centri di smistamento ed accoglienza dei migranti, senza troppa pubblicità, in sordina. La sordina produce un “tamtam” molto più assordante e funzionale di qualsiasi messaggio social. Ne sono convinto, e lo possiamo verificare in tutte le regioni tradizionalmente rosse, e che lentamente, Deo Gratias, si stanno accorgendo di tutto questo. La notizia che ho inserito in ipertesto dimostra proprio quanto ciò sia vero. Ricevo, ultimamente, da molti giovani psicologi, assistenti sociali, educatori, ed altre professionalità gli sfoghi della loro disperazione, dovuta all’applicazione del Decreto Sicurezza. Perché? Stanno perdendo il lavoro, poiché comincia a mancare la materia prima ed umana sulla quale speculare: gli immigrati. Vengono dunque lasciati a casa, licenziati in tronco per mancanza di clienti. Si trovano così costretti a dimostrare di essere altamente professionali con altri simili italiani, conquistando qualche ruolo messo a concorso, oppure lavorando come liberi professionisti. Insomma, non hanno più a protezione e la collocazione del partito.

Cosa fa, dunque, il PD toscano? Cerca, in tutti i modi e in tutte le occasioni, di ridare speranza a questa mandria di operatori sociali. E tutti loro sono voti, voti e voti, perché certamente ognuno di loro sarà grato a quelle persone che danno lavoro, in tempi di crisi, quando sarebbe difficile trovarlo, se non con molta fatica e bravura, al di fuori delle strutture legate al partito. Altro che business! Sono perfetti, nella strategia di avere serbatoi elettorali sempre vivi, vegeti e intelligentemente venduti come espressione di quella bontà catto-comunista così cara al popolo di questa regione. Dobbiamo essere tutti fieri di questa verità incontrovertibile.

“E allora Bibbiano?”: Pd, media, movimento lgbt nel mirino dei complottisti da social. La macchina dell'odio che specula sull'inchiesta "Angeli e demoni" di Reggio Emilia si è riattivata alcuni giorni fa, dopo le parole del vicepremier Di Maio. E cerca di saldarsi all'indagine statunitense sul miliardario Jeffrey Epstein. Segnalato un utente che ha minacciato di morte il deputato dem Andrea Romano. Simone Cosimi il 19 luglio 2019 su La Repubblica. L’operazione è stata certificata dal vicepremier Luigi Di Maio. Intervistato sugli scenari politici, in merito a un possibile accordo di governo col Pd ha spiegato che il M5S non avrebbe mai fatto un’alleanza “con il partito di Bibbiano”. In risposta, i dem hanno annunciato una querela al ministro dello Sviluppo economico. Non era una dichiarazione campata in aria. Da qualche giorno l’implacabile macchina della calunnia si è messa in moto sui social network, dove l’inchiesta "Angeli e demoni" sul sistema illecito di gestione dei minori in affido in Val d’Enza, secondo l’accusa strappati alle famiglie con manipolazioni e pressioni e assegnati ad altri nuclei, viene da giorni sfruttata come stigma con cui screditare e attaccare il Partito democratico. E non solo. Il gancio è con l’ormai ex sindaco sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, indagato per abuso d’ufficio e falso ideologico. Secondo i pm avrebbe saputo del sistema e avrebbe deciso, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, “lo stabile insediamento di tre terapeuti privati della Onlus Hansel e Gretel all’interno dei locali della struttura pubblica ‘La Cura’”. Sui social il topic "Bibbiano" è montato in questi giorni come una gelatina in cui avvolgere una nuova campagna d’odio dalle mille facce. Davvero una delle più scivolose degli ultimi tempi. Passando anche dalle parole del vicepremier, che il 18 luglio in diretta Facebook ha detto: "Col Pd non ci voglio avere nulla a che fare, con il partito di Bibbiano che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli non voglio averci nulla a che fare e sono stato in questo anno quello che più ha attaccato il Pd". Centinaia di post, articoli e meme (alcuni raffiguranti personaggi come Roberto Saviano, Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Fabio Volo o Laura Boldrini con la mano sulla bocca, rei di aver censurato il tema) hanno nel corso dei giorni mescolato il fatto a mille altri cavalli di battaglia del sovranismo e populismo digitale, transitando da siti come VoxNews.it, dalle galassie social sovraniste – come l’intervento del consigliere di Ostia di CasaPound, Luca Marsella - fino a eventi reali. Come quello di ieri organizzato da Fratelli d’Italia con ospite Alessandro Meluzzi che in un video rilanciato da Giorgia Meloni (fra gli account più attivi per l’hashtag #Bibbiano insieme a quello di Francesca Totolo, collaboratrice del Primato nazionale, il sito di CasaPound, e di @adrywebber) spiega che “il caso di #Bibbiano è solo la punta dell'iceberg”. Dalla teoria gender alla “campagna Lgbt per distruggere la famiglia naturale”, come si legge in altri post, tutto – secondo l’intossicazione in corso – è coperto dal Pd che avrebbe lanciato il diversivo del Russiagate “divulgato provvidenzialmente dopo #Bibbiano, lo scandalo del #Csm e quello della sanità in Umbria” come scrive Totolo in una battaglia che nella mattinata di venerdì l’ha contrapposta all’eurodeputato Pd Carlo Calenda, che è ripetutamente intervenuto per tentare di contrastare la campagna d’odio e disinformazione. Perché Bibbiano è diventato ormai il ritornello con cui un ristretto ma agguerrito gruppo di account risponde a qualsiasi post o contenuto, specialmente se pubblicato da esponenti Pd o giornalisti. La “world cloud” delle parole più usate in quei contenuti e in quelle risposte è composta da “bambini”, “scandalo”, “caso”, “fatti”, “famiglie”, “attenzione” e poi “minori”, “inchiesta”. C'è chi si è spinto oltre: Andrea Romano, deputato del Partito democratico, ha segnalato alla polizia di aver subito minacce di morte su Twitter dall'utente @VincenzoMoret17 per la vicenda del presunto screzio con la deputata dei 5 Stelle Francesca Businarolo. La vicenda è slegata da quella di Bibbiano, ma l'utente ha twittato le sue minacce usando l'hashtag #Bibbiano. Gli hashtag che raccolgono le diverse articolazioni della campagna sono #Bibbiano e #BibbianoPD. Anche se a scavare bene, il primo a muovere le truppe dell’odio è stato uno ben più pesante: #PDofili, decollato dal 27/28 giugno, per esempio col tweet di  @alberto_rodolfi in risposta a Matteo Orfini o di @ValeMameli. Il più condiviso è stato quello di @PiovonoRoseNoir, il cui si dice che “da oggi non sono più #PDioti ma #Pdofili. Hanno fatto il salto di qualità le merde”. A firmare i contenuti, a conferma di squadriglie piccole ma agguerrite, sono stati 2.600 utenti per 6.200 post fra tweet e retweet. Ma solo poco più di 400 utenti hanno postato un contenuto originale. Nonostante si sia ormai spento da giorni, anche per i timori di querela traslocando #BibbianoPD, è ancora ricco di orrori di ogni genere. Ne escono collage fotografici con i personaggi citati sopra, e altri come Lucia Annunziata, la senatrice Monica Cirinnà o la nostra giornalista Federica Angeli, e la frase “Tutti muti su Bibbiano”. Contenuti fuori da ogni senso e contesto come vecchi spezzoni di video in cui Matteo Renzi elogiava il sistema degli asili nido di Reggio Emilia o di un bambino disperato perché separato dal padre ma, come ha svelato Open, attribuibile a un’altra situazione in Sardegna di due anni fa. E ancora, orribili vignette con protagonisti bambini sottoposti a sevizie elettriche, ritornelli contro il “silenzio dei media”, che in realtà stanno coprendo approfonditamente il caso, e sul “sistema che ruba i bambini”. Non basta. Negli ultimi giorni sembra essersi saldato anche un ponte digitale con le vicende che negli Stati Uniti hanno portato in carcere il miliardario Jeffrey Epstein, ex amico di Bill Clinton, del principe Andrea, duca di York, ma anche di Donald Trump, accusato di sfruttamento sessuale dei minori fra 2002 e 2005 e che ora rischia fino a 45 anni di carcere. Alcuni tweet (basta scorrere quelli dell’utente @DPQ87968970) tentano di trapiantare quella vicenda, innestandola sul tessuto dell’inchiesta italiana di Bibbiano e simili, con un obiettivo: avvalorare la folle tesi di un sistema internazionale, una specie di Spectre per cui la pedofilia è uno strumento per tenere sotto controllo politici e le mosse dei governi. L’hashtag è, non a caso, #PedoGate e raccoglie fra l’altro riferimenti ai più diversi casi di cronaca del passato, anche italiano, che ovviamente non hanno alcun collegamento l’uno con l’altro. Ricapitolando, gli hashtag più utilizzati su Twitter – che è il canale principale su cui si sta squadernando l’operazione – sono #bibbiano, #bibbianopoli (che sta decollando proprio in queste ore, quasi in contrapposizione a Moscopoli), #bibbianopd (su cui tuttavia poco meno 300 profili nell’ultima settimana hanno pubblicato post originali, il più popolare è l’elogio degli asili nido di Renzi, nel 2012, il secondo più diffuso è del deputato 5 Stelle Massimo Baroni che rilancia il meme con Saviano e gli altri accomunati dalla scritta “Bibbiano”), #bibbianonews, in ordine decrescente di utilizzo. In una decina di giorni, tutti i contenuti sul tema, sempre rimanendo al social dell’uccellino, sono circa 78mila. Non c’è nulla di casuale: il numero relativamente basso delle utenze più attive coinvolte e il loro schema d’azione – quasi sempre risposte a post del Pd e di altri – racconta dell’ennesima operazione coordinata. Sono infine dati e tendenze che dimostrano la reale capacità di influenzare e raggiungere altri utenti perché non includono gli utenti o i contenuti” nascosti” da Twitter in quanto offensivi o dannosi secondo gli ultimi aggiornamenti delle regole della piattaforma.

Bibbiano, Nek e Pausini veri megafoni del popolo. Paolo Giordano, Lunedì 22/07/2019, su Il Giornale. Ci risiamo. Il pop torna a smuovere la politica, a infiammare l'opinione pubblica, a dividere le opinioni. Finita senza rimpianti l'epoca dei cantanti ideologici (quelli che poi si trovavano al Festival de l'Unità, per intenderci) adesso ci sono artisti che rilanciano casi di cronaca e lo fanno a prescindere dal partito di appartenenza. Laura Pausini e Nek, per esempio, o Mietta subito dopo. Per venti giorni le indagini sul presunto giro illecito di affidi di bambini a Bibbiano (16 misure cautelari e 29 indagati) avevano volato basso nell'informazione, scatenando più che altro qualche baruffa social, ma niente più. E dello psicoterapeuta Claudio Foti o del sindaco Andrea Carletti parlavano soltanto i vicini di casa e gli avvocati, anche se il primo cittadino Pd è ai domiciliari per falso e abuso d'ufficio. La cronaca è così ingolfata da pinzellacchere e bagattelle, da casi di penoso glamour o ridicola politicanza da perdere per strada talvolta le questioni di reale importanza. Come questa. Ci hanno pensato per primi due artisti che con la politica non hanno mai avuto a che fare ma che stavolta sono «scesi in campo» muovendo le opinioni dei loro fan, che sui social sono milioni. «Non sentite di avere nelle mani degli schiaffi non dati?», ha scritto per prima Laura Pausini alla propria maniera verace e sincera: «Questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese e dovrebbe essere la notizia vera di cui tutti parlano schifati». Prima botta da migliaia di like. Poi è arrivato Nek, un altro che non si è mai schierato con la politica ma solo con il buon senso: «Sono un uomo e sono un papà. È inconcepibile che non si parli dell'agghiacciante vicenda di Bibbiano». Missione raggiunta. Non soltanto Salvini e Di Maio hanno parlato della questione, ma pure i social hanno fatto il proprio mestiere, dividendosi tra favorevoli e contrari ma comunque dando un segnale di grande interesse. Insomma, più o meno come altri loro colleghi tanti anni fa, anche Pausini e Nek hanno dato la scintilla all'opinione pubblica, si sono schierati, hanno preso evidentemente una posizione. Rispetto agli anni '70 e '80, oggi gli artisti si spendono per questioni vere, non per vertenze ideologiche. E perciò, da genitori, Pausini e Nek hanno richiesto maggiore chiarezza sui fatti di Bibbiano. Suscitando immediata risposta ai piani alti. A conferma che gli artisti pop sono ancora autentici megafoni del sentimento popolare.

·         Democrazie mafiose. «La sinistra è una cupola».

DEMOCRAZIE MAFIOSE. L'altra faccia del sistema democratico. Panfilo Gentile. Dalla prefazione di Sergio Romano "La riedizione di un libro polemico non è mai un’operazione neutrale... Se potesse vedere ciò che è accaduto in Italia dopo il 1992, Gentile constaterebbe che il quadro è cambiato. La parola partito, anzitutto, è scomparsa dalla ragione sociale di un certo numero di formazioni politiche: Forza Italia, Democratici di sinistra, Alleanza Nazionale, Margherita, Lega Nord, Rinnovamento Italiano, Italia dei Valori, Socialisti italiani, Verdi, Il Sole che ride... Ma il declino dei partiti e la perdurante debolezza degli esecutivi hanno avuto il paradossale effetto di rendere l’Italia non meno mafiosa di quanto fosse all’epoca della Prima Repubblica. Mi servo della parola, naturalmente, nel senso usato da Gentile. "Mafiosi", in questo caso, sono gli organismi e le istituzioni in cui lo spirito di parte e l’interesse corporativo prevalgono, non dico sull’"amor di patria", ma su un’attenta e prudente considerazione dell’interesse generale. Al declino dei partiti corrisponde, in Italia, il rafforzamento delle corporazioni... Abbiamo finalmente un governo di legislatura che si proclama liberale. Ma non è riuscito a smantellare i veri nemici del liberalismo: le corporazioni... Se Panfilo Gentile, evocato dalle condizioni del suo paese, riapparisse come un personaggio di Pirandello dietro la macchina per scrivere fra i cani e i gatti del suo appartamento romano, avrebbe materia per un altro dei suoi folgoranti pamphlet. A noi non resta che rileggere l’ultimo della sua vita".

UN BRANO: "... le "democrazie mafiose" sono rappresentate da quei regimi che, nel quadro delle istituzioni democratiche tradizionali (volontà popolare, governo rappresentativo, accettazione delle decisioni di maggioranza e rispetto delle minoranze), riescono ad esercitare il potere ed a conservarlo attraverso il sistematico favoritismo di partito. In altri termini le democrazie mafiose sono regimi di tessera, né più né meno dei veri e propri regimi totalitari. La differenza tra i due sistemi è che nei regimi totalitari vi è una tessera unica mentre nelle "democrazie mafiose" sono consentite più tessere; ma siccome si tratta di tessere confederate al vertice si tratta pur sempre in definitiva di un’unica e stessa tessera: quella o quelle privilegiate di coloro che stanno al potere. Infine: la tessera del potere."

Descrizione. Panfilo Gentile può essere considerato come un discepolo di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto almeno nel senso che egli, secondo l’insegnamento di questi eminenti maestri, cerca di individuare la realtà che si nascondono dietro le coperture ideologiche ed istituzionali di superficie. Le moderne democrazie vorrebbero essere ideologicamente ed istituzionalmente un governo del popolo e per il popolo. Ma che cosa sono poi realmente nelle concrete formazioni storiche che le incarnano? Sono, risponde Panfilo Gentile, delle oligarchie mai selezionate dai partiti che operano necessariamente una selezione della classe dirigente, chiudendo la porta ai migliori e aprendola ai peggiori. Sono delle oligarchie che, per accedere al potere, debbono gareggiare in demagogia e per conservarvisi debbono predisporre un pesante apparato di irregimentazione e di persuasione occulta degli elettori. Sono oligarchie che instaurano un regime di tessera e di politicizzazione faziosa di tutti gli organismi pubblici, dei quali hanno la direzione. Al sostantivo: democrazie, può quindi legittimamente accoppiarsi l’aggettivo: mafiose. Panfilo Gentile espone queste sue ricerche con serenità, anche se è nel suo stile di non risparmiare i colpi in punta di penna. Sotto questo profilo gli studi dedicati in ultimo ai falsi profeti, Sartre e Marcuse, sono di un’eleganza polemica rara negli scrittori contemporanei.

Un liberale eccentrico: ricordo di Panfilo Gentile. Vittorio Palumbo su istitutodipolitica.it il 13 Gennaio 2017. Anche nel nuovo anno, il quadro politico nazionale si evolve senza una vera direzione, prigioniero com’è dei suoi riti e dei suoi bizantinismi, rendendo più che mai attuali le analisi e le considerazioni di un fine pensatore, come è stato Panfilo Gentile. “Panfilino”, il nomignolo con cui lo chiamavano i suoi amici più cari, nato a L’Aquila nel 1889, si è connotato per essere, fino al momento della sua morte avvenuta a Roma nel 1971, uno degli spiriti più liberi dell’Italia del Novecento, ricoprendo, nello scorrere della sua lunga vita, una moltitudine di ruoli e professioni in linea, d’altronde, con la sua effervescente e poliedrica personalità: professore di Filosofia del diritto all’Università di Napoli, avvocato, uomo politico, saggista, giornalista, collaboratore di “Risorgimento liberale”, “La Stampa”, “Il Mondo”, “Corriere della Sera”, direttore de “La Nazione”, autore di opere fondamentali come Democrazie Mafiose, L’idea liberale, Cinquant’anni di socialismo in Italia, Polemica contro il mio tempo, Opinioni sgradevoli. A molti, forse, questo nome dirà poco ed è un peccato, trattandosi del liberal-conservatore più fine e genuino, del cervello più lucido ed insieme dello spirito più bizzarro e ricco di talento che la cultura italiana possa mettere in campo, accanto ai grandi maestri della destra europea, come Ortega y Gasset, Aron, Popper, anche se egli, per civetteria e provocazione polemica, amava definirsi “reazionario”, affermando, in Democrazie Mafiose (Ponte alle Grazie, Milano, 2005) che “…Ci sono epoche nella storia in cui si può andare avanti soltanto tornando indietro. Ci sono epoche di decadenza, nelle quali una civiltà che si credeva acquisita si viene disfacendo sotto i nostri occhi costernati…Bisogna ricominciare da capo, tornare indietro e recuperare ciò che si è perduto. Perciò oggi il progresso può significare solo reazione. L’unico modo di essere progressisti è di essere reazionari…”. Il suo anticonformismo, il suo spirito provocatorio, la sua avversità non solo verso la corruzione del sistema politico ma anche della sociètà italiana, il suo non avere mai “peli sulla lingua”, le sue critiche ironiche e pungenti nei confronti del sistema clientelare e di coloro che con esso si alimentavano, la coerenza del suo agire rispetto alle idee che professava, lo hanno condannato ad una sorta di “damnatio memorae”, che ne ha oscurato la figura di eclettico studioso e di acuto e pungente scrittore. Quanta attualità, ognuno di noi, può trovare nelle parole proferite nel 1969 (!) da Panfilo Gentile sul “Corriere della Sera” l’11.3.1969 nel corso di un’intervista in cui gli veniva chiesto se ritenesse che la crisi dei partiti politici potesse essere corretta, modificando il sistema elettorale: “…la situazione italiana sembra minacciata da una specie d’impotenza politica della classe dirigente. Formalmente tutto è in regola ma sostanzialmente niente funziona. Il governo non governa ma è governato dai gruppi più risoluti, che lo intimidiscono e lo paralizzano…ci sono i sindacati i quali, tra uno sciopero e l’altro, impongono al governo di assumersi oneri finanziari, per i quali non esistono altre coperture che i debiti e la speranza futura di un maggiore gettito delle entrate…c’è una magistratura che non riesce a rendere giustizia per mancanza di giudici, di locali ed attrezzature…c’è una scuola che quando non è in contestazione o in sciopero, non ha insegnanti di ruolo, né edifici…c’è una burocrazia che, per vetustà di leggi, non riesce nemmeno a spendere i fondi messi a sua disposizione. Tutti si agitano, tutti chiedono e il governo cede, abdica, si umilia promettendo leggi, improvvisando riforme e, soprattutto, dilatando sempre più la spesa pubblica. Perché tutto ciò? Perché la classe politica…è governata da una coalizione apparentemente di tre partiti, effettivamente di almeno cinque fazioni, spesso in dissenso reciproco e più spesso ancora in dissenso interno…potrebbe la classe politica auto-corrergersi? Anche i miracoli si dice che avvengano. Ma, senza un atto di fede, la realtà ci fa vedere un sistema rissoso di partiti e sotto-partiti, culla di passioni ideologiche e di ambizioni personali inconciliabili…”. Panfilo Gentile non si stancò mai di chiamare, soprattutto nei suoi articoli di fondo sul “Corriere della Sera” in materia di politica internazionale ed economica, pubblicati a partire dal 1956 fino al 1970, le cose con il loro vero nome, anche quando per farlo bisognava pagare un prezzo, apparire bastian contrari, contrastare i luoghi comuni dell’egualitarismo ed il suo spirito provocatorio si spinse fino al punto di attaccare il massimo tabù dell’epoca, la democrazia, facendone notare i limiti e le pecche. A suo giudizio, infatti, il suffragio universale conduceva necessariamente alla partitocrazia, ad un regime cioè in cui le organizzazioni politiche, sotto forma di macchine ideologico-burocratiche, sequestrano il potere a beneficio dei loro dirigenti, iscritti, clienti, tirapiedi . Di qui la fondatezza e la fortuna del termine partitocrazia, appunto, che Panfilo Gentile forse non inventò, in quanto il merito viene di solito attribuito al costituzionalista Giuseppe Maranini, ma di certo impose, con veemenza, al vocabolario politico italiano (D. Fertilio, “Corriere della Sera”, 18.9.2005). In Democrazie mafiose così specificava cosa intendesse per tale definizione: “…Come io le ho individuate, le democrazie mafiose sono rappresentate da quei regimi che, nel quadro delle istituzioni democratiche tradizionali (volontà popolare, governo rappresentativo, accettazione delle decisioni della maggioranza e rispetto delle minoranze), riescono ad esercitare il potere ed a conservarlo attraverso il sistematico favoritismo di partito. In altri termini le democrazie mafiose sono regimi di tessera, né più né meno dei veri e propri regimi totalitari…si tratta, in definitiva di un’unica e stessa tessera: quella o quelle privilegiate di coloro che stanno al potere…la tessera del potere…”. Occorre precisare comunque, come ben spiegato da Sergio Romano (“Corriere della Sera”, 26.4.2014) che, in tale opera, Panfilo Gentile non usò la parola “mafioso” nel senso strettamente siciliano. Le mafie, nelle sue analisi, erano le clientele, le consorterie, le cricche, i cartelli, i clan professionali, tutte le organizzazioni che si erano progressivamente impadronite del corpo sociale italiano e non avevano altro scopo, nell’amministrazione della cosa pubblica, fuor che quello di proteggere ed ampliare il feudo dei loro interessi. Gentile fu tra i primi ad accorgersi che l’Italia, a dispetto della sua “bella” Costituzione, era diventata una partitocrazia, vale a dire un sistema il cui potere era uscito da Palazzo Chigi e da Montecitorio, per trasferirsi nelle segreterie dei partiti, sviluppando in lui una sorta d’intolleranza allergica agli ipocriti conformismi che stavano creando una nuova retorica nazionale, vacuamente progressista e non meno stucchevole di quella che aveva dominato l’Italia fascista. Di ciò egli se ne accorse sul campo dirigendo La Nazione di Firenze e assistendo dall’interno alla crisi del partito liberale, di cui era diventato consultore nazionale. Lo infastidivano, in particolare, gli articoli e le trasmissioni radiofoniche o televisive in cui si lasciava intendere che la responsabilità di ogni sventura fosse del capitalismo e dei padroni, alimentando in lui, così, quella peculiare capacità di critica che lo portò ad essere uno dei pochi commentatori politici di quell’epoca, capace di sgonfiare i palloncini dei luoghi comuni e delle formule corrette che stavano inquinando il linguaggio nazionale. L’attualità della concezione liberale di Panfilo Gentile consiste, allora, nell’aver compreso che il problema preminente, nell’ambito del sistema politico italiano afflitto da endemiche magagne etico-sociali, ora come allora, “…resta ancora quello di difendere l’individuo dal Potere, dai suoi abusi, dalla sua invadenza. Un ordinamento liberale è, prima di tutto, un ordinamento nel quale il Potere riceve delle regole e dei limiti; perché per il liberalismo è lo Stato che esiste per l’individuo e non sono gli individui che esistono per lo Stato…” (L’idea liberale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002). L’auspicio è, dunque, che si concretizzi una riscoperta di questo geniale osservatore dei costumi politici italiani, oppositore irriducibile del “burocraticamente corretto”, troppo spesso colpevolmente trascurato dal mondo scientifico, culturale, accademico, così come anche ricordato in una delle sue Stanze da Indro Montanelli, il quale soleva dire parlando di “Panfilino” che “…il fatto che nelle librerie non si trovi più traccia di lui perché nessun editore ha più sentito il bisogno di ripubblicare dei saggi come Cinquant’anni di socialismo in Italia, Il genio della Grecia, L’idea liberale, significa che la cultura italiana non ha più nessuna idea di cosa sia la Cultura e quali siano i suoi veri valori…” (“Corriere della Sera”, 21.1.1997), per farci, ancora una volta di più, apprezzare l’universalità delle idee liberali, non esistendo paese al mondo in cui ridurre il ruolo dello Stato e far si che i politici debbano rendere conto del loro operato agli elettori, non avrebbe effetti positivi.

Il concetto ambiguo di democrazia mafiosa. Amelia Crisantino il 29 dicembre 2005 su La Repubblica. Quando nel 1969 venne pubblicata la prima edizione di "Democrazie mafiose" il termine «mafia» non era inflazionato e il suo autore Panfilo Gentile, ormai ottantenne, aveva sostenuto la prima polemica nel 1913 contro l' allora direttore dell' Avanti Benito Mussolini. Era un italiano anomalo, che proveniva dalla scuola dei grandi maestri politologi realisti dell' inizio del secolo scorso. I suoi maestri erano stati Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. E lui, Panfilo Gentile, era stato socialista e aveva scritto sull' Unità di Gaetano Salvemini. Poi era stato tra i fondatori del "Mondo" di Pannunzio, era approdato tra i liberali, aveva firmato il "Manifesto degli intellettuali antifascisti" promosso da Benedetto Croce. Col passare degli anni il suo liberalismo era diventato sempre più amaro e conservatore, la sua vocazione a smontare i meccanismi demagogici della politica nella patria della retorica gli aveva creato l' isolamento intorno. Adesso la recente ristampa di "Democrazie mafiose" (edizioni Ponte alle Grazie) ci restituisce un libro molto «politicamente scorretto», che addirittura sembra profetico e si può benissimo adoperare come vademecum per leggere le nostre isolane vicende: non solo quelle più eclatanti legate alle imputazioni di Cuffaro, o al processo alle «talpe» e agli scenari che lascia intravedere, ma anche quelle minime e quotidiane. A esempio, per restare alla cronaca di ieri, l' incapacità del Consiglio comunale a eleggere un difensore civico. O il modo in cui si è risolta la protesta dei tassisti contro il rilascio di nuove licenze, col sindaco che diffonde un comunicato in cui - con linguaggio squisitamente premoderno - si discetta di «salvaguardare le prerogative» dei conducenti di taxi. è una questione di coerenza stilistica: nel generale cattivo funzionamento le lobby non fanno altro che assolvere la loro funzione, tutelano interessi di parte. Panfilo Gentile è fondamentalmente antidemocratico, come tutti i grandi liberali di destra. Identifica la democrazia con la demagogia, la manipolazione, la cortina di ipocrisia con cui la classe politica avvolge il Paese. Il suo bersaglio sono i partiti, composti da piccoli borghesi disoccupati e privi di una qualsiasi competenza professionale ma carrieristi, «imbevuti di clericalismo ideologico, portati all' intolleranza e allo spirito settario». Scrive che l' ideologia più dannosa è quella del progresso, l' ingenua fiducia che mette ipoteche sul futuro mentre spartisce il potere nel presente. Insomma è un vecchio conservatore, con qualche civetteria si definisce un «giacobino di estrema destra»: un osservatore scettico e disincantato, che già negli anni Sessanta denuncia il sistema delle tessere, l' inquinamento del sottogoverno e la corruzione che molti anni dopo sarebbero esplosi con Tangentopoli, il «politicantismo ecclesiastico» oggi di nuovo alla ribalta. è un critico non addomesticato dalle appartenenze, che mette in guardia contro «il pesante e costoso statalismo filantropico, utilizzato poi dai partiti a scopo clientelare e mafioso». Le critiche di Panfilo Gentile sono state respinte e in fondo ignorate sia dalla sinistra che dalla destra, i «senza chiesa» non sono stati mai ben visti in Italia. E del resto non poteva essere riconosciuto un critico tanto corrosivo, che nei suoi scritti finiva per dimostrare «come tutte le democrazie tendano ad essere mafiose». Semplicemente perché governate da élite demagogiche, che inseguono gli umori delle masse e le assecondano al solo scopo di conservare il potere. èlite che si sottopongono a fatiche sfibranti, a ritmi che richiedono una totale abnegazione. «La vita pubblica è assorbente, massacrante, promette a breve termine infarti e trombosi»: all' interno dei partiti l' impegno totale della propria esistenza è solo la prima delle condizioni necessarie per fare carriera. In una selezione all' incontrario che premia i peggiori, una volta presa la tessera quello che Gentile chiama «l' aspirante carrierista» è atteso da una serie di prove sempre più ardue, dove «si va faticosamente avanti solo a gomitate, per superare le posizioni acquisite, le invidie, le rivalità». Solo chi ha tenacia e determinazione va avanti nel gioco delle correnti di partito, riscoperte in questi giorni e presentate come l' essenza della democrazia. Tanta determinazione si esaurisce nella conquista e nella continua lotta per la conservazione del potere, il politico non ha competenze «né l' acquista strada facendo perché prepararsi significa leggere e studiare, il che non è consentito in chi è travolto in una frenetica attività ed agitazione psico-motoria». Il testo di Panfilo Gentile è di una sorprendente attualità anche quando riflette sullo zelo missionario che suggerisce di esportare la democrazia, iniziativa che «ha spesso fatto sembrare la politica statunitense inconcludente e fanciullesca». E se il rigore dell' argomentazione sfocia nel paradosso, lo stesso resta godibile: come esempio di un pensiero inattuale e sganciato dai dogmatismi, un pensiero di marca liberale mai praticato in Italia. Fosse vissuto oggi, l' intellettuale «inattuale» avrebbe avuto modo di vedere che i suoi caustici commenti, le sue intuizioni sul futuro, erano superati dalla realtà. Chissà cosa avrebbe scritto l' autore di "Democrazie mafiose" di fronte agli sviluppi di questi nostri anni. Provare a immaginarlo è come una scossa benefica, che senza filtri ci mostra i danni derivanti dall' assuefazione.

Panfilo Gentile. Gennaro Malgieri su Il Tempo il 31 Gennaio 2011. Negli ultimi sessantan'anni la partitocrazia ha assunto forme diverse, ma uguali sono state le modalità in cui si è espressa: l'occupazione del potere e della vita pubblica da parte delle forze politiche che, in tal modo, hanno travalicato i loro compiti istituzionali. Fenomeno antico denunciato nella seconda metà dell'Ottocento da Francesco De Sanctis, Ruggero Borghi, Marco Minghetti. Ma è stato nella seconda metà del secolo scorso che la partitocrazia si è sviluppata in forme abnormi tanto che un costituzionalista liberal-conservatore come Giuseppe Maranini ne denunciò la portata devastante nel sistema istituzionale e nella vita civile fin dal 1949 in un libro significativamente intitolato Il tiranno senza volto. Anche don Luigi Sturzo ne fece largo uso in polemica perfino con il suo partito, mentre vi dedicarono attenzione «scientifica» giuristi e studiosi di scienza politica come Carlo Costamagna, Giacomo Perticone, Lorenzo Caboara. Tuttavia, il polemista più acuto ed incisivo che ne ha denunciato la nefasta portata resta Panfilo Gentile, un grande conservatore (1889 - 1971) la cui attualità, a quarant'anni dalla scomparsa, risulta di una sorprendente attualità. Il giovane studioso Alberto Giordano, l'ha colta nel saggio - il solo organico finora dedicato al pensatore e giornalista abruzzese - «Contro il regime. Panfilo Gentile e l'opposizione liberale alla partitocrazia», edito da Rubbettino (pp. 284) nel quale non soltanto ripercorre le idee del singolare poligrafo, ma lo situa nell'ambito del vasto (e per tanti versi sconosciuto) dibattito del liberalismo del dopoguerra contro le degenerazioni del partitismo. Discepolo di Mosca e Pareto, appartenente a quella destra liberal-nazionale con connotazioni antifasciste cui pure erano legati conservatori del livello di Piero Operti e Mario Vinciguerra i quali, per un curioso scherzo del destino, vennero avversati soprattutto dall'antifascismo militante, Gentile attraversò tutte le stagioni politiche del Novecento. Fu All'Avanti! con Mussolini, a l'Unità con Salvemini, al Risorgimento liberale fra il 1945 ed il 1947, collaboratore de La Stampa, del Mondo, del Corriere della sera come editorialista e direttore de La Nazione. Ma fu su sullo Specchio, sul Borghese, su Libera Iniziativa e soprattutto sul Roma di Alberto Giovannini che Gentile formulò le sue critiche più spietate al totalitarismo partitocratico. Scrisse Storia della dottrina del contratto sociale, La concezione etico-giuridica del socialismo, l'Opera di Gaetano Filangieri, L'Essenziale della filosofia del diritto, Il Genio della Grecia, Storia del cristianesimo, Cinquant'anni di socialismo in Italia, e poi i tre volumi nei quali passò ad un vaglio rigorosissimo le distorsioni del sistema politico italiano: Polemica contro il mio tempo (1965), Opinioni sgradevoli (1968), Democrazie mafiose (1969), editi da Giovanni Volpe. L'«oligarchia delle mezze calzette», come scriveva Gentile, trova in questi tre saggi, più volte ristampati, la più limpida rappresentazione del suo pensiero politico, ma anche del suo disgusto nel vivere in un'Italia che sprofondava nel radicalismo politico e nel nichilismo morale. Ancora oggi, a riprova dell'acutezza e della preveggenza dell'analisi, non vi è possibilità di contestazione dell'assunto secondo il quale le nomenklature partitiche hanno proceduto «all'usurpazione degli oligarchi o meglio alla loro istintiva tendenza a frodare la democrazia e a creare dietro la facciata democratica un regime paratotalitario». Contesto, come mette il luce Giordano, nel quale cominciavano a prosperare le «democrazie mafiose» caratterizzate dalle oligarchie clientelari fondate sul «regime della tessera». Gentile nel definire le democrazie del suo tempo ne denunciava il tradimento dell'ideale democratico e l'instaurazione sostanziale di regimi caratterizzati da un lato dalla selezione d'una classe dirigente inadeguata, formata da personale politico non all'altezza, e dall'altro alla perdita del senso dello Stato. Perciò reputava più civile l'intervento diretto del popolo nella scelta della classe dirigente, anzi del «decisore» e quindi per l'introduzione nell'ordinamento della Repubblica presidenziale da opporre alla «partitopatia» e alle oligarchie partitocratiche. Per questo si considerava, come disse in un'intervista a Gianfranco De Turris nel 1969, pubblicata sul Conciliatore, «uno dei pochi reazionari che vi siano oggi», perché riteneva che «il governo dei popoli debba appartenere unicamente a chi dimostri di saper governare». Chi potrebbe contraddirlo?

Marcello Veneziani: «Vi spiego perché la sinistra è una cupola». «La sinistra è una cupola». MV, La Verità 6 settembre 2019. Titolo ed incipit dell’articolo di Marcello Veneziani sulla Verità sono da antologia. «La sinistra è un’associazione di stampo mafioso che detiene stabilmente il potere e lo esercita forzando la sovranità popolare, la realtà della vita e gli interessi della gente. Usa metodi mafiosi per eliminare con la rituale accusa di nazifascismo (o in subordine di corruzione) chiunque si opponga al suo potere. Si costituisce in cupola per decidere la spartizione del potere ed eliminare gli avversari, tutti regolarmente ricondotti a Male Assoluto da sradicare e da affidare alle patrie galere o alla gogna del pubblico disprezzo». Lo scrittore, filosofo ed editorialista va giù duro. La sua lettura di questa pagina deteriore di storia politica che stiamo vivendo si collega a un testo illuminante e dimenticato di Panfilo Gentile intitolato «Democrazie mafiose»: libro che, edito dalle Edizioni Volpe, ebbe poi una diffusione capillare dopo che  Montanelli lo elogiò sul Corriere della Sera.

Veneziani: «Ecco il metodo della sinistra». Il giornalista e polemista Panfilo Gentile circa mezzo secolo fa anticipò con lucidità l’involuzione del sistema democratico e la trasformazione dei partiti in circuiti chiusi e autoreferenziali di stampo mafioso. Se avesse visto quanto sta accadendo oggi – con l’ esproprio del voto fino al disprezzo per la volontà popolare –  si  sarebbe ancora più convinto delle sue analisi. Per Veneziani la sinistra è ua «cupola» perché «si serve delle camorre mediatico-giudiziarie e intellettuali per imporre i suoi codici ideologici per far saltare i verdetti elettorali, per forzare il sentire comune e il senso della realtà, per cancellare e togliere di mezzo chi la pensa in modo differente. E si accorda con altri poteri tecnocratici e finanziari, per garantirsi sostegni e accessi in cambio di servitù e cedimenti: Mafia & Capitale. Metodi incruenti, ma di stampo mafioso -specifica nell’articolo –  e tramite forme paradossali: perché calpesta la democrazia e si definisce democratica, viola le leggi, perfino la Costituzione – sulla tutela della famiglia, sulla difesa dei confini, sul rispetto del popolo sovrano – ma nel nome della legalità e della Costituzione».

«La violenza del lessico della sinistra». Il termine «Cupola» è forte, indubbiamente, ma Veneziani spiega che il lessico politico disinvolto e fuori misura non è un’invenzione sua, tutt’altro. E’ la sinistra che lo usa come una clava. Per cui l’unico metodo per fronteggiare « in modo adeguato la violenza ideologica e propagandistica della sinistra» è rispondere col suo stesso lessico. Del resto, basta leggere come vengono definiti i sovranisti, chi ha a cuore la difesa dei confini, della famiglia, della religione: «È  trattato alla stregua di nipotino di Hitler, di nazista, di razzista. Accuse criminali, ma da parte di chi le rivolge, a vanvera, stabilendo un nesso infame e automatico tra amor patrio e xenofobia, difesa della civiltà e razzismo, amore della famiglia e omofobia», scrive Veneziani sulla Verità. E non dovremmo neanche difenderci di fronte a questi attacchi?, si chiede lo scrittore. E fa l’esempio dell’ «uso mascalzone dell’antifascismo che serve per isolare e interdire il nemico e poi nel nome della democrazia in pericolo per l’incombente minaccia della Bestia Nera, sono consentite le alleanze più ibride, senza limiti…». Sì, per tutto questo è giusto usare l’espressione «la sinistra è ua cupola», Veneziani è convinto: «è giusto alzare il tiro e accusare la sinistra tornata ancora una volta al governo senza passare dalle urne, di essere un’associazione di stampo mafioso, di pensare e agire come una cupola, di calpestare la gente e gli avversari con l’arroganza e la presunzione di essere dalla parte del Giusto da ricordare i più fanatici regimi comunisti… Dal Soviet alla Cupola». Applausi.

La sinistra è una cupola. La sinistra è un’associazione di stampo mafioso che detiene stabilmente il potere e lo esercita forzando la sovranità popolare, la realtà della vita e gli interessi della gente. Usa metodi mafiosi per eliminare con la rituale accusa di nazifascismo (o in subordine di corruzione) chiunque si opponga al suo potere. Si costituisce in cupola per decidere la spartizione del potere ed eliminare gli avversari, tutti regolarmente ricondotti a Male Assoluto da sradicare e da affidare alle patrie galere o alla gogna del pubblico disprezzo. Si serve delle camorre mediatico-giudiziarie e intellettuali per imporre i suoi codici ideologici per far saltare i verdetti elettorali, per forzare il sentire comune e il senso della realtà, per cancellare e togliere di mezzo chi la pensa in modo differente. E si accorda con altri poteri tecnocratici e finanziari, per garantirsi sostegni e accessi in cambio di servitù e cedimenti: Mafia & Capitale. Metodi incruenti, ma di stampo mafioso, e tramite forme paradossali: perché calpesta la democrazia e si definisce democratica, viola le leggi, perfino la Costituzione – sulla tutela della famiglia, sulla difesa dei confini, sul rispetto del popolo sovrano – ma nel nome della legalità e della Costituzione.

Su Panorama di questa settimana ho ricordato che giusto mezzo secolo fa un grande polemista e scrittore come Panfilo Gentile pubblicava un libro che ha descritto la parabola della democrazia italiana dalla partitocrazia alla mafia politica. S’intitolava Democrazie mafiose. Il notabilato del nostro tempo, di stampo mafioso, ha un chiaro imprinting radical-progressista, più una spruzzatina liberal, tecno-europea. Prima di lui Antonio Gramsci notava che quando una classe politica perde il consenso non è più dirigente ma dominante. E aggiungeva che era in atto “una rottura così grave tra masse popolari e ideologie dominanti”. Parlava del suo tempo, ma descriveva il nostro; gli attori di oggi sono mutati perché le ideologie dominanti oggi sono quelle eurosinistresi che hanno ripreso il potere in Italia pur essendo sconfitti dal voto, servendosi del camaleontismo dei grillini, che come alcune specie animali mutano pelle per salvarla. Spettacolare è stata la circonvenzione d’incapace intentata dai grillini per dare l’impressione di un’investitura della base al governo con la sinistra, una legittimazione di democrazia diretta, col surreale referendum della piattaforma Rousseau. A me ha ricordato un settembre di 220 anni fa, quando i giacobini nel 1799 intimarono all’arcivescovo di Napoli di fingere che San Gennaro avesse fatto il miracolo, il sangue si era sciolto, e dunque era favorevole alla Repubblica Napoletana, nata all’ombra dello Straniero, l’esercito francese repubblicano. Loro, i giacobini franco-napolitani, i nemici atei e “illuminati” della devozione superstiziosa, la usarono nel modo più cinico, più becero e blasfemo per ingannare la gente. Era la piattaforma San Gennaro…Voi direte, dai, ma associazione di stampo mafioso è un po’ eccessivo. Ma si tratta di fronteggiare in modo adeguato la violenza ideologica e propagandistica della sinistra e rispondere sul loro stesso terreno, col loro stesso lessico. Da una parte sapete che abuso disinvolto di etichette mafiose è stato fatto verso chiunque si opponga alla sinistra e ai loro compagni; ogni associazione anche semplicemente di truffatori o di arrivisti è diventata poi associazione di stampo mafioso; per chi non era proprio dentro alla cosca, s’inventò la formula curiosa di “concorso esterno” all’associazione mafiosa. Dall’altra parte pensiamo a cosa viene detto e scritto in modo martellante contro chi difende la sovranità nazionale e i suoi confini, la civiltà cristiana, la famiglia naturale: è trattato alla stregua di nipotino di Hitler, di nazista, di razzista. Accuse criminali, ma da parte di chi le rivolge, a vanvera, stabilendo un nesso infame e automatico tra amor patrio e xenofobia, difesa della civiltà e razzismo, amore della famiglia e omofobia. Ma perché chi ritiene prioritari quei principi, chi ha una visione diversa del mondo, per giunta in sintonia con la tradizione, col sentire comune e con la grande cultura che è alle nostre radici, e magari preferisce sul piano politico chi, seppure in modo grossolano, li difende o dice di farlo, dev’essere trattato in quel modo infame, silenziato e oltraggiato e non deve potersi difendere? Se dovessi compilare la lista delle infamie dovrei raccontare tanti episodi di intolleranza, di aggressione verbale, di disprezzo, di censura; ma non amo il vittimismo. C’è un uso mascalzone dell’antifascismo che serve per isolare e interdire il nemico e poi nel nome della democrazia in pericolo per l’incombente minaccia della Bestia Nera, sono consentite le alleanze più ibride, senza limiti, da Grillo a Berlusconi, i patti più loschi e persino i golpe bianchi più indecenti. Per questo è giusto alzare il tiro e accusare la sinistra tornata ancora una volta al governo senza passare dalle urne, di essere un’associazione di stampo mafioso, di pensare e agire come una cupola, di calpestare la gente e gli avversari con l’arroganza e la presunzione di essere dalla parte del Giusto da ricordare i più fanatici regimi comunisti. A proposito. Il comunismo promise libertà e uguaglianza ma una volta al potere fu il sistema totalitario più sanguinario e repressivo che la storia abbia conosciuto; ora, mutati i tempi, si vende come garante della libertà, della legge e della democrazia ma si ripresenta come associazione di potere di stampo mafioso. Dal Soviet alla Cupola. MV, La Verità 6 settembre 2019

Democrazia tradita. Democrazie mafiose. MV, Panorama n. 40 (2019). Mezzo secolo fa Panfilo Gentile pubblicò un affilato pamphlet sull’involuzione oligarchica delle democrazie e sulla trasformazione dei partiti in circuiti chiusi e autoreferenziali di stampo mafioso. Lo pubblicò nel 1969 l’editore Volpe, ma il libro uscì dalla ristretta cerchia dei lettori di destra perché Indro Montanelli lo elogiò sul Corriere della sera. Ci aveva visto giusto, Gentile, sull’involuzione mafiosa e partitocratica delle democrazie; ma non aveva ancora visto l’Italia, e l’Europa, dei nostri anni, la spaccatura verticale tra popolo e notabilato, tra sovranità nazionali e potentati interni e internazionali, l’esproprio del voto fino al disprezzo per la volontà popolare e gli interessi nazionali. È la quarta volta consecutiva che la sinistra in Italia si affaccia al governo non legittimata direttamente dalle urne. Letta, Renzi, Gentiloni, e ora si profila il quarto governo, non solo non scaturito dalle urne ma nato con lo scopo evidente di evitarle. Per adeguarsi al tono e al livello delle accuse che lancia la sinistra a chiunque governi senza il suo benestare – dittatura, ritorno al nazismo e al fascismo, leader anti-sinistra trattati tutti come delinquenti comuni – si potrebbe dire che la sinistra è un’associazione politico-culturale di stampo mafioso che elimina gli avversari con sistemi non democratici, mette a tacere i dissidenti con forme di omertà e discriminazione, s’impossessa del potere con metodi non democratici e impone un protettorato antipopolare funzionale ai codici ideologici e politici della cosca. Lasciamo il terreno melmoso delle polemiche e saliamo di un piano. Cosa sta succedendo alle democrazie europee? Le classi dirigenti si sentono assediate a nord dal modello Brexit, a sud dal modello Salvini, a est dal modello Orban e a ovest dal modello Le Pen. Sono i quattro punti cardinali del sovranismo, ma sono anche quattro forze maggioritarie nei loro paesi, tutte criminalizzate. Dietro di loro vengono esorcizzati gli spettri di Trump, di Putin, di Bolsonaro, di Modi, di Abe, e si potrebbe continuare. Forme diverse di primato nazionale e identitario rispetto al modello liberal-radical-dem della sinistra. Per trovare un modello diverso di rifermento si ricorre al modello cinese. Recensioni entusiastiche del Corriere della sera e de la Repubblica hanno accompagnato la traduzione del libro di Daniel A. Bell Il modello Cina, con un sottotitolo indicativo: “Meritocrazia politica e limiti della democrazia” (Luiss, prefazione di Sebastiano Maffettone). Il modello cinese non è una democrazia, ma è un regime liberista, oligarchico e comunista, col doppio primato del mercato e del partito. È un sistema capitalistico ma illiberale, in cui la sovranità popolare è in realtà un feticcio ereditato dai tempi di Mao, che elogiava il popolo ma poi lo rieducava con la forza, instaurando una sanguinaria dittatura. Ora quel tempo è passato, la Cina ha fatto passi da gigante, si espande nel mondo tra tecnica e finanza, dall’Africa all’Occidente; il turbo-comunismo resta catechismo di stato. Il capitalismo assume in Cina il ruolo che aveva la tecnologia per Lenin: la sua formula fu socialismo + elettrificazione, oggi la formula cinese è comunismo + mercato. Bell, canadese che guida una facoltà di scienze politiche e pubblica amministrazione in Cina, non sposa il regime cinese nei suoi tratti più repressivi, corrotti e totalitari o l’autocrazia di Xi Jinping ma lo addita come modello per la formazione di classi politiche competenti, per il controllo del consenso popolare e la nascita di una tecnocrazia vigilata sotto il profilo etico (l’ultimo travestimento dell’ideologia e del politically correct). La Cina diventa per l’Europa e in particolare per l’Italia (che coi grillini ha già sposato la via della Seta) il paese di riferimento per uscire dalla morsa Usa-Russia-India-Brasile più sovranisti nostrani e per limitare la democrazia. Un modello che ruota intorno all’Intellettuale Collettivo che è poi il Partito, la Setta, la Casta; è la Cupola a rilasciare o revocare patenti di legittimazione, a vigilare sulla democrazia e a stabilirne i filtri, i limiti e a deciderne gli assetti. Resta però irrisolto un molesto interlocutore, il popolo sovrano. Come aggirarne la volontà e come impedire – oltre che con le inchieste giudiziarie e le criminalizzazioni mediatiche – l’avvento di leader sovranisti? Il mio suggerimento non del tutto ironico è prendere esempio non dalla lontana Cina ma dalla lontana Roma del quinto secolo avanti Cristo: istituire i Tribuni della Plebe. Ovvero incanalare il consenso popolare, gli umori e legare i capi populisti verso quei ruoli d’alta magistratura. I tribuni della plebe sono difensori civici che rappresentano gli umori popolari, legittimamente nominati e ascoltati; ma poi a governare ci pensano i consoli e i patrizi (ora provvisoriamente consociati a un altro clan prodotto dalla piattaforma Rousseau). È forse la soluzione più equilibrata e meno truffaldina di limitare la democrazia: il popolo non esercita più la sovranità, ma solo il controllo tramite i tribuni. Il potere resta saldamente nelle mani del patriziato, delle oligarchie, delle cupole. Un compromesso, una divisione dei poteri, una regolamentazione “costituzionale” del potere mafioso vigente in Italia e per certi versi in Europa, dove governano leader di minoranza quasi ovunque, dalla Francia alla Germania, alla Spagna. Pensateci, è una soluzione per aggirare la democrazia e frenare i populisti. MV, Panorama n. 40 (2019)

·         1, 2, 3… Politica: a quale repubblica siamo arrivati.

Politica: a quale repubblica siamo arrivati. Ci fu la Prima, poi la Seconda. Forse anche la Terza. Ora siamo in pieno marasma, elettorale. Marcello Veneziani il 25 ottobre 2019 su Panorama. Ma in che repubblica viviamo, in che fase storica, come definirla e spiegarla a forestieri, posteri e a noi stessi? È difficile il compito dello storico del presente perché la velocità dei mutamenti, i rovesciamenti rapidi di campo e di fortuna, la vaghezza ineffabile dei contenuti impedisce di spiegare cosa sta succedendo e dove ci troviamo. Siamo alla terza repubblica, alla quarta, alla quinta? Non spariamo repubbliche all’impazzata a ogni mutamento di quadro, perché altrimenti ci perdiamo. Proviamo ad accendere il navigatore, percorrendo a ritroso i passaggi effettuati; partiamo dal riassunto delle puntate precedenti. In principio fu la prima repubblica, nata sulle ceneri della guerra e del fascismo. La repubblica democratica e antifascista ebbe tre difetti d’origine: si fondava sulla finzione d’estraneità al fascismo e allo stesso popolo che vi aveva tributato ampio e convinto consenso; sorgeva uno Stato a «sovranità limitata», semi-colonia nell’orbita americana; e non nasceva una repubblica che conteneva i partiti ma, al contrario, la repubblica era dentro il sistema di partiti. Non ci univa la repubblica, si era prima di tutto democristiani, comunisti, socialisti, monarchici o missini.

La prima repubblica durò mezzo secolo, fu statica ma non stabile perché ebbe sempre al governo la Dc e i suoi alleati, senza alternanza, ma i governi duravano mediamente nove mesi. Le opposizioni, comunista e missina, erano sempre fuori dal governo, anche se il Pci dagli anni Settanta in poi governò regioni, entrò nel sottogoverno, ebbe ruoli istituzionali, egemonizzò la magistratura, la cultura e il sindacato. Quella repubblica resistette al terrorismo ma crollò tra il ’92 e il ’94 per una serie di fattori: sì, era venuto meno il fattore K e la divisione del mondo in due blocchi. Ma in Italia ci furono quattro cavalieri dell’apocalisse: Cossiga picconò la Prima repubblica dal Quirinale, Segni minò l’assetto coi suoi referendum, Di Pietro e i giudici del Pool di Mani pulite processarono mezzo potere e delegittimarono i partiti; infine Berlusconi scese in campo, mise in gioco gli esclusi, leghisti e missini, sbaragliò le sinistre, recuperò mezzo centrosinistra nel suo partito personale. Nacque così la seconda repubblica. A chi nega che sia mai nata la seconda repubblica ricordo tre cose: sparirono i leader e i partiti storici della prima repubblica, andarono al governo ex-comunisti e post-fascisti, sorse un sistema politico semi-maggioritario e cripto-presidenzialista fondato sull’alternanza; anzi, fu così praticata l’alternanza che da 25 anni chi è al governo perde sempre le elezioni.

La seconda repubblica fu identificata con la monarchia berlusconiana che in realtà governò per un decennio; finì col mezzo golpe che destituì Berlusconi e il suo legittimo governo voluto dalle urne. E l’Italia entrò in un tunnel guidato dai tecnici e dall’Europa. Dopo un biennio venne una nuova stagione politica ed ebbe la faccia di Renzi. Era un Berlusconi di segno inverso, in versione centrosinistra, ma ugualmente napoleonico, egocentrico, animatore, più accentratore del predecessore. Anche lui sembrò inaugurare un nuovo ciclo, ma dopo appena tre anni cadde in disgrazia, fu detestato da tutti, a partire da sinistra. E trascinò il Pd nel crollo. L’antipolitica che Berlusconi e Di Pietro avevano cavalcato, e che Renzi aveva in parte vellicato rottamando i vecchi arnesi politici, si affidò al Movimento 5 stelle. Che crebbe enormemente fino a diventare partito di maggioranza relativa. Ma per governare si alleò con un contratto a sorpresa con la Lega, che cresceva collocandosi a destra e liberandosi del secessionismo, approfittando anche del declino di Berlusconi e del vuoto lasciato a destra da un leader incapace come Fini. Nel giro di pochi mesi di governo, Salvini capovolse il rapporto di forze coi grillini, la Lega diventò partito di maggioranza in pectore e alle elezioni europee. La coabitazione, tormentata, saltò per due ragioni opposte: la Lega voleva portare all’incasso il suo consenso maggioritario e i grillini per arginare il loro calo avevano già fatto il loro voltafaccia, allineandosi in Europa all’establishment, votando con Pd e Forza Italia per Ursula von der Leyen. Poi a sorpresa, la crisi e l’immediata sostituzione di Salvini, elevato a Male Assoluto, col Pd, previo voltafaccia di Renzi. Per la quarta volta il Pd bocciato dalle urne tornava al potere con lo stesso premier di prima, ma capovolto come una clessidra e un double face.

Qui torna la domanda: ma ora dove ci troviamo? Dire terza repubblica sarebbe come dire che il renzismo, il grillismo e il sovranismo siano tre fratelli di una stessa repubblica. Né potremmo chiamare ciascuna di queste fasi come terza, quarta e quinta repubblica perché non possiamo a ogni ribaltone e a ogni legge elettorale battezzare una nuova repubblica. Non siamo più una repubblica parlamentare, non siamo certo in una repubblica presidenziale, siamo in una mezza democrazia diretta, a mezzadria tra sinistra d’apparato e residuo populismo, in cui il voto nelle urne conta poco e si profila la guerra sul proporzionale. Siamo in una fase sismica, con sciami di scosse in corso e leadership ora sussultorie (Renzi o Salvini), ora ondulatorie (Conte, il Pd e i grillini). Il potere è da una parte e il consenso dall’altra. Per dare un nome alla fase in corso, è necessario arrivare a uno show-down politico-elettorale. Bolle in pentola lo spezzatino della terza repubblica. Non ha nome né forma, chiamiamolo marasma.  

Antonello Caporale per il “Fatto quotidiano” il 31 ottobre 2019. Nostalgia canaglia. Franco Fiorito, il Batman di Anagni, portò la politica nell' amatriciana, nel senso proprio del termine: la sporcò di sugo e di pezzetti di guanciale. Più spaghetti, più condimento, più accordi al pecorino romano. E così lasciò al fortunato oste, Pasqualino al Colosseo, 19.501 euro per via delle numerose performance gastronomiche destinate a risolvere i conflitti e dare al Lazio un equilibrio di governo. Lo stress, l' ansia da prestazione, anche i contrasti, condussero Fiorito a far ricorso all' Angolo del vino, dove si mangiava a meraviglia. Ventunomila euro e giustamente mise in conto alle finanze pubbliche. Ora ricordiamo a fatica Fiorito, gonfio come un pallone, consigliere regionale in forza al centrodestra, un macina voti, un intavolato cronico dalle note spese facili, condannato (due anni e undici mesi) e scomparso dalla scena. Il magna magna, segnapasso dialettale romanesco col quale si accusa e un po' s' invidia il potere che se ne fotte (e magna) e spende in conto terzi, è una pratica che negli anni si è un pochetto alleggerita. Si spende di meno, con qualche cautela in più. Comunque se magna. Mondo è stato e mondo è, e lo stomaco della Repubblica, che è anche il titolo di un libro eccellente di Filippo Ceccarelli, ha sempre avuto un riguardo speciale. Secolo scorso. Il centrosinistra nasce da Geppetto al pescatore. È il 1960 e l' accordo si trova anche grazie alle vongole veraci, al branzino in guazzetto, al risotto che Fanfani, Saragat e La Malfa ordinano mentre preparano la svolta. Saltando gli anni e pure il secolo, la manovra economica dei Cinque Stelle, quando erano compagni di gioco dei leghisti, quella di Quota 100 e Reddito di cittadinanza per intenderci, fu siglata davanti a un filetto di vitella con broccoletti ripassati. Di Maio è fissato con la carne, e la cerca sempre. Conte e Salvini, all' epoca amicissimi, invece si tuffarono su una grigliata di calamari. Mangiarono da Sabatino, ristorante del centro né caro né modico. Avranno pagato con la loro carta di credito, si spera. Comunque l' atmosfera di ieri non è quella che viviamo adesso. Tutta un' altra storia, e un altro fatturato. Quando più ritroveremo un conto da 26.582 euro che Pierluigi Daccò, il faccendiere milanese che aveva in carico Roberto Formigoni, l' ex governatore della Lombardia dal lifestyle ricercatissimo, dovette sganciare al Sadler, il restaurant super chic milanese, per le puntatine a tavola in cui spesso (troppo spesso secondo i giudici) anche Roberto il Celeste si trovò. Attovagliati di tutto il mondo, unitevi! Non per dire, ma Bettino Craxi era habitué dei Due Ladroni, forchetta romana di piazza Nicosia. Il suo sodale Gianni De Michelis lasciò un conto al Plaza da pagare di 490 milioni di lire per i soggiorni suoi e di amici. Di questi, 90 di extra. Il pentapartito a quei tempi andava da Fortunato. Mezza Dc e mezzo Psi erano lì sempre. Romano Prodi da premier ci portò Helmut Kohl, il cancelliere tedesco dalla taglia extralarge. Il cerimoniale di Palazzo Chigi raccomandò una sedia robusta e porzioni generose. Ma non bastò. Kohl chiese il bis di ogni piatto e così il pranzo dio lavoro divenne cerimonia nuziale. Bei tempi, altro che adesso! Ricordate Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita che imboscò venti milioni di euro? Magnava eccome. Per esempio alla Rosetta al Pantheon. Spaghetti al caviale da 180 euro, paga il partito. Questi di oggi sono più frugali. I renziani, in piazza di Pietra, vanno da Spiriti o Salotto 24. Matteo, il loro capo, gode se mangia da Baccano, vicino Fontana di Trevi. Salvini più da Gusto, a piazza Augusto Imperatore. I Cinque Stelle all' Osteria del Sostegno, che nel nome un po' inquieta. Silvio Berlusconi invece a tavola è stato sempre rigoroso, dietetico, misurato: le famose penne tricolori, la spigola all' acqua pazza, il gelato al limone. Questo chiedeva al suo cuoco Michele. Con Silvio, Forza Italia dimenticò l' aglio che al padre padrone non piaceva, ogni frittura fu bandita e gli eccessi deviati verso altri piaceri. Sappiamo che Fratelli d' Italia ha un deputato oste, Paolo Tracassini. Suo La Campana, in piazza Nicosia. Sappiamo che Denis Verdini ha il figlio Tommaso gestore di Pastation in piazza di Campo Marzio. Piace mangiare e bere. Ma, diciamoci la verità, a chi piace pagare?

Ferruccio Sansa per "il Fatto Quotidiano” l'1 novembre 2019. "La scelta di incontrarsi al ristorante per svolgere colloqui politici è certamente legittima e conforme a prassi consolidata, ma non per questo la consumazione del pranzo si trasforma in un' attività politica i cui costi debbano essere sopportati dalla collettività". È la frase chiave della motivazione con cui i magistrati genovesi spiegano la condanna (primo grado) a 3 anni e 5 mesi per peculato e falso ideologico del deputato Edoardo Rixi (che a maggio, dopo il verdetto, si dimise da viceministro) e del senatore Francesco Bruzzone. Entrambi leghisti, ai tempi dei fatti consiglieri regionali in Liguria. È il processo per le spese pazze della Regione. Sono 357 pagine di motivazioni dense di cifre, considerazioni giuridiche. Ma è quel passaggio folgorante che lascerà il segno perché dipinge e stigmatizza un comportamento dei politici nostrani: il pranzo. Insomma, secondo i magistrati, la politica forse si fa anche intorno a un piatto, ma il conto non lo paga il contribuente. I giudici specificano la loro analisi: "Se è vero che dal 2011 i gruppi potevano farsi carico di spese comunque connesse all' attività dei consiglieri, è anche vero che le spese possono considerarsi connesse solo se collegate a un evento pubblico". Aggiungono i magistrati: "Perché le spese fossero legittimamente rimborsabili, però, non bastava che fossero riconducibili a una delle voci indicate era necessario anche che quella spesa fosse affrontata "per il funzionamento del gruppo consiliare" o "per le iniziative politiche da esso adottate" o "per le attività del gruppo" collegate "ai lavori del consiglio"". Per quanto riguarda spese istituzionali e doni, poi, occorrerebbe dimostrare chi è il destinatario e la finalità istituzionale della spesa: "Rixi aveva funzioni rappresentative del gruppo del quale era presidente. Poteva dunque sostenere spese di rappresentanza e nella maggior parte dei casi ha provato in giudizio di aver donato i beni il cui acquisto gli è contestato a soggetti con i quali il gruppo si rapportava per motivi politico istituzionali". Ma in altri casi, discorso che vale per diversi imputati, "la difesa non ha fornito neppure un principio di prova circa l' identità delle persone per le quali l' acquisto fu eseguito e le ragioni che lo determinarono. Pertanto nulla consente di ritenere che si sia trattato di spese destinate al fine istituzionale". A maggio i consiglieri condannati erano stati 19. Le inchieste della Procura di Genova in questi anni hanno toccato esponenti di quasi tutti i partiti presenti in consiglio tra il 2010 e il 2015 (una legislatura di centrosinistra). L' accusa per Rixi parlava di rimborsi per 56.807 euro, in gran parte riferibili al gruppo. Le spese attribuibili direttamente a Rixi erano soprattutto rimborsi chilometrici. I pm avevano poi contestato all' ex viceministro un altro episodio relativo a un rimborso di 80 euro per un soggiorno in B&B: "Si riferisce a un viaggio a Pontida avvenuto il 20 giugno 2010 per una 'manifestazione politica'. Secondo l' ipotesi accusatoria, questa richiesta si riferiva all' intero prezzo della camera anche se in quella camera avevano pernottato due persone Rixi ha chiarito che fu accompagnato da una "dirigente della Lega" e che della compilazione della richiesta di rimborso si occupò la sua segretaria". Insomma, i pm contestavano a Rixi di aver fatto pagare alla Regione anche la parte di prezzo relativa all' altra ospite della stanza. L' episodio comunque è prescritto. Il grosso invece riguardava spese sostenute da colleghi di partito e rimborsi indistinti dalla Lega di cui Rixi era capogruppo. Per l' accusa quindi gli spettava una responsabilità di vigilanza in quanto avrebbe validato i rendiconto. La difesa invece ha sempre respinto questa "responsabilità oggettiva". Gli scontrini contestati erano centinaia, a cominciare da quelli - decine e decine - di un ristorante dell' entroterra ligure dove un consigliere leghista, Maurizio Torterolo, usava intrattenersi. Ma c'erano altre spese, come quelle per i rifugi sulle Dolomiti nei giorni di Ferragosto. "Non sono viaggi dei consiglieri, ma di nostri collaboratori, andati per studiare l' ordinamento a statuto speciale del Friuli", aveva sostenuto la difesa. L' elenco degli scontrini comprendeva acquisti in negozi di cioccolata e di fiori, viaggi a Pontida nei giorni del raduno leghista. Rixi ha sempre respinto le accuse: nessun falso, i capigruppo non avevano i mezzi per vigilare sulle richieste dei consiglieri. Di più: l' allora capogruppo ha sostenuto di aver chiesto ai colleghi di motivare le spese. I magistrati, però, non concordano: "Se Rixi non si accorse di nulla non fu perché esercitò un controllo negligente, ma perché omise di esercitare ogni controllo e, così facendo, accettò il rischio che la rendicontazione fosse carente e persino fondata su documenti alterati".

Quando Berlinguer  mi disse che preferiva  la Nato a Varsavia. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it da Giampaolo Pansa. L’intervista al «Corriere» e il commento in retrospettiva di Giampaolo Pansa: «In quel momento non realizzai la portata di quelle parole». A sbarrare il passo ai quotidiani italiani c’era un cerbero che nessuno poteva tagliare fuori. Parlo di Antonio Tatò, detto Tonino, il capo dell’ufficio stampa del partito e segretario di Berlinguer. Nato a Roma nel 1921, Tatò era uno dei fondatori del Movimento Cattolici comunisti. Un comunista al mille per mille che aveva adottato re Enrico. Era un signore robusto, ma asciutto, dal profilo a metà tra il barbiere di lusso e il centurione romano. Capelli neri e coperti di brillantina e le sigarette sempre a portata di mano. Alberto Ronchey, giornalista sempre informato e spiritoso, lo aveva battezzato Suor Pasqualina. Come la monaca che si era occupata di Pio XII. Tatò si comportava da guardiano di tutta sicurezza e sbarrava il passo a chi cercava di avvicinare il compagno segretario. Chi voleva intervistare Enrico doveva portare a Tonino un elenco preciso delle domande da rivolgere al leader. Se lui non le gradiva, addio intervista! Nel 1976 avevo fatto per conto del Corriere una lunga inchiesta sul Pci, poi ripubblicata da Mondadori nel 1982 in un mio libro intitolato «Ottobre addio, viaggio tra i comunisti italiani». A conclusione di quell’inchiesta, domandai a Tatò di intervistare Berlinguer. Lui mi replicò: «Portami le domande che intendi rivolgere al segretario e ti farò sapere». Gliele portai e Tonino non le gradì del tutto, ma non mi fece cambiare programma. E così il venerdì 11 giugno di quello stesso 1976 venni ammesso nel santuario di Re Enrico.

La prima cosa che notai fu l’aspetto del segretario. A 54 anni sembrava un ragazzino appena un po’ invecchiato. Imperturbabile, parlava a voce bassa. Fumava una Turmac dopo l’altra. E si teneva su bevendo whisky con poca acqua aggiunta. Mi accolse con una cortesia tra il timido e il freddo e, tra una risposta e l’altra, mi regalò una pepita d’oro. Sotto l’occhio vigile di Tatò che mostrava di non gradire tante delle domande che facevo, Berlinguer affermò che si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della Nato che sotto il Patto di Varsavia. Spiegò: «Io sento che, non appartenendo l’Italia al patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi. Tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del patto Atlantico, patto che noi non mettiamo in discussione, il diritto dell’Italia di decidere in modo autonomo del proprio destino». Dopo tanti anni, confesso che lì per lì non mi resi conto della portata politica delle parole sulla Nato e il Patto di Varsavia. Chiesi a Berlinguer: «Lei mi sta dicendo che il socialismo nella libertà sarebbe più realizzabile nel sistema occidentale che in quello orientale?». Re Enrico rispose: «Si, certo. Il sistema occidentale offre meno vincoli. Però, stia attento. Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà. Riconosco che da parte nostra c’è un certo azzardo a perseguire una via che non piace né di qua né di là...».

Temevo che, nel rivedere l’intervista, Berlinguer o Tatò ne avrebbero smorzato la portata. Invece al testo fu aggiunto soltanto un aggettivo che non rammento e stampato in corsivo. La sua non era soltanto lealtà verso l’intervistatore. Il segretario del Pci aveva deciso da tempo di pronunciare quel giudizio e ne aveva valutato sino in fondo tutto l’azzardo, tutta la dirompente carica di novità. Così, quando tentai di impedire a Berlinguer una correzione non ricordo più su quale risposta, lui mi zittì sorridendo: «Non protesti, lei ha già avuto parecchio di più di tutti i giornalisti che sono venuti a trovarmi in questi giorni. E quello che ha avuto è molto!». L’intervista uscì sul Corriere il 15 giugno 1976 e fece un gran rumore sia in Italia che in Europa. E ha continuato a farne ancora tanti anni dopo. Fino a quando, il 24 maggio 2000, a 24 anni dalla mia intervista, citando uno studio di uno storico sulla base di non meglio chiariti documenti conservati presso l’Istituto Gramsci, l’Unità non uscì con un articolo che affermava che l’Urss era al corrente dello strappo di Berlinguer. Intervistato in proposito nel mio ufficio di condirettore di Claudio Rinaldi all’Espresso, contestai allora, e la penso ancora così, che Berlinguer fosse il ventriloquo di Mosca. Metterei ancora adesso le mani sul fuoco per sostenere che le parole consegnate al sottoscritto erano del tutto impreviste e imprevedibili. A confermarlo ci fu la reazione contraria di una parte del partito. Per primo Armando Cossutta che sbottò: «Questa cosa a Enrico gliela farò pagare». Durante tutte le tre ore del nostro colloquio, Berlinguer era rimasto teso come una corda di violino. Prima di iniziare invece mi aveva accolto come un parente che incontra un lontano cugino. Mi aveva chiesto di mio padre, di mia madre, dei loro sacrifici per farmi studiare e, infine, della mia laurea all’università di Torino con una tesi dedicata alla guerra partigiana tra Genova e il Po. Mi aveva ascoltato con un’affettuosa attenzione e alla fine disse: «L’Italia ha bisogno di giovani come lei. Non perda entusiasmo per la cultura, continui a studiare e alla fine avrà reso un servizio al suo Paese, la nostra povera Italia».

·         L'Astensionismo al voto.

L'Astensionismo al voto ed i fessi e gli indefessi della sinistra: La Democrazia è cosa mia...

Maledetta ideologia comunista. Con tutti i problemi che attanagliano l'Italia, i sinistri, ben sapendo che nessun italiano più li voterà, pensano bene di farci invadere per raggranellare dai clandestini i voti che, aggiunti a quelle delle altre minoranze LGBTI,  gli permettono di mantenere il potere.

I berlusconiani e la cosiddetta Destra, poi, per ammaliare l'altra sponda elettorale, scimmiottano rimedi che nulla cambiano in questa Italia che è tutta da cambiare. Da vent'anni denuncio quelle anomalie del sistema, che in questi giorni escono fuori con gli scandali riportati dalle notizie stampa. Tutte quelle mafie insite nel sistema.

Si fa presto a dire liberali, dove liberali non ce ne sono. Se ci fossero cambierebbero le cose in modo radicale, partendo dalla Costituzione Catto comunista, fondata sul Lavoro e non sulla Libertà. Libertà, appunto, bandiera dei liberali.

Nei momenti emergenziali in tutti gli altri Paesi v'è un intento comune, anche se solo in apparenza. Politica e media accomunati da un interesse supremo. Invece, in Italia, ci sono sempre i distinguo, usati dall'estero contro noi stessi per danneggiarci sull'export, dando un'immagine distorta e denigratoria. Così come fanno i polentoni italiani rispetto al Sud Italia, disinformazione attuata dai media nordisti e dai giornalisti masochisti e rinnegati meridionali. In una famiglia normale si è sempre solidali nei momenti del bisogno e traspare sempre un'apparente unità. Solo in Italia i Caini hanno la loro rilevanza mediatica, facendoci apparire all'estero come macchiette da deridere ed oltraggiare.

La metà Italia che rinuncia a sé stessa. Alle ultime elezioni europee c’è stato un boom di affluenza che ha invertito una tendenza all’assenteismo. Carlo Fusi il 20 giugno 2019 su Il Dubbio. Partiamo dai dati. Alle ultime elezioni europee c’è stato un boom di affluenza che ha invertito una tendenza all’assenteismo negli ultimi anni sempre più radicata. Spagna, Francia, Germania i casi di maggiore corsa alle urne. L’Italia è andata in controtendenza: 56,09 di votanti; cinque anni fa erano stati il 57,22. Nelle amministrative delle settimane scorse i picchi di assenteismo sono stati alti, in alcuni casi altissimi. Nelle elezioni politiche le cose vanno meglio: il 4 marzo 2018 la percentuale di votanti si è attestata al 72,93% per la Camera e al 72,99% per il Senato, in calo di circa il 2,3% rispetto alle elezioni del 2013. Comunque la più bassa nella storia repubblicana italiana. In sostanza oscilliamo tra un terzo e la metà degli aventi diritto che ad ogni tornata disertano le urne. Decine di milioni di italiani non solo non vota più ma in sostanza volta le spalle, esce dal perimetro di gioco. Non gli interessa partecipare e non gli interessa neppure verificare le decisioni prese da altri che pure hanno effetti e pesano sulle loro vite. E’ una mastodontica massa di persone che si nasconde, si inabissa, non ha né cerca pregnanza. Ma cosa pensa quest’Italia nascosta, per numero e composizione sociale di pari peso a quell’altra che continua ad esprimersi? Cosa vuole, cosa spera, cosa sogna? E’ impossibile che non abbia desideri, che non covi sentimenti, che non viva, lavori e cammini assieme agli altri. Però è fantasmatica, incorporea, sfuggevole. Nessuno pare interessarsene. Partiti e movimenti si accapigliano, si danno battaglia, solcano i social, spargono quintali di propaganda, in molti casi perfino si insultano l’un l’altro. Eppure non riescono a smuovere questa montagna di indifferenza, a spostare il macigno di disillusione e rassegnazione che pervade l’altra metà del cielo italiano. E poi forse non è neanche esatto parlare di scoramento: chi non vota a volte addirittura si sente sollevato, liberato dal peso di dover scegliere tra offerte politiche e amministrative comunque considerate non idonee. Pure questa è l’Italia del sommerso. Che naviga sott’acqua in attesa di chissà che cosa. Scandagliarla sarebbe doveroso. Invece poco o nulla importa. C’è una gigantesca massa di manovra in attesa di qualcuno che la interpreti, le dia rappresentanza, la guidi. Chi ci riesce, avrà vinto la partita per i prossimi decenni.

Se l’astensionismo vince, guadagnano satrapi e populisti. I 15 milioni che non votano. Gennaro Malgieri il 30 giugno 2019 su Il Dubbio. È il primo movimento politico del Paese: un esercito, più o meno “fedele” di quindici milioni di militanti. Sfiora quasi, di media, il 34% del corpo elettorale. È il partito degli astensionisti. Carlo Fusi lo ha evidenziato con comprensibile preoccupazione su queste colonne giovedì 20 giugno scorso. Una massa di persone che «non solo non vota più, ma in sostanza volta le spalle, esce dal perimetro di gioco. Non gli interessa partecipare e non gli interessa neppure verificare le decisioni prese da altri che pure hanno effetti e pesano sulle loro vite», ha scritto il nostro direttore. Una constatazione allarmante. Ma ancor di più lo è l’indifferenza che accompagna l’ormai consolidata tendenza. Sembra davvero che non interessi più nessuno se la gente partecipi o no alle elezioni. Si trascura sostanzialmente il fondamento della stessa democrazia alla quale, a parole, tutti sembrano tenere. Ma nessuno si pone il problema della disaffezione che ha “contagiato” una porzione consistente di cittadini i quali rifiutano di recarsi alle urne per i motivi più vari, e spesso insondabili, ma riconducibili, come i pochi che s’interessano al fenomeno argomentano, alla valutazione negativa della qualità della democrazia.

Se alle politiche dello scorso anno la percentuale di votanti è stata il 72,93% per la Camera e il 72,99% per il Senato, meno del 2,3% rispetto alle elezioni del 2013, significa che il processo di partecipazione democratica ha subito uno scossone significativo che avrebbe dovuto indurre i partiti politici ad una riflessione che hanno accuratamente evitato di fare. Avrebbero dovuto, infatti, ammettere che negli ultimi quarant’anni lo smottamento è stato progressivo. Nel 1979 votò il 90,62% degli aventi diritto, in linea con quanto era avvenuto dal 1948. Già nel 1983 la partecipazione cominciava ad assottigliarsi: 88,01, una percentuale comunque ragguardevole.

Da allora, elezione dopo elezione, il calo è stato progressivo fino a divenire vistoso negli ultimi vent’anni. La diserzione delle urne si avverte maggiormente – almeno di recente – laddove un tempo si registravano veri e propri plebisciti: alle elezioni amministrative. Le tornate di quest’anno sono state drammatiche. Sia alle regionali che alle comunali l’affluenza è stata davvero minima considerando che gli elettori, per quanto disorientati, dovrebbero quantomeno essere attratti dai problemi che li riguardano da vicino e, dunque, regolarsi di conseguenza.

Quindi è la “cosa pubblica” in quanto tale – sia essa politica generale, che particolare, amministrativa e perfino referendaria – a tenerli lontani. Insomma, da un terzo alla metà degli italiani rifiuta strutturalmente il voto. Qualcuno ha azzardato che l’astensione ha cominciato a manifestarsi in dosi considerevoli in Italia quando, sul finire degli anni Settanta si è manifestata una sensibilità inedita intorno al fenomeno della corruzione politica. La “questione morale” venne messa in luce, fino ad assumere un carattere identificativo del partito che la propose, nel 1981 quando Enrico Berlinguer, ad essa si riferì in una intervista a Eugenio Scalfari ( La Repubblica,28 luglio) destinata a fare epoca. Ma anche da altre sponde politiche la corruzione dei partiti venne denunciata – ricordiamo le battaglie antipartitocratiche di Giorgio Almirante e le denunce morali di Ugo La Malfa – ed assunse una valore discriminante tra chi immaginava un’applicazione severa dell’articolo 49 della Costituzione e chi si cullava nella pratica clientelare fonte di ingiustizie e risentimenti. Non a caso l’inizio della frana dell’astensionismo coincide con queste pubbliche prese di posizione diventate argomenti politici decisivi, fino a Tangentopoli. Ma se questa è una giustificazione evidente all’apparenza, c’è dell’altro, più nel profondo, che muove alla sconfessione della democrazia attraverso il rifiuto del voto.

Numerosi politologi convergono nell’identificare tra le cause del fenomeno quella che forse è la più importante: il progressivo deterioramento dei partiti politici e dunque la povertà dell’offerta da parte degli stessi i quali, slegati da elementi emozionali, passionali, ideologici e perfino da interessi categoriali hanno provocato nelle classi politiche, sempre meno frutto dei processi decisionali della base in ossequio ad un leaderismo populista che è il cancro delle democrazie, un atteggiamento incline alla disintermediazione, nel senso del rifiuto del riconoscimento dei corpi intermedi con i quali confrontarsi per elaborare linee programmatiche politiche, tanto di governo che amministrative, in un contesto di coinvolgimento della “base” o, come si suol dire, delle forze sociali.

I cittadini, non avendo più sul territorio, né riferimenti partitici immediati ( le vecchie sezioni, i lunghi dibattiti, la “sana” burocrazia politica attraverso la quale si decidevano cariche e carriere dal livello più basso), né sociali ( i sindacati, in primo luogo e poi l’associazionismo collaterale alle forze politiche), si sono sentiti come “traditi” o, ancor meglio, “disorientati”. Per non parlare delle giovani generazioni – i millennials in particolare – che hanno provveduto con la supplenza dei social network a superare il problema della “disintermediazione” riconoscendo in un post lo strumento più efficace per intervenire “socialmente” mettendo da parte le anticaglie partitiche.

C’è stato poi chi ha dato la spinta finale alla de-ideologizzazione propagandando l’abolizione di fatto delle categorie di destra e di sinistra allo scopo di compiere incursioni in campi abbandonati o devastati dalle conseguenze dell’ideologismo dei diritti civili – surrogato dei programmi e delle visioni politiche globali – al puro scopo di appropriarsi di praterie elettorali avulse da qualsiasi riferimento culturale o di appartenenza. Perciò al voto consapevole è subentrata la labile e volatile “protesta” per cui in una democrazia fragile può accaderne che nel torno di una legislatura muti completamente il quadro d’assieme e si trovino al governo del Paese forze che più incompatibili non le si potrebbe immaginare, unite – si fa per dire – soltanto dal mastice del potere che, nel caso specifico italiano, è la demolizione dell’Europa con le conseguenze che lucidamente Claudio Petruccioli ha analizzato sul “Dubbio” di ieri, culminanti in una guerra dalle proporzioni drammatiche; una guerra non convenzionale, naturalmente, ma comunicativa, finanziaria, tecnologica, coloniale dal punto di vista culturale tesa a spartirsi la ricchezza e l’identità della Vecchia Europa.

Ma chi, tra le forze politiche maggiormente colpite dall’astensionismo, mette in discussione ciò che si profila, vale a dire il vassallaggio europeo ( che prevediamo secolare) verso i “grandi spazi” che si stanno costruendo per l’ultima aggressione a ciò che rimane del nostro mondo che avrebbe una sola possibilità di resistere, come “Terra di nazioni”: reinventarsi una sovranità continentale prossima ad una confederazione coesa piuttosto che sfibrarsi ancora nelle guerricciole tra borgognoni ed armagnacchi?

A dire la verità, il problema non è solo italiano. È vero che nell’ultima tornata europea il voto è aumentato dell’ 8,34% rispetto al 2014, raggiungendo una media del 50,95%, media tutt’altro che esaltante: si è recato alle urne la metà del corpo elettorale dell’Unione. Ma è altrettanto vero che pochi Paesi hanno avvertito il senso di una consultazione dai caratteri quasi “epocali”: il Belgio con l’ 89%, mentre in controtendenza la Slovacchia ha fatto registrare l’affluenza più bassa con il 23%, mentre l’Italia non ha brillato e si è piazzata tra le prime dieci, al nono posto con il 56, 10% ( in calo di oltre due punti rispetto al 58,69 di cinque anni fa), preceduta da Grecia ( 58%), Germania ( 62%), Spagna ( 64%). La Francia ha deluso a conferma della confusione politica che sembra essersi “stabilizzata”: ha votato solo il 51%. Le cifre parlano chiaro: le elezioni europee, quasi ovunque, hanno sempre registrato una minore affluenza rispetto alle politiche, forse in ragione di una scarsa consapevolezza del peso del Parlamento europeo ( che oggettivamente conta assai poco, tolte le competenze sull’elezione del presidente della Commissione europea e della Commissione stessa, proposte peraltro dal Consiglio europeo) e di una generica percezione di distanza tra la quotidianità e le istituzioni dell’Unione. Forse una riforma dovrebbe partire da qui, dalla rappresentanza. Ma chi se ne cura? L’Eurobarometro ha rilevato che solo il 48% per cento dei cittadini europei crede che le proprie ragioni contino nell’Ue ( ma esistono enormi differenze tra un paese e l’altro, per esempio in Svezia il 90 per cento dei cittadini crede che la propria voce conti, a fronte del 24 per cento degli italiani e del 16 per cento dei greci). E questo è un punto dolente sul quale bisognerebbe intervenire. Ma temiamo che i buoi siano già scappati dai recinti… Insomma, fino a quando le elezioni europee saranno la somma di elezioni nazionali, e non un evento politico transnazionale, del quale veri e propri partiti europei saranno i protagonisti, dovremmo adattarci a piccole cifre che racconteranno di una minoranza che, nella migliore delle ipotesi – al netto di schede bianche o nulle – mostrerà una tendenza, ma non racconterà l’effettivo orientamento politico europeo.

L’astensionismo è variamente motivato, come si vede. E, dunque, discutere intorno “partito del non voto” ha poco senso, dalla disaffezione pura e semplice ai bassi livelli di istruzione, all’ostilità per le classi politiche ondivaghe e prive di un orientamento che possa favorire un voto di appartenenza. Tanto in Italia, quanto in Europa, rendere obbligatorio il voto per superare l’astensionismo, come qualcuno ha proposto, non risolverebbe il problema. È molto più complicato. Anzi, la coercizione, magari con corredo di sanzioni per chi non vota, acuirebbe la sfiducia. L’irreggimentazione non farebbe altro che aggravare la questione. La trasgressione verrebbe vista come un atto di ribellione civile e dunque si rivelerebbe controproducente rispetto ai fini perseguiti. Crediamo che tutto dipenda dalla trasformazione in senso partecipativo della democrazia. I partiti politici dovrebbero assolvere al loro compito di cinghia di trasmissione delle pulsioni nascenti nelle società in fattori politici, elementi di rappresentatività e di governabilità a tutti i livelli e soprattutto riattivare e modernizzare le culture politiche di riferimento facendo lavorare il cervello più dei muscoli e la conoscenza più di Twitter. Non ci si può evidentemente esimere da quella che chiamiamo “democrazia elettronica” o “digitale”. Ma i processi che la tecnologia innesca devono essere controllati. Insomma, il web non è il passaporto per l’anti- democrazia coniato dalle oligarchie, ma il mezzo per supportare il sapere e, dunque, le decisioni. Ogni società politica è fondata sulla decisione. La differenze si riscontrano nelle modalità in cui queste vengono assunte. Ed è su questo piano che si gioca la grande partita della spoliticizzazione, analizzata nel secolo scorso e dunque prevista da Carl Schmitt, propedeutica alla disaffezione o, qualora l’avviso fosse diverso, alla ripresa della centralità della politica, del suo primato sull’economia e sulla tecnica, che potrebbe far mutare l’orizzonte di molti elettori disorientati. Su questo sarebbe auspicabile una riflessione da parte delle forze politiche, ma grande è la confusione sotto il cielo e, a differenza di quanto immaginava Mao Zedong, il futuro è incerto, anzi per nulla confortante.

IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE. Di Antonio Giangrande.

50% circa di astensione al voto; 5% circa di schede bianche o nulle; 25% di voti di protesta e non di proposta ai 5Stelle. Solo il 20% di voti validi (forse voti di scambio). Chi governa ha solo un elettore su 10 che lo ha scelto e si vanta pure di aver vinto. Che democrazia è?

Elezioni 2015. Il partito invisibile, scrive Alberto Puliafito, direttore responsabile di “Blogo.it” e Carlo Gubitosa su “Polis Blog”. Un viaggio nel mondo di tutti coloro che non vengono raccontati dalla comunicazione politica, che non vengono rappresentati, che non votano. Dopo il voto regionale, la comunicazione politica si è concentrata, come al solito, su “chi vince”. E hanno vinto tutti, chi per un motivo chi per l’altro. Noi, per un primo commento, ci siamo concentrati su chi ha perso. E fra i motivi della sconfitta annoveravamo l’impressionante tasso di astensionismo. I dati che proponiamo qui, grazie al lavoro di Carlo Gubitosa, dovrebbero, secondo chi scrive, essere pubblicati ovunque. Il giornalismo dovrebbe, una volta per tutte, dedicare i propri titoli alle rappresentazioni numeriche realistiche della situazione della rappresentanza politica in Italia, invece di rincorrere le dichiarazioni di Renzi, Grillo, Salvini o altri. Guardare quelle fette grigie di non rappresentati fa rabbrividire ma è necessario per impostare una narrazione giornalistica corretta. Questo è vero data journalism. Per i partiti contano i propri voti, per la politica contano solo i voti validi, per il ministero dell’interno contano solo gli elettori. E se invece provassimo a contare le persone? I grafici che nessuna formazione politica vorrà mai mostrarvi rivelano il peso numerico della “maggioranza invisibile”, quella che non può, non vuole o non sa indicare una rappresentanza nelle urne. Sono gli astensionisti, i delusi dalla politica, ma anche gli stranieri e i minori, una fetta di popolazione che diventa “invisibile” nei sondaggi, nel dibattito politico e nelle analisi post-voto. Abbiamo provato ad analizzare i dati ufficiali del voto alle regionali incrociandoli con i numeri dell’ISTAT e aggiungendoci una semplice curiosità di partenza: scoprire cosa succede se oltre ai SEGGI ASSEGNATI e ai VOTI VALIDI misurati dalle percentuali iniziamo a contare anche i VOTI TOTALI (includendo anche chi ha votato scheda bianca, nulla o annullata), il NUMERO TOTALE DI ELETTORI (includendo anche chi è stato a casa), e anche il NUMERO TOTALE DI RESIDENTI, stranieri inclusi (per contare anche chi subisce le conseguenze delle decisioni politiche senza esercitare il diritto di voto).

La Campania e il partito della scheda bianca. Nel disinteresse generale (tanto le poltrone si sono già spartite) a ben quattro giorni dal voto arrivano i dati definitivi della Campania, dove chi conta le persone e non le poltrone registra 170mila tra schede bianche e nulle, un partito che vale il 7% dei voti validi, ben più del valore previsto dal sistema elettorale campano come soglia di sbarramento per le liste. Potremmo chiederci se questo 7% di Campani è composto da quella gente egoista, pigra e disinteressata alla cosa pubblica descritta dai partiti che fomentano l’astensionismo per poi demonizzare chi lo pratica, o più semplicemente si tratta di persone a cui è negata rappresentanza politica e quel minimo di alfabetizzazione necessaria a non farsi annullare la scheda.

Il Veneto e il suo invisibile “partito migrante”. In Veneto il dato di rilievo è il “partito dei senza voto”, quel 21,9% di persone che pur vivendo in quella regione non può votare perché non ne ha ancora il diritto o perché essendo straniero quel diritto non ce l’ha mai avuto. Un blocco di elettori pressoché equivalente al 22,9% di astensionisti, a sua volta speculare al 22,9% di Salviniani, dove la componente migrante pesa per il 12,4% della popolazione residente, più del consenso raccolto dal PD che in questa regione si ferma al 12,1%. Il dibattito politico ci mostra a seconda degli schieramenti il ritratto di una regione Leghista, o di una regione dove trionfa il disimpegno e l’astensionismo, ma nessuna delle “fotografie politiche” mostrate dai mezzi di comunicazione di massa si allarga ai dati sull’intero insieme della popolazione, per mostrare la fotografia di una regione dove un veneto su cinque non può esprimere rappresentanza politica, e il 12,4% della popolazione residente con tutta probabilità sarebbe ben contento di prendere le distanze sia dal blocco leghista che da quello astensionista, esprimendo un “voto migrante” che molti temono, qualcuno auspica, ma nessuno si decide a garantire.

Elezioni comunali 2015, l’Italia senza quorum: ecco i paesi allergici alle urne, scrive “Il fatto Quotidiano”. A Castelvecchio Calviso, in provincia dell’Aquila, si è registrato uno solo voto valido e quattro schede bianche a fronte di 277 potenziali elettori. A Platì e San Luca, due centri reggini sciolti per mafia vince l’astensione: non si presentano candidati, figurarsi gli elettori. Nel Vibonese, a Spilinga, solo uno su dieci va a votare. E il sindaco non viene eletto. C’è un’Italia senza quorum. Mentre si affastellano analisi e reazioni sul dopo voto un piccolo pezzo di Paese ha preso il largo dalla politica. Sono i cittadini di piccoli e medi comuni che nel diniego dell’urna hanno ingrossato il dato dell’astensione, fino a produrre risultati emblematici e paradossali.

Il disgusto che porta a non andare più a votare. L’astensionismo è il vero vincitore delle elezioni regionali. E colpisce anche le regioni rosse, ma sono sempre di più quelli che ritengono la politica italiana impotente e incapace di risolvere i problemi. Mentre i flussi elettorali spiegano che i travasi di voti tra i partiti sono limitati. Il vero vincitore delle elezioni regionali 2015 è stata l’astensione, scrive Alessandro D’Amato su Next Quotidiano”. Su quasi 19 milioni di elettori chiamati alle urne, appena il 45%, 8 milioni e mezzo, ha espresso un voto valido ad una lista; oltre 9 milioni, il 48%, si sono astenuti. E la tendenza al non voto diventa sempre più impressionante nella crescita dei numeri, e comincia a colpire anche le aree più affezionate al rito elettorale.

Vince l’astensione: siamo noi giovani a non votare più. Il partito dell’astensione cresce a ogni elezione di più. Ma è un problema che va affrontato, perché riguarda soprattutto i più giovani. Troppo lontani dalla politica, scrive Michele Azzu su “Fan Page”. “Il vero vincitore è l’astensionismo”, anche a queste elezioni regionali ripeteremo questa solita frase fatta per chissà quanto tempo. Frase che, elezione dopo elezione, sembra sempre più veritiera. Alle elezioni regionali di Veneto, Campania, Marche, Umbria, Toscana, Puglia, Liguria ha votato solo il 51.4 per cento degli aventi diritto. Nel 2010 era il 64 per cento: si sono persi il 10 per cento di voti. Una persona su due non ha votato, e questa volta non è stato certo per colpa del bel tempo e delle gite di primavera: nel fine settimana ha piovuto in quasi tutto il paese. È un dato che fa spavento. Confrontiamolo coi dati delle più recenti votazioni del nostro paese. Lo scorso novembre si votava alle regionali in Emilia Romagna e Calabria. Anche in quel caso l’affluenza al voto fu bassissima: in Emilia Romagna votò il 37.7 per cento contro il 68 delle elezioni precedenti, e contro il 70 per cento delle europee di solo sei mesi prima. Sono 30 punti percentuali in meno. In Calabria a votare furono il 43.8 per cento degli aventi diritto contro il 59 per cento del 2010 (15 per cento in meno). Alle scorse elezioni europee, invece, l’affluenza fu più alta: circa il 60 per cento degli aventi diritto. E alle scorse elezioni politiche? Quelle del giugno 2013, in cui vinse per un soffio il PD guidato da Pierluigi Bersani che poi però non andò mai al governo. In quell’occasione, votò il 55 per cento degli elettori rispetto al 62.6 per cento di cinque anni prima, nel 2008. Le elezioni hanno ormai imparato a convivere con alti tassi di astensionismo. E allora, se va così dappertutto, forse è un segno dei tempi. Chi non vota rinuncia coscientemente a un proprio diritto – dirà qualcuno – e allora perché porsi il problema?

Votano pochi anche in Germania. In Italia non si vota per disgusto, in Germania per noia, scrive Roberto Giardina su “Italia Oggi”. Perché preoccuparsi dell’astensione di domenica scorsa in Italia? Avviene così altrove, perfino in Germania. Metà dei votanti è rimasta a casa? Claudio Velardi cita la Baviera, ma, per la verità, qui in Germania, all’ultimo appuntamento elettorale, l’astensione si è fermata al 46%. Comunque è vero, a casa della Merkel gli elettori sono sempre più pigri, nelle elezioni dei Länder, le regioni, si continua a calare, sfiorando il 50%. Soltanto che qui ci si preoccupa della pigrizia elettorale. I nostri politici fanno finta di niente. Ma le cause sono diverse: i tedeschi disertano le urne per noia, gli italiani, temo, per disgusto e rassegnazione.

I GRILLINI CANTANO VITTORIA. MA ANCHE LORO FAREBBERO BENE A CHIEDERSI PER CHI SUONA LA CAMPANA, scrive Antonio de Martini su “Il Corriere della Collera”. Un lettore mi ha scritto ripetutamente invitandomi a commentare la vittoria del movimento cinque stelle alle recenti elezioni. Turani nel suo giornale presenta questi numeri:

1) Alle elezioni politiche del 2013 , nelle stesse sette regioni in cui si è votato, il movimento cinque stelle raccolse 3.274.571 suffragi.

2) Alle elezioni Europee del 2014 , sempre nelle stesse regioni, gli elettori scesero a 2.211.384.

3) Alle regionali appena trascorse i votanti 5 stelle sono stati 1.320.885.

Sempre che la matematica non sia diventata di parte anch’essa, il movimento 5 stelle non ha avuto un successo, ma una perdita di votanti che si sono dimezzati rispetto alla prima apparizione sulla scena politica. Molti cittadini cercano di illudersi e vedere in “ogni villan che parteggiando viene ” il messia salvatore che rimetta le cose a posto senza che ci si scomodi più di tanto. Un voto, una richiesta di favori e via….Ebbene, non è così. Non è più così. La tendenza chiara ogni giorno di più è che dal 1976 in poi la sola cifra in crescita alle elezioni è quella dei cittadini che si rifiutano di essere presi in giro da questi ladri di Pisa che di giorno litigano e di notte rubano assieme. I cittadini che si astengono dal voto e di cui tutti fingono di non capirne le motivazioni. Il Cardinale Siri ( arcivescovo di Genova, città che si appresta a subire l’ennesima delusione) – mi dicono – ebbe un bon mot: ” esiste personale politico di due tipi: quelli che rubano per fare politica e quelli che fanno politica per rubare. Da un po’ vedo in giro solo questi ultimi”. Appunto. Arrestarli? Inutile. Sono più numerosi dei carabinieri e in costante crescita. Per uscire da questo maleolente pantano è necessario che tutti i cittadini – dopo aver fatto il proprio dovere – decidano di esercitare i loro diritti costituzionali partecipando alla vita nazionale in forma attiva, propositiva e continuativa. Ad ogni livello. Fino a che aspetteremo il “deus ex machina”, la “rigenerazione” ed altre minchiate consimili resteremo dove siamo. Tra tutte le soluzioni miracolistiche proposte, quella di far governare l’Italia da un gruppo di giovani somari è la più stravagante. I dirigenti della Nuova Repubblica dovranno essere selezionati uno a uno in base al sapere, all‘esperienza e sopratutto al carattere. Oggi si scelgono in base alla fedeltà, l’ignoranza e alla disponibilità al compromesso. La politica delle etichette (delle camicie, dei distintivi ecc) si addice ai prodotti commerciali, non alle persone.

L’utopia dell’onestà e la demagogia della proposta politica irrealizzabile, presentata come panacea di tutti i mali, sono le prese per il culo che il cittadino non tollera più.

Una Repubblica fondata sulla trattativa. Gli accordi tra Stato e criminalità vanno avanti da due secoli. Così i padrini si sono visti riconoscere la loro forza. Che ora si è spostata nell’economia, scrive Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”. Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di proteggerlo, ora di conquistarlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei”. Così scriveva, nel 1838, don Pietro Ulloa, Procuratore borbonico di Trapani. E Leonardo Sciascia poteva annotare, sconsolato, oltre cent’anni dopo: “Leggeremo mai negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa?”.

Onestà (e non solo) la risposta politica contro la corruzione. Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministratori, bisogna chiedersi perché nulla sia cambiato: come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. «Di nuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale. L’appello all’onestà, tante volte ripetuto, non basta infatti di per sé a risolvere i mali della politica: e il sentimento «anti casta», pur animato da giustificato sdegno, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi alla magistratura. Così non è. E anche se la qualità del ceto dirigente, locale e nazionale, è evidentemente scadente (quanti sono coinvolti nelle inchieste sembrano spinti solo da miserabili aspirazioni di arricchimento), l’onestà personale non è, né sarà sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica. Osservò una volta Benedetto Croce che la «petulante richiesta» di onestà nella vita politica è l’«ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Personalmente onestissimo, Croce non voleva certo fare l’apologia della disonestà in politica ma segnalare come l’appello all’onestà sia di per sé insufficiente a risolvere i mali della politica, che hanno anzitutto bisogno di rimedi – appunto – politici. Invece – ecco un altro errore di questi decenni – il sentimento «anticasta», pur animato da sdegno giustificatissimo per i privilegi e le malefatte del ceto politico, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi ai controlli e alle inchieste della magistratura, magari con un inasprimento delle pene cui pochi peraltro riconoscono una vera capacità dissuasiva. Non c’è bisogno di citare ancora Croce per osservare che l’onestà personale non è sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.

Nel paese dove è inutile essere onesti. La politica è da sempre incapace di fare pulizia prima che arrivino le inchieste giudiziarie. Così si arriva alle liste compilate con criteri discutibili, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. Elezioni all’insegna del “in fondo sapevamo già tutto”, le Regionali di domenica scorsa. Certo, banalizzare l’esito del voto talvolta può essere un’operazione scontata, ma non in questo caso, in cui le premesse dicevano già molto. Ma non le premesse dei sondaggi, non i dibattiti sui giornali, non i comizi da talk show. Bensì gli umori in strada, i discorsi tra le persone, la delusione da bar. Eh sì, perché ormai le “chiacchiere da bar” è in questo che si sono mutate, in “delusione da bar”. Alla politica ormai si applica la stessa “sindrome Trapattoni” che il nostro paese conosce per il calcio: tutti allenatori e tutti delusi dalla classe politica. Abbiamo letto ancora una volta titoli come “Il vero vincitore è l’astensionismo” che mette in luce quel 52% di affluenza al voto che ormai non scandalizza più. E se in Italia la politica, tutta, non cambia rotta – ma evidentemente non lo farà – è un dato destinato a decrescere soprattutto se alle urne si è chiamati in una domenica di sole, la prima dopo freddo e pioggia.

La finanza, gli impresentabili e i parrucconi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questo paese di parrucconi è veramente una schifezza. Parrucconi buoni solo a declamare principi favolosi di onestà, correttezza ed eticità ci sono sempre stati per carità. Il problema è che abbiamo sempre pensato che sotto queste profumate parrucche, si celassero solo teste di rapa. Alzi la mano chi è a favore della disonestà? Faccia un passo avanti chi è favore della corruzione? Nessuno è ovvio. Il nostro parruccone moderno fa di più, questiona i quarti di nobiltà. Tipo alla Caccia. Vabbè tutti sapete della genialata democratica della commissione antimafia, guidata da Rosy Bindi.

Dr Antonio Giangrande

·         Le colpe dei padri non ricadano sui figli e viceversa.

Se i padri “inguaiano” i figli e i figli “sconfessano” i padri. Dopo l’outing del ragazzo di Napoli: l’infinita caccia alla colpa, con la mancanza di senso di colpa, è sport nazionale, che divide le generazioni. Claudio Rizza il 7 Maggio 2019 su Il Dubbio. In questo mondo alla rovescia, dove i somari prendono a pugni gli educatori, gli ignoranti deridono i laureati, i politici vengono estratti a sorte e i falsi trasformati in verità, sembrava che almeno un assunto reggesse ai rovesci del terzo millennio, e cioè che le colpe dei padri non debbano ricadere sui figli. E ce n’era voluto un bel po’ per ribaltare il senso della tragedia greca dando torto ad Aristotele, Sofocle, a Edipo e pure alla Bibbia, che peraltro è sempre stata cerchiobottista: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” ( Es 20,5- 6); «Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato. ( Dt 24,16)». Dunque, l’assunto – che non è Leonardo il figlio del presidente Rai, Marcello Foa, inglobato leghisticamente nello staff di Salvini – ma nel senso di “tesi, argomento, tema, asserzione, affermazione” ci sta creando un sacco di problemi politici, etici e soprattutto identitari. Affannati come siamo a caccia della Colpa – dell’avversario, del premier, del governo e dell’opposizione, dell’Europa e dei mercati, dei migranti, gay o etero che siano -, ma senza senso di colpa, ne troviamo talmente tanta ma non sappiamo più darle il giusto valore, che ormai ci mancano sia il Credo che l’Ideologia. Fino a ieri la colpa era del Pd, l’altro ieri ci aiutava un po’ il Muro, ma ora che l’hanno fatto spinato non oscura più la vista come dovrebbe. La Cortina di ferro spinato è piena di spifferi. E’ così se ne sentono d’ogni colore. Il ministro dell’Interno ci ha già portati per mano sul sentiero giusto: «Se le colpe dei padri non ricadono sui figli, le colpe dei figli non devono ricadere sui padri. Ognuno passa il tempo come vuole… se mio figlio andasse in giro per barconi lo riporterei a casa per l’orecchio, ma ognuno fa come vuole». Salvini ha sistemato il problema causato dal figlio del ministro del Tesoro, Tria, di nome Stefano Paolo e di fatto impegnato come skipper su una nave di appoggio alla Mare Jonio, l’imbarcazione umanitaria di Mediterranea Saving Humans. Avere un figlio che salva vite nel Mediterraneo con le Ong è per il leader leghista come fare lo scafista, che lui li metterebbe tutti in galera. E pure il padre, diciamolo, è un rompiscatole: non allarga i cordoni del Tesoro per fare la flat tax e minaccia l’aumento dell’Iva per coprire il buco di bilancio da 23 miliardi. Il buco che rischia di inghiottire i conti della scialuppa Italia piena di falle. Il figlio salva i clandestini e il padre ci affonda: le colpe in questo caso sembrano ben distribuite. Certo, i tempi sono proprio cambiati. Quando Bossi tuonava contro i terun, a Verona gli striscioni dicevano “Forza Vesuvio” e a Napoli rispondevano che Giulietta era assai allegra. Oggi rischiamo “Forza Mediterraneo” e “Giulietta è islamica”. Poi Salvini ha scoperto che il figlio di Roberto Maroni, Fabrizio, ventenne, si sta candidando in una lista civica che appoggia il sindaco Pd a Lozza, nel varesotto. Poteva dare automaticamente la colpa al Pd ma è stato zitto, che è inelegante attaccare un cotanto collega di partito che si è pure mostrato liberale per la scelta del figlio.

C’è figlio e figlio. Quello che spicca su tutti oggi è biondo, occhi verdi, al secolo Antonio Piccirillo, 23 anni, imprenditore. Figlio del boss della Torretta Rosario detto “o biondo”, noto come il padrino dei pontili di Mergellina a cui imponeva il pizzo ( che oggi sta scontando diverse condanne per riciclaggio, racket e usura nel carcere di Tolmezzo), il giovane ha fatto un clamoroso e magnifico coming out dichiarando di aver scelto una strada assai diversa da quella paterna e ieri ha parlato in piazza Nazionale durante la marcia «DisarmiAmo Napoli» : «Ho invitato i giovani come me, soprattutto i figli di camorristi, a ribellarsi a quel sistema malato che non porta a nulla». «La camorra? Mi ha sempre fatto schifo. Mio padre – e altri come lui hanno reso la vita difficile a noi figli e inevitabilmente ce l’hanno pregiudicata perché per la gente comune portiamo un marchio indelebile. Perciò ai giovani dico: dissociatevi da questo schifo e costruitevi il vostro futuro con la cultura e il lavoro». Non è solo un figlio che dà la colpa al padre, ma è una scomunica etica, un trionfo di ideali, di coraggio e il rifiuto di quell’omertà familiare che tiene unite le cosche, la camorra e le mafie. Chapeau.

Le colpe dei padri sono macchie indelebili, più di quelle dei figli. Almeno così sembra. Poi si rimane dubbiosi di fronte al caso della famiglia Renzi, di papà Tiziano e di figlio Matteo, dove non si capisce se la vera colpa fu della Consip e dell’essere uno dei più odiati premier dai social della Seconda Repubblica, oltre che dagli avversari. Altri figli hanno dovuto discolparsi per le colpe dei padri. Come Luigi Di Maio, quando hanno beccato il padre Antonio con strutture abusive, dipendenti in nero e dichiarazioni dei redditi da ben 88 euro, che manco un barbone sotto ponte Matteotti. Di lì scuse, demolizioni, pur di salvare la banda degli onesti. Anche Vittorio Di Battista, post fascista scatenato, ha dato da fare al figlio Alessandro, honestà, honestà, soci della Di. Bi. Tec con debiti e stipendi non pagati, 150 mila euro alle banche, 135 mila ai fornitori, 60 mila all’erario, quasi 8mila all’Inps. Vittorio disse d’aver votato per tre volte nei gazebo del Pd, per dimostrare che le primarie erano un imbroglio, ma quando si scoprì che votò con i seggi ancora chiusi venne sepolto di pernacchie. E dissero che era uno scherzo. Da allora non si è più ripreso, e anche il figlio, dopo i gilet gialli, le accuse a Macron e i flop in Abruzzo, Basilicata e Sardegna, si stava perdendo tra India e Africa, silenziato da Casaleggio. Si fa presto a incrociare le colpe dei padri e dei figli. Già ci stanno provando gli inglesi col royal baby di Meghan e Harry: la madre vuole andare sei mesi in Africa e poi a vivere in California, vicino alla nonna. Chissà se il “black prince” non diventerà un pulcino nero. Di chi la colpa?

I PARTITI DEI PADRI NON RICADONO SUI FIGLI. Alberto Giannoni per “il Giornale” il 5 maggio 2019. Fabrizio Maroni, 21 anni, si candida col centrosinistra al Comune di Lozza e questo suscita grande curiosità, anche perché suo padre è Roberto Maroni, ex governatore ed ex ministro leghista. «Me l' aspettavo e sono anche abituato, ma la notizia è più sfumata di quel che ho letto».

Ci spieghi meglio.

«La lista non è sostenuta dal Pd. Dentro ci sono anime diverse, e c'è anche chi si arrabbierebbe al pensiero che fosse accostata al Pd. È una lista civica di persone radicate a Lozza, ma non ha un' ideologia politica».

Compete però con la Lega.

«Con una civica che ha nel simbolo la Lega, quindi una certa appartenenza ci deve essere, ma loro stessi si presentano come civici. L'ideologia in un Comune di 1.200 abitanti è poco rilevante rispetto alle persone o all' attaccamento al territorio».

Quali problemi avete nel Comune? Cosa l'ha spinta?

«Problemi grossi non ne abbiamo, ma opportunità sì. Qui è stata costruita la Pedemontana, e i Comuni hanno avuto la possibilità di compensazioni. Bisogna decidere come impiegarle al meglio. Altre sfide sono l'attenzione ai giovani o l'ambientalismo, anche in un Comune piccolo».

Lei è studente, fa politica?

«Studente. Scienze politiche alla Statale di Milano. Mai fatta».

Qualche candidato si arrabbierebbe se parlassimo di lista Pd, e lei è fra questi o no?

«No, non mi fa arrabbiare ma semplicemente non è vero. Io non sono iscritto al Pd, ho simpatizzato in alcuni momenti».

Quello di Renzi per caso?

«Sono sempre stato più vicino al centrosinistra che al centrodestra, al di là del segretario».

Ma ora corre contro la Lega?

«Lo vedo come un dato di fatto ma non contro la Lega. Sono in una lista e il fatto che di là ci sia la Lega pone me e gli altri in questa posizione».

Qualcuno dice «i Maroni tornano alle origini», facendo riferimento alla antica militanza a sinistra di suo padre.

«La mia sensibilità si è sempre orientata più verso il centrosinistra. Il paragone so che è inevitabile e magari qualcuno si immagina che fra 30 anni io sia un esponente della Lega, invece non ho ambizioni politiche se non limitate al mio Comune».

La Lega è cambiata molto. Quella di prima le piaceva?

«Da quando voto, la trasformazione era già in atto. So che era un partito diverso ma non sono mai stato un simpatizzante e non è cambiato nulla nella mia opinione sulla Lega».

Lega e migranti: vede legittime politiche o xenofobia?

«Credo che sia una politica legittima e che la xenofobia e una certa forma di odio esista nella comunicazione che fanno certi esponenti della Lega e che viene fatta propria da molti elettori. Io non sostengo né l' accoglienza senza limiti né l' innalzamento di barriere. Forse, come sempre, la soluzione sta nel mezzo. E in politiche condivise con l' Europa. Di sicuro non si può risolvere chiudendo tutti fuori o lasciando entrare tutti».

Chi è il candidato sindaco della sua lista a Lozza?

«Giuseppe Licata, persona molto seria, ha lavorato molto sodo ed è stato ricompensato tanto da essere eletto. È il sindaco».

Lei farebbe l'assessore?

«Non credo. Mi vedo più come un apprendista, candidato con persone da cui da imparare».

In una parola, lei cos'è?

«Un democratico».

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 5 maggio 2019. Nessun rancore, assicura Fabrizio Maroni. «Papà mi ha dato il suo appoggio - racconta - abbiamo discusso insieme del programma, ma non mi ha fatto alcuna raccomandazione». Sarà, però il padre non è uno qualunque. È Roberto Maroni, già segretario della Lega, due volte ministro e governatore della Lombardia in quota Carroccio. Che ora si ritrova il figlio ventunenne, studente di Scienze politiche, candidato alle comunali di Lozza, paese di poco più di mille abitanti in provincia di Varese, in una lista civica sostenuta dal centrosinistra che appoggia il sindaco uscente Giuseppe Licata. Mentre la Lega è presente nel simbolo della lista che sostiene Mara Rossi, unica avversaria di Licata. Di qua il padre, di là il figlio. Succede nella vita e spesso capita anche in politica, dove un cognome può non avere lo stesso significato. Padoan, ad esempio. Era agosto 2016, il padre Piercarlo era ministro dell' Economia e la figlia Veronica è scesa in piazza, imbracciando il megafono, per protestare contro la visita a Foggia del collega di suo papà, il guardasigilli Andrea Orlando, e difendendo la causa dei braccianti extracomunitari. Lei, ricercatrice presso l' Ires, l' istituto di ricerche economico-sociali della Cgil, da anni si occupa di tematiche legate all' immigrazione e al mercato del lavoro e ha anche ricevuto un foglio di via da San Ferdinando in Calabria, dove ha guidato la protesta contro lo sgombero di una baraccopoli. Se per il padre la questione è stata motivo di imbarazzo, comunque l' ha risolta in famiglia. Non come il più spigliato viceministro agli Esteri Lapo Pistelli, che quando nel 2014 il figlio Matteo partecipò a un corteo scrisse su Facebook: «Non mi era ancora capitato: mio figlio in una manifestazione che critica (dai, meglio dire sprona) il governo sui fondi per la scuola... La prossima volta parliamone a cena a casa». Caso risolto con spirito e non sfociato in un livoroso scontro come quello tra Sabina Guzzanti e suo padre Paolo: lui eletto senatore con Forza Italia nel 2001, lei animatrice dei girotondi di sinistra. Fin qui, comunque, nessun particolare imbarazzo istituzionale per i celebri padri. Situazione diversa, a marzo scorso, per il ministro dell' Economia Giovanni Tria, quando si diffonde la notizia che il figlio Stefano è lo skipper della barca a vela che ha fatto da supporto alla Mare Jonio, con capo missione l' ex tuta bianca Luca Casarini, nel salvataggio di quarantanove migranti. E nei confronti del ministro, già sotto pressione nel governo, è arrivata la frecciata del vicepremier Matteo Salvini: «Se mio figlio andasse in giro per barconi lo riporterei a casa per l' orecchio, ma ognuno fa come vuole». Un po' di nervosismo anche per Ignazio La Russa, senatore di FdI, quando il figlio Leonardo Apache è apparso in rete con il nome d'arte di Larus e un rap in cui canta «sono tutto fatto». Prima reazione del padre: «Se lo becco con la droga lo ammazzo». Poi il chiarimento: «Mi ha spiegato che ha un significato diverso». Pace fatta, come in casa Maroni: «Sono cresciuto - spiega Maurizio - assolutamente libero di poter avere le mie idee». Che, come ben sa il padre, non sono per sempre: a sedici anni l' ex governatore leghista militava in un gruppo marxista-leninista di Varese, quindi ha frequentato Democrazia proletaria. Fino al 1979, quando ha incontrato Umberto Bossi ed è cambiato tutto.

Il bamboccione antifascista di Giampaolo Rossi su “Il Giornale” il 9 febbraio 2017. “Mamma, io esco a fare la rivoluzione!!” “Va bene, ma hai messo la maglia di lana?” Pensate sia un dialogo surreale? Non lo è. Nei giorni in cui in Italia scoppia la polemica per la figlia del ministro Padoan a capo dei cortei di clandestini e in America i nipotini di Soros mettono a ferro e fuoco Università e quartieri, picchiando, distruggendo e impedendo ai “fascisti trumpisti” di parlare “per difendere la democrazia” da un Presidente eletto democraticamente, in Germania il settimanale Bild pubblica i dati di una ricerca realizzata dal BfV (l’Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione) uno degli organi dell’intelligence tedesca. La ricerca riguarda i reati a sfondo politico commessi a Berlino nel periodo 2009-2013, città dove la violenza politica negli ultimi anni è salita vertiginosamente; in tutto 1523 reati, la maggior parte dei quali compiuti dall’estrema sinistra.

“Papà scusa, mi dai la paghetta che devo comprarmi una molotov?” “Tieni ma non spenderti tutto come tuo solito!”. La ricerca del BfV traccia un identikit socio-antropologico dell’estremista di sinistra colpevole di reati politici; e il dato più eclatante (e più divertente) è che il 92% di loro vive ancora con mamma e papà. Si, avete capito bene: i campioni della rivoluzione, gli eroici antifascisti, i nuovi partigiani rimangono inguaribili mammoni. Sembrano cattivi, spietati, ideologicamente motivati, ma sotto le loro tute nere, i cappucci e la kefiah, batte “nu piezz’ ‘e core”; perché loro, tra un sampietrino e una spranga, uno slogan e una bandiera rossa, non schiodano dall’uscio domestico e si divertono a fare la rivoluzione con i soldi di papà. Predicano di abbattere le frontiere delle nazioni (retaggi borghesi e imperialisti) per accogliere immigrati e clandestini ma si tengono bene alzate quelle di casa propria. Secondo la ricerca, l’identikit del bamboccione antifascista germanico colpevole di reati politici è questo: maschio (84%), di età compresa tra i 18 e 29 anni (72%), studente o disoccupato (uno su tre), con istruzione bassa (34% scuola media, 29% diploma). I reati commessi dal bamboccione antifascista sono violenza, aggressione, incendio doloso, resistenza a Pubblico ufficiale; più raro il tentato omicidio. Il suo obiettivo sono per lo più persone fisiche (60%), prevalentemente poliziotti ma anche un 15% di avversari di destra.

“Mamma esco, vado a spaccare la testa ad un nemico del proletariato”. “Va bene, ma ricordati di prendere il latte quando rientri, sennò domani niente colazione!” Il bamboccione antifascista è una figura ancora più ridicola del radical-chic; è la sua involuzione antropologica. È il prodotto narrativo di una società che trasferisce la noia nella politica. Il bamboccione è carico di odio per il mondo perché incolpa il mondo del proprio fallimento; è un walking dead che si muove in gruppo perché da solo non ha alcuna consapevolezza di sé: in pratica è solo un nickname. Se il fighetto radical chic è un dandy ideologico, ricco e ipocrita e cattivo che copre con l’odio ideologico il senso di colpa per il suo benessere (di cui spesso non ha alcun merito), il bamboccione antifascista è il sottoprodotto di una modernità neanche liquida ma liquefatta. Mamma e papà non rappresentano il valore della famiglia, il legame fondante di un ordine naturale, ma solo l’area di parcheggio tra la Play Station e la rivoluzione. Tra il bamboccione di Berlino, lo studentello intollerante dell’Università liberal americana, il “rivoluzionario al cachemire” del Mamiani e la figlia di un ministro che guida i cortei di clandestini, si trova le stesse ridicola contraddizione: “Ci chiamano banditi, ci chiamano teppisti, ieri partigiani, oggi antifascisti”. E figli di papà…

La Veronica di Padoan, scrive il 24/08/2016 Massimo Gramellini su "La Stampa”. Tra gli indignati di professione c’è chi si è molto stupito che la figlia del ministro Padoan sia scesa in piazza armata di megafono contro la pigrizia del governo nella lotta al caporalato. Dove andremo a finire con questi ragazzi ribelli, signora mia. Che se poi hai il privilegio di avere un padre ministro, non faresti prima a protestargli addosso mentre addenta il cornetto della colazione? Senza contare che è tipico dei bambocci viziati della borghesia di sinistra abbracciare la causa esotica dei migranti sfruttati nelle campagne anziché solidarizzare con la nonnina di razza bianca che non arriva a fine mese. Queste le gocce di saggezza che grondavano dal web e da certe prime pagine vergate da campioni della coerenza intellettuale sempre pronti a eccitarsi appena scorgono un sospetto di contraddizione. A noi del reparto Ingenui ha invece colpito che come luogo di villeggiatura ferragostana la figlia di un ministro abbia preferito il cortile della prefettura di Foggia alle spiagge di Ibiza (o di Capalbio, dai). E che ci sia ancora qualcuno disposto a battersi per difendere relitti di un’antica civiltà come il rispetto dei contratti di lavoro. Se fossi Padoan, sarei orgoglioso di averle trasmesso certi valori. Qualcuno si scandalizzerà che la figlia di un ministro sia di sinistra. Ma a vent’anni succede e nel caso di Padoan pare lo sia stato persino lui, addirittura fino a non molto tempo fa.

La figlia di Padoan in piazza per i profughi con i centri sociali. L'agitatrice di immigrati è Veronica, pupilla di quel ministro dell'Economia che ha sempre difeso a spada tratta quei circa 4 miliardi di spesa pubblica che l'Italia dedica all'accoglienza dei richiedenti asilo, scrive l'8/02/2017 "Diario del web". Sembra assurdo, ma c'è una figlia di un ministro che è scesa in piazza a fianco dei centri sociali per manifestare contro le politiche sull'immigrazione del governo Gentiloni, considerate troppo restrittive. La cosa si fa ancora più assurda quando si scopre che l'agitatrice di profughi è Veronica Padoan, pupilla di quel Pier Carlo che ha sempre difeso a spada tratta quei circa 4 miliardi di spesa pubblica che l'Italia dedica all'accoglienza dei richiedenti asilo. Veronica è stata immortalata in un video che documenta la protesta dei clandestini che vivono nella tendopoli abusiva di San Ferdinando a Rosarno: lei è lì fra i promotori di quel corteo organizzato senza preavvisi fra le vie del paese, che con Rosarno, ospita il maggior numero di immigrati della provincia di Reggio Calabria. E' stata proprio la figlia di Padoan a guidare una delegazione che ha incontrato le istituzioni locali per avanzare le solite richieste retoriche: «Documenti subito», «Una casa e un lavoro per tutti», «Via le frontiere». Schiaffi in faccia ai residenti di quella sfortunata provincia che devono affrontare oltre a una cronica mancanza di lavoro anche servizi allo sbando, dalla sanità ai trasporti passando per l'assistenza sociale. La tendopoli di San Fernandino poi ha aggravato la situazione, portando in quel lembo di Calabria spaccio, prostituzione, degrado, il campo è un ammasso di baracche di fortuna dove l'immondizia viene smaltita con roghi in mezzo ai giacigli, e ha abbassato i diritti dei lavoratori più umili, con il racket del caporalato che si è sempre più ingrassato.

La figlia di Padoan guida la rivolta dei clandestini (insieme ai centri sociali). Le condizioni delle tendopoli sono al limite del disumano. E monta la rabbia degli italiani, scrive Michel Dessì, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". È Veronica Padoan, figlia del Ministro dell'Economia, che guida il corteo di protesta organizzato assieme agli immigrati «sans papier» della tendopoli abusiva di San Ferdinando, il Comune della provincia di Reggio Calabria che, con Rosarno, ospita il maggior numero di africani e mediorientali, quasi tutti clandestini e senza documenti, fra quelli arrivati in gommone fino alle scalette delle navi della nostra Marina Militare. In molti si sono chiesti cosa ci facesse, fra tanti irregolari, la rampolla di un rappresentante del governo italiano, ma la domanda è rimasta senza risposta. Veronica Padoan, la giovane accanita manifestante, protetta dai suoi commilitoni del collettivo «Campagna in Lotta», era quasi irriconoscibile, nascosta dal cappuccio del suo giaccone. Una cosa è certa: è assieme a lei che un gruppo di immigrati è entrato a Palazzo per incontrare le istituzioni. Il tutto è accaduto nelle prime ore del giorno: i cittadini del piccolo comune pianigiano, usciti di casa per le quotidiane necessità, si sono trovati davanti un corteo di protesta organizzato, come spesso accade, senza alcun preavviso, dai centri sociali e dai più facinorosi tra gli ospiti della tendopoli. A preoccupare i sanferdinandesi, i toni sostenuti delle ormai arcinote richieste: «Documenti subito», «migliori trattamenti», «case e lavoro». Considerando le condizioni precarie di vita (sanità al collasso, trasporti scadenti, servizi sociali inesistenti) e la mancanza di lavoro anche per i lavoratori calabresi (non bisogna dimenticare che San Ferdinando è, assieme a Gioia Tauro e Rosarno, uno dei tre Comuni sul cui territorio insiste il porto. Così come non si deve dimenticare che proprio in quel porto si potrebbe consumare, a breve, una delle più gravi tragedie del lavoro degli ultimi anni: il licenziamento di oltre 400 lavoratori, paventato già parecchie volte negli ultimi mesi, le richieste degli stranieri risultano essere quasi fuori luogo. In realtà, la condizione di vita degli immigrati nelle tendopoli di San Ferdinando, è al limite del disumano. Capanne costruite con pali e legni di fortuna, coperte con teli di plastica, cartoni e cartelloni stradali, senza servizi igienici, immerse in dune di spazzatura che viene, ciclicamente, bruciata, sprigionando gas mefitici e dannosi alla salute di tutti. Promiscuità, uso e spaccio di sostanze stupefacenti, prostituzione e sfruttamento, caporalato e continui atti di violenza. A volte sedati dall'intervento delle Forze dell'Ordine, invitate ad intervenire dagli stessi immigrati; ma, molto spesso, finiti male, perché risolti senza l'intervento della Legge e regolamentati da patti tribali incomprensibili dalla Società Civile. La convivenza coi locali sta diventando, di giorno in giorno, sempre più difficile. E non solo per i problemi legati all'igiene e al malaffare: la rabbia delle famiglie italiane poggia su critiche pesanti anche alle istituzioni che non sono riuscite, in questi anni di immigrazione incontrollata, a difendere decenni di lotte sociali a tutela dei diritti dei lavoratori. In queste contrade, c'è chi, come Giuseppe Lavorato, è morto nel difendere i braccianti e le loro fatiche. E, dunque, sembra un ritorno ad un medioevo economico, la paga quotidiana a 25 euro per tutti, bianchi e neri, considerando l'eccessiva richiesta di lavoro anche sottopagato. La polveriera Piana di Gioia Tauro potrebbe esplodere da un momento all'altro. Come avvenne nel 2010. Anche per colpa di qualche «studentello» fricchettone che pensa di poter raccattare qualche minuto di celebrità a danno di tanti, italiani e non, che combattono ogni giorno contro il mostro della sopravvivenza.

La polizia contro la figlia di Padoan: "Il ministro prenda le distanze da questa vergogna". "E’ dannosissimo cavalcare l'emergenza immigrazione con il populismo di piazza. La figlia del ministro dovrebbe saperlo bene", scrive Michel Dessì, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". Dopo le immagini da noi pubblicate, che ritraggono la figlia del Ministro dell’Economia al fianco degli extracomunitari in protesta, scoppia la polemica. “Sarebbe bello vedere una donna così vicina al mondo istituzionale e partitico fare un corteo pro forze dell'ordine. Soprattutto in una regione come la Calabria, dove lo Stato è in guerra contro l'anti stato.” Dichiara al Giornale.it Giuseppe Brugnano, segretario regionale del Coisp Calabria. Mentre i carabinieri e la polizia sono impegnati quotidianamente a mantenere l’ordine e, soprattutto, la calma all’interno della grande tendopoli c’è chi fomenta l’odio organizzando manifestazioni di piazza. “E’ inaccettabile che i corrispondenti di Radio Onda Rossa, “fratelli” del collettivo “Campagna in lotta”, di cui fa parte proprio Veronica Padoan, apostrofino in diretta radiofonica gli agenti di polizia in servizio per mantenere l’ordine pubblico come “sbirri”. E’ dannosissimo cavalcare l'emergenza immigrazione con il populismo di piazza. La figlia del ministro dovrebbe saperlo bene. Ogni volta che gli agenti entrano in quel campo abusivo rischiano la vita. Le risse sono all’ordine del giorno. Come dimenticare i tragici fatti di qualche mese fa dove, un carabiniere, intervenuto per sedare una rissa fra immigrati, è stato ferito al viso e, per legittima difesa, ha sparato uccidendo un migrante. Dobbiamo evitare che si ripeta una tragedia del genere. Veronica Padoan si vergogni! Auspichiamo che il padre, il ministro Padoan, prenda ufficialmente le distanze da questo mondo in cui gravita la figlia.” Conclude Brugnano. Gli oltre duemila immigrati che vivono nel ghetto di San Ferdinando chiedono documenti e, soprattutto, una nuova tendopoli. Già promessa mesi fa dalla regione Calabria, la quale ha stanziato 300 mila euro. Ma tutto è fermo.

Veronica Padoan: "Questa non è giustizia". E la figlia del ministro attacca: "Se il governo non ci ascolta porteremo la nostra protesta fino a Roma. La nuova legge aiuta l'illegalità", scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica" il 23 agosto 2016. Scusi, ma davvero lei è la figlia del ministro Padoan? "Se permettete, non dovrebbe essere importante chi sono, ma quello che dico". Fuori dalla Prefettura di Foggia una decina di ragazzi e ragazze, italiani e migranti, protestano contro il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, i parlamentari, i rappresentanti della Prefettura e dei sindacati, che stanno discutendo della nuova legge sul caporalato. Con il megafono in mano c'è Veronica Padoan, figlia del ministro dell'Economia, Piercarlo. "Caro ministro dell'ingiustizia... ", comincia così, megafono in mano, uno dei messaggi che lancia a Orlando mentre, insieme ai compagni, grida: "Assassini in giacca e cravatta, assassini con la divisa".

Sono anni che chiedete una nuova legge sui braccianti. Ora quella legge è pronta, voluta da questo governo. Perché siete qui a protestare?

"Perché non è certo quello che serve. L'unico strumento reale per cambiare le cose sono i contratti nazionali di lavoro e gli accordi provinciali: sono l'unica maniera, seppur minima, per eliminare lo sfruttamento o parte di esso".

Che significa?

"Non inserire la questione del trasporto e dell'abitazione all'interno dei contratti significa regalare l'illegalità ai caporali. E questi signori lo sanno bene. Sanno che gli strumenti per cambiare le cose sono proprio quei contratti che loro hanno firmato. Sanno che la legalità del territorio e del lavoro in agricoltura passa attraverso la legalità di chi ci lavora. È una storia così banale, così triste, così vera".

Ma davvero lei è la figlia del ministro dell'Economia? Ne ha parlato con suo padre?

Veronica prende in mano il megafono. "Ministro Orlando, ci vediamo a Roma, perché se non ci ascoltate dobbiamo andare da un'altra parte". Poi, mano verso la Prefettura, il coro: "Questo palazzo non serve a un ca...".

Veronica Padoan e gli eredi ribelli dei politici, scrive Francesca Buonfiglioli il 23 agosto 2016. Da Marco Donat-Cattin fino alla figlia di Padoan. Passando per Delrio junior. Quando l'erede del politico è scomodo. O si schiera contro le istituzioni. «Se permettete, non dovrebbe essere importante chi sono ma quello che dico», ha detto secca Veronica Padoan, figlia del ministro dell'Economia, intercettata durante una manifestazione contro il caporalato e le condizioni subumane dei lavoratori del ghetto di Rignano garganico. Megafono alla mano ha minacciato: «Ministro Orlando, ci vediamo a Roma, perché se non ci ascoltate dobbiamo andare da un’altra parte». E poi, indicando il Palazzo della Prefettura, si è unita al coro in rima baciata: «Questo palazzo non serve a un ca...». Veronica Padoan è ricercatrice presso l'Ires, l'istituto di ricerche economico-sociali della Cgil, e da anni si occupa di tematiche legate all'immigrazione e al mercato del lavoro. «Ha collaborato con numerosi istituti di ricerca e istituzioni», si legge in un suo stringatissimo cv pubblicato anni fa da Social Europe, una casa editrice digitale londinese, «tra cui l'Anci, l'ufficio statistico del Comune di Roma, l'Iprs (Istituto psicoanalitico per le ricerche sociali) e l'Osservatorio sull'immigrazione dell'Ires».

Decisamente una strada diversa da quella intrapresa dalla sorella Eleonora che dal primo luglio 2015 è dipendente a tempo indeterminato di Cassa depositi e prestiti. Contratto arrivato senza concorso perché la Cdp non rientra nella Pa, ma «a seguito di una procedura di job posting iniziata nel novembre del 2014» e «volta a valorizzare professionalità interne al gruppo». E infatti Eleonora lavorava come economista alla Sace, controllata dalla Cassa depositi e prestiti.

Veronica Padoan, però, non è certo la prima né l'unica figlia ribelle di un politico o di un rappresentante delle istituzioni.

Donat-Cattin e Prima Linea. A metà degli Anni 70 Marco Donat-Cattin, figlio del noto Carlo esponente della sinistra sociale della Dc, tra i fondatori della Cisl e pluriministro, prese parte alla costituzione di Prima Linea. Con il nome di Comandante Alberto divenne uno dei leader dell'organizzazione terroristica. Identificato dalla polizia nel 1980 grazie alla testimonianza dell'ex compagno Roberto Sandalo, riuscì a riparare in Francia, ma venne estradato in Italia l'anno dopo. Lo scandalo travolse il padre che si dimise da ogni incarico di partito prendendosi una pausa dalla vita politica e pure l'allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga accusato in un primo momento di aver agevolato la fuga del terrorista avvertendo il padre Carlo che il figlio era ricercato. Dissociatosi da Prima Linea, Donat-Cattin jr beneficiò della riduzione della pena ottenendo gli arresti domiciliari nel 1985. Tre anni dopo morì in un incidente stradale.

Tommaso Cacciari. Tra le calli di Venezia, invece, si consuma da anni la querelle dei Cacciari. A dare grattacapi a Massimo, ex sindaco della Serenissima, è stato il nipote Tommaso no global e tra i leader dei centri sociali veneziani e figlio di Paolo, fratello del filosofo ed ex deputato di Rifondazione. I sabotaggi al Mose e alcuni atti dimostrativi tra Venezia e Milano sono costati a «Cacciari il Giovane» (copyright Giancarlo Galan) grane giudiziarie. Nonché le reprimende dello zio che a più riprese aveva condannato le modalità di lotta del nipote. Ex «portiere di notte», su Twitter oggi si definisce «attivista del laboratorio occupato Morion e del Comitato NoGrandiNavi - NoMose, antifascista».  Insomma, le barricate, nonostante gli anni che passano, stanno ancora in piedi.

Michele Delrio. Tornando ai figli di ministri, pure in quel di Reggio Emilia Michele Delrio, detto Billo, uno dei nove figli dell'ex sindaco e ministro, decise di abbandonare il politically correct e attaccare su Facebook il governo Letta di cui suo padre era stato responsabile delle Autonomie regionali. «Sfido chiunque a dirmi un provvedimento a lungo termine che abbia approvato questo governo», aveva tuonato il giovane arbitro di calcio nel febbraio 2014, pochi giorni prima della caduta dell'esecutivo. «In 10 mesi nulla è stato fatto in tema di lavoro, oltre a rifinanziamento a cassa integrati. Pasticcio sull’Imu, pasticcio su Bankitalia, pasticcio su decreto carceri. Al Paese non serve un eroe ma un governo, che possibilmente governi e non punti a sopravvivere». Un'uscita da cartellino giallo per alcuni, ma che Michele non rinnegò: «Dico quel che penso indipendentemente da mio padre», commentò chiudendo la questione. A dirla tutta, però, Delrio jr un suo eroe lo aveva già e da tempo visto che nel 2012, appena 20enne, aveva creato un coordinamento cittadino per appoggiare Matteo Renzi alla primarie. Annunciando la nascita del gruppo, spiegò sempre sul social con entusiasmo: «Siamo un gruppo di amici, di ragazzi che non si rassegnano all’idea di dover consegnare la politica ai disonesti. Il nostro gruppo si chiama “Adesso!! Kairos” e vogliamo dare voce a chi non ha più la forza di alzarla e dare dignità a coloro che l'hanno persa. Matteo Renzi rappresenta una ventata di cambiamento, di politica fatta dal basso, di quella politica che si sporca le mani lavorando e sudando la fiducia del popolo. Abbiamo voglia prima di tutto di ricominciare a sognare, di tornare ad impegnarci, a credere in qualcosa e non in qualcuno». Endorsement che anticipò addirittura quello del padre. 

Figli ribelli, contro il sistema, contro lo Stato o contro il governo. Ma nulla in confronto a chi il parricidio lo organizzò per davvero. O almeno così racconta la storia.  Nel 2 a.C., Giulia Maggiore, unica figlia naturale di Augusto e moglie di Tiberio, fu arrestata con l'accusa di adulterio e tradimento per aver congiurato contro suo padre. Dopo l'esilio a Ventotene, morì forse di stenti a Reggio Calabria. Il rimorso non abbandonò mai Augusto, che parlando della figlia si narra prendesse a prestito le parole dell'Iliade: «Vorrei essere senza moglie, o essere morto senza figli».

La politica sfasciafamiglie. Dalla figlia di Padoan, occhiali da sole e megafono, che protesta contro i "giochini del governo", al figlio diciottenne di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Matteo Renzi) in piazza contro il Jobs Act mentre suo padre elogia le riforme in un’intervista sul Financial Times. Il privato è dibattito, scrive Annalena Benini il 24 Agosto 2016 su “Il Foglio”. Veronica Padoan, figlia del ministro dell’Economia, ha protestato contro “i giochini” del governo. Occhiali da sole, capelli sciolti e megafono, ha manifestato pacificamente con il suo gruppo di attivisti davanti alla prefettura di Foggia, in occasione della visita del ministro della Giustizia Andrea Orlando (“bene, abbiamo l’interlocutore adatto”, ha detto con sarcasmo al megafono Veronica Padoan quando il ministro è arrivato). La questione è quella del lavoro nelle campagne dei braccianti stagionali, non solo extracomunitari, con le baraccopoli fatiscenti e abusive, il caporalato, migliaia di persone sfruttate e sottopagate, niente docce, niente tutele. E’ una battaglia che Veronica Padoan combatte da molto prima che suo padre diventasse ministro del governo Renzi, è qualcosa che attraversa la famiglia, i legami personali, il sangue, e ha bisogno di affermarsi anche controvento, come (ma in modo più evidente e serio) nei pranzi della domenica in cui non siamo mai d’accordo con nostra madre, nostro padre, i figli, sui destini del mondo, sui modi per salvarlo, e anche su chi è meglio votare. Veronica Padoan parla, accesa e severa, dei “signori del palazzo” e dei giochini del governo, anche se in questo governo c’è suo padre, e rivela l’umanissima, vitale tradizione del dissidio politico famigliare, anche doloroso, anche difficile da sopportare, che non viene pacificato da un ruolo importante né dalla fiducia personale. Si diventa adulti anche per contrarietà, si cerca la differenza, il conflitto, l’autonomia. Mai come mio padre, penserà forse il figlio di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Matteo Renzi) che a diciotto anni, da presidente del Movimento studentesco milanese, ha protestato in piazza contro il Jobs Act e contro l’ingresso dei privati nella scuola pubblica, mentre suo padre elogiava le riforme in un’intervista al Financial Times. Padri e figli, mariti e mogli, litigano per la politica da sempre (la compagna di Matteo Orfini, madre dei suoi figli, ha raccontato lui stesso, “dà ragione a chi fa opposizione a noi, lei è oltre il Pd”) e in queste discussioni, in questi contrasti, in questo darsi torto, c’è anche il gusto di non essere mai d’accordo, di cercare di convincere l’altro, senza riuscirci quasi mai, perfino divertendosi a battere i pugni sul tavolo, a rincorrersi in bagno per continuare a litigare agitando fogli di giornale, citando a memoria stralci di talk-show notturni, anche negando il like all’ultimo severissimo giudizio politico postato su Facebook. Ci sono storie più dolorose: Giovanni Amendola e suo figlio Giorgio discutevano perché il padre era antifascista ma liberale e il figlio antifascista ma attratto dal comunismo (aderì al Pci dopo la morte del padre), ma non è immaginabile una riunione di famiglia, una cena di Natale in cui, al primo accenno alla politica, alla Costituzione, alle riforme, alla scuola, nessun parente cominci ad agitarsi sulla sedia, a sbuffare, a diventare rosso per la rabbia, a scuotere la testa con aria sarcastica. Ci si calma, di solito, quando qualcuno di molto saggio grida, dalla cucina: chi vuole un caffè?

Quella lunga lista di figli di papà che giocano a rinnegare i genitori. Veronica Padoan non è sola, scrive il 24 Agosto 2016 “Il Tempo”. Dall’altro ieri Veronica Padoan ha aggiunto un’altra pagina all’eterno diario dello scontro figli-genitori. Ordinario e fisiologico in tutte le famiglie, diventa suggestivo, e vagamente retorico, quando tra le parti opposte della barricata si piazzano uomini politici - e di governo- con la relativa progenie. Così la rampolla di Piercarlo, ministro dell’economia, è scesa in piazza a Foggia con tanto di megafono manifestando contro la visita di un collega di suo padre, il Guardasigilli Andrea Orlando, perorando la causa dei braccianti extracomunitari stagionali. Non vi è traccia, al momento, di reazioni pubbliche dell’augusto genitore. Al contrario di quanto fece, nel 2014, l’allora vice ministro agli Esteri Lapo Pistelli, quando il figlio liceale scese in piazza in una di quelle tradizionali manifestazioni contro le politiche del governo (tocca un po’ a tutti) sulla scuola. Pistelli senior la prese con ironia: «La prossima volta parliamone a cena a casa», scrisse sul suo profilo Facebook. Crisi familiare sventata dunque. Più complessa fu invece l’esperienza di Paolo Guzzanti, quando oltre ad essere editorialista del Giornale, nel 2001 fu eletto senatore con Forza Italia. Erano gli anni di girotondi, dell’«editto bulgaro», del mondo della cultura di sinistra lancia in resta contro Berlusconi. In prima linea si distingueva Sabina Guzzanti, regista e attrice figlia di Paolo. Suo padre le scrisse una lettera aperta, cercando di spiegarle la vera natura del berlusconismo. Lei le rispose con una mail privata in cui lo accusava, rivelò lui con comprensibile amarezza, di far parte «di un’accolita di delinquenti», perchè «Forza Italia e la Casa delle Libertà sono sinonimo di mafia, razzismo, fascismo, antidemocrazia». Può capitare, poi, che tra il padre politico e il figlio si incunei un certo ribellismo tipico dell’età, foriero di imbarazzi per il ruolo del genitore. Pare che, negli ultimi tempi, Barack Obama sia alle prese con le intemperanze festaiole della figlia Malia, ormai maggiorenne, paparazzata a fumare quel che ha tutta l’idea di essere uno spinello. Agli annali sono anche i rapporti burrascosi che ci furono tra George H. Bush e suo figlio, il discolo George W. Entrambi sarebbero diventati rispettivamente il 41esimo e il 43 esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma nel 1973 non lo sapevano e così ecco un adirato George senior, allora presidente del Partito Repubblicano, accogliere sulla porta di casa il figlio ubriaco dopo una notte brava che lo voleva prendere a pugni. Ben più drammatiche furono alcune vicende di casa nostra. Carlo Donatt Cattin, esponente e uomo di governo diccì a cavallo tra i ’70 e gli anni ’80, ebbe la propria carriera politica compromessa dalla scelta compiuta da suo figlio Marco di abbracciare la lotta armata, nella schiera di Prima Linea, il gruppo guidato da Sergio Segio. Marco, negli anni, si dissociò dal percorso terroristico, ma poco dopo la vita gli presentò il conto più amaro, e morì investito dopo che si era fermato a soccorrere alcuni automobilisti coinvolti in un tamponamento. Prima di Donatt Cattin, anche Attilio Piccioni, ministro democristiano negli anni ’50, ebbe guai per via del figlio. Piero, compositore, fu infatti coinvolto nello scandalo Wilma Montesi, una ragazza trovata morta sul litorale di Tor Vajanica; dietro quel cadavere si delineava uno scenario di scandali nella Roma post bellica, in una mondanità sfrenata ribollente di orge e droga a fiumi. Piccioni Jr alla fine fu scagionato, ma suo padre nel frattempo si era dovuto dimettere da ministro degli Esteri. Ai giorni nostri, poi, ci sono alcuni casi più o meno noti di ribellismi elettorali. Due anni fa, a San Giorgio di Piano, in provincia di Bologna, il figlio del locale segretario Pd si è candidato al Comune con i Cinque Stelle, risultando eletto. Poi c’è anche il caso contrario, quando è il padre a ribellarsi al figlio. È il caso di Giambattista Borgonzoni, padre di Lucia, candidata leghista a sindaco di Bologna che è riuscita ad arrivare al secondo turno. Lui, moderato di sinistra, tessé pubblicamente le lodi alla figlia ma annunciò che no, la Lega non l’avrebbe mai votata. Perché i figli, quando ci si mettono sono spietati. Ma anche i genitori…

Di padre in figlia: italiani ultimo pensiero. Veronica Padoan, ricercatrice Cgil e pargola del ministro, alla testa di una protesta dei migranti, scrive “Il Giornale d’Italia” il 23/08/2016. C’era una pasionaria, ad attendere il ministro Andrea Orlando ieri a Foggia. Arrabbiata, per dire un eufemismo, nera: nera come gli occhiali da sole e come la quindicina di manifestanti dietro alle sue spalle. Capeggia la rivolta di “Campagna in lotta”, vorrebbe veder chiuso il “ghetto” di Rignano Garganico dove migranti economici (quelli che una volta sarebbero stati definiti semplicemente clandestini: ma si ha la sensazione che dirlo oggi siamo ormai vietato) vivono nelle baracche in attesa di lavorare nei campi e si chiama Veronica Padoan. Già, come il ministro dell’Economia. Di cui è, d’altronde, figlia. “È dal 2014 che la Giunta Vendola aveva millantato di smantellare il ghetto. Il problema non sono queste micro-comunità – il suo grido – il problema è che non si organizza effettivamente il lavoro nei campi”. E sfoggia, nelle interviste sotto la Prefettura, grande cognizione del tema. D’altronde è una ricercatrice dell’Ires, l’istituto di ricerca sociale fondato dalla Cgil e oggi sotto l’egida della Fondazione Di Vittorio. È anche convincente, quanto meno per chi ancora è succube di certe suggestioni assistenzialistiche che nell’Italia di oggi hanno ben poco senso. Per accorgersi di questa verità, la pasionaria Veronica, dovrebbe semplicemente cercare nella rubrica del suo smartphone il nome “papà”, e chiedere soldi. Oppure, potrebbe rivolgersi alla voce “Eleonora”. È sua sorella, anch’ella Padoan, da poco assunta alla Cassa Depositi e Prestiti con contratto a tempo indeterminato. La Cdp è considerata il bancomat preferito dal governo: chissà che non si trovi qualche “risorsa” per abbattere il ghetto e dare casa, diritti e lavoro alla quindicina di cui Veronica s’è messa a capo. D’altronde, da poche settimane, Eleonora Padoan si occupa all’interno della Cassa (ossia il gruppo pubblico che gestisce il risparmio postale degli italiani ed è controllato proprio dal Tesoro, cioè da papà…) del settore cooperazione e sviluppo internazionale. Che con la Cgil da un lato e i migranti nei campi dall’altro, guarda un po’, pare avere una competenza diretta.  Li troverà, la protettrice dei migranti, i soldi, per un progettino già pronto e firmato Cgil? C’è da ritenersene certi. Poi ci penserà Pier Carlo, a spiegare agli italiani che per loro risorse non ce ne sono, per il patto di stabilità, la richiesta di flessibilità, il Pil col fiato corto e i segnali di ripresa.

Dall'asilo nido ai posti di prestigio Cosa fanno gli eredi dei ministri. Eleonora Padoan assunta alla Cassa depositi e prestiti, la sorella è alla Cgil, Delrio jr fa l'arbitro di calcio. Molti bimbi e under 18, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 22/12/2016, su "Il Giornale". Se Manuel Poletti ha una carriera già brillante nel mondo coop coi fondi pubblici di Palazzo Chigi, altri rampolli di governo non sono ancora sistemati a dovere. Sarà che avendo meno di 10 anni, alcuni ancora neonati, è un po' prestino per fare i dirigenti o i dipendenti di una coop rossa. Si faranno, bisogna avere pazienza. C'è poi che diversi ministri non hanno proprio figli (condizione che, in politica, può risparmiare svariate occasioni di imbarazzo), a iniziare dal primo ministro, Paolo Gentiloni, sposato senza eredi, come pure il Guardasigilli Andrea Orlando («45 anni ma eterno Peter Pan» dicono di lui gli amici), o la ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli, che non ha la laurea ma un marito sì (e pure lui sindacalista e senatore Pd, Achille Passoni), e non risulta avere figli. Senza contare la sottosegretaria Maria Elena Boschi, che è addirittura single. Mentre altri giovani titolari di ministeri hanno pargoli in età da asilo nido (il renziano Luca Lotti, Marianna Madia, Beatrice Lorenzin), o under 18 (come i ministri Angelino Alfano e Carlo Calenda, quarantenne già padre di quattro figli, o il trentenne Maurizio Martina). Con i ministri più anziani però, tipo il titolare del Tesoro Pier Carlo Padoan, si rintracciano curriculum di rampolli già in carriera. La figlia Eleonora Padoan, dopo aver ricoperto il ruolo di senior economist alla Sace, società pubblica di prodotti assicurativi e finanziari, nel 2015, cioè quando il padre era già da oltre un anno ministro dell'Economia, è stata assunta dalla Cassa depositi e prestiti, società controllata all'82% proprio dal ministero del padre. Posto di lavoro ottenuto dalla figlia di Padoan «a seguito di una procedura di job posting iniziata nel novembre del 2014», spiegò la Cdp proprio al Giornale. Non un concorso vero e proprio, ma «una procedura volta a valorizzare professionalità interne al gruppo». Anche l'altra figlia, Veronica Padoan, ricercatrice all'Inca-Cgil, si può incontrare nei pressi di qualche ministero. Fuori, però, a protestare contro il governo in qualche corteo. Questa estate era a Foggia, megafono in mano, insieme ad una quindicina di attivisti e lavoratori africani della rete «Campagna in lotta» a contestare il ministro della Giustizia sulle condizioni di lavoro dei braccianti extracomunitari. Il ministro Graziano Delrio (Infrastrutture) di figli ne ha nove, cinque femmine e quattro maschi («Dopo il nono, abbiamo detto basta»). Anche solo per il calcolo della probabilità, qualche Delrio jr attivo in politica c'è. Renziano, ovviamente, ma senza incarichi di prestigio per ora. Trattasi di Michele Delrio, ventenne, talmente renziano che su Facebook stroncò il governo Letta («Non ha fatto nulla») di cui il padre era ministro. Le cronache locali riportano poi l'hobby di arbitro di calcio di Michele Delrio. Con côté di polemiche incluse, come quando arbitrò un Barletta-Casarano, e fu accusato di faziosità: «Non vorrei che il risultato maturato ieri, sia il frutto di una macchinazione politica a nostro danno...» si infuriò il presidente del Casarano, eliminato dal Barletta calcio. Il ministro all'Ambiente Gian Luca Galletti (Udc), da cattolico, tiene molto all'educazione, e vieta ai figli la visione di cartoni animati volgari, e non solo quelli. «Ho vietato ai miei figli più piccoli di vedere i Simpson e Beppe Grillo - twittò Galletti - Violenza e parolacce non fanno bene ai piccoli. E neanche ai grandi». Mentre Angelino Alfano, da ministro dell'Interno, assicurò che il rischio terrorismo non avrebbe modificato le sue scelte da padre: «Io sono papà di due bambini di 14 e 9 anni, anche loro andranno in gita scolastica e io li autorizzerò. E segnalo che loro non godono della tutela di cui gode suo padre». Per la ministra della Difesa Roberta Pinotti, si era vociferato di un importante destinato alle figlie dopo una missione in Kuwait, oltre ad un Rolex. Ma la Pinotti ha smentito: «Non mi occupo dei regali, c'è una stanza al ministero dove sono custoditi». Poi c'è la neoministra, ma con lunga esperienza politica, Anna Finocchiaro, sposata con Melchiorre Fidelbo. La Finocchiaro ha due figlie, Miranda e Costanza. E su Linkedin c'è il profilo di una Miranda Fidelbo, giovane avvocatessa che dopo un tirocinio al Parlamento Europeo, ora lavora nello studio Severino di Roma. Quello dell'ex ministro Paola Severino.

Poletti jr e gli altri figli dei ministri col lavoro assicurato. Dai banchi del governo hanno attaccato precari, bamboccioni, choosy. E ora pure gli expat. Ma a casa loro..., scrive "Lettera 43” il 21 dicembre 2016. Prima furono i bamboccioni, poi i choosy, gli sfigati e, ancora, i nostalgici della «monotonia» del posto fisso. Poteva Giuliano Poletti non dare il suo contributo alla lista di offese governative ai giovani disoccupati, non ancora laureati o desiderosi di un tempo indeterminato che non arriva mai? Certo che no. E così il ministro del Lavoro davanti alla fuga di 100 mila giovani all'estero ha commentato in modo sprezzante che «questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi». Inutili le scuse per l'espressione un po' troppo colorita, soprattutto davanti a una disoccupazione giovanile al 36,4% (anche se è il valore più basso degli ultimi quattro anni, sic), al neo schiavismo dei voucheristi e all'aumento della precarietà effetto del Jobs Act. Il primogenito di Poletti, invece, è uno di quei giovani (nel senso italico del termine visto che di anni ne ha 42) «non pistola» che hanno deciso di restare in patria. E dire che l'ex sottosegretario Michel Martone lo avrebbe definito uno «sfigato» visto che è sensibilmente fuoricorso («Se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato», a essere precisi). Chissà poi cosa ne pensa il padre, visto che nel 2015 il ministro cadde in un'altra boutade impopolare sui fuori corso. «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21», disse agli studenti all'inaugurazione di Job&Orienta. Una giustificazione, però, Poletti jr ce l'ha: in questi anni si è dedicato al lavoro e alla famiglia, ha raccontato al Fatto quotidiano. Già il lavoro. Manuel dirige il settimanale Sette Sere Qui diffuso tra Faenza, Lugo Ravenna e Cervia. L'editore è la Coop Media Romagna di cui il figlio del ministro è presidente. Il giornale nel 2015 ha ottenuto 190 mila euro di contributi pubblici, 521.598 in tre anni. Ma lui, ha assicurato, guadagna 1.800 euro al mese. Il solito welfare cooperativo. Come si diceva, Poletti non è certo il solo ad avere preso di mira i giovani, salvo poi poter vantare prole sistemata, stipendiata e soddisfatta. E molto probabilmente pure meritevole e talentuosa, ma questo è un altro discorso. Si prenda per esempio l'ex premier Mario Monti che definì monotono il posto fisso. «I giovani devono abituarsi all'idea di non avere più il posto fisso a vita: che monotonia», disse a febbraio 2012. «È bello cambiare e accettare delle sfide». E, infatti, suo figlio Giovanni Monti di lavori ne ha cambiati parecchi, sempre fissi però. L'enfant prodige bocconiano, classe '73, dopo un po' di "gavetta" come consulente alla Bain and Co, è passato dalla vicepresidenza di Citigroup a quella di Morgan Stanley. Nel 2009 entrò in Parmalat chiamato dall'allora commissario straordinario Enrico Bondi per occuparsi di business development. Esperienza che finì con dimissioni ctinte di giallo. Presso quali lidi sia approdato Monti jr difficile dirlo oggi, anche perché ai tempi della bufera cancellò il suo profilo da Linkedin. Invece, come ha ricordato Il Giornale, qualcosa in più si sa di Federica Monti, la secondogenita, che ha lavorato presso lo studio Ambrosetti, quelli dell'omonimo forum di Cernobbio. Alla faccia della monotonia, Federica ha pure sposato Antonio Ambrosetti: tutta casa e lavoro, insomma. Dai monotoni ai choosy, il passo è breve. Anche Elsa Fornero, che di Monti era ministro del Lavoro, invitò a smettere di cercare un posto a tempo indeterminato. «Il lavoro fisso?», disse, «Un'illusione». Insomma, aggiunse materna, «non bisogna mai essere troppo "choosy" (schizzinosi, ndr), meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale». Sua figlia Silvia Deagliodeve essere stata fortunata. Nata nel 1974, sposata con un dirigente Unicredit, Deaglio è professore associato alla facoltà di Medicina e chirurgia dell'Università di Torino, lo stesso in cui insegnano i genitori. Per sconfiggere la monotonia montiana, la professoressa ricoprì anche un ruolo come «responsabile dell'unità di ricerca» della fondazione HuGeF, attiva nel campo della genetica. Un cervello non in fuga il suo. Anche perché, come scrisse il Fq, la fondazione riuscì a ottenere dai ministeri della Salute e della Ricerca «quasi 1 milione di euro in due anni, 500 mila nel 2008, 373.400 e 69 mila nel 2009». Ma i tecnici non sono stati gli unici ad aver dispensato consigli (non richiesti) alla popolazione di giovani precari italiani. Nel 2008 pure Silvio Berlusconi propose la sua ricetta. Durante la trasmissione Tg2 Punto di vista, a una ragazza che chiedeva come fosse possibile mettere su famiglia senza un'occupazione stabile rispose: «Da padre il consiglio che le do è quello di ricercarsi il figlio di Berlusconi o di qualcun altro che non avesse di questi problemi. Con il sorriso che ha potrebbe anche permetterselo». Dopo nove anni, quello del Cav resta - purtroppo e al netto delle comprensibili polemiche - l'unico bagliore di realtà. A sua insaputa.

·         Benedetto Croce riannodò i fili  dell’Italia ferita e divisa in due.

Benedetto Croce riannodò i fili  dell’Italia ferita e divisa in due. Pubblicato giovedì, 28 marzo 2019 da Corriere.it. Benedetto Croce fu uno dei maggiori filosofi europei del secolo scorso, ma anche, in alcuni momenti della sua vita, un uomo politico. Fu «politico» quando partecipò al dibattito revisionista sulle sorti del socialismo provocato dalle tesi di un grande socialdemocratico tedesco (Eduard Bernstein) tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Fu politico quando prese posizione contro l’intervento dell’Italia in guerra nella primavera del 1915 e quando volle ascoltare il discorso che Mussolini pronunciò al Teatro San Carlo di Napoli il 24 ottobre 1922, mentre le camicie nere mettevano in scena nella capitale del Sud la prova generale dello spettacolo che sarebbe andato in scena a Roma quattro giorni dopo. Fu politico quando promosse un manifesto degli intellettuali italiani contro il fascismo il 1° maggio 1925 e quando votò in Senato contro il Concordato che Mussolini firmò con la Santa Sede nel febbraio del 1929. E fu politico infine durante il Ventennio, quando la sua rivista («La Critica») divenne il solo partito di opposizione tollerato dal regime e una sorta di vangelo liberale per molti giovani fascisti che si affacciavano agli studi universitari negli anni Trenta. Il libro di Fabio Fernando Rizi «Benedetto Croce and the Birth of the Italian Republic, 1943-1952» è pubblicato da University of Toronto Press (pagine 360, $ 75)Conosciamo bene quei capitoli della sua vita, ma avevamo prestato meno attenzione al periodo, tra l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la conquista alleata di Roma nel giugno 1944, in cui il re e il governo Badoglio si installarono al Sud, fra Salerno, Capri e Napoli. Quel periodo è raccontato e studiato ora in un libro pubblicato in Canada dalla University of Toronto Press (Benedetto Croce and the Birth of the Italian Republic, «Benedetto Croce e la nascita della Repubblica italiana»). L’autore, Fabio Fernando Rizi, aveva già scritto un libro su Croce durante il fascismo ed è uno dei più appassionati studiosi del filosofo napoletano nel mondo culturale di lingua inglese. Quando la monarchia scese al Sud, Croce divenne una sorta di padrone di casa. Gli facevano visita tutti coloro (giovani militari, politici e funzionari dello Stato) che avevano attraversato il fronte per schierarsi con l’Italia antifascista e antinazista. Gli facevano visita gli ufficiali americani, inglesi, francesi e polacchi che avevano letto i suoi libri. Lo intervistavano i corrispondenti di guerra. Sulla situazione italiana aveva idee molto chiare. Sapeva che non sarebbe stato facile per il Paese riconquistare la sua credibilità e avanzava tenacemente due proposte. In primo luogo, per riscattarsi, l’Italia avrebbe dovuto partecipare al conflitto con le forze armate dislocate nelle regioni meridionali e con nuovi gruppi di combattimento composti da volontari. In secondo luogo il governo Badoglio e la classe politica prefascista (fra cui soprattutto Enrico De Nicola) avrebbero dovuto convincere Vittorio Emanuele III ad abdicare. Soltanto così sarebbe stato possibile, secondo Croce, ottenere migliori condizioni al tavolo del trattato di pace e salvare la monarchia che a lui, liberale conservatore, sembrava la migliore barriera contro il rischio di una deriva comunista. Scoprì subito che i suoi maggiori avversari sarebbero stati gli Alleati e in particolare Winston Churchill. La Gran Bretagna aveva un conto da regolare con la politica mediterranea di Mussolini e voleva che l’Italia pagasse senza sconti il prezzo della sconfitta. Poteva essere «cobelligerante», ma non alleata. Quanto a Vittorio Emanuele III, non credo che a Londra provassero una particolare simpatia per il sovrano in carica, ma temevano che la sua abdicazione avrebbe pregiudicato la stabilità del Paese. La maggiore vittima di questa politica inglese fu Carlo Sforza. Quando si fermò a Londra per qualche giorno, prima di tornare in Italia, promise che non avrebbe fatto contro i Savoia una politica repubblicana, ma non mantenne la parola, e il governo britannico, irritato, non permise che diventasse ministro degli Esteri. Sforza dovette accontentarsi di un ministero senza portafoglio e realizzò le sue ambizioni soltanto dopo la firma del trattato di pace nel 1947. Anche per l’abdicazione del re fu necessaria molta pazienza. Quando fu chiaro che non aveva alcuna intenzione di abdicare, De Nicola, sollecitato da Croce, lo persuase a permettere almeno che le funzioni del cap0 dello Stato fosser0 trasferite a un luogotenente, nella persona di suo figlio Umberto. Vittorio Emanuele III accettò, ma pretese che la nomina del luogotenente avesse luogo soltanto dopo il suo ritorno nel palazzo (il Quirinale) da cui era fuggito nella notte dell’8 settembre. Voleva, almeno per un giorno, essere re nella sua vecchia casa e nella pienezza delle sue funzioni. L’abdicazione venne quindi più tardi, il 9 maggio 1946, per consentire a Umberto di essere re d’Italia quando gli elettori andarono alle urne per decidere se l’Italia sarebbe stata monarchica o repubblicana. Come ricorda Fabio Fernando Rizi, Croce, in quella fase della sua vita, si dedicò interamente alla politica nazionale. Resistette alle pressioni di coloro che lo avrebbero voluto alla Presidenza del Consiglio, ma fu un diligente ministro senza portafoglio. I suoi rapporti con Togliatti, dopo il ritorno del leader comunista in Italia il 27 marzo 1944, non furono cordiali, ma dopo avere partecipato insieme al governo presieduto da Badoglio, giunsero entrambi alla conclusione che il maresciallo era stato un buon presidente del Consiglio. L’ultima iniziativa politica di Croce è la più interessante. Quando il Parlamento dovette ratificare il trattato di pace firmato a Parigi nel 1947, il senatore Croce si alzò in piedi all’Assemblea Costituente per dichiarare che il trattato era un diktat, che gli Alleati si erano rimangiati le promesse fatte durante la guerra, che le umilianti condizioni imposte al Paese, fra cui la spartizione della flotta e la privazione delle colonie, violavano i principi della Carta Atlantica. «È impossibile», disse, «costringere gli italiani a dichiarare bello ciò che considerano brutto». Il trattato fu ratificato e il futuro dell’Italia smentì le sue pessimistiche previsioni. Ma il suo ultimo discorso fu una straordinaria lezione di orgoglio e dignità nazionale.

·         Prima Repubblica, le due anime dei «partiti laici».

Prima Repubblica, le due anime dei «partiti laici». Pubblicato venerdì, 29 marzo 2019 da Corriere.it. L’esistenza durante la Prima Repubblica di un manipolo di ben due-tre piccoli partiti d’ispirazione genericamente liberaldemocratica (liberali, repubblicani, radicali), detti anche «i partiti laici», è stata una caratteristica tipica del sistema politico italiano. Caratteristica riconducibile alla frattura che il fascismo aveva operato rispetto alla tradizione risorgimentale, di cui quei partiti, nel mezzo secolo successivo alla fine del fascismo, si considerarono una sorta di rappresentanti e testimoni ultimi. Il fatto che poi ad essi venissero aggregati nella stessa dizione anche i socialdemocratici, che evidentemente con il Risorgimento non c’entravano nulla, si dovette solo al fatto che i socialdemocratici collaborarono pressoché ininterrottamente insieme a liberali e repubblicani (dunque esclusi i radicali) con la Democrazia cristiana, dapprima nei governi centristi e poi in quelli di pentapartito, costituendo quella che nel gergo politico del tempo si usò chiamare con un termine complessivo la «Terza forza». A dispetto del titolo, comunque, è soprattutto il ruolo dell’insieme di questi partiti e della loro cultura nei primi cinquant’anni della democrazia italiana che forma il vero oggetto dell’ultimo libro di Massimo Teodori — Controstoria della Repubblica. Dalla Costituzione al nazionalpopulismo (Castelvecchi). Il quale di tali vicende è stato lui stesso in parte protagonista come militante e deputato del Partito radicale. Massimo Teodori, «Controstoria della Repubblica. Dalla Costituzione al nazionalpopulismo» (Castelvecchi, pagine 285, euro 20) Sarà forse anche per ciò se le pagine del libro sembrano risentire ancora molto di una fortissima passione ideologico-politica: da un lato enfatizzando al massimo il rilievo delle vicende e i meriti storici dei partiti laici (peraltro ben noti: in sostanza la difesa dei diritti civili e dello Stato di diritto, nonché in generale il possesso di una certa modernità culturale), e dall’altro lasciando parecchio in ombra, invece, i loro limiti. Una tendenza benevola che contrasta con il tono adoperato invece con i loro antagonisti, cioè i comunisti e i democristiani. Anche il linguaggio risente di continuo di un tale perdurante impegno polemico. In queste pagine, infatti, chi si trova su posizioni opposte a quelle del loro autore — ad esempio su posizioni cattoliche tradizionali non sufficientemente «aperte» — è regolarmente qualificato come un «papista», un «pasdaran», un «oltranzista», un «fondamentalista», come uno che usa «toni forsennati» o esibisce «un vecchio pedigree sanfedista»: quasi che nello schieramento opposto — quello caro a Teodori — avesse invece regnato sempre la tolleranza più smagliante o la più intelligente acribia (ricordo ancora, tanto per dire, un numero del «Mondo» del maggio 1958 in cui si dava a de Gaulle del golpista fascista). Massimo Teodori (Force, Ascoli Piceno, 1938). Venendo comunque al merito delle questioni che il libro solleva, sono in particolare due i nodi storici la cui impostazione mi sembra prestarsi a una discussione critica. Il primo riguarda le origini della Repubblica. L’azione della Chiesa allora mirante all’inclusione nella Costituzione del trattato del Laterano e del Concordato così come più in generale il ruolo dei cattolici in quella congiuntura, si direbbe che appaiano a Teodori qualcosa di sostanzialmente abusivo, quasi come una sorta di illegittima usurpazione, di cui di conseguenza egli dà un giudizio aspramente critico («schiere di preti che occupavano l’Italia»). Mi sembra un caso evidente in cui la passione ideologica tende a sopraffare la realtà delle cose. Un simile giudizio, infatti, non tiene conto innanzi tutto del ruolo centrale che la Chiesa e le sue istituzioni ebbero nel 1943-45, rappresentando per l’intera società italiana un’oasi di umanità nel mezzo delle devastazioni e delle crudeltà imperanti (un’oasi anche di salvezza: a cui tra l’altro dovettero la propria vita anche parecchi esponenti del mondo politico antifascista, compresi molti «laici» illustri: una circostanza non proprio irrilevante). Ma ciò che mi sembra più grave è che un simile giudizio sorvola con troppa facilità sull’ovvia circostanza che nel 1948, come è ben noto, furono solo il massiccio intervento della Chiesa sotto la regia della Santa Sede e l’impegno della Democrazia cristiana che assicurarono al Paese la possibilità di restare al di qua della cortina di ferro e di conservare dei liberi ordinamenti. Duole dirlo, ma per quanto fosse cospicuo il patrimonio ideale degli esponenti dell’antitotalitarismo liberaldemocratico, non furono i loro elettori a salvare/fondare la democrazia italiana. Capisco che non faccia piacere ricordarlo, ma è difficile pensare che per simili «favori» non si sia tenuti a pagare qualche prezzo. Una certa ingerenza clericale, per usare un’espressione frequente di questa pagine, mi sembra il minimo che ci si dovesse aspettare. Può il giudizio storico non tenerne conto? Credo di no. Così come dovrebbe tener conto ben più di quanto qui si faccia — ecco il secondo nodo — delle divisioni all’interno dello schieramento laico. Le quali non furono determinate solo da personalismi, incomprensioni o dissidi tutto sommato di secondaria importanza. Proprio tali divisioni, ad esempio, caratterizzarono aspramente l’ultimo decisivo periodo della Prima Repubblica, favorendone e accelerandone la fine. Ma di esse — strampalataggini dell’ultimo Pannella a parte, qui gustosamente rievocate — nel libro di Teodori non si fa parola. Nulla si dice cioè di quando si dispiegò il tentativo di Bettino Craxi di costruire quel forte polo alternativo tanto alla Dc che al Pci, che fino a prova contraria era sempre stato l’obiettivo perseguito dai «laici». Proprio in questa circostanza si verificò, tuttavia, una spaccatura drammatica, che valse non poco a determinare il fallimento del tentativo suddetto. Verso il quale, infatti, gran parte del Partito repubblicano a cominciare da Ugo La Malfa, nonché gli importanti ambienti «laici» da esso influenzati, vennero maturando un’ostilità sempre più marcata, convinti che solo con l’aiuto del Partito comunista e del suo vasto ascendente sulle masse popolari e sindacalizzate la crisi italiana avrebbe potuto essere avviata a una soluzione. Né è possibile dimenticare come su una linea del tutto simile — anzi per più versi anticipandola, e in ogni caso accentuandola all’estremo — si collocassero in quella stessa occasione una personalità come Eugenio Scalfari e il suo giornale «la Repubblica», entrambi quanto mai rappresentativi di un filone politico-intellettuale e giornalistico certamente centrale della tradizione liberaldemocratica italiana. Il quale filone, tra i «comunisti» Berlinguer e Occhetto da un lato, e il lib-lab Craxi dall’altro, non esitò a scegliere con chi stare. Facendo così emergere ancora una volta l’esistenza di una radicale duplicità di linee politiche che in realtà, a me pare, esisteva da sempre nella tradizione di cui sopra, e che solo la momentanea battaglia contro un nemico comune — fosse il fascismo o il conservatorismo clericale — aveva potuto occasionalmente celare. Da un lato cioè la linea gobettiano-azionista, sempre incline a contaminare l’ispirazione liberale in un incontro con la sinistra marxista, dall’altra la linea riassumibile nella triade Croce, Einaudi, Salvemini, attenta viceversa a mantenere distanze e differenze. Una distinzione a cui però al libro di cui stiamo parlando non è sembrato il caso di prestare alcuna attenzione.

Spadolini e le sue virtù «inattuali» Responsabilità e senso dello Stato. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. Sulla lapide della sua tomba a Firenze volle che sotto il nome fosse scritto semplicemente «un italiano». E certo Giovanni Spadolini, scomparso 25 anni fa il 4 agosto 1994, all’identità nazionale del nostro Paese teneva in modo appassionato e ostinato. Fu capo del governo tra il 1981 e il 1982, il primo non democristiano a Palazzo Chigi dopo la fine della monarchia. Guidò il «Corriere della Sera», la testata di maggior diffusione e prestigio, nata a Milano per opera di un garibaldino napoletano. Fu segretario del Partito repubblicano, erede delle battaglie patriottiche di Giuseppe Mazzini. Tenne a battesimo il ministero dei Beni culturali, che prima di lui era «senza portafoglio», per garantire una tutela organica del nostro patrimonio artistico, bibliotecario e paesaggistico. S’intitola «Giovanni Spadolini. Quasi una biografia» il libro di Cosimo Ceccuti edito da Polistampa (pagine 207, euro 16). Gli uomini che fecero l’Italia, uno dei suoi tanti libri, Spadolini non nascondeva la tendenza a immedesimarsi in alcuni dei personaggi rievocati. E in generale tutta la sua opera storiografica, giornalistica e politica, così come la evoca il suo stretto collaboratore ed erede culturale Cosimo Ceccuti nel volume Giovanni Spadolini. Quasi una biografia (Edizioni Polistampa), fu rivolta a illustrare e difendere, sia pure con uno spirito critico, i valori del Risorgimento. Nato a Firenze nel 1944, Cosimo Ceccuti è stato dal 1969 il più stretto collaboratore di Spadolini sul piano storico e culturale. Nato nel 1925, da ragazzo a Firenze aveva ammirato il filosofo Giovanni Gentile: gli scritti sulla rivista fascista «Italia e Civiltà» gli sarebbero stati poi rinfacciati in modo gratuito e malevolo da avversari politici a corto di argomenti. Ma già nell’immediato dopoguerra, poco più che ventenne, Spadolini aveva compiuto scelte ideali dalle quali non si sarebbe più discostato. Non a caso la sua firma appare sul «Mondo», il settimanale liberaldemocratico diretto da Mario Pannunzio, sin dal primo numero, datato 19 febbraio 1949. La carriera di Spadolini fu rapidissima, favorita da un talento precoce e brillante. I suoi primi libri di storia affrontavano i nodi più delicati nel percorso dell’Italia liberale postunitaria: il rapporto con la Chiesa cattolica e con le masse escluse dalla vita politica, il disagio delle correnti patriottiche democratiche rispetto alle istituzioni monarchiche. Poi sfondò nel giornalismo: nominato direttore del «Resto del Carlino» nel 1955, non ancora trentenne, approdò alla testa del «Corriere» nel 1968 e si trovò ad affrontare la fase più aspra delle agitazioni giovanili e operaie, poi il trauma della strage fascista di piazza Fontana. Sostituito a via Solferino da Piero Ottone nel 1972, Spadolini fu eletto senatore nelle liste del Pri e due anni dopo divenne ministro dei Beni culturali nel governo Moro-La Malfa. Fu l’avvio di un’altra ascesa impressionante in campo politico, culminata nella presidenza del Consiglio raggiunta nel 1981, con il compito immediato di porre riparo ai guasti dello scandalo P2. Benché potesse apparire un personaggio ottocentesco, Spadolini sapeva usare i mezzi di comunicazione moderni, in sintonia con l’allora capo dello Stato Sandro Pertini. La sua mole faceva la gioia dei vignettisti. Inventò formule efficaci come le «quattro emergenze» e il «decalogo istituzionale», seppe interpretare l’euforia di un Paese che usciva dall’incubo degli anni di piombo nei giorni del Mondiale spagnolo vinto dagli azzurri di Enzo Bearzot nel 1982, affacciandosi da Palazzo Chigi di fronte alla folla festante.

Mediatore per indole, tendeva a stemperare i contrasti, ma sapeva puntare i piedi quando riteneva che fossero in gioco quelli che chiamava «interessi indisponibili» del Paese. Europeista, grande amico degli Stati Uniti e di Israele, quando i guerriglieri palestinesi sequestrarono la nave Achille Lauro e assassinarono l’ebreo paraplegico Leon Klinghoffer, nel 1985, mostrò da ministro della Difesa di aver capito meglio di altri quale minaccia potesse rappresentare il terrorismo mediorientale.

Soprattutto Spadolini, che fu anche presidente del Senato dal 1987 al 1994, aveva un forte senso dello Stato: c’era in lui la consapevolezza profonda, alimentata dagli studi storici, che la libertà non si può dare per scontata e richiede una continua vigilanza, fondata sulla responsabilità istituzionale. Una concezione oggi fuori moda, che invece sarebbe urgente recuperare.

Luigi Offeddu per il “Corriere della Sera” il 18 marzo 2019. «In questo Paese, viviamo. È l'ora di guardarlo negli occhi. Ma lo è anche di guardarci negli occhi pure tra noi. A tutti, anche a chi scrive, faceva comodo pensare che tutto il marcio si annidasse nella classe politica, che bastasse buttare al macero quella per risanare l'Italia, e che per compiere questa operazione bastasse e possa ancora bastare qualche "regola" nuova. Non è così. E se persistiamo in questo autoinganno, al macero ci andiamo tutti». La domanda è sempre: «Ma il Paese è meglio della classe politica?». Per Montanelli, la risposta era sottintesa: no, forse no. Ed ora, lasciato questo mondo dal 2001, dopo aver transitato in vita, con il naso turato, per decine di Italie diverse ma sempre uguali, il grande di Fucecchio si affaccia da una finestrella sul nostro presente. La finestrella si intitola: Cialtroni. Da Garibaldi a Grillo gli italiani che disfecero l'Italia , antologia di ritratti in uscita per Rizzoli domani, a cura di Paolo Di Paolo con postfazione di Beppe Grillo. E lui, Indro, torna a metterci in guardia. Perché vide la Prima e la Seconda Repubblica, non fece in tempo a vedere la terza. Ma è come se la vedesse ora, nel ritrarre alcuni grandi del passato. Garibaldi, per esempio? «Un grosso pasticcione, ignorante». Ma coraggioso. Onesto, sì. E fra i protagonisti del Risorgimento, «l' unico che seppe suscitare qualche entusiasmo popolare, anche se dovuto più ai lati spettacolari, pittoreschi e buffoneschi del suo modo di essere e di apparire (la papalina, il poncho eccetera) che non a delle vere qualità di capo». Il poncho, e oggi le felpe: per ovvie ragioni temporali qui non si possono forzare certi paralleli. Ma certo, le piroette sulfuree del grande che scrive inducono in tentazione. Tutti i «cialtroni» vaganti in secoli e sotto regimi diversi, riassunti da Montanelli nel ritratto di Umberto Bossi, si raccolgono «in questa Patria che sarà anche, come lui la chiama, "ladrona", ed anche cialtrona, disordinata, zozza, di gamba lesta e facili, anzi facilissimi costumi; ma di cui ora ci accorgiamo all' improvviso che è pur sempre la nostra mamma; e ce ne accorgiamo grazie alle frustate che le infligge Bossi, in un linguaggio che ci fa quasi ricordare con nostalgia quello del Duce buonanima col suo "popolo di eroi, di santi e di navigatori" che ci aveva reso tutti sedentari, pantofolai e imboscati». Eccoli, dunque, i grandi e piccoli italiani. Spadolini: «Se fosse nato gallo, nessuno gli avrebbe tolto di testa che il sole nasceva ogni mattina per sentirlo cantare». O Pertini: «Un uomo onesto, coraggioso e coerente con le proprie idee (anche perché ne aveva pochissime)». O Togliatti, che «non dava del tu neppure a sé stesso». Ecco Roberto Farinacci, segretario del Partito fascista, uno che non andò in guerra: «Rimasto a fare il capostazione a Cremona (Paolo Monelli, parafrasando il motto francese à la guerre comme à la guerre , "alla guerra come alla guerra", aveva coniato per lui quello di à la gare comme à la gare , "alla stazione come alla stazione"), non aveva benemerenze da esibire. Se le procurò lì perché un giorno, lanciando bombe non contro gli abissini, ma in un laghetto per catturarne i pesci, una gli scoppiò in mano amputandogliela. Il che gli valse una medaglia d' argento e la qualica di "invalido di guerra", anche se la guerra l' aveva fatta ai pesci». E tanti altri. Ora, la domanda è: come andrà a finire? Dalla sua finestrella Montanelli risponde: forse, «dolcemente, in stato di anestesia, torneremo ad essere quella "terra di morti, abitata da un pulviscolo umano" che Montaigne aveva descritto tre secoli or sono. O forse no: rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giochi di potere e d' interesse. L' Italia è nita». Ma sembra pensarlo come lo pensava Giuseppe Prezzolini: sperando, disperatamente sperando, di essere smentito.

MONTANELLI: "TUTTI I CIALTRONI CHE HANNO DISFATTO L' ITALIA". Da Dagospia il 19 marzo 2019. Esce domani nelle librerie "Cialtroni" di Indro Montanelli, una gustosa antologia di ritratti, battute, giudizi di Indro Montanelli sui personaggi storici e attuali che "disfecero l' Italia", curata da Paolo Di Paolo. Per gentile concessione dell' editore Rizzoli, anticipiamo il meglio delle "pillole" montanelliane (quelle tra virgolette sono tratte dalle sue interviste immaginarie ai trapassati), un ritratto di Beppe Grillo e la postfazione di quest' ultimo al libro. Estratto del libro “Cialtroni” con i ritratti di Indro Montanelli pubblicato da “il Fatto quotidiano”.

Giulio Andreotti. "Sì, voglio dire che, proprio per non sovraccaricarmi di scheletri, io non ho fatto molto male ai miei nemici. Ma non ho fatto nemmeno molto bene ai miei amici".

Enrico Berlinguer. Ci manca, un Berlinguer. Uomo di sinedrio più che agitatore di folle, non aveva il carisma né l' oratoria del tribuno: quando appariva su un podio di piazza, sul volto malinconico e nel mesto sguardo gli si leggeva il disagio.

Silvio Berlusconi. Mentiva senz' accorgersene, come io e voi respiriamo, e disinteressatamente: per il piacere infantile d'inventare e senza nessuna pretesa che noi gli credessimo.

 Umberto Bossi. L'ho sempre sentito usare le parole come gli sciancati usano le gambe, gettandone una di qua, l'altra di là, e rovesciando qualunque cosa gli si pari davanti.

Bettino Craxi. Di coraggio ne aveva. Una volta seguii sul video un intervento di Craxi dal suo banco di governo alla Camera. Per due volte s'interruppe alla ricerca di un bicchier d'acqua. Per due volte Andreotti, che gli sedeva accanto, glielo porse. E per due volte egli lo bevve.

Alcide De Gasperi. Se riaprisse gli occhi, De Gasperi non si riconoscerebbe padre di nessuno di coloro che da destra e da sinistra si proclamano suoi figli, e che sono invece i figli del partito che lo tradì.

Enrico De Nicola. De Nicola arrivò a Roma con aria corrucciata e non volle trasferirsi al Quirinale con la scusa che la sua carica era a termine, nella speranza, dicevano i suoi amici, che gliela revocassero, o in quella, dicevano i suoi nemici, che gliela trasformassero in definitiva.

Antonio Di Pietro. Non è un genio. Ma anche lui possiede una certa innocenza, che talvolta sconfina nella sventatezza.

Luigi Einaudi. In pubblico, la sua voce si udiva soltanto per il consueto messaggio di Capodanno: due paginette e via, lette alla svelta, incespicando, senza variazioni di tono e con evidente imbarazzo.

Amintore Fanfani. Catastrofi erano, quelle di Fanfani, precipizi, inabissamenti, che sembravano travolgere non dei governi, ma dei regimi, immancabilmente seguiti dal solenne voto di rinuncia alla lotta e di ritiro dall'agone.

Roberto Farinacci. Si procurò glorie militari in Etiopia perché un giorno, lanciando bombe non contro gli abissini, ma in un laghetto per catturarne i pesci, una gli scoppiò in mano amputandogliela.

Giuseppe Garibaldi . Fu l'unico che seppe suscitare qualche entusiasmo popolare, anche se dovuto più ai lati spettacolari, pittoreschi e buffoneschi del suo modo di essere e di apparire (la papalina, il poncho eccetera) che non a delle vere qualità di capo.

Licio Gelli. Agli italiani si può togliere tutto, meno un Grande Vecchio.

Guglielmo Giannini . D'idee non ne aveva, e lui, intelligente com'era, fu il primo, tra i qualunquisti, ad accorgersene.

Giovanni Giolitti . Per oltre vent'anni, il grande conservatore governò - direttamente o per interposto luogotenente - il Paese introducendovi delle riforme che nessun progressista avrebbe osato o avuto la forza di fare.

Aldo Moro. Era un generale che cercava di evitare la sconfitta arrendendosi prima della battaglia.

Pietro Nenni. "Quando mi presentavo sul palco insieme a Togliatti, come voleva la politica del 'fronte', la piazza era con me, anche se poi alle urne si schierava con lui".

Romano Prodi . Prodi non ce l'ha dato il buon Dio. Ce lo siamo dato noi. Pienamente consapevoli che non era la scelta migliore, ma l'unica che poteva evitarci quella peggiore.

Gaetano Salvemini. L'unico verso il quale un poco propendeva era il Partito d'Azione perché, diceva, "è già morto prima di nascere". E io mentalmente rimuginavo: "Altrimenti ad ammazzarlo provvederebbe lui".

Oscar Luigi Scalfaro. Il suo è rimasto l'unico caso di presidente disceso dal Colle di buon umore Nella memoria dei suoi contemporanei, egli è destinato a restare come l'incarnazione della Noia e il profeta dell'Ovvio, ma di un Ovvio mascherato da Rivelazione.

Vittorio Emanuele III . "Insomma, credo di essere stato fino alla Prima guerra mondiale un vero re: coscienzioso, gelido e ingrato".

Da “il Fatto quotidiano” il 19 marzo 2019. A me Grillo piace. Lo considero il più efficace comico in circolazione. Anzi: "comico" non è la parola giusta. Grillo non è un comico, non è un moralista, non è un predicatore: è tutte queste cose insieme. Nel panorama dello spettacolo italiano - dove abbonda il bollito misto - è un'eccezione ambulante (e urlante). Non soltanto esagera: provoca anche, e insulta, e offende. Ma tutte le categorie di giudizio, con un tipo così, risultano inadeguate. Grillo appartiene ad una specie animale particolare, formata da un solo esemplare: lui. O lo strozziamo o lo applaudiamo. Io, appena posso, lo applaudo. Perché i suoi eccessi, a differenza di quelli di Sgarbi, odorano di bucato. Detto questo, resta aperta una questione: le parodie violente, i sarcasmi sanguigni, la caricatura grottesca della società fatti da Beppe Grillo sono alla portata di tutti? Non rischiamo che qualcuno lo prenda alla lettera? (So, ad esempio, che è stato criticato sull'Unità per aver paragonato i gas delle automobili a quelli dei campi di sterminio nazisti). In altre parole: è opportuno che a un personaggio del genere venga concessa la platea della prima serata Rai? Ebbene: su questo punto, mi astengo. Non sono certo che il grande pubblico sia in grado di capire che Beppe Grillo costituisce la versione genovese del folletto dispettoso delle fiabe, un incubo esilarante, il rigurgito della nostra cattiva coscienza. Chissà: forse è meglio che rimanga "off limits", per il suo stesso bene. Anche se mi mancherà. Indro Montanelli (11 gennaio 1996).

 LA RISPOSTA DI GRILLO. Osservare il nostro Paese, descriverne le dinamiche, porsi delle domande, poi porle agli altri e con insistenza. Lasciando agli occhi curiosi e severi l'onere del pressing. Una o due volte ho sognato persino di essere io Indro, abbandonare lo status di comico e smettere di prendere per il collo il pubblico nei teatri, magari lasciandotelo fare a te qualche volta Questa raccolta di perle scritte da Montanelli è un ritratto seriale di questa terra: da Garibaldi sino al rigurgito della nostra cattiva coscienza; perché senza rigurgito è impossibile parlare di un' infinita pazienza, anche se si tratta di una grossa penisola. È anche l'eco di una sfida: un ritratto di un Paese, noi, e di un italiano, Indro, che ci ha tenuto molto a lungo sotto la sua lente analitica e appassionata. Ma, sempre: cosa ci fosse allora e cosa adesso, in questo Paese, da renderlo degno di qualsiasi possibile sforzo per rianimarlo è difficile a dirsi. In che cosa siamo rimasti meritevoli, nostro malgrado? Se mi soffermo su Indro cosa posso chiedermi? () Cosa può esserci di più distante fra il "severo" giornalista e scrittore e un comico controverso come me? Pensate alla parola "controverso" e avrete una prima traccia: Montanelli si sarebbe fatto uccidere per l' autonomia del suo punto di vista e io lo stesso, ma per una battuta. Un politically scorrect in doppio petto lui, e io uno scanzonato aggressivo, in un Paese che non sembra mai pronto per nessuno e niente. Il percorso di questi articoli è affascinante, è quello di un cronista storico e storico cronista. Un rimpianto che questo Paese un giorno molto lontano avrà proprio con la Storia, stavolta con la S maiuscola. La fretta con cui ripetono tutti che è impossibile cambiarla è tanto cialtrona quanto gli scanzonati futuri che vendiamo a poco prezzo. Sì, la storia non può essere cambiata, così come il futuro indovinato. Indro ci mostra i tanti possibili "dove e quando" sono stati così vicini da poterli toccare: storia e futuro. Si chiama presente, quello che alla gran parte di noi sfugge, capelli al vento. La visione di uno storico ha bisogno di tanto presente: la prospettiva di questa lettura. Però, ricordi? Il mondo, a volte, lo spiega meglio la storia di uno spazzolino da denti che una dissertazione sull' economia circolare. Beppe Grillo (4 febbraio 2019)

·         Dal civilizzato Civil Law al barbaro Common Law. Inadeguatezza Parlamentare e legislazione giudiziaria.

La nostra è semi legalità: le regole vengono scambiate per leggi e lo Stato di diritto langue. Pietro Di Muccio il 12 Novembre 2019 su Il Dubbio. C’è tanta incertezza del diritto e anche la separazione dei poteri è imperfetta senza la separazione degli uomini di potere. È di moda riferirsi alle leggi chiamandole regole. Ma legge e regola non coincidono. La legge è una regola cogente, ha a che fare con giudici e giurisdizione; la regola, no. La maggior parte delle regole non è legge. In verità l’uso della parola “regola” indica che la legge non è ritenuta tale. Nessuno invoca la forza delle regole, bensì della legge. Violare le regole suona meno grave di violare la legge. L’eufemismo insito nello scambio dei termini spiega il successo della sostituzione lessicale. L’abitudine a violare la legge diventa socialmente più accetta perché viene infranta una regola non meglio specificata, quasi confusa nel vasto mare delle convenzioni civili, dal galateo allo sport. Per i Romani régula significa regolo, riga, squadra, asticella. Ma nel senso di norma giuridica era régula iuris. Per Cicerone Lex est iuris atque iniuriae regula: la legge è la regola del giusto e dell’ingiusto. Ecco il punto. Tolte dal loro rapporto con il diritto, con la giustizia e l’ingiustizia, le regole perdono la loro anima di ferro e diventano obblighi sociali, impegni della convivenza civile. Chiamare regole le leggi tradisce la predisposizione ad infischiarsene ovvero a pretenderne un’applicazione elastica, in qualche modo contrattata e condivisa, come amano dire. Quanto gl’Italiani tengano in conto le regole può osservarsi, per esempio, nelle partite di calcio, dove i giocatori recriminano e ingiuriano l’arbitro, mentre la folla irride e insulta gli uni e l’altro. Altre volte mi è capitato di scrivere che l’Italia vive in una permanente condizione di semi legalità, sebbene ami considerarsi Stato di diritto, il quale, di suo, può significare varie cose. In una prima accezione, designa uno Stato in cui esiste un’avanzata civiltà giuridica. In una seconda accezione, sintetizza ed evidenzia un ordinamento nel quale il complesso delle situazioni giuridiche soggettive, pubbliche e private, attive e passive, risulta da norme obiettivamente stabilite (certezza del diritto), valide per tutti (generalità e astrattezza del diritto), emanate da un potere a ciò delegato (sovranità della legge). In una terza accezione, può considerarsi quell’ordinamento nel quale si realizza una soddisfacente bilancia dei poteri, per cui “il potere frena il potere e la libertà è salva”. In nessuna delle tre accezioni il nostro può assimilarsi pienamente all’ideale Stato di diritto. Quanto alla civiltà giuridica, la mancanza di un vero e proprio habeas corpus con la libertà su cauzione, della detenzione separata per gl’incolpati non giudicati, del rimborso totale delle spese di giustizia agli assolti, basta, ancora per esempio, a seminare più di un dubbio. Quanto alla certezza del diritto, è esperienza comune che regna l’incertezza in quasi tutti i campi giuridici, essendo la legge né generale né astratta né univoca ma troppo spesso un mascheramento di provvedimenti senza rispetto dell’uguaglianza e della coerenza, a tacere della giungla di norme giuridiche non legislative. Quanto alla sovranità della legge, appare evidente che una qualità si è pervertita nel peggior difetto perché con il nome di legge passano comandi e ordini emanati dall’autorità legislativa, anziché norme qualificabili giuridiche in senso stretto. L’equivoco tra i due concetti di legge è «tra le principali cause del declino della libertà, declino cui la teoria giuridica ha contribuito tanto quanto la dottrina politica» ( Hayek). Nella terza accezione, la Costituzione a molti sembra aver stabilito un appropriato sistema di checks and balances, generalmente tradotto “pesi e contrappesi” ma meglio invece rendere con la formula “controlli e bilanciamenti”, più espressiva del pensiero dei Costituenti americani. Alcuni sostengono che il sistema italiano sia addirittura troppo imbrigliato dalla bilancia dei poteri. Mentre a me sembra che la separazione delle persone preposte all’esercizio dei poteri costituzionali sia imperfetta. Infatti, specialmente nei rapporti tra politica e magistratura, l’indirizzo costituzionale e legislativo dovrebbe attenersi ad un principio che non mi stanco di ribadire così: non esiste separazione dei poteri senza separazione degli uomini di potere. E considero l’indispensabile esplicitazione e completamento dell’articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: «Le società nelle quali non è assicurata la garanzia dei diritti né determinata la separazione dei poteri, non possiedono affatto una Costituzione». Non è allora che Il 1789 gl’Italiani lo stanno ancora aspettando?

Il Civil Law, ossia il nostro Diritto, è l’evoluzione dell’intelletto umano ed ha radici antiche, a differenza del Common Law dei paesi anglosassoni fondato sull’orientamento politico momentaneo.

Il Diritto Romano, e la sua evoluzione, che noi applichiamo nei nostri tribunali contemporanei non è di destra, né di centro, né di sinistra. L’odierno diritto, ancora oggi, non prende come esempio l’ideologia socialfasciocomunista, né l’ideologia liberale. Esso non prende spunto dall’Islam o dal Cristianesimo o qualunque altra confessione religiosa.

Il nostro Diritto è Neutro.

Il nostro Diritto si affida, ove non previsto, al comportamento esemplare del buon padre di famiglia.

E un Buon Padre di Famiglia non vorrebbe mai che si uccidesse un suo figlio: eppure si promuove l’aborto. 

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe avere dei nipoti, eppure si incoraggia l’omosessualità.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe difendere l’inviolabilità della sua famiglia, della sua casa e delle sue proprietà, eppure si agevola l’invasione dei clandestini.

E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe che la Legge venisse interpretata ed applicata per soli fini di Giustizia ed Equità e non per vendetta, per interesse privato o per scopi politici.

Mi spiace. Io sono un evoluto Buon Padre di Famiglia.

 “In Italia i diritti dei cittadini dipendono dalle sentenze dei giudici”. “Stiamo passando a un sistema di common law”, dice Luciano Violante: “La legge del Parlamento conta sempre meno”. Annalisa Chirico il 19 Marzo 2019 su Il Foglio. L’Italia non è più un sistema di civil law. Detto così, suona perentorio, eppure quando il professore Luciano Violante pronuncia l’impronunciabile, nella sala della Camera di commercio fiorentina i presenti sollevano lo sguardo: ha detto proprio così? Pensavamo che il modello italiano si fondasse sulla codificazione del diritto scritto e sul ruolo preminente della legge nel guidare le decisioni della magistratura, chiamata ad applicare la normativa vigente al caso concreto. Violante invece rompe il tabù. Sotto gli occhi della presidente del tribunale di Firenze Marilena Rizzo e del numero uno della Camera di commercio Leonardo Bassilichi, il presidente emerito della Camera dei deputati spiega che “l’ordinamento italiano sta scivolando gradualmente verso un modello di common law dove al diritto legislativo si sostituisce quello giurisprudenziale: i diritti dei cittadini non dipendono più dalla legge del Parlamento ma dalle sentenze dei giudici”. Com’è noto, il sistema anglosassone si basa segnatamente sulla vincolatività delle sentenze per i casi futuri: in nome del cosiddetto stare decisis, il giudice è vincolato dal precedente giudiziario in una materia analoga. L’ex presidente della Camera denuncia che sempre più spesso “si assiste a decisioni contraddittorie emesse da un unico organo, con inevitabile pregiudizio per lo sviluppo economico e per la certezza dei rapporti tra le persone”. La necessità di porre freni alla “tendenziale anarchia attuale”. “La crescente incertezza della legge, problema non solo italiano, deriva dalla sovrapposizione di molteplici fonti legislative che assegnano una responsabilità enorme in capo ai giudici”. In altre parole, la legge del Parlamento conta sempre meno. “Nella giungla di livelli normativi diversi (regionale, nazionale, comunitario, sovranazionale), la risoluzione dei conflitti tra cittadini o tra cittadini e stato è demandata ai magistrati per i quali il precedente non rappresenta un elemento ragionevolmente vincolante. Si assiste perciò a decisioni contraddittorie emesse da un unico organo, con inevitabile pregiudizio per lo sviluppo economico e per la certezza dei rapporti tra le persone”. Il rischio è che il valore vincolante del precedente ingabbi la giurisprudenza. “Non s’intende rendere la giurisprudenza immutabile ma porre un limite alla tendenziale anarchia attuale. Venuto meno il ruolo di agenzie educative e corpi intermedi, ogni forma di tensione sociale si traduce in un intervento giudiziario. Mentre si fa strada in tutta Europa la tendenza a ricorrere alla giurisdizione come strumento ordinario di risoluzione dei conflitti, dovremmo ricordare che essa è una risorsa limitata da utilizzare come ultima ratio. Ogni processo costa allo stato, ai cittadini e alle imprese coinvolte. Il ricorso irragionevole alla giurisdizione va disincentivato”. A Firenze, grazie al Patto per la giustizia siglato tra tribunale, Città metropolitana, Camera di commercio e Fondazione Cassa di risparmio, la percentuale di controversie risolte con la mediazione è salita al 53 percento, contro una media nazionale del 12. “Anziché cedere al vizio nazionale dell’autodenigrazione, dovremmo valorizzare e far conoscere le buone prassi. A parità di risorse e norme, esistono divari di produttività tra gli uffici giudiziari, a conferma che l’organizzazione del lavoro dei magistrati richiede una buona dose di capacità imprenditoriale”. A proposito del ruolo crescente dei giudici, all’estero hanno coniato la formula juristocracy. “L’espressione si riferisce alla giurisdizionalizzazione della società, fenomeno di portata globale che va osservato con particolare attenzione in un paese dove il 40 per cento dei procedimenti penali si conclude con proscioglimenti e assoluzioni. Dietro i numeri ci sono vicende umane, persone costrette a pagarsi l’avvocato, magari additate dai conoscenti o sui giornali. Il diritto penale dovrebbe essere limitato alla lesione dei grandi beni costituzionali, negli altri casi la sanzione amministrativa è sufficiente. Dobbiamo combattere l’idea che più pena voglia dire più ordine: in nome di questa illusione repressiva il Codice, modificato a più riprese, e sempre in modo episodico, senza una logica strategica, si è trasformato nella Magna charta della politica. Il Codice deve fissare il discrimine tra lecito e illecito, non tra giusto e sbagliato. La morale sta da un’altra parte”. L’incertezza della legge e della sua interpretazione dà luogo alla cosiddetta “burocrazia difensiva”, vale a dire alla ritrosia del pubblico ufficiale ad apporre una firma per non incappare in possibili sanzioni. “L’incertezza della norma determina l’incertezza della responsabilità che paralizza macchina amministrativa e iniziativa imprenditoriale. Con l’associazione ‘Italia decide’ abbiamo rivolto un appello al presidente del Consiglio Giuseppe Conte indicando alcune linee di riforma. E’ necessario tipicizzare i casi di responsabilità contabile e le fattispecie penali di abuso d’ufficio e turbativa d’asta; andrebbe inoltre stabilito che non possa integrare colpa grave la condotta del pubblico ufficiale conforme a sentenza della magistratura ordinaria o amministrativa che non sia stata ancora corretta nel grado successivo del procedimento”. Lei sa bene che questa materia non è all’ordine del giorno. “Io non sono più in Parlamento”, chiosa Violante.

Annalisa Chirico. Classe 1986. Dottorato in Teoria politica alla Luiss Guido Carli, apprendistato pannelliano e ossessione garantista. Scrive di giustizia, politica e donne. "Siamo tutti puttane - Contro la dittatura del politicamente corretto" è il titolo del suo bestseller. Sul suo profilo Facebook si legge la seguente frase: "La mente è la mia chiesa, i tacchi il mio paracadute". Presiede Fino a prova contraria - Until proven guilty, il movimento cool per una giustizia giusta ed efficiente.

·         Un Parlamento di "Coglioni" voterà leggi del "Cazzo".

Maurizio Ferrera per il “Corriere della Sera” il 20 giugno 2019. In tutti i Paesi europei la lunga recessione e i crescenti flussi migratori hanno causato insicurezza e paure. Gli elettori tendono a guardare al «qui ed ora». Si chiedono: potrò ancora contare sul reddito di cui dispongo oggi? Riuscirò a mantenere il posto di lavoro (ammesso che non lo si sia ancora perso)? Cosa accadrà ai miei figli? Per un elettore medio non è facile rispondere a simili domande. Mancano le informazioni, le competenze, il tempo per riflettere. Non si frequentano più quei luoghi (dalle sezioni locali dei partiti e dei sindacati alle bocciofile) dove una volta si discuteva insieme dei problemi, si parlava di politica. Oggi si guarda piuttosto la televisione, per i più intraprendenti e i più giovani ci sono internet e i social. È da queste fonti che si attendono le risposte. E a fornirle sono soprattutto i leader dei partiti, che per farsi sentire usano slogan, «sparano» battute, formulano diagnosi e proposte in apparenza chiare e semplici, ma quasi sempre semplicistiche, quando non intenzionalmente ingannevoli. Tale contesto ha favorito l' ascesa del cosiddetto populismo: un modo di fare politica contraddistinto da due caratteristiche. Innanzitutto una ricerca del consenso basata sulla contrapposizione fra «la gente» (i cittadini di Di Maio; gli italiani di Salvini) e le vecchie élite (i tecnocratici di Bruxelles, «loro», ossia i governi di prima), additate come responsabili di ogni problema. In secondo luogo, un modo di governare basato su iperboliche promesse, seguite da pasticciate realizzazioni (pensiamo a quota cento, ai famosi «rimpatri», al reddito di cittadinanza) e soprattutto da una impressionante irresponsabilità finanziaria. Spendere di più anche se i soldi non ci sono. Tassare di meno, senza ridurre alcun servizio o prestazione. Dicendo che tutto andrà per il meglio. I partiti populisti - di destra e di sinistra - sono comparsi e cresciuti in tutta Europa. Ma solo in Italia sono diventati maggioranza e hanno conquistato il governo. Fra le varie cause, ce n' è una che merita una particolare riflessione. Rispetto ai Paesi con cui ci confrontiamo, l' Italia ha livelli di istruzione più bassi, più lavoro autonomo tradizionale, più famiglie monoreddito (molte con capofamiglia operaio) e di conseguenza molte più casalinghe. Questi elementi hanno creato le condizioni per una tempesta perfetta: la maggiore vulnerabilità sociale ha generato più paura e insieme più sensibilità a messaggi politici «forti» e rassicuranti, anche se irresponsabili. Gli italiani adulti che non hanno potuto completare gli studi al di là della licenza media o della maturità sono oggi il 40% (dati Eurostat): più del doppio di Francia e Germania, ove la grande maggioranza di elettori ha un diploma post-secondario. Anche la quota di lavoratori autonomi (il 21%, soprattutto commercianti, artigiani e in misura crescente partite Iva) è pari a due volte quella francese e tedesca. Le famiglie con un solo percettore di reddito sono il 40%: una quota davvero anomala in Europa (in Francia e Germania la percentuale è attorno al 25%; la media dell' Unione europea a 15 Paesi, è al 27%). Le donne adulte che stanno a casa sono il 35,7% (media Ue: 27%). Sappiamo che molte vorrebbero un lavoro ma non lo trovano o non riescono a svolgerlo, perché «devono» occuparsi dei figli o degli anziani non autosufficienti, in assenza di servizi. Nei sondaggi sono proprio questi gruppi (in particolare quelli con bassa istruzione) a manifestare maggiori preoccupazioni nei confronti dell' immigrazione e del rischio di impoverimento. Non amano la Ue e sono favorevoli a dare precedenza agli italiani. Molti studiosi chiamano queste categorie i «perdenti della globalizzazione». Si tratta infatti di persone più esposte ai rischi dell' apertura economica e della possibile svalutazione dei propri diritti di cittadinanza, sulla scia dell' immigrazione (maggiore competizione nel mercato del lavoro, nell' accesso alla casa, ai servizi sociali e sanitari). Gli elettori appartenenti a queste categorie hanno poca propensione a informarsi e a partecipare. Hanno - comprensibilmente - bassa «sofisticazione» politica. Sono dunque particolarmente sensibili ai messaggi dei leader populisti. Ciò è vero, si badi bene, anche per gli altri Paesi: la base sociale di Marine Le Pen in Francia o di Geerd Wilders in Olanda è molto simile a quella appena tratteggiata. Ma - ecco la differenza - tale base ha da noi dimensioni molto più ampie. Salvini e Di Maio possono pescare da un bacino più ricco di pesci. In buona parte, la situazione italiana è il frutto dei nostri squilibri di sviluppo, della scarsa attenzione e di insufficienti investimenti nell' istruzione, di politiche industriali e del lavoro mal progettate e mal gestite, di un welfare tutto incentrato sulle pensioni, che è diventato una trappola per l' occupazione femminile, soprattutto al Sud. Un Paese socialmente già fragile si è così trovato del tutto impreparato alle sfide dell' integrazione europea e della globalizzazione. La lunga crisi iniziata nel 2009 ha dato il colpo di grazia. Certo, i profili socio-economici degli elettori non determinano meccanicamente le dinamiche della politica e le scelte di voto. Conta molto la capacità dei leader nel connettersi con le basi sociali con le quali si confrontano. Né il Pd né Forza Italia hanno mostrato di possedere questa capacità. Programmi, stile di leadership e di comunicazione, organizzazione sui territori: tutti inadeguati. Un fallimento oggi evidente nel crollo dei consensi elettorali per questi due partiti. La tempesta perfetta ci ha oggi condotto in una sorta di vicolo cieco. Nel breve, l' unica cosa in cui possiamo sperare è un sussulto di ragionevolezza da parte del governo in carica. Ciò che serve è, però, anche un' alternativa politica «capace» e credibile per gli italiani. Sembra impossibile che non si sia ancora formata entro l'«arco della responsabilità», ossia centrosinistra e centrodestra. Eppure è così. Ed è un ritardo che ci sta costando sempre più caro.

Cassese: «Banalizzano e fanno decidere gli incompetenti: perciò sono contro i referendum». Secondo il costituzionalista, gli strumenti della democrazia diretta semplificano e «non sono adatti a prendere decisioni complesse» Orlando Trinchi il 30 Aprile 2019 su Il Dubbio. «Noi siamo a una svolta, con il passaggio in secondo piano delle due forze politiche che hanno dominato la scena dell’ultimo quarto di secolo. Questa svolta avviene senza che siano attive le forze di opposizione. Più forte, quindi, l’esigenza di tolleranza e misura. Rinnovato il Parlamento, ora va rinnovato il governo». Compito indifferibile degli intellettuali è, per Sabino Cassese, quello di farsi sentire, «per mostrare di essere capaci di interpretare la società in cui vivono». Nel suo nuovo saggio, intitolato significativamente La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia (Il Mulino Editore), il noto giurista – docente presso la School of Government della Luiss, già ministro e giudice costituzionale – ci consegna, in forma di dialogo, pensieri e suggestioni incentrate sulla nuova fase politica dischiusa dal biennio 2017- 2018 e tuttora in corso».

Prof. Cassese, lei scrive che «oggi l’evocazione di forme di democrazia diretta nasconde per lo più tentazioni bonapartiste» : quali sono, a suo avviso, le principali criticità relative all’effettivo esercizio della democrazia diretta? Per quale motivo, in altri termini, il governo del popolo, veicolato da strumenti informatici, potrebbe non funzionare?

«Perché lo strumento referendario comporta decisioni semplici, costrette nel binomio si/ no, e non è quindi adatto a prendere decisioni complesse. Perché coinvolge tante persone e richiederebbe una informazione e conoscenze che queste non possiedono. Perché nella esperienza pratica diffusa ha trovato attuazione solo a livello sub- statale ( cantoni svizzeri, California). Perché l’esperienza insegna che i referendum e le relative campagne sono facilmente preda di gruppi lobbistici».

Il referendum, e in particolar modo il dispositivo del referendum senza quorum, costituisce realmente la più valida espressione della volontà popolare?

«Può riproporre la contraddizione nella quale è oggi il M5S: proclama che il popolo viene prima di tutto, ma, quando si fanno i conti, il Movimento ha solo 112 mila iscritti certificati, circa la metà dei quali vota per la scelta dei candidati, e i candidati vengono selezionati con un numero di voti che oscilla intorno a 1- 3mila».

«L’instabilità governativa è la sagra delle corporazioni». Ne registra una presenza invasiva nell’indirizzo dell’operato istituzionale?

«Si, il nostro populismo dichiara a gran voce di voler dare spazio al popolo, ma pratica di fatto il corporativismo. Legga soltanto i tanti decreti legge convertiti in legge e vedrà che sono la somma di “regali” o “concessioni” fatte a questo e a quello».

Lei scrive che «la nostra Costituzione usa una decina di volte, insieme, diritti e doveri. Abbiamo perso la prima parte, dimenticato la seconda». Ritiene che sia in corso uno spiccato disaccoppiamento di diritti e doveri?

«È una delle più gravi dimenticanze. Il diritto al lavoro è stato invocato mille volte. Il dovere di lavorare, che è consacrato subito dopo nella Costituzione, come contributo al progresso sociale, nell’articolo 4, è stato dimenticato».

Di recente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha elogiato l’attività dei corpi intermedi della società civile. Pensa che la politica – e più nello specifico le forze al governo – attribuisca loro giusta considerazione?

Attenzione per i corpi intermedi vuol dire pluralismo. Il governo in carica è invece attento ai gruppi di pressione, a chi porta voti: è corporativo, non pluralista Oltre al contrasto tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, si sta diffondendo a livello internazionale la competizione tra regimi democratici e regimi autocratici».

Con quale incidenza, a suo avviso, i secondi stanno guadagnando terreno sui primi?

«I sistemi autoritari e quelli semi- autoritari presentano un vantaggio rispetto a quelli democratici: i processi di decisione sono più rapidi, coloro i quali decidono sono pochi e non debbono preoccuparsi di tutelare diritti individuali e collettivi. Mostrano, tuttavia, subito la corda, così come i sistemi che si proclamano democrazie illiberali: una contraddizione in termini, perché non può esservi democrazia senza libertà. La democrazia è semplicemente un completamento degli edifici statali liberali».

Trova che oggi le varie componenti dello Stato da lei indicate – autoritaria, liberale, democratica, sociale o socialistica – si trovino oggi a confliggere in maniera particolare le une con le altre?

«Come hanno osservato Aldo Moro e Massimo Severo Giannini, questi ideali hanno trovato una convergenza nella Costituzione, armonizzandosi. Non vi sono tensioni o conflitti. Piuttosto vi sono parti dimenticate della Costituzione: partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, valore del lavoro al di sopra degli altri, ordinamento democratico interno dei sindacati, favore per l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dei grandi sistemi produttivi. Pensi a quanto avrebbe potuto essere diversa l’Italia se le norme costituzionali riguardanti questi punti avessero avuto attuazione, se non fossero state dimenticate».

Pensa che la narrazione del Paese stia prevalendo sulla realtà delle cose? La comunicazione sta avendo la meglio sul messaggio?

«Non c’è dubbio che viene “narrato” un Paese aggredito dagli immigrati, preoccupato dalla criminalità, povero, piegato su sé stesso, che deve difendersi, svuotato. Ma questo non è solo responsabilità di chi governa, è anche responsabilità delle opposizioni, che non sanno proporre altre idee, muovere altri sentimenti, nutrire altre idealità».

Ignoranza al potere. Grillo vuole sorteggiare i parlamentari ma i suoi deputati sono già stati scelti a caso e lo dimostrano con gaffe ed errori. Alessandro Sallusti, Domenica 29/07/2018, su Il Giornale. Beppe Grillo insiste: la democrazia è superata, in attesa di un nuovo sistema tanto vale estrarre a sorte i cittadini da mandare in Parlamento. Dalle colonne del Corriere della Sera, Sabino Cassese, presidente emerito della Corte costituzionale, gli risponde allibito: sceglieresti tu l'idraulico, il pilota dell'aereo sul quale viaggi o il medico che deve curarti per sorteggio? Se no, perché allora affidarsi a politici incapaci o inesperti? Domande banali nella loro efficace semplicità e chiarezza. Domande che Grillo evita buttandola sull'insulto: «Parole di un parruccone, di un istruito stupido». C'è una cosa che in effetti il professor Cassese non ha chiaro. Quella di Grillo non è una visione o una previsione ma la fotografia della realtà. Il nostro Parlamento già oggi è composto in gran parte da «sorteggiati» che nulla hanno a che fare con il compito che li aspetta. Sono i deputati e senatori grillini che hanno vinto il biglietto per Roma alla lotteria delle primarie (farsa) Cinquestelle. Gente che con quaranta voti di preferenza si è ritrovata dal nulla che era agli scranni parlamentari. Una massa di ignoranti, politicamente parlando ma non solo, ha preso in mano il Paese senza avere titoli, brevetti o capacità, esattamente come l'idraulico, il pilota e il medico evocati da Cassese. Abbiamo una ministra della Repubblica, Barbara Lezzi, secondo la quale il Pil aumenta d'estate perché fa caldo e che voleva ridurre il numero dei parlamentari con un decreto del governo (non si può fare se non cambiando la Costituzione). E abbiamo un sottosegretario all'Interno, Carlo Sibilia, convinto che l'uomo non sia mai andato sulla Luna e presentatore di un progetto di legge per legalizzare matrimoni tra specie diverse. C'è anche l'onorevole, Andrea Mura, convinto di poter fare il deputato dalla sua barca a vela perché l'importante è «fare il testimonial della lotta all'inquinamento del mare». Per non parlare dei vegani, dei No Vax, No Tav e no ricchi che vorrebbero una Italia a loro immagine e somiglianza. Questa è la «democrazia a sorteggio» cara a Grillo. E questi sono i risultati. Caro professor Cassese, il suo allarme giunge ahimè tardi. Possiamo solo sperare nel colpo di fortuna che il prossimo sorteggio peschi qualcuno non dico come lei (non glielo auguro e sarebbe troppo) ma almeno pratico di congiuntivi e se non proprio di Pil almeno di sbarchi sulla Luna. Perché la farsa non diventi tragedia.

Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante. Non si è mai visto un ceto politico così ignorante. Laureati compresi. Colpa della scuola? O di una selezione al contrario? La democrazia rischia di non funzionare se conferisce responsabilità di comando a persone palesemente impreparate. Raffaele Simone il 27 settembre 2017 su L'Espresso. Anche se la legge elettorale ancora non c’è, le elezioni si avvicinano e gli aspiranti riscaldano i muscoli. Tra i più tenaci candidati a capo del governo ce n’è uno giovanissimo (31 anni appena compiuti), facondo, con cipiglio, determinato e ubiquo, ma non ugualmente solido in quel che un tempo si chiamava “bagaglio culturale”. Dalla sua bocca escono senza freno riferimenti storici e geografici sballati, congiuntivi strampalati, marchiani errori di fatto, slogan e progetti cervellotici (recentissimi l’Italia come smart nation e la citazione dell’inefficiente governo Rajoy come suo modello), anche quando si muove in quella che dovrebb’essere la sua specialità, cioè quel mix indistinto di nozioni e fatterelli politico-storico-economici che forma la cultura del politico di fila. Inoltre, Luigi Di Maio (è di lui che parlo) non è laureato. Si è avvicinato al fatale diploma, ma per qualche motivo non lo ha raggiunto. Nulla di male, intendiamoci: pare che in quel mondo la laurea non sia più necessaria, neanche per le cariche importanti. Nel governo Gentiloni più di un ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute, lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino” preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante. Infatti la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… Qualche settimana fa la Repubblica ha offerto lo sfondo a questo spettacolo, mostrando con tanto di tabelle che la riforma universitaria detta “del 3+2”, testardamente voluta nel 2000 dai non rimpianti ministri Berlinguer e Zecchino al grido di “l’Europa ce lo chiede!”, è stata un fiasco. I laureati sono pochi, non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del 2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”) sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale più di 7,4! Quindi, l’obiettivo principale della riforma, che era quello di aumentare il tasso di laureati, è mancato. Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così, come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio? Ma non è finita. Un altro guaio, più serio, sta nel fatto che il ceto politico attuale, e ancor più (si suppone) quello che gli subentrerà al prossimo turno, ha un record unico nella storia d’Italia, di quelli che fanno venire i brividi: i suoi componenti, avendo un’età media di 45,8 anni (nati dunque attorno al 1970), sono il primo campione in grandezza naturale di una fase speciale della nostra scuola, che solo ora comincia a mostrare davvero di cosa è capace. Perché dico che la scuola che hanno frequentato è speciale? Perché è quella in cui, per la prima volta, hanno convissuto due generazioni di persone preparate male o per niente: da una parte, gli insegnanti nati attorno al 1950, formati nella scassatissima scuola post-1968; dall’altra, quella degli alunni a cui dagli anni Ottanta i device digitali prima e poi gli smartphone hanno cotto il cervello sin dall’infanzia. I primi sono cresciuti in una scuola costruita attorno al cadavere dell’autorità (culturale e di ogni altro tipo) e della disciplina e all’insofferenza verso gli studi seri e al fastidio verso il passato; i secondi sono nati in un mondo in cui lo studio e la cultura in genere (vocabolario italiano incluso) contano meno di un viaggio a Santorini o di una notte in discoteca. Prodotta da una scuola come questa, era forse inevitabile che la classe politica che governa oggi il paese fosse non solo una delle più ignoranti e incompetenti della storia della Repubblica, ma anche delle più sorde a temi come la preparazione specifica, la lungimiranza, la ricerca e il pensiero astratto, per non parlare della mentalità scientifica. La loro ignoranza è diventata ormai un tema da spot e da imitazioni alla Crozza. I due fattori (scarsità di studi, provenienza da una scuola deteriorata), mescolati tra loro, producono la seguente sintesi: non si è mai visto un ceto politico così incompetente, ignorante e immaturo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nelle parole, le opere e le omissioni. Si dirà, come al solito, che il grande Max Weber lo aveva profetizzato già nel famoso saggio sulla Politica come professione (1919): «lo Stato moderno, creato dalla Rivoluzione» spiega «mette il potere nelle mani di dilettanti assoluti […] e vorrebbe utilizzare i funzionari dotati di preparazione specialistica solo come braccia operative per compiti esecutivi». Ma il povero Max non poteva prevedere le novità cool dei nostri tempi: per dirne una, la rabbiosa spinta che il movimento di Beppe Grillo avrebbe dato alla prevalenza dell’incompetente. Il caso di Virginia Raggi, per esempio, è da trattato di sociologia politica. Pronuncia carinamente l’inglese, ma è un’icona fulgente dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Lo mostra, tra le mille cose, il suo incessante fare e disfare alla ricerca di assessori, alti funzionari e dirigenti per le partecipate: li raccatta dalle più varie parti d’Italia, senza distinguere tra accademici e gestori di night, li licenzia di punto in bianco, non vede che la città affonda nella monnezza e nell’incuria e intanto, svagata e placida, esibisce al popolo sfinito la più granitica certezza del radioso futuro della Capitale. Max Weber non avrebbe mai immaginato neppure che i destini della Capitale potessero esser telegovernati da un paio di signori che nessuno ha eletto, o che una deputata, che nella vita faceva la ragioniera, sarebbe arrivata a spiegare col forte caldo la lieve ripresa estiva del Pil. Gli incompetenti si sono procurati ulteriore spazio sfruttando senza ritegno il tormentone del rinnovamento di generazione, che, partito dall’Italia, ha contagiato quasi tutt’Europa. Esser giovane in politica è ormai un titolo di merito di per sé, indipendentemente dal modo in cui la giovinezza è stata spesa, anche se i vecchi sanno bene che la giovinezza garantisce con sicurezza assoluta solo una cosa: l’inesperienza, una delle facce dell’incompetenza. La cosa è talmente ovvia che nel 2008 la ministra Marianna Madia, eletta in parlamento ventiseienne, non ancora laureata, dichiarò che la sola cosa che portava in dote era la sua “inesperienza” (sic). La lista che ho appena fatto non contiene solo piccoli fatti di cronaca. Se si guarda bene, è una lista di problemi, perché suscita due domande gravi e serie. La prima è: a cosa dobbiamo, specialmente in Italia, quest’avanzata di persone che, oltre che giovanissime, sono anche I-I-I (“incompetenti, ignoranti e immaturi”)? È la massa dei somari che prende il potere, per una sorta di tardivo sanculottismo culturale? Sono le “famiglie di basso reddito” della Fedeli, ormai convinte che i figli, invece che farli studiare e lavorare, è meglio spingerli in politica? Oppure è l’avanzata di un ceto del tutto nuovo, quello dell’uomo-massa, di cui José Ortega y Gasset (in La ribellione delle masse) descriveva preoccupato l’emergere? «L’uomo-massa si sente perfetto» diceva Ortega y Gasset, aggiungendo che «oggi è la volgarità intellettuale che esercita il suo imperio sulla vita pubblica». «La massa, quando agisce da sola, lo fa soltanto in una maniera, perché non ne conosce altre: lincia». È una battutaccia da conservatore? Oppure la dura metafora distillata da un’intelligenza preveggente? Comunque la pensiate, queste parole non sono state scritte oggi, ma nel 1930. Forse l’avanzata della «volgarità intellettuale» era in corso da tempo e, per qualche motivo, non ce ne siamo accorti. La seconda domanda seria è la seguente: la democrazia può funzionare ancora se conferisce responsabilità di comando a persone dichiaratamente I-I-I? Forse in astratto sì, se è vero che (come pensava Hans Kelsen) la democrazia è «il regime che non ha capi», nel senso che chiunque può diventare capo. In un regime del genere, quindi, chiunque, anche se del tutto I-I-I e appena pubere, può dare un contributo al paese. Napoleone salì al vertice della Francia a 29 anni e Emmanuel Macron (suo remoto emulo, dileggiato dagli oppositori col nomignolo di Giove o, appunto, di Napoleone) è presidente della Repubblica a 39. Nessuno di loro aveva mai comandato le armate francesi o governato la Repubblica. Ma ammetterete senza difficoltà che tra loro e Luigi Di Maio (e tanti suoi colleghi e colleghe con le stesse proprietà, del suo e di altri partiti) qualche differenza c’è.

I politici ignoranti che vivono a loro insaputa. Festeggiano il 17 marzo ma non ne conoscono nemmeno i motivi storici. E sul nucleare.... Franco Bechis il 19 Marzo 2011 su Libero Quotidiano. Nichi Vendola ha votato per riaprire le vecchie scassate e insicure centrali nucleari di Trino Vercellese e Corso, ma l’ha fatto a sua insaputa. Lui, come decine di altri deputati di sinistra e di destra, non aveva nemmeno letto l’ordine del giorno sul nucleare che il 30 luglio 2004 fu votato alla Camera. Siccome il governo aveva detto di no, e il governo era guidato da Silvio Berlusconi, l’opposizione ha detto sì. Ed è diventata nuclearista a sua insaputa. Accade spesso, ormai. Grazie al formidabile servizio de Le Iene abbiamo assistito a un altro evento unico e clamoroso. Da mesi le sorti dell’esecutivo e della legislatura erano appese alla necessità di avere comunque un governo in carica il 17 marzo 2011, perché Giorgio Napolitano così pretendeva per dare il via alle celebrazioni del 150° anno dell’unità di Italia. Per settimane maggioranza, opposizione e perfino forze sociali si sono accapigliate sulla introduzione della festività infrasettimanale, che naturalmente qualche problema ha causato alle imprese proprio in un anno in cui si sventolava la bandiera della produttività. Da giorni gran parte del parlamento, e quasi tutta la stampa, si è dedicata a linciare i distinguo leghisti, scandalizzandosi per chi il 17 marzo non desiderava festeggiare. E finalmente giovedì festa è stata. Un’overdose di festa, che ha inondato più di uno tsunami ogni città, ogni palazzo della politica, qualsiasi trasmissione televisiva, perfino l’apertura di ogni telegiornale, spazzando via appunto come un maremoto il dramma del Giappone, la crisi della Libia e ogni altra notizia. Bene, grazie alle Iene  è stato evidente a tutti che il 17 marzo gran parte della classe politica italiana ha festeggiato a sua insaputa. Nel senso che non aveva la minima idea di cosa si dovesse festeggiare in quella data. Per il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, il 17 marzo si sarebbe festeggiato l’inizio delle cinque giornate di Milano (che per altro iniziarono il 18 marzo, ma del 1848, quindi 163 anni fa). Per il vicepresidente della Camera dei deputati, Rosy Bindi, il 17 marzo è stato scelto perché è la data in cui Roma divenne capitale (accadde nel 1871, e quindi sarebbero 140 anni). Per Fabio Mussi, amico del cuore di Massimo D’Alema, non c’è un motivo per cui si festeggi il 17 marzo: «non lo so… è una data…». Per Carlo Barbaro, finiano di ferro, ultranazionalista «cosa accadde il 17 marzo di 150 anni fa? Di preciso non glielo so dire… La breccia di Porta Pia non credo.. O forse sì, proprio la breccia di Porta Pia». Un intellettuale di sinistra come l’ex presidente delle Acli, Luigi Bobba, è sembrato sgomento di fronte alla domanda: «Il 17 marzo? Non me lo ricordo. Il primo re di Italia? Sì, Umberto I». Da gran democristiano prova a cavarsela l’ex deputato dell’Udc, Vincenzo Alaimo: «Il 17 marzo? Non lo ricordo, però per averlo scelto vuole dire che è successo qualcosa di importante». L’intervistatrice prova a confonderlo con la risposta che in tanti danno: «La Breccia di Porta Pia? Ma quella è stata nel Novecento… L’anno preciso? Dunque nel ’46 c’è stata la Liberazione… forse nel ’45, nel ’44…».  Naufragio totale. Risponde da perfetto peone Franco Cardiello,  Pdl: «Il 17 marzo? Non è successo nulla. Evidentemente quella della data è una scelta condivisa». Come dire: a noi peones le decisioni passano sempre sulla testa. Si vede che la sinistra voleva festeggiare il 19, la destra voleva festeggiare il 15 e alla fine hanno condiviso la scelta del 17. Non solo fine storico, ma anche gran matematico  Vincenzo D’Anna, deputato che è andato  a infoltire le fila dei Responsabili: «Si festeggia l’Unità di Italia, che è stata realizzata nel 1860, quando è stata liberata Roma con l’impresa di Porta Pia. Come? Sono passati 151 anni dal 1860? No, perché il 1860 non si conta. Si inizia a contare dall’anno successivo». Nel suo gruppo parlamentare neonato deve esserci  confusione. Perché anche il collega “responsabile” Vincenzo Taddei sostiene che sono passati 150 anni da quel 17 marzo 1860 in cui si fece l’unità.  E chi la fece? «Vittorio Emanuele III». L’elenco di castronerie potrebbe continuare a lungo, e in più di un deputato si arricchisce della certezza su  Garibaldi: «fu soprannominato eroe dei due mondi perché fu eroe per il Regno delle due Sicilie e per il resto di Italia». Il servizio integrale è disponibile sul sito internet dNiudiare la storia politica del suo paese è il minimo che si dovrebbe chiedere: non hanno molto altro da conoscere. Ma che nessuno si sia chiesto perché darsi botte da orbi fra pro e contro quella festa del 17 marzo, è davvero lo specchio più genuino di cosa sia oggi la classe politica italiana. Senza bisogno di prendere fra le mani un libro di storia, il perché di quella festa è scritto nel decreto legge del governo che la istituisce. Testo che viene esaminato in commissione, perfino emendato, votato dall’aula dei due rami del Parlamento senza che nessuno naturalmente si sia curato di leggerne una riga. Così come sul nucleare tutti ancora una volta votano e voteranno a loro insaputa. Ormai è diventato questo lo slogan della attività politica. E si comprende   perché dopo essere stato lapidato per avere ammesso che qualcuno gli pagò la casa a Roma a sua insaputa il povero Claudio Scajola ora pretenda una rapida riabilitazione. Ne ha pieno diritto, in fondo è solo uno dei tanti eletti insaputelli… Franco Bechis 

I dilettanti? Siedono in parlamento (e sono pure ignoranti). Pino Pisicchio, veterano di Montecitorio, dati alla mano dimostra come la nouvelle vague politica sia un fallimento. Carlo Puca, 2 aprile 2015 su Panorama. S’intitola I dilettanti. Ecco, per un veterano come lui, l’autore, questo libro edito per Guerini pare quasi una vendetta. Il primo ingresso al Palazzo Pino Pisicchio lo fa infatti nel 1987, a trentatrè anni d’età. Diventa deputato e da allora non ha mai smesso di frequentare, da eletto e da sottosegretario, il mondo politico. Insomma, in teoria sarebbe uno di quelli da rottamare seduta stante, stando almeno alla vulgata corrente. E però sulle cose della Rai, come su quelle elettorali e altre ancora, Matteo Renzi e i renziani chiedono consiglio eccome, poco ufficialmente, molto privatamente. Forse è per questo che Pisicchio che inserisce, salvandolo, il presidente del Consiglio tra i pochi professionisti della politicaancora in azione. Per il resto, il parlamento sembra la Corrida di Corrado: dilettanti allo sbaraglio. Questione di esperienza, età e cultura, tutti parametri (dati alla mano) che in Italia si manifestano al di sotto della media delle democrazie occidentali. "A mettere a confronto il tasso di ricambio tra il parlamento italiano e quello statunitense" scrive Pisicchio "gli americani appaiono come la succursale del museo egizio del Cairo: il venti per cento di turnover contro il nostro sessantaquattro e una media storica intorno al cinquanta". Il risultato è che "noi, forse, esageriamo un po’ col cambiamento". Così, tanto per gradire qualche cifra: "Le ultime tre legislature all’Assemblea Nazionale francese fanno registrare, in ordine decrescente il 37,6 per cento, il 22,87 e il 30,32 di cambiamento. Nella Camera dei Comuni inglese in questa legislatura il tasso di rinnovamento è del 34,92 per cento, abbastanza alto, considerate le due legislature precedenti: 18,30 e 14,15 per cento. Il Bundestag tedesco della legislatura in corso reca il 34,28 per cento di novità". Quanto poi al "tasso di gioventù" del Parlamento della XVII Legislatura, "la Camera fa registrare la media più bassa di età dopo il 1948: siamo a 45,8 anni a fronte dei 45,5 della Prima Legislatura. Sia chiaro: nonostante in passato possano essere apparsi dei matusalemme, i deputati italiani hanno oscillato come media di età sempre tra i 45/46 e i 50, mantenendosi per tutte le legislature sotto il bordo dei cinquanta salvo le ultime tre prima di questa in corso (50,4 anni nel 2001, 51,9 nel 2006 e 50,8 nel 2008)". Insomma, "fatta eccezione per la Danimarca e per i Paesi Bassi, che registrano la media di 44 anni di età per i rappresentanti della Camera bassa, Montecitorio della XVII legislatura è quasi il giardino d’infanzia del mondo". Infine, la cultura. Nella prima Legislatura della Repubblica (1948-1953) il 91 per cento dei parlamentari era laureato mentre il 90 per cento della popolazione era illetterato. Oggi i deputati addottorati superano di poco il 68 per cento, mentre gli illetterati (uno o neppure un libro letto in un anno) ammontano a circa il 37,6 per cento. Significa, secondo Pisicchio, che «abbiamo assistito a un lento, ineluttabile, progressivo scivolamento verso una diversa concezione della funzione del parlamentare e, più in generale, della politica: da pedagogia democratica a strumento sostitutivo di un'attività lavorativa. Dunque non politica come vocazione e neppure come professione. Mestiere, solo mestiere», peraltro fatto con svogliatezza. L’autore non risparmia esempi, dalle unghie smaltate in Aula all’abbigliamento da discoteca o (peggio) da balera) fino alle castronerie linguistiche e giuridiche (tipo la lotta al grano saraceno perché straniero). Dilettanti e pure ignoranti questi politici.

·         La maledizione dei Presidenti della Camera dei Deputati.

Gianfranco Fini e la maledizione del presidente della Camera: Roberto Fico finirà come lui? Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 6 Giugno 2019. C'è una specie di maledizione di Montezuma che colpisce chi mette piede sullo scranno più alto di Montecitorio: chiunque ricopra quella carica diventa una caricatura e spesso fa una cattiva fine politica. È una maledizione che ormai dura da 25 anni e da sette legislature e copre Seconda e Terza Repubblica. Da essa non pare immune l' attuale primo inquilino della Camera, Roberto Fico, colui che voleva dedicare la Festa della Repubblica a rom, sinti e migranti ma che ora rischia di subire la loro stessa sorte, finendo a spasso, da nomade della politica senza fissa dimora. Dovesse cadere il governo e dovessero esserci nuove elezioni, il presidente della Camera sarebbe il primo a subire un depotenziamento non solo a livello istituzionale ma nello stesso Movimento, dato che le sue posizioni e affermazioni vengono viste con disappunto ormai pure da Di Maio e dalla base del partito. Lui, l' ortodosso pentastellato, il più fedele ai principi originari dei 5 Stelle, viene percepito quasi come un eretico. Uno che fa perdere voti e credibilità, in una fase in cui entrambi latitano non poco per il Movimento. Vorremmo dire che è solo colpa sua, del suo aver trasformato una sede istituzionale in un fortino ideologico dove fare politica a sinistra, del suo voler essere a prescindere bastian contrario di Salvini, barba napoletana contro barba milanese, del suo fraintendere le feste rosse sul calendario, dal 25 aprile al 2 giugno, come feste dei rossi, e rendere i riti civili occasioni di guerra civile, tra pugni chiusi e dediche ai cittadini rom anziché romani (SPQR per lui è acronimo di Senatus Populusque Rom). Tuttavia dobbiamo riconoscere che la responsabilità non è soltanto della sua persona, delle sue convinzioni e discutibili qualità politiche, ma anche del ruolo istituzionale che ricopre e che quest' anno compie le nozze d' argento della Sfiga.

BRUTTE FIGURE IN SERIE. Ai tempi della Prima Repubblica chi assurgeva all' incarico di presidente della Camera prima o poi diventava capo dello Stato: Montecitorio era una sorta di viatico, di anticamera per il Quirinale. Basti pensare a Saragat, Gronchi, Leone, Pertini, Scalfaro e Napolitano, tutti passati dalla stessa trafila, da medaglia di bronzo a medaglia d' oro, da terze a prime cariche dello Stato. I terzi saranno i primi. Poi però qualcosa deve essere cambiato, forse i nuovi equilibri della Seconda Repubblica, quel bipolarismo muscolare che impediva che il presidente della Camera, espressione di un partito, diventasse presidente di tutti; forse la diversa statura politica e intellettuale degli interessati. Fatto sta che, dalla Pivetti in poi, occupare la poltrona più alta di Montecitorio è diventata quasi una condanna. Sia per i personaggi che ci sono finiti sia per chi li ha sistemati lì, credendo così di renderli inoffensivi e ritrovandosi invece una brutta gatta da pelare. Su sette presidenti della Camera, a partire dal '94, in quattro sono praticamente scomparsi dalla scena politica (Pivetti, Violante, Bertinotti, Fini); gli altri due (Casini e Boldrini) occupano ormai posizioni residuali, rappresentando partiti che valgono percentuali da prefisso telefonico. Resta appunto Fico, e non sembra passarsela benissimo. Il problema è che, pur essendo terza carica dello Stato, la presidenza della Camera ha perso da tempo il suo ruolo di terzietà: Bertinotti ne ha fatto un fortino anti-Prodi, contribuendo alla caduta del suo governo ma anche alla propria rottamazione; Fini l' ha trasformato in un avamposto anti-Berlusconi, facendo harakiri: perché chi di Montecitorio ferisce di Montecarlo perisce; Boldrini ha creduto di renderlo l' ultimo feudo della sinistra comunista, de-comunistizzata da Renzi: è vero, Matteo non ha retto, ma anche Laura si è autoeliminata; e quindi c' è Fico che fa il controcanto a Salvini, a Di Maio, se possibile a Conte, sentendosi il quarto incomodo escluso dal terzetto di testa, e desideroso di salire sul podio, a costo di farlo rovesciare, il podio.

CARICA IDEOLOGICA. A ciò si aggiunga la spiccata matrice ideologica della carica nelle ultime due legislature: tra Boldrini e Fico, Montecitorio è divenuto Camera rossa e rumorosa, altro che aula sorda e grigia, tempio del Politicamente Corretto, luogo ideale di ritrovo di clandestini, rom, migranti e camminanti. Fosse per quei due, il Parlamento dovrebbe trasformarsi in un grande centro di accoglienza. Lo chiamano Transatlantico ma per Laura&Roby sarebbe meglio definirlo Barcone Il punto però è che, facendo la fronda al governo o addirittura tradendo, tutti costoro si sono fregati con le loro stesse mani. Volevano fare i rivoluzionari dentro il Palazzo, sono finiti vittime della loro Rivoluzione. E così la Camera, da anticamera per il Quirinale, si è ridotta ad anticamera per la pensione. Anche Fico insomma si prepari: presto diventerà un Fico secco. Gianluca Veneziani

La maledizione dei presidenti della Camera. Da Casini a Fico, passando per Bertinotti, Fini e la Boldrini. A partire dai primi anni 2000 tutti i presidenti della Camera non hanno mai svolto il proprio ruolo in modo imparziale ma hanno sempre deciso le sorti del governo, scrive Francesco Curridori, Lunedì 02/07/2018, su "Il Giornale". Da Casini a Fico, passando per Bertinotti, Fini e la Boldrini. La chiamano “la maledizione dei Presidenti” e, a partire dai primi anni 2000, ha colpito tutti gli inquilini di Palazzo Montecitorio. La terza carica dello Stato, dalla Seconda Repubblica in poi, fatta eccezione per Luciano Violante, è stata destinata al leader di uno dei partiti minori che componevano la maggioranza di governo. Il Presidente della Camera, poi, è un ruolo istituzionale e chi lo ricopre, solitamente abbandona gli incarichi di partito per assumere, appunto, un aplomb istituzionale, al di sopra delle parti. Ed è così, nel 2001, dopo la vittoria del centrodestra che riporta Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, Pier Ferdinando Casini lascia la guida del suo partito per accasarsi a Montecitorio. Marco Follini diventa prima segretario dell’Udc e, poi, dal 2004 vicepremier. Da quel momento Casini e Follini giocheranno in tandem per “puntellare”, o meglio martellare il governo. "L'Udc sta facendo molti errori. Casini? Non sa dove andare, si trova in mezzo al guado", dirà Berlusconi sempre più infastidito dai continui distinguo dell’allora presidente della Camera. Si arriva alle Regionali del 2005 che decretano una sconfitta per Berlusconi che viene costretto a dar vita a un nuovo esecutivo. Follini ne resta fuori per dedicarsi al partito e nel 2005 si dimette da segretario e di lì a poco passa col centrosinistra. Casini, qualche anno dopo, seguirà la sua stessa strada e la carriera politica di entrambi ne risentirà in maniera decisiva. Fare i “grilli parlanti” della propria maggioranza di governo, non paga. Lo sa bene Fausto Bertinotti che diventa presidente della Camera grazie al 5,8% ottenuto da Rifondazione Comunista alle Politiche del 2006. A distanza di 10 anni, la sinistra litiga ancora su chi sia il responsabile della caduta del secondo governo Prodi: se Clemente Mastella che gli tolse la fiducia o, pur usare le parole del ‘Professore’, “chi ha minato continuamente l'azione del governo, di chi ha fatto certe dichiarazioni istituzionalmente opinabili...”, ossia Bertinotti che lo aveva paragonato al “più grande poeta morente”. Non solo. L’allora presidente della Camera aveva definito il suo governo “un brodino caldo”. Espressione che gli si rivolterà contro dopo il voto delle Politiche del 2008, quando la sinistra radicale, per la prima volta, non entra in Parlamento. Prodi si vendicherà dicendo: “A Bertinotti consiglio di rinfrancarsi con un brodino riscaldato”. Una sorte migliore non è certo toccata a Gianfranco Fini che, dopo aver cavalcato l’onda del giustizialismo e aver fatto cadere il quarto governo Berlusconi nel 2011, è finito egli stesso nel tritacarne dei processi per colpa della famosa ‘casa di Montecarlo’. Resterà indelebile nella memoria della cronaca politica la direzione del Pdl dell’aprile 2010 in cui Fini viene ripudiato come presidente della Camera e come alleato di governo. “Se vuole fare delle dichiarazioni politiche, prima si dimetta dalla presidenza della Camera", sentenzierà Berlusconi. Una frase a cui Fini replicherà con l’ormai notissimo: “Che fai? Mi cacci?”. Il resto è storia. Una storia che si conclude con una cifra che sarà la pietra tombale su Fini come uomo politico: quello 0,4% ottenuto da Fli alle Politiche del 2013. È certamente prematuro ipotizzare che Roberto Fico diventi l’ispiratore/promotore della caduta del governo "gialloverde" e tantomeno che abbia in mente di fondare un partito tutto suo ma i continui distinguo in materia di immigrazione sembrano il remake di un film già visto. Ora non ci è dato sapere nemmeno se questo film sia la "riedizione" di quelli appena descritti oppure se Fico aspiri semplicemente a diventare il ‘paladino dei migranti’ così come lo è stata Laura Boldrini nella passata legislatura. Solo il tempo saprà dare risposta a questi quesiti ma il futuro si preannuncia timidamente burrascoso per il governo Conte.

T-shirt e pugno chiuso: Fico ormai è il leader dell'estrema sinistra. Dal look informale a Pozzallo ai gesti ideologici Così il grillino si smarca da Salvini e Di Maio, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 02/07/2018, su "Il Giornale". Una maglietta che viene da lontano. Dagli anni Settanta, dalla cultura antagonista dei movimenti a sinistra del Pci, dalla rottura del protocollo, strappato dai leader di quei movimenti. Il presidente della Camera Roberto Fico in visita all'hotspot di Pozzallo ha esibito quel look ultrainformale, completato con un inelegante gilet da simil-pescatore, e cosi, forse senza nemmeno volerlo, ha messo in chiaro il proprio albero genealogico. Quella maglietta è a modo suo un'icona, come lo è il pugno chiuso, in occasione della parata del 2 giugno, e come lo sono le mani in tasca, mentre veniva intonato l'inno di Mameli, sottile momento di disagio se non di contestazione di un'idea patriottica di Paese che non gli appartiene. Sì, si può dire che Fico sia figlio di quella linea minoritaria ma mai debole che ha sempre riempito le piazze e fatto flop nelle urne: quella dell'ultrasinistra o sinistra radicale che dir si voglia. Naturalmente aggiornata ai tempi di oggi: la sua barba ricorda quelle guerrigliere e operaie di tanti protagonisti della nostra storia recente, dall'immancabile Che a Lula, e la sua formazione ha rimandi semantici sorprendenti a una gauche ora vintage ma cui fino a ieri eravamo abituati. Ecco che la sua tesi di laurea ha un titolo che sembra una scheggia di quel mondo pensoso e strutturato che si è sfaldato da ultimo insieme al suo popolo: «Identità sociale e linguistica della musica neomelodica napoletana». E già ti pare di leggere uno di quei saggi con mal di testa incorporato che tenevano insieme le categorie economiche e gli ideali della solidarietà. Ma Fico, classe 1974, è troppo giovane per essere letto con i sacri crismi di quella stagione. E la sua biografia è un'immersione nella società liquida, frammentata e spezzettata di oggi che ha perso per strada gli operai, le sezioni del Pci e pure le pulsioni di quell'area un tempo scoppiettante e oggi sbiadita nelle facce anonime di Pietro Grasso e dintorni. Dunque, Fico ha recitato più parti in commedia: impiegato in un call center, manager in un hotel, importatore di tessuti dal Marocco, con in più la versatilità e l'inquietudine che sono nel suo Dna napoletano. Poi nel 2005 la fondazione di uno dei primi meetup e l'adesione al verbo grillino, incrociando i temi della giustizia sociale, della difesa dell'ambiente, vedi il referendum sull'acqua nel 2011, e l'eterno ribollire del Sud. Che a Napoli ha avuto un interprete istrionico come Luigi de Magistris, ultima variante del tribuno alla Masaniello. Spinte. Controspinte. Sussulti. E la scoperta che questo ragazzo descamisado, che va a Montecitorio prendendo l'autobus di linea della disastrata Atac, è l'ultimo leader di una sinistra altrimenti irrimediabilmente evaporata. I dissidi con il pragmatico e carrierista Di Maio e la decisione di non salire sul palco di Rimini. L'orgoglio di un'appartenenza, ribadita con parole definitive: «Non saremo mai la Lega del Sud». Ora quella frase eretica in un'Italia sempre più al passo marziale di Salvini: «Io i porti li aprirei». Forse una citazione vintage o forse una consacrazione in un Paese in cui anche il pensiero è sempre più flat.

Ecco il «giglio rosso» grillino che sussurra le leggi a Di Maio. Dall'ex assessore di Vendola al comunista Alleva, chi sono gli esperti di sinistra che affiancano il ministro, scrive Lodovica Bulian, Domenica 1/07/2018 su "Il Giornale". Sembrava una priorità della sinistra. Oggi invece la stretta sui contratti a termine è diventata uno dei punti forti del cosiddetto decreto dignità che Luigi Di Maio promette di portare in consiglio dei ministri domani, al massimo martedì. Resteranno fuori invece voucher e contratti di somministrazione, rinviati al «dibattito in Parlamento». «Il tema della somministrazione - ha chiarito ieri Di Maio - in molti casi si presta a delle disfunzioni però dev'essere oggetto del dibattito parlamentare, non si può intervenire con un decreto. Come per i voucher». Intanto però la lista degli annunci di Di Maio mira a compensare la linea «a destra» dettata dal suo alleato al Viminale. Va ricordato infatti che la scure sui contratti a tempo determinato da un massimo di 5 a 4 rinnovi, che tanto ha fatto infuriare le imprese in questi giorni, era anche una condizione richiesta dagli arancioni di Giuliano Pisapia per convergere col Pd alla vigilia delle ultime elezioni. Quel provvedimento che allora non ci fu facendo saltare l'intesa, rientra oggi dalla porta principale di Palazzo Chigi sotto il vessillo pentastellato. Ma la direzione imboccata nel tentativo di coprire le voragini di consenso lasciate sul terreno dai democratici, non stupisce se si guarda a chi circonda il ministro grillino nei due dicasteri del Lavoro e dello Sviluppo economico. Il giglio di «consulenti» a titolo gratuito scelti dal vicepremier è composto da personalità provenienti dall'area rossa ed ex comunista. Ne fanno parte Piergiovanni Alleva, 71 anni, giuslavorista, una gioventù in Lotta continua, un passato nella consulta giuridica della Cgil, un presente da consigliere regionale in Emilia Romagna con la lista «L'altra Europa con Tsipras», e da membro del comitato del Partito Comunista italiano. Nel 2013 anche candidato al Senato con Rivoluzione civile dell'ex pm Antonio Ingroia. Già ordinario di diritto del lavoro a Bologna, Alleva è il teorico del «lavorare meno, lavorare tutti». Nella cerchia dei «consulenti» gratuiti c'è anche Pasquale Tridico, il già candidato ministro dei Cinque Stelle, quello che ora avrebbe dovuto occupare il posto di Di Maio. «Da uomo di sinistra dico che questa alleanza è un problema»: così dopo aver rinunciato a incarichi per manifesta distanza rispetto alle intese con la Lega, Tridico, professore di economia del lavoro a Roma Tre, ha comunque accettato di aiutare il vicepremier. «È necessario recuperare i diritti e la dignità del lavoro - sosteneva da candidato - reintrodurre l'articolo 18, eliminare il Jobs Act, contrastare la liberalizzazione dei contratti a termine». Proprio il punto del decreto dignità. Infine tra i contatti di Di Maio ci sarebbe anche Marco Barbieri, dirigente di Leu, dal 2005 al 2009 assessore regionale al Lavoro in Puglia nella giunta di Nichi Vendola, e oggi ordinario di diritto del Lavoro all'Università di Foggia. All'indomani delle elezioni del 4 marzo, ammettendo l'irrilevanza della formazione politica fondata da Grasso, dei pentastellati diceva che «promettono in forma vaga ed ondivaga alcune cose che noi caldamente vorremmo. Dobbiamo avere un atteggiamento costruttivo nei loro confronti, di incoraggiamento delle misure giuste». Su Facebook qualcuno gli fa i complimenti per il «nuovo incarico», ma lui precisa di non avere alcuna consulenza ufficiale: «Non c'è nessun incarico». Allora qualcun altro gli fa una battuta sul lavoro a titolo gratuito. Il prof risponde con uno smile.

·         Il Governo del rinvio e del posticipo.

LA VERIFICA. Manovra, Mes e nomine: l’unica cosa su cui il governo riesce (benissimo) ad accordarsi sono i rinvii. L'Inkiesta il 10 dicembre 2019. Si susseguono vertici fiume di maggioranza, ma l’unico risultato sono gli slittamenti delle tasse e delle decisioni sulle nomine. Continua lo scontro interno alla maggioranza sul Mes e sui dei vertici delle Commissioni, con i 5 Stelle che puntano ad accaparrarsi tutto. Le intese della manovra, approvata “salvo intese” dal consiglio dei ministri, alla fine nel governo non sono arrivate. Dopo le 15 ore di vertice del fine settimana, la plenaria della Commissione Bilancio del Senato ieri è slittata di altre quattro ore. E l’accordo raggiunto tra i giallorossi sulla legge di bilancio ha partorito tutto fuorché un accordo. A tarda sera è arrivato il pacchetto di emendamenti dell’esecutivo. Ma l’unica intesa, a quanto pare, è su un calendario di rinvii, proroghe e posticipi nella speranza che da una parte o dall’altra qualcuno prima o poi deponga le armi. Sulla questione più spinosa, cioè le tasse e microtasse, materia ad alta temperatura elettorale con il test delle regionali emiliane e calabresi alle porte, è tutto rimandato. Posticipate la plastic tax e la sugar tax (la prima a luglio, la seconda a ottobre), rimodulate le tasse sulle auto aziendali e l’aumento dell’Ires, rinviate le sanzioni per i commercianti senza Pos e la stretta sull’Imu. Meglio evitare di litigare ora, prendersi del tempo e tirare in avanti, almeno fino a dopo l’appuntamento elettorale del 26 gennaio. Vertice di maggioranza dopo vertice di maggioranza, la quadra non si trova. Sciolto un nodo, se ne crea un altro. Ed è tutto un gioco di sottile equilibrismo. D’altronde era stata la stessa maggioranza a ingolfare con oltre 5mila emendamenti la quinta commissione del Senato, con il Pd – che è partito di governo e la manovra quindi l’ha scritta – che ha presentato un numero di proposte di modifica maggiore della stessa Lega – che invece è all’opposizione. Ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ormai più simpatizzante per il Pd che per il M5s, ha ammesso che così non va, annunciando che «un minuto dopo l’approvazione della legge di bilancio» dovrà aprirsi la verifica di governo «necessaria» per indicare «un cronoprogramma fino al 2023». Il Paese «chiede chiarezza, non possiamo proseguire con dichiarazioni o differenti sensibilità, sfumature varie e diversità di accento», ha detto Conte, allineandosi alla proposta arrivata da tempo dal gran consigliere del Pd Goffredo Bettini. Il messaggio è soprattutto per Di Maio, che subito ha gettato acqua sul fuoco dando una parvenza di unità. «In questa cornice, di condivisione e convergenza di vedute, il governo deve andare avanti su temi fondamentali per gli italiani come la casa, la sanità, il lavoro. Penso sia dunque doveroso stilare una lista di priorità andando anche a individuare le tempistiche per l’approvazione di importanti provvedimenti»: è il messaggio recapitato da Bruxelles in un linguaggio conciliante che non si sentiva da tempo. Ma tra le intese mancanti, a risentirne è lo stesso iter parlamentare del bilancio dello Stato, che continua ad accumulare ritardi. E ormai si dà sempre più per certo che il provvedimento verrà modificato solo al Senato, con la Camera che farà solo da spettatrice della discussione per arrivare alla approvazione entro il 31 dicembre, onde evitare di cadere nell’esercizio provvisorio. Le opposizioni sono sul piede di guerra. Ma le preoccupazioni sono arrivate anche dai presidenti di Camera e Senato. La legge di bilancio non era mai arrivata così tardi in discussione. In Senato l’inizio dei lavori è previsto per il 12 dicembre, il primo voto in aula è fissato per venerdì 13 dicembre. E il Milleproroghe entrerà con molta probabilità come emendamento della manovra: prorogate, tra le altre cose, le norme sulle intercettazioni, sulla stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione fino allo stato di emergenza legato al ponte Morandi. E senza accordo di maggioranza, slittano pure al 31 gennaio del 2020 le scadenze per il rinnovo degli attuali vertici del Garante della privacy e dell’Agcom, ormai senza guida da giugno. I grillini non cedono, preferendo piuttosto lasciare la Commissione Lavoro del Senato nelle mani del facente funzione della Lega William De Vecchis, anziché concedere spazio a un alleato del Pd. Ma la manovra non è l’unico scoglio per i giallorossi in lite continua. Anzi. Mercoledì 11 dicembre, in vista del Consiglio europeo, si vota pure la complicatissima risoluzione sul Fondo Salva Stati, su cui pure il governo ha preferito rinviare la discussione. Dopo il negoziato portato avanti da Gualtieri a Bruxelles, Conte torna a riferire al Parlamento. Chiuso l’ennesimo vertice di maggioranza, è stata approvata una bozza di risoluzione che «impegna il governo» ad «assicurare l’equilibrio complessivo dei diversi elementi al centro del processo di riforma dell’Unione economica e monetaria (cosiddetta logica di “pacchetto” Mes, Bicc, Unione bancaria) approfondendo i punti critici del pacchetto di riforme». Ma già i Cinque Stelle hanno chiesto di discutere la bozza all’interno dei gruppi parlamentari. Il ministro Roberto Gualtieri è andato all’attacco di Salvini, ma non è bastato a compattare la maggioranza. Basta guardare, d’altronde, quello che sta accadendo per le nomine dei presidenti delle Commissioni rimaste scoperte col nuovo giro di ministri e sottosegretari del Conte due. L’impasse che dura ormai da settembre, dopo il rinvio delle nomine a ottobre, potrebbe sbloccarsi il prossimo 17 dicembre, quando è stata fissata la data per le nuove nomine, compresa quella del segretario d’aula. Ma non è detto che non slitti di nuovo. Al Senato, va trovato un presidente per la Commissione Sanità, dopo la nomina di Pierpaolo Sileri a viceministro della Salute; per la Commissione Lavoro, dopo la nomina di Nunzia Catalfo a ministro del Lavoro; e per la Commissione Difesa dopo la vittoria di Donatella Tesei in Umbria. I Cinque Stelle le vogliono tutte e tre. Ma gli occhi sono puntati soprattutto sulla Commissione Lavoro, per la quale sin da subito i Dem hanno fatto il nome del senatore Tommaso Nannicini. Ma i Cinque Stelle si sono messi di traverso, intenzionati a occupare tutta l’area lavoro in nome della paternità del reddito di cittadinanza, dopo aver occupato le poltrone di Inps e Anpal con i propri uomini (Tridico e Parisi). In questo modo al Pd, unico partito di sinistra, sul fronte del lavoro non resterebbe niente. Cosa che non piace neanche ai sindacati. Ma i grillini non cedono, preferendo piuttosto lasciare la Commissione nelle mani del facente funzione della Lega William De Vecchis, anziché concedere spazio a un alleato del Pd. Intanto, senza presidenti, le commissioni non funzionano e si riuniscono di rado, con più di 20 disegni di legge in stallo ormai da settembre. Con tutto quello che invece andrebbe sistemato soprattutto sul fronte della fase due del reddito di cittadinanza. E lo stesso stallo c’è sulle commissioni speciali sulle banche e sulla sicurezza sul lavoro. Per le banche i Cinque Stelle sono arrivati a candidare il senatore Elio Lannutti, che lo scorso febbraio rilanciò sui suoi canali social la nota bufala antisemita sui Protocolli dei Savi di Sion, un falso storico creato nella Russia imperiale oltre che un fantomatico complotto ordito da alcune potenti famiglie di origine ebraica per governare il sistema bancario mondiale. Una proposta che il Pd ha già rispedito al mittente.

Governare non è rinviare. Carlo Fusi il 5 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Il registro del rinvio sembra infatti essere diventato lo schema comportamentale del governo e chi lo sostiene. Governare non è asfaltare, sentenziava nella prima metà del Novecento Salvador de Madariaga. Vuol dire che governare non è accarezzare l’elettorato con il brillìo dei tagli dei nastri: significa scegliere. A volte anche in modo impopolare, è la differenza che corre tra statisti e politici di piccolo cabotaggio. La massima dello storico spagnolo – prima conservatore poi antifranchista – torna alla mente in questi giorni osservando le convulsioni della maggioranza giallorossa. Cambiandone però il secondo verbo: governare non è rinviare. Tutto il resto, comprese le valutazioni di merito, resta uguale. Il registro del rinvio sembra infatti essere diventato lo schema comportamentale del governo e chi lo sostiene(?). Rinvio su tutto e per tutto: dalle minuzie, si fa per dire, tipo – giusto o sbagliato che si consideri – l’obbligo del Pos per i commercianti alla partita enorme dell’Ilva; da quella appena un gradino sotto dell’Alitalia per finire al Mes. Rinviare tutto per incapacità decisionale a causa dei dissensi via via più profondi tra i partner della coalizione si prospetta ormai come una sorta di riflesso condizionato: scatta di suo, non c’è bisogno del martelletto del medico. Come interpretare diversamente, infatti, la sindrome che si è impossessata della legge di Stabilità, appena rinviata di una settimana per l’esame d’aula. Per non parlare della Commissione Bilancio del Senato che la deve esaminare preventivamente, convocata e sconvocata già quattro volte da lunedì e per circa diciotto ( 18!) volte dall’inizio della sessione finanziaria? Il meccanismo salva- Stati è l’ultimo caso. Chiedere un allungamento dei tempi al fine di ritoccare alcune misure va bene a patto di fare proprio il quadro normativo generale. Altrimenti è solo l’ennesima manovra dilatoria. Peraltro illusoria perché il momento delle scelte arriva comunque: in questo caso in tempi ravvicinati, visto che mercoledì 11 il Parlamento dovrà votare documenti di indirizzo per il governo. E lì nascondersi non si può. Ma è l’impianto generale che fa acqua. Rinviare vuol dire scaricare su altri le proprie responsabilità. Ma chi sono questi altri se non gli italiani, che magari votano per partiti diversi? Se ci si candida a governare, poi bisogna accettarne le conseguenze. Altrimenti meglio andare al cinema. O, a chi piace, allo stadio.

Il potere di decidere è ciò che serve all’Italia furiosa e depressa. Gennaro Malgieri il 13 Dicembre 2019 su Il Dubbio. A proposito dell’uomo forte. Dopo il rapporto Censis: invecchiamo tristi, poveri e senza ottimismo. Il presidenzialismo come ricetta per modernizzare il sistema- paese troppo ingessato. È l’incertezza che domina l’umore degli italiani. Essa produce malessere, inquietudine, ansia. Si ricorre ad espedienti individuali per arginare la crisi che è sociale, ma soprattutto personale, senza invero ottenere grandi risultati. In Italia si vive male, insomma, nonostante le apparenze. Ed il prossimo futuro non si annuncia migliore. L’anno non finisce bene, il nuovo che nasce è destinato a ripetere, se non a moltiplicare, le inquietudini che hanno scandito la nostra vita finora, almeno da quando la politica, l’economia, la cultura soprattutto non sono riuscite più a dare risposte accettabili alle domande dei cittadini. Avvertono l’abbandono, la solitudine, il disagio di vivere senza la prospettiva di un domani soddisfacente. E ciò li rende, secondo l’ultimo Rapporto CENSIS ( presentato giorni fa a Roma), addirittura “furiosi”. Non è il solito catastrofismo che stagione dopo stagione appare per poi eclissarsi e nuovamente ricomparire, come è stato negli anni Ottanta e Novanta. Da qualche tempo, più o meno dal 2015, si è “strutturato”. E nessuno ha voglia di niente. Calano perfino i consumi in un Paese che non è certo una formica ed aumentano le liquidità bancarie per la paura del domani. Il 69% degli italiani è incerto e frastornato. E non potrebbe essere diversamente di fronte alla rarefazione della rete di protezione del sistema sociale, della decadenza del welfare pubblico, della diminuzione del potere d’acquisto, dello spopolamento delle aree rurali e della crescita a dismisura di quelle urbane dove il senso dell’esilio è più sentito ed il dato comunitario è pressoché inesistente. L’ansia da declassamento sociale si tocca con mano e innesca una competizione paranoica esplicitata nel malumore quotidiano e nella litigiosità permanente, ad esse si accompagna la diminuzione oggettiva di redditi e retribuzioni: dai depositi bancari e dagli investimenti “sicuri” si ricava poco o niente; le incentivazioni ordinarie praticamente non esistono più; si è costretti, soprattutto se giovani, ad accontentarsi di contratti a termine pagati pochissimo, non in grado di supportare una famiglia o presentarsi ad un banca per chiedere un mutuo. Perfino l’investimento sul mattone e l’acquisto dei BOT sono decaduti. Segnali di sfiducia crescente cui si accompagna il terrore di prelievi improvvisi dai conti correnti. Chi avverte l’impoverimento potrebbe essere animato dal furore o dalla depressione: infatti si consumano in Italia più ansiolitici di sempre. Qualcuno prova a difendersi, al ribasso: fa spese oculate, frequenta i discount, apparecchia piccoli salvadanai di sopravvivenza. E il tempo degli eccessi è una favola, quando gli “eccessi”, beninteso, erano l’ultimo modello di frigo o di televisore, i quindici giorni al mare e qualche sfizio domestico come il motorino al figlio quattordicenne. Si dice che la società ansiosa sia macerata dalla sfiducia. E ciò è testimoniato dal calo demografico che assume, anno dopo anno, proporzioni inquietanti. La popolazione italiana è “rimpicciolirà”, invecchiata, le nascite sono pochissime. Problemi morali? In minima parte. Sostanzialmente sono problemi sociali quelli che determinano la denatalità. Dal 2015, quando è cominciata a manifestarsi la decrescita demografica, sconosciuta alla nostra storia unitaria, si contano 436.066 cittadini in meno, nonostante l’incremento di 241.066 stranieri residenti. Nell’anno passato i nati sono stati 439.747, vale a dire 18.404 in meno rispetto al 2017. Ma anche gli immigrati, adeguandosi ai nostri standard di vita e di costumi, fanno meno i figli: dunque, neppure loro – come cinicamente sostiene qualcuno – salveranno le nostre pensioni. Al calo demografico fa riscontro l’invecchiamento della popolazione. Si vive di più, oltre gli ottant’anni ormai con una maggiore aspettativa di vita delle donne, ma sale la spesa sanitaria che un sistema di welfare in dissesto non può sopportare: bisogna augurarsi di stare in buona salute fino all’ultimo giorno della propria vita, ma è un’utopia che genera altri malumori. Abbiamo davanti uomini e donne piegati dalla paura del domani. Innaturale. Un fenomeno sociologicamente da indagare a fondo dal momento che una società che non ha slanci vitali, neppure per ciò che concerne i divertimenti, è una società votata alla decadenza estrema e preda di pulsioni disfattiste nelle quali rientra il bluff dell’occupazione che non produce reddito e crescita. Siamo abituati a leggere da qualche tempo cifre mirabolanti sulla “ripresa”, su nuovi posti di lavoro, sull’ingresso nei processi di produzione dei giovani. Ma quando mai? Rispetto al 2007, dieci anni abbiamo contato 321.000 occupati in più: la tendenza è continuata anche quest’anno. Ma, osserva il Censis, “Il riassorbimento dell’impatto della lunga recessione nasconde però alcune criticità. Il bilancio dell’occupazione è dato da una riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e un aumento di 1,2 milioni di occupati a tempo parziale. Nel periodo 2007- 2018 il part time è aumentato del 38% e anche nella dinamica tendenziale ( primo semestre 2018- 2019) è cresciuto di 2 punti. Oggi un lavoratore ogni cinque ha un impiego a metà tempo. Ancora più critico è il dato del part time involontario, che riguarda 2,7 milioni di lavoratori. Nel 2007 pesava per il 38,3% del totale dei lavoratori part time, nel 2018 rappresenta il 64,1%. E tra i giovani lavoratori il part time involontario è aumentato del 71,6% dal 2007. Così oggi le ore lavorate sono 2,3 miliardi in meno rispetto al 2007 e parallelamente le unità di lavoro equivalenti sono 959.000 in meno. Nello stesso periodo le retribuzioni del lavoro dipendente sono diminuite del 3,8%: 1.049 euro lordi all’anno in meno. I lavoratori con retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi sono 2.941.000: un terzo ha meno di 30 anni ( un milione di lavoratori) e la concentrazione maggiore riguarda gli operai ( il 79% del totale)”. Un quadro tutt’altro che rassicurante. Le cifre vanno lette ed interpretate, diversamente diventano la consolazione pelosa di una politica che falsifica la realtà. Ed è proprio alla politica che gli italiani hanno voltato le spalle. Ad essa gli italiani guardano come ad una fiction. La testimonianza dell’astensionismo è eloquente: nessun altro soggetto è più detestato dei politici da parte degli italiani che proprio non li vorrebbero vedere nei programmi televisivi. Il riassetto sociale ed istituzionale è desiderato, ma a condizione che come un demiurgo appaia l’uomo forte. Questa è pretesa insensata è coerente con il malessere. Che cosa significa “uomo forte”? Autoritario o autorevole? Legittimato democraticamente oppure plebiscitariamente investito di pieni poteri? E’ necessario fare chiarezza. Se si allude a forme paranoiche di potere personale, illegittimo e costituzionalmente non corretto, la sensazione di esasperazione è ancora più forte. Ma se, come la maggior parte degli italiani da alcuni decenni ritiene che è necessario procedere ad una riforma che riconduca il Parlamento nelle sue specifiche prerogative legislative e di controllo degli atti dell’esecutivo e che questi possa essere al vertice rappresentativo da un capo dello Stato eletto direttamente dal popolo, scendo il modello americano o francese, non vi è alcun motivo di preoccupazione.

Quel che preoccupa è gettare nel calderone una “sensazione”, appunto per asseverare lo stato di malessere. Ciò non può che nuocere alla costruzione di una democrazia decidente e ad una responsabilità politica che oggi latita in ogni settore, aggiunge ci che la rivitalizzazione della forma partito è quanto mai indispensabile di fronte al dilagare dello spontaneismo di movimenti che agiscono sulla conduzione, si nutrono del malessere, ambiscono a creare classi dirigenti o precarie, incolte e abborracciate, aggiungendo benzina al fuco che già divampa nella sfera politica. Il presidenzialismo è un grande tema politico- istituzionale che ha attraversato quasi tutte le famiglie politiche italiane. Anche all’Assemblea costituente ci fu chi propose, senza successo, all’attenzione la "soluzione presidenzialista": i rappresentanti del Partito d’Azione e tra essi, in particolare, Piero Calamandrei e Leo Valiani s’impegnarono a fondo in una delle Sottocommissioni dell’Assemblea per far valere le ragioni del presidenzialismo. Negli anni Sessanta fu il repubblicano Randolfo Pacciardi ad imbracciare la bandiera del presidenzialismo al punto di essere accusato di sovversivismo e di tentazioni “golpiste”. Agli inizi degli anni Settanta furono alcuni "giovani leoni", come si definirono allora, della Democrazia cristiana, aderenti al gruppo "Europa ‘70", che posero all’attenzione le tematiche presidenzialiste. Poi venne la stagione socialista: politici come Bettino Craxi ed intellettuali come Luciano Cafagna rilanciarono, tra la seconda metà dei Settanta e gli inizi degli Ottanta, la necessità di operare un radicale mutamento nella forma di governo del nostro Paese. Non si può dimenticare, naturalmente, che il Movimento sociale italiano fece del presidenzialismo, fin dalla sua nascita nel dicembre 1946, uno dei temi centrali e più incisivi della sua propaganda istituzionale, da Costamagna ad Almirante. Ricordo anche una fiorente pubblicistica che circa trent’anni fa rianimò il dibattito sul presidenzialismo grazie, soprattutto, all’attivismo del professor Gianfranco Miglio e del cosiddetto ‘ Gruppo di Milano’. La tematica presidenzialista, quindi, ha avuto lungo corso nella storia della Repubblica, sia da punto di vista dottrinario che nel dibattito politico. Il presidenzialismo non bisogna considerarlo come una sorta di contropotere, ma come un elemento di equilibrio e di riconoscibilità del processo di formazione della decisione che è uno dei fattori necessari alla modernizzazione del Paese. Da essa, dal momento decisionale ‘ forte’, non si può prescindere se si intende procedere alla modernizzazione sociale e delle strutture civili del Paese, se non si dotano, cioè, i centri decisionali di poteri efficaci che, al momento, non dimentichiamo che vengono esercitati da soggetti diversa dalla classe politica, e dunque privi di legittimazione democratica, come supplenti insomma, che agiscono sulla spinta di interessi personali o di gruppo. Il presidenzialismo, dunque, è un elemento di partecipazione, ma è anche di chiarificazione all’interno dei rapporti tra i poteri dello Stato. Con la sua adozione si stabilisce una netta linea di demarcazione tra i controllori ed i controllati, tra potere legislativo e potere esecutivo. Il Parlamento può effettivamente esercitare un controllo sul governo avendo questi la sua fonte di legittimazione fuori dalle aule parlamentari. Se le forze politiche intendessero spiegare, o quantomeno avviare un opportuno ed approfondito dibattito sulla questione, a più di settant’anni dalla emanazione della Costituzione ( nel frattempo non c’è stato Paese che non l’abbia rivista), probabilmente preciserebbero, sgombrando il campo da imbarazzanti equivoci, la passione per l’” uomo forte” di cui si discute. E se nell’ordinaria amministrazione spazzassero via i fattori di pressione sul ceto medio produttivo e rimuovessero le condizioni che inducono i soggetti più vulnerabili ad abbandonare la scuola, forse una ripresa di fiducia la si potrebbe intravedere. Insomma, per fare più figli, per avere più occupati e laureati, per evitare che i giovani se ne vadano dall’Italia bisogna ripensare il sistema. E non è con le suggestioni estemporanee che un lavoro del genere si può compiere. Ecco perché parlare di presidenzialismo vuol dire “rivedere” le strutture del potere e non solo un meccanismo politico al cui vertice c’è un “decisore” eletto dal popolo.

·         Il Governo “Salvo Intese” e “Varie ed eventuali”.

Claudio Antonelli per “la Verità” il 18 ottobre 2019. Il concetto di «salvo intese» si eleva a nuove vette. Il Consiglio dei ministri di lunedì notte (durato ben 5 ore e mezza) avrebbe dovuto approvare solo il Documento programmatico di bilancio, la base su cui costruire la manovra. Nel corso della riunione, descritta da tutti come molto turbolenta, si è provato a fare lo strappo. Il premier Giuseppe Conte e il ministro dell' Economia, Roberto Gualtieri, hanno deciso di togliere dal cassetto il decreto fiscale per cercare di approvarlo. Sapendo delle enormi tensioni tra la componente grillina nei confronti dei renziani e di questi ultimi verso i dem, l'idea era approfittare dell' oscurità della notte per fare il blitz. Mettere nero su bianco il lungo elenco di tasse che si nasconde dietro l' apparenza della lotta all' evasione e delle attività green. L' operazione non è riuscita e così il cdm si è dovuto limitare ad approvare il testo del decreto con la solita dicitura «salvo intese». Solo che il documento in ingresso - datato 14 ottobre, ore 19.30 - è stato già riscritto soltanto l' altro ieri a metà pomeriggio. In più, esso non è ancora nella sua versione definitiva, e dovrebbe essere completato entro lunedì 21, quando è previsto (anche se non confermato) un nuovo cdm. Il balletto rende perfettamente l' idea della situazione. Nessuno degli attori in causa ha in mente il senso generale della manovra, ma solo il dettaglio particolare. Nonostante premier e ministro dell' Economia continuino a ripetere che «nessun partito deve intestarsi singoli provvedimenti», è sempre più chiaro che ciascuno schieramento chiede di tassare e penalizzare gli elettori degli altri. Così facendo i giallorossi si accingono a produrre una manovra che riuscirà a scontentare tutti. Deficit alto senza crescita. Mini tasse per chiunque abbia una attività lavorativa o un poco di patrimonio e, pur di assecondare le richieste dell' Europa, si formerà un enorme fardello tutto sbilanciato sul 2021. Man mano emergeranno le mancate coperture da contrasto all' evasione, e le voci ancora pendenti sarà necessario intervenire su altre leve, così da rendere praticamente impossibile la sterilizzazione delle clausole di salvaguardia per il 2021. E a oggi restano ancora 18 miliardi di euro senza i quali l' imposta sui consumi verrà alzata formalmente. Perché informalmente accadrà già nel 2020. Con l' applicazione della Web tax nella forma ideata dall' attuale ministro Francesco Boccia, lo Stato avrà un gettito di circa 600 milioni, ma lo schema impositivo si rivarrà immediatamente sui prodotti e i servizi in vendita tramite piattaforme di e-commerce. Significa che per il consumatore finale i prezzi saliranno. Una sorta di rialzo dell' Iva a valle: solo che, quando gli italiani se ne accorgeranno, sarà troppo tardi per intervenire. Sempre che la norma rimanga nel testo del decreto fiscale. Fin qui abbiamo analizzato i numeri. L'incapacità di prendere una strada fiscale precisa si trasformerà in un Vietnam parlamentare, e questo è il vero punto politico. Una volta che emergeranno in Aula gli scontri tra fazioni (e ci limitiamo a prendere in considerazione la maggioranza), la retorica dell' ambientalismo sparirà subito. Sostenere che per il verde valga la pena di pagare più tasse - quando si capirà che le norme faranno persino perdere posti di lavoro in Italia - sarà durissima. Resterà così la guerra per bande per imporre tasse e mini tasse. La minoranza dovrà approfittarne per calmierare i danni. La verità però è che nessun intervento riuscirà a cambiare qualcosa di informe. Alla meglio, lo si annacquerà. Speriamo almeno che vengano sminati quei dettagli che potrebbero rivelarsi più pericolosi. Non tanto l' ennesimo prestito ponte ad Alitalia o alle tasse sui giochi, ma soprattutto l' enorme ricorso alla burocrazia utilizzato per smontare il regime dei forfettari creato dalla Lega lo scorso anno. La flat tax fino a 65.000 euro è stato il primo intervento fatto a favore delle partite Iva in 15 anni. Ora il Conte bis lo vuole smontare da dentro, reintroducendo lo schema dei minimi. Non saranno tanto le tasse in più che verranno pagate dai liberi professionisti, quanto la mole di adempimenti costosi che si ritroveranno sulle spalle a far collassare l' economia. Così come la scellerata idea di introdurre (sempre nel dl fiscale) la modifica di un piccolo comma che consentirà alla Pa di pagare ancor più in ritardo. E proprio qui sta il busillis, e l'impronta comunista dietro alla futura legge finanziaria. I privati sudditi di norme che cambiano, e lo Stato libero di fare come pare e piace. Impiegare soldi per Alitalia, pagare più tardi o usare le fatture elettroniche nella speranza di trovare reati. Inutile che i grillini ieri se ne siano usciti con una richiesta di rimodificare gli interventi contro i forfettario. Farlo ora - dopo aver inviato il documento alla Ue - ha tutto il sapore della farsa.

Quel minuetto dal “salvo intese” al “senza intese”. In tanti – e noi da tempo – si domandano che modo di governare uno dei Paesi più importanti del mondo sia questo; e le risposte latitano…Carlo Fusi 25 Aprile 2019 su Il Dubbio. Giorni fa, un po’ scherzosamente e un po’ no, intrigato da interviste del premier Conte e, in particolare, del ministro Tria i quali, mentre sui media Salvini e Di Maio se le davano di santa ragione, sostenevano che invece nelle riunioni del Consiglio dei ministri tutto filava liscio e tranquillo, avevamo scritto: per favore, se dovete litigare fatelo a palazzo Chigi, è quello il luogo giusto istituzionalmente. Siamo stati accontentati: l’altro ieri c’è stato un Cdm pieno di tensioni e polemiche, con battibecchi che avrebbero coinvolto sia Conte che Salvini. Di Maio no, è arrivato dopo. Uno spettacolo non propriamente esaltante. A farne le spese è stato il decreto SalvaRoma ma la realtà è che tutta l’azione di governo appare bloccata. Con una battuta si potrebbe dire che dal “salvo intese” si è passati al “senza intese”. Da provvedimenti approvati solo per la copertina siamo arrivati a misure che arrivano in Parlamento prive della necessaria copertura politica. In tanti – e noi da tempo – si domandano che modo di governare uno dei Paesi più importanti del mondo sia questo; e le risposte latitano. Scompaiono del tutto quando la domanda riguarda un possibile dopo: dopo le elezioni europee, dopo le eventuali urne politiche, dopo l’estate e l’arrivo della legge di bilancio. Al dopo non ci pensa nessuno perché un dopo non c’è, è stato cancellato. La politica vive solo nella dittatura del presente. Come se non esistesse un domani. Impossibile evitare un sentimento di inquietudine e di scoramento pensando che tutto questo accade oggi, 25 aprile. Una ricorrenza che celebra la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Un momento di riunificazione che invece nel corso degli anni è diventato divisivo. Noi restiamo con quelli, pochi o tanti che fossero, che hanno preso le armi e sacrificato la loro vita per sconfiggere la dittatura. Ecco. Siamo un Paese che non riesce a trovare la necessaria compattezza di governo per affrontare le sfide che l’attualità ci pone. E nel quale neppure si riesce ad avere una memoria condivisa del nostro percorso di Nazione. Allora la vera domanda diventa: ma un Paese diviso nel presente e nel passato, quale futuro può avere?

Un governo senza indirizzo, «salvo intese». Decreti e direttive . Mattarella ha ragione quando segnala che i ritardi infiniti nella stesura dei decreti legge già approvati in consiglio dei ministri con la formula «salvo intese» rendono necessaria una nuova deliberazione. Massimo Villone 18.04.2019 su Il Manifesto. Alla fine Mattarella, uomo paziente, ne ha avuto abbastanza. Ha segnalato che i ritardi infiniti nella stesura dei decreti legge già approvati in consiglio dei ministri con la formula «salvo intese» rendono necessaria una nuova deliberazione del consiglio dei ministri. Mattarella ha ragione. Forse qualcuno eccepirà che in tal modo il Presidente interferisce in un processo politico al quale è – e deve rimanere – estraneo. Ma non dimentichiamo che il capo dello Stato emana i decreti-legge e autorizza la presentazione alle camere della legge di conversione. Potrebbe anche rifiutare l’emanazione nel caso di manifesta incostituzionalità. Ad esempio, per la mancata copertura di una spesa. Quindi, una parola potrà ben dirla. Il punto è che l’approvazione «salvo intese» è di per sé censurabile, in specie nel caso del decreto legge. Dove finiscono i presupposti di straordinaria necessità ed urgenza richiesti dall’articolo 77 della Costituzione se passano addirittura settimane dalla deliberazione in consiglio dei ministri alla emanazione? Ma c’è di più. Il «salvo intese» spedisce il testo in un percorso imperscrutabile e occulto, dal quale emergerà un testo. Ma le intese saranno intervenute con chi, dove, quando? Al più, ci saranno rumors e illazioni, e l’alta probabilità che alla fine tutto passi attraverso un confronto tra i due dioscuri di governo, Salvini e Di Maio. Vengono allora meno altri due elementi che concorrono decisivamente alla solidità costituzionale del decreto: la collegialità, e la piena assunzione di responsabilità di tutto il consiglio dei ministri. Nel modello del decreto legge posto dall’art. 77 della Costituzione tutto il governo decide, tutto il governo è responsabile. Ed è ovvio che sia così, poiché dal consiglio dei ministri esce una regola giuridica che vincola immediatamente tutti i cittadini italiani con la forza della legge. Non è cosa da poco. Quel che meraviglia davvero è che sia Mattarella a chiedere una nuova deliberazione, e non i ministri alla cui decisione e responsabilità l’esito viene imputato. Come si dice spesso, la forma è sostanza. E certo nella forma della decisione di un consiglio dei ministri si traduce la sostanza di equilibri politici generali e di coalizione. È la precarietà di questi equilibri che il «salvo intese» traduce nella deliberazione. E che pone nell’organo collegiale non ministri della Repubblica, ma ectoplasmi di governo. La precarietà è un connotato generale del governare in gialloverde, che nasce da un «contratto» che ha giustapposto le priorità degli alleati-competitors, ma non ha generato un progetto politico condiviso. In questo momento l’Italia è un paese che ha un governo, ma, per dirla con i costituzionalisti, non un indirizzo di governo. In molti casi ne ha due, o più, o nessuno per le tante questioni non contemplate dal contratto. La cosa andrebbe affrontata nelle sedi opportune, ovviamente prima di arrivare in consiglio dei ministri, e non dopo. La stessa precarietà spiega la sollevazione contro Salvini dei generali, che affermano – per l’ultima direttiva sui migranti – di rispondere al ministro della difesa e al capo dello Stato. Per una volta, siamo d’accordo con i generali. Al ministro dell’interno è già in larga misura riuscito il gioco di intestarsi il messaggio securitario, e vuole proseguire in fuga solitaria. Leggiamo ora di una direttiva che chiede ai prefetti di sostituirsi con propria ordinanza ai sindaci nell’adozione dei daspo urbani. Bisognerà farne un’analisi attenta, ma, a parte i dubbi sulla costituzionalità, è chiaro il messaggio che Salvini è l’unico vero argine contro minacce o turbamenti all’ordine e alla sicurezza pubblica. Ovviamente, non può essere questa la strada per attrarre sul Viminale ogni decisione sugli ingressi nel paese o sulla convivenza nelle città. Ancora cerchiamo di capire che fine abbia fatto la competenza di Toninelli, ministro delle infrastrutture, sui porti. Nei governi che si rispettano le decisioni complesse si affrontano con intese e concerti tra ministri, e non a colpi di direttive solitarie e di comunicazione sui social. Salvini ci preoccupa. La prossima volta che torneremo dall’estero avremo momenti di ansia alla frontiera. Troveremo una direttiva Salvini che ci costringerà raminghi in terra straniera?

I decreti salvo intese e il richiamo di Mattarella al Governo Conte. Lo sblocca cantieri e il decreto crescita devono ancora arrivare al Quirinale. Ma la lunga gestazione dei decreti legge non è una novità, in media passano 10 giorni dalla presentazione alla pubblicazione in gazzetta ufficiale. Openpolis agi Mercoledì 17 Aprile 2019. Inizia ad essere un tratto caratteristico del governo Conte: l’eccessivo intervallo tra la presentazione in consiglio dei ministri di un decreto legge, e la sua effettiva pubblicazione in gazzetta ufficiale. Un problema, ed un abuso delle approvazioni “salvo intese” che ha persino costretto il presidente della repubblica ad intervenire. Nella giornata di ieri infatti il presidente del consiglio è salito al Quirinale, dove Mattarella ha evidenziato la criticità di questa situazione. Sul tavolo degli imputati in questo caso sia il decreto sblocca cantieri, presentato in consiglio dei ministri lo scorso 20 marzo, che il decreto crescita, deliberato da Palazzo Chigi il 4 aprile.

Il consiglio dei ministri viene utilizzato mediaticamente per le conferenze stampa del governo, ma ne escono raramente provvedimenti già pronti. Una questione che avevamo già sollevato nel nostro report sui primi 6 mesi del governo Conte, e che abbiamo più volte ripreso nel nostro aggiornamento mensile dell’Osservatorio legislativo. L’esecutivo giallo-verde non solo come i suoi predecessori sta abusando del decreto legge per legiferare, ma lo fa utilizzando lo strumento in maniera farraginosa e poco lineare. I provvedimenti vengono presentati in conferenza stampa, ma poi spariscono dal radar del pubblico, e dopo molti (troppi) giorni arrivano al Quirinale. Una situazione che rende poco comprensibile il processo legislativo, e soprattutto poco trasparente.

L’abuso dei decreti. Escludendo i 4 decreti che sono decaduti, passano in media 10 giorni dalla presentazione di un decreto alla sua pubblicazione in gazzetta ufficiale. Con il decreto sblocca cantieri il governo ha raggiunto un nuovo record, essendo già passati 28 giorni dalla sua deliberazione “salvo intese”. Pure per il decreto crescita il dato è preoccupante, essendo passati già 13 giorni da quando il provvedimento è comparso nel comunicato stampa di Palazzo Chigi tra i testi approvati. 10 giorni passano in media dalla presentazione di un decreto alla sua pubblicazione in gazzetta ufficiale. Il problema era già emerso per, in ordine di tempo: il decreto dignità (11 giorni di attesa), il decreto Genova (15 giorni), il decreto fiscale (8 giorni) e non per ultimo il decreto reddito di cittadinanza e quota 100. Il decreto sblocca-cantieri è atteso da 28 giorni.

L'intervallo che trascorre tra deliberazione e pubblicazione dei decreti legge. Sono stati calcolati i giorni trascorsi tra la deliberazione del decreto in consiglio dei ministri e la pubblicazione in gazzetta ufficiale. Non sono stati considerati i decreti decaduti.

Il ruolo del Quirinale. L'intervento di Mattarella nel caso specifico è giustificato dal suo ruolo, così stabilito dalla costituzione. Il presidente della repubblica può infatti non solo rinviare una legge alle camere, ma anche intervenire sulla genesi dei decreti legge. Vai a "L’influenza del quirinale sul processo legislativo". L'apporto del presidente della repubblica alla qualità della produzione legislativa riguarda quindi anche i decreti legge. Non solo per assicurarsi che vengano rispettate le caratteristiche di urgenza e necessità, ma anche per evitare che l'abuso dei decreti sia anche accompagnato da un iter di gestazione legislativa poco trasparente. Il problema è anche strettamente collegato al ruolo del consiglio dei ministri, organo che deve deliberare il provvedimento, e quindi sancire l'accordo tra tutte le parti del governo.

Si predilige la comunicazione politica alla produzione legislativa. L'escludere completamente l'istituzione governativa dall'approvazione "formale" dell'atto definitivo, rappresenta quindi un problema. Un tema molto ricorrente in questa legislatura, soprattutto sui provvedimenti più spinosi e complessi, e su cui l'accordo tra i due partner di governo spesso manca. Appare poi che le riunioni del consiglio dei ministri vengano utilizzate mediaticamente per le conferenze stampa del governo, raramente producendo sui testi più corposi dei provvedimenti pronti e definiti. Si predilige quindi la comunicazione politica alla produzione legislativa.

Cosa monitorare. L'intervento di Mattarella, in quanto garante della costituzione, deve essere un segnale importante per il governo Conte. Il presidente della repubblica, quando interviene sulla qualità del processo legislativo, non lo fa a cuor leggero. Non solo, l'approvazione di decreti "salvo intese" è sempre più ricorrente e questo è testimonianza di sempre maggiori spaccature all'interno della maggioranza di governo. Certamente un tema da monitorare nei prossimi mesi, sia per l'importanza di un processo legislativo che deve essere il più comprensibile possibile, sia per un esecutivo che con difficoltà riesce a trovare una quadra su determinati temi.

Governo, Mattarella non ne vuol più sapere del "salvo intese". Clamoroso. Governo, Mattarella non ne vuol più sapere di approvazioni "salvo intese". Conte asfaltato. Martedì, 23 aprile 2019 Affari italiani. "Speriamo che stasera si chiuda veramente sul decreto crescita", sibilano dalle parti del Colle; tra poco meno di due ore, alle 18 di stasera, si terrà il Consiglio dei ministri e il dl crescita è ancora in bilico. Potrebbe esserci un'altra approvazione "salvo intese" oppure il invio alla prossima settimana. Ma qualcuno, rivela il super informato Dagospia, dovrebbe finalmente spiegare a Luigi di Maio e Matteo Salvini (ma soprattutto al Premier Conte) che al Quirinale della famosa formula "salvo intese" non ne vogliono proprio più sentir parlare: "Non è così che si governa un Paese". Insomma, continua Dagospia, ne hanno le scatole piene e ci si chiede come possa un'alleanza stare ancora in piedi se non riescono più a trovare un accordo nemmeno su misure tipicamente elettoralistiche come quelle del decreto crescita: "Ma come si fa a continuare in questo modo? Non c'è più intesa su niente, non si può pensare di governare l'italia "salvo intese": o si governa oppure non si governa".

UN PAESE GOVERNATO “SALVO INTESE”. Marco Antonellis per Dagospia il 23 aprile 2019. "Speriamo che stasera si chiuda veramente sul decreto crescita", sibilano dalle parti del Colle; tra poco meno di due ore, alle 18 di stasera, si terrà il Consiglio dei ministri e il dl crescita è ancora in bilico. Potrebbe esserci un'altra approvazione "salvo intese" oppure il invio alla prossima settimana. Ma qualcuno dovrebbe finalmente spiegare a Luigi di Maio e Matteo Salvini (ma soprattutto al Premier Conte) che al Quirinale della famosa formula "salvo intese" non ne vogliono proprio più sentir parlare: "Non è così che si governa un Paese". Insomma, ne hanno le scatole piene e ci si chiede come possa un'alleanza stare ancora in piedi se non riescono più a trovare un accordo nemmeno su misure tipicamente elettoralistiche come quelle del decreto crescita: "Ma come si fa a continuare in questo modo? Non c'è più intesa su niente, non si può pensare di governare l'italia "salvo intese": o si governa oppure non si governa". A Conte saranno fischiate le orecchie.  Anche perché per Sergio Mattarella le elezioni anticipate non sono più un tabù tanto più che c'è da risolvere la delicata partita del suo successore al Quirinale: e solo con il voto anticipato sarebbe possibile impedire che nel 2022 venga eletto un populista-sovranista a Capo dello Stato: tra Lega e 5stelle nelle nelle riunioni più riservate circolano già i nomi dell'attuale Premier Conte e addirittura anche quello di Paolo Savona. Con le elezioni anticipate, invece, populisti e sovranisti (sia che al governo andasse la Lega di Matteo Salvini sia che fosse il turno dei i 5 Stelle di Luigi Di Maio) sarebbero costretti a mediare con forze europeiste, ovvero con Forza Italia da un lato e con il Pd dall'altro. In questo modo, si ragiona dalle parti del Colle, si eviterebbe che al posto di Mattarella arrivi un populista-sovranista: "Draghi sarebbe perfetto per controbilanciare le pulsioni antieuropeiste" spiegano fonti di altissimo livello istituzionale. Insomma, le  elezioni anticipate farebbero molto comodo anche all'attuale inquilino del Colle nonché all'establishment italiano ed europeo onde evitare che il prossimo Presidente della Repubblica venga espresso dall'attuale Parlamento. Il timore è l'eccessiva concentrazione di potere: con un Capo dello Stato "amico" Salvini e Di Maio non avrebbero più limiti né freni né contrappesi.

UN GOVERNO SENZA ARGOMENTI. Da Corriere.it il 30 aprile 2019. Nessun vero argomento all’ordine del giorno per il consiglio dei ministri convocato per questa sera, 30 aprile, alle 21 a Palazzo Chigi. La comunicazione inviata ai ministri dall’Ufficio di Segreteria della presidenza del consiglio non riporta infatti alcun tema ufficiale di discussione, limitandosi alla generica indicazione di «varie ed eventuali» che viene riportata per prassi in tutte le riunioni, da quelle di condominio ai consigli di istituto. Anche i consigli comunali prevedono sempre uno spazio di discussione libera — che spesso si rivela più interessante dei punti calendarizzati — alla fine della seduta, perlopiù per dare modo ai gruppi di presentare mozioni e interpellanze dell’ultima ora, anche perché nei comuni più piccoli le convocazioni possono avvenire a diverse settimane l'una dall'altra. Ma è insolito leggerlo su una nota di Palazzo Chigi, dove l'agenda delle deliberazioni dovrebbe essere sempre fitta. Della nota è venuto in possesso Filippo Sensi, ex portavoce dei governi Renzi e Gentiloni e oggi deputato del Pd, che l’ha rilanciata dal suo profilo twitter @nomfup con un laconico commento: «E niente». La comunicazione ha subito iniziato a circolare in Rete, scatenando facili ironie («Dovranno decidere il menù del pranzo del Primo Maggio» «Quando non puoi scrivere apericena...») ma anche la rabbia di chi si sente preso in giro. Una manna per gli esponenti delle opposizioni. Come Monica Cirinnà, anche lei deputata Pd: «Litigano su tutto e non hanno nemmeno la decenza di scrivere “comunicazioni del Presidente del Consiglio”. Nulla da mettere all’ordine del giorno? Tipo: dimissioni o revoca del sottosegretario Siri? Il Paese è fermo e loro si prendono il lusso delle varie ed eventuali». E aggiunge Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia: «Il consiglio dei ministri di stasera, che dovrebbe discutere la questione Siri, le nomine di Bankitalia e nel quale potrebbe piombare il macigno dell'autonomia regionale, è stato convocato (...) con una formula da teatro dell'assurdo: sono talmente divisi che, come in certe movimentate assemblee di condominio, non riescono a mettersi d'accordo nemmeno sull'ordine del giorno. È il governo del cambiamento vario ed eventuale».

·         Le Metafore della Politica.

Dal calcio alla politica: quando le metafore invadono l’attualità. Laura Pellegrini il 28/11/2019 su Notizie.it. Il rapporto tra calcio e politica ha radici molto antiche e continua ad essere un modo originale per intrecciare il gioco ai fatti di attualità. Capita spesso di associare due mondi tra loro apparentemente diversi, ma che in realtà hanno molto in comune. Parliamo del calcio, che accomuna moltissimi tifosi italiani, e la politica, altrettanto seguita per le divertenti scorribande tra i vari leader di destra e di sinistra. La spettacolarizzazione dei ruoli istituzionali è un fenomeno sempre più visibile nella società attuale. Ogni giorno, infatti, si sente parlare di attacchi via Twitter, Facebook, Instagram; si leggono commenti ai fatti di attualità dai social più disparati e dagli ambiti più diversi. Così si possono trovare cantanti imbattersi in politica o politici che si improvvisano cantanti in televisione. Ogni riferimento è puramente casuale. Quello che emerge è che le metafore calcistiche invadono sempre più il ‘campo’ della politica. Un altro caso d’eccezione riguarda poi i dibattiti televisivi, seguiti ormai più per gli attacchi tra i personaggi che per le idee che vengono trapelate. Prendiamo il caso dei due Mattei: Renzi da un lato che cerca di accompagnare Salvini a un’autogoal sul caso Russia, cercando in ogni modo di tirar fuori dalla sua bocca anche la minima dichiarazione che possa comprometterlo. Dal canto suo, Salvini con tanto di cartelli e grafici, cerca di mettere in difficoltà l’avversario sui temi delle migrazioni, del PIL o dei fondi pubblici. Il tutto di fronte ad un pubblico passivo e spettatore che acclama l’uno o l’altro leader a seconda delle preferenze. Senza volerlo, per spiegare brevemente quello che si andrà a trattare abbiamo utilizzato metafore calcistiche: “attacchi”, “autogol”, “avversario”. Ma vediamo quanto in realtà venga utilizzato questo lessico colloquiale e quotidiano all’interno del mondo politico.

Politica e calcio: un’attrazione irresistibile. Il rapporto tra calcio e politica ha radici molto antiche e continua ancora oggi ad essere uno dei modi più originali per intrecciare il divertimento del "giuoco" (per dirla alla Berlusconi) ai fatti di attualità. Dal “tutti in panchina” di Andreotti all’uscita di scena di Renzi il passo è breve. L’ex premier fiorentino disse anche di non “passare un giorno senza lottare su ogni pallone”. Ma dal lato della destra non si può non citare la "discesa in campo" di Silvio Berlusconi, che ha lasciato il Milan per raggiungere la Presidenza del Consiglio. E ancora: sui quotidiani nazionali e internazionali si ritrovano espressioni quali “clamoroso autogol” o “partita ancora aperta” anche per descrivere tensioni nel governo o tra i partiti. Risulta difficile al giorno d’oggi distinguere una prima pagina del Corriere da una della Gazzetta dello Sport. Ma a quanto pare ai cittadini questo legame, questo linguaggio colloquiale e quotidiano che fa largo uso di metafore calcistiche per descrivere la politica, piace parecchio.

Berlusconi: dal Milan a Palazzo Chigi. L’emblema di come le metafore calcistiche stiano invadendo il "campo" della politica (per utilizzare appunto una metafora) è la figura di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, infatti, da presidente del Milan è approdato per ben due volte a Palazzo Chigi. Con la fondazione del suo partito, Forza Italia, inoltre, ha voluto lanciare un inno, se così possiamo dire, oltre che un semplice slogan. L’appellativo “azzurri” che si associa ai forzisti, infine, sembra voler alludere alla nazionale italiana di calcio. Anche nella descrizione dei ruoli all’interno del centrodestra unito, Berlusconi ha utilizzato un’interessante metafora con Matteo Salvini e Giorgia Meloni schierati sul campo con posizioni ben definite. Se il centrodestra fosse una squadra di calcio, aveva detto, “Matteo Salvini sarebbe un evidente centravanti di sfondamento, Giorgia Meloni uno di quei terzini che copre la fascia destra ed è capace da quella parte di andare in goal ed io naturalmente il regista a centrocampo”. Non ancora soddisfatto della formazione, inoltre, l’ex premier ha voluto aggiungere un ulteriore dettaglio: “Questa squadra (il centrodestra ndr.) ha milioni di tifosi, la maggioranza degli italiani, e deve conquistarne altri ancora: sette milioni di moderati che non vanno al voto ma si dichiarano liberali e anticomunisti”. Insomma, una descrizione perfetta del panorama politico del centrodestra unito da parte di un ex direttore di una squadra di calcio. Il Cavaliere, infine, utilizza espressioni calcistiche anche per sdrammatizzare su episodi non troppo piacevoli. Sulla caduta a Zagabria, ad esempio, disse di essere “abituato agli sgambetti”.

Salvini, il Pd e M5s. Allusioni calcistiche associate alla politica non mancano nemmeno da parte del Movimento 5 stelle, del Partito Democratico e dallo stesso Matteo Salvini. Quest’ultimo in particolare si fa chiamare dai suoi fedelissimi il “Capitano”: nulla di più vicino alla figura di spicco di una squadra di calcio. E come dimenticare il duello del leghista contro la Capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete. Oltre a ciò, i numerosi interventi di Salvini nel mondo del calcio non si possono dimenticare: dall’episodio dei cori razzisti a Balotelli fino alla frecciatina a Jesus Suso su Instagram (“Speriamo che Babbo Natale ti porti un po’ di velocità, grinta e voglia di giocare” aveva scritto il leghista). Ma anche nella dialettica dei grillini o ancor di più nell’alleanza di governo è possibile trovare qualche aggancio con il campo da calcio. L’incontro-scontro tra le due forze giallo-rosse potrebbe configurarsi come una sorta di derby, nel quale però non può prevalere l’una o l’altra forza politica, ma occorre trovare una mediazione che possa incontrare gli interessi dei cittadini. Infine, come scordare la performance del premier Giuseppe Conte che fece un baffo ai calciatori di spicco della nazionale italiana? Con il suo dribbling alla Maradona qualcuno potrebbe averlo confuso con l’omonimo coach dell’Inter. “Palla al centro” quindi, nell’attesa delle prossime metafore politico-calcistiche per spettacolarizzare i dibattiti istituzionali.

La politica italiana è un acquario. Le sardine oggi. I delfini, le scatolette di tonno, le balene banche ieri. Per qualche strana ragione, l'ittica ha sempre avuto un posto di rilievo nella narrazione del Palazzo. Susanna Turco il 28 novembre 2019 su L'Espresso. Molti anni dopo, l'ittica è tornata nei Palazzi della politica, con gran sollievo di chi ne parla, ragiona e scrive. Urge tuttavia segnalare la somiglianza, ormai, con uno sketch dei Monty Python. Delfini, ad esempio, non ne fanno più. Sterminato l’ultimo possibile erede politico di Silvio Berlusconi, dopo gli Alfani, i Casini, i Toti, si è persa proprio l’idea, lo stampo, la suggestione. Il grillino Luigi Di Maio, nato per essere l’ultimo aspirante delfino, ed è finito dritto dritto dentro la scatoletta di tonno, in fondo alla cucina della casa assegnata alla ex ministra Elisabetta Trenta. Destino crudele, il suo, ben oltre la previsione di Gianfranco Fini sui successori che finiscono «spiaggiati». La Balena (bianca) pur molto rimpianta - ormai in maniera totale - non si vede da un pezzo. Della scatoletta di tonno s’è detto. Per quel che riguarda gli squali - a parte Vittorio Sbardella e la sua aguzza risata che ispirò Giampaolo Pansa durante il diciottesimo congresso della Dc - non si rintracciano degni epigoni. Qualcuno suggerisce il nome di Matteo Salvini, ma poi l’associazione con la fetta di Nutella rovina l’intera metafora. Persa altresì ogni traccia di salmoni, o di chiunque nuoti controcorrente: c’erano una volta Benedetto Della Vedova e Marco Taradash, i radicali che andavano con Berlusconi, evvabbé. Insomma alla fine l’ingrato spettacolo rischia di essere questo: le sardine intente a nuotare in un acquario vuoto, la politica italiana. E quando cominceranno a interrogarsi sul senso della vita, tutto sarà compiuto.

Cosa manca alle sardine per durare nel tempo? Francesco Oggiano il 30/11/2019 su Notizie.it. Le Sardine sono il primo movimento a manifestare contro l’opposizione e mancano di qualcosa: un obiettivo, un programma o, almeno, una richiesta. Un antico proverbio greco dice che “se non c’è carne, bisogna accontentarsi delle sardine”. Nella dispensa della sinistra, priva persino di un piatto di seconda scelta, le sardine rappresentano la portata principale. Destinata forse a scadere presto. La loro «identità» fondante – e loro sperano sfondante – è l’opposizione a Matteo Salvini, al suo linguaggio e al suo programma considerato populista. Con quella, i suoi quattro promotori hanno riunito 15 mila persone in piazza a Bologna e centinaia di migliaia in tutta Italia nei giorni successivi. Hanno creato decine di gruppi su Facebook e una pagina hub che raccoglie oltre 200 mila persone. Hanno raccolto l’ironia di Salvini (che ha risposto postando foto di gattini) e le lodi di quasi tutta la stampa e le televisioni tv italiane (presagio oscuro per quasi ogni passato movimento di società civile). La festa è finita. Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti”. Scrivono di “bugie e odio” rovesciate dai populisti sugli italiani, di un risveglio avvenuto in piazza (“È stata energia pura”), di loro che sono “tanti e più forti” dei populisti; proseguono tracciando l’identità un po’ fiabesca della meglio gioventù (“Cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero”), augurandosi “la politica e i politici con la P maiuscola”, e promettendo nuove manifestazioni. E si congedano con con una dichiarazione di sfida: “Noi siamo sardine libere, e adesso ci troverete ovunque”. 3 mila caratteri che fanno più monologo del Gladiatore, che manifesto concreto di intenti.

Cosa manca alle sardine? Perché è questo il punto: le sardine – movimento a cui qualunque persona dotata di minimo amore per la democrazia non può che augurare un futuro radioso, anche solo per il loro carattere non-violento e antifascista – mancano di qualcosa: un obiettivo, un programma, una misura o una richiesta. I paragoni con i passati movimenti civili fatti finora non sono dei più lusinghieri e forse corretti. Per limitarci a quelli del nuovo millennio, le sardine sono state paragonate ai No Global del 2001, che almeno avevo come denominatore comune la critica al neoliberismo. Sono state affiancate ai girotondi morettiani del 2002, che pure erano nati con una rivendicazione ben più chiara e concreta: sostenere i giudici attaccati dall’allora premier Silvio Berlusconi. Sono state equiparate al V-Day del 2007, che però nasceva sulla base di un obiettivo concretissimo (la raccolta firme per l’iniziativa di legge Parlamento Pulito); al Popolo Viola del 2009, che però chiedeva le dimissioni dell’allora premier dopo la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale; al Movimento arancione del 2011, che almeno portò all’elezione di diversi sindaci in alcune città italiane (tra cui Luigi De Magistris e Giuliano Pisapia). A nulla valgono nemmeno gli accostamenti con i vari movimenti delle piazze di Hong Kong, Santiago o Beirut, che oltre a chiedere azioni precise (dimissioni o ritiro di proposte di legge) si scagliano contro la classe dirigente che in quelle nazioni è al potere. Le Sardine, invece, sono il primo movimento a manifestare contro l’opposizione. Sono l’opposizione all’opposizione, gli unici movimentisti al mondo che scendono in piazza contro chi il potere non ce l’ha. Facendolo, ci mostrano inconsapevolmente due peculiarità italiane proprie di questi mesi: la percezione da parte degli italiani di chi è veramente protagonista del dibattito politico (a nessuno verrebbe in mente di manifestare contro l’inconsistente Nicola Zingaretti); e l’assoluta mancanza a sinistra di una formazione democratica, credibile e soprattutto sexy che sia capace come loro di mobilitare i cittadini italiani. Forse il loro più grande merito a oggi: averci mostrato l’assenza della «carne».

·         La politica degli strafalcioni.

La politica degli strafalcioni. Congiuntivi, grammatica, sintassi, dalla prima Repubblica ad oggi gli errori dei politici non sgomentano più, anzi..., scrive Mario Giordano il 19 marzo 2019 su Panorama. «L’importante è che i bandi non si interrompino». Appena il nuovo segretario del Pd Nicola Zingaretti, al suo comizio d’esordio, è scivolato sul congiuntivo, gli italiani hanno tirato un sospiro di sollievo: meno male, non è cambiato nulla. Zingaretti ha voluto rassicurarci, dando un segnale di continuità con il recente passato. E per questo, a stretto giro, si è ripetuto: «Lasciate che le notizie corrino», ha detto. E subito dopo ha dimostrato di avere le idee chiare anche sul futuro, parlando di «livelli che non c’era tra dieci anni». Così noi ci siamo definitivamente tranquillizzati: forse la nuova politica non riuscirà mai a cambiare le regole dell’Italia. Però, almeno, sta provando a cambiare le regole dell’italiano. Un impegno senza soste. «Sarò breve e circonciso», ha proclamato per esempio il deputato Cinque stelle Davide Tripiedi. «Mi facci finire», ha aggiunto Alessandro Di Battista. «Mi facci parlare», ha ribadito Matteo Renzi. «Vadano avanti, concorrino al clima di pacificazione», ha sentenziato Pierferdinando Casini. E l’attuale vicepremier Di Maio è riuscito a correggere tre volte un tweet sbagliando sempre il congiuntivo: «C’è il rischio che soggetti spiano», «C’è il rischio che soggetti spiassero», «C’è il rischio che le istituzioni venissero spiate». Per non dire di quando, durante una trasmissione televisiva, gli chiesero del sindaco Raggi. E lui: «Ora la telefono». Ma su questi strafalcioni è stata fatta fin troppa ironia. Ora, invece, che Zingaretti sbaglia il congiuntivo o dice «mi hanno imparato», non ne parla quasi nessuno. Come mai? Semplice: il nuovo segretario Pd si è presentato come il volto serio, quello dell’apparato, il ritorno alla ditta antica, la restaurazione di chi sa far politica davvero contro gli incompetenti di oggi, quelli che pensano che Napoleone abbia combattuto ad Auschwitz anziché ad Austerlitz (Di Battista), che Pinochet sia stato dittatore del Venezuela (ancora Di Maio), che migrante sia un gerundio (Salvini) e Dublino in Inghilterra (Meloni). Fermi tutti: ritornano quelli bravi. Quelli di una volta. E che nessuno li interrompi. Ma in realtà le scivolate grammaticali di Zingaretti non fanno altro che togliere la maschera a una delle narrazioni più sfruttate dell’ultimo periodo, e cioè proprio questa, quella della presunta inferiorità culturale della Terza Repubblica. Perché se è vero che di recente gli onorevoli (si fa per dire) non ci hanno risparmiato nulla, dall’«egidia dell’Onu» (Roberto Fico) alle «traccie della maturità» (Valeria Fedeli da ministro dell’Istruzione), non è che qualche anno fa se la cavassero meglio. Basta ripensare alle indimenticabili risposte date dai parlamentari interrogati dalle Iene davanti a Montecitorio: che cos’è il Darfur? Un fast food. E il Papa? Si chiama Bonifacio. Quando è stata scoperta l’America? Nel 1892. O forse nel Quaranta. Ma di che secolo? E chi lo sa. Roba che al confronto la celebre citazione storica di Berlusconi («Roma? Fondata da Romolo e Remolo») è da Premio Acqui Storia. D’altra parte anche la ormai rivalutata Prima Repubblica non era, da questo punto di vista, tanto superiore. Il papà di tutti i cronisti parlamentari, Guido Quaranta, da poco scomparso, dedicò un libro meraviglioso agli onorevoli strafalcioni in bianco e nero, elencando le «accuse respinte all’emittente» e il discorso che andava avanti «ad libidinum», fino ad arrivare naturalmente all’immortale «Scusatemi ho il patè d’animo», che diede il titolo al volume. «Ecco il più grande pederasta d’Italia», disse l’esponente di spicco del Pd novarese: voleva dire «pediatra», ovviamente. Mentre si racconta che quando Giorgio Almirante, durante un comizio, citò Le ultime lettere di Jacopo Ortis, un dirigente del Msi si inalberò: «Chi è che si permette di scrivere al segretario senza il mio permesso?». Del resto già nel Dopoguerra, Gaetano Invernizzi, partigiano e deputato della prima legislatura, arringava i militanti davanti alle fabbriche della Brianza con citazioni un po’ ardite: «Come sapete, compagni, è più facile che un ago passi per la cruna di un cammello...», disse. Si misero tutti a ridere. E allora lui si corresse: «È più facile che un ricco passi per la cruna dei cieli...». In fondo, come si vede, dal 1948 a Zingaretti, poco è cambiato: passano le Repubbliche, cambiano gli onorevoli e i nomi dei partiti. Ma l’importante è che gli strafalcioni non si interrompino. 

·         Mattarella agli studenti: "La politica non è un mestiere.

Mattarella agli studenti: "La politica non è un mestiere, richiede scelte complesse e non si fa con i si dice". Il capo dello Stato ha risposto alle domande dei ragazzi: "Io sono ormai un pensionato e insegno diritto all'Università, questo è il mio lavoro", scrive il 5 marzo 2019 La Repubblica. "La politica è un'attività fortemente impegnativa che richiede una dedizione alle volte completa, perché le scelte politiche in un grande Paese come l'Italia sono impegnative, complesse, non possono essere adottate in maniera approssimativa, senza approfondita preparazione e studio, non possono essere prese per sentito dire". Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel corso di un incontro con gli studenti di diverse scuole medie che gli hanno rivolto domande e curiosità sulla politica. Alla domanda: "Che cosa significa precisamente dire di una persona che è un politico? Quali caratteristiche bisogna avere per intraprendere la carriera politica?", il capo dello Stato ha risposto: "la politica non è un mestiere. Se voi mi chiedeste qual è il mio mestiere, la mia professione, risponderei che ormai sono pensionato ma la mia professione è insegnare diritto all'università. Quello è il mio mestiere, il mio lavoro. L'impegno politico è una cosa in più, è un impegno aggiuntivo a quella che è la propria dimensione nella vita sociale. Non voglio dire che chi si impegna nell'attività politica, e quindi assume ruoli elettivi, possa farlo nei ritagli di tempo".

·         Governi la Regione e poi vai in galera…

Governi la Regione e poi vai in galera…La “maledizione” di Del Turco, Errani, Scopellitti, Pittella…e Formigoni, scrive Simona Musco il 24 Febbraio 2019 su Il Dubbio. C’ è il presidente della Basilicata, Marcello Pittella, finito ai domiciliari con l’accusa di falso e abuso d’ufficio per le nomine nella sanità. C’è Giancarlo Galan, per 15 anni presidente del Veneto, prima in carcere e poi ai domiciliari con l’accusa di corruzione, concussione e riciclaggio nella maxi inchiesta sulle tangenti per il Mose. E anche Ottaviano Del Turco, arrestato per l’inchiesta sulla sanitopoli abruzzese quando era a capo della giunta, accusato anche di associazione a delinquere, accusa poi caduta. Non esiste una sola regione in Italia che non abbia avuto, almeno una volta, un presidente indagato. Se ne contano circa 60, negli anni, e a volte a qualcuno è toccato anche varcare le porte del carcere. L’ex presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, è solo l’ultimo in ordine di tempo: dopo la condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi per corruzione, da ieri si trova in carcere a Bollate. Prima di lui la Lombardia aveva visto indagato e condannato anche Roberto Maroni. Ma il carcere è un destino che il Celeste condivide con il collega calabrese, anche lui di centrodestra, Giuseppe Scopelliti, condannato definitivamente, ad aprile scorso, a quattro anni e sette mesi per gli ammanchi nei bilanci del Comune di Reggio Calabria dal 2008 al 2010, periodo in cui era sindaco della città. Accusato di abuso d’ufficio (reato prescritto) e falso in atto pubblico, l’ex sindaco ha ottenuto solo uno sconto di cinque mesi rispetto alla condanna in appello. Il 5 aprile, dunque, l’ex presidente si è recato nel carcere di Arghillà, che ora può lasciare quattro ore al giorno per svolgere attività di volontariato. Ma la “maledizione” dei governatori si è abbattuta anche sul suo successore piddino, Mario Oliverio, oggi costretto all’obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore con l’accusa di abuso d’ufficio e corruzione, contestata dalla Dda di Catanzaro per la gestione di alcuni appalti milionari della Regione. Non è una novità, dunque, anche perché la Calabria si è vista indagare gli ultimi cinque governatori. Oltre Scopelliti e Oliverio ci sono, infatti, anche Luigi Meduri, governatore dal 1999 al 2000, arrestato nel 2015 per una storia di tangenti che coinvolgeva anche l’Anas. Ai domiciliari da ottobre a dicembre, poi sottoposto all’obbligo di firma fino a marzo 2016, nei mesi scorsi è stato assolto «perché il fatto non sussiste». Ma i guai hanno riguardato anche il suo successore, l’ex magistrato Giuseppe Chiaravalloti, finito nelle indagini di Luigi De Magistris – “Poseidone”, “Dinasty2” e “Why not” – con le accuse di frode, corruzione e abuso d’ufficio. In due casi fu prosciolto, in “Why not” nel 2013 scattò la prescrizione. E quest’ultima inchiesta coinvolse anche Agazio Loiero – coinvolto in diverse indagini, uscendone sempre pulito – assolto poi per «non aver commesso il fatto». Una poltrona maledetta quella della cittadella regionale di Catanzaro, dunque. Come forse lo è anche quella a Palazzo d’Orléans, in Sicilia, dove fra il 1994 e oggi sono sei i presidenti e gli ex presidenti finiti in casi giudiziari. Prima Rino Nicolosi (Dc), arrestato e condannato due volte: cinque anni e mezzo per mazzette sulla costruzione di un centro fieristico a Catania e tre anni e due mesi per una tangente di mezzo miliardo sull’acquisto della sede di rappresentanza della Regione siciliana a Roma. Ma Nicolosi era coinvolto anche nel processo sulla “Tangentopoli siciliana”, durante il quale ammise: «la politica costa». Ci fu poi Giuseppe Provenzano (Forza Italia), per il quale Giovanni Falcone chiese l’arresto per avere intrattenuto rapporti con la moglie del boss Provenzano, quale commercialista della donna. Dopo meno di una settimana fu scagionato dallo stesso Falcone, ma poi condannato assieme ad un altro presidente, Giuseppe Drago, a tre anni per peculato e all’interdizione dai pubblici uffici. Ci sono poi Totò Cuffaro – condannato a sette anni per favoreggiamento aggravato alla mafia – e Raffaele Lombardo, arrestato due volte e ora di nuovo a processo, dopo la decisione della Cassazione di accogliere il ricorso della Procura generale di Catania: dopo una condanna in primo grado a 6 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, il 31 marzo 2017 la Corte d’Appello di Catania aveva ridotto la pena a 2 anni solo per voto di scambio. Infine Rosario Crocetta, indagato nel 2017 per corruzione e finito nell’inchiesta Montante l’anno dopo con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al finanziamento illecito. Tra gli imputati e assolti eccellenti c’è Vasco Errani, ex governatore della Toscana, assolto dall’accusa di falso ideologico perché il fatto non sussiste, dopo un calvario lungo 7 anni. Ma la storia dei governatori finiti agli arresti è lunga e parte da lontano. In Campania (dove tra gli indagati eccellenti ci sono stati anche l’ex presidente Antonio Bassolino e l’attuale governatore Vincenzo De Luca) c’è ad esempio Ferdinando Clemente di San Luca ( Dc), presidente dal 1989 al 1993, anno in cui venne arrestato con l’accusa di aver ricevuto delle tangenti. Nel 2002 fu riabilitato e risarcito con 160mila euro. Il collega democristiano Antonio Fantini, che lo aveva preceduto, dopo una condanna a 2 anni e 10 mesi per la cattiva gestione dei fondi per il Terremoto dell’Irpinia del 1980, nel 2009 venne sottoposto al divieto di dimora in Campania om un’inchiesta sull’Agenzia regionale per la Protezione ambientale. Agli arresti, negli anni, ci sono finiti anche Marco Marcucci, ex presidente della Toscana, finito in carcere a Sollicciano per lo scandalo della diga del Bilancino e assolto nel 1999 perché il fatto non sussiste; e Angelo Rojch, presidente in Sardegna dal 1982 al 1984, indagato per truffa alla Comunità europea nei corsi professionale e per voto di scambio. In carcere ci rimase per 30 giorni, salvo poi essere assolto con formula piena. In Liguria, Alberto Teardo, presidente dal 28 settembre 1981 al 25 maggio 1983, venne arrestato per corruzione e concussione con altri esponenti del Psi ligure, scontando più di due anni di carcere. In Abruzzo non è toccato solo a Del Turco, ma anche al suo predecessore Rocco Salini: la giunta venne arrestata in blocco per l’uso scorretto di 450 miliardi di fondi europei e lui fu l’unico condannato ad un anno e 4 mesi di reclusione per falso ideologico e abuso d’ufficio. Ma la conta non finisce qui: in Friuli, nel 1994, finì in carcere Adriano Biasutti, coinvolto in Mani pulite e condannato, a seguito di un patteggiamento, a38 mesi di reclusione, mentre in Umbria, nel 2013, Maria Rita Lorenzetti è rimasta 14 giorni ai domiciliari nell’inchiesta sul passante ferroviario dell’alta velocità in costruzione, con le accuse di associazione per delinquere, abuso d’ufficio, corruzione e traffico illecito di rifiuti.

Pd, non c’è soltanto lo scandalo Umbria: ormai cinque regioni traballano sotto il peso delle inchieste giudiziarie. Eccole. Salgono a cinque le regioni travolte da inchieste a carico di dirigenti locali e governatori daem. Mentre i sondaggi rianimano il partito e il tempo restituisce all'ex sindaco Marino la sua innocenza, nel Pd tornano la questione morale e il no giustizia. Il nuovo segretario marca la linea della "fiducia nella magistratura", ma sotto le ceneri cova l'anatema berlusconiano, scrive Thomas Mackinson il 13 Aprile 2019 su Il Fatto Quotidiano. In Umbria lo scandalo sanità fa saltare la testa del partito, con l’arresto dell’assessore Luca Barberini e del segretario regionale Gianpiero Bocci, ai domiciliari. Indagata la governatrice Catiuscia Marini. Nicola Zingaretti commissaria, Salvini chiama elezioni subito. Nel fianco del Pd ci sono però anche Abruzzo, Basilicata, Puglia, Calabria. Macigni sulla campagna elettorale di un partito uscito un anno fa con le ossa rotte e che ora sta cercando di ricomporsi. Zingaretti tutto poteva aspettarsi, tranne che il banco di prova della sua reggenza delle europee iniziasse a traballare sotto il peso delle inchieste giudiziarie. Proprio ora che i sondaggi sono in ripresa e il tempo ha restituito a Ignazio Marino, l’ex sindaco di Roma, la patente di estraneità al malaffare degli scontrini  cavalcato dalla corrente capitolina e renziana in ascesa. L’ultima tegola travolge l’Umbria, affare di assunzioni pilotate in sanità che riempie ancora i giornali di episodi e ricostruzioni che – oltre al possibile criminale in senso tecnico – illuminano consuetudini clientelari e dinamiche di potere difficilmente compatibili con il passo che il neosegretario vorrebbe imprimere al partito. Il rapporto con la giustizia, al di là del caso locale, è una variabile importante del suo mandato. Nel Pd che ha eredito cova da tempo una spaccatura profonda sul tema, emersa con più evidenza in occasione dell’indagine a carico dei genitori dell’ex segretario Matteo Renzi, quando qualcuno – ricorda oggi Repubblica – ha rispolverato la formula berlusconiana della “giustizia a orologeria”. Il segretario-governatore sembra indisponibile a seguire questa linea, avendo limitato il suo commento ai fatti di Perugia alla “piena fiducia nella magistratura”.

Basilicata, la débâcle dopo un quarto di secolo. Appena due settimane fa, il Pd aveva subito un storica sconfitta in Basilicata, regione che governava da 25 anni. Determinante l’inchiesta giudiziaria che a luglio aveva portato all’arresto del governatore Marcello Pittella. Sempre storiaccia di concorsi truccati, raccomandazioni e sanità usata come ascensore per ricchezza e potere dei notabili locali del partito e loro amici e parenti. A fine marzo si è votato per il rinnovo del consiglio regionale, Pittella disarcionato dall’inchiesta sulla sanità lucana è tornato in consiglio  forte di oltre 8mila preferenze e la sua lista “batte” quella del Pd. E i suoi ex assessori, indagati, siedono insieme al lui in consiglio.

Puglia, Emiliano e le primarie. In Puglia è finito sotto inchiesta Michele Emiliano per una vicenda legata al finanziamento delle primarie del Pd, quando il governatore sfidava Renzi e Orlando. Per la procura di Bari due imprenditori con interessi diretti sugli appalti della Regione pagarono la campagna elettorale dell’ex magistrato. Da qui l’accusa di abuso d’ufficio e traffico illecito di influenze alle quali Emiliano si dichiara estraneo.

Calabria, Oliverio tentato dal ritorno. Guai per il Pd anche in Calabria dove è indagine anche il presidente della Regione, Mario Oliverio. Per lui era stato disposto l’obbligo di dimora, misura però annullata a marzo dalla Cassazione. L’indagine riguarda presunte irregolarità in due appalti gestiti dalla Regione e per i quali la guardia di finanza, oltre ai presunti reati contestati a Oliverio, per gli altri indagati aveva riscontrato quelli di falso, corruzione e frode in pubbliche forniture. Dopo più di tre mesi, il presidente Oliverio torna libero con un provvedimento della Cassazione che, a questo punto, potrà sfruttare anche in chiave politica: siamo agli sgoccioli della legislatura, presto si tornerà a votare per le regionali e ha intenzione di ricandidarsi nonostante le perplessità di parte del Pd calabrese.

Il terremoto delle inchieste in Abruzzo. In Abruzzo proprio due giorni fa il tribunale dell’Aquila ha disposto l’archiviazione della posizione dell’ex presidente regionale Luciano D’Alfonso, oggi senatore dem. L’inchiesta era uno dei filoni seguiti dalla procura della Repubblica dell’Aquila sugli appalti della Regione: tra i principali, la gara per l’affidamento dei lavori di ricostruzione di palazzo Centi, sede della giunta regionale all’Aquila. Il primo di ottobre però si terrà l’udienza preliminare per un’altra vicenda in cui rischia il processo, quella della Procura di Pescara su una delibera di giunta del 2016, avente come oggetto la riqualificazione e la realizzazione del parco pubblico Villa delle Rose di Lanciano (Chieti) con le accuse di falso ideologico, per aver falsamente attestato, stando all’accusa, la presenza del governatore in giunta.

·         Gli Assessori alla "Qualunque".

Gli Assessori alla "Qualunque". Aumentano gli amministratori dalle deleghe assurde: alla felicità, al benessere, all'armonia...Francesco Bonazzi il 25 settembre 2019 su Panorama. Dopo «l’acqua del sindaco», quella che sgorga dalla rete pubblica, arriva la felicità del sindaco, quella che sgorga dalla testa di un assessore. In giro per l’Italia sta crescendo una sensibilità nuova, un progetto più ambizioso: lavorare per la gioia del cittadino. Perché non di sole autorizzazioni edilizie e assunzioni inutili si vive, ma anche di obiettivi «alti». E così, stanno spuntando sempre nuovi assessorati dedicati (le maiuscole sono nelle relative delibere comunali) alla Felicità, alla Gentilezza, al Benessere, alla Concretezza, all’Armonia e perfino alla Vivacità. Sono già una quarantina, dal Piemonte alla Sicilia, e molti di loro si vedranno il 22 settembre alla Giornata della Gentilezza, organizzata da due associazioni piemontesi, «Cor et Amor» e Movimento Mezzopieno, che negli ultimi mesi hanno proposto a centinaia di comuni di istituire questi nuovi assessorati, ovviamente «a costo zero». Perché la felicità è gratuita, si sa. E magari porta anche voti. A Rivarolo, nel torinese, il 30 agosto una signora di 74 anni si è accasciata in un supermercato ed è morta così, tra gli scaffali e i carrelli della spesa. Che hanno continuato a girare, come i rotoli delle casse, per un’ora e passa, mentre lei stava sotto un lenzuolo bianco. Alcuni clienti hanno fatto la spesa come nulla fosse, altri hanno protestato. Il giorno dopo, le pagine locali della Stampa davano conto dell’episodio ed ecco che spunta l’intervista a una giovane, Lara Schialvino, presentata come «assessore alla Gentilezza» di Rivarolo, la quale prometteva il solito «codice di condotta per le imprese». Schialvino, architetto trentenne, è diventata assessore alla Gentilezza alla fine di luglio. In quell’occasione, in consiglio comunale si scatenò una baraonda infernale, nel corso della quale un consigliere di opposizione accusò la nuova giunta di «sodomizzare i cittadini» e lo fece brandendo per tutta la seduta un tubetto di vaselina, come simbolo dell’assessorato alla Gentilezza. Eppure c’è una voglia di garbo e moderazione che scorre nelle vene più nascoste della nazione. E che forse Giuseppe Conte ha colto quando ha annunciato alla Camera: «Saremo miti». Ma anche Virginia Saba, sorridente fidanzata di Luigi Di Maio, ha scolpito: «Sarà il governo del garbo». In meno di due anni sono già stati creati 19 assessori alla Gentilezza. Come Miriam Asmundo, 38 anni, avvocato, che opera nel messinese a Roccalumera. O il sessantenne Gianluigi Bado, assessore alla Gentilezza nel piccolo comune di Igliano, in provincia di Cuneo. Il sindaco Flavio Gonella l’ha spiegata così: «Educare oggi alla gentilezza e alla positività è un investimento etico, a breve e lungo termine, di vitale importanza per il futuro dei rapporti interpersonali». L’emergenza cortesia si è creata anche a Omegna, nel Verbano, 15 mila abitanti, dove hanno incaricato una donna di occuparsi di Gentilezza, cultura, pubblica istruzione, formazione professionale, politiche giovanili, comunicazione istituzionale. Si chiama Sara Rubinelli, fa la psicologa, insegna anche in Svizzera e ha avuto l’eleganza (o la gentilezza?) di rinunciare al compenso di assessore. La delega l’ha ricevuta a fine luglio e si è già impegnata in una serie di iniziative a partire dai ragazzi, con un messaggio di buon senso: «Se siamo gentili con gli altri, staremo bene anche noi». Storia simile a Battipaglia, in Campania, dove l’assessorato è finito nelle mani di Davide Bruno, ex segretario cittadino del Pd, commercialista e analista di Accenture. Anche i conti possono tornare con garbo. Sono invece un po’ più inquietanti i comuni dove si è deciso di «vendere» ai cittadini obiettivi più complessi e potenzialmente totalizzanti come la felicità. A parte George Orwell, gli assessorati alla Felicità fanno venire in mente alcune utopie comuniste e, del resto, il vecchio inno sovietico definita la patria russa «sicuro baluardo della felicità dei popoli!». E alla felicità del popolo hanno pensato a Ceregnano (Rovigo), dove l’omonima delega è stata attribuita a Elena Dall’Oco, cuoca in una casa di riposo, attrice di teatro per passione e impegnata nel volontariato. Un’altra donna, Barbara Manfredini (Pd) è assessore alla Felicità a Cremona. Ben più comprensibile il destino toccato a Domenico Malingieri, rientrato dalla Svizzera nella splendida isola di Ventotene, dove fa il ristoratore e si è assunto il compito di guidare i concittadini alla ricerca della Felicità. Anche il benessere, sia reale che «percepito», in omaggio alla moda dominante, non poteva restare fuori dai municipi di questa nuova Italia. Angelo Mita, sessant’anni, è assessore al Benessere a Gallipoli, dove unisce una mezza dozzina di deleghe, e di mestiere fa l’oncologo. Ha una collega a Pesaro con un nome da romanzo di Stendhal, Mila Della Dora, impiegata trentenne, guardalinee nelle serie minori, assessore non solo al Benessere, ma anche all’accoglienza, alla salute e alimentazione, allo sport, alla casa, all’immigrazione, al volontariato. È in buona compagnia, perché sempre nella città marchigiana è stato istituito l’assessorato alla «Bellezza e Vivacità», affidato a Daniele Vimini, che nella vita si occupa di illuminotecnica. «E alla Vivacità ci mettiamo il tecnico delle luci», deve aver detto il sindaco. A Catania siamo invece a metà tra il Grande Architetto dell’Universo e la poesia pura, con la decisione di regalarsi un assessore all’Armonia. La scelta è caduta su Fiorentino Trojano, già assessore con Enzo Bianco, psichiatra della Asl. Meno ambizioso, ma di sicuro impatto, l’assessore alla Concretezza istituito a Gallipoli e affidato a un povero Cristo che deve anche occuparsi, per 1.380 euro lordi al mese, di lavori pubblici, edilizia privata, urbanistica, decoro e arredo urbano, centro storico, periferie, marine, verde pubblico, regolamenti comunali, tutela del territorio. Sempre a Gallipoli c’è un altro assessore all’Armonia, Paolo Scialpi, che però ha anche la delega al contenzioso e qui si capisce che il sindaco ha un suo umorismo non banale. Del resto, se a Roma ormai si intitolano impunemente i decreti a valori come la Dignità, o si usano slogan da venditori di pentole come «Salva Italia», non si può certo impedire che in provincia arrivi la fantasia al potere. Anzi, direttamente l’illusionismo.

·         Comuni in fallimento.

Comuni in fallimento. 72 municipi sono sull'orlo del baratro, soprattutto al sud. Non solo piccole realtà. In bilico ci sono anche grandi città come Torino. Fabio Amendolara il 31 maggio 2019 su Panorama. Bilanci pompati con crediti difficilmente esigibili e tagli alle entrate: sono le due voci principali che danno corpo alla crisi contabile dei Comuni italiani. Il dissesto, per un municipio, corrisponde in modo preciso alla dichiarazione di fallimento per un’impresa. E di Comuni colpiti dalla malattia da finanza allegra, a leggere la relazione della Sezione di controllo sugli enti della Corte dei conti depositata ad aprile, ce ne sono quasi in tutte le regioni d’Italia. Nel 2018 hanno registrato una grave criticità finanziaria 72 municipi (sette al Nord, sette al Centro e 58 tra Sud e Isole). Di questi, 42 sono in procedura di riequilibrio e 30 sono in fase di dissesto. Ben 379, poi, sono arrivati al dissesto passando per la procedura di riequilibrio (entrambe aperte nello stesso anno). La popolazione interessata è di 1.540.296 abitanti (1.214.059 al Sud e Isole); 190.371 al Centro; e 135.866 al Nord. I Comuni di Terni e di Catania hanno un gran peso in questi numeri, perché insieme superano i 400 mila abitanti. Un contributo numerico arriva anche dai popolosi Comuni della Puglia (Lecce, Manfredonia e Andria, che insieme contano 250 mila abitanti) che sono in fase di riequilibrio. Ma il record è in Calabria: 41 dissesti e 54 riequilibri, per un totale quindi di 95 municipi coinvolti. A fine settembre 2018 nel capitolo dei dissesti si è aggiunta la città di Gioia Tauro. Reggio Calabria e Cosenza hanno avviato invece le procedure per il predissesto, secondo le norme introdotte nel 2012 dal governo Monti per fermare un’emorragia di risorse, soprattutto nel Mezzogiorno, che prevede un piano di risanamento di dieci anni, prolungati a 20 con la manovra 2018. E tra i falliti c’è Vibo Valentia. Il viaggio di Panorama tra i bilanci in rosso comincia da qui. Piazza dei martiri d’Ungheria è la sede del palazzo di città. Qualche settimana fa nella rassegna stampa dei consiglieri comunali è stato inserito pure un titolo del sito web locale LacNews24 (la Calabria che fa notizia): «Un disastro che fa scuola». Tanto da finire in una ricerca elaborata dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, che cita Vibo Valentia come «esempio emblematico» delle cattive pratiche. Ma se il dossier, frutto di un’analisi sulle maggiori criticità in materia di conti pubblici, ripercorre la strada che portò alla dichiarazione del primo dissesto, nel 2013, «è impressionate notare», sottolineano da LacNews24, «come la situazione da allora sia rimasta sostanzialmente identica, tanto che un nuovo default sembra ormai dietro l’angolo». È stato proprio l’ex sindaco Elio Costa, sfiduciato dalla sua maggioranza poco più di un mese fa, ad aver ammesso che l’ipotesi del dissesto è concreta. Insomma, quando a dichiararlo pubblicamente è un primo cittadino, vuol dire che la situazione è irreversibile. Il commissario prefettizio gli ha già soffiato la poltrona e se dovesse avviare le procedure, così come pare, quello di Vibo Valentia si trasformerebbe in un caso unico in Italia, perché andrebbe a innestare un secondo default su quello del 2013 non ancora superato. E da allora il Comune non ha fatto nulla per cercare il riequilibrio finanziario. L’ex sindaco si è visto quindi costretto a certificare nero su bianco il fallimento dell’amministrazione che dal 2015 al 2017 ha chiuso i bilanci sempre in disavanzo. L’ultimo rendiconto approvato segna un deficit di 7,7 milioni di euro. «Paga per tutti il sindaco», commenta amareggiato Costa, «che del resto è il capo e la guida dell’amministrazione comunale. Paga anche per assessori e consiglieri che hanno condiviso la sua esperienza senza mai aprire gli occhi. Paga anche per gli inamovibili dirigenti dell’ente, le cui scelte, spesso contestatissime, hanno avuto un peso determinante nella vita della città». E anche se al Nord le cose vanno decisamente meglio, la situazione è critica a Torino, città fortemente a rischio. Non sono bastati i tagli e le manovre da lacrime e sangue a mettere in sicurezza i conti ed evitare il predissesto della città guidata da Chiara Appendino. Hanno sortito poco effetto le sforbiciate sul personale, la riduzione dei finanziamenti per le attività culturali e i rincari sugli abbonamenti ai parcheggi. E con gli 80 milioni di euro in meno di finanziamenti statali il bilancio della città della Mole porterà con molta probabilità all’ennesimo ritocco delle tasse su case e rifiuti. L’Imu e la Tasi, le imposte sulle abitazioni, per esempio raggiungeranno l’aliquota massima del 10,6 per mille sia per i canoni concordati, con un aumento che ricadrà sul proprietario e sull’affittuario, sia per chi concede la propria seconda casa in modo gratuito a un parente (precedentemente l’aliquota era del 7,6 per mille). In soldoni la stima è questa: gli aumenti porteranno nelle casse cittadine 5 milioni di euro. Ma il provvedimento che toccherà le tasche di tutti i torinesi è quello sulla tassa rifiuti (la Tari) che, a prescindere dalla metratura, dall’Isee o dai componenti della famiglia, verrà ritoccata dello 0,69 per cento. Ed è stato previsto perfino un ticket da 5 euro per l’entrata delle auto nell’area Ztl. Insomma, oltre ai casi di Roma, Messina, Milazzo, ormai balzati alle cronache, e quelli di Alessandria, Savona e Reggio Calabria citati dal ministro dell’Interno Matteo Salvini («Ci sono tanti altri sindaci che hanno i conti in difficoltà e mi hanno chiesto “perché noi no?”. O si aiutano tutti i Comuni in difficoltà o nessuno»), c’è un’Italia in profondo rosso che però fatica a lanciare l’allarme. Si tratta di paesini, che quasi mai riescono a far sentire la loro voce fuori dalla provincia. A Bojano, 8 mila abitanti sulla carta, al centro del Molise, poco più di 20 minuti d’auto sia da Campobasso che da Isernia, per esempio, a gennaio si è insediata la commissione straordinaria di liquidazione che dovrà gestire l’estinzione dei debiti dell’ente. A pesare è stato quello da 11 milioni di euro con Molise acque (azienda fornitrice dell’acqua pubblica a rischio fallimento) che ha dato vita a un contezioso. E l’ombra di un altro procedimento milionario con un’impresa di costruzioni che ha effettuato dei lavori e non è stata liquidata agita in questi giorni l’amministrazione guidata dal sindaco Marco Di Biase. Anche qui servizi al minimo e tributi al massimo. Stessa sorte per Partinico, 31.786 abitanti, nell’area metropolitana di Palermo. Un mese fa i commissari liquidatori si sono insediati nel municipio di piazza Umberto primo. Il crac finanziario e l’impossibilità a riequilibrare i conti dell’ente deriva da un buco triennale (2017-2019) di 4,5 milioni di euro che ha portato lo scorso anno alla dichiarazione di dissesto. Tappe obbligate sono state l’aumento dell’Imu e il taglio delle spese. Ma l’amministrazione comunale ci ha provato anche con la lotta all’evasione. Una delle voci pesanti sui bilanci, infatti, riguardava i crediti difficilmente esigibili. E, come se non bastasse, ad aggravare la situazione di stallo dell’ente, già provato dalla condizione finanziaria, ci ha pensato anche una grave crisi politica. Partinico viene già fuori da un commissariamento durato un anno e qualche giorno fa il sindaco Maurizio De Luca (che si è insediato nel giugno scorso), dopo diversi rimpasti in giunta, ha presentato le dimissioni. Difficile, a questo punto, che il Comune riesca a varare una manovra finanziaria per far quadrare i conti. Un combinato disposto, quello delle crisi politiche e di quelle finanziarie, comune a molti dei municipi italiani al default. 

·         Da Citaristi a Centemero e Bonifazi, il rischioso mestiere del tesoriere di partito.

Da Citaristi a Centemero e Bonifazi, il rischioso mestiere del tesoriere di partito. Pubblicato lunedì, 22 aprile 2019  da Riccardo Ferrazza su Il Sole 24 ORE. La storia politica procede per coppie di tesorieri che finiscono nei guai giudiziari: dopo quella celebre degli anni ’90. formata da Severino Citaristi (Democrazia cristiana) e Vincenzo Balzamo (Psi), ora è il potenziale duetto composto da Giulio Centemero (Lega) e Francesco Bonifazi (ex Pd) che rischia una richiesta di processo per finanziamenti illeciti ottenuti dal costruttore romano Luca Parnasi. Nell’intermezzo temporale si collocano Francesco Belsito (ancora Carroccio) e Luigi Lusi (Margherita), figure spregiudicate capaci di sfruttare la propria posizione per l’utilizzo di contributi pubblici. Vicende tra di loro diverse e lontane nel tempo ma che autorizzano a riconoscere un filo: maneggiare i soldi dei partiti è mestiere rischioso.

Atto primo: Tangentopoli. «Mi sono pentito di aver accettato tanti anni fa di fare il segretario amministrativo del partito» disse l’ex tesoriere di Alleanza nazionale Francesco Pontone, finito coinvolto nella vicenda dell’appartamento di Montecarlo del cognato di Gianfranco Fini. Pontone fu scagionato dall’accusa di truffa aggravata ma ai segretari amministrativi della Prima Repubblica andò diversamente. Su una coppia in particolare si riversarono gli effetti di un sistema di finanziamento alla politica gonfiato di miliardi fino a deflagrare con effetti drammatici, anche da un punto di vista umano. Citaristi, un democristiano bergamasco mite e stimato da alleati e avversari, scelto da Ciriaco De Mita per il ruolo di tesoriere del partito al quale si era iscritto nel 1947, a partire dal 12 maggio 1992 fu investito da una sequela di avvisi di garanzia (alla fine saranno 74, un primato): verrà condannato in via definitiva a 16 anni, oltre a 8 miliardi di lire (circa 4 milioni di euro) di ammende, ma ribadì fino alla sua morte (avvenuta nel 2006) di non aver mai ottenuto per sé una lira e sottolineando invece che «tutti prendevano tangenti». Alcuni calcolarono che le mazzette da lui riconosciute ammontavano a 100 miliardi di lire. L’altro protagonista, suo malgrado, di Tangentopoli fu il socialista Balzamo che pagò con la vita la bufera giudiziaria che travolse il Psi: morì a 63 anni in quel tragico 1992, dopo aver ricevuto dalla Procura milanese l’avviso di garanzia con l’ipotesi di reato per corruzione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Colpito da «infarto cardiaco esteso» come informava una nota del suo partito subito dopo il ricovero al San Raffaele di Milano, dove morì a una settimana dal malore. «Balzamo - riconobbe l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato - aveva accettato per dedizione una responsabilità difficile e ingrata».

L’impero di Lusi. La “maledizione del tesorieri” si prende una pausa e torna negli anni Duemila con la figura di Luigi Lusi. Il senatore che firmava i bilanci della Margherita è uno dei 65 detenuti del carcere di Avezzano: domani, come ogni mattina dal 15 febbraio scorso, potrà uscire dalla “casa circondariale a custodia attenuata” per andare a lavorare in un call center e rientrare in cella la sera. «Dopo le tentazioni nel deserto della vita, il carcere: un’occasione di riconciliazione e rinnovamento della propria esistenza» ha scritto Lusi in un libro fotografico a cui ha lavorato con altri detenuti. Lui, nella precedente vita da senatore, era riuscito a cumulare illecitamente un patrimonio da almeno 9 milioni di euro tra case (tra cui una villa a Genzano di Roma), polizze assicurative, fondi d’investimento e conti correnti. Rimborsi elettorali destinati al partito fondato da Francesco Rutelli di cui gestiva la cassa e che invece intascava attraverso un sistema d false fatturazioni. Nel dicembre 2017 Lusi è stato condannato in via definitiva a sette anni per appropriazione indebita e lo scorso febbraio il suo tesoro è stato confiscato dallo Stato. È stato riconosciuto colpevole anche di calunnia nei confronti dell’allora segretario del partito Rutelli. Belsito, «il tesoriere più pazzo del mondo». I guai di Lusi iniziarono nel 2012, lo stesso anno che vide l’ascesa nelle cronache non più politiche ma giudiziarie del suo omologo leghista, Francesco Belsito, già autista-collaboratore dell’ex ministro della Giustizia, il forzista Alfredo Biondi, capace di una stupefacente ascesa nel partito di Umberto Bossi, al quale però la fiducia riposta in quel giovane genovese è costata la guida del movimento da lui stesso fondato. Con Belsito che si definiva il tesoriere «più pazzo del mondo» fanno la loro comparsa gli “investimenti creativi” dei rimborsi pubblici: titoli e diamanti impiegati a Cipro e in Tanzania con una truffa ai danni dello Stato da oltre 40 milioni di euro. Soldi utilizzati per le spese private della famiglia Bossi. L’ex tesoriere e il Senatùr sono stati condannati (in secondo grado), rispettivamente a tre anni e nove mesi e a un anno e 10 mesi. Belsito (nel frattempo passato a gestire un bar a Genova, città dove prima della politica aveva lavorato come pr nei locali notturni) è stato condannato anche in appello per evasione fiscale a nove mesi.

Nuovi veicoli: associazioni e fondazioni. Lusi e Belsito hanno sfruttato a scopo illecito il denaro che, grazie al finanziamento pubblico, copioso affluiva nelle casse dei partiti da loro amministrati. Un sistema che è stato abolito progressivamente a partire dal 2013 lasciando in vita la possibilità di donazioni da parte dei contribuenti-elettori attraverso la destinazione del due per mille. Anche in questo nuovo scenario, però, i tesorieri dei partiti si sono ritrovati in situazioni simili a quelle dei loro predecessori, recenti o più antichi. La nuova coppia è formata dal leghista Giulio Centemero e dall’iper-renziano Francesco Bonifazi, entrambi indagati dalla Procura di Roma per finanziamento illecito per aver ottenuto soldi da parte del costruttore Luca Parnasi, arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla costruzione del nuovo stadio della Roma (la stessa che ha portato in carcere il presidente del Consiglio capitolino Marcello De Vito, esponente M5S). Una vicenda “a specchio” in cui emerge il ruolo svolto in ambedue i casi da un nuovo fenomeno: le fondazioni politiche che possono svolgere il ruolo di veicoli per far transitare fondi ai partiti di riferimento. Nel caso leghista nel mirino degli investigatori è finita l’associazione vicina al Carroccio Più voci e i 250mila euro versati dal costruttore romano nel 2015, destinati formalmente a sostenere Radio Padania; sul versante Pd (di cui Bonifazi non è più tesoriere, sostituito da Luigi Zanda su decisione del nuovo segretario democratico Nicola Zingaretti), invece, ci sono i 150mila euro versati a Eyu, fondazione vicina al Partito democratico per uno studio (“Rapporto tra gli italiani e la casa”) commissionato dallo stesso Parnasi alla vigilia delle elezioni politiche del 2018 che, secondo l’ipotesi dei magistrati, sarebbe in realtà un finanziamento non registrato al partito. Per questo a Bonifazi è contestato anche il reato di emissione di fatture per operazioni insistenti. Per Centemero e Bonifazi la Procura romana potrebbe chiedere a breve il rinvio a giudizio. Sarebbe un altro capitolo di una lunga storia.

·         Maledizione quaranta per cento…

Maledizione quaranta per cento…Dalla Dc del dopoguerra ai cinque stelle, passando per il referendum sul divorzio e per le ambizioni bruciate di Matteo Renzi, il 40 per cento resta la soglia maledetta, scrive Carlo Fusi il 24 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Soluzione 40 per cento: la guadagni e da lì la corrente ascensionale ti innalza fin nell’empireo del trionfo, della gloria, del potere. Maledizione 40 per cento: ti fermi a quella soglia e tutti i sogni, tutte le speranze, tutte le ambizioni si frantumano come cristalli presi a martellate. Possiamo rigirarla come vogliamo ma la storia politica italiana è abbarbicata su un numero, una percentuale che fa da discrimine tra vittoria e tracollo. Un Giano bifronte che esalta e condanna con la medesima facilità. Il paradosso è che la percentuale rimane la stessa ma ottenerla non vuol dire nulla, non squaderna alcuna garanzia: infatti può decretare l’apoteosi oppure rovesciarsi nel suo contrario e segnare la disfatta. Strana la vita, strano il destino. Eppure inesorabile. Proviamo a tracciare una linea immaginaria per unire le vicende e le traiettorie di leader e partiti dal dopoguerra ad oggi e quella percentuale, quel 40 per cento è la bussola per orientarsi, il perno tolemaico cui aggrapparsi e che tuttavia è scivoloso, mellifluo e contraddittorio: esalta o condanna a seconda da quale punto di vista ci si pone. Ne sa qualcosa Matteo Renzi. Il 40 per cento ottenuto alle elezioni europee di cinque anni fa è talmente rarefatto e inebriante da apparire onirico: e invece segnò l’avvio di una carriera tanto folgorante quanto temporalmente ridotta. E non a caso a sgretolarla fu la medesima condizione, il raggiungimento della medesima soglia, insomma un altro 40 per cento ottenuto nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Stavolta col segno politico opposto: non allori bensì cenere, tanta cenere e basta. Attenzione. La soluzione/ maledizione 40 per cento non vale solo per le elezioni. Ci sono anche i referendum a segnare la stessa impronta: quando l’Italia si divide sui quesiti lo fa 60 a 40. E il secondo è il numero magico, anzi no: la dannazione. Nemmeno centrano Prima, Seconda o Terza repubblica. Prendete Luigi Di Maio: quel 40 per cento di oppositori nella consultazione on line sulla piattaforma Rousseau riguardo il destino giudiziario di Matteo Salvini è una specie di sudario che l’ha avvolto e chissà se e come riuscirà a strapparselo di dosso. Ma, appunto, è l’intero percorso politico dell’Italia dal 1948 ad oggi ad essere caratterizzato dallo spartiacque del 40 per cento. Superato dalla Dc con un ruggito che ha fatto epoca in quel 18 aprile: 12 milioni e 740 mila voti pari al 48,5 per cento. Sbatabam e tutti a terra. Eppure solo cinque anni dopo, il 7 giugno del 1953, ecco che appare la Cometa dell’Epifania, annuncio di come si strutturerà il miracolo del boom economico e dei riflessi sul Palazzo: la Dc è al 40,1 per cento; Pci e Psi seguono: dimezzato il primo ( 22,60) e annichilito il secondo ( 12,60). Il 25 maggio del 1958, dopo che Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno ha trionfato a Sanremo e la Merlin ha mandato in soffitta le case chiuse, gli italiani vanno alle urne e assegnano allo Scudo Crociato il 42,35 dei voti: siamo lì, la soglia è rispettata. Nel 1968, nel pieno della contestazione e dell’apparire in Occidente del mito rivoluzionario, la Balena Bianca sfiora il traguardo: 39,12. Segno che la soglia magica non ha perso smalto, i cittadini ancora si fidano del baluardo anticomunista; nel mondo diviso in due vogliono rimanere al di qua della cortina di ferro, le bandiere rosse stanno bene dove stanno. Nessuno lo capisce, però si tratta del canto del cigno. Da quelle elezioni in poi, infatti, il 40 per cento alle politiche diventa un miraggio e mai più sarà raggiunto. Le urne si aprono nel 1972, nel 1976, nel 1979 e la Dc resta sempre al di sotto del limite strategico. Ma nel frattempo l’Italia è cambiata eccome. La linea di confine la tira il referendum più importante di tutti all’infuori di quello istituzionale tra monarchia e repubblica del 1946. Stavolta si vota su una legge che cambia verso al Paese simbolo del cattolicesimo e sede del Papato. È la consultazione popolare sul divorzio, approvata dal Parlamento sotto la spinta del socialista Loris Fortuna e brandita come una clava di irrinunciabile progresso modernizzatore da Marco Pannella. Il risultato è clamoroso: vince il via libera alla legge con il 59,26 per cento. Il Si alla cancellazione subisce una disfatta storica, fermandosi – indovinate un po’ – al 40 per cento. Stavolta la soglia non garantisce ovazioni ma al contrario assesta una mazzata a chi ha perso. E tra questi c’è proprio la Dc. Il 40 per cento alle politiche è diventato un miraggio, un traguardo impossibile, una montagna troppo alta da scalare. Contemporaneamente, il 40 per cento nel referendum sul divorzio rappresenta un tornante dopo il quale nessuna marcia indietro risulta più possibile. Ci saranno altre prove e anche altri successi nel segno del Biancofiore. Ma quella sconfitta del partito- perno del sistema, allora guidato da Amintore Fanfani (il tappo saltato nelle celeberrima vignetta di Forattini) rappresenta la spia di un declino non più arrestabile. E mentre i cittadini, le forze politiche e i loro capi si guardano attorno, chi per gioire chi per riprendere il filo perduto della matassa, il 40 per cento prosegue inesorabile la sua marcia. Solo che cambia completamente significato, si trasforma in un obiettivo molto agognato e quasi mai raggiunto. Lo prova sulla sua pelle Francesco Rutelli che nella competizione per diventare sindaco di Roma fronteggia il capo missino Gianfranco Fini e dentro di se’ pensa possa essere una passeggiata: impossibile non spianare elettoralmente “il fascista” delfino di Almirante. Invece la torsione della storia non conosce barriere e il 40 per cento è come un lupo in cerca di prede. La legge elettorale per i Comuni è stata cambiata inserendo il doppio turno. Rutelli nella prima manche ottiene quasi settecentomila voti ma si ferma al 39,6 per cento. E qualcuno ancora insiste a dire che la maledizione del 40 non esiste? Fini tocca quota 35,6: assolutamente inverosimile per un esponente della destra. Al secondo turno Rutelli vince tranquillo: 53,1. Ma il suo competitor ottiene lo strabiliante risultato del 46,9. È il perdente più di successo di sempre: da quel momento comincerà una galoppata che lo porterà alla vice presidenza del Consiglio, alla Farnesina e poi sulla sedia più alta di Montecitorio. Nessun altro, partendo da via della Scrofa, c’è mai riuscito. Anche a cadere rovinosamente in poco tempo, se è per questo. Ma è un altro discorso. Sicuro? Macché, non è vero è sempre lo stesso. Chi altro, infatti, è capitombolato altrettanto rovinosamente e in tempi più o meno simili ma dalla sponda politica opposta? Domanda retorica, risposta facile facile: Matteo Renzi. Quel giorno del 2014, un 25 maggio che l’ex sindaco di Firenze non dimenticherà mai, dalle urne fuoriuscì un risultato che a sinistra nessuno aveva mai raggiunto né, sotto sotto, ritenuto possibile. Il Pd fondato a freddo mettendo insieme gli spezzoni di due tradizioni politoc- culturali strutturali del Paese e tuttavia perdenti dopo l’abbattimento del Muro di Berlino e il ciclone di Tangentopoli, era riuscito a superare la soluzione/ maledizione del 40 per cento arrivando lassù dove nessuno, partendo da sinistra, era mai giunto. I seggi decretarono un’affermazione siderale della lista Democratica e la stella di Renzi cominciò a brillare come una Supernova. E come quel tipo di esplosione galattica ebbe lo stesso destino: abbaglianti nel successo fino alla disintegrazione conclusiva. La cosa più significativa è che la nemesi renziana anche in questo caso si è consumata schiantandosi sul bivio del 40 per cento. Dopo aver solfeggiato la musica dell’esaltazione sullo spartito di palazzo Chigi, infatti, Renzi è saltato fuoristrada proprio nella curva che doveva sancirne la definitiva beatificazione: il cambiamento della geografia istituzionale, l’abolizione del bicameralismo, la nuova legge elettorale. Che pure prometteva come Archimede: datemi il 40 per cento e solleverò il mondo. Dopo una campagna elettorale infinita e dilatata quanto più possibile per recuperare lo svantaggio in una partita che frotte di laudatores assicuravano già vinta prima ancora di cominciare, il presidente “stai sereno” del Consiglio naufraga finendo a picco sullo scoglio del referendum costituzionale. Inutile dire qual è stata la percentuale della débâcle: un 40 per cento in quel caso decisamente univoco e simbolo di disfatta. Dal 40 esaltante delle Europee al 40 stordente della consultazione referendaria: un tragitto che segna un destino. E che conferma l’indiscusso Totem numerico della politica italiana. Adesso tocca a Luigi Di Maio. Per uscire dall’impasse sulla richiesta di processo a un altro Matteo, stavolta alleato e non competitor, il capo politico del MoVimento, non riuscendo ad imporre la sua leadership nel gruppo parlamentare, ha scelto di risvegliare la piattaforma che è il tabernacolo che custodisce il Sancta santorum del grillismo che fu. Ha vinto. Ma ha anche perso. Non solo perché per salvare il governo ( e qualcuno dice anche sé stesso) ha contraddetto uno dei principii ideologici pentastellati, ossia il si a qualunque richiesta della magistratura nei riguardi di un esponente politico, ma sopratutto ha visto uscire dal sarcofago come la Mummia che tutto scarnifica, il sulfureo limes del 40 per cento. Che nell’M5S ci fossero dissidenti era noto. Adesso si sono contati e sanno di surfare sull’onda della soglia più eccitante e malefica del panorama politico del Belpaese. Chissà: forse così agendo il vicepremier pentastellato ha imboccato la china di Matteo: quello sconfitto. Il 40 per cento affascina e folgora, seduce e danna. Magari la via d’uscita potrebbe risiedere nell’abolirlo: passare all’uninominale secco inglese, the winner takes it all, il vincitore prende tutto. Senza più soglie. Bello no? Magari anche no. Laggiù si sono incagliati nella Brexit: meglio lasciar perdere.

·         Referendum Propositivo. Perché questo silenzio?

Perché questo silenzio? Scrive il 25 febbraio 2019 Alessandro Bertirotti su Il Giornale. È tutta questione di…volontà. Il 21 febbraio 2019 è stata una giornata storica per la nostro Repubblica. Finalmente, la Camera dei Deputati ha dato il suo “via libera” ad un’istanza democratica di cui questo Governo ha la coraggiosissima paternità, ossia l’introduzione, nella nostra Carta Costituzionale, del referendum propositivo. È noto che la forma di consultazione referendaria cui, attualmente, gli italiani aventi diritto di voto possono accedere è quella abrogativa. In altre parole, noi cittadini possiamo essere chiamati alle urne per abrogare una legge ma, ad oggi, non per proporre un testo normativo, avente forza di legge ordinaria dello Stato. Certo, quella del 21 febbraio era solo la primissima tappa e l’iter per la revisione dell’art. 71 della Costituzione in tema di iniziativa legislativa è ancora lungo. Ma ciò che conta per le nostre coscienze è, allo stato attuale, il segnale incontrovertibile che un’epoca sta cambiando, e si deve convenire che questo cambiamento è figlio della determinazione, della coesione e della forza programmatica di questo Governo. Con il referendum propositivo possiamo tornare ad essere veri protagonisti del nostro destino, perché saranno gli italiani a dire quali strumenti legislativi sono necessari per la propria esistenza politica ed economica, per la sicurezza e per riaffermare il proprio primato nazionale nel consesso sovra-statuale. La democrazia diretta non sarà più una chimera, ma una realtà oggettiva, fattuale, con cui qualunque organo istituzionale, qualunque politico di turno dovrà (giustamente per alcuni e fatalmente per altri, ma, comunque, inevitabilmente) fare i conti, avendo la consapevolezza che se il Parlamento non si attiverà entro un tempo prestabilito, sarà il popolo a farlo. Peraltro, la sostituzione del quorum per la validità con quello per l’approvazione del referendum muta radicalmente il paradigma sotto il profilo della capacità decisoria collettive. Non dover soggiacere alla scure dell’inutilità della consultazione referendaria, per mancato raggiungimento del numero legale necessario alla sua validità, sortirà il risultato della pienissima efficacia concettuale (ancor prima che istituzionale) del referendum propositivo. La ragione è complessa ed intuitiva allo stesso tempo. Da un punto di vista puramente antropologico-mentale, sapere che ogni singolo voto potrebbe non essere fruttuoso se non si raggiunge la soglia minimale di validità, induce la convinzione mentale dell’inutilità della partecipazione. Viceversa, essere consapevoli che, a prescindere dal risultato, il proprio contributo elettorale è rilevante, ci spingerà ad una maggiore partecipazione, ad una approfondita riflessione sul significato, la portata e la finalità dell’atto. In poche parole, ci renderà cittadini maggiormente responsabili del nostro futuro e anche felici di esserne gli artefici. Studiare, ottimizzare e fornire al popolo gli strumenti necessari a far sì che egli stesso sia l’artefice della res publica. E questa è la direzione intrapresa dalla Camera. Era, poi, così difficile da fare? Affatto. Bisognava averne il coraggio. 

·         Rissa di Stato. Nel 1994 toccò a Tatarella, oggi a Conte. Ed i media, con l'opposizione, sono sempre contro le istituzioni.

Verhofstadt e la rissa di Stato. Nel 1994 toccò a Tatarella, oggi a Conte. Ed i media, con l'opposizione, sono sempre contro le istituzioni, scrive Maurizio Belpietro il 25 febbraio 2019 su Panorama. Sono passati vent’anni dalla morte di Pinuccio Tatarella e dunque pochi ricordano la storia di questo bonario e un po’ trasandato avvocato pugliese, politico per vocazione e missino per necessità più che per convinzione. Tatarella, pur essendo deputato di lunga data del Msi, non si definiva un fascista ma un anticomunista, e appena ne ebbe la possibilità ne dette prova. Fu lui infatti a traghettare il Movimento sociale italiano verso Alleanza nazionale, archiviando camicie nere, saluti romani e labari per puntare alla costruzione di un partito che rappresentasse una destra moderna, non più confinata fuori dall’arco costituzionale. Tuttavia, nonostante non fosse uno squadrista ma un uomo di buon senso, quando divenne ministro e vicepremier nel primo governo Berlusconi non gli fu evitato lo sgarbo di una mancata stretta di mano. Era il 31 maggio del 1994 e Tatarella si era da poco insediato alla guida del dicastero delle Poste. A Bruxelles quella mattina era in programma una riunione del consiglio della Cee con all’ordine del giorno le nuove regole nel settore delle telecomunicazioni. Tatarella arrivò puntuale, seguito dal suo staff, ma a precederlo furono le polemiche suscitate dalle dichiarazioni di Elio Di Rupo, vice primo ministro belga, il quale in vista dell’incontro annunciò che mai avrebbe stretto la mano a un neofascista. Figlio di immigrati italiani, Di Rupo quel giorno tenne un discorso contro la presenza in consiglio di un «membro espresso da una formazione che si proclama erede del fascismo», elencando i principi alla base della costituzione della Comunità europea, e alla fine, come promesso, evitò la stretta di mano. Da parte sua Tatarella replicò sottoscrivendo tutte le regole democratiche elencate dal collega e poi, impassibile, rivolto a Di Rupo, lo liquidò commentando che anche Mussolini aveva abolito la stretta di mano. Se ricordo l’ironia con cui Tatarella mise fine alla polemica non è solo perché in questi giorni ricorrono i vent’anni della morte del politico missino, ma perché l’episodio dello sgarbo mi è ritornato in mente vedendo un altro belga comportarsi da maleducato nei confronti dell’Italia. Questa volta il trattamento non era riservato a un «fascista», ma a un presidente del Consiglio colpevole di rappresentare due forze politiche non gradite come Lega e Movimento Cinque Stelle. A incaricarsi di mancare di rispetto al rappresentante italiano è stato Guy Verhofstadt, presidente di un partito che alle recenti elezioni è stato dimezzato. La batosta, però, non ha fiaccato la protervia del suo rappresentante il quale, dopo aver corteggiato i Cinque stelle per rafforzare il gruppo da lui guidato in seno al Parlamento europeo, non ha esitato ad attaccare Giuseppe Conte, definendolo un burattino nelle mani di Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

Uno sgarbo istituzionale, per di più in presenza dello stesso presidente del consiglio italiano. Insultare il rappresentante di un altro Paese non è certo né liberale né democratico, come invece dichiara di essere Guy Verhofstadt, al quale evidentemente prude di essere a fine carriera. Tuttavia non è questo il punto che intendo mettere in luce, ma piuttosto le ricadute in Italia del comportamento dell’ex primo ministro belga. A Conte, come 25 anni fa a Pinuccio Tatarella, la politica e la stampa nazionale hanno riservato lo stesso trattamento, quasi compiacendosi dell’attacco di Verhofstadt a chi in quel momento rappresentava l’Italia. Anzi qualcuno, invece di criticare il capogruppo del partito liberale europeo, si è messo a fare appunti alla replica di Conte, descrivendo un premier in imbarazzo. Così, ancora una volta, la sensazione ricavata è che l’opposizione e i media che la sostengono, invece di solidarizzare con il proprio Paese, in queste occasioni solidarizzano con chi lo insulta. Si può non condividere nulla di ciò che fanno la Lega e i Cinque stelle e si può pure contrastare ogni loro decisione, ma con altrettanta determinazione forse si dovrebbe ribattere a chi si permette ingerenze nella vita politica del nostro Paese. Non tocca a Verhofstadt stabilire se Conte sia o non sia un burattino. Come credete che reagirebbe il Belgio se domani, in una riunione ufficiale, un uomo politico italiano dicesse che il primo ministro belga è un pagliaccio o un incapace? Emmanuel Macron ha richiamato il proprio ambasciatore perché Luigi Di Maio ha incontrato i rappresentanti dei gilet gialli, giudicando quella del ministro del Lavoro un’interferenza negli affari interni della Francia. E quando lo stesso Macron parlò di lebbra italiana e disse che il comportamento del nostro governo era vomitevole, di che cosa si è trattato? Soprattutto, perché giornali e opposizione non hanno reagito? Questa è la differenza fra un Paese che ha il senso dello Stato e della Patria e uno che ha il senso della rissa e usa ogni cosa, anche l’aiuto esterno, per vincerla.

Caro Conte, le racconto quando i vicepremier aiutavano i premier…, scrive Francesco Damato il 14 Febbraio 2019 su Il Dubbio.  Al netto della cafonata di quel burattino dei suoi due vice dato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte nell’aula del Parlamento europeo dall’ex premier belga Guy Verhofstadt, peraltro in perfetto italiano, quindi con l’aggravante di sapere bene quello che diceva, permettetemi che mi chieda se basti indignarsi e protestare. Come ha subito fatto da Roma uno dei due vice di Conte, appunto, il leghista Matteo Salvini, degradando il capogruppo liberale di Strasburgo a euroburocrate, festeggiandone in anticipo la scadenza del mandato parlamentare e augurandone la bocciatura, se mai volesse o dovesse ricandidarsi alla prossima legislatura. Assente dalle reazioni l’altro vice presidente, il grillino Luigi Di Maio, perché impegnato in una pausa riflessiva dopo il dimezzamento dei voti del suo movimento nelle elezioni regionali abruzzesi di domenica scorsa, a meno di un anno dal copioso raccolto delle ultime elezioni politiche nello stesso territorio, Salvini ha ritenuto di avere fatto doppiamente il suo dovere, anche a nome e per conto del suo omologo a cinque stelle. È stato un modo forse anche per spargere, al di là e persino contro i perduranti contrasti fra i due partiti della maggioranza gialloverde, altro unguento sulla ferita elettorale dell’amico e alleato Di Maio. Il governo resta insomma davvero al suo posto. Non cambia nulla. E guai a chi paragona queste assicurazioni di Salvini al beffardo “stai sereno” di Matteo Renzi, fresco di elezione a segretario del Pd, rivolto verso la fine del 2013 all’allora presidente del Consiglio e compagno di partito Enrico Letta. Che stava invece per essere sostituito a Palazzo Chigi proprio da Renzi, intercettato peraltro al telefono con un alto ufficiale della Guardia di Finanza mentre riconosceva a Enrico Letta le doti per succedere, magari, a Giorgio Napolitano al Quirinale, non per restare dov’era. Eppure Salvini e Di Maio, insieme, dovrebbero francamente chiedersi, per come hanno fatto i vice di Conte almeno sino all’altro ieri, se non hanno fornito ragioni o pretesti all’ex premier belga di leggere così polemicamente la realtà politica italiana. D’altronde, proprio la conoscenza della nostra lingua ha forse permesso a Guy Verhofstadt di apprendere direttamente dai giornali italiani indiscrezioni, retroscena e quant’altro sul presidente Conte scoraggiato, deluso, preoccupato e persino fuori dalla grazia di Dio per le libertà di parole e d’iniziative dei suoi due vice sui terreni più diversi: persino su quello delicatissimo della politica estera, dal Venezuela alla Francia, sino a far drizzare i capelli bianchi del capo dello Stato Sergio Mattarella. Personalmente, per quanto possa valere in questi tempi di orgoglioso ma anche convulso cambiamento la testimonianza di un vecchio giornalista, ho altri ricordi e cognizioni di vice presidenti del Consiglio e dei loro rapporti con i primi ministri di turno: rapporti finalizzati a risparmiare grane, più che a procurane. Agli inizi del primo governo di centro- sinistra, col trattino, presieduto dal democristiano Aldo Moro e accompagnato dall’annuncio dell’Avanti! agli italiani, su nove colonne, a sentirsi finalmente ‘ più liberi’, il vice presidente socialista Pietro Nenni ricevette nel suo ufficio di Palazzo Chigi una delegazione spagnola di oppositori del regime franchista. Seguirono le scontatissime proteste da Madrid, che misero in difficoltà Moro. Il quale se ne dolse un po’ con Nenni aspettandosi, come poi mi confidò, una impuntatura. L’anziano leader socialista invece si rese conto della situazione, si scusò e si offrì a qualche precisazione riparatrice sul luogo dell’incontro, programmato originariamente nella sede del Psi. Moro, immaginando a sua volta i problemi che Nenni avrebbe potuto avere nel suo partito, lo invitò a desistere. E lasciò che la ferita diplomatica si rimarginasse da sola. Sempre Moro, una decina d’anni dopo, presidente del Consiglio di un bicolore Dc- Pri con Ugo La Malfa vice presidente, si sentì spiazzato dalle voci di interventi dello stesso La Malfa, in riunioni riservate di partito, che auspicavano un superamento di quel che rimaneva del centro- sinistra per associare alla maggioranza i comunisti. Il cui segretario Enrico Berlinguer aveva proposto il cosiddetto compromesso storico con la Dc, convinto che un governo delle sinistre in Italia avrebbe fatto la fine del governo del socialista Alliende in Cile, eliminato nel sangue dai generali. Moro, la cui candidatura al Quirinale nel 1971 era stata contrastata proprio da La Malfa perché troppo gradita o attesa dai comunisti, pregò il leader repubblicano di essere più cauto nelle sue aperture al Pci per non mettere lui in difficoltà nella Dc e il segretario socialista Francesco De Martino nel Psi. Che partecipava in modo sofferto alla maggioranza reclamando equilibri politici ‘ più avanzati’, come si diceva allora. Il povero Moro aveva visto giusto. Piuttosto che farsi scavalcare a sinistra da La Malfa, il segretario socialista alla fine del 1975 tolse la spina dell’appoggio al governo annunciando che i socialisti non sarebbero più tornati con la Dc senza i comunisti. E con un monocolore democristiano presieduto dallo stesso Moro – fu il suo ultimo governo- si andò nel 1976 alle elezioni anticipate e poi, con i socialisti ridotti all’osso, e con la Dc e il Pci incapaci di raccogliere una maggioranza l’una contro l’altro, si giunse alla fase dei monocolori democristiani di Giulio Andreotti appoggiati esternamente dal Pci. Ebbene, nelle ultime settimane del bicolore Dc- Pri La Malfa commise l’imprudenza di un incontro riservato con la stampa estera in Italia, dove diede per ‘ ineluttabile’ l’intesa con i comunisti. Quando la notizia venne fuori sul Giornale di Indro Montanelli, portatami – ora lo posso raccontare – da uno dei commensali che era nostro collaboratore, scoppiò il putiferio. E La Malfa per togliere Moro dall’imbarazzo non solo oppose una smentita furiosa, nel suo stile, ma per avvalorarla chiese all’amico Montanelli il mio licenziamento, fortunatamente negatogli. Venutone a conoscenza, Moro volle incontrarmi per raccontarmi il retroscena dell’incidente e dare, a suo modo, una giustificazione della reazione di La Malfa. Vi racconto infine di un altro vice presidente del Consiglio: il democristiano Arnaldo Forlani con Bettino Craxi a Palazzo Chigi, e il segretario della Dc Ciriaco De Mita insofferente a tal punto da sposare il paragone fatto su Repubblica da Eugenio Scalfari fra il leader socialista e il ‘ bandito’ medievale Ghino di Tacco. Che nella sua Rocca di Radicofani taglieggiava tutte le carovane dei pellegrini dirette o provenienti da Roma. Alla vigilia di un congresso nazionale della Dc denso di paura e malumore verso Craxi il suo vice Forlani, che era anche presidente dello scudo crociato, andò a ripassarsi ben bene la storia di Ghino di Tacco per capovolgerla in quella di un intrepido vendicatore di torti, per questo perdonato di tutti i suoi delitti con bolla pontificia. E Craxi adottò come pseudonimo sul giornale socialista proprio Ghino di Tacco. Vi sono stati tempi, quindi, in cui i vice aiutavano, o cercavano davvero di aiutare i loro presidenti del Consiglio. Ne propongo il ricordo ai vice del professore e avvocato Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, senza esporlo alle cafonate del Verhofstadt di turno.

Craxi, Fini, D’Alema: silenzio, per carità, non pronunciate mai quei nomi! Si tratta di un socialista doc, di un post comunista e di un ex missino: Bettino Craxi, Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, scrive Carlo Fusi il 14 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Chi non ricorda Frankenstein Junior, parodia- capolavoro di Mel Brooks? Una delle gag più riuscite del film è quella di Cloris Leachman che interpreta Frau Blücher, amante del mefistofelico scienziato: ogni volta che uno degli attori pronuncia il suo nome, drappelli di cavalli nitriscono in preda al terrore. In maniera meno farsesca ma assai più incisiva, qualcosa del genere succede da decenni nella storia politica italiana. Ci sono infatti nomi di leader che non possono essere pronunciati: se accade si scatenano reazioni forsennate, al limite dell’isteria parossistica. Sono un socialista, un post comunista e un ex missino: Bettino Craxi, Massimo D’Alema e Gianfranco Fini. Sono assoluti Innominabili, Comandanti in Capo che nel momento del fulgore hanno conosciuto schiere di laudatores e di improbabili imitatori, ritrovandosi circondati da esagitati sostenitori e nugoli di nani e ballerine (Rino Formica docet) pronti per loro a saltare nel cerchio di fuoco della sottomissione e condiscendenza. Salvo poi subire un meccanismo di rimozione e rinnegamento totale e ferocissimo. Nei loro confronti vige una Damnatio memoriae sulla quale, come per l’impero di Carlo V, non tramonta mai il sole. Non c’è dubbio che abbiano avuto meriti politici sostanziali e che abbiano altresì commesso errori esiziali. Ma nei loro riguardi vige un meccanismo di mostrificazione che non conosce confini e che sommerge pure i pochi che tentano di articolare giudizi e valutazioni meno pregiudizievoli. Perché accade questo? Quale nervo scoperto della recente storia nazionale scuote la loro azione, passata e presente? Rispondere non è facile, e tuttavia diventa sempre più necessario per comprendere alcuni dei caratteri salienti degli italiani. Non sfugge, infatti, che a nessun capo politico democristiano sia riservato lo stesso trattamento, pur avendo la Dc governato per decenni con amplissimi margini di intervento ed aver annoverato nelle sue fila personaggi, diciamo così, dotati di grande disinvoltura e intestatari di manovre politiche borderline. Come mai proprio quei tre, dunque? Cominciamo dalle differenze, una delle quali è decisiva. Craxi e Fini, infatti, sono incappati nella mannaia giudiziaria che ne ha stravolto i connotati politici, deturpandone condotta e memoria. D’Alema no, niente di tutto questo. Seppur lambito da iniziative di Pm indagatori ne è sempre uscito prosciolto e immacolato: in un Paese spesso supino alle lobby, anche con la toga indosso, non è poco e va riconosciuto. Ma, appunto, il filo che li unisce non è giudiziario bensì politico. Tutti e tre hanno raggiunto i vertici del potere e delle istituzioni senza annacquare i loro connotati: al contrario esibendoli. Craxi è arrivato a palazzo Chigi rompendo la teoria di presidenti del Consiglio scudocrociati (c’era stato il precedente del repubblicano Giovanni Spadolini ma la caratura del capo socialista era superiore) e scuotendo dalle radici la primazia del primo partito italiano sulla scorta di revisioni ideologiche e rivisitazioni storiche: ma nessuno ha mai neanche potuto immaginare di non considerarlo un esponente del socialismo tricolore. Massimo D’Alema pure si è seduto sulla poltrona di capo del governo: è stato il primo e forse resterà l’unico post- comunista ad averlo fatto. Anche nel suo caso, nessuno ha mai potuto accusarlo di aver raggiunto il traguardo ripudiando le sue radici, disconoscendole per strumentalità o bramosia di incarichi. Al contrario chi favorì la sua ascesa nel Sancta sanctorum della stanza dei bottoni governativa come l’allora ex capo dello Stato Francesco Cossiga, lo motivò esattamente con il bisogno di chiudere con la conventio ad excludendum nei confronti degli ex comunisti, incomprensibile e antistorica nel momento in cui erano crollati il Muro di Berlino, era finita la guerra fredda e archiviata la divisione Est- Ovest. Insomma D’Alema arrivò a palazzo Chigi tirando il filo di una tradizione che metteva insieme Togliatti, la Bolognina e la spinta a voler «considerare la grande anomalia politica italiana tutta finalmente alle nostre spalle», come disse nel discorso sulla fiducia alla Camera presentando il suo governo. Anche Gianfranco Fini è giunto al vertice delle istituzioni dopo aver sfiorato quello dell’esecutivo: vicepremier e ministro degli Esteri nei governi Berlusconi. Come per D’Alema, nessuno prima di lui in quanto ex missino si è seduto sulla poltrona più alta di Montecitorio. Sulla base del viatico di Giorgio Almirante, Fini ha costituzionalizzato la destra italiana spezzando per sempre “l’arco” che escludeva gli ex missini dalla competizione per il governo. Un merito enorme perché ha consentito a milioni di elettori di entrare a pieno titolo nel circuito democratico abbattendo un’altra anomalia, stavolta a destra: la più dolorosa, per la presenza del capitolo fascista. Nei giorni scorsi molti si sono esercitati nel doveroso ricordo di Pinuccio Tatarella, mentore della “Destra di governo” e per decenni ispiratore, non senza passaggi contrastanti, della leadership finiana. Giusto tributare omaggi ad un esponente politico dotato di enormi capacità. Impossibile non sottolineare che l’azione di Tatarella non avrebbe avuto senso o possibilità di dispiegarsi se non ci fosse stato Fini quale front- man della Destra. Nessun altro esponente ex missino, infatti, avrebbe potuto svolgere il ruolo di leader capace di rivolgersi agli italiani senza pagare dazio alla sua provenienza. A questo punto bisognerebbe aprire il capitolo degli errori e delle omissioni dei tre Innominabili: tralasciamo, sapendo che sono tanti che si azzuffano per scriverlo. Resta che finché la politica non farà pace con queste leadership e con i loro lasciti, resterà un’incompiuta. Sono state tre esperienze che, ciascuna a modo suo – e, di nuovo, con limiti e insufficienze anche gravi – hanno puntato ad innovare: forse è proprio questa la colpa che frotte di malmostosi nuovisti non riescono a perdonare loro. Craxi, D’Alema e Fini sono simboli di un Paese che non assolve chi ha avuto successo e poi l’ha perso. Più comodo farli diventare capri espiatori di colpe diffuse. Meglio esorcizzarli invece di farci i conti. Spingerli nell’indefinito di una Nazione che preferisce perdere la memoria piuttosto che affrontarla.

Il Salvini travestito. Un giorno pompiere, poi poliziotto, poi ultras... Domani prete? Eì lo stile della nuova politica sempre vogliosa di sembrare altro, scrive Giampaolo Pansa il 22 gennaio 2019 su Panorama. Questa rubrica è nata molti anni fa, nel 1990. A volerla era il direttore del Panorama di quel tempo, Claudio Rinaldi. Era un grande comandante e anche un uomo geniale, già insidiato dalla malattia che l’avrebbe portato alla tomba quando non aveva ancora cinquant’anni. Decidemmo insieme la testata, anzi la decise soprattutto lui dopo una mattinata di inutili dibattiti. Mi disse: «Voglio una parola sola e secca per far comprendere ai lettori che spacceremo droga pesante. Per esempio Bestiario». Gli obiettati che saremmo stati costretti a dare della bestia a un’infinità di politici che ci avrebbero querelati. Ma Claudio alzò le spalle e mi replicò: «Nessuno ci porterà in tribunale. Anzi tutti saranno felici di comparire ogni settimana su Panorama con la loro fotografia, per poi mostrare la pagina ai loro clienti». Infatti andò così. Se non ricordo male, l’unica querela che mi raggiunse fu quella di un ministro socialdemocratico al quale dedicai appena una riga dicendo che aveva l’aria del guappo assonnato. Venni trascinato in tribunale e a salvarmi da una condanna furono due bravissimi avvocati romani che mi assistevano in quanto redattore di Repubblica. Perché con il Bestiario di allora mi andò sempre bene? Penso che il motivo riguardi soprattutto la qualità dei politici di allora. Non mancavano di difetti, come è naturale che avvenga in tutte le democrazie del mondo. Ma erano tipi umani molto diversi da quelli odierni. La loro qualità numero uno era la sicurezza che mostravano a proposito del loro potere. Andreotti, Craxi, Fanfani, Berlinguer erano arcisicuri di durare nel tempo sino alla fine della democrazia italiana. E questo li aiutava a essere incuranti di quanto si scriveva su loro conto. Un giorno me lo spiegò un vecchio deputato democristiano: «Vede, dottor Pansa, la Democrazia cristiana è come la fattoria del curatolo Cicco. Ciascuno fa quello che vuole, ma senza dare nessun fastidio agli altri. E lo stesso accade in tutte le altre parrocchie politiche. È il trionfo del sistema e ci vorranno anni per spiantarlo». Come posso non rimpiangere la Dc? Sono cresciuto, anche sotto l’aspetto professionale, sotto il suo regime. Un insieme di regole soffici, che non prevedevano il pugno di ferro, ma soltanto quello di latta, per di più avvolto in un guanto di lanetta. I «biancofiore» erano l’autoritratto dell’Italia. Si andava da una furia umana come Fanfani a signori che avrebbero fatto la loro figura nel più esclusivo club britannico. Devo citarne uno? Il senatore bresciano Mino Martinazzoli, da noi cronistacci denominato il Bel tenebroso dalle mutande lunghe. Il panorama politico odierno, invece, mi dà nausea. La sua debolezza è certificata da un vizio sempre più diffuso: cercar di sembrare qualcun altro, perché essere quello che sei non ti piace e ti senti insicuro. Su questo terreno, per altro molto fragile, il campione è il ministro dell’Interno. Nel travestirsi, lui è un numero uno assoluto. Mi fanno sorridere, con simpatia, i capi di un sindacato dei vigili del fuoco. Questi generosi pompieri protestano perché il suddetto Salvini indossa sempre più spesso la giacca di chi fa un difficile mestiere al servizio della collettività. Immagino che la loro protesta il Signor ministro l’abbia attaccata sopra il water del Viminale per farne, come si dice alla buona, la carta del cesso ministeriale. Del resto, anche il Burbero Barbuto non ha la forza di resistere a un antico vizio: quello di travestirsi, oggi da pompiere, domani da poliziotto, domani l’altro da guardia di finanza. E perché non da prete, da frate, da vescovo, da ammiraglio, ma anche da battona, da donnaccia, da maîtresse di un bordello? Poiché il piacere di travestirsi non ha limiti e sopporta qualsiasi fantasia, anche quella del cambio di sesso. Una leggenda sostiene che l’ultima morosa del Salvini, la bella e brava Elisa Isoardi, non l’abbia lasciato con il due di picche in mano perché fosse stanca di stirare le camice del Signor ministro. Assolutamente no: la ragazza era stufa di dover passare le giornate a occuparsi dell’abbigliamento salviniano, sempre più straripante e senza limiti. Il fatto è che la Repubblica italiana del 2019 è sempre più folta di signori vogliosi di travestirsi. L’ultimo, per il momento, è Luigi Di Maio, con Salvini il secondo vice presidente del Consiglio. Lui immagina di essere già il capo dei gilet gialli che stanno mettendo sottosopra la Francia di Emmanuel Macron. Prima o poi, si presenterà all’Eliseo per intimare al presidente d’Oltralpe di sloggiare e lasciare il suo incarico niente meno che a Beppe Grillo che si sente sottovalutato e rischia di andare in depressione. Ma in casa nostra le occasioni per travestirsi non mancheranno mai. Un famoso maneggiatore di tangenti fingerà di essere un sant’uomo dedito al soccorso dei clochard. Un ragazzaccia che colleziona amanti andrà a vivere in un convento di clausura e lì riceverà i suoi spasimanti. Infine un politico di bell’aspetto, e qui non dirò a quale clan di partito appartenga, deciderà di rivelare la sua vera natura vestendosi da signora. E da chi verrà corteggiato? Da un super ministro, ovviamente. Che dovrà battersi in duello con un famoso giornalista, stanco di dover badare a ben tre amanti, donne vere con troppe pretese.

·         Parlamento: Guerra, Peace e Love.

Da ilmessaggero.it il 29 novembre 2019. L'aula di Montecitorio utilizzata per una proposta di matrimonio. Questa mattina alla Camera il deputato leghista Flavio Di Muro chiede di intervenire sull'ordine dei lavori e chiede alla fidanzata, presente in tribuna, di sposarlo. Il parlamentare del Carroccio prende la parola prima che inizi l'esame del decreto legge per la ricostruzione post terremoto. Premette di voler riportare serenità, dopo gli scontri di ieri sul Fondo Salva Stati, parlando di una questione personale. Quindi, dopo essersi chinato sul proprio banco, tira fuori un cofanetto con un anello e si rivolge «ad una persona presente in tribuna», scandendo: «Elisa, mi vuoi sposare?». Seguono gli applausi da parte dell'Aula, anche se il presidente della Camera, Roberto Fico, non gradisce: «Capisco tutto -  afferma - ma usare un intervento sull'ordine dei lavori per questo non mi sembra il caso». Da parte della relatrice del provvedimento, Stefania Pezzopane, arrivano invece le congratulazioni ai futuri sposi. «L'amore vince sempre», afferma, suscitando però un nuovo richiamo da parte di Fico: «andiamo avanti», l'ulteriore monito del presidente.

Franco Bechis su Flavio Di Muro, il leghista della proposta di nozze: "Insultato sui social dai grillini". Libero Quotidiano il 29 Novembre 2019. Flavio Di Muro, il leghista che ha fatto la proposta di nozze alla Camera, piace a Franco Bechis che sul Tempo racconta l'episodio. Ma nota anche un'altra cosa. Ossia che la reprimenda di Roberto Fico ("Capisco tutto, ma usare un intervento per questo non mi sembra assolutamente il caso") ha provocato una ondata di insulti da parte dei grillini, che hanno preso d'assalto le bacheche social dei due promessi sposi riempendole di attacchi e indignazione verso l'uso privato di tre minuti in un luogo pubblico. "Ora capirei i primi se quell'aula fosse ogni giorno maestra di vita. Ma lì dentro è accaduto di tutto", nota Bechis, "botte da orbi, insulti da suburra, battibecchi da asilo Mariuccia. La nobiltà della istituzione è in degrado da anni, perfino le leggi lì prodotte sono sbrindellate. Quella dichiarazione d'amore sarà impropria, ma è la cosa più bella che Montecitorio abbia offerto da decenni", ha concluso il direttore de Il Tempo. Una discreta lezione ai grillini.

Fiorella Mannoia più dura di Fico, il suo commento alla proposta di matrimonio del leghista alla Camera. Libero Quotidiano il 29 Novembre 2019. La proposta di matrimonio del leghista Flavio Di Muro, a Montecitorio, ha fatto sorridere i colleghi, arrabbiare il presidente della Camera Roberto Fico e indignare molti, fuori dal Parlamento. La sua Elisa alla fine ha detto sì, ma intanto tra i commenti più duri sui social, all'indirizzo del deputato salviniano, si segnala neanche a farlo apposta quello di Fiorella Mannoia. La cantante più rossa d'Italia, in tutti i sensi, si riconosce nel rigore (o grigiore?) istituzionale espresso dalla reprimenda del presidente della Camera grillino, bollando il gesto di Di Muro in modo più che lapidario: "Non ho più parole". Consiglio ai parlamentari romanticoni che vorranno imitare la proposta del leghista: dedichino alle loro future mogli una canzone di Fiorella. Oppure, modo più semplice, si facciano eleggere con qualche partito di centrosinistra. Magari saranno più fortunati e avranno maggiore clemenza (dalla Mannoia, ovviamente). 

Mef, rissa sfiorata alla Camera: strattonato il presidente Fico. Repubblica tv il 27 novembre 2019. Si è sfiorata la rissa nell'Aula della Camera, con una trentina di parlamentari coinvolti. Ad incendiare gli animi il Mes, il fondo Salva Stati dopo l'audizione del ministro dell'Economia Roberto Gualtieri in Senato, le cui parole vengono riportate nell'emiciclo dal leghista Claudio Borghi che attacca duramente il governo e il premier Conte. Subito gli fa eco Giorgia Meloni e scoppia la bagarre. La situazione si fa incandescente quando prende la parola il dem Piero De Luca. Tra cori e urla il presidente Fico sospende la seduta. In questo video postato dalla dem Patrizia Prestipino, Fico viene circondato e strattonato.

 Mes, finisce a sedie sfasciate alla Camera. Il leghista Belotti da solo contro tutto il Pd. Libero Quotidiano il 27 Novembre 2019.  In Parlamento si "discute" di Mes e finisce a sedie sfasciate. Il leghista Daniele Belotti, fuori di sé dalla rabbia, durante il parapiglia che si è scatenato a Montecitorio nel tardo pomeriggio scaglia una sedia di uno stenografo. È il momento più eclatante di uno scontro politico al calor bianco. Il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri parla di documento "inemendabile", Lega e FdI insorgono scagliandosi contro il premier Giuseppe Conte, che aveva garantito come non ci fosse "alcun accordo firmato" dall'Italia. Claudio Borghi, presidente (leghista) di Commissione bilancio della Camera, pensa addirittura di accusare Conte di "eversione", Giorgia Meloni di "vergogna".

Il dem Piero De Luca capovolge l'accusa: "Il Mes porta la firma del governo gialloverde e quindi di Matteo Salvini". A quel punto, urla e fischi dai banchi della Lega con Belotti, raccontano i testimoni alle agenzie di stampa, che "si lancia in picchiata dai banchi della Lega e, prima ancora di scontrarsi con Emanuele Fiano e gli altri deputati del Pd che hanno alzato una barricata umana, travolge e spacca una poltrona utilizzata dagli stenografi d'aula". Seduta, ovviamente, sospesa.

(ANSA il 28 novembre 2019) Scontro in Aula alla Camera sul Mes. Le opposizioni hanno chiesto al premier Conte di riferire con urgenza in Aula, dopo le parole del ministro Roberto Gualtieri e lo scontro si è infiammato quando dai banchi del Pd Piero De Luca ha ricordato che le trattative sul trattato si sono svolte quando la Lega era al governo. I deputati leghisti sono insorti, protestando al grido di "Venduti, venduti" e il diverbio si è esteso anche ai banchi del centrodestra quando hanno visto un deputato di Fi fare un video. Roberto Fico ha sospeso i lavori d'Aula. Ad aprire lo scontro è Claudio Borghi, presidente leghista della commissione Bilancio della Camera, che prende la parola durante i lavori sul decreto terremoto per attaccare il governo sul Mes. E gli animi si infiammano al punto che il deputato della Lega Daniele Belotti, a quanto viene riferito, sfascia una delle poltrone in Aula. Mentre un altro collega, Marzio Liuni, segretario di presidenza, si avvicina a Roberto Fico per protestare. Il presidente della Camera sospende i lavori d'Aula e riunisce la capigruppo, per decidere se e come proseguire sul dl sisma, visto il clima infuocato dell'Aula. L'accusa, rilanciata da Claudio Borghi e Giorgia Meloni, è avere scavalcato il Parlamento, dando il via libera a un testo "inemendabile", come spiegato oggi da Roberto Gualtieri. "Il Parlamento a giugno con una risoluzione", ricorda il leghista, si era espresso sul trattato: se fosse sottoscritto si tratterebbe di "infedeltà in affari di stato, è un reato, l'avvocato del popolo dovrà cercarsi un avvocato, il Parlamento è stato completamente scavalcato. Una cosa gravissima". "Sottoscrivo le parole di Borghi", afferma Meloni e chiede a Conte di riferire. Poi prende la parola dai banchi del Pd Piero De Luca, che difende il governo e contrattacca accusando la Lega di aver condotto le trattative proprio sul Mes quando era al governo. "Venduti, venduti", gridano dai banchi dell'opposizione. A quel punto la situazione si fa ingestibile: Roberto Fico richiama i deputati e poi sospende la seduta.

La messinscena della proposta di matrimonio alla Camera: le nozze erano già fissate da tempo. Pubblicato martedì, 03 dicembre 2019 su Corriere.it da Marco Imarisio. L’onorevole Di Muro e la futura moglie avevano già scelto la data, prenotato il ristorante e fatto il corso prematrimoniale. «Elisa, mi vuoi sposare?». Non era il Grande fratello, magari lo fosse stato. Si è trattato invece di una recita, una prima volta assoluta della quale nessuno sentiva un bisogno così impellente. A parte lui, l’attore principale, il deputato leghista Flavio Di Muro. Le sue nozze con la fidanzata Elisa verranno celebrate il 5 settembre nella cattedrale di Ventimiglia alta. In città lo sapevano tutti, da tempo. La data infatti è stata prenotata a settembre, così come il ristorante per il ricevimento, l’agriturismo «U Cian» di Isolabona. Quando ci si sposa, nella speranza che sia per la prima e ultima volta, bisogna fare le cose per bene. Senz’altro lo avranno spiegato anche durante il lungo corso prematrimoniale, che Flavio e Elisa hanno finito proprio domenica scorsa insieme ad altre cinque coppie. Tutto pronto per il grande giorno, insomma. Ma l’animo umano si nutre di incertezza e dubbi davanti alle grandi decisioni della vita. Deve essere per questo che giovedì scorso l’onorevole Di Muro ha replicato in diretta televisiva la proposta di matrimonio alla sua Elisa. Lo ha fatto dagli scranni del Parlamento, dopo un preambolo durante il quale ha spiegato come talvolta, a causa della maledetta politica, «tralasciamo le persone che amiamo». L’intervento si è concluso con «Elisa mi vuoi sposare?». La diretta interessata, presente in tribuna, ha ribadito il suo assenso. La scena si è svolta durante l’esame del disegno di legge sulla ricostruzione delle zone dell’Italia centrale colpite dai terremoti del 2016, ma questo è un dettaglio, anzi un bieco rigurgito di moralismo. Ci sono state molte speculazioni su quel gesto, un inedito nella storia della Camera. Ma tutto è passato in cavalleria per via di quella che sembrava una ingenuità di fondo. Adesso si scopre che era tutta una finzione. Il matrimonio era già deciso da tempo. E ci sarebbero ben altre domande da farsi, sui tempi e sulla politica che stiamo vivendo, sulla necessità di apparire a ogni costo. E comunque, viva gli sposi.

Ritrovata a Cesena la coperta antenata della Bandiera della Pace. Cucita negli anni Cinquanta da donne iscritte a un circolo legato al Pci. La Repubblica il 04 dicembre 2019.  Si credeva perduta, invece giaceva sotto una catasta di panni, nella ex sede del Pci a Cesena, la "Coperta dell'amicizia tra popoli" che è considerata l'antenata della "bandiera della Pace" arcobaleno di Aldo Capitini per la prima Marcia della Pace Perugia Assisi del 1961. La coperta, ritrovata grazie all'impegno del Centro per la pace Balducci, è stata cucita all'inizio degli anni Cinquanta da 49 donne - che ne hanno firmato un riquadro - del circolo San Vittore di Cesena, organizzato dal Partito comunista italiano: queste donne verranno celebrate a Cesena sabato prossimo, 7 dicembre, con la consegna a otto di loro e a 22 parenti che le rappresentano del diploma "Cesena, città della pace". "Si era in piena guerra fredda dopo la fine della seconda guerra mondiale, i venti non erano favorevoli al tema della pace", sottolinea l'assessore alla Pace Carlo Verona, come riporta l'agenzia Dire. Sabato prossimo le due bandiere - quella di Capitini è conservata come una reliquia e custodita dal bibliotecario Gabriele de Veris a San Matteo degli Armeni a Perugia - si incontreranno in città, dove sarà presente anche la parlamentare Laura Boldrini, che nel 2011 ha ricevuto il premio "Cesena, città della pace" quando ricopriva il ruolo di Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati. In serata al Palazzo del Ridotto andrà in scena lo spettacolo "E come potevamo noi cantare: dalla Grande guerra alla Grande pace", che racconta 100 anni con varie letture.

·         Paese che vai, guerriglia che trovi.

Così app e social network vengono usati per organizzare e alimentare le rivolte nel mondo. Dal software per smartphone che raduna manifestanti per i cortei fino alle mappe che in tempo reale avvisano sugli spostamenti della polizia. Viaggio negli strumenti digitali protagonisti delle sollevazioni globali. Mauro Munafò il 12 novembre 2019 su L'Espresso. Non c’è un leader, non c’è una sede. Non c’è neppure una persona. A chiedere a Sergio in quale ore e giorni della settimana è disponibile per partecipare a una manifestazione ci pensa direttamente una app. Lo studente di Barcellona compila i vari campi toccando in fretta lo schermo touch: è questione di pochi secondi. Ora non gli resta che aspettare per ricevere le indicazioni sul prossimo evento. Quella con cui sta interagendo Sergio si chiama “Tsunami Democratic” ed è l’applicazione al centro delle proteste che da settimane stanno infuocando la Catalogna. Non si trova sugli store ufficiali di Android e iPhone: i colossi digitali non la vogliono e il governo di Madrid ne ha già chiesto la rimozione da qualunque server. Anche Microsoft si è piegata alla Guardia Civil e l’ha dovuta cancellare da GitHub, il suo servizio usato dagli sviluppatori di tutto il mondo per diffondere programmi in maniera gratuita. Basta guardare quali altri governi hanno chiesto simili iniziative a GitHub per capire l’eccezionalità dell’evento: prima della Spagna avevano osato solo Russia e Cina. Le rimozioni e i ban non hanno limitato la diffusione di Tsunami Democratic. Ma trovare il file per scaricarla non è sufficiente. Per attivarla serve anche l’aiuto di chi già la usa, che deve farti leggere il suo Qr code, un codice da riprendere con la telecamera dello smartphone. L’obiettivo è semplice: impedire (o almeno ridurre) il numero di infiltrati e contribuire a far stringere relazioni fisiche e di fiducia ai futuri manifestanti. Il caso catalano è forse quello più interessante dal punto di vista tecnologico, ma propone in maniera più definita elementi che stanno caratterizzando tutti i moti globali. Il primo è la necessità di organizzarsi e coordinarsi con nuovi strumenti, che garantiscano un facile acceso alle masse ma al tempo stesso tutelino la privacy di chi li usa. A Hong Kong c’è Hkmap.live, una mappa delle proteste aggiornata in tempo reale che monitora anche gli spostamenti delle forze di polizia sul territorio. Dopo le lamentele del governo cinese, Apple l’ha fatto sparire dal suo AppStore affermando che veniva usata per attaccare la polizia o dai malintenzionati che, conoscendone gli spostamenti, compivano crimini nelle aree “scoperte”. Accuse rispedite al mittente dagli sviluppatori del programma, che può comunque essere raggiunto attraverso altri canali. Al fianco di questi software realizzati ad hoc, tutte le proteste vedono il massiccio utilizzo delle applicazioni di messaggistica che “criptano” le comunicazioni, garantendo l’anonimato a chi le usa e l’impossibilità di essere intercettate. La più nota è Telegram, fondata dal russo Pavel Durov, che permette di creare chat segrete e anche gruppi estesi per comunicazioni di massa: quello di Tsunami Democratic risulta al momento uno dei cento più grandi al mondo (quasi 400 mila iscritti). Lo stesso Durov ha dichiarato che la sua app è stata oggetto di un pesante cyber-attacco arrivato dalla Cina nei giorni delle manifestazioni di Hong Kong e, secondo un articolo di Reuters , sta sviluppando delle speciali funzioni per proteggere chi la usa nell’ex colonia inglese dove sono state arrestate anche persone che hanno creato e animato gruppi su questa app di messaggistica. Il livello superiore e più visibile di queste proteste è l’uso massiccio dei social network per diffondere foto, video e slogan. Gli hashtag su Twitter e Instagram, le pagine e i gruppi Facebook diventano armi per resistere alle repressioni statali e proporre a livello globale la propria narrazione degli eventi, aggirando le censure o le operazioni di disinformazione governative. In maniera simile a quanto visto nelle primavere arabe, gli stessi slogan possono sentirsi in una piazza di Beirut come in una del Sudan, una bandiera catalana essere sventolata a Hong Kong e la maschera del Joker diventare il simbolo dei manifestanti da Santiago del Cile a Barcellona. L’adozione della maschera del cattivo di Batman interpretato da Joaquin Phoenix segna anche un passaggio simbolico nella protesta. Nel 2007 Beppe Grillo in Italia lanciava il suo V-Day prendendo ispirazione dalla maschera di Guy Fawkes in “V per Vendetta”. Le piazze riempite dal comico genovese anche allora erano state snobbate da gran parte dei media e dei corpi intermedi tradizionali, venendo invece alimentate e rilanciate dalla rete. Piazze che denunciavano problemi non diversi da quelli per cui si scende in strada in giro per il mondo oggi: diseguaglianza, corruzione della classe politica, scarsa attenzione per i giovani. Da quelle piazze è nato un partito arrivato nel giro di dieci anni al governo anche grazie alla sua capacità di intestarsi e cavalcare gran parte dei movimenti spontanei o locali, occupando quasi tutto lo spazio politico della protesta in Italia. Almeno fino ad oggi. Una cavalcata che per le forze in piazza dal Sudan al Libano, quasi sempre senza leader e molto eterogenee al loro interno, sembra essere però difficile da imitare.

Il caso. Come ha fatto Bella Ciao a diventare l'inno dei movimenti di mezzo mondo. Una canzone dalle origini misteriose viene cantata dal Rojava ai Fridays for future. Ecco perché il brano unisce chi lo intona contro ogni sopruso e ogni volontà di dominio. E no, il merito del suo succeso recente non è di Netflix. Evelina Santangelo il 12 novembre 2019 su L'Espresso. Perché milioni di giovani nelle proteste dei Fridays for Future, ispirate da Greta Thunberg a partire dal 2018, hanno scelto come inno della lotta contro una politica inerte riguardo ai cambiamenti climatici proprio “Bella ciao” e non “Fischia il vento” o uno degli innumerevoli canti partigiani francesi o spagnoli? Cosa c’entra la lotta di liberazione dal nazifascismo con le battaglie ambientaliste? Di queste domande vorrei dar conto parlando di Bella ciao e della sua diffusione planetaria come inno popolare per le lotte sociali (Carlo Pestelli “Bella ciao, la canzone della libertà”, 2016). Perché poi le risposte più interessanti credo di averle trovate proprio in certi paradossi apparenti che accompagnano l’origine controversa e la storia di questo canto. Una premessa però. Non è stata una multinazionale dell’intrattenimento come Netflix con il lancio della serie spagnola “La casa di Carta” (2017) e i suoi banditi trasformati in rivoluzionari sulle note di “Bella ciao” a farla cantare lì dove c’era un diritto da difendere, un’oppressione da combattere, un sopruso contro cui lottare e resistere. Perché, se oggi la cantano a squarciagola ragazzi ignari o diventa tifo da stadio come ai Mondiali di Russia 2018, è anche vero che, prima ancora che tornassero a intonarla in un contesto nazionale gli operai della Whirlpool di Napoli o migliaia di manifestanti all’aeroporto di Barcellona dopo le condanne dei leader catalani indipendentisti, “Bella ciao” è stato uno dei canti che nel ’69 costò la censura al cantautore Adolfo Celdrán nella Spagna franchista. È stato uno dei canti di resistenza più intonati dai giovani del Leftist Jordanian Movement, nipoti di quei nonni palestinesi rifugiatisi in Giordania nel ’48 e nel ’67. È stata una delle canzoni più conosciute e tradotte dai giovani mediorientali di sinistra nelle rivolte arabe del 2011, e ancora oggi, proprio qualche giorno fa in Libano, la tv Al-Manar (Il Faro) di Hezbollah (Partito di Dio libanese a favore del governo in cui ricopre tre ministeri) - durante un collegamento - si è trovata nell’imbarazzo di trasmetterla perché intonata dai manifestanti in piazza contro la corruzione della classe dirigente e il carovita. L’hanno cantata nel 2013 i giovani del Parco di Gezi a Istanbul contro l’abbattimento di centinaia di alberi per costruire un centro commerciale, inaugurando una mobilitazione in difesa dei diritti civili dilagata in tutto il Paese e repressa ferocemente da Erdogan. Lo stesso anno dell’esecuzione gitana dirompente di Bregovic a Parigi, incubo di ogni sovranismo. È stata cantata ai funerali di Tignous trucidato nell’assalto a “Chalie Hebdo” del 2015 (stesso anno dell’Accordo di Parigi sul clima e dell’enciclica Laudato si’) e, sempre in Francia, nel 2016 l’ha eseguita l’orchestra Debout in omaggio ai manifestanti contro la riforma del mercato del lavoro di Hollande. Oggi, non diversamente da ieri ma con un senso amaro di tradimento, la cantano alcune formazioni della quarta etnia più grande del Medio Oriente: i curdi turchi, iracheni, siriani, che con le sigle Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan di Turchia e Iraq), Ypj (Unità di protezione delle donne del Rojava siriano) e Ypg (Unità di protezione del popolo) hanno combattuto l’Isis, lo spettro del più feroce fondamentalismo jihadista, a fianco della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Bella ciao continuano a intonare, evocando quei partisan italiani delle montagne cui traggono ispirazione da popolo che «ha un solo amico, le montagne», appunto. E vorrebbe che la propria resistenza fosse riconosciuta in una Storia più grande, come lotta anche per la difesa di una concezione democratica radicalmente egualitaria: la democrazia del Rojava siriano (sotto attacco turco) dove uguaglianza di genere, economia sostenibile, rispetto dell’ambiente, pluralismo sono facce della stessa medaglia. Né sarà un caso che in questi giorni in Rojava, mentre in Cile torna a imperversare una violenza inaudita e anche a Santiago si canta “Bella ciao”, è apparso un cartello che recita: «Dal Rojava al Chile: El Pueblo Unido Jamas sera Vencido». Come a dire quanto sia cieco dividere lotte e rivendicazioni di diritti, e dividerli da un capo all’altro del mondo. Ma torniamo all’origine incerta di “Bella ciao”, a tutto quel che può contenere una canzone semplice orecchiabile sentimentale, declinata in mille versioni o contesti, e oggetto delle più svariate appropriazioni. Canto di trovatori provenzali, di mondine italiane, canzone popolare del nord Italia d’amori abbandonati, canto di protesta, melodia Klezmer-Yddish molto simile a un 78 giri del 1919 del musicista zigano Mishka Ziganoff, canto della nostra Resistenza… nonostante non vi siano indizi della sua rilevanza tra le brigate partigiane. Nessuna traccia nei documenti dell’immediato dopoguerra né in vari canzonieri. Non c’è, ad esempio, nel “Canzoniere Italiano” di Pasolini e nemmeno nei “Canti Politici” di Editori Riuniti del ’62. C’è piuttosto evidenza di una sua consacrazione popolare e pop tra il ’63 e il ’64, con la versione di Yves Montand e il festival di Spoleto, quando il Nuovo Canzoniere Italiano la presentò al Festival dei Due Mondi sia come canto delle mondine sia come inno partigiano. Una canzone duttile, dunque, e talmente “inclusiva” da poter tenere insieme le varie anime politiche della lotta di liberazione nazionale (cattoliche, comuniste, socialiste, liberali...) ed esser cantata sia a conclusione del congresso DC che elesse come segretario l’ex partigiano Zaccagnini sia durante i funerali di Giorgio Bocca, che, da partigiano, diceva di non averla mai sentita intonare. Una canzone per la quale si è dovuta edificare una tradizione, un immaginario, facendola diventare simbolo della Resistenza (Bermani, “La vera storia di Bella ciao”) e molto di più: lotta patriottica di liberazione dall’invasore; lotta civile contro una dittatura; lotta per l’emancipazione sociale. Un mito insomma che, come tutti i miti, può contenere un universo più vasto di significati rispetto a quelli per cui è stato tramandato. E può vivere molte vite nuove. E una delle nuove vite ha proprio a che vedere con l’imperativo per uno sviluppo sostenibile rivendicato dai giovani dei Fridays for Future che trae diretta ispirazione dal “Bella ciao” intonato da centinaia di ragazzini belgi nel 2012: «Dobbiamo svegliarci, dobbiamo aprire gli occhi, dobbiamo farlo ora. Dobbiamo costruire un futuro migliore». Non un inno solo per l’ambiente, dunque, ma per un cambiamento all’altezza dei tempi, che è una scelta di campo. Se le istituzioni politiche sono incapaci di affrontare questa crisi, la ragione sta nel fatto che «il pilastro di queste strutture è lo stato-nazione che per propria natura è tenuto a tutelare gli interessi di un unico gruppo di persone», spiega Amitav Gosh ne “La grande cecità”. Che la questione ambientalista sia questione politica contro ogni nazionalismo, nazifascismo, fondamentalismo jihadista, suprematismo, sovranismo così come contro ogni forma di economia rapace indifferente al «debito ecologico soprattutto tra il Nord e il Sud» è evidente nella chiarezza di queste parole dell’enciclica papale che, come nota Gosh, deve anche la sua forza alla schiettezza pragmatica dello stile contro i tecnicismi fideistici dell’Accordo di Parigi. E in quell’enciclica si dice che è impossibile separare «conversione ecologica», «giustizia sociale», squilibrio economico, deterioramento di ambiente e società, e migrazioni anche, visto che «a sostenere l’onere del cambiamento climatico saranno i poveri e gli indifesi», quell’umanità in fuga che fa tanta paura all’Occidente. «Lassù, per la prima volta in vita nostra, ci siamo sentiti veramente liberi e quel paesaggio si è associato per sempre con la nostra idea di libertà», scrive Luigi Meneghello in un passaggio de “I piccoli maestri”, evocando l’altopiano di Asiago dove gli studenti vicentini si spingono con l’entusiasmo di cambiare il mondo unendosi alla lotta partigiana. Ecco, il paesaggio, la fisionomia del pianeta e il suo destino sono fatti politici, luoghi in cui prendono forma idee di libertà, speranze condivise, giustizia sociale o, al contrario, concezioni fondate sul predominio, la sopraffazione, l’esercizio illimitato del potere umano sulla natura, di cui l’uomo stesso è parte. Viviamo in un mondo che ha bisogno di miti, nuove speranze, e dunque pure di questa rinnovata versione universalistica di Bella ciao: bisogna essere partigiani e scegliere dove collocarsi nella Storia planetaria, contro ogni retorica ipocrita della legittimità di tutte le parti.

Le proteste che agitano il mondo. Dall’Ecuador al Libano, i temi comuni. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 da Corriere.it. Cos’hanno in comune i ragazzi che scendono in piazza ad Hong Kong con gli equadoregni che protestano contro l’aumento del costo del carburante? Apparentemente nulla. Alcuni lamentano condizioni economiche difficili, altri violazioni dei diritti umani, altri ancora la mancata tutela dell’ambiente ma, a ben guardare, un filo conduttore c’è. Vediamo quale. Una manifestazione a BeirutAd Hong Kong come in Libano, in Catalogna, in Egitto e in Russia si scende in piazza per la libertà d’espressione politica. L’ex colonia britannica reclama la propria specificità e chiede che le sue prerogative siano preservate, anzi ampliate, nonostante la pressione della leadership comunista. Le proteste sono iniziate la scorsa estate quando la governatrice Carrie Liam ha cercato di far passare una legge sull’estradizione di ricercati e sospetti in Cina ma poi sono continuate anche quando la proposta è stata ritirata. Ora i manifestanti chiedono elezioni libere. Le loro tattiche hanno ispirato gli attivisti di mezzo mondo. Le centinaia di migliaia di catalani che hanno invaso le strade a metà ottobre dopo la sentenza di condanna dei leader separatisti gridavano: «Facciamo come ad Hong Kong». E i volantini per spiegare come proteggersi dai gas lacrimogeni e dai cannoni d’acqua erano copiati dai manifestanti dell’ex colonia britannica. Una manifestazione a Santiago del CileAnche in Cile e Libano i cortei sono continuati nonostante venissero meno i motivi che avevano scatenato la protesta. A Beirut il 20 ottobre il premier Saad Hariri ha ritirato la proposta di tassare le chiamate via WhatsApp ma i dimostranti hanno rilanciato chiedendo più infrastrutture, servizi e un’inchiesta sugli abusi della polizia. In Europa lo scorso agosto a Mosca le manifestazioni in cui si chiedeva democrazia per le elezioni cittadine e si protestava contro il regime di Vladimir Putin hanno raccolto sostegni impensabili fino a qualche mese fa, non solo nella capitale. La repressione, come sempre, è stata dura. In Egitto , a settembre, centinaia di migliaia di persone hanno manifestato nelle strade del Cairo, d’Alessandria e di Suez contro il presidente Abdel Fatah al Sisi, duemila i cittadini fermati dalla polizia. Un altro filo conduttore che unisce i contestatori nel mondo è la lotta contro la disuguaglianza. All’inizio di ottobre in Ecuador ad accendere la rabbia dei cittadini era stato il taglio dei sussidi per la benzina che esistevano nel Paese da 40 anni. Dopo giorni di autostrade bloccate e scontri con le forze di sicurezza il governo ha fatto marcia indietro. Anche in Cile è stato un aumento del prezzo dei trasporti pubblici a innescare la protesta. Venerdì 18 ottobre mentre la polizia caricava la gente in piazza, il presidente Sebastián Piñera è stato fotografato in un lussuoso ristorante italiano, segno della distanza siderale tra la classe politica e i cittadini. L’aumento vertiginoso del debito pubblico e le riforme economiche hanno animato la protesta in Libano, di cui abbiamo già detto: «Non siamo qui per WhatsApp, siamo qui per tutto: carburante, cibo, pane, tutto» ha dichiarato Abdullah alla Bbc durante una manifestazione a Beirut. Il cuore di molti cortei racchiude accuse di corruzione nei riguardi del governo. Un tema che è indissolubilmente legato a quello delle diseguaglianze. La tesi è che i leader politici usino le loro posizioni di potere per arricchirsi più che per aiutare il Paese. Così in Libano dove, per calmare l’insofferenza della popolazione, è stato appena approvato un taglio degli stipendi dei parlamentari. Anche in Iraq la gente si sente tradita dal sistema politico che assegna gli incarichi sulla base di quote etniche o settarie invece che sul merito. Mentre in Egitto il presidente egiziano Al Sisi e il suo regime militare sono stati apertamente accusati di usare i fondi pubblici in modo improprio da un imprenditore in esilio, Mohamed Ali. Un addebito che è risuonato forte nelle piazze. Ultimo ma non in ordine di importanza è il tema del cambiamento climatico. Abbiamo tutti assistito alle proteste guidate da Greta Thumberg, la sedicenne svedese che ha lanciato Fridays for future, il movimento studentesco che ha spinto milioni di studenti a riunirsi nelle piazze di tantissime città per chiedere azioni concrete per salvare il nostro pianeta. Lo stesso modus operandi di Extinction Rebellion che chiama i cittadini del mondo ad azioni per fermare la crisi ecologica.

Bolivia, Morales rinuncia e scappa. Manifestanti in piazza. Nuove elezioni. Il Dubbio l'11 novembre 2019. Giunta all’epilogo la parabola dell’uomo che da indio coltivatore di coca è arrivato a guidare il paese. ravvisati brogli e manomissione dei voti. Messo di fronte alla denuncia di irregolarità elettorali da parte dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa),l’ormai ex presidente della Bolivia, Evo Morales, ha rinunciato al suo incarico e ha lasciato il paese. Ora il voto verrà con tutta probabilità ripetuto. E’ arrivata così all’epilogo la parabola dell’uomo che da indio coltivatore di coca è arrivato a guidare il paese. Dopo la sua autoproclamata rielezione il 20 ottobre le manifestazioni di piazza violente sembrano aver squarciato il velo di probabili brogli. Per questo la polizia boliviana ha arrestato la ex presidente e l’ex vicepresidente del Tribunale Supremo Elettorale (Tse), Maria Eugenia Choque e Antonio Costas. Conto i due è stata aperta un’inchiesta per falsificazione di documenti, manipolazione di dati informatici, alterazione ed occultamento di risultati e altri reati. Immediatamente dopo l’annuncio della rinuncia di Morales dato in diretta Tv migliaia di persone sono scese in piazza Manifestanti ed oppositori si sono uniti in un corteo a La Paz al quale ha preso parte anche il leader dell’opposizione e sfidante di Morales alle presidenziali, Carlos Mesa.

L’ex presidente boliviano Morales ottiene l’asilo politico in Messico. Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 su Corriere.it da Rocco Cotroneo. Scontri e proteste mentre l'ex presidente lascia il Paese. Il Messico ha annunciato di aver concesso asilo politico al presidente dimissionario della Bolivia, Evo Morales. Lo riportano i media messicani. Secondo quanto riferito, l’annuncio è stato fatto dal ministro degli Esteri Marcelo Ebrard. Morales, deposto alla vigilia di quello che molti considerano un colpo di Stato, aveva formalizzato la richiesta nelle scorse ore al governo messicano. Il ministro degli Esteri messicano, Marcelo Ebrard, ha precisato che è stato lui a chiedere protezione perché «la sua vita e l’integrità fisica sono minacciate». «Il Messico si è sempre distinto nel corso della storia per avere protetto chi cercava un rifugio», ha concluso Ebrard. Dopo settimane di agitazione nelle strade, seguite a una elezione presidenziale oggetto di polemiche, l’esercito ha infine deciso di abbandonare Morales, il quale ha annunciato le sue dimissioni. Inizialmente si era pensato ad una fuga all'estero dell’ex sindacalista «cocalero», poi smentita dopo il suo annuncio in tv e la sua uscita pacifica di scena. Ora probabilmente si svolgerà una nuova tornata elettorale senza di lui, ma con un candidato del suo schieramento. Intanto la Bolivia si trova da oggi senza dirigenza, dal momento che tutti i successori previsti dalla Costituzione boliviana in caso di addio del presidente, di fatto, si sono dimessi con lui, cioè il vice presidente Alvaro Garcia Linera, la presidente e il vicepresidente del Senato e il presidente della Camera dei deputati. A rivendicare il diritto a diventare capo dello Stato ad interim è la seconda vicepresidente del Senato, Jeanine Añez, dell’opposizione, che ha promesso di convocare nuove elezioni affinché «il 22 gennaio abbiamo un presidente eletto».

Bolivia, Morales si rifugia in Messico: "Tornerò presto". L'Esercito prende il potere: guerriglia urbana a La Paz e El Alto. Davanti alla incapacità (volute) della polizia di gestire il caos che si è creato con le dimissioni del presidente, il generale Kaliman ordina ai soldati di intervenire "per evitare sangue e lutti. Useremo la forza in maniera proporzionale con gli atti dei gruppi vandalici". È il golpe: la gente tappata in casa segue in tv le battaglie furibonde all'esterno. Daniele Mastrogiacomo il 12 novembre 2019 su La Repubblica. È guerra, guerra civile. La Bolivia spaccata a metà si riversa ancora per le strade e mette a soqquadro le città con assalti, spari, aggressioni. Evo Morales lascia il Paese e si rifugia in Messico che gli concede asilo. Non è solo la fine di un ciclo politico, di un esperimento riuscito ma poi naufragato per gli errori di un leader indigeno incapace di vedere la realtà, prigioniero del suo mito, e per gli interessi di una destra che ha soffiato sul malcontento e sui disagi. L'Esercito prende il potere. Davanti alla incapacità (volute) della polizia di gestire il caos che si è creato con le dimissioni di Morales, il generale William Kaliman ha dato ordine ai soldati di lasciare le caserme e di intervenire "per evitare sangue e lutti". È il golpe. Come denunciava da tempo il leader dei cocaleros, come hanno cercato fino alla fine che gli si opponeva. La Paz e El Alto, le due roccaforti dell'opposizione e dei militanti del Mas, fedeli al presidente in fuga, sono chiuse nel panico. La gente resta tappata in casa e segue in tv le battaglie furibonde che si svolgono all'esterno, via per via, casa per casa. "I soldati", ha aggiunto Kaliman apparendo in televisione, "useranno la forza in maniera proporzionale con gli atti di gruppi vandalici che causano terrore nella popolazione". "Il leone si è svegliato", annunciano sulle reti sociali i simpatizzanti del partito che per 14 anni è rimasto al potere. È la rivolta della base di Morales, quella che lo ha sostenuto per tanto tempo e che adesso, con la fine di tutto, tira fuori le armi e si scaglia contro quelli che considera i responsabili dello sfacelo. Agiscono con rabbia e con furia incontenibile: assaltano le stazioni e le caserme della polizia. Al grido "Adesso sì, guerra civile", migliaia di giovani escono dalle case e della sedi del partito assediano e bruciano i simboli del nemico e inseguono i poliziotti che fuggono. Sono decisi, vogliono andare tutti a La Paz per chiudere i conti e assaltare il palazzo del governo. La minaccia è bastata a far chiudere tutti i negozi, le banche, i mercati della capitale mentre gli abitanti alzano barricate e pattugliano gli incroci per evitare i saccheggi. I parlamentari che avrebbero dovuto riunirsi nell'Assemblea per eleggere stamane un nuovo presidente a interim hanno interrotto i lavori e sono fuggiti. Morales grida al golpe: "Lo avevo detto, ecco dimostrato". E poi su Twitter aggiunge: "Per un presidente che rappresenta la gente umile, la polizia si ribella e picchia mentre le Forze Armate chiedono la sua rinuncia; per la classe neoliberale che ostenta potere economico, Polizia e Forze Armate reprimono il popolo che difende la democrazia con giustizia, pace, uguaglianza". La sommossa dei fedelissimi si è concentrata anche a La Paz. Migliaia di contadini sono arrivati con colonne di camion e auto e hanno circondato i quartieri ricchi della capitale. Innalzavano bastoni, pali, vanghe e hanno attivato piccole cariche di dinamite scatenando il terrore tra gli abitanti tappati in casa che chiedevano inutilmente l'intervento della polizia. In uno dei quartieri più colpiti vive lo stesso leader dell'opposizione Carlos Mesa che in preda al panico ha invocato l'aiuto degli agenti temendo che la sua casa venisse attaccata. La crisi ha esasperato le divisioni sociali, razziali, etniche tra bianchi e meticci, tra ricchi e poveri, tra classe alta e media e classe contadina da sempre presenti in Bolivia e che Morales era riuscito a plasmare fino a neutralizzarle. Una divisione che la rete amplificava con insulti e messaggi di odio. Chi veniva attaccato, nei quartieri assediati dai simpatizzanti del Mas, si scagliava su quelli per strada con toni razzisti e xenofobi. Partivano appelli a organizzarsi, a reagire, a creare "catene di preghiere". Fuori le minacce e gli insulti erano altrettanto pesanti. Contro Mesa e Camacho, i due leader dell'opposizione che ha dato inizio alla rivolta. Per tutto lunedì, mentre Morales preparava il suo esilio in Messico, è stato un crescendo di azioni esaltate. I vincitori gridavano e facevano di tutto; c'era chi voleva arrestare il presidente dimissionario, chi i membri del Tribunale Superiore Elettorale responsabili della frode di due domeniche fa. Chi, come molti poliziotti, si è strappato dalla divisa la whipala, la bandiera indigena che in base alla Costituzione è uno dei simboli nazionali e che i fatti hanno associato alla fine con il Mas. Gesti gravi, di rifiuto esasperato che nel delirio di violenza hanno gettato ancora più benzina nell'incendio boliviano. Il "leone" che dormiva si è svegliato. L'Esercito ha deciso di intervenire.

Evo Morales e la Bolivia: il socialismo sudamericano sotto attacco. Cristiano Puglisi su Il Giornale l'11 novembre 2019. Cosa sta accadendo in Bolivia? Evo Morales, il presidente fresco di dimissioni, era per il Paese andino una vera icona. Ex cocalero (operaio coltivatore di coca) ed ex sindacalista, capo di Stato dal 2006, il primo indigeno ad ascendere al seggio presidenziale, Morales è uno degli uomini simbolo del socialismo latinoamericano. Inviso agli statunitensi fin dalla prima candidatura, quella del 2002, durante i suoi tre mandati ha attuato politiche socio-economiche che sono andate in senso contrario rispetto alla vulgata liberista, con, tra le altre cose, la nazionalizzazione delle risorse di gas naturale e la realizzazione di una grande massa di opere pubbliche. Politiche keynesiane che hanno contribuito, negli anni, a ridurre sensibilmente la povertà: il numero di cittadini costretti a vivere con una cifra giornaliera inferiore ai 5,50 dollari si è ridotto dal 52% del 2005 al 24% del 2017. Il PIL pro capite reale della Bolivia è cresciuto mediamente del 3,2% all’anno durante i tre mandati di Morales. Le scelte dei suoi governi hanno così contribuito a ad aumentare il potere d’acquisto dei boliviani con ritmi di crescita di tutto rispetto e, nonostante una flessione nell’ultimo quinquennio, il presidente godeva ancora di un consenso importante. Ma allora perché dimettersi? La crisi politica ha origine con la vittoria, la quarta consecutiva, del presidente nelle ultime elezioni presidenziali dello scorso 20 ottobre, quando Morales ha evitato il ballottaggio contro il candidato liberale Carlos Mesa con il 47% delle preferenze al primo turno. Una competizione elettorale cui Morales ha potuto partecipare dopo un via libera alla candidatura arrivato nonostante il referendum per consentirgli un quarto mandato fosse stato in precedenza bocciato dagli elettori. L’opposizione ha così subito accusato il presidente di brogli, accusa supportata da un rapporto dell’OAS – Organizzazione degli Stati Americani, importante forum multilaterale con sede a Washington. In prima fila si sono mossi i comitati civici guidati da Luis Fernando Camacho, un oppositore e presidente del “Comité pro Santa Cruz”, cresciuto in una delle zone più ricche della Bolivia, le cui proteste hanno contribuito a dare vita a tumulti particolarmente violenti, che hanno alla fine generato almeno tre morti e quasi 400 feriti. Dopo aver annunciato nuove elezioni, Morales ha dovuto alla fine gettare la spugna, sotto la spinta, dell’ammutinamento di numerosi poliziotti e, soprattutto, delle pressioni dell’esercito, che lo ha invitato a lasciare “per il bene della nostra Bolivia”, per voce del comandante in capo, il generale Williams Kaliman. Prima di Morales si erano dimessi anche il presidente della Camera, Victor Borda, e il ministro delle Miniere, Cesar Navarro. Le loro abitazioni erano appena state attaccate e date alle fiamme, come quella di una sorella dello stesso Morales e di due governatori locali. Dopo aver spiegato di voler risiedere “nella zona tropicale di Cochabamba”, dove iniziò la sua carriera politica, negando di voler fuggire, Morales ha detto di non sentirsi colpevole di nulla. “Il mio peccato – ha spiegato – è essere indigeno, dirigente sindacale, cocalero (…) Essere indigeno, antimperialista e di sinistra è il nostro peccato. Se capiterà qualcosa a me e a al vicepresidente pure dimissionario Alvaro Garcia Linera, sarà colpa di Mesa e Luis Ferdinando Camacho”. Così, se il presidente venezuelano Nicolas Maduro, anche lui da qualche tempo alle prese con un tentativo di colpo di Stato, ha dichiarato che “Evo Morales è in pericolo di vita”, dopo il tentato golpe in Venezuela con Juan Guaido e quello, a questo punto riuscito, in Bolivia, dopo la ratifica della carcerazione preventiva in Ecuador per l’ex presidente Rafael Correa, è certamente e decisamente curioso l’allineamento temporale di situazioni che hanno portato a un’inversione totale rispetto a quella “ondata socialista” che, nel ventennio precedente, aveva portato al potere nei principali stati latinoamericani leader come Cristina Kirchner in Argentina, Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile, Manuel Zelaya in Honduras, Daniel Ortega in Nicaragua, Fernando Lugo in Paraguay e Hugo Chávez in Venezuela. Leader che, in un modo o nell’altro e nonostante le differenze, avevano come punto in comune l’opposizione ai dogmi economici liberisti e austeristi (di recente contestati da un’ondata di proteste anche in Cile) cari, tra gli altri, a istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale. Posizioni che, nel caso di Morales, sono state probabilmente pagate a caro prezzo.

Chi c’è dietro le proteste in Bolivia. Lorenzo Franzoni suit.insideover.com il 28 novembre 2019. In Bolivia si sta registrando una serie di eventi di grande impatto, tutti pienamente coinvolgenti la politica nazionale e la variegata composizione della società del Paese. In questi, sono coinvolti personaggi più o meno noti dentro e fuori i confini dello Stato sudamericano: uno di questi è sicuramente Luis Fernando Camacho, un leader cristiano proveniente dal Sud boliviano, salito alla ribalta delle cronache per essere entrato nel palazzo presidenziale dopo la dipartita politica di Morales.

Gli ultimi accadimenti politici in Bolivia. Vale la pena, in questo senso, fare un passo indietro. Dapprima, si sono tenute le elezioni nazionali, che hanno proclamato Evo Morales presidente per la quarta volta: un’operazione che da alcuni osservatori è stata interpretata come una forzatura della Costituzione, da altri è stata invece approvata in quanto ha ricevuto l’avallo popolare e democratico. In seguito sono venute le ribellioni, fomentate dagli sconfitti, e con esse il tradimento dell’esercito e delle forze dell’ordine, che hanno voltato le spalle al neo-eletto presidente. Da qui, la caduta del governo, la fuga in Messico di Morales e la proclamazione di Jeanine Anez, leader dell’opposizione di destra, come presidente ad interim. Nel frattempo, nel Paese il caos si è moltiplicato, e la guerra civile si è fatta tremendamente più vicina: i sostenitori del governo decaduto hanno replicato le manifestazioni di piazza, subendo tuttavia la repressione della polizia e di alcuni manifestanti armati. Con un permesso di impunità, dato dal nuovo governo, di poter usufruire della forza contro i manifestanti. Il riconoscimento internazionale di Anez disegna, in certo qual modo, la geografia politica che si situa dietro agli accadimenti boliviani: un insieme di moti le cui scaturigini hanno origine tanto esogena quanto endogena. Ad aver riconosciuto la sua legittimità sono stati, con soddisfazione, in primo luogo il Brasile di Jair Bolsonaro – le cui politiche potrebbero essere ricalcate dal nuovo esecutivo – e gli Stati Uniti di Donald Trump. Difatti, secondo il mai domo schema della dottrina Monroe, l’America latina è sempre stata intesa, dal XIX secolo, come il giardino di casa a stelle strisce. In questo caso, ipotesi accreditata è che la necessità di applicare tale strategia abbia a che fare anche con interessi economici cospicui verso il litio: metallo alcalino di cui la Bolivia è piena, indispensabile per le batterie, e che Morales stava trattando con la Cina.

L’ascesa di Camacho all’opposizione. Tuttavia, i legami con attori esterni al Paese non sono gli unici che meritino la dovuta attenzione. Infatti, la geografia interna della Bolivia, per come emersa dalle recenti elezioni vinte da Evo Morales, è quanto mai variegata, ed alcuni protagonisti interni hanno favorito un determinato disegno politico per il Paese, piuttosto che un altro.

Uno di questi è stato – ed è – senza ombra di dubbio Luis Fernando Camacho, la cui provenienza e le cui attività politiche sotterranee denotano il succitato legame fra spinte interne e spinte esterne nella questione boliviana. Il pluripremiato giornalista investigativo Max Blumenthal, insieme a Ben Norton, ha effettuato un reportage di alto livello su The Gray Zone, in cui ha cercato di enucleare le origini sociali, culturali ed economiche dell’uomo che, poco dopo le dimissioni di Morales, ha mostrato al mondo una parte di Bolivia ben diversa dallo spirito plurinazionale e socialista dell’ormai ex Presidente Aymara. Infatti, Camacho si è presentato al palazzo presidenziale con una Bibbia in mano, proclamando che la Bolivia appartiene a Cristo e che mai più dovrà finire in mano agli indigeni. “Pachamama non tornerà mai più al palazzo”, ha dichiarato, in riferimento alla Madre Terra andina – in lingua quechua -, dea della terra, dell’agricoltura e della fertilità presso gli Inca ed altri popoli nativi del Sud America. Una linea che, peraltro, sembra assolutamente conforme alle idee segregazioniste della leader di destra, l’auto-proclamata Anez, che non nutre simpatie per gli indios (il rogo delle bandiere Wiphala lo dimostra). Nel frattempo che gli scontri nel Paese continuano ad aumentare, e con essi i morti ed i feriti – soprattutto fra i serramenti della popolazione che, a milioni, ha votato per la riconferma di Morales. Non è incidentale che, all’inizio del caos scatenato nel Paese, Camacho abbia sostenuto la legittimità della violenza adoperata dai sostenitori dell’opposizione: la quale ora governa, con lui figura centrale.

La Union Juvenil di Santa Cruz. Dunque, sostengono Blumenthal e Norton, dietro alla figura moderata di Carlos Mesa – che si è presentato alle elezioni per cercare di scalzare Morales dal trono presidenziale, senza riuscirci -, si nascondeva il “vero volto dell’opposizione”. Una parte i cui membri hanno insistito sull’esistenza di brogli – un’ipotesi smentita da organi internazionali indipendenti – come casus belli per scatenare il voltafaccia delle forze armate e così giungere a controllare il Paese, costringendone il Presidente a fuggire. Questo volto, alcune delle cui sfumature sono rappresentate da Camacho – imprenditore ultra-40enne -, ha assunto i propri tratti in alcune determinate zone del Paese. La principale delle quali è stata la separatista Santa Cruz, nella quale egli ha potuto respirare a pieni polmoni un’atmosfera ben diversa da quella che Morales aveva cercato di porre in essere. Alcuni “contorni ideologici del colpo di Stato”, per utilizzare le parole dei due giornalisti investigativi americani, hanno assunto le proprie fattezze esattamente in questa regione, e nelle attività che la contraddistinguono. Uno dei background più importanti e noti di Camacho è la sua appartenenza alla Union Juvenil Cruceñista, una vera e propria formazione paramilitare, simboleggiata da una croce verde (i cui dettami sono molto simili a quelli venuti in essere nel regime fascista ed in altri regimi dittatoriali del passato novecesco europeo), il cui saluto ricorda il tristemente noto “Sieg Heil” dei membri del Partito nazionalsocialista e poi di tutta la Germania sotto Adolf Hitler. La Ujc si è inoltre resa protagonista di diverse azioni violente – durante il corso della sua esistenza – nei confronti dei nemici politici: la stessa ambasciata statunitense a La Paz, con i suoi rappresentanti, non ha esitato a riconoscere il movente di discriminazione razziale di queste azioni. Quindi, tutt’altro che meramente politiche. Inoltre, sin dall’elezione di Morales nel 2006, questo movimento ha portato avanti una vera e propria campagna separatista.

L’amicizia di Camacho con Branko Marinkovic. La storia dell’iscrizione di Camacho alla UJC durò due anni, a seguito dei quali egli lasciò l’organizzazione dalla sua posizione di vicepresidente: non per dissidi ideologici, ma perché aveva un crescente impero imprenditoriale da gestire. Iscritto ad un’enigmatica organizzazione, Los Caballeros de Oriente, che potrebbe essere ricondotta alla massoneria, egli appartiene al Grupo Empresarial de Inversiones Nacional Vida, il quale si occupa di diversi settori dell’economia boliviana: terziario (servizi), energetico (gas), assicurativo. Con numerosi investimenti diretti ed indiretti in varie società. Nel frattempo che egli si avvicinava al mondo dell’impresa, scalando le gerarchie del Comitato Pro-Santa Cruz, è stato preso sotto l’ala protettrice di Branko Marinkovic, proprietario terriero di origine croata. Un vero e proprio oligarca, che ha alimentato i sogni politici della destra boliviana, in quanto ben più liberale e meno dirigista-statalista del Mas di Morales: presidente che, parzialmente, aveva nazionalizzato alcune sue terre. Nel 2008, come rilevano Blumenthal e Norton, è stato direttamente denunciato dalla International Federation for Human Rights per essere un “attore e promotore di razzismo e violenza” nel suo Paese, agente ad esempio attraverso il già citato Comitato Pro-Santa Cruz. Additato in quello stesso anno dal New York Times come un gruppo apertamente xenofobo, cinque anni dopo ha subito lo strale perforante di Matt Kennard, giornalista che ha scoperto stretti legami fra questo Comitato ed il governo di Washington, che l’ha utilizzato come arma non convenzionale per balcanizzare la Bolivia. Quindi, il legame fra alcuni movimenti putschisti interni alla Bolivia – come questo di Markovic e Camacho – e gli Stati Uniti, soprattutto nell’ottica di destabilizzazione del Paese sudamericano, non sono nuovi. Basti ricordare la Falange Socialista Boliviana, un movimento che – a dispetto del nome – ebbe sempre un’impronta politica di segno e metodologia operativa completamente opposte. Al punto tale da aver dato rifugio a Klaus Barbie, criminale di guerra nazista ed ex uomo della Gestapo: lo stesso uomo che gli Stati Uniti (e la Cia in particolare) hanno utilizzato per il programma dell’Operazione Condor durante la Guerra Fredda, con l’obiettivo di impedire la proliferazione del comunismo in America Latina. Inoltre, Marinkovic – la cui famiglia si vocifera appartenne al movimento degli Ustascia – è stato un sostenitore della Union Juvenil Cruceñista e, esattamente come Camacho, si colloca nell’ala maggiormente conservatrice e radicale della Chiesa. Infine, non è incidentale che sia un denigratore della triade Cuba-Venezuela-Nicaragua, e che nutra simpatie per i movimenti di opposizione di questi Paesi (e non solo di questi): spesse volte eterodiretti, o comunque collusi col potere ombra a stelle e strisce.

La magmatica situazione boliviana. Il retroterra storico, culturale e relazionale di Luis Fernando Camacho ne mostra in maniera piuttosto chiara l’indirizzo politico. E, con esso, come la sua volontà di spodestamento di Morales lo abbia portato ad usufruire della sua influenza sul territorio di Santa Cruz (e non solo) per muovere contro Evo Morales manifestazioni di protesta, in zone tradizionalmente ostili al presidente indio. Non a caso, dal Messico Morales stesso lo ha additato di essere stato uno dei protagonisti del golpe da lui subito. Naturalmente, la situazione politica in Bolivia non può essere riduzionisticamente intesa nell’esistenza di un bianco o di un nero senza una scala di grigi. Infatti, è doveroso specificare che quella di Camacho e della destra di Anez non era l’unica opposizione rispetto all’oramai ex presidente. Nonostante la tradizionale simpatia suscitata nelle comunità indigene, finalmente rappresentate in Costituzione sotto Morales, talune di queste – fra cui gli Ayllos – avevano dimostrato poca soddisfazione nei confronti delle sue scelte. Tuttavia, la loro richiesta si limitava a dimissioni e ripetizione delle elezioni: non certo ad una presa violenta del potere. Per questo motivo, è innegabile che la fazione politica cui appartiene Camacho stia ricoprendo un ruolo chiave e primario non soltanto nella fuga di Morales, ma anche nell’attuale controllo e sommovimento repressivo nel Paese. Camacho ha documentato, attraverso il suo profilo Twitter aperto da pochi mesi, i suoi incontri con diversi funzionari di Stati sudamericani – come ad esempio il Brasile e la Colombia -, poi apertamente allineatisi al rovesciamento del potere costituito in Bolivia. Blumenthal e Norton sostengono che, mentre veniva proposta la figura del centrista Carlos Mesa – in ogni caso portatore di un programma economico di stampo liberista molto vicino ai desiderata transnazionali dei potentati economici -, i facinorosi stavano premendo affinché il colpo di mano, in caso di sconfitta democratica, riuscisse senza intoppi. L’appoggio di militari e polizia, in questo senso, è stato decisivo: in questo scenario, dal palcoscenico mediatico è scomparsa la figura di Mesa, ed è comparsa quella di “Macho Camacho“. Sicuramente, uno degli ispiratori dell’attuale disordine in Bolivia.

Fenomeni. Perché i popoli del mondo si stanno ribellando. Dal Cile al Sudan. Dall'Algeria a Haiti. Da Hong Kong all'Iraq. Dall'Ecuador al Libano. Trenta anni dopo la caduta del muro di Berlino mille nuove rivolte scuotono il mondo. Legate da un filo rosso. Gigi Riva su L'Espresso l'11 novembre 2019. In Cile sono stati quattro centesimi di dollaro, il costo dell’aumento della metropolitana. In Libano la tassa di 20 centesimi al giorno della stessa moneta per le videochiamate con WhatsApp, Facebook, Messenger e FaceTime. In Sudan il pane, il cui valore è triplicato. In India le cipolle che hanno fatto registrate il record di rincaro del 700 per cento a causa dello scarso raccolto. In Ecuador la benzina più salata per la fine dei sussidi. Ad Haiti stessa miccia e non vengono più protetti gli alimenti di prima necessità. E non è rimasta immune nemmeno la ricca Arabia Saudita per il raddoppio del prezzo di un oggetto voluttuario, l’uso del narghilè nei caffè e nei ristoranti.

Se quattro o venti centesimi vi sembran pochi... I diseredati del globo si ribellano ad ogni latitudine. Gli sconfitti dalla globalizzazione, stanchi di veder crescere la forbice tra ricchezza e povertà, riempiono le piazze, sfilano in corteo verso i palazzi del potere, scandiscono slogan, impauriscono i regnanti che talvolta cedono, si rimangia i provvedimenti quando ormai è troppo tardi. La miccia lunga dello scontento ha esaurito la sua corsa e dopo l’esplosione non bastano le briciole. Quattro o venti centesimi di dollaro sono la causa scatenante che trascina un treno di insoddisfazione. La folla presenta un conto finale. Che non riguarda solo le tasche, il portafogli, contempla anche diritti negati, libertà, la richiesta di farla finita con caste troppo longeve nelle stanze del comando, dunque spesso corrotte. Fino a far scrivere a Bernard Guetta, su “Repubblica”, che risuonano contemporaneamente nelle strade le tre parole chiave della Rivoluzione francese, libertà, uguaglianza, fraternità . E a scorgere i segni di un neo-illuminismo che avanza e che chiama in causa la ragione, il cervello, dopo la fase del populismo intestinale. Troppo entusiasmo? Troppa fretta di annunciare una svolta epocale che segnerebbe la fine della fase liberista avviata da Reagan e dalla Thatcher con l’idea che “non esiste la società, esistono gli individui”? Forse. Le proteste hanno un minimo denominatore comune e caratteristiche assai diverse, spesso sono senza leader, movimenti a cui manca il catalizzatore del consenso. Ma, sebbene nell’Italia ombelicocentrica non ce ne siamo accorti, il 2019 è un anno di masse in rivolta. E magari Conakry, capitale della Guinea, o Khartum, capitale del Sudan, non fanno notizia. Tuttavia una mappa ragionata del pianeta terra e delle sue turbolenze ha tanti puntini rossi che denotano una malattia.

Il non ancora fatale, comunque significativo, 2019 ebbe il suo prologo nel suo predecessore 2018 vicino a noi, nella Francia dei gilet gialli, e il motivo fu l’annunciato aumento di 6,5 centesimi di euro al litri del gasolio e di 2,9 centesimi della benzina (se 6,5 centesimi vi sembran pochi...), per favorire la transizione ecologica. Fu la Francia rurale a sollevarsi, a invadere Parigi, a devastare i Campi Elisi, in odio alla Ville Lumière servita e riverita di mezzi pubblici mentre in campagna i tagli al welfare avevano cancellato treni e autobus, oltre a caserme della gendarmeria e piccoli ospedali. Rendendo l’automobile una necessità e non un piacere. Dopo 23 settimane di cortei ininterrotti e richieste che si sono fatte vieppiù politiche (“Macron démission”) nell’ultima primavera inoltrata il movimento che si vantava di non avere capi, o di averne una pluralità, si è disperso in mille rivoli. Non prima di aver filiato imitatori nel confinante Belgio o in Serbia. Belgrado si univa a un malcontento “cittadino” che aveva già contagiato Varsavia, Budapest, Podgorica, Tirana, una corposa fetta dell’Est stanca di presidenti o primi ministri variamente populisti ed eletti col consenso massiccio delle aree lontane dai grandi centri. Una peculiarità europea riscontrabile anche nella Gran Bretagna della mai consolidata Brexit dove le città contestavano l’uscita dall’Unione europea sancita con un referendum che avvalorava il dualismo urbanità contro ruralità. Risultati pratici scarsi o nulli. L’impasse inglese continua, a est la conquista delle opposizioni di qualche capoluogo mentre la gente si diradava nelle piazze rassegnandosi al dominio di leader oltremodo longevi (fino a quando?).

Emigrando dall’Europa, il vento dell’insoddisfazione ha cominciato a spirare nel mondo arabo, toccando Paesi che erano rimasti immuni dalla “primavera” del 2011 poi velocemente abortita. L’Algeria, ex colonia francese, ha interpretato come un affronto la volontà di candidarsi per un quinto mandato del presidente Bouteflika, colpito da un ictus nel 2013 e da allora mai più comparso in pubblico. Evitato il contagio di otto anni fa quando si erano infiammate le confinanti Tunisia e Libia, oltre al poco distante Egitto, grazie alle generose elargizioni permesse dal gas e dal petrolio (prezzi bassi per gli alimentari e aumento degli stipendi), ora la situazione è completamente mutata perché il valore del greggio si è di molto abbassato ed è impossibile sostenere un welfare generoso. Non solo. Il perenne ricatto della “stabilità” reso possibile dalla memoria della sanguinosa guerra civile degli anni Novanta non vale per le generazioni di giovani che si vogliono liberare di una gerontocrazia autoreferente e corrotta. Bouteflika ha dovuto rinunciare al suo proposito, sancendo una vittoria solo parziale degli insorti se le elezioni presidenziali sono state rimandate già due volte e chissà se si terranno davvero il 12 dicembre come previsto in una situazione nella quale ai candidati d’opposizione è di fatto impedito di fare campagna elettorale, le galere traboccano di prigionieri politici e le ong denunciano sparizioni di personaggi contrari al regime. Stessa sorte di Bouteflika ha subito il dittatore sudanese Omar al-Bashir, dopo 30 anni di regno incontrastato. La crisi economica e le condizioni di indigenza di una larga massa della popolazione hanno partorito oceaniche manifestazioni a Khartoum dopo l’annuncio che sarebbe stato triplicato il prezzo del pane. I circa mille morti in piazza sono stati il costo della deposizione di al-Bashir pur se il cammino verso una parvenza di democrazia è ancora lungo, con i militari restii a lasciare il potere e a condividere con i civili l’incerta fase di transizione.

Si è dimesso anche il premier libanese Saad Hariri, sull’onda delle sommosse seguite alla tassa sulle telefonate via social-network e nonostante il provvedimento sia stato ritirato. Lo sventurato Paese senza pace, però tradizionale paradiso del sistema bancario internazionale, affronta un’emergenza che il governatore della Banca centrale Riad Salameh non esita a definire vicina al collasso. Terzo debito pubblico al mondo, 152 per cento, deficit delle partite correnti al 25 per cento, entrare costituite in gran parte dall’Iva e che dunque colpiscono tutti allo stesso modo. E l’1 per cento della popolazione che detiene il 25 per cento dell ricchezza. Servizi pubblici obsoleti. E il tutto ingigantito dall’enorme afflusso di profughi della guerra siriana, un milione e mezzo in totale, significa uno ogni 4 abitanti. I giovani sono i protagonisti dei cortei, tutti insieme, stanchi delle divisioni sanguinose dei padri tra sunniti, sciiti, cristiani, drusi. Cosi come i loro coetanei perlopiù disoccupati sono i protagonisti dei disordini esplosi in Iraq e repressi dal regime o delle marce anti al Sisi nell’Egitto sotto il pugno di ferro dei militari.

L’America Latina è l’altra area emblematica. Il Cile paradigma e sintesi della “globalizzazione della protesta”. Dopo il colpo di stato di Augusto Pinochet, fu laggiù, alla “fine del mondo” che i Chicago Boys sperimentarono in modo violento il loro modello ultra-liberista con l’avallo del dittatore, tra i migliori amici di Margaret Thatcher. Era la fine degli Anni Settanta. Quarant’anni dopo ecco i risultati. L’uno per cento della popolazione detiene il 20 per cento della ricchezza, il salario medio è di circa 400 euro e le pensioni di 170 euro, in uno Stato dove il costo della vita è paragonabile a quello italiano. E dove dunque la promessa del benessere per tutti è stata largamente disattesa e la corsa ai consumi a rate ha gettato le famiglie sul lastrico dopo il vano inseguimento dello stile dei benestanti. L’aumento del biglietto della metropolitana (e va ricordato che Dilma Rousseff, in Brasile, cadde anche per il rincaro che il suo governo decise sul prezzo dell’autobus), poi ritirato dallo spaurito presidente della Repubblica Sebastian Pinera, ha acceso il fuoco sulle note della proverbiale canzone “El pueblo unido jamás será vencido”. La risposta è stata, se non nell’ampiezza, nelle modalità simile a quella del golpe. Ricorso ai militari, torture, violenze, come se il richiamo di una storia recente di modi spicci fosse irresistibile.

Spostandosi a nord, in Ecuador troviamo uno stato d’emergenza di due mesi vergato dal presidente Lenin Moreno che ha anche spostato la sede del governo dalla capitale Quito a Guayaquil. Perché a Quito tassisti, autotrasportatori, studenti, rappresentanti della popolazione indigena non hanno digerito la revoca dei sussidi per il carburante in vigore dagli Anni Settanta. Scontri con la polizia, arresti, sono il film pressoché quotidiano a causa della misura concordata con il Fondo Monetario internazionale in cambio di un credito di oltre 4 miliardi di dollari per il Paese. Lo stesso Fmi aveva imposto analoga misura ad Haiti e la benzina aveva sofferto un balzo del 50 per cento trascinando un malcontento dovuto anche alla scarsità dei beni di prima necessità e alla corruzione di cui è accusata la classe politica. Classe politica nel mirino anche in Perù e Bolivia per l’accusa di brogli.

La mappa non sarebbe completa se non si citassero almeno due casi pur dai presupposti molto diversi. Naturalmente Hong Kong e la rivolta degli ombrelli contro la legge sull’estradizione e più in generale contro l’ingerenza dell’ingombrante Cina. E la Barcellona della rabbia per le pesanti condanne ai leader indipendentisti, dove non tramonta il sogno secessionista. Pura politica? Non del tutto se la Catalogna, area più ricca della penisola iberica, rivendica la volontà di un maggior ritorno sul territorio delle tasse che devolve alla fiscalità generale. Tra soldi e diritti la connessione è molto più solida di quanto si creda.

Cile, Daniela «el Mimo» trovata impiccata. L’ipotesi: «Seviziata per aver partecipato alle proteste». Pubblicato giovedì, 21 novembre 2019 da Corriere.it. Ha commosso il Cile la morte di Daniela Carrasco, l’artista di strada 36enne conosciuta come «la Mimo», volto noto delle proteste di piazza in Cile, trovata impiccata a una recinzione il 20 ottobre, in un parco in un quartiere periferico della capitale, Santiago. Daniela aveva partecipato alla guerriglia urbana esplosa dopo l’aumento dei costi del servizio pubblico, e alle proteste che da metà ottobre hanno portato in piazza folle oceaniche. Proteste che non si sono placate neanche dopo il rimpasto di governo e la promessa del presidente Sebastian Piñera di un referendum per la riforma della Costituzione, da tenersi nella primavera 2020. Il bilancio, ad oggi, è di 22 morti e oltre duemila feriti. E se inizialmente la morte della giovane era stata liquidata come un suicidio, versioni poi circolate sui social hanno affermato che prima di morire Daniela era stata fermata e seviziata a morte dai «carabineros». Lo hanno sostenuto per primi il coordinamento locale di NiUnaMenos - corrispondente cileno di «Non una di Meno» - e la Rete delle Attrici, che su Facebook hanno scritto che il corpo della «Mimo» presentava segni evidenti di percosse e violenza sessuale. Facendo appello al governo e alla ministra Isabel Pla perché facciano luce su questa e sulle altre dodici denunce di violenza sessuale presentate da donne che «nel silenzio dei governanti», l’esercito avrebbe inflitto alle donne cilene. I collettivi femministi hanno sostenuto che questo, come altri casi, siano stati un monito per intimidire chi, soprattutto se donna, ha partecipato e sta partecipando alle mobilitazioni in Cile. «Daniela è stata rapita dalle forze militari nella protesta del 19 ottobre, spiegano i vicini di casa che il giorno dopo hanno trovato il corpo appeso, esanime, con evidenti tracce di stupro e percosse. Lo stesso giorno è successa un’altra tragedia: Valeska Carmona López è stata colpita per strada mentre stava manifestando ed è morta poco dopo», scrive NiUnaMenos. Nel caso di Daniela, il medico legale (che ha consegnato alla famiglia il suo referto il 20 novembre) e la Procura hanno affermato che la morte sarebbe avvenuta per «soffocamento da impiccagione», escludendo lesioni fisiche attribuibili a violenze sessuali. Al momento, il National Institute of Human Rights (NHRI) non ha ricevuto un reclamo formale per questo caso, che è ancora sotto indagine. Piñera, in una conferenza stampa, ha ammesso errori e violenze commessi dalla polizia nella gestione dell’ordine pubblico. «C’è stato un eccessivo uso della forza, ci sono stati abusi e i diritti di tutti non sono stati rispettati, ma non resteranno impuniti», ha detto il presidente. Parole che non sono certo bastate a fare giustizia per la morte di Mimo. Le associazioni femministe parlano di omicidio di Stato e chiedono chiarezza e giustizia per Daniela «la Mimo» e per le altre donne vittima di violenza. Intanto, sabato prossimo ci sarà a Roma un corteo nazionale contro la violenza sulle donne. «In piazza - assicurano le associazioni femministe - si lotterà anche per lei».

Irene Soave per il “Corriere della sera” il 22 novembre 2019. È stata uno dei volti della guerriglia urbana che da settimane imperversa in Cile; ora è forse fra le sue vittime e, per alcuni, anche fra i simboli della violenza della polizia. È stata trovata impiccata Daniela Carrasco, 36 anni, artista di strada che chiamavano «La Mimo» e che si esibiva fra Santiago e la sua città, il comune di Pedro Aguirre Cerda, nella periferia della capitale. La sua morte è stata subito derubricata a suicidio; ma la sera prima di quando il suo corpo è stato ritrovato, appeso alla recinzione del parco André Jarlan a Pedro Aguirre, era stata arrestata, e per gli attivisti e per il sindacato nazionale degli attori è morta in mano alla polizia. Era il 20 ottobre; il giorno dell' arresto, il 19, è stata vista viva per l' ultima volta mentre i carabineros la portavano via da un corteo . Il primo a lanciare un sospetto sui militari era stato l' uomo che, all' alba, l' aveva trovata e aveva scattato le prime foto al cadavere: alla polizia aveva detto di trovare strano che «lì, a poca distanza» ci fossero carabinieros imperturbati. Gli esiti dell' autopsia, però, - resi noti ieri, un mese dopo - dicono che è morta per asfissia e non riscontrano segni di violenza sessuale né lesioni. E l' Instituto Nacional des Derechos Humanos - un ente nazionale extragiudiziale di cui il Cile si è dotato, dopo la fine della dittatura - non ha ricevuto denunce. Eppure le compagne di protesta denunciano: Daniela Carrasco sarebbe stata violentata e torturata proprio dalla polizia, e poi appesa al recinto del parco già quasi morta. È la tesi diffusa per esempio dal gruppo cileno del collettivo femminista internazionale Ni Una Menos, di cui «La Mimo» faceva parte. «È stato un monito per intimidire chi, soprattutto se donna, partecipava alle proteste di queste settimane», scrive su Facebook la coordinatrice. E a loro si unisce la Rete delle attrici del Cile: «Il corpo di Daniela aveva segni di colpi e violenza», scrivono, «e replica la tragedia di Valeska Carmona López, attivista colpita a morte da un proiettile mentre manifestava». Le loro accuse non sono però più circostanziate. Intanto ieri in plaza Dignidad, a Santiago, alcuni manifestanti si sono presentati vestiti da clown; ed è spuntato un mural che la ritrae. Sui social, dove imperversa da ieri l' hashtag #JusticiaParaElMimo, si parla di «femminicidio di Stato» e di « estilo Pinochet», stile Pinochet. E in effetti la violenza di polizia in Cile è da subito stata benzina sul fuoco delle proteste, iniziate il 14 ottobre per il rincaro della metro di Santiago: da subito le manifestazioni sono state represse in modo violento, con le forze dell' ordine che sparavano proiettili di gomma in faccia ai manifestanti. In un solo giorno gli ospedali hanno registrato 270 ferite oculari, record nelle statistiche mondiali; Amnesty International parla di «almeno 5 persone morte per mano delle forze di sicurezza», e in totale 23; oltre 2300 feriti di cui 1400 da proiettili; le procure registrano oltre 1.100 denunce di tortura e 70 di violenza sessuale a carico di pubblici ufficiali. Lo stesso presidente cileno Sebastián Piñera di recente ha ammesso che «c' è stato un eccessivo uso della forza, e ci sono stati abusi». In questo clima, la verità sulla morte della «Mimo» pare difficile da raggiungere.

La vera storia dietro l’immagine virale di «el Mimo» (che non era lei). Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. #JusticiaparaMimo è diventato lo spazio per chiedere giustizia per Daniela Carrasco, un hashtag che raccoglie l'indignazione internazionale e il clamore per la morte della 36enne che si faceva chiamare «El Mimo» e lavorava ai semafori vestita da clown. Diventata uno dei simboli delle proteste che da oltre un mese imperversano in Cile, Daniela è stata trovata impiccata nella periferia della capitale, Santiago. Per le autorità è stato un suicidio, ma per le associazioni «non è stato un semplice fatto di cronaca». Grazie alla viralità della rete, la richiesta di verità e la denuncia degli attivisti e del sindacato nazionale degli attori hanno conquistato i social network di tutto il mondo. Nella foto più condivisa, quella ritratta non è Daniela Carrasco, ma una ragazza anonima, che ha indossato i panni della donna morta, perché finalmente si parlasse delle dimostrazioni di violenza della polizia cilena, i Carabineros (poi è circolata anche la vera foto di Daniela in «abiti da lavoro», più sfocata, ma con un sorriso sul volto). Secondo le associazioni per la difesa dei diritti umani le forze dell’ordine stanno usando una forza «eccessiva e non necessaria» per fermare e punire i manifestanti. Daniela Carrasco, è l’accusa, sarebbe una delle vittime di questa violenza. Secondo il collettivo femminista «Ni Una Menos», il giorno precedente l’arresto l’artista era stata fermata dai militari che l’avrebbero stuprata, torturata e lasciata appesa per ore, a monito per tutte le donne che sono scese in strada a protestare contro il carovita nel Paese latinoamericano. Dal Cile, la denuncia è arrivata anche in Italia, dove in tanti, attraverso i social, si sono indignati e commossi nello scoprire storia e destino della giovane. «L’intenzione delle forze di sicurezza cilene è chiara: ferire i manifestanti al fine di scoraggiare le proteste, anche usando la tortura e la violenza sessuale - ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty International Americhe -. Invece di adottare misure per arginare la grave crisi dei diritti umani, le autorità, sotto il comando del presidente Sebastián Piñera, hanno perseguito una politica di punizione per oltre un mese, accrescendo il già impressionante numero di vittime, e le violenze, che continuano». Secondo il National Human Rights Institute (NHRI), almeno cinque persone sono morte per mano delle forze di sicurezza e oltre 2.300 sono rimasti feriti; più di 1.400 di questi feriti hanno subito ferite da arma da fuoco e 220 gravi traumi oculari. Inoltre, la Procura ha registrato oltre 1.100 denunce di tortura e altri trattamenti crudeli, disumani o degradanti, oltre a oltre 70 reati di natura sessuale commessi da pubblici ufficiali. Secondo la polizia nazionale, nessuno dei suoi funzionari è morto, ma circa 1.600 sono stati feriti, 105 dei quali gravemente. La decisione del presidente Piñera di schierare l’esercito per le strade dopo aver imposto uno stato di emergenza ha avuto conseguenze catastrofiche. La foto delle mobilitazioni scatenatesi dopo la morte di «El Mimo», viene esibita da uomini e donne indignati per i presunti abusi delle forze dell’ordine. Sulla vicenda si interroga anche la politica: da esponenti della sinistra europea giungono sollecitazioni all’Unione perché faccia la sua parte e chieda conto di ciò che sta accadendo in Cile. In un tweet Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana-Leu ha chiesto all’Italia di fare la sua parte. E organizzazioni come Libera hanno espresso solidarietà e rammarico: «In Cile, ma anche in Bolivia, Nicaragua, Colombia, Ecuador negli ultimi mesi la violenza dilaga», ha scritto l’associazione su Twitter, sollecitando la comunità internazionale a prenderne coscienza e correre ai ripari, prima che sia troppo tardi. I collettivi femministi hanno acceso i riflettori: forse quell’hashtag lanciato su Twitter, #JusticiaparaMimo, aiuterà a dare risposte alla tragica fine della «Mimo».

Maurizio Crippa per “il Foglio” il 27 novembre 2019. A proposito di maschere sorridenti, di travestimenti e nomignoli d' ironia che stanno qua e là per il mondo sgonfiando il petto in fuori della politica dei Rodomonti, c' è una maschera che non sorride più, e vale la pena raccontare, per due motivi. Per un saluto e un omaggio (per quel che serve) e perché quella maschera una domanda ce la pone a tutti: sarà poi vero che risus omnia vincit? E sarà poi vero, tutto quanto? Compreso che social omnia vincit? La storia da raccontare, per unirsi alla testimonianza di molti, è quella di un mimo, anzi El Mimo. Che si chiamava però Daniela Carrasco, era giovane e cilena, faceva l' artista di strada e la protesta contro il governo, anche nei giorni dello stato d' emergenza, e più di un mese fa è stata trovata impiccata per strada, alla periferia di Santiago del Cile. Anzi: "Violentata, torturata, impiccata ed esposta, cadavere, come un trofeo", secondo organizzazioni umanitarie e femministe: a opera della polizia o di agenti limitrofi, le zone nere e grigie di ogni repressione. Stanno provando a far luce, a farsi dire la verità. Però, per esplodere sui media fuori dal Cile, per diventare l' hashtag #justiciaparadaniela ci è voluta una foto. Ma non la sua. La foto di un' altra giovane donna che in una manifestazione si è messa gli abiti di lavoro e il trucco del Mimo, naso rosso a ciliegia compreso, come si truccava lei. E allora la commozione e l' indignazione sono esplose. O ci si sono aperti gli occhi, come si spalancano gli occhi quando si vedono gli artisti di strada.

Paolo Manzo per “il Giornale” il 9 dicembre 2019. In Cile, dove oramai gli incendi si contano a migliaia a latere delle proteste tutt' altro che pacifiche che sconvolgono da 51 giorni il paese, dopo il palazzo dell' Enel di Santiago è stata inghiottita dalle fiamme anche la storica Casa Italia di Viña del Mar, già sede anche del nostro consolato. Le famiglie degli emigranti italiani si riunivano proprio in questo edificio, dichiarato patrimonio nazionale, per fare feste, celebrare matrimoni, organizzare mostre di arte da quando, nel 1966, fu acquistata dalla nostra comunità. Da qualche anno era stata però occupata da antagonisti e da «punkabbestia». E così, quello che per decenni era stato un simbolo dell' Italia in Cile, è andato distrutto: crollato il tetto al pari del secondo piano. «Stiamo verificando se ci siano vittime visto che forse c' era all' interno un gruppo di «okupa» (così chiamano chi occupa abusivamente immobili in Cile, ndr), spiegava ieri sera a Radio Biobio, Gonzalo Román, il capo dei pompieri di Viña. Probabilmente doloso, oggi resta la certezza che la triste fine di Casa Italia si aggiunge alla lista sterminata di roghi appiccati a moltissimi edifici storici durante le «manifestazioni pacifiche» da black block e piromani, quasi come se la cultura e le radici di una nazione fossero nemici da abbattere. A dimostrazione di ciò, sempre ieri è stato denunciato il furto di 27 libri della collezione del poeta e premio Nobel, Pablo Neruda. Sono libri del '600 e del '700 (un' opera di Kircher Athanasius del 1667, due di Michael de Montaigne del 1724) oltre a molte prime edizioni che il grande poeta raccolse durante la sua vita e che conservava gelosamente. Durante l' assalto con successiva occupazione illegale dell' Universidad de Chile (il primo ateneo della repubblica cilena, in pieno centro di Santiago) gli «studenti» hanno forzato la porta della collezione Neruda, l'hanno vandalizzata e sottratto le 27 opere che, secondo le stime, valgono sul mercato nero decine di migliaia di euro. La denuncia è stata fatta solo ieri perché, sino a giovedì, l' Università del Cile era «okkupata» dagli studenti-ladri. Giovani molto simili agli «antifa» statunitensi, come dimostrano anche le tante statue degli eroi dell' indipendenza cilena danneggiate o la decina di chiese patrimonio del Cile distrutte. Dalla cattedrale di Puerto Montt a quella di Vera Cruz, costruita nel 1857, alla Chiesa di San Francesco a Curicó, altro patrimonio nazionale finito in cenere insieme alle immagini del Cristo in croce, esibite per strada dai «manifestanti» che, fossimo in Europa nessuno esiterebbe a definire black block della peggior specie. E che costoro abbiano in odio la cultura lo hanno dimostrato ieri anche a Guadalajara, in Messico, dove un gruppo di ragazze ha dato fuoco a una montagna di libri durante la locale fiera del libro, la più importante dell' America Latina, cantando l' inno dei Carabinieri cileni preso in prestito ormai dalle femministe di tutto il mondo. Chi manifesta pacificamente in Cile c'è e chiede un lavoro e salari degni, peccato che la violenza ha ottenuto sinora il risultato opposto: 15.000 le piccole e medie imprese a rischio chiusura, 75.000 i lavoratori che perderanno il posto (le PMI da sole garantiscono il 50% dei posti di lavoro ed il 98% del totale delle aziende cilene) se i disordini non dovessero cessare seduta stante, cosa improbabile visto l' andazzo. Il presidente Sebastián Piñera ha promesso una nuova Costituzione, aumentando del 50% le pensioni ma ha solo il 10% di appoggio popolare mentre il PIL, ad ottobre, è crollato del 3,4%, il peggior risultato da quando esplose la crisi Usa dei subprime, nel 2008.

Cile, rissa in tv contro ex deputato negazionista dei crimini di Pinochet. Roberto Pellegrino il 9 dicembre 2019 su Il Giornale. È ancora molto tesa la situazione polita e sociale in Cile. E ormai anche in tv si verificano esempi della crisi del Paese del Cono Sur. Pochi giorni fa, durante la trasmissione Bienvenidos, un programma mattutino condotto dalla giornalista e presentatrice Tonka Tomicic è scoppiata una rissa in diretta tv con Hermogenes Pérez de Arce, un controverso editorialista ed ex deputato di destra, ospite della trasmissione. La conduttrice cilena molto popolare Tonka Tomicic Pérez de Arce, ricordando il Caudillo, ragionando sulle attuali proteste e rivolte dei cileni, ha sostenuto che si stava meglio con la dittatura di Augusto Pinochet che non ha commesso nemmeno la metà dei crimini di cui lo si accusa. L’editorialista ha richiesto di “ricostruire il paese” poiché “il crimine lo sta devastando“. A questo punto, Tonka ha ripreso la parola, evidentemente contrariato e scuro in volto: “Non possiamo condividere una spazio  televisivo con una persona che sta negando parte della storia del Cile.” Parole cui Pérez de Arce ha liquidato sostenendo che non vi è stata violazione dei diritti umani nel Paese tra il 1973 e il 1990. Tonka, allora, è letteralmente esplosa e gridando che “Mio padre è stato sistematicamente torturato nella dittatura e tu vieni a dirmi che non ci sono state violazioni??!!!”, ha sollevato di braccio l’anziano deputato e lo affidato alla sicurezza per portarlo fuori dallo studio, per poi prendere la trasmissione visibilmente sconvolta.

Chile: Il Rumore delle Sciabole. Ivo Saglietti il 4 dicembre 2019 su Il Giornale.

11 Settembre 1973: un colpo di stato condotto dal Generale Augusto Pinochet Ugarte appoggiato dall’ Armada (marina) e dall’aviazione cancellava il progetto politico, economico e sociale di Salvator Alliende Gossens e di Unidad Popular. Con la presidenza di Allende e di Unidad Popular iniziò nel paese il più grande e ambizioso processo di cambio sociale, economico e politico nella storia del Chile e dell’America Latina escludendo la Cuba di Fidel Castro: la via Chilena al Socialismo. La nazionalizzazione del rame, riforma Sanitaria e scolastica, distribuzione del latte per bambini e riforma agraria erano gli obbiettivi principali del Governo di Alliende. Era evidente che tutto ciò preoccupava non solo la destra reazionaria e borghese del Chile ma anche le multinazionali straniere e soprattutto quelle americane, in primis la famiglia EXXON proprietaria della grande miniera di Rame di Chuquicamata, che dal 2001 appartiene alla ANGLO-AMERICAN. Quel periodo:1970/73 fu caratterizzato da un grande e spontaneo movimento della società popolare: Dibattiti, murales, cinema, letteratura, musica: si la musica: Victor Jara, che interpretava le tenere canzoni di Violeta Parra, arrestato tra I primi l’11 settembre, torturato: gli fracassarono le mani coi calci delle pistole deridendolo e finendolo con un colpo alla testa il 16 settembre allo stadio nacional, quello stesso stadio dove Fidel Castro, durante una visita con tempi caraibici, (quattro settimane) avvertì Allende e le migliaia di giovani sul pericolo della destra Chilena e internazionale. Gia la destra Chilena, quella che vive in Providencia, Las Condes o Vitacura.  In molti confusero quel periodo di speranza, allegria e libertà con l’anarchia e iniziò la destabilizzazione: il Il 9 ottobre 1972, in Chile, iniziò il grande sciopero dei Tir e rimasero a casa 40.000 autisti, tutti facevano capo al sindacato nazionale dei trasporti diretto da Leon Vilarin del gruppo di estrema destra paramilitare Patria y Libertad. Sono gli anni della CIA di Kissinger e Nixon “liberiamo il Chile da quel figlio di puttana” ma anche di alcuni partiti democratici europei. Fu l’inizio della fine il Chile precipitò in un caos generalizzato a cui si unirono I 13.000 minatori di El Teniente, poi altri scioperi: negozianti, dottori, panettieri, studenti e il paese e la visione di Allende si avvitò su se stesso verso la fine. E si arriva al mattino del 11 settembre 1973 il Golpe. Nello stadio, trasformato in campo di concentramento passeranno 140.000 persone, 40.000 furono le vittime di violazioni dei diritti umani tra il 1973/1990. Il numero ufficiale delle persone uccise o “desaparecidas” è di 3216, quelle arrestate e torturate 38.000 (Rapporto Valech).

Il 5 ottobre 1988 con il 56% dei NO il popolo cileno recupera la democrazia, l’anno successivo, il 14 dicembre, si svolgono dopo 17 anni di dittatura le elezioni generali.

2 dicembre 2019: nuovamente Carabineros de Chile per le strade, gas lacrimogeni, lancia acqua, carabine, spari, di nuovo repressione, tortura, stupri e uccisioni, si spara ad altezza d’uomo da poca distanza e al momento 217 persone hanno subito lesioni oculari e più di duecento persone hanno perso la vista da un occhio. La stampa di regime parla di delinquenti e ci sono, vanno di notte sfondano vetrine, aprono negozi e rubano nell’indifferenza delle forze dell’ordine, ma soprattutto nell’indifferenza dei governi e dei media di tutto il mondo. Sono più di 5.000.000 le persone scese per le strade di Santiago, Valparaiso, Conception, in più di un mese, per dimostrare il loro dissenso la loro sfiducia: sono delinquenti questi Cileni?

L'inno contro la violenza delle donne che dal Cile conquista il mondo. Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 da Corriere.it. Tamburi, ritmo, occhi bendati con una fascia nera, intreccio di corpi e parole che si muovono all’unisono chiariscono che: «L’assassino sei tu. Lo stupratore sei tu». Dal Cile sta girando le grandi città del mondo la performance di protesta contro sessismo e violenza sulle donne ideata da LasTesis, un gruppo di teatro femminista di Valparaiso. «El violador eres tu!» (lo stupratore sei tu), questo il titolo della coreografia, è stata interpretata per la prima volta il 20 novembre nelle strade della città portuale sulla costa cilena. Vestite di nero, con una fascia nera sugli occhi e un foulard rosso al collo, le dimostranti hanno ripetuto il testo che denuncia lo «Stato oppressivo» e intona lo slogan: «La colpa non è mia, né di dov’ero o com’ero vestita», «lo stupratore sei tu». Un testo che presenta la violenza sessuale come un problema politico, non morale. Sotto accusa le istituzioni, dalla polizia alla magistratura, violazioni sistematiche dei diritti delle donne.

Dopo aver girato in Messico, Colombia, Francia, Spagna, Regno Unito e India, le ragazze di LasTesis sono approdate in Italia. Ieri erano a Roma, oggi sono a Milano.

Y la culpa no era mia, la ribellione cilena è a ritmo di musica. Francesco Redig de Campos il 5 Dicembre 2019 su Il Dubbio. La danza delle donne di Santiago diventa un coro globale. È un ballo ipnotico un tamburo, una base elettronica e pochi semplici passi le ragazze bendate si inginocchiano e intonano un canto contro il femminicidio molto più efficace di mille slogan. L’eterna polemica che caratterizza la vita di noi musicisti vuole che siamo attratti solo dall’elemento tecnico e non da quello emotivo della musica. Personalmente ritengo che la parabola evolutiva del rock si sia chiusa tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta, ma che al tempo stesso considero Bob Marley, che certo non era un campione di intonazione, parte dell’olimpo delle cose meravigliose successe nel secolo scorso Lo stesso vale per l’attenzione che anche negli anni più bui ho riservato ai Ramones, tanto da assistere a un loro concerto nel 1989 in cui ci saranno state sì e no duecento persone, oppure ai misconosciuti gruppi che a New York negli anni settanta avevano contribuito a creare quei suoni che oggi, a parte citazioni ultra colte comprese da pochi adepti ( su tutte mi viene in mente “Vinyl”), sono completamente dimenticati e penso a band quali i Bad Brains e le New York Dolls. Questa convinzione non viene neanche scalfita quando racconto che i cori degli alpini, per inciso quelli fino a qualche anno fa in cui non erano presenti le donne ( non me ne vogliate amiche, ma c’è tutto un filone che dura da secoli che privilegia il canto corale dei soli uomini, culminato nell’incontro tra Paolo VI e Strawinsky in cui alla domanda su cosa potesse fare la chiesa per la musica, il sommo compositore russo rispose: «Santità, restituisca i castrati alla musica» ), mi commuovono all’inverosimile. E che lo stesso effetto mi fa il canto gregoriano, da non confondersi con la ben più articolata polifonia rinascimentale, e la melurgia proprio del rito bizantino che sono generalmente dei canti monodici ( una sola linea melodica prima di accompagnamento) con brevi sprazzi di armonizzazioni su intervalli estremamente consonanti che a confronto i Sex Pistols prevedono, nella loro ignoranza, una serie di conoscenze che possono essere assimilabili al confronto di un servo della gleba medievale e una qualsiasi persona in grado di cambiare una lampadina, guidare una macchina o di far funzionare uno smartphone. Nell’universo di internet da giorni sono diventate virali le immagini di un flash mob inventato dalle donne cilene che ha già preso piede in tutto il Sud America diventando un ballo di protesta globale molto più efficace di mille slogan. na schiera di donne che su un tamburo o una base elettronica batte esclusivamente pulsazioni omogenee scandendo un testo con una serie di rivendicazioni che dovrebbero essere patrimonio comune, ma che ancora stentano ad affermarsi. Potentissimo. Innanzitutto l’elemento visivo, le donne specie prima che diventasse un fenomeno di massa con enormi folle che lo recitano, sono tutte bendate. Non ne so bene il motivo, posso solo immaginare che in qualche modo si ricolleghi al tempo di Pinochet in cui era prassi comune bendare i detenuti che senza alcun capo d’accusa venivano rinchiusi a Villa Grimaldi. Di certo è che è un ulteriore elemento che cattura l’attenzione e l’immaginario di chi si trova a guardarlo. La prima volta che l’ho visto non ero in grado di capire il testo, certo la frase « Y la culpa no era mia, ni di dònde estaba, ni como vestia » lasciava intendere a grandi linee l’argomento, ma in sé non credo che abbia avuto un gran ruolo nell’appassionarmi così tanto. Ho sempre pensato che, per giudicare un fenomeno musicale, sia un privilegio non conoscere bene le lingue e quindi non farsi influenzare dal potere evocativo dei testi. Di tutti gli eroi cui mi sono appassionato nella vita, l’elemento testuale è sempre arrivato dopo. Se mi piaceva la musica, poi potevo leggere il testo sulla “mutanda” del vinile, poi sul libretto del cd e poi se era il caso mi sforzavo di tradurre. Ma era l’ elemento di “ciò che non si può dire a parole” che mi risvegliava l’interesse. Però effettivamente, in questa performance c’è veramente poco di creativo tale da catturare l’attenzione di una persona che della musica ha fatto la sua professione. Una pulsazione basica e un gruppo di persone che recitano una filastrocca, ma nonostante ciò sono giorni che non riesco a togliermelo dalla testa. Qual’è l’elemento che mi colpisce e che personalmente me lo fa collocare tra i brani più riusciti degli ultimi anni? Qual è il potere della musica nel dare forza ai vari messaggi che veicola? Se ognuno di noi facesse mente locale su quante poesie è in grado di recitare a memoria e quanti testi di canzoni, nella stragrande maggioranza dei casi il rapporto sarebbe intorno, se non superiore, a sei a uno. Poi c’è anche da notare che secondo i pionieri della musicologia, la musica non nasce per essere ascoltata. Ascoltare la musica è una prerogativa che si sviluppa in due soli posti nel mondo. L’India meridionale e nella Grecia. La tesi più comune vuole che le funzioni della musica siano quelle di accompagnare riti religiosi, il lavoro e la danza. E sicuramente senza l’impatto visivo delle donne che fanno dei semplici passi, si inginocchiano con le mani dietro la testa per quattro volte sulle parole “femminicidio, impunità per l’assassino, sparizione, violenza” e soprattutto il momento in cui ripetono «el violador es tu» indicando davanti ( e mettendoci tutti noi davanti alle nostre responsabilità) e la successiva pausa per tutta la battuta e il primo quarto di quella successiva in cui resta solo la pulsazione che riporta agli elementi archetipici comuni, probabilmente, a tutti gli esseri umani ( il battito cardiaco, l’alternarsi del giorno e della notte e delle stagioni), contribuisce in maniera determinante al successo di questa iniziativa. Bisogna però fare attenzione all’incombente effetto macarena che potrebbe trasformarlo in una sorta di ballo di gruppo sminuendone i contenuti e alla voglia ecumenica di tradurlo. Negli anni settanta “El pueblo unido” fu il simbolo della protesta dei giovani di tutto il mondo e nessuno si preoccupò mai del fatto che non fosse compreso il testo.

Perché gli italiani non si ribellano. Che altro possono fare…Luca De Biase il 29/09/2011. Vorrei dar conto di una discussione che si sta sviluppando intorno a un tema emozionante. Grazie per tutti i commenti che sono stati proposti su

questo blog, su Twitter, su Facebook, su Google+. Mi scuso in anticipo per la lunghezza di questo post e per gli errori che inevitabilmente contiene. Si tratta di un nuovo capitolo, non certo del finale della storia…

Viaggiando all’estero, dicevo in due post di qualche giorno fa, mi chiedono spesso: «perché gli italiani non si ribellano?». Non voglio riassumere quei post. Solo ricontestualizzare il tema per aggregare i commenti. Per chi si stupisca di questa domanda la spiegazione è semplice. Le cronache dedicate all’Italia di molti notiziari stranieri danno conto del fatto che l’Italia sta mettendo a rischio la stabilità dell’economia globale e la causa, semplificata ma realistica di molti media internazionali, è l’incapacità del suo governo di gestire la crisi. L’urgenza del momento e la difficoltà del sistema politico a rinnovarsi per via normale, essendo piuttosto bloccato da un gruppo di potere incredibilmente arroccato sulle sue poltrone, fa emergere l’opzione a prima vista stupefacente della ribellione. Ma lo stupore è meno vivo se si guarda alla situazione con occhi distaccati. Vista dall’estero, l’Italia è un ottimo produttore di merci di qualità, è una meta turistica di prima importanza, è un luogo della cultura antica e tradizionale, è un paese di mafia e spazzatura, certamente conta poco politicamente. Ma in questo momento è al centro dell’attenzione perché il suo debito pubblico fa venire l’acquolina in bocca agli speculatori e mette a rischio la tenuta dell’euro e della finanza globale. Visto dall’estero il governo è guidato da una persona che pare pensare a tutto salvo che a tenere la rotta dell’economia del paese. I suoi comportamenti scandalosi non appaiono perdonabili in molte democrazie occidentali dove i politici si dimettono per infinitamente meno: ma sarebbero affari degli italiani se non fossero collegati con l’incapacità di guidare il paese fuori dalla crisi. Cambiare capo del governo appare dunque una necessità, è l’opinione prevalente per chi accetta quest’analisi, ma se il parlamento non ci riesce, allora la popolazione deve intervenire. Se gli italiani non fanno nulla, la vergogna per questa situazione non è più solo del capo del governo e diventa anche la vergogna anche dei governati. Certo, i più avvertiti sanno che il sostegno al governo è dovuto anche all’incredibile controllo dei media da parte del capo della forza politica di maggioranza. Questo, però, significa che la democrazia italiana non è compiuta e il sistema si configura come semi-autoritario.

In altri paesi del Mediterraneo a dubbia democrazia, la ribellione popolare è riuscita a cambiare governi autoritari e inefficienti, perché non succede in Italia?

Ovviamente, l’assunzione di partenza, quella secondo la quale l’Italia non è una vera democrazia, appare piuttosto estrema. Molti italiani pensano di essere in una democrazia e sono convinti che la situazione si possa riformare per via elettorale. La chiara vittoria della visione critica nei confronti della politica attuale che si è realizzata nel caso delle elezioni di Milano, Napoli e Cagliari, e soprattutto nel caso dei referendum, avvalora questa tesi. Anche perché è stata una vittoria che ha dimostrato come la televisione non sia in grado di controllare le coscienze fino al punto di impedire l’espressione della volontà popolare: la televisione ha osteggiato in modo palese i referendum, non dandone conto se non in modo sporadico e qualche volta impreciso, in piena coerenza con la campagna favorevole alla diserzione delle urne, mentre l’informazione che si è prodotta in rete appoggiata da molti giornali cartacei tradizionali è riuscita a mobilitare le persone e a convincerle ad andare a votare. La via democratica al rinnovamento, insomma, appare ancora aperta. E, per chi consideri importante quella vicenda, questo significa che la ribellione può attendere. Purtroppo però le conseguenze delle elezioni locali e del referendum sono restate limitate a quei casi. Il governo è restato al suo posto e il blocco decisionale che impedisce di affrontare la crisi attuale resta. Di fronte alla crisi il governo ha prima tentato di negare ancora una volta l’urgenza, poi sulla scorta delle pressioni della Bce ha deciso una manovra, per poi modificarla un’infinità di volte. Attualmente, si è bloccato sulla nomina chiave della guida della Banca d’Italia. In ogni caso, le decisioni sembrano prese in reazione alle pressioni dei mercati e dei partner europei, non c’è strategia di crescita economica, non c’è visione. Il tappo al rinnovamento del paese resta. Con esso resta l’ipotesi della ribellione.

Le spiegazioni storiche della mancata, per ora, ribellione degli italiani. La ribellione, tuttavia, per ora non si vede. Ci sono molti gruppi di protesta, certo, molte aggregazioni critiche nei confronti del governo spesso organizzate online, discussioni infinite sulla casta, la classe politica, l’inadeguatezza dell’opposizione, gli scandali, e quant’altro. Ma certo non c’è niente che si possa chiamare “ribellione” e che abbia la forza di fare l’agenda del paese con qualche possibilità di rinnovare la politica. Nei post precedenti si sono ricordate alcune radici storiche di questa situazione.

Gli anni Settanta sono ancora presenti nella memoria del paese. Il terrorismo di destra e di sinistra non ha mai raggiunto una capacità di attrazione significativa nel paese e ha invece lasciato il ricordo dell’unico risultato di quel genere di azione: la devastazione inutile e insensata della violenza.

Gli episodi successivi, con i casi delle dimostrazioni di alcuni gruppi di no global, le vetrine rotte e gli scontri con la polizia, hanno lasciato altre terribili immagini nella memoria.

Lo stato non ci ha fatto mai una gran figura, ma di certo non l’hanno fatta neppure i violenti. La ribellione distruttiva non è un’opzione che possa raggiungere una qualche forma di consenso significativo in Italia. Per ora. D’altra parte, la società italiana è profondamente divisa. C’è una parte importante della popolazione che viene definita dall’Ocse “funzionalmente analfabeta”: addirittura un terzo degli italiani non sanno comprendere quello che leggono. Il loro accesso all’informazione è completamente legato alla televisione e corretto solo dal passaparola nel loro entourage. Un decimo della popolazione è ipercollegato, legge e si informa con una dieta mediatica ricchissima, non manca di informazioni dall’estero e ha la capacità critica sufficiente a comprendere la gravità della situazione. Ma non è certo una categoria unitaria. I giovani sono quasi tutti connessi ma spesso non hanno modo di coltivare speranze, in moltissimi casi basano la loro sussistenza sull’aiuto dei genitori, potrebbero essere disposti a rischiare se vedessero qualcosa per cui rischiare: una politica di protesta, un’opzione imprenditoriale, una fuga all’estero, sono possibili ma solo per coloro che vedono come realizzarle. In molti casi, la loro storia è legata alla conquista di un brandello di contratto a breve termine, con pochissime chance di sviluppo che verrebbero annullate se il loro comportamento fosse meno che disciplinato. Poi ci sono i leader dell’innovazione, presenti nelle università, nelle imprese, nelle associazioni e fondazioni, persino nelle amministrazioni pubbliche: ma si tratta di persone apparentemente isolate, che portano avanti il loro senso del dovere e la loro passione rinnovatrice in un contesto che certo non li aiuta. Altri sono criminali: evadono le tasse, costruiscono dove è proibito, fanno attività illegali. Altri hanno fede e aspettano. Altri sono connessi e lavorano per costruire network, ma il loro lavoro è ancora ai primi passi: influiscono sull’agenda sporadicamente e non stabilmente.

Una ribellione è spesso l’iniziativa di una minoranza che riesce però a interpretare una domanda di rinnovamento maggioritaria. In passato, una ribellione di successo veniva portata avanti dalle élite sociali e culturali oppure dalle avanguardie rivoluzionarie e le sue probabilità di ottenere risultati erano dovute al contesto di una società compatta, nella quale i modelli sociali e i legami organizzativi erano facilmente leggibili. Ceti sociali ben individuati, aristocrazia, borghesia, proletariato: pochi leader potevano far crescere un cambiamento di valenza generale. Nella società dei media di massa questa condizione si è progressivamente sciolta in una struttura sociale molto meno coesa. I ceti sociali sono in un certo senso spariti, mentre sono cresciute le aggregazioni informali e si sono sviluppati i cosiddetti “target”: gruppi di interessi comuni, aggregazioni omogenee per capacità di spesa, età, localizzazione geografica, hobby, professioni e quant’altro. I media hanno cercato di interpretare la popolazione in termini di target e l’hanno raccontata coerentemente, fino a influire sulla realtà e fare emergere davvero dei gruppi separati di persone. Il disorientamento è stato gestito dalle poche centrali emittenti di senso e informazione. Fino a che ha tenuto, questo sistema è servito ad aumentare i consumi e ridurre le tensioni sociali. Ma era troppo artificiale per tenere a lungo. Non tiene più. Non corrisponde alla realtà e all’esperienza. Anche perché i media di massa stanno rifluendo nel passato. Le persone oggi non si riconoscono in un target, sentono di vivere identità multiple, interessi insieme contrastanti e coerenti, linguaggi e ideologie divisive, senza corrispondenza con le classificazioni tradizionali e con quelle del marketing. Inoltre, la rete consente loro di unirsi in gruppi che possono scegliere di volta in volta, non necessariamente con coerenza, molto spesso però in modo più curioso che strutturato. La società è diventata un insieme di minoranze nessuna delle quali sembra capace di esprimere qualcosa di generale. Ma la stessa rete offre opportunità nuove anche per la riunificazione dei comportamenti. Suggerendo la sperimentazione di soluzioni continuamente nuove. Il cui effetto finale deve ancora essere valutato appieno. Si sta coltivando l’emergere di un nuovo modo di rappresentare la società. Non ne vediamo ancora la forma intera.

Lo spaesamento è evidente. La capacità di leggere le conseguenze delle proprie azioni è scarsissima, almeno per quanto va oltre il quotidiano o poco più. L’ipotesi di rischiare qualcosa per una ribellione non trova il punto di appoggio intellettuale, culturale e politico per dar modo all’azione di svilupparsi. Si direbbe che prima di tutto occorra una ristrutturazione culturale. Un passaggio intellettuale che ricostruisca una visione condivisa. Dalla quale può emergere anche velocemente non una ribellione di breve termine ma una rivoluzione orientata al qualcosa di più lungo termine. E i commenti apparsi dopo i primi due post lo confermano.

I commenti – Le reazioni delle persone che hanno voluto partecipare alla discussione. Cerco di riassumere per punti le posizioni emerse nel corso della discussione sull’opzione della ribellione in Italia.

Non è un fatto solo italiano. L’Italia ha le sue specificità. La ribellione non sarà violenta.

Giuliano, psichiatra e psicoterapeuta: «Splendido articolo dai tantissimi meriti:

– innanzitutto la volontà e la capacità di mettersi nei panni di una straniero, meglio se d’oltreoceano, e di guardare all’Italia senza tabù. Solo così è possibile quell’ipotetico raffronto con il Nord-Africa e con le sue rivoluzioni, raffronto che istintivamente ferisce la nostra vanità di europei.

– la riuscita sintesi di un ventennio di storia politica e sociale – e dunque anche massmediale – senza semplificazioni superficiali e/o forzature ideologiche. Certo manca il riferimento all’opera del principale partito di opposizione ma tale assenza è metafora dell’assenza di incisività della sinistra.

– capacità di differenziare gruppi e complesse dinamiche sociali ma di cogliere dietro le differenze quell’atmosfera diffusa di sfiducia in cui viviamo con la terribile quanto veritiera constatazione “And cynism leads to terror or to helplessness. We had terror in the past. Now we are experiencing helplessness”.

– l’intuizione di una soluzione in un processo culturale di lunga durata in cui esperire insieme il nuovo, ri-raccontarsi (i traumi passati, i presenti timori, le speranze ma anche le paure future) in una sorta di collettiva terapia della parola, “talking cure” di gruppo, in cui lo spazio “terapeutico” di ripstto e dialogo è dato da nuove regole condivise.

– e soprattutto, quello che più ammiro, il coraggio di mostrare anzichè reprimere una personale contagiosa passione umana e civile senza la quale nessuno sviluppo, nessun rinnovamento culturale è possibile.

Grazie di cuore»

Carlo Nardone, tecnologo: «Grande! Mi ricorda una considerazione di Umberto Eco riguardo alle domande che gli rivolgono i suoi amici stranieri sull’Italia. Secondo me la chiave del “conundrum” e’ come smuovere quel 55% medio non completamente illiterato e non ultraconnesso. Attenzione a un paio di “were” che dovrebbero essere “where” e ancora complimenti per aver tratteggiato una perfetta storia dell’Italia recente per chi, nonostante tutto, ci vuole bene all’estero.»

Da Beirut a Hong Kong, quando la Rivoluzione è un ballo in maschera. Daniele Zaccaria il 10 Novembre 2019 su Il Dubbio. Guy Fawkes, Dalì, il Joker. Quando i simboli della rivolta fanno il gioco del “nemico”. I diritti di immagine del mascherone di “V per vendetta” appartengono ad esempio alla Time Warner. Altro che anti sistema. «Io sono Spartaco», gridavano gli schiavi rivoltosi del film di Stanley Kubrik, disposti a subire il supplizio della crocifissione piuttosto che consegnare il loro leader ai centurioni romani. Se avessero avuto la sua maschera l’avrebbero indossata con fierezza in battaglia, tutti per uno e uno per tutti. Perché non conta chi sei, ma l’idea per cui vivi e combatti, la stessa dei tuoi compagni. Spartaco è un nome collettivo, ne uccidi uno e ne spuntano subito altri cento, ancora più ostinati e pugnaci. La maschera invisibile di un’identità condivisa però, non un travestimento illusorio e figlio della società dei consumi come il faccione del Joker che da alcuni mesi occhieggia insistente nelle piazze di mezzo mondo, da Hong Kong a Beirut, da Barcellona a New York, da Santiago a Madrid. Le grottesche fattezze del personaggio immortalato dal regista Todd Phillips sono il simbolo della rivolta contemporanea, sguaiata e senza quartiere, trasversale ai continenti e alle culture politiche, una inedita forma di protagonismo dei popoli mobilitati contro “i ricchi”, “i poteri forti” e la società della sorveglianza. Ma, allo stesso tempo, queste schiere di dimostranti senza volto evocano il proprio rovescio, il conformismo delle masse che si nascondono dietro un simulacro dell’industria hollywoodiana; il confine tra apocalittici e integrati in questo caso è molto labile. Ci vuole poco nel passare da eroe della rivoluzione a pupazzo dell’intrattenimento globale, da attore a pedina, da cittadino a cliente; uno slogan, una canzone di lotta in un secondo diventano un petaloso jingle pubblicitario. Come ad esempio la Bella Ciao cantata a squarciagola dai protagonisti de La Casa di Carta, la celebre serie tv prodotta da Netflix che racconta le gesta di un gruppo di rapinatori- idealisti che svuotano la Zecca di Stato spagnola. Non a caso anche loro indossano una maschera, quella del pittore surrealista Salvador Dalì anche se non si tratta du una scelta estetica o aleatoria. Tutto parte dall’anagramma dell’artista scherzosamente ideato da André Breton: “Avida Dollars”, nomignolo che rappresenta la sete di denaro e ricchezza, la stessa che i rapinatori della Casa di carta attribuiscono al governo con il plauso globale del “popolo” accorso in piazza per sostenerli. L’astuzia degli sceneggiatori di Netflix sta nell’aver capito come il tratto grossolano e complottista di un plot cinematografico rappresenti uno schema facilitato della realtà per migliaia di persone frustrate dall’impoverimento, arrabbiate per la mancanza di diritti e per le disuguaglianze economiche. Uno schema manicheo in cui il “sistema” è una specie di “Spectre” planetaria dai contorni fumettistici. D’altra parte erano già diversi anni che i mascheroni di Guy Fawkes imperversavano nelle proteste di piazza. L’eroe del fumetto di Alan Moore nel 2005 diventa il protagonista della fortunata pellicola V per Vendetta, quei baffi sottili, quel sorriso beffardo che nel film sfidano il regime fascistoide ormai giunto al potere in Gran Bretagna, iniziano a spuntare nelle manifestazioni, uno, cento, mille, diecimila maschere. Il cattolico Guy Fawkes era un membro della Congiura delle polveri che nel 1604 aveva preparato un piano per incendiare il palazzo di Wenstminster e assassinare il Re Giacomo I. Trovato in possesso di trenta barili di polvere da sparo Fawkes e gli altri congiurati vengono impiccati. Nel 2008 l’effige di Guy Fawkes viene scelta dal gruppo di hacker Anonymous che si fa conoscere per gli attacchi informatici contro soggetti molto diversi tra loro ma accomunati dall’appartenenza al “sistema”, dalla chiesa di Scientology, alle grandi multinazionali, dalle piazze finanziarie ai governi, dal Ku kluks klan ai jihadisti dell’Isis. L’anno successivo, quando esplode la bolla dei mutui subrprime e si innesca la recessione globale, la maschera appare tra i militanti del movimento statunitense Occupy Wall Street, poi si diffonde oltreoceano tra gli Indignados spagnoli. Dal 2015 è stata indetta la Million Mask march, una manifestazione globale che, ogni 5 novembre, si svolge in centinaia di città ricordando proprio l’impiccagione di Fawkes.

Su un punto i dimostranti che mostrano impavidi i lineamenti stilizzati del congiurato cattolico hanno totalmente ragione: il sistema che combattono o credono di combattere è capace di trasformare in profitto tutto ciò che tocca. Anche la loro stessa rivolta. Così, paradosso dei paradossi, ogni volta che indossano quelle maschere gridando generiche invettive contro il capitale e la grande finanza, non fanno che arricchire i loro bersagli. I diritti di immagine appartengono infatti alla Time Warner, multinazionale dell’industria mediatica e del divertimento e, ogni volta che acquistano una maschera, finiscono per finanziare i suoi azionisti. Il che non è propriamente un gesto rivoluzionario. Più che La Casa di carta sembra di essere su un episodio di Black Mirror. No, Guy Fawkes, Dalì e il Joker decisamente non sono Spartaco.

Un mondo sul punto di esplodere. Lorenzo Vita suit.insideover.com il 21 ottobre 2019. Una settimana di fuoco. Non c’è altro mondo per definire quanto accaduto in questi giorni in ogni angolo del mondo, dove sembra che le crisi abbiano deciso di esplodere nella loro massima violenza proprio tutte insieme, come in un’unica quanto inquietante strategia. Nessuna area del mondo si può dire immune da questi sommovimenti. E adesso tante crisi sembrano divampare anche nei luoghi che si consideravano blindati, nei templi della democrazia come nei Paesi più stabili, fino anche nei regimi o nei governi più autoritari. Un’unica grande crisi di carattere internazionale in cui è difficile districarsi ma in cui è comune il denominatore: la popolazione è in rivolta e i governi si stanno lentamente indebolendo. Una miscela esplosiva da cui dipana un’instabilità che ormai sembra imperante. Le immagini di questi giorni parlano chiaro. Il Cile vive una delle sue crisi politiche e sociali più profonde, mentre la capitale, Santiago, ha visto tornare i blindati per le strade come non accadeva dalla fine dell’era di Augusto Pinochet. Sono passati decenni dall’ultima volta in cui i carri armati e l’esercito presidiavano la città: eppure oggi sembra essere piombati di nuovo nel passato. E non è stato certo un aumento del biglietto dei mezzi pubblici a poter scatenare la rabbia di un intero popolo. Rabbia che ha caratterizzato anche pochi giorni prima l’Ecuador, dove le rivolte hanno costretto il governo a fermare un nuovo aumento delle tasse. Un Sud America in ebollizione, in cui oltre al Cile e all’Ecuador si devono contare l’Argentina, sull’orlo del collasso economico e un Venezuela che vive sull’orlo del precipizio e che solo l’alleanza di Nicolas Maduro con alcune potenze internazionali ha evitato che crollasse sotto i colpi della guerra civile. Venti di protesta, fiamme di rivolte (o di rivoluzioni) che anno solcato anche il Pacifico e che da mesi caratterizzano le giornate di un altra città che sta rappresentando la più grave sfida del governo cinese nel momento in cui Xi Jinping ha voluto aprirsi al mondo: Hong Kong. La protesta non si placa. E il governo di Pechino, non propriamente abituato al guanto di velluto, sa di dover tirare il freno a mano. Non è una semplice protesta: è qualcosa di radicato, di violento e anche di molto pericoloso. Lo Stato centrale sa di non poter far calare la mannaia sulla protesta, perché tutto il mondo ha gli occhi puntati sull’ex colonia britannica. E nel frattempo, la città si trasforma nel tempio della rivolta contro il governo di Xi. Una crisi che può infiammare la Cina e che soprattutto può scatenare un effetto domino che il Partito comunista teme sotto il profilo interno e internazionale. A tal punto che, per adesso, preferisce non agire: o teme di farlo. Nel frattempo, l’Asia è una polveriera. Non c’è un Paese, dall’Estremo al Vicino Oriente, che non sia solcato da crisi violente e da minacce alla stabilità. Non lo è l’Asia centrale, dove la guerra in Afghanistan continua a mietere decine di vittime ogni giorno e dove di recente anche Paesi come il Kirghizistan hanno vissuto settimane di rivolte e tensioni che hanno contraddistinto un’estate particolarmente bollente, con allo sfondo la mai sopita crisi del Kashmir. E spostandoci verso Ovest, non potendo evidentemente sfuggire a quanto accaduto nel Golfo Persico e a quanto sta accadendo quotidianamente in Siria e Yemen, non si possono dimenticare le rivolte che hanno colpito l’Iraq, la gravissime (e taciuta) crisi che vive la Giordania, con una povertà sempre più dilagante e con milioni di rifugiati siriani che aspettano il ritorno in patria. Così come non si può dimenticare la grave debolezza politica in cui è sprofondato Israele con due elezioni finite in pareggio e una leadership indebolita. E in questi giorni, alla guerra e alla debolezza politica si è unito anche il fattore Libano, un Paese crocevia di interessi internazionali che adesso si è scoperto di nuovo in grado di esplodere. Anche qui, come in Cile, è inutile credere che sia stata una piccola sovrattassa a portare migliaia di persone in piazza e i blindati a presidiare le strade di Beirut e di Tripoli. C’è qualcosa di più profondo, un malessere diffuso al pari di una crisi politica dai contorni oscuri e in cui si incrociano interessi nazionali e internazionali, etnici e confessionali. Una polveriera a due passi dall’Europa e incastonata nel già incendiato Medio Oriente e che ci ricorda che nessuno è immune dalla crisi. Nessuno in Asia, nessuno in Europa. Perché quanto sta accadendo nel nostro continente non è certo da sottovalutare né da considerare “normale” Perché mai come in questi anni (e negli ultimi mesi) l’Europa ha subito un tracollo delle sue strutture politiche, della loro credibilità e della capacità delle autorità di raccogliere il malessere diffuso provando a frenare la violenza. Un sentimento strisciante che ribolle in ogni angolo del Vecchio continente. Esplodo con violenza in Catalogna, dove i gruppi indipendentisti più radicali hanno messo a ferro fuoco Barcellona devastando il centro della città e riportando la Spagna indietro nel tempo, e non solo ai giorni del referendum secessionista. Una violenza feroce cui si unisce una debolezza ormai endemica del Paese iberico ,incapace di uscire da ogni crisi: da quella politica nazionale a quella delle regioni separatiste. E questo vento di instabilità e di incapacità di uscire dalla risi è lo stesso che anima il Regno Unito, mai così debole e fermo come in questi mesi di negoziato e di voti sulla Brexit e che si è dimostrato ferito e spaccato come mai lo era stato nella sua storia, mentre i movimenti separatisti provano di nuovo ad alzare le pretese e il governo a cercare disperatamente una quadra prima che sia la piazza a imporre il cambio di passo. Quella stessa piazza che si è visto in Francia nella protesta dei gilet gialli e che è pronta a muoversi anche nei Balcani o in Europa orientale. Difficile, se non impossibile, pensare a una trama unica. Ma di sicuro c’è un filo rosso. La globalizzazione facilita la creazione di modelli unici per il mondo con proteste che si somigliano per simbologie e per idee di fondo. Certo. Ma ciò che le unisce è molto più profondo. C’è un senso di insofferenza diffuso in ogni Paese, così come c’è il senso di frustrazione verso la perdita di certezze di un intero sistema internazionale in sembra più facile che regni il caos piuttosto che la stabilità. Una camera magmatica che ribolle e che deve far riflettere su ciò che può attendere il mondo negli Anni Venti del Duemila. Un mondo che si sta indebolendo e in cui regna solo una certezza: il disordine.

PAESE CHE VAI, GUERRIGLIA CHE TROVI. (ANSA il 20 ottobre 2019) - Tre persone hanno perso la vita nel corso dei disordini in Cile. Lo rende noto la locale Radio Bio Bio. Le morti sono avvenute in un incendio scoppiato in un supermercato saccheggiato nel comune di San Bernardo. I vigili del fuoco hanno trovato due corpi carbonizzati mentre un terzo è morto in ospedale. In diverse città del paese, supermercati e negozi sono stati saccheggiati, in un clima di caos per le manifestazioni iniziate a Santiago a causa dell'aumento dei prezzi del trasporto pubblico.

(ANSA il 20 ottobre 2019) - Il presidente del Cile Sebastian Pinera ha annunciato la sospensione dell'aumento del prezzo dei biglietti della metropolitana, ultimo di una serie di rincari che aveva fatto esplodere il malcontento popolare in proteste di piazza e violenze. "Ho ascoltato con umiltà la voce della gente - ha detto Pinera - e non avrò paura di continuare a farlo, perchè così si costruiscono le democrazie. Ho deciso di sospendere l'aumento del metro, ciò che richiederà la rapida approvazione di una legge, finchè concorderemo un sistema per proteggere meglio i nostri compatrioti".

(ANSA il 20 ottobre 2019) - Il generale Javier Iturriaga del Campo, incaricato della sicurezza a Santiago del Cile durante lo stato di emergenza dichiarato dopo le violenze dei giorni scorsi, ha detto che nella capitale cilena e nei dintorni sarà in vigore un coprifuoco dalle 22 alle 7 del mattino. Lo riferisce la Bbc. L'esercito aiuterà la polizia a pattugliare le strade durante l'emergenza dichiarata per 15 giorni, durante i quali le autorità potranno limitare la libertà di movimento e di riunione.

Paolo Manzo per “il Giornale” il 20 ottobre 2019. Dopo l' Ecuador ad infiammarsi in Sudamerica è il Cile tanto che il presidente Sebastián Piñera è stato costretto venerdì sera a dichiarare lo stato di emergenza. Sotto assedio è finita Santiago presa d' assalto da una serie di atti di vandalismo senza precedenti. Il casus belli è stato l' aumento del biglietto del metrò del 4% (non però per gli studenti, né per i pensionati). Tanto è bastato per scatenare il finimondo nella capitale da parte di qualche centinaio di vandali, quasi tutti studenti sotto i 18 anni. Demolite decine di stazioni della metro, negozi e banche saccheggiate, autobus dati alle fiamme. Oltre trecento gli arresti e 6mila i carabinieri chiamati a proteggere Santiago dal resto del Paese. Bruciato da sconosciuti il palazzo dell' Enel, in pieno centro città, in uno scenario che ricordava il film L' Inferno di cristallo. Tanta la paura, 156 i carabinieri feriti (contro 11 manifestanti) ma per fortuna nessun morto. Piñera ha annunciato lo stato di emergenza nella capitale poco dopo la mezzanotte e in un discorso alla nazione trasmesso dalla Moneda ha spiegato che la scelta è «tra la democrazia e la criminalità» e che lo stato di emergenza garantisce «la sicurezza dei residenti, la protezione di proprietà e merci e i diritti di ciascuno dei cileni che hanno sopportato difficoltà per colpa delle azioni dei vandali». Il presidente vuole che gli incappucciati responsabili del caos siano condannati dalla giustizia in modo esemplare. «Una cosa è protestare, altra sono gli atti criminali cui abbiamo assistito» ha dichiarato. 41 le stazioni della metro danneggiate con danni milionari. Oggi si ferma il campionato di calcio mentre ieri l' intera rete della metro usata ogni giorno da 3 milioni di utenti (per la cronaca quella di Santiago è la più moderna del Sudamerica, con 140 Km di estensione e 136 stazioni) è stata chiusa per verificare «i gravi danni» mentre in strada è stato dispiegato l' esercito. Il Frente Amplio dell' opposizione di sinistra ha tacciato Piñera di «antidemocratico», idem i comunisti e ciò non fa che rafforzare il sospetto che in Cile gli scontri siano stati un pretesto per creare instabilità sociale, come denunciato da più voci, persino da ex esiliati della dittatura come l' ex ministro della Cultura Mauricio Rojas, secondo il quale «la barbarie di Santiago non è stata il risultato di un' esplosione sociale, la popolazione non è scesa in piazza, ma solo una minoranza radicalizzata e violenta» contro un governo che è cresciuto economicamente in questi anni più di tutti gli altri paesi dell' America Latina. Al grido di «evadere, non pagare, un'altra forma di lottare» i «millennials» che usano i social per organizzare il caos e che da una settimana si rifiutano di pagare il biglietto saltando i tornelli hanno attaccato duramente i Carabineros (che le hanno prese di santa ragione) soprattutto nella stazione del metrò Los Héroes e nelle vie intorno a Plaza Italia, luogo simbolo delle proteste sociali in Cile fin dai tempi di Pinochet.

Francesco Olivo per “la Stampa” il 20 ottobre 2019. Qualcuno si sta pure abituando, c' è una Barcellona di giorno e una di notte. Con la luce del sole si protesta, folle enormi, slogan duri contro le condanne ai leader indipendentisti, ma tutto scorre sempre pacificamente. Poi, al calar del sole, lo scenario cambia: dalla protesta si passa alla guerriglia. Spuntano giovani incappucciati che affrontano la polizia e alzano barricate con centinaia di incendi. La Barcellona di giorno non fa paura, quella di notte è diventata invivibile e non solo per gli abitanti. Ieri si temeva per una manifestazione convocata dall' ala più radicale dell' indipendentismo, i giovani della Cup, con partenza dalla piazza Urquinaona, a poche centinaia di metri dall' inizio della Rambla. Il Comune, diretto dalla sindaca Ada Colau (con un solido curriculum nei movimenti sociali), ha invitato i negozianti a non aprire le saracinesche. La polizia si è schierata per tutto il centro di Barcellona e, rispetto ad altre volte, si è evitato il peggio, anche grazie ai manifestanti pacifici che hanno creato un cordone tra i gli incappucciati e gli agenti. Ma i Mossos d'Esquadra, la polizia dell' autonomia catalana, credono che lo schema giorno/notte sia destinato a ripetersi anche nella prossima settimana. Il bilancio di sei giorni di proteste parla di 576 feriti. In Spagna tutti si chiedono, chi siano questi ragazzi che con il volto coperto mettono a ferro e fuoco la città? La polizia catalana si è fatta un' idea: «A guidare la rivolta sono 500 esponenti dell' ambiente anarchico - ha spiegato il comandante dei Mossos, Pere Ferrer alla radio Rac1 - è gente molto organizzata». A colpire gli esperti di ordine pubblico è la meticolosa organizzazione di queste azioni notturne, che non si limitano a Barcellona, ma creano un caos (non improvvisato) anche nelle altre città catalane, Girona, Lleida, Sabadell e Tarragona. Chi conosce bene il mondo indipendentista, anche quello sganciato dai partiti e dalle organizzazioni della società civile, invita a non confondere le azioni di sabotaggio di questi giorni, come l' occupazione dell' aeroporto di Barcellona, con le scene di guerriglia. A far alzare la tensione sono anche le denunce degli abusi da parte della polizia (quella catalana e quella spagnola). Sui social girano decine di filmati con scene di violenze brutali contro manifestanti (almeno apparentemente) pacifici. Nella notte di venerdì la Polizia nazionale ha arrestato, con maniere spicce, un fotografo del quotidiano El Pais. Amnesty International ha chiesto alle autorità spagnole di vigilare su questi episodi. La politica non aiuta a risolvere i guai. Il governo catalano è ormai in crisi, sempre più diviso al suo interno (tra le diverse anime dell' indipendentismo) e guidato da un presidente, Quim Torra, che i suoi stessi uomini descrivono come un attivista a digiuno di politica. Torra è stato protagonista ieri di uno scontro con il premier spagnolo Pedro Sanchez, il quale ha risposto negativamente alla richiesta di un incontro urgente, negandosi persino al telefono: «Prima deve condannare con nettezza la violenza e mostrare vicinanza agli agenti feriti» ha spiegato il governo di Madrid. Parole che hanno fatto adirare Torra: «Sanchez non vuole parlare con il rappresentante dei catalani. La comunità internazionale non capirà mai un atteggiamento di tale irresponsabilità». Parole durissime, che vanno lette anche in ottica elettorale. Fra tre settimane esatte si vota, sarà difficile che all' appuntamento si arrivi con serenità.

ChCl. per “il Giornale” il 19 ottobre 2019. «È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso». La tassa sulle chiamate con WhatsApp, 0,20 dollari la giorno, ha innescato la rivolta libanese, come conferma Nivine, insegnante di arabo in una scuola privata nel quartiere più trendy di Beirut, Gemmayze. Ieri è stato il secondo giorno di proteste nella capitale un tempo considerata «la Svizzera del Medio Oriente». Il governo guidato dal premier Saad Hariri ha poi fatto marcia indietro ma la rabbia popolare non era più contenibile. Migliaia di persone sono scese per le strade di Downtown e del souk, costellato di brand di lusso, da Armani a Versace a Dior. Ci sono stati duri scontri con le forze di sicurezza. I manifestanti hanno chiesto al governo di dimettersi, bruciato pneumatici e la polizia ha sparato gas lacrimogeni. Hariri è intervenuto in serata, ha parlato alla nazione e dato «72 ore ai politici per trovare una soluzione alla crisi» altrimenti «mi dimetterò». Sono state le più grandi proteste viste in Libano negli ultimi anni. Le persone riunite nella piazza Riad al-Sohl cantavano: «Vogliamo rovesciare il regime», oppure «Non siamo qui solo per WhatsApp, siamo qui per carburante, cibo, pane, per tutto». Migliaia di persone hanno marciato anche vicino al quartier generale del governo il Serail. Sui marciapiedi vetri di negozi sfondati, pneumatici dati al fuoco. Due lavoratori siriani sono anche morti per soffocamento a causa di un incendio. I manifestanti hanno bloccato tutte le strade a nord, a sud, nella valle della Bekaa, ed è stato impossibile raggiungere l' aeroporto. Le scuole sono rimaste chiuse. E il quotidiano libanese An-Nahar ha descritto l' accaduto come «un' intifada fiscale». «Grazie a Dio, le persone si sono svegliate», ha affermato invece Ali. «Queste sono le prime manifestazioni in cui scendiamo a dimostrare non sotto una bandiera politica, ma come libanesi», ha sottolineato. Il Libano è stato dilaniato da una guerra civile di 15 anni, ha uno dei maggiori debiti pubblici del mondo e la disoccupazione tra i minori di 35 anni è del 37 percento. Molti protagonisti della classe politica hanno utilizzato le risorse del paese per proprio vantaggio personale. In un sistema settario in cui ci si spartisce tutto. Non bastasse, Hariri è assediato dagli scandali. Ha regalato 16 milioni di dollari alla modella-amante sudafricana Candice van der Merwe. E la tv Mbc lo ha accusato di avere un conto segreto di 1,6 miliardi di dollari. Ma non finisce qui. La crisi è innescata anche da altro. Il Libano vive delle rimesse degli espatriati nel Golfo. Ma la crisi di Dubai le ha fatte crollare. E come se non bastasse gli incendi che hanno devastato le foreste dello Chouf in questi giorni sono state considerate dai libanesi come l' ennesimo fallimento della classe dirigente.

Fabio Polese per “il Giornale” il 15 ottobre 2019. Fare il giornalista è una cosa seria. Almeno così dovrebbe essere. Purtroppo, però, nell’era dove tutto è immediato, dove non c'è spazio per troppe analisi e verifiche, anche l'informazione è diventata un fast food. Soprattutto quella sul web. Nel mondo digitale, infatti, l'importante è riempire, non importa con cosa. E così è successo anche qualche giorno fa, quando il cantante Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, che è ad Hong Kong perché ha in programma una regata insieme a Giovanni Soldini, si è trovato per caso in mezzo alle proteste che da mesi stanno infuocando la regione. In un video, che l’artista ha postato sui social network, si vedono le immagini del numeroso corteo di persone in marcia che scandiscono slogan. Poi, ad un certo punto, si avvicina al primo giovane che gli sta vicino, fermo sul ciglio della strada, gli dice che è italiano e gli chiede se può spiegare in lingua inglese, per una non ben definita «stampa italiana», cosa stanno urlando i manifestanti. Il ragazzo, dopo aver salutato l’Italia guardando nell’obiettivo del cellulare di Jovanotti, dice che stanno reclamando il suffragio universale, ovvero il principio secondo il quale tutti i cittadini di età superiore ad una certa soglia – in genere maggiorenni – senza restrizioni di alcun tipo, possano partecipare alle elezioni e a tutte le altre consultazioni pubbliche. Il giovane continua spiegando che il loro intento è quello di poter votare direttamente il «chief executive», che non è altro che il governatore di Hong Kong, in pratica il numero uno. Il cantante italiano, che molto probabilmente non conosce il termine, complice anche il chiasso tutto attorno, traduce – erroneamente – che i manifestanti chiedono di poter votare gli organismi esecutivi. Lo ripete anche al giovane, prima in italiano, poi in inglese. Il ragazzo fa cenno di sì, forse perché per lui è ovvio che, una persona che si è presentata come «stampa italiana» e che è arrivata dall’altra parte del mondo conosca bene l’argomento. Ma non sembra essere così. Subito dopo il giovane di Hong Kong spiega che i manifestanti vogliono anche una «independent investigation», ovvero un’investigazione indipendente sull’operato violento della polizia durante questi mesi di protesta. Anche in questo caso Jovanotti traduce in modo completamente sbagliato, dicendo che «chiedono l’indipendenza della magistratura». Poteva finire così. Ma invece no. Lorenzo Cherubini, reporter per caso, chiede poi conferma del fatto che i manifestanti vogliono anche l'abolizione della proposta di legge sull'estradizione in Cina. Una domanda fuori luogo, che denota una non conoscenza dei fatti. La norma, infatti, è stata abolita settimane fa dalla governatrice Carrie Lam. Ed è stata l'unica richiesta fatta dai dimostranti che è stata accettata dal governo di Hong Kong. La proposta di legge sull'estradizione è stata la causa e la scintilla dell'inizio delle proteste che dal giugno scorso stanno scuotendo l'ex colonia britannica e che non sembrano destinate a finire. In tutta questa storia, ovviamente escludendo che Jovanotti abbia agito in cattiva fede, ma semplicemente d'impulso, essendosi trovato in una situazione nuova e molto diversa dalla routine quotidiana, la cosa che lascia perplessi è un'altra. E cioè il fatto che Sky Tg24, come mi ha segnalato una collega, abbia pubblicato sul proprio sito il video dell'artista, corredandolo con un articolo che riportava le parole del cantante, senza neanche aver verificato se la traduzione fosse stata corretta oppure no.

Hong Kong: il silenzio dei colpevoli. Il prof. Parsi spiega perché i grandi della terra tacciono sulle violazioni dei diritti umani ad Hong Kong. Solo Trump sta per muoversi. Ma sarà un gesto simbolico. Elisabetta Burba il 22 novembre 2019 su Panorama. «Purtroppo il mondo è sempre più governato dagli affari e nessuno vuole irritare Pechino». È una analisi amara quella che fa Vittorio Emanuele Parsi sull'indifferenza con cui i grandi della terra guardano alle proteste anti-governative di Hong Kong. L'ordinario di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano, autore di un caustico saggio sul «naufragio dell'ordine liberale» (Titanic, Il Mulino, 2018), esamina con Panorama le reazioni internazionali alle manifestazioni per i diritti civili che infiammano l'ex colonia inglese da sei mesi a questa parte. Ovvero, il naufragio dell'ordine internazionale.

Donald Trump intende firmare la legge appena approvata dal Congresso che prevede sanzioni contro le violazioni dei diritti umani a Hong Kong. Servirà a qualcosa?

«Intanto stiamo a vedere se il presidente statunitense effettivamente firmerà questa legge. Ad ogni modo, è difficile che una legge statunitense possa avere una reale influenza sulla politica interna cinese. Perché Hong Kong, ormai, fa formalmente parte della Cina».

Quindi un gesto di carattere simbolico?

«Sì, anche se farà arrabbiare i cinesi».

Ma perché Trump attacca Pechino? Ha davvero a cuore Hong Kong?

«Che The Donald abbia a cuore le sorti di Hong Kong non lo credo proprio. Diciamo che in tal modo dà un calcio a Pechino, facendo entusiasmare la sua base elettorale: anti-cinese e anti-comunista. Di pari passo, mette a segno un punto nella sua guerra commerciale contro il presidente Xi Jinping».

Una mossa strategica, dunque. Ma porterà utili a Washington?

«Forse sì, forse no. Intanto, però, Trump ha marcato il campo. Si tratta di un atto muscolare in sintonia con il personaggio...»

Eppure nei mesi scorsi lo stesso Trump aveva dimostrato grande ambiguità verso Hong Kong.

«Non c'è da stupirsi. Laddove non ha un pregiudizio, ci mette un po' a inquadrare i fatti. Diciamo che il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d'America mostra un certo dilettantismo in politica estera. Lo abbiamo già visto all'opera nei confronti della Corea del Nord, con tutti i suoi passi avanti e passi indietro. Non stupisce quindi che si sia comportato così anche con Hong Kong».

Eppure se Trump su Hong Kong è stato ambiguo, gli altri grandi della terra sono stati del tutto indifferenti. Siamo al solito «business as usual»?

«Direi di sì. Purtroppo il mondo è sempre di più governato dal denaro e dagli affari. Nessuno vuole far irritare la Cina».

Ma perché allora Pechino ha finora evitato un intervento militare diretto? Forse perché gran parte della popolazione continua a sostenere il movimento di protesta?

«L'unica cosa che sta trattenendo Xi Jinping dall'entrare direttamente a Hong Kong è il fatto che ha una capacità d'azione indiretta attraverso la governatrice Carrie Lam. Peraltro un intervento militare diretto creerebbe un grosso danno d'immagine a Pechino, che da 30 anni cerca di costruirsi un'immagine di soft power. La sua capacità di ingerenza legata a un'immagine benigna è massimamente cruciale per Pechino in epoca di Belt and Row Initiative (la Nuova via della Seta, che si propone di migliorare i collegamenti commerciali di Pechino con i Paesi dell'Eurasia, ndr)».

Però Xi Jinping ha anche problemi di politica interna...

«Vero, nella Cina continentale sono presenti tensioni soprattutto nella regione vicino a Hong Kong, i cui abitanti hanno spesso legami familiari molto stretti con i residenti dell'ex colonia britannica. Pechino deve stare all'occhio perché non può permettersi di far esplodere le tensioni interne. Una Tienanmen oggi avrebbe un costo (economico, politico e geopolitico) estremamente più alto di quello pagato 30 anni fa. Perché per i Paesi occidentali un conto è subire l'influenza di un Paese, pur autoritario, ma rispettoso dei limiti. Un altro è fare i conti con un Paese autoritario che i limiti li travalica, passando il segno».

A proposito di Paesi autoritari, perché la Russia è così noncurante verso Hong Kong?

«Perché a Vladimir Putin non interessano minimamente la democrazia e i diritti civili, perché è contrario all'interferenza esterna e perché è allineato a Pechino».

E l'Europa? Perché tace anche Bruxelles?

«Perché l'Ue non è una potenza politica. È stata assente in Cile, in Bolivia, in Libano, in Irak... Dove ci sono state proteste di piazza non si è mai mossa. A maggior ragione non interviene contro la Cina, con cui ha affari grossi in comune».

Un fallimento clamoroso.

«Senza alcun dubbio».

Tornando a Hong Kong, che effetto avranno le elezioni dei consigli elettorali il 24 novembre?

«Nessuno, perché i candidati sono accuratamente scelti da Pechino. Potrebbe verificarsi un aumento delle proteste, magari calerà l'affluenza ai seggi, ma la sostanza delle cose non cambierà».

Anche in questo caso, «business as usual»?

«Ahinoi sì».  

Federico Rampini per “la Repubblica” il 13 novembre 2019. L'ex presidente della Bolivia, Evo Morales, aveva imboccato una deriva autoritaria. La sua dimissione con successivo esilio in Messico è una buona notizia per il popolo boliviano, che ha contribuito a fermarne il golpe strisciante. Resta il fatto che una spallata decisiva gliel' hanno data i militari. Dobbiamo rallegrarcene ugualmente? Prevale nel giudizio politico su questo evento l' insurrezione dei cittadini, o il ruolo delle forze armate? L' ambiguità è tipica della nostra epoca. Sul New York Times un commento di Max Fisher tradisce nostalgia per i tempi della guerra fredda, quando tutto era più chiaro, chi erano i buoni e i cattivi, chi faceva le rivoluzioni di popolo e chi sosteneva i golpe fascisti. Ma il caso della Bolivia complica tutto, gli uomini in divisa non hanno preso il potere, che resta in mano ai civili, i quali promettono nuove elezioni. Morales se n' è andato incolume in Messico, non è finito davanti a un plotone di esecuzione. E tuttavia la transizione politica della Bolivia è traumatica, non rispetta compiutamente né i canoni della liberaldemocrazia né quelli del popolo sovrano. Leggende a parte, la realtà non fu mai nitida e chiara, neppure ai tempi della guerra fredda quando accadde che i comunisti appoggiassero degli interventi armati contro le insurrezioni di popolo (Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968, invasione sovietica dell' Afghanistan 1979). Eppure la nostalgia di quei tempi è diffusa, l' abbiamo vista all' opera qualche settimana fa in Cile, quando la vista delle divise in piazza (agli ordini di un legittimo governo civile) ha fatto scattare analogie improprie con i massacri del golpista Pinochet. A scompaginare i pregiudizi politically correct arriva anche, dal Brasile di Bolsonaro, la decisione del tribunale di liberare il socialista Lula in carcere per corruzione. La sinistra brasiliana è favorevole, il gesto di conciliazione appare opportuno e perfino astuto, ma lo Stato di diritto non ne esce esaltato (come sempre quando il perdono si applica ai potenti). Il tema drammatico che accomuna tante crisi in America latina non è dissimile dalla crisi che attraversa le liberaldemocrazie dell' Occidente. Il sistema politico fondato sul pluripartitismo e sul suffragio universale, perde consensi quando non è più capace di dare risultati. I populismi sono la conseguenza di una crisi provocata dalle vecchie élite, anche se a loro volta deludono nei risultati di governo (lo vedremo presto in Argentina dopo il ritorno dei peronisti al potere). Avanza un modello alternativo, quello cinese, che esibisce efficienza e risultati, crescita e modernizzazione, ordine e sicurezza, a cui unisce un potente messaggio nazionalista e mono-etnico. La risposta a quel modello non può venire solo su principi e procedure. Il fascino dei militari in alcuni Paesi deriva anche dal fatto che sono un' oasi meritocratica in mezzo a un marasma d' incompetenza.

Paolo Manzo per “il Giornale” il 16 novembre 2019. Mentre Evo Morales è in Messico ospitato dal presidente López Obrador (Amlo), il nuovo governo della Bolivia - insediatosi come da Costituzione e che deve indire nuove elezioni entro gennaio - mostra al mondo il lusso «da sceicco» in cui viveva il sindacalista cocalero. Una risposta alla foto divulgata l'altroieri dai produttori di coca di cui Morales è il leader, con Evo a dormire per terra sotto una umile tenda nel suo feudo del Chapare, dove il 94% delle foglie di coca prodotte (fonte Dea, agenzia anti-droga Usa) si trasformano in cocaina per i mercati statunitensi ed europei. La suite imperiale di Morales è stata presentata alla stampa dal neo ministro dell' Informazione, Roxana Lizárraga, e occupa due piani, il 23esimo e 24esimo della Casa Grande del Popolo, uno degli edifici simbolo dello sfarzo senza limiti di Evo. 120 metri d' altezza (il più alto di La Paz) tutta in vetro, con piste di atterraggio per elicotteri sul tetto e pareti decorate da immagini della tradizione indigena e da murales che raffigurano operai al lavoro. Peccato solo che dall' agosto 2018, quando la «Casa del Popolo» fu inaugurata, il popolo (quello che guadagna una miseria in Bolivia, il 40% vive in povertà) non potesse entrare nella suite su due piani di Morales, oltre mille metri quadrati a piano. Anzi, il popolo non ne conosceva neanche l' esistenza visto che a svelarla è stata proprio ieri Roxana Lizáraga, in anteprima mondiale. «Sembra l' abitazione di uno sceicco arabo - ha detto il ministro, aggiungendo - lo spreco di denaro che è stato fatto per la costruzione di questo palazzo è davvero un insulto per tutti i boliviani». Quasi 40 milioni di euro, infatti, il costo per consentire al socialista Morales di «riposare meglio», con all' interno una fornitissima e costosissima collezione di alcolici. Il governo della presidente ad interim Jeanine Áñez - che ieri ha risposto ad Evo che vuole tornare per «pacificare» che «non ci sono problemi, può farlo» - ha annunciato che presenterà una denuncia per furto visto che prima di fuggire in Messico via Chapare gli uomini della sua sicurezza hanno portato via oltre a documentazione top secret tutte le decorazioni e le suppellettili, molte dei quali regali fatti all' Evo dei tempi d' oro da altri presidenti e di proprietà dello Stato. Rimasti solo alcuni soldi in contanti, un letto di tre metri, una jacuzzi e una palestra. Il «povero indio» Evo - così lo presenta la sinistra mondiale - «è in realtà miliardario - ha svelato ieri il giornalista peruviano Jaime Bayly - grazie alla vendita a 2.500 dollari al kg di tonnellate di coca prodotte nel Chapare al Cartello di Sinaloa». Tutto da dimostrare ma di certo c' è che quando nel 2012 la Corte dei conti boliviana divulgò che l' ammontare dei beni del presidente della Bolivia era misteriosamente quadruplicato in pochi anni, chiedendogli di dimostrare il suo subitaneo arricchimento Evo rispose con la «faccia di bronzo» dei socialisti del secolo XXI: «Che responsabilità ho io se il popolo continua a regalarmi ponchos da 200 dollari l' uno?».

LA BENZINA IN IRAN SALE A 10 CENTESIMI AL LITRO E LA GENTE DÀ FUOCO ALLE BANCHE. (ANSA il 18 novembre 2019) - Il "sostegno" espresso dagli Stati Uniti "a un gruppo di rivoltosi" anti-governativi scesi in piazza contro il caro benzina in Iran è un'ingerenza negli affari interni della Repubblica islamica. Lo denuncia in una nota il ministero degli Esteri di Teheran. Il comunicato, spiega Teheran, è stato diffuso in risposta alle "dichiarazioni interventiste" del segretario di Stato americano Mike Pompeo, che ai manifestanti aveva detto via Twitter: "Gli Stati Uniti sono con voi". "Il nobile popolo iraniano sa molto bene che affermazioni ipocrite di questo tipo non indicano alcuna sincera partecipazione", ha sostenuto il portavoce del ministero, Abbas Mousavi. "È curioso che il sostegno venga espresso alle stesse persone che sono sotto la pressione del terrorismo economico dell'America", aggiunge la nota. Oltre mille persone sono state arrestate ieri nelle proteste, che si sono svolte in più di cento città iraniane. Secondo voci non confermate, i morti tra i dimostranti avrebbero superato la decina. È stato ucciso anche almeno un agente di polizia. La Guida suprema Ali Khamenei ha attribuito la responsabilità delle proteste ai "banditi" agli ordini dei nemici della Repubblica islamica, mentre la Casa Bianca ha condannato "la forza letale e le rigide restrizioni alle comunicazioni" contro i manifestanti.

Francesco Iannuzzi per “la Stampa” il 18 novembre 2019. L' Iran è da due giorni in fiamme per una rivolta popolare che sta interessando una dozzina di città, compresa Teheran. Tutto è cominciato quando il governo ha deciso l' aumento del prezzo della benzina e di alcuni generi di prima necessità. Ci sarebbe già «un certo numero di morti» ha annunciato il canale televisivo della Repubblica islamica «Press Tv». Migliaia sarebbero gli arresti compiuti dalle forze di sicurezza inviate a sedare le rivolte. Tra i morti anche un poliziotto ucciso dalla folla a Kemanchar, nel nord del Paese. I maggiori danni si sono verificati nelle province di Khuzestan, Teheran, Fars e Kerman. In tutto il Paese sono state incendiati o saccheggiati cento agenzie bancarie e 57 negozi; una succursale della Maskan Bank è stata data alle fiamme in piazza Sadegian, nella parte occidentale di Teheran, isolata da un ampio dispiegamento di mezzi antisommossa, presenti anche in altre zone della capitale. I disordini hanno anche causato la parziale chiusura del Gran Bazaar di Teheran, ha confermato l' Associazione islamica delle corporazioni e dei mercati. Ma trapela poco dall' Iran sulle proteste in corso, le autorità, per impedire la diffusione delle immagini della repressione, hanno «limitato l' accesso pubblico a Internet la scorsa notte e per le prossime 24 ore», ha affermato l' agenzia di Stato Irna. Le autorità sono comunque decise a reprimere con fermezza le proteste e la guida suprema, l' ayatollah Khamenei ha avvertito: «Danneggiare e bruciare non è qualcosa che la gente dovrebbe fare, è teppismo». Ancora più chiaro il messaggio lanciato ai manifestanti dall' intelligence iraniana che ha annunciato che risponderà con determinazione contro quei manifestanti che prendono parte ad azioni vandaliche: «Non verrà risparmiato alcuno sforzo allo scopo di salvaguardare la sicurezza nazionale». Appena più morbido l' intervento del presidente Hassan Rohani che ha affermato che «manifestare il proprio malcontento è un diritto, ma la manifestazione è una cosa e la rivolta è un' altra». Tutto è cominciato quando il governo ha deciso l' aumento del 50 per cento del prezzo della benzina e anche il suo razionamento. Il costo al litro è salito a 15.000 rial (10 centesimi di euro) dai 10.000 e per ogni auto il tetto massimo è stato portato a 60 litri. Superata questa quota il prezzo per litro è stato portato a 30.000 rial. Un aumento che crea grande disagio e difficoltà in un Paese dove i collegamenti e i commerci tra le città si svolgono prevalentemente su ruote.

(ANSA il 19 novembre 2019) - I leader delle violente proteste contro il rincaro della benzina in corso dal fine settimana in Iran verranno impiccati. Lo sostiene il quotidiano conservatore Kayhan, molto vicino alla Guida suprema Ali Khamenei, citando fonti giudiziarie, secondo cui i dimostranti sarebbero stati pagati per "creare il caos". Il crimine che verrà contestato ai manifestanti, sottolinea il giornale, è quello di 'Baghi', cioè rivolta armata contro le autorità e i principi del sistema della Repubblica islamica. "Un gruppo di leader dei disordini, che sono stati recentemente arrestati, ha confessato di essere stato incaricato di creare il caos e danneggiare e incendiare le proprietà pubbliche e avevano armi, coltelli e maschere. I colpevoli hanno anche detto di aver ricevuto in cambio denaro e la garanzia di poter lasciare il Paese se fossero stati identificati", aggiunge Kayhan.

(ANSA il 19 novembre 2019) - L'Alto commissariato dell'Onu per i diritti umani è "particolarmente allarmato dal fatto che l'uso di proiettili veri" da parte delle forze di sicurezza contro i manifestanti "avrebbe provocato un numero significativo di morti" nelle proteste scoppiate lo scorso fine settimana contro il rincaro della benzina in Iran. Lo ha dichiarato il portavoce dell'organizzazione, Rupert Colville, sottolineando che le vittime tra i manifestanti sarebbero "decine" secondo "media iraniani e altre fonti".

Vincenzo Nigro per “la Repubblica” il 19 novembre 2019. Per fermare la "rivolta della benzina", il governo iraniano ha fatto immediatamente una cosa: ha staccato Internet. Iniziata venerdì scorso per il raddoppio del prezzo del carburante, la protesta era in incubazione da mesi: le condizioni economiche con le sanzioni americane hanno portato all' esasperazione buona pare della popolazione. In questi anni i dirigenti iraniani hanno seguito le proteste esplose ovunque nel mondo, innanzitutto le "primavere arabe". Per cui da venerdì hanno agito rapidamente: bloccando di fatto Internet hanno scollegato i social media su cui gli iraniani leggono le notizie e si scambiano informazioni in tempo reale. Hanno provato per il momento a prosciugare il fiume di informazioni che alimenta ogni ribellione. Le notizie sugli scontri, sulle convocazioni per nuove manifestazioni, le informazioni sui morti circolano lo stesso, ma con enorme ritardo. Così il presidente Rouhani e la guida suprema Alì Khamenei sperano di evitare che la protesta continui a diffondersi, a propagarsi come nel dicembre 2017. Stavolta però il blocco di Internet avrà ripercussioni non secondarie. In pochi anni, in alcuni casi pochi mesi, l' Iran ha fatto un incredibile balzo in avanti nella digitalizzazione. Soprattutto nel settore del commercio. A Teheran si gira in taxi grazie a Snapp, la Uber iraniana: 100.000 autisti sono registrati sulla piattaforma, ci sono 1.200.000 corse al giorno, soprattutto a Teheran dove la app iniziò il suo lavoro nel 2016 con 100 corse al giorno. Snapp Iran ha bisogno che funzioni Internet, così come Waze, la app che gli iraniani hanno copiato per il traffico. Un servizio che in una megalopoli da 10 milioni di persone è essenziale come l' ossigeno. Altra applicazione limitata in queste ore è Digikala: è un clone iraniano di Amazon, simile anche nell' efficienza. Con una differenza: Digikala è diventata una sorta di servizio sociale offerto alla popolazione di Teheran. I due fratelli gemelli che l' hanno fondata nel 2007, Hamid e Saed Mohammadi, all' inizio hanno dovuto pagare l' ostilità delle autorità. Poi i capi e capetti del regime hanno capito che Digikala è un sostegno dal settore privato al miglioramento delle condizioni di vita. Capace di consegnare pacchi nel 90% del Paese, di recapitare la spesa a casa in 3 ore a Teheran. Altro servizio bloccato in queste ore è Alopeyk, i tassisti in motocicletta popolarissimi in Iran, e che a Teheran - anche loro - consegnano cibi cotti e la spesa alimentare oltre a portare le persone. Con Alopeyk e Snapp i cittadini, e soprattutto le donne, riescono a chiamare taxi privati più sicuri sull' identità e sul comportamento di uno dei 600 mila autisti registrati in tutto il Paese. Tutto questo al momento è fermo o rallentato. La rivolta è stata innescata dal prezzo della benzina, ma la ragione è nella recessione prodotta dalle sanzioni Usa. Quest' anno il Pil è crollato del 9,1%, economisti che lavorano all' Fmi dicono che "le condizioni economiche sono simili a quelle durante la guerra Iran-Iraq". Il Paese esportava 2.400 milioni di barili al giorno: adesso sono 2/300 mila, quasi nulla viene più esportato proprio per le sanzioni minacciate dagli Usa a chi compra petrolio iraniano. Siccome la crisi si vedeva da lontano, e una rivolta c' era già stata nel 2017, la polizia e i "basiji" si sono fatti trovare pronti. Hanno subito chiuso Internet, e anche per questo nessuno sa per davvero come stanno andando le cose. Ieri le notizie arrivate col telefono parlano di decine di morti in tutto il paese, nelle città delle regioni più sperdute. Un bilancio serio per il momento però è difficile.

 Iran, quando la repressione del regime di Teheran è aiutata dall’Occidente. Gennaro Malgieri il 21 Novembre 2019 su Il Dubbio. Migliaia di arresti in iran per le proteste contro il caro benzina e le sanzioni sono l’alibi perfetto. Da tempo il regime degli ayatollah ci ha abituati ad assistere impotenti alle periodiche repressioni di massa nelle quali accanitamente si esercita. In questi giorni sono stati massacrati 106 civili, molti i feriti dai brutali interventi della polizia ed oltre mille gli arrestati. Di questi ultimi non si sa molto: è probabile che vengano internati, se non tutti una scelta schiera ( a discrezione del pasdaran, naturalmente) nel lugubre carcere di Evin, alle porte di Teheran dove da quarant’anni, dal fatidico febbraio 1979, si consumano i peggiori delitti, esecuzioni e torture compresi. I successori di Khomeini non hanno modificato le abitudini del Grande Ayatollah, capo supremo della Repubblica islamica, le, cui costumanze in termini politici e polizieschi sono state riprese da Alì Kamenei. È dalla Guida Suprema che è partito l’ordine di reprimere le agitazioni divampate nelle principali città, a cominciare dalla capitale, con la motivazione che gli iraniani protestavano contro il rincaro del carburante dovuto alle sanzioni americane. Giustificazione speciosa. L’Iran è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo: è al quarto posto posto ( dopo Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti) con 1577 barili al giorno, pari al 5,2% del totale mondiale. Credere che il rincaro sia dovuto ad una penuria del greggio, provocata dall’America, è un escamotage propagandistico per aizzare, in vista di una nuova campagna legata al nucleare, il Paese contro il vecchio Satana occidentale. Il bilancio è provvisorio, naturalmente. Quel che è permanente è lo stato di tensione e di paura che domina il Paese. I cittadini si sentono abbandonati, grazie anche alle sanzioni che colpiscono i fabbisogni più elementari e sui quali fa leva il regime per la sua criminale propaganda. Il razionamento della benzina, decretato dal governo, spaventa e provoca disagi, naturalmente. Ma da quanto trapela oltre il muro di omertà ( il web è praticamente silenziato da giorni e la stampa imbavagliata), sembra che sia in atto un nuovo giro di vite all’interno delle gerarchie iraniane che il presidente Hassan Rouhani, rieletto per la seconda volta nel 2017, dunque scadrà nel 2021, salutato inizialmente come un “moderato”, ha assecondato dopo essere stato “addomesticato” da Kamenei e dal Consiglio dei guardiani. Con la scomparsa politica di uomini come Rafsanjani e Khatami, è di fatto sparita qualsiasi voce autorevole che mitigasse, sia pure flebilmente, gli eccessi del regime. Rouhani ha oscurato nelle ultime ore Internet, per cui i dati reali, a parte quelli forniti da Amnesty International e da alcune agenzie non governative che agiscono nella quasi totale, clandestinità, vanno presi con il benefico d’inventario. Le proteste sono scoppiate venerdì dopo che il governo ha annunciato un aumento del 50 per cento del prezzo della benzina. Il provvedimento ha acceso la rabbia nel paese già piegato dalle sanzioni, come si diceva. Chi prova a reagire viene soppresso pubblicamente; i cecchini stanno facendo gli straordinari. Raha Behreini, avvocato per i diritti umani e rappresentante iraniana di Amnesty International, ha fatto sapere che «Secondo rapporti credibili che abbiamo ricevuto, in meno di tre giorni da venerdì scorso, almeno 106 manifestanti sono stati uccisi in 21 città del paese. Ci sono anche testimoni oculari e riprese video: i cecchini hanno sparato su una folla di persone dai tetti, e in almeno un caso, dagli elicotteri». L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani esprime notevole preoccupazione, come ammette il portavoce, Rupert Colville: «Siamo profondamente preoccupati per le segnalate violazioni delle norme e degli standard internazionali sull’uso della forza. Non conosciamo l’entità delle vittime e dei feriti, ma è chiaramente una situazione molto grave». Intanto la televisione di Stato iraniana continua a mostrare le immagini di migliaia di persone che marciano a sostegno del governo e del regime islamico chiedendo la condanna a morte dei manifestanti e accusandoli di essere al soldo dagli Stati Uniti. L’escalation di violenze si è intensificata sistematicamente dal 24 giugno 2005 quando venne eletto presidente Mahmoud Ahmadinejad, leader radicale e già sindaco di Teheran. Egli diede impulso alla ricerca nucleare, nonostante l’opposizione degli Stati Uniti e dell’Ue. E periodicamente, durante i due mandati, lanciò gravi minacce contro Israele, gli Stati Uniti, l’Occidente e contro i governi islamici che riconoscevano lo stato di Israele. Nel 2006, per iniziativa degli Stati Uniti e del Regno Unito, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, impose all’Iran dure sanzioni economiche per indurlo a interrompere il suo programma nucleare, che viene visto come una minaccia contro Israele e come un passo verso l’egemonia nella regione. Il 20 giugno 2009, nel corso di una manifestazione a Teheran fu uccisa la ventisettenne Neda Soltan, che divenne il simbolo della rivolta contro il regime. Nello stesso anno si registrarono scontro violentissimi a a Teheran mentre l’ex presidente Rafsanjani, sostenitore dei riformisti, guidava la preghiera del venerdì. Nell’ottobre si complicarono i negoziati sul nucleare iraniano, dopo l’individuazione di un reattore in costruzione presso la città santa di Qom. Gli Stati Uniti minacciarono nuove sanzioni, dopo le aperture di Obama sulla questione. Nel dicembre morì l’ayatollah Montazeri, uno dei punti di riferimento dei dissidenti. I funerali fornirono l’occasione per organizzare manifestazioni represse con durezza: i morti furono all’incirca quindici morti (fra i quali, a Teheran, un nipote di Mussawi, il candidato sconfitto alle elezioni presidenziali, poi arrestato). Tra 2010- 2011 l’Iran ha proseguito l’avanzamento del suo programma nucleare in funzione anti- israeliana ed anti- occidentale , fino a quando nel dicembre 2011 l’UE ha stabilito, su impulso americano, l’embargo perolifero nei confronti dell’Iran entrato in vigore nel luglio 2012. Questi i precedenti più prossimi. Ora la nuova ondata di repressione. I carnefici hanno il loro bel daffare nel sedare le proteste. L’occasione, manco a dirlo, gliel’ha offerta l’Occidente e segnatamente l’America, tramite l’Unione europea. Non si è ancora capito, da questa parte del mondo, che le sanzioni, a chiunque comminate, in un modo o nell’altro le paga il popolo. Ed i regimi liberticidi ringraziano.

Cosa è successo davvero in Iran? Teheran: sì, la polizia ha sparato. Pubblicato martedì, 03 dicembre 2019 su Corriere.it da Viviana Mazza. Cinque giorni di proteste, secondo il governo le forze di sicurezza avrebbero usato la forza contro «folle armate». Per cinque giorni, dal 15 novembre, l’Iran è stato scosso dalle proteste più violente negli ultimi quarant’anni. Gli iraniani si sono svegliati scoprendo l’aumento del prezzo della benzina del 50% per i primi 60 litri, del 300% per ogni litro in più: una miccia in un clima di sofferenza per la disoccupazione, l’inflazione, le sanzioni americane, la rabbia per la corruzione dell’élite. «Se i prezzi aumentano, i poveri diventano più poveri» era uno degli slogan del primo giorno, quando gli iraniani hanno protestato lasciando le auto in mezzo alla strada, ma nella notte di sabato le manifestazioni hanno cambiato natura: slogan anti-regime, attacchi a banche, edifici governativi. Domenica Internet è stato bloccato, isolando quasi del tutto l’Iran dal mondo per cinque giorni: un fatto senza precedenti. Solo da poco sono emersi video e testimonianze. E solo ieri le autorità hanno riconosciuto che le forze di sicurezza hanno sparato e ucciso: dicono che i «rivoltosi» erano armati; e che poi la violenza ha causato la morte di passanti, forze dell’ordine e manifestanti pacifici, senza assegnare colpe. Leila Wasiqi, governatrice di Qods, una contea di Teheran, ha raccontato che una folla di gente furiosa ha abbattuto il cancello ed è entrata nel palazzo del governo al grido «Sparateci se potete». «Sì, ho ordinato di sparare se entravano». Altri nel governo hanno spiegato che è stata fraintesa (voleva dire «bloccare», non «sparare»). Manca ancora un bilancio ufficiale. Secondo Amnesty International i morti sono almeno 208 in 10 province, spesso con colpi di pistola alla testa o al petto. Iran Human Rights ha raccolto i nomi di 230 vittime, potrebbero arrivare a 400. Ne circolano 800-900 e molti sono falsi secondo il portavoce Mahmood Amiry-Moghaddam: «Fake news diffuse per screditare i casi veri» (Trump non si preoccupa: i morti sono «migliaia», dice). «Bugie» sia i numeri che i nomi, replica il portavoce della magistratura Gholamhossein Esmaili. «Includono persone in vita o morte per cause naturali». E gli arrestati (7.000 secondo un deputato)? Sarebbero stati quasi tutti rilasciati, dice Esmaili: a Teheran ne restano 300, verranno liberati una volta individuati i sabotatori. Ma gli arresti continuano: per esempio il 28 novembre la nota femminista e fotografa Raha Askarizadeh è stata fermata in aeroporto. L’Iran ha già vissuto proteste (nel 2009, nel 2017-18) ma mai così violente. Il ministero dell’Interno afferma che almeno 200 mila rivoltosi hanno incendiato oltre 700 banche, centinaia di auto e moto e 140 proprietà private. Testimoni oculari parlano di gang che marciavano a volto coperto, «sembravano professionisti». Il governo addita Usa, Arabia Saudita e gruppi di opposizione all’estero. Il capo dei Pasdaran ha detto ad un comizio di migliaia di sostenitori che gli Usa hanno appoggiato le proteste attraverso «mercenari locali». Le dichiarazioni del segretario di Stato Usa Mike Pompeo (vanta di aver ricevuto 20 mila video dai manifestanti) e le passate affermazioni dei sauditi («Porteremo la battaglia all’interno dell’Iran») nutrono la tesi delle interferenze straniere. I colleghi del Financial Times a Teheran spiegano che gli iraniani sono divisi: c’è chi crede che forze straniere abbiano guidato le proteste e chi ritiene che i Pasdaran hanno fatto degenerare le proteste per poterle poi reprimere (circolano anche filmati di agenti in uniforme che danneggiano auto e case). Il governo ammette anche l’intervento dei Pasdaran nella città di Mahshahr, zona ricca di petrolio con popolazione araba. Ma mentre il New York Times ha scritto che 40-100 manifestanti sono stati uccisi a colpi di mitragliatrice in un campo di canne da zucchero, il governo sostiene che erano separatisti armati. Khamenei ha detto mercoledì che il complotto è stato sconfitto. Resta però il disagio degli iraniani.

 Parigi, caos black bloc: fiamme in Place de la République durante le proteste per la riforma delle pensioni. Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 su Corriere.it da Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi. Tensione a margine del corteo contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente Macron. La giornata di sciopero generale contro la riforma delle pensioni è un successo, secondo gli organizzatori, che parlano di 250 mila persone in piazza a Parigi e 450 mila nel resto della Francia. Nella capitale, in serata, scontri tra forze dell’ordine e manifestanti. Gli episodi più gravi nell’Est della capitale, in place de la République, sul percorso del corteo partito intorno alle 13 da Gare du Nord e diretto verso place de la Nation. Un gruppo di poliziotti è stato circondato e bersagliato con pietre e ogni genere di oggetti. Secondo la prefettura anche dei tiri di mortaio sono stati sparati in direzione delle forze dell’ordine, che hanno risposto con i lacrimogeni e i fucili flashball con proiettili di gomma. Alcuni feriti tra i manifestanti vengono curati dagli «street medic», i volontari che intervengono sul posto per fermare immediatamente le emorragie.

Manifestanti e teppisti. Il presidente Emmanuel Macron per il momento non ha preso la parola, lasciando spazio al suo primo ministro Edouard Philippe, che ha ringraziato i sindacati per essere riusciti a mantenere le manifestazioni di protesta entro i limiti delle legalità. Le eccezioni viste in particolare a Parigi, dice Philippe, sono opera di «teppisti», che si sono infiltrati in un corteo legittimo. Il governo in questo modo cerca di emarginare i black bloc e di mantenere aperto il dialogo con gli oppositori. Il presidente Emmanuel Macron per il momento non ha preso la parola. Lo sciopero generale è stato indetto da tempo contro il progetto di riforma delle pensioni annunciato dal presidente Macron. Lo spirito del nuovo sistema è abolire i privilegi dei 42 «regimi speciali» concessi a molte categorie, con un meccanismo a punti che nelle intenzioni del governo dovrebbe essere più equo e sostenibile per le casse dello Stato. Ma al di là del quadro generale mancano ancora le misure concrete, che verranno comunicate entro la metà della prossima settimana. C’è quindi un margine di manovra per un dialogo tra governo e sindacati, che stanno cercando di riprendere un ruolo di primo piano dopo essere stati emarginati prima da Macron poi dal movimento spontaneo dei gilet gialli. Nella prima giornata dello sciopero generale i trasporti pubblici sono rimasti fermi, tranne eccezioni, e anche treni e aerei sono stati in maggioranza cancellati. Disagi equivalenti sono previsti per domani venerdì, e non è chiaro quando è possibile aspettarsi un ritorno alla normalità. Jean-Luc Mélenchon, leader della France Insoumise (sinistra radicale), parla di una «fase densa di lotta» che potrebbe protrarsi fino alla prossima settimana e all’annuncio dei dettagli della riforma.

Anais Ginori per repubblica.it il 5 dicembre 2019. Pioggia di lacrimogeni, scontri, detonazioni: cresce la tensione a margine del corteo parigino contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron. Un gruppo di black bloc composto da almeno 500 individui vestiti di nero si è appostato all'angolo del boulevard Magenta e Place de la République, nel cuore di Parigi, inscenando scontri e provocazioni con gli agenti di polizia costretti a replicare. Alcuni veicoli sono stati incendiati e decine di vetrine di negozi infranti. La Francia oggi si è fermata per uno sciopero nazionale che riguarda soprattutto i lavoratori di ferrovie e trasporti pubblici dove ci sono regimi previdenziali speciali che l'esecutivo vuole cambiare. Ma la contestazione che è stata già soprannonominata il "muro del 5 dicembre", potrebbe far convergere altre lotte, dai lavoratori degli ospedali, già in agitazione da mesi, a studenti e insegnanti (oggi molte scuole sono chiuse), agli operai delle raffinerie e forse anche quel che resta dei gilet gialli. Decine di migliaia di persone sono già in piazza ai quattro angoli della Francia. Parigi è blindata ma i lavoratori francesi, tra cui macchinisti, pompieri, insegnanti, avvocati, camici bianchi hanno già sfilato a Marsiglia, Rennes, Lione, Clermont-Ferrand, Tours, Perpignan, Saint-Nazaire, Besancon, Béziers, Nizza e tante altre città del Paese. Il precedente a cui tutti guardano è quello del dicembre 1995, quando la protesta contro l'allora riforma delle pensioni paralizzò la Francia e costrinse il governo di Alain Juppé a fare marcia indietro. Questa volta come andrà? Ma soprattutto: quanto durerà? Lo sciopero è dichiarato a oltranza, in teoria fino a far capitolare il governo come successe appunto nel 1995. In questa prima giornata il 90% dei treni ad alta velocità è stato annullato, così come due terzi dei mezzi pubblici nella capitale. E lo sciopero di Ratp (l'azienda di trasporto pubblico di Parigi) durerà fino a lunedì. Decisione presa da "quasi tutti i dipendenti in sciopero nelle assemblee generali" di questa mattina, dicono fonti sindacali. Il presidente francese, Emmanuel Macron, è "calmo e determinato" di fronte alla contestazione. L'"architettura generale" della riforma sarà annunciata entro la metà della prossima settimana dal premier Edouard Philippe. Lo rende noto l'Eliseo che sottolinea come il presidente sia "rispettoso del diritto di sciopero e dei francesi che hanno scelto di esprimere pacificamente la loro opposizione al progetto del governo". Disagi anche negli aeroporti a causa dello sciopero dei controllori di volo. La Tour Eiffel è chiusa. La gente si organizza con carsharing, telelavoro, biciclette e monopattini. È il trionfo della nuova mobilità. E per adesso c'è una certa popolarità della protesta nei sondaggi e il sostegno di quasi tutta l'opposizione a Macron, dai socialisti al Rassemblement National di Marine Le Pen. Le ferrovie francesi hanno già messo in conto uno sciopero su più giorni, chiudendo le prenotazione dei treni fino all'8 dicembre. Le compagnie aeree hanno avvertito i viaggiatori di ritardi e cancellazioni possibili fino al 7 dicembre. Il governo cerca intanto di rassicurare le varie categorie per rompere il fronte unitario. Più di 180mila persone sono scese nelle strade di una trentina di città francesi. Le autorità hanno contato 20mila persone a Montpellier, 19mila a Nantes, 15mila a Clermont-Ferrand, 10.500 a Tours, 10mila a Rennes. Non incluse la manifestazione di Lione, Marsiglia e Parigi. Il ministro dell'Interno ha scritto ai poliziotti per garantire che il loro trattamento previdenziale non sarà toccato. La riforma delle pensioni voluta da Macron è ancora vaga su molti aspetti: non si sa se sarà modificata l'età pensionabile (oggi a 62 anni) né come funzionerà esattamente il sistema a punti per il versamento dei contributi. Oltre alle adesioni e alla durata nel tempo, l'altro punto da valutare sarà la piazza. Nel pomeriggio è prevista la manifestazione a Parigi. Si capirà se la mobilitazione andrà oltre la base dei sindacati, creando un movimento più largo e partecipato.

Visto da Servillo: «Il francese ama fare le rivolte Ma poi viene  a teatro a piedi». Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 su Corriere.it da Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi. La città è paralizzata dalle proteste eppure qualcosa va avanti. Il teatro dell’Athénée è una delle poche sale rimaste aperte anche in questi giorni di scioperi, e c’è chi si mette in cammino per ore pur di vedere l’italiano Toni Servillo portare in scena «Elvira», le lezioni su Molière del grande attore e regista francese Louis Jouvet, «che morì in questo teatro, come Molière alla Comédie Française», dice Servillo. Lo incontriamo nella magnifica platea, pochi minuti prima dell’inizio dello spettacolo. Come vive in questi giorni di Parigi bloccata? «Prima di partire, la scorsa settimana, eravamo tutti piuttosto scoraggiati, pensavano che gli spettatori non sarebbero riusciti ad arrivare. Invece ogni sera ci sono in media 400 persone, quasi il tutto esaurito come nel 2017, quando portammo in scena ”Elvira” per la prima volta». È sorpreso?«In questa situazione, senza mezzi pubblici e con i taxi bloccati negli ingorghi, che centinaia di persone si ostinino sotto la pioggia a raggiungere il teatro mi pare notevole. Credo che nei momenti di crisi il teatro offra una straordinaria sensazione di conforto. Offre il rifugio della vicinanza, dell’intelligenza e della bellezza rispetto a ciò che appare caotico e indecifrabile. Anche ad Atene nel 2012, quando giravo con Theo Angelopoulos che purtroppo poi venne investito sul set e morì, eravamo al culmine della crisi in Grecia ma teatri e cinema erano pieni». Che pensa delle proteste? «Non mi azzardo a giudicare questo movimento in particolare, ma in questi giorni ho fatto incontri importanti, per esempio all’Istituto italiano di Cultura, e sono stato invitato dal rettore della Sorbona, Gilles Pecout, a tenere una lezione davanti ai ragazzi sul rapporto tra italiani e francesi. Ho letto un testo di André Gide, “A Napoli”, dove Gide fa un parallelo tra italiani e francesi. Degli italiani dice che sono dei grandi costruttori, e dei francesi dice invece che sono dei distruttori». Francesi distruttori? «Nel senso che da Voltaire a Rousseau a Diderot i francesi intervengono criticamente sulle forme date, inserendo nella realtà il dubbio illuministico. Distruttori in quanto capaci di mettere in discussione la realtà. Mi sembra che queste giornate siano eredità di qualcosa che viene da lontano, dalla Rivoluzione francese in poi. Il francese ama lo zolfo della piazza». Come reagiscono i francesi nel vedere un grande attore italiano portare in scena Louis Jouvet su Molière? «Di solito sono gelosi del loro repertorio, ma qui mi pare dicano “accidenti, doveva venire un italiano a ricordarci che abbiamo un gigante come Jouvet”. Io ne sono felice perché è in questo modo che si fa l’Europa. La mia compagnia Teatri Uniti di Napoli co-produce questo spettacolo con il Piccolo teatro di Milano diretto da Sergio Escobar, che fa un enorme lavoro per tenere viva la tradizione internazionale del nostro teatro».

La protesta dell’Algeria indomita: «Boicottiamo le elezioni farsa». Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 su Corriere.it da Francesco Battistini. Makache vote, non si vota. Calano anche oggi per l’arteria centrale della Didouche Mourad col sangue che pulsa e i cartelli scritti a mano. «Algerie=Mafiacratie!». Fanno il serpentone dello shopping con la rabbia trattenuta di chi non vuole svendersi alle serpi del Sistema. «Né dialogo, né elezioni!». Raggiungono la Grande Poste e sanno bene qual è la posta in gioco dopo vent’anni: le prime presidenziali senza candidato unico, ma cinque candidati troppo uguali al regime. «Silmiya! Khawa!», pace e fratellanza. Cantano Bella Ciao, tutta la gendarmeria d’Algeri schierata casco&manganello. «Attenti alle provocazioni!». Le bandiere dei martiri dell’indipendenza. Il tricolore a bandana. Si chiama Al Hirak, il movimento, tanto popolo e un po’ di populismo: decine di migliaia, una volta anche un milione, che protestano da prima dei ragazzi libanesi e sono più imponenti, meno impotenti, dei giovani di Hong Kong. Dieci mesi che va così, ogni settimana. Una settimana che sfilano e sfidano, ogni giorno: a primavera hanno ottenuto le dimissioni dell’eterno presidente Bouteflika; in estate, l’arresto di 400 ladroni di regime; questo 12 dicembre, non s’accontentano del «voto-farsa». Nessun dorma, si manifesta a oltranza pure di notte: il regime è sempre di mezzo, come questo giovedì elettorale, e Al Hirak resta sveglio e immobile sulle sue posizioni. No, non si vota. Al Hirak contro Le Pouvoir. Il vero primo turno di oggi è questo. A contare non è chi viene votato, ma quanti votano. Il Movimento, unito al partito islamico, punta a stare sotto il 10% d’affluenza per poter dire che trattasi d’urne farlocche. Il Potere spera di ripetere il 37 di due anni fa, ma s’accontenterebbe di molto meno e d’andare al secondo turno. Nessun sondaggio, niente osservatori internazionali, pochi accrediti ai media, il Parlamento europeo preoccupato dall’andazzo nel più grande Paese dell’Africa. Il preferito dell’establishment — che poi sarebbe l’esercito, 10 miliardi di budget annuo, assieme al vecchio Fronte di liberazione nazionale reduce della guerra al colonialismo francese — è un giornalista ed ex ministro della Cultura con la passione per la poesia, Azzedine Mihoubi, già capo della tv. Meno favoriti gli altri pretendenti, soprattutto gli ex premier Abdelmadjid Tebboune e Ali Benflis. Per placare la piazza, a due giorni dal voto sono stati condannati a 15 e 12 anni due degli ultimi potenti premier di Bouteflika, Ouyahia e Sellal. Ma non basta. «Il Sistema è disperato e pronto a spacciare qualsiasi percentuale d’affluenza, altrimenti è costretto a sbaraccare tutto», dice Rabah Abdellah, direttore della Liberté, uno dei due quotidiani d’opposizione rimasti aperti, che da cinque anni vivono senza pubblicità («è il governo che ce la blocca») sopravvivendo ad attentati e manette: «Ma stavolta la gente non è disposta ad accettare il solito risultato precotto». Ad Algeri quasi non esistono semafori, perché la gente ancora ricorda la guerra civile anni ’90 quando si sparava agli incroci ed era pericoloso fermarsi, e nessuno vuole più violenze. Ma la tensione è alta. Si manifesta a Orano, Annaba, Costantina. Nelle ambasciate s’è già venuti alle mani fra algerini expat: qualche rissa al consolato di Parigi, molte urne sono rimaste vuote. Nei villaggi sulle montagne della Cabilia dove vive la minoranza berbera, sempre emarginata dal potere arabo, rimangono aperte solo panetterie e farmacie: 10 milioni di berberi scioperano e qualche seggio è stato perfino murato con mattoni e cemento, guai a chi vota. Un po’ d’ironia, ma molto poca: sui social postano il cachir, il salsicciotto di pollo agitato nei cortei e diventato il simbolo delle proteste. L’hanno scotchato a un muro, come la banana di Cattelan. Il regime oserà strapparlo e mangiarselo?

Perché in Italia non è scoppiata la rivolta. Tifoserie sui social, battibecchi in tv, sterili mugugni. Nel nostro Paese nonostante il malcontento e i problemi siano crescenti, il populismo ha sostituito il popolo. Michela Murgia il 14 novembre 2019 su L'Espresso. El pueblo unido jamás será vencido. Le note della storica hit degli Inti Illimani che sta infiammando da settimane le piazze del Cile sono risorte improvvise dalla scatola dei cimeli di lotta, tornando a essere l’inno di rivolta popolare per cui erano state composta negli anni di Salvador Allende, prima che Augusto Pinochet trasformasse la giovane democrazia cilena in una sanguinosa dittatura militare. Oggi milioni di persone in piazza nel piccolo stato sudamericano gridano di nuovo che il popolo unito non sarà mai sconfitto, chiedendo giustizia sociale e migliori condizioni di vita. Potrebbe apparire surreale che, dopo aver attraversato 50 anni di liberismo in cui sono stati intaccati senza reazione tutti i diritti fondamentali, dall’istruzione alla sanità, il popolo cileno scenda in piazza per una cosa apparentemente insignificante come l’aumento del biglietto del tram, ma non più surreale che in Libano, dove il casus belli che ha portato le persone alla rivolta e il primo ministro alle dimissioni è stata l’ipotesi di una tassazione sulle chiamate di whatsapp. Molto più pesanti (e quindi più comprensibili viste dall’estero) appaiono invece le ragioni dei moti di Hong Kong, di Rojava e della Catalogna, dove le libertà civili e personali, seppur con sfumature diverse, sono chiaramente messe a rischio dall’autoritarismo dello stato proprio o altrui. Qualunque sia il motivo per cui l e comunità di mezzo mondo si stanno rivoltando contro il potere che le governa , a suscitare interrogativi è soprattutto il metodo che le accomuna, con masse di cittadini che occupano le piazze in modo così numeroso e pacifico da far passare dalla loro parte chiunque osservi, anche quando le ragioni si conoscono poco o viste da fuori non sembrano così impellenti. A guardare questo bollore civile dagli avamposti apatici dell’Italia si prova soprattutto invidia. Perché nessun moto spontaneo di popolo sembra possibile dentro ai nostri confini? Mentre a oriente e in altri occidenti paralleli le comunità si ribellano alle ingiustizie che sentono di star subendo, le nostre scuole restano senza occupazioni, le fabbriche senza scioperi e le piazze - a eccezione di qualche sporadica manifestazione di partito (ben lontane comunque dalle milionate che si vedono altrove) - sono vuote. Eppure non è che manchino i motivi per porsi in lotta. L’ipotesi iniqua di una flat tax che parifichi la contribuzione di ricchi e poveri, la spesa militare che cresce a fronte dei disinvestimenti in sanità e istruzione, l’impoverimento della classe che un tempo era media e la sempre più nutrita fuga all’estero dei giovani sarebbero ragioni più che sufficienti per animare un movimento di piazza, eppure quel movimento continua a non verificarsi. El pueblo non solo non appare unido, ma non appare proprio. La stessa definizione di popolo fatica a trovare una declinazione che non sembri strumentale. Ci sono i populisti, è indubbio, ma il popolo dov’è? Sarebbe lecito aspettarsi che siano i movimenti a coordinare il dissenso e renderlo visibile, ma in questi anni sembra che i populismi abbiano svolto esattamente il compito opposto: quello di disinnescare il conflitto popolare e convogliarlo verso forme controllabili e sempre meno destabilizzanti. Lo stesso Beppe Grillo rivendicò per il Movimento 5 Stelle il ruolo di camera di compensazione della rabbia popolare, dichiarando che era solo grazie a loro se l’Italia non aveva avuto rivolte nelle strade. I conflitti sociali non vanno in scena con l’occupazione degli spazi pubblici né si vedono modalità collettive di lotta capaci di superare le divisioni dell’interesse particolare. Le ragioni di questa scomparsa della piazza sono diverse. La prima, ma anche la meno evidente, è che in Italia manca totalmente una coscienza nazionale, in assenza della quale a prosperare sono i nazionalismi, che ne sono la devianza. A differenza di tutti i paesi nei quali in questo momento stanno avvenendo i moti di piazza, l’Italia non è stato un paese colonizzato - se non per porzioni e in tempi diversi - e non ha mai dovuto reagire tutta insieme al potere violento di un soggetto più forte che almeno per negazione abbia obbligato gli italiani a definire i criteri di un’identità collettiva. Nemmeno la guerra, il più rozzo degli strumenti di coesione nazionale, ha potuto svolgere questa funzione, perché negli ultimi duecento anni i soli conflitti che gli italiani hanno combattuto - oltre a quelli quella civile della resistenza partigiana contro i fascisti - sono stati quelli che aggredivano il territorio altrui, anziché difendere il proprio. Al dato dell’assenza di coscienza nazionale si aggiunge un’evidenza che è in parte consequenziale: la politica in Italia è personalizzata, non collettiva. Dal 1994 sui simboli elettorali hanno cominciato a comparire nomi di persona, spostando simbolicamente il progetto politico dal corpo sociale a quello individuale del capo. Vent’anni di bipolarismo, la scomparsa delle modalità di partecipazione di base e un linguaggio gradualmente sempre più centrato sulla figura e sulle gesta del capo/capitano, senza distinzioni di destra e sinistra, hanno generato un meccanismo di identificazione nel leader che ha sublimato la partecipazione collettiva, quella che però secondo Gaber costituiva il cuore stesso della libertà democratica. Al contrario, la caratteristica più interessante dei recenti moti di popolo nel mondo (eccezion fatta per il movimento ambientalista dei Fridays for Future) è che non sembra esserci un leader a convocare le persone in piazza. Le comunità reagiscono in modo spontaneo a condizioni che sono percepite come oppressive per tutti, non solo per qualcuno a vantaggio di qualcun altro. In Italia a tenere banco con numeri da rivolta popolare sembrano piuttosto le sfide televisive tra leader, sistematicamente messe in scena con un linguaggio machista e muscolare, costruito secondo lo schema cinematografico dello scontro tra titani, Alien vs Predator, due Golia senza alcun Davide. Dentro a quello schema non ci sono più elettori partecipi, ma eterni telespettatori, tanto nell’urna quanto nelle chiamate pubbliche sotto le insegne di partito, dove la categoria di popolo si diluisce in quella di tifoseria e le migliaia di convenuti si identificano nel loro campione, sostenendolo con il coro acritico di una curva allo stadio. Lo scenario politico italiano in questo modo appare più come uno spazio di rappresentazione che di rappresentanza e non appare strano che in questa cornice bidimensionale le grandi battaglie per intestarsi il dissenso e gestire il consenso avvengano sui social media, che spesso vengono definiti “piazze virtuali”, ma non lo sono: sono invece realissimi luoghi di disinnesco della piazza, che offrono l’illusione della presenza attiva senza i risultati della partecipazione diretta. Se è vero che chi progetta spazi progetta comportamenti, una politica davvero responsabile del futuro oggi rinuncerebbe alla modalità leaderistica, che favorisce il disimpegno e la logica della delega, e aprirebbe nuovi spazi di condivisione e partecipazione, a partire dai quartieri fino all’ultimo degli organi istituzionali. Se nessuno lo fa, è perché in fondo la piazza piena non piace ad alcun potere.

Dai Girotondi alle Sardine, i movimenti di piazza del terzo millennio. Non solo Sardine: cronistoria dei movimenti spontanei che hanno infiammato le piazze italiane negli ultimi 20 anni. Panorama il 6 dicembre 2019. Il nuovo passaparola delle Sardine è «Riempiamo piazza San Giovanni». A meno di un mese dalla sua nascita, il movimento anti-Salvini si propone di convincere 100 mila persone a «stringersi come sardine» il prossimo 14 dicembre nell'iconica piazza romana che dal 1990 ospita il concerto del Primo maggio. Una scommessa coraggiosa, per il raggruppamento nato con un flash mob a Bologna lo scorso 14 novembre dall'iniziativa di quattro amici (non al bar, ma nella cucina del loro vecchio appartamento) per contestare un comizio di Matteo Salvini. In tre settimane, però, il movimento di protesta ha riscosso un successo travolgente: dopo Bologna sono venute Modena, Firenze, Napoli, Milano... E per il 15 dicembre sono previste, assieme a Roma, manifestazioni anche a Berlino, Parigi, Dublino, Londra, San Francisco, Edimburgo, Amsterdam e Madrid. Un crescendo che ricorda quello di altri movimenti spontanei che, nati dal basso in ambito locale, si sono poi trasformati in macchine organizzative a livello nazionale. Ma le Sardine riusciranno a incidere davvero nella vita politica nazionale? Per capire che possibilità di sviluppo avranno le Sardine, Panorama ha guardato al passato. E ha ricostruito i percorsi dei movimenti antesignani dell'attuale fenomeno, ossia i Girotondi, il Popolo viola e il Movimento arancione. Tutti uniti da un comune filo rosso: la romana piazza San Giovanni in Laterano.

Girotondi. In principio fu il Girotondo. Correva l'anno 2002 e Silvio Berlusconi imperava a Palazzo Chigi, da dove lanciava proclami contro i giudici («golpisti» e «antropologicamente diversi» li definì l'anno successivo). Dopo il discorso di inaugurazione dell'anno giudiziario, in cui il procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli invitava a «resistere, resistere, resistere», il 19 gennaio si tenne a Roma una manifestazione davanti al Ministero di Grazia e giustizia contro le ingerenze del potere esecutivo verso il potere giudiziario. Quel giorno nacque il movimento che prese il nome dalle catene umane formate dagli attivisti intorno agli edifici delle istituzioni che intendevano difendere, anche se il primo vero girotondo si tenne il 26 gennaio a Milano, attorno a Palazzo di Giustizia. Il 24 gennaio si tenne a Firenze la «marcia dei professori», che consacrò Francesco Pardi e Paul Ginsborg maître-à-penser del movimento. In pochi giorni, il movimento si diffuse a macchia d'olio in tutta Italia e si consolidò grazie allo storico intervento del regista Nanni Moretti, il 2 febbraio, in piazza Navona a Roma: «Con questi dirigenti non vinceremo mai». Dalla giustizia, alla Rai, alla scuola pubblica, si moltiplicarono le istituzioni da difendere attraverso catene umane. Memorabile la manifestazione del 14 settembre in piazza San Giovanni a Roma, che grazie alla straordinaria partecipazione popolare rappresentò l'apice del movimento. Nel gennaio 2003, al Palazzetto dello sport di Firenze, Sergio Cofferati venne incoronato per acclamazione, su proposta di Nanni Moretti, leader della sinistra girotondina. Ma l'anno dopo, l'ex segretario della Cgil a sorpresa accettò la proposta di Massimo D'Alema di candidarsi a sindaco di Bologna. E, nel giro di non molto, il movimento dei Girotondi si sgonfiò.

Il Popolo viola. Anche il Popolo viola ebbe come collante l'antiberlusconismo. E infatti il più importante evento che promosse fu il No Berlusconi Day, lanciato il 5 dicembre 2009 per chiedere le dimissioni del primo ministro dopo la bocciatura del lodo Alfano da parte della Corte costituzionale. La legge, proposta dal ministro della Giustizia Angelino Alfano, prevedeva lo scudo penale per le quattro più alte cariche dello Stato. Due giorni dopo la dichiarazione di incostituzionalità del Lodo Alfano, il 9 ottobre 2009, un anonimo blogger, San Precario, aveva lanciato la pagina Facebook "Una manifestazione nazionale per chiedere le dimissioni di Berlusconi". Il nome venne scelto perché il colore viola non era riconducibile a nessun partito presente in Parlamento, pertanto non strumentalizzabile politicamente. Nonostante le adesioni di numerosi intellettuali e artisti (come Mario Monicelli, Margherita Hack, Andrea Camilleri, Giorgio Bocca, Moni Ovadia e Dario Fo) e anche di qualche forza politica (come l'Italia dei Valori e la Federazione della Sinistra), il Pd disertò il corteo. Il No B Day, che raccolse fra le 200 mila e le 300 mila persone vestite di viola, non fu solo la prima manifestazione di massa convocata tramite Facebook. Segnò anche l'internazionalizzazione delle proteste della sinistra movimentista. Eventi analoghi alla manifestazione di piazza San Giovanni si tennero in simultanea anche all'estero: da Atene ad Amsterdam, da Barcellona a Berlino, da Charleroi a Chicago, da San Francisco a Sydney. Ma l'exploit non ebbe un seguito adeguato. Subito dopo la grande manifestazione romana, il gruppo fondatore indisse un incontro nazionale del comitato promotore con i referenti locali, che si tenne a Napoli il 9 gennaio 2010. Seguirono altre iniziative in varie città italiane, da Arcore a Reggio Calabria, e un secondo No Berlusconi Day, il 2 ottobre 2010, che pur vedendo la partecipazione di associazioni come Articolo 21, Agende rosse e Libertà e Giustizia, raccolse meno partecipanti dell'iniziativa precedente. Tre mesi dopo, il 5 dicembre, alla convention del Popolo viola celebrata al Teatro Vittoria parteciparono un centinaio di militanti.  

Il movimento arancione. Molto evocativo il claim: «Noi siamo il potere dei senza potere, la voce dei senza voce». Il Movimento arancione è stato fondato da Luigi de Magistris il 12 dicembre 2012, ma più in generale è stato un raggruppamento politico che nella prima metà degli anni Dieci ha tenuto insieme esponenti della società civile più radicale, come l'ex deputato di Rifondazione comunista Giuliano Pisapia e degli ex magistrati Luigi de Magistris e Antonio Ingroia. Tra i cavalli di battaglia della rivoluzione arancione di casa nostra (da non confondere con quella ucraina, successiva), il sostegno all'ambiente a all'acqua pubblica e la lotta a conflitto d'interessi e precariato. Dopo l'elezione a sindaco di Giuliano Pisapia a Milano, di Massimo Zedda a Cagliari e di Luigi de Magistris a Napoli (30 maggio 2011), e poi di Marco Doria a Genova (13 febbraio 2012), de Magistris fonda il Movimento Arancione. La formazione, che contesta ai partiti di essere lontani dalla vita reale degli italiani, si propone di portare nelle istituzioni le esperienze nate dal basso. Fallita una trattativa con il centro-sinistra, aderisce al cartello Rivoluzione civile, per cui Antonio Ingroia si candida a presidente del Consiglio. La formazione politica, che si propone di costituire un polo alternativo al centro-sinistra, non entra in Parlamento alle elezioni del febbraio 2013 perché non raggiunge la soglia di sbarramento. Il 2 maggio il partito viene sciolto.

Le sardine. Infine sono arrivate le Sardine. Il movimento è nato il 15 novembre scorso a Bologna in piazza Maggiore, dove si sono raccolte più di 6 mila persone (strette proprio «come sardine») per protestare contro Matteo Salvini, che a Pala Dozza lanciava la campagna elettorale della Lega per le regionali. Si tratta di un movimento spontaneo, senza bandiere, ma con un minimo comun denominatore: l'opposizione a Salvini. E, guarda caso, il Carroccio ha avanzato dubbi sulla «spontaneità» del movimento. Caratterizzato dalla giovane età dei suoi aderenti (non a caso è stato fondato da quattro trentenni), il movimento delle Sardine non ha un volto definito e neppure un preciso programma politico. Le sue iniziative sono spontanee e nascono per volontà di gruppi locali. Negli ultimi giorni però ha iniziato a darsi un'organizzazione. Tramite la pagina Facebook è anche stato diffuso il manifesto delle Sardine, che ha come obiettivo primario il contrasto del populismo. «Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita» recita il manifesto. Anche se il documento esorta a credere nella politica, non indica partiti di riferimento, ribadendo la sua componente apartitica. Riusciranno le Sardine a fare un salto di qualità e a lasciare un segno nella vita politica italiana? La prima risposta arriverà il 14 dicembre a Roma, quando si vedrà se il passaparola («Riempiamo piazza San Giovanni») sarà stato raccolto.

GIOVANI IN MOVIMENTO. Daniele Vicari: «La Pantera eravamo noi, imprendibili e in cerca di libertà». La mobilitazione studentesca iniziata nel 1989 durò meno di un anno. Ma ha lasciato qualcosa. Che oggi può servire. Il ricordo del regista di "Diaz". Daniele Vicari il 03 dicembre 2019 su L'Espresso. Il tempo mal vissuto consuma a volte anche le parole, soprattutto se ribaltate nel loro significato più intimo. È accaduto e accade alle parole “amore” e “libertà”, come poteva non accadere alla parola “movimento” trasformata in un’esca acchiappavoti? Quando con un guazzabuglio di ragazzi alla Sapienza di Roma formammo il gruppo “studenti stanchi”, i rivoluzionari di professione ci presero per il culo, come sta accadendo in questi giorni per il guazzabuglio “sardine”. Il commento più gentile fu che sembrava il titolo di una ricerca sociologica. E forse era persino vero, perché lì dentro c’erano frammenti di presente passato e futuro: Fgci, Quarta Internazionale, Autonomia oltre a figli di papà e di nessuno. Soprattutto c’erano sprovveduti, come me, che però avevano capito sulla loro pelle che dopo il crollo del Muro stava per accadere qualcosa di grosso che avrebbe mutato non in meglio forma e funzioni dello Stato, cioè l’esercizio della democrazia.

Daria Colombo, fondatrice dei Girotondi, in piazza  con le Sardine: «Basta rassegnazione». Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 da Corriere.it. «Certo che c’ero in piazza del Duomo. Ci sono andata con mia figlia. Due cittadini, due generazioni diverse. Mi ha riempito il cuore». Daria Colombo è stata tra le fondatrici dei Girotondi. Il 26 gennaio 2002, pochi giorni dopo il «resistere, resistere, resistere» di Saverio Borrelli, una catena umana di quattromila persone circonda con un abbraccio Palazzo di Giustizia. Tra le organizzatrici c’è Colombo con Ottavia Piccolo. Domenica sera Colombo che ha appena finito di scrivere un libro di racconti sui problemi dell’Italia, è tornata in piazza con il popolo delle Sardine.

Cosa l’ha colpita di più?

«La tanta gente che ha ancora voglia di mettersi insieme per fare qualcosa quando le cose non vanno bene. Il senso di rassegnazione dell’ultimo periodo ha ceduto il posto all’attivismo. Anche i cittadini possono esprimersi riempiendo le piazze».

C’è qualche somiglianza tra il popolo dei Girotondini e quello delle Sardine?

«Ci sono similitudini e differenze. La somiglianza che mi colpisce di più è la totale autonomia del movimento dai partiti anche se questo non significa essere privi di un indirizzo politico. Ricordo che tra il popolo dei Girotondi c’erano persone di destra preoccupate che la Costituzione fosse messa a repentaglio dalle leggi ad personam. Un’altra assonanza la trovo nel fatto che nelle manifestazione delle Sardine non c’è quella componente «contro» propria del grillismo. Ricordo che i Girotondi abbracciavano i palazzi simbolo delle istituzioni».

Lo fanno anche le Sardine?

«Le Sardine, anche se a modo loro, abbracciano le istituzioni in un momento in cui le istituzioni sono messe in discussione da tanti lati. Nella forma che è anche sostanza. Sono ancora allibita dal parlamentare che ha fatto la sua dichiarazione di matrimonio in aula».

Cosa vogliono le Sardine?

«Quello che volevano e dicevano i Girotondi: tocca a voi politici fare la sintesi tenendo conto di ciò che vogliamo. La classe dirigente di allora non lo ha capito e si è limitata a infilare qualche nome nelle liste. Non ha capito la voglia di vicinanza e di rappresentanza che arrivava dai Girotondi. Senza quella miopia ci saremmo forse risparmiati populismi e distanza dalla politica».

Perché sono finiti i Girotondi?

«Hanno avuto un ruolo importante in un certo momento storico, hanno svolto la loro funzione e hanno esaurito il loro compito. A livello individuale qualcuno ha scelto di entrare in politica. Io no, nonostante le tante richieste. Mi sembrava inopportuno. Ho voluto ribadire il concetto che i movimenti sono una cosa e i partiti un’altra. Adesso c’è grande confusione su cosa sia un movimento. Basta vedere i Cinque Stelle».

Le Sardine corrono questo rischio?

«Se le Sardine si trasformano ben venga, ma avranno un altro ruolo e non saranno più un movimento. Credo nella rappresentanza, credo che si debba consegnare il potere di rappresentare, altrimenti si arriva all’antipolitica dove il più famoso vince».

Chi sono le "sardine": storia di un movimento e del suo nome. Dai social alla piazza la rapida parabola del nuovo movimentismo anti Lega con mille dubbi ed i soliti slogan anti-Salvini. Panorama il 20 novembre 2019. Prima Bologna, poi Modena. E' la breve ma già rumorosa storia delle "sardine", il movimento di protesta anti Salvini che sta cercando di porsi come argine al centrodestra nelle prossime elezioni regionali in programma in Emilia a fine gennaio. "Nessun insulto, nessun simbolo, nessun partito". Parola di Mattia Santoni, 32 anni, laureato in scienze politiche e collaboratore per una rivista legata a Romano Prodi, uno degli ideatori del cosiddetto movimento delle sardine. 

Da dove nasce il movimento delle sardine. Un'idea, come ha spiegato il giovane al Resto del Carlino, nata nel corso di una notte insonne insieme a tre amici:  Roberto Morotti, 31 anni, ingegnere, Giulia Trappoloni, 30 anni, fisioterapista e Andrea Garreffa, 30 anni, guida turistica. Santoni non poteva accettare che nella rossa Bologna la Lega di Matteo Salvini facesse campagna elettorale a sostegno della candidatura di Lucia Borgonzoni alla poltrona di presidente della regione Emilia Romagna in opposizione al presidente uscente, il piddino Stefano Bonaccini. Da qui l'idea che all'appuntamento leghista per il 14 novembre al Paladozza venisse contrapposta una sorta di manifestazione flash mob di piazza in funzione anti-Lega. "Volevamo essere almeno uno in più di loro, la mattina dopo ci siamo sentiti e abbiamo organizzato tutto velocemente" ha ricordato ancora Santoni.

Perché "sardine". Il nome "sardine" nasce dall'idea di stare tutti stretti stretti come sardine in una scatola a dimostrazione che la piazza antileghista è forte e numerosa. Vicini e silenziosi come pesci per abbassare i toni da quella che via Facebook è stata definita "retorica populista". L'invito - definitivo - recitava: "Nessuna bandiera, nessun partito, nessun insulto. Crea la tua sardina e partecipa alla prima rivoluzione ittica della storia". Dato che il Paladozza, dove era in programma la manifestazione della Bergonzoni e di Salvini può contenere 5.570 persone ai 4 amici sarebbe bastato metterne insieme 6.000 per superare il rivale.

Il tam tam non poteva che partire da Facebook con la creazione dell'evento "Seimila sardine contro Salvini" dove si invitavano i bolognesi ad accorrere numerosi in piazza spiegando: "Il Paladozza ha una capienza massima di 5.570 persone. Non puoi andare oltre, per problemi di sicurezza e soprattutto di spazio. Ecco allora che vogliamo lanciare un flash-mob: abbiamo misurato che sul crescentone di Piazza Maggiore ci stanno fino a 6.000 persone".

Da Bologna a Modena. E così in 15mila sono arrivati giovedì 14 novembre a Piazza Maggiore armati di sardine di cartone per quella che non avrebbe dovuto essere una manifestazione politica ma un flash mob della società civile. In realtà in molti ci vedono dietro burattinai della sinistra che, da dietro le quinte, tessono le file di un potenziale movimento nato dal basso. I 4 ragazzi, inoltre, non si sono fatti trovare impreparati al successo della loro "rivoluzione ittica" e prontamente si sono fatti "ponte" - come detto al Resto del Carlino - per organizzare analoghi eventi altrove. Dopo Bologna, infatti, è stata la volta di Modena dove gli anti Salvini sono stati 7.000 stretti come sardine in Piazza Grande. Anche in questo caso l'antileghismo era tutto indirizzato a boicottare la candidatura della Borgonzoni alla guida della regione. Via Facebook digitando "6.000 sardine" compaiono eventi in fieri in mezza Italia: da Firenze a Torino o Rimini. E se il segretario Pd Nicola Zingaretti plaude l'iniziativa indirizzando la paternità del movimentismo ittico sotto l'ala partitica, Matteo Salvini ricorda che tra gli organizzatori c'è anche chi, senza andare troppo sul sottile, in passato gli ha augurato la morte. Alla faccia del clima d'odio e di violenza.

Francesco Merlo per ''La Repubblica'' il 2 dicembre 2019. «Forse servirà più a ingarbugliare le cose che a chiarirle, ma il 15 dicembre le sardine di tutta Italia si riuniranno a Roma». Sarà il primo congresso delle sardine? «Diciamola così: prenderemo una birra tutti insieme e ognuno dirà la sua. Noi intanto speriamo di riempire, il 14 dicembre, piazza San Giovanni. Puntiamo a organizzare una grande manifestazione con sessantamila sardine». Perché sessantamila? «Sono le 6000 della prima volta moltiplicate per dieci. E l' indomani cominceremo a dialogare con la politica. Perché "la politica ha bisogno di noi" non resti solo uno slogan». A Bologna, a un tavolo del caffè della Salaborsa i 4 fondatori, Mattia Santori, Andrea Garreffa, Roberto Morotti e Giulia Trappoloni, per la prima volta intervistati insieme, spiegano cos' è il laboratorio delle sardine. E mi raccontano dei tanti che danno loro consigli: musicisti e filosofi, sociologi e politici incendiari, poeti e filantropesse, emissari occulti, giornalisti famosi, architetti e urbanisti «Ci regalano idee, ci consigliano libri, ci mettono in guardia. Scrivono testi per noi, anche musiche e canzoni che ci offrono come inni. Ma noi l' inno ce l' abbiamo già: "Com' è profondo il mare" di Lucio Dalla». Dalla piace soprattutto ad Andrea Garreffa, che è il più intellettuale del gruppo, e per lavoro organizza viaggi in bicicletta. E dunque i peggiori della destra lo raccontano come uno squinternato d' assalto, com' erano i grillini al loro esordio. Invece è laureato a Bologna in Comunicazione Pubblica, parla un ottimo inglese, ha studiato a New York e in California, e scopro che ha scritto pure un piccolo libro che si intitola "Ovidio", ed è la storia di una casa. Domando: comincia a spirare un venticello di partito? «Nient' affatto. Il 14 a Roma la manifestazione sarà forte e sorprendente, anche per fantasia e creatività». Qualcuno ha proposto che si vestano di bianco, un' enorme piazza di sardine bianche, Roma trasformata in un mare bianco «che è il colore del candore contrapposto a quello delle carognate, il colore dei senza colore». Mattia Santori è stato battezzato leader dalla televisione, buca il video perché è simpatico e ormai lo riconoscono per strada: «Lo lasciamo andare avanti perché funziona, e tutti ovviamente lo cercano. Ma noi gli stiamo sempre dietro» dicono in coro, ridendo. E Mattia: «C' è molta voglia di leader, ma io resisto». Come si può resistere alla vanità? «Io penso che la parola giusta sia responsabilità. Molti si aspettano che le sardine risolvano problemi. E mi caricano di responsabilità. Ma noi abbiamo chiari i rischi che corriamo. Cosa dovrei fare, se no: sparire, chiudermi in una casa in collina?». E i soldi? «Le sardine si autotassano. Ma a Roma ci trattano come un partito e impongono costi molto alti. A partire dall' Ama, che chiede un euro a partecipante». Un euro a sardina? I soldi, come vuole il vecchio aforisma di Margaret Thatcher, «hanno reso buono il Buon Samaritano più delle sue buone intenzioni». Hanno abitato nella stessa casa, sono amici, e sono convinti che non si perderanno l' uno con l' altr o. Gli chiedo se sanno chi erano les petits camarades , i 4 piccoli compagni che a Parigi, più o meno alla loro età «Erano Aron, Sartre, Nizan e Simone de Beauvoir. Le proporzioni tra maschi e femmine sono rispettate» dice Giulia. «Per il resto loro erano giganti e noi siamo sardine». Sulla qualità degli studi il confronto è duro, ma anche qui ci sono quattro belle lauree, bei voti, la voglia di scrivere. Roberto è ingegnere e disegna impianti industriali, Giulia è fisioterapista, 12 ore al giorno, e la sera insegna danza ai bambini. «Eppure su Facebook c' è una mia gigantografia con scritto sotto: "La disoccupata dei centri sociali". Ma io non sono mai stata in un centro sociale. E, che dici, esibisco il certificato di laurea? Noi pensiamo che sia meglio insistere nel mostrare che c' è un altro modo di usare i social». Qualcuno lo ha chiamato Alternet: l'Alternet delle sardine. Il più vecchio, 32 anni, è Andrea, la sardina pensatrice. Lui è nato a Savona e Giulia, che a 29 anni è la più giovane, è nata a San Sepolcro in provincia di Arezzo, ma Bologna è il loro vincolo: «Ci siamo voluti bene in mezzo alle folle allegre di questa città grigia, sotto i cieli leggeri delle sue primavere». Bologna si conferma come un laboratorio, spiega Bruno Simili, direttore del Mulino.  «Due giorni prima che esordissero le sardine c' era stato un convegno sulla Bolognina con Occhetto. E fu in piazza Maggiore che nel 2007 Grillo organizzò il primo vaffa day. E c' era stato Guazzaloca, la destra che piaceva alla sinistra». È un piacere parlare con Andrea Garreffa, la sardina pensatrice, di questo laboratorio dove conta molto l' architettura di Piazza Maggiore, «la creazione artistica dell' evento» dice Giulia Trappoloni, la scenografia della piazza monumentale, eccezione italiana, che non ha il Duomo, ma c' è san Petronio, che è il simbolo dell'indipendenza anche dal Papa- re, figuriamoci da Salvini. Qui c' era il foro romano e qui Bologna diventa l' agorà italiana, il modello di piazza nazionale, da esportare nel mondo. Il territorio cambia l' identità delle sardine e con le identità torna l' Italia delle cento città, la provincia come valore, e Bologna come modello. E Bologna è forse più ricca di Milano, di cui certamente non ha i deliri di grandeur alla cassoeula, la Bologna delle gallerie d' arte e dei libri, della magnifica università, del Mast che è un museo raffinato ma in periferia, bello quanto la Fondazione Prada ma molto meno strombazzato. In questi giorni c' è ancora la mostra Anthropocene, bellissimo ed emozionante catalogo della terra antropizzata, «e come si fa a non legarla alla filosofia delle sardine?». E poi c' è la Bologna delle multinazionali, con il suo volo giornaliero per Beirut, il diretto per New York. La Madame de Staël di questa Bologna è Isabella Seragnoli, proprietaria della Coesia, il packaging che impacchetta il mondo, ricchissima filantropa, "la monaca imprenditrice" la chiamano a Bologna, appartata e discreta, ha costruito centri per malati terminali e sta costruendo un hospice oncologico per bimbi e l' ha affidato a Renzo Piano che ha immaginato «una casa sospesa tra gli alberi» spiegando però che non esiste nulla di più difficile per un architetto, ben più difficile del nuovo ponte di Genova. Anche alla Seragnoli piacciono le sardine, anche lei è rimasta affascinata dalla filosofia della cortesia, la politica senza turpiloquio, le sardine come «voglia italiana di grammatica» che da Bologna contagia l' intero paese, ciascuna sardina con il differente suo genius loci. «Ma dentro un quadro - dicono Roberto Morotti e Giulia Trappoloni - che viene ufficializzato da noi. Non un certificato, ma una tavola di valori». Verificati come? «Con una chiacchierata breve, informale». Non avete mai respinto qualcuno? «Finora mai». Dunque in ogni piazza d' Italia le sardine prendono una forma diversa. E infatti hanno cantato inni diversi, «da De André a Pino Daniele». E a Ferrara hanno cantato "Io non mi sento italiano" che è la canzone-postuma, l' epitaffio di Gaber quando, molto malato, sentiva l' Italia premergli come un testamento: "Mi scusi presidente / non sento un gran bisogno / dell' inno nazionale / di cui un po' mi vergogno". Il presidente, all' epoca, era Ciampi. Ma Gaber non aveva certo scritto quella canzone come un inno di piazza da ballare con i bimbi sulle spalle. «Le sardine, almeno per ora, sono solo piazza: la piazza di Bologna appunto in trasferta in tutte le piazze d' Italia» dice Andrea Garreffa. E Bifo, il vecchio Franco Berardi, quello dell' Autonomia di quarant' anni fa, si rammarica di non essere andato perché non stava bene: «Loro sono la piazza della cortesia che sembra un ossimoro». Ma forse la piazza pacifica è solo un inedito italiano. «Per questo sono eroi, esteticamente ed eticamente. Politicamente non sono nulla, ma è buffo vedere come li sta corteggiando il Pd e quella sinistra che ha prodotto il loro disagio, il loro spaesamento». Stefano Bonaccini, governatore uscente, ricandidato del Pd alle prossime regionali di gennaio trattiene il respiro perché spera che ogni sardina diventi un voto per sé e il suo partito. Dice Bifo: «Corteggia le sue vittime». E il direttore del Mulino, Bruno Simili: «Immagino che tra le sardine ci siano molti fuori sede che dunque non voteranno a Bologna. Ma, comunque, non credo che quella piazza sia del Pd. Certo, è contro Salvini e, dovendo votare». Bonaccini fa la sua campagna elettorale: «Sono giovani in cerca di un' alternativa alla destra di Salvini. Io offro un' alternativa e dunque legittimamente aspiro a rappresentarli elettoralmente. E sono contento che Mattia abbia detto che verrà ad ascoltarmi il 7 di dicembre in piazza Maggiore». Mattia conferma: «Andrò ad ascoltarlo ma perché mi piace stare nelle piazze e non perché prendo la tessera del Pd». Con Andrea Garreffa ci diciamo che la piazza delle sardine è quella di Umberto Saba che appunto a Bologna - , la sua era piazza Aldrovandi - scoprì il disperato amore per la vita, la piazza "dell' allegra ragazzaglia" dove le sardine che "gonfian le gote in fior di gioventù" sono la fraternità ritrovata, «la piazza bambina » dice ancora Andrea, come "la calda vita di tutti". «Ecco il verso finale di Saba: "E tu sei tutta in questa piazza, Italia"». Eppure Bologna, che li ha fatti nascere, ora rischia di soffocarli d' amore. È bizzarro che piacciano così tanto a tutti, anche a quelli che non si piacciono tra loro («li adoro» è il verbo più usato): si va dal vecchio blasonato cavaliere Gazzoni, quello della squadra del Bologna e dell' Idrolitina, che li vorrebbe «come figli», al cardinale Zuppi che in quella piazza vede l' amore che la domenica non vede più in chiesa, a Flavia Prodi e a Stefano Bonaga che a Bologna è la simpatia di sinistra («sfigato ma allegro»). Bonaga ha suggerito alle sardine di contrapporre alla Democrazia (potere del popolo) l' Isocrazia (potere degli uguali). «Sai cosa mi hanno risposto? Che usare così il greco sarebbe roba da fighetti di sinistra ». Ma Bonaga li capisce perché ci vede la leggerezza della Bologna anti-accademica, la satira politica di Andrea Pazienza, e c' è lo spiritello tondelliano, del Dams di Umberto Eco, di Gianni Celati, il fumetto, l' underground, il cinema, la forza dell' autoironia: «pensate alle "legioni" di Forza nuova e CasaPound a destra e ai "banchi" di sardine della sinistra ». E c' è pure, nel laboratorio delle sardine, la creatività dell' architettura ecosostenibile di Mario Cucinella che, genovese, ha scelto Bologna per lavorare e per vivere, «e con la fierezza di abitare in periferia, alla Bolognina». E infatti era anche lui in piazza con la sardine, anche lui entusiasta, anche a lui a disegnare pesci. Bifo, che purtroppo non sta bene e forse per questo è un po' cupo, dice che «per un giovane di oggi ci sono solo due possibilità: o fare la sardina, obbligando se stesso a sperare, oppure fare come il protagonista del film "Cafarnao", che va alla polizia e denunzia i propri genitori per averlo messo al mondo».

Da liberoquotidiano.it il 2 dicembre 2019. Da Fabio Fazio a Che tempo che fa su Rai 2, nella puntata di domenica 1 dicembre, il super-ospite trattato con la consueta reverenza è Mattia Santori, il leader delle sardine, il movimento nato solo ed esclusivamente per dire, in piazza, che Matteo Salvini è tutto il male del mondo. E mister sardina, che alle supercazzole ci ha da tempo abituato, non si smentisce. Inizia, ammettiamolo, straparlando, ed ergendo il suo movimento "a nemico numero uno del populismo di destra". Per la precisione, Santori afferma: "Il messaggio potente è stato proprio questo: con una semplice sardina siamo diventati il nemico numero uno del populismo di destra, non solo in Italia ma anche in Europa. Lo si vede da quanto siamo attaccati sul web". Dunque Fazio lo "incalza", chiedendogli: "Ma tu sapresti per chi votare alle politiche?". E il sardina supercazzola alla grandissima: "L'elettore ha il dovere di informarsi. Forse negli ultimi tempi siamo stati troppo a casa a criticare: se la politica non ha meriti non ha mai demeriti. Qualcosa va riconosciuto alla politica". Boh. Altro passaggio saliente dell'intervista, come potete vedere nel video qui sotto, è quando il conduttore chiede: "Se ti candidassi, immagino che molti ti chiederanno se avete delle posizioni sull'agenda politica attuale". Insomma, Fazio chiede a Santori se hanno delle idee oltre a dire "no-Salvini". Emblematica la risposta: "Oggi a Taranto è stato un banco di prova importante. La sardinata di Taranto era molto a rischio strumentalizzazione ma è stato importante perché senza avere soluzioni abbiamo detto che ci riconosciamo nella complessità della politica. Riconoscere che ci sono problemi complessi che non vengono risolti da slogan come prima gli italiani", conclude. Risposte? Zero. Fabio Fazio? Muto.

Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 19 novembre 2019. L'unica che tace, da un millennio e pure stasera, è la statua della Bonissima che domina alta Piazza Grande. Sotto, no: nel diluvio d' acqua e di folla, fra migliaia d' ombrelli e di sardine, «Mo-de-na-non-si-Lega!» e Bella Ciao, alle 19.06 il secondo flash mob è un altro lampo negli occhi di Matteo Salvini, «senza violenza e senza insulti». Perché queste settemila «sardine» convenute in piazza, e le 13mila sui social, chissà se saranno bonissime come promettono - c'è una delle loro pescioline pilota che, in un post, s' augura un Salvini a testa in giù -, però ci provano a chiedere che «la politica esca dagli imbonitori degli anni 90 e torni a parlare ai cittadini con toni pacati, senza violenze verbali e soprattutto ai cervelli, non alle pance». Mattia, Roberto, Andrea, Giulia tracciano la rotta dei pesci poveri di queste elezioni emiliane e arrivano a Modena dal clamore del megaraduno spontaneo e sorprendente di Bologna, quello che venerdì ha oscurato il comizio del leader leghista: è il primo test per vedere se le «sardine» possono essere banco (di prova) e corrente (politica), nuotare senza finire nelle reti del velleitarismo che già intrappolò i girotondini di Nanni Moretti o i forconi siciliani. Esperimento riuscito: «Eravamo perfetti sconosciuti - gridano i ragazzi fradici e felici sulla Preda Ringadora, l' antico Speakers' corner dei modenesi che arringavano le genti -, guardate cosa siamo riusciti a organizzare in meno d' una settimana! Tutta Europa ci guarda! Salvini, eccoci!». Lo seguono, lo braccano. Prima all' aperto di Bologna, mentre lui parlava in un palazzetto. Ora nella pioggia di Modena, mentre lui cena al ristorante dell' ex campione mondiale Luca Toni. Poi saranno Rimini, Reggio, Piacenza, «ma ci hanno chiamato anche a Genova, a Firenze, a Sorrento, a Palermo». Si chiamano «sardine» perché sanno stare «pigiati anche in quattro in un metro», come stasera sotto i portici. Solidarizzano con Balotelli inseguito dai buuu. Volevano radunarsi nella piazza Mazzini della sinagoga «in omaggio a Liliana Segre». Danno voce al leaderino modenese Jamal Hussein, studente figlio di libanesi, e un po' imbarazzati anche all' altra organizzatrice, Samar Zaoui, famiglia tunisina, la ragazza che sui social invocava la morte per Salvini e ora non sa che replicare («gliel' abbiamo detto, ha sbagliato...»). Ad applaudirli, di tutto: Arrigo Martinelli, 72 anni, «vecchio liberale che votava Berlusconi»; Loretta Tomanin, 60, «io sono del Pd e voglio continuare a vivere in un' Emilia coi servizi che funzionano»; Paolo Del Fine, 25, «infermiere di Reggio che vuol far vedere a Salvini che ospedali abbiamo»; Simone Gennari, 19, «leghista pentito, ho messo la maschera di Putin per chiedere a Salvini dove sono finiti i miei rubli!» «Noi non siamo contro la destra», assicura Mattia Santori, 32, ritto sulla Preda rossastra e lucida: «Ce l' abbiamo coi populisti. Potrei anche diventare consigliere regionale, ma non ho di queste mire. Voglio solo dire alla gente: basta fare soltanto i leoni da tastiera, venite a protestare in piazza».

Dagospia il 4 dicembre 2019. Senaldi: ''A Milano il pieno della piazza, a Taranto poca gente. A Milano la gente sta bene, a Taranto sta male. Non sarà il fatto che siete anti-anti e non avete niente da dire, poi la gente che ha bisogno, non viene in piazza ad ascoltarvi. Santori: ''A Taranto c'ero, non è che sia andata male. Quando ho visto i numeri mi sono stupito ma poi ho scoperto una cosa: la Puglia, Taranto, le comunità che hanno sofferto hanno una difficoltà nel riunirsi, ed è un processo più lungo. Mentre per noi che stiamo bene, e non viviamo ancora la cattiva politica, ci sembra tutto più facile''. Intervenuto nella trasmissione "DiMartedì" in onda su La7, il leader delle "Sardine" Mattia Santori ha precisato quanto detto in una sua precedente intervista, nella quale aveva detto di "aver imparato in breve tempo il lavoro di Salvini": "Si tratta del vecchio lavoro di Salvini, ovvero riempire le piazze abbastanza facilmente". Santori ha poi aggiunto: "Salvini ora riempie stanze, bar e palazzetti dello sport quando va bene. Siamo ancora nella fase iniziale".

Dagospia il 4 dicembre 2019. Il leader del movimento delle Sardine Mattia Santori oggi è stato ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, dando il suo punto di vista sull'attualità politica e non solo. Le piace il linguaggio politico utilizzato da Luigi Di Maio invece? “A Di Maio tutto si può dire tranne che non sia istituzionalmente elegante”. Ieri lo ha incontrato in uno studio tv. Cosa le ha detto il ministro degli Esteri? “Complimenti e buon lavoro”. E cosa ne pensa del premier Giuseppe Conte? “Come figura istituzionale non mi dispiace“. Ha fatto bene Matteo Renzi a lasciare il Pd? “Per me assolutamente no. Anche lui non è che abbia fatto tutto bene...” Tra i suoi avversari, meglio Salvini o Berlusconi? “Berlusconi ha fatto meno danni a livello di tessuto sociale in Italia, aveva un approccio meno divisivo”. Di Salvini apprezza meno il linguaggio o il programma politico? “Il programma politico di Salvini mi sembra non sia mai esistito - ha detto Santori a Rai Radio1 - ha questi tre punti, i soliti tre temi su cui crea consenso”. Di chi altro non apprezza il linguaggio politico? “Di Fratelli d'Italia, con tutta questa propaganda fatta di slogan e trucchetti”. Si ipotizza che le Sardine possano diventare un partito. "Non abbiamo intenzione di fare partiti, c'è già un sacco di gente che lo spera per rifarsi una carriera politica”. Le hanno fatto delle offerte per candidarsi? “Ci hanno fatto capire che potremmo candidarci, non in modo esplicito”. Le Sardine daranno indicazioni di voto per l'Emilia Romagna? “No, non essendo un partito. L'idea è quella di fare una sorta di gruppo di pressione in cui noi presentiamo alle forze politiche non sovraniste i punti che secondo noi hanno fatto si che tante persone si siano avvicinate alle sardine”. Presenterete a Bonaccini una serie di punti, dunque. “Alla coalizione diciamo. Ogni regione avrà il suo modo di dialogare”. Quante persone vi aspettate possano venire alla manifestazione che si terra il 14 dicembre a Roma? “L'evento si chiama 100mila Sardine, quindi almeno centomila. Ma le piazze delle Sardine sono sempre un enigma: finora è andata bene, vediamo”. Vi accusano di non voler dire di esser vicini al Pd. Cosa risponde? “Noi siamo evidentemente vicini al Pd e agli altri partiti di sinistra - ha spiegato Santori a Rai Radio1 - ma non perché lo abbiamo scelto noi”. E per quale motivo? “Perché in piazza ci troviamo tra Arcigay, femministe, antirazzisti e poi anche parte di Pd, della sinistra o di Cinquestelle. E' un fenomeno spontaneo nel quale scopriamo ogni giorno la composizione delle piazze”. Al leader delle Sardine Mattia Santori i pesci diventati manifesto del movimento che ha contribuito a fondare piacciono anche a tavola? Sembra proprio di sì a giudicare da come oggi, a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Santori ha accettato di buon grado di gustare un piatto di sardine che gli è stato offerto dai conduttori Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. “Certo che le sardine mi piacciono, solo che a Bologna non si mangia molto pesce. Anzi, se mi avvertivate prima evitavo di pranzare”, ha spiegato Santori a Rai Radio1. Pranzo inaspettato a parte, Santori ha raccontato molti aspetti della sua vita poco noti, a partire dal singolare soprannome con cui lo chiamano i suoi amici più stretti: “nel mondo del frisbee, di cui faccio parte, mi chiamano Bambaz”. Da quando è diventato famoso ha più successo con l'altro sesso? “Vado forte nella categoria 'over 50', che vogliono farsi dei selfie. Ma io sono fidanzato da quattro anni, la mia ragazza è una sardina della prima ora”. E la sua compagna è felice della sua notorietà? “Forse ha passato momenti migliori, perché abbiamo meno tempo da passare insieme”. Lei sembra il classico bravo ragazzo: le sarà capitato anche di fare qualcosa non proprio in linea con questa immagine...”Diciamo che non amo molto fermarmi col rosso in moto, ho l'insofferenza al tempo perso”. Si spieghi meglio. “Se c'è un semaforo inutile, pedonale, non passa nessuno e non do fastidio a nessuno...” Si è mai ubriacato? “Reggo bene l'alcol”. Qual è il suo record di mojito? “Due o tre”, ha detto Santori a Rai Radio1.

L’endorsement di Monti  alle sardine: «Sono interessanti. Anch’io  in piazza? Perché no». Pubblicato venerdì, 06 dicembre 2019 da Corriere.it. Anche alla Darsena di Ravenna nel tardo pomeriggio di giovedì le Sardine hanno fatto il pieno richiamando 7 mila persone (secondo gli organizzatori). Un flash mob che la sera prima era stato salutato con favore dalla cantautrice americana Patti Smith, presentatasi al teatro Alighieri con una sardina di carta attaccata alla giacca: «Saluto l’Italia, saluto le Sardine». Ma sempre giovedì, mentre il movimento nato da quattro ragazzi bolognesi e poi esportato in tante altre città (da Modena a Milano), richiamava ad Ancona poco meno di 3 mila persone, un endorsement è arrivato dal senatore a vita ed ex premier Mario Monti dallo studio di Agorà (Rai3): «Le guardo con molto interesse, queste Sardine. Mi sembra che stiano dando gambe e voce ad esigenze molto elementari di una società che però nella politica italiana sono state abbastanza dimenticate, cioè che si ragioni e si parli delle cose in modo pacato, che chi governa se possibile non sia totalmente privo di competenze. Sono punti un po’ dimenticati, è un po’ paradossale che occorra andare nelle piazze per farli valere». E alla domanda se scenderebbe in piazza con loro una risposta sorprendente? «Perché no». Le parole di Monti sono il segno di una nuova fase nell’esperienza del «popolo delle sardine». In un primo momento, subito dopo il debutto a Bologna (il 14 novembre) e nelle tappe immediatamente successive, c’è stata una grande attenzione da parte di esponenti politici a non invadere il campo e a non mettere il cappello sull’iniziativa dei giovani. Poi, man mano che le piazze piene si sono moltiplicate (da Genova a Milano, in attesa dell’appuntamento più importante, quello del 14 dicembre a Roma), sono spuntati i cosiddetti endorsement. Il primo a spendere apprezzamenti positivi e a dare sostegno alle Sardine è stato l'ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Un incoraggiamento ad andare avanti è arrivato anche dall’ex ministro Elsa Fornero. E poi sono scesi in campo anche personaggi provenienti da alteri mondi. Come Roberto Saviano (salito sul palco a Milano) e Patti Smith. 

Sardine apolitiche? Mica tanto: cosa spunta nel loro passato. Quel lega indissolubile con Carola Rackete. Libero Quotidiano il 7 Dicembre 2019. Le sardine spopolano tra i ben pensanti. L'ultimo a scendere in campo in favore del movimento ittico anti-Salvini è l'attore Robert De Niro, noto ai più per le sue posizioni "democratiche" contro Trump. Lo statunitense con cittadinanza italiana ha infatti condiviso sul suo profilo Twitter le immagini della mobilitazione dei pesciolini a Treviso cinguettando vittorioso: "Il movimento di protesta contro l'estrema destra sta crescendo". Un endorsement, quello di De Niro, a cui fa eco l'asse Ong. Primi fra tutti i vertici della Sea Watch Italy che hanno ringraziato il movimento del front-man Mattia Santori per aver fatto girare un video - come spiega Il Giornale - in cui i sardini dedicano la manifestazione di Milano alla loro eroina prediletta: Carola Rackete. Un legame indissolubile tra la capitana e i pesciolini insomma, provato - sempre secondo il quotidiano di Sallusti - dalla raccolta fondi che lo scorso giugno Fabio Cavallo, un noto "un attivista della Rete nazionale antifascista" (sostenitrice della mobilitazione), ha  indetto in favore della speronatrice tedesca. Tra i sostenitori, è quasi ovvio dirlo, ci sono anche i partigiani dell'Anpi e, niente di meno che Liam Cunningham, attore del Trono di spade, che ha condiviso un video delle sardine a Modena. Il commento in inglese non lascia dubbi: "Incredibile. Migliaia di antifascisti in Italia, che cantano l'inno dei partigiani Bella ciao". Peccato però che poi l'attore buonista si lasci andare e a chi si oppone alla sua idea risponde: "Va a farti fottere". 

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 6 dicembre 2019. Non è facile per nessuno e capisco che neppure Mattia sia riuscito a resistere allo spirito di patata di Un giorno da pecora . Egregiamente provocato dalla coppia malandrina Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, ha per esempio trasformato la propria fidanzata in un quiz sul suo nome palindromo: Ada, Anna, Ava oppure Otto? Anche quando l' ho sentito e visto compiacersi di attirare «soprattutto le over cinquanta» ho pensato che un bel ragazzo ha diritto all' ironia e che, magari, forse, chissà, può anche permettersi di dire: «Vabbé, me le scrollo di dosso». E però Mattia Santori ha pure mangiato in diretta un piatto di sardine al limone, e passi anche questa banalità della sardina che si nutre di sardine. Ma poi mi è venuto in mente Gian Maria Volonté e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (chissà se Mattia l' ha visto) quando ha confessato il vizietto di passare col rosso con il motorino, sardina al di sopra di ogni sospetto. E va bene che tutti noi adoriamo almeno un po' le bricconate, ma le sardine sono il contrario dell' Italia che passa col rosso, che è la stessa che salta le code e parcheggia in seconda fila. Le sardine sono uno stile, una voglia di misura, di un senno, la necessità di una regola d' eleganza in un Paese che ha elevato a pedagogia il fregare il prossimo. L'Italia dei "meglio furbi che virtuosi" è quella della prepotenza e non della solidarietà. Insomma non è l' Italia delle sardine. Ho conosciuto Mattia Santori e garantisco che è migliore della tv che frequenta e che ovviamente mira al Sottosopra in nome dell' audience, e dunque "stracambia" Maradona in Freccero e Oliviero Toscani in Alba Parietti, e trita alla stessa maniera Cacciari e Celentano: l' indifferenziato televisivo. Ecco, Mattia non si perde una trasmissione, da Piazza Pulita a Floris, da Daria Bignardi a Lilly Gruber, sta sempre lì a fare il marziano. Dico la verità: mi capita, quando lo vedo, di imbarazzarmi per lui. Anche perché sono sicuro che le altre tre sardine - Andrea Garreffa che è la testa, Roberto Morotti che è la coscienza, e Giulia Trappoloni che è il cuore - sanno bene che il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso e che il marziano, a furia di essere intervistato, finì ubriaco in via Veneto dietro ai paparazzi che non gli andavano più dietro. Mattia una volta rivela che lo chiamano Bambaz, un' altra dice d' essere iperattivo mentalmente, e intanto si tira su i capelli e consuma se stesso e la sua estraneità. Così rischia di diventare il Pisanello-Benigni di Woody Allen "il signor qualsiasi a Roma", famoso solo perché era venuto il suo momento di diventare famoso. E bisogna strizzare gli occhi per non vedere l' essenziale: le sardine che sono acefale e vogliono restare senza capo, le sardine che sono il contrario dei signori qualunque della tv, rischiano di trasformare la bella faccia di Mattia, che giustamente hanno scelto a rappresentare tutte le loro belle facce pulite, in quella dell' ultimo allampanato dal successo. Il suo volto ingenuo e allegro si sta estenuando nel farsi ordinario, famoso perché non ci sarà niente di lui che si farà ricordare e perché la troppa televisione cambia i connotati di tutti, anche delle sardine. Ecco, sicuramente Mattia ha letto Great Expectations di Dickens, che i ragazzi inglesi studiano a scuola più o meno come noi studiamo I promessi sposi . Dunque sa che fu la vanità a bruciare Le grandi speranze e a perdere Pip, il bello, generoso e inizialmente superfortunato protagonista, palindromo.

Mattia Santori a DiMartedì: "Fare la sardina è un lavoro duro". Siamo a livello guru: dove si spinge da Floris. Libero Quotidiano il 4 Dicembre 2019. Fare la sardina "è un lavoro duro". Ormai Mattia Santori si è talmente calato nella parte del guru rivoluzionario da attingere alla filosofia e alla psicanalisi per spiegare il suo "mandato politico". Ospite ormai fisso dei talk tv, che da lui aspettano di ascoltare "il Verbo" del nuovo progressismo, il 31enne bolognese che ha dato il via al movimento sul Crescentone di Piazza Maggiore nel salotto di DiMartedì, da Giovanni Floris, non si sottrae al compito: "La partecipazione è un buon segnale, arriveremo a mezzo milione in un mese. Siamo riusciti a dare voce all'insofferenza delle persone", spiega soddisfatto. Il segreto? "Le pance sono piene di slogan - pontifica citando indirettamente Matteo Salvini e Giorgia Meloni, i "nemici" sovranisti -, noi puntiamo ai cervelli". Per questo, giura, è molto più difficile. 

Fermate il fermento ittico delle sardine. Dopo Ulivo, Margherita e Rosa nel pugno ora spopolano le "Sardine". Forse perché la politica non sa più che pesci pigliare. Panorama il 6 dicembre 2019. Riceviamo e volentieri pubblichiamo. Caro Grillo, sono una sardina. Anzi: caro Grillo parlante, sono una sardina parlante. E lo so che detta così sembra una presa in giro, ma ti garantisco che non lo è: sono una sardina vera, una di quelle che nuota nel mare, non nelle piazze. Che si bagna con le onde, non sotto la pioggia dell’Emilia. E se proprio deve entrare nel menù, beh, allora meglio quello del ristorante che quello dei talk show. Ho deciso di far sentire la mia voce, mettendo la testa fuori dall’acqua perché ti dirò che non ne posso già più di essere tirata in ballo in ogni discussione e in ogni titolo di giornale. Le sardine di qui, le sardine di là, le sardine a Bologna, le sardine a Modena, le sardine in tutt’Italia. Per carità: io sono abituata a finire in bocca tutti. Ma con il saor veneziano o con la pasta palermitana, ripiena di ortaggi come in Liguria, marinata o a beccafico. E per quanto strano ti possa sembrare mi sento più a mio agio se vengo cucinata da un cuoco che da un dibattito politico. Qualsiasi ricetta è meglio che finire rosolata a Porta a Porta o ad Agorà. Per cui, abbi  pazienza caro Grillo, ma voglio approfittare della tua solidarietà zoologica per mandare un messaggio ai miei consimili dalle sembianze umane che hanno fatto irruzione sulla scena politica: giù le mani dalla sardina. Io amo essere schiacciata, lo so, mi piace stare stretta stretta con altre sardine. Ma sotto sale. Non sotto i riflettori. Amo il riserbo. E ho una mia dignità, una mia storia. Non mi piace essere sventolata qui e là, contro questo o contro quello, non mi piace essere tirata in mezzo a liti e polemiche, su Twitter o su Facebook. Ho un Orgoglio Sardino da difendere: se devo farmi maciullare, meglio una sana e vecchia pescheria che er dibattito con gli onorevoli in tv. Che poi, dico io: perché prendersela proprio con me? Lo so che in politica va di moda il pesce (molto spesso pesce lesso, per altro). Sarà l’abitudine che hanno a prenderci all’amo, ma c’è da sempre un gran fermento ittico nella vita pubblica del Paese. In principio fu la Balena bianca, poi vennero i troppi delfini (spiaggiati), di poi comparve il Trota (sventurato), infine c’è stata la stagione del tonno in scatola (che si voleva aprire come il Parlamento), di squali e pescecani ce ne sono sempre stati in abbondanza, e adesso ecco che sono comparse le sardine, seppur con sembianze umane e dal vago sapore di mortadella prodiana. Nemmeno all’Osteria del Mare s’è mai vista un’offerta così. Con tanta abbondanza di esemplari di ogni tipo, compresi ovviamente pesci palla e pesci sega, che anche quelli non mancano mai. Ma ora dico: perché ora accanirsi così con noi sardine?  Te lo chiedo, caro Grillo, in nome di un destino comune, in fondo tutti e due siamo parlanti e tutti e due finiremo un po’ schiacciati. Ma che cosa abbiamo fatto noi sardine per meritarci questo strapazzo mediatico? Non bastava finire, come è sempre successo, da generazioni e generazioni, arrostite o fritte, magari alla sagra delle sardine di Treviso? Perché ci doveva toccare questa dura prova? Perché ci è toccato essere rosolati da Omnibus e da Tagadà? Ah, i bei tempi in cui i politici si accanivano sulle piante. Lo ricordi, caro Grillo? Ulivo, Margherita, Girasole, Rosa nel Pugno, impazziva la botanica politica, ogni partito si faceva cespuglio o fiorellino di campo. E noi ce ne stavamo tranquilli a nuotare nel nostro mare, ignorati dai più. Invece niente, adesso è esplosa la passione politica per l’ittica. Chi dorme non piglia pesci, sembrano voler dire l’uno all’altro. Ma se proprio dovevano pigliare pesci, non potevano accanirsi sulle cernie per esempio? O sulle spigole? O sugli sgombri? E perché non un pesce d’acqua dolce? Una tinca? Una carpa? Un luccio? O perché non puntare a ribaltare qualche antico pregiudizio? Per esempio, perché non rivalutare gli scorfani? O le anguille? Ecco: mi dicono che sia appena uscito un bel libro (Nel segno dell’anguilla di Patrick Svensonn) in cui si rivaluta la storia delle anguille citando nientemeno che Aristotele, Freud e Montale. Se lo leggete magari vi convertite all’anguilissimo politico (che per altro può vantare già alcuni fulgidi esempi) e lasciate in pace noi povere sardine, che siamo sempre state dei pesci semplici, umili, poco abituati al caos mediatico, più  propensi alla padella della cucina che alle luci della ribalta. Nel caso poteste farci questo favore, ve ne saremmo grati. Tu, Grillo, se puoi intercedi per noi. E per il resto, acqua in bocca, naturalmente. Firmato: La Sardina Parlante.  

"Str..., vediamo se sai volare": le sardine vogliono Salvini morto. Il manifesto, portato da uno dei rimostranti in piazza, ha acceso il dibattito. L'ex vicepremier commenta con sarcasmo: "Ah, la democrazia, quella bella...! Al loro odio risponderemo con il sorriso e la forza delle idee". Federico Garau, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. Le sardine, gli oramai celeberrimi pesciolini perennemente irritati nei confronti del leader della Lega Matteo Salvini, continuano con le loro rimostranze (poco) pacifiche. L'ultimo episodio si è verificato durante la manifestazione svoltasi a Castelnovo Monti (in provincia di Reggio Emilia) la scorsa domenica 1 dicembre. "Ti offriamo un volo gratis dalla Pietra di Bismantova. Vediamo se sei uno stronzo che sa volare o sai solo galleggiare", recita il messaggio portato con orgoglio sul petto in piazza Peretti da uno dei partecipanti. È lo stesso leader del Carroccio a postare l'immagine, che ha fatto in breve il giro dei principali social network, sul proprio profilo Twitter."Simpatico pesciolone-sandwich che oggi sull’Appennino reggiano mi invita a buttarmi dalla Pietra di Bismantova (famosa, mi hanno detto, per i suicidi) con un amorevole messaggio ", commenta con sarcasmo l'ex ministro dell'Interno, che poi in calce aggiunge un'ulteriore considerazione personale. "Ah, la democrazia, quella bella...! Al loro odio risponderemo con il sorriso e la forza delle idee, e risponderanno i cittadini emiliani e romagnoli il 26 gennaio", con riferimento alle prossime elezioni regionali. Numerosi i commenti alla foto postata da Salvini. Si va da un "Il vecchio è riuscito a scappare dal controllo della badante”, fino ad un “Impossibile! Le sardine non odiano vero? Sinistrati ipocriti del cavolo, non cambieranno mai”. Amara la riflessione di un'altra utente, che aggiunge: “Fa bene ad evidenziare tutto l'amore antifascista, di questa sinistra che non solo ha distrutto un Paese, ma utilizza menti instabili per creare violenza e continuare a devastare il Paese!”. L'affondo arriva anche dal capogruppo della Lega in comune Matteo Melato: “Sappiamo che in realtà sono persone di estrema sinistra o dei centri sociali che vogliono insultare Salvini. I veri odiatori sono loro. Episodi come questo capiteranno di nuovo”, denuncia. “La Pietra è stato luogo di molti suicidi. Quell’insulto risulta peraltro sgradevole, perché richiama alla mente fatti tragici”, aggiunge ancora Melato, che rivendica il successo sulle sardine in quanto a presenze in piazza. Secondo i dati proposti da “Il Resto del Carlino”, 800 partecipanti contro 400. “Soddisfatto. Abbiamo raccolto un migliaio di persone”, dice il capogruppo del Carroccio, “Nel confronto tra le due piazze abbiamo vinto”, conclude. Tra gli organizzatori delle sardine c'è chi prende le distanze dal cartello, come uno dei promotori, il 29enne Matteo Merlini. "I contenuti di quel manifesto non sono condivisibili e vanno scoraggiati, perché sono in antitesi rispetto ai contenuti proposti dalle sardine", si difende. "Non appena abbiamo letto quel cartello, ci siamo rivolti a chi lo reggeva per dirgli che quel messaggio non era in linea con la visione delle sardine. Noi siamo scesi in piazza proprio contro queste cose, perché vogliamo distinguerci dagli altri", conclude. 

Il Cnr attacca Salvini e Meloni: "Piacciono solo agli analfabeti". Il dirigente del Cnr all'offensiva: "Entrambi parlano a chi non ha sufficienti strumenti cognitivi e morali". Poi attacca: "Chi vota Lega in Emilia è autolesionista". Luca Sablone, Martedì 03/12/2019 su Il Giornale. Gilberto Corbellini va duramente all'attacco nei confronti di Giorgia Meloni e Matteo Salvini: "Entrambi parlano all’uomo basico, cioè alle persone che non hanno sviluppato sufficienti strumenti cognitivi e morali per tenere sotto controllo le proprie pulsioni più innate". Citando dati dell'Ocse sul livello di alfabetizzazione degli adulti nel mondo occidentale, secondo cui l'Italia è all'ultimo posto, ha aggiunto: "Salvini e Meloni parlano in maniera talmente chiara che riescono a farsi capire anche da loro. Mentre, invece, un politico come Zingaretti risulta per queste persone troppo complesso, oscuro". Non priverebbe del diritto di voto gli analfabeti, ma ha voluto precisare: "Oggi la parola democrazia è diventata un sinonimo della parola maggioranza, come se le due cose fossero identiche. Invece, non è così. La democrazia si regge due principi: uno è quello del voto, l’altro è lo stato di diritto". A suo giudizio la maggioranza "non ha sempre ragione". Anzi, potrebbe anche essere composta "da una quantità enorme di persone che intende distruggere tutti i limiti che le istituzioni pongono all’esercizio del loro potere". Perciò la Costituzione ha il ruolo di "impedire che il popolo faccia danni alla convivenza civile". Non è mancata neanche un'offensiva verso i populisti: "È un principio che loro trascurano, tendendo a dimenticare che, prima di ogni cosa, tutti siamo sottoposti alla legge, in uno stato di diritto. Anche il popolo".

"Voto agli anziani? Nì". In un'intervista rilasciata all'Huffingtonpost, il dirigente del Cnr ha accusato gli anziani di soffrire di passatismo, ovvero pensare che ogni cosa che c'era ieri era meglio di ciò che c'è oggi: "Sono le persone più predisposte a credere che le cose a cui essi sono affezionati hanno maggiore valore. Perciò, tendono a considerare le innovazioni del mondo contemporaneo come degenerazioni. Guardano i cambiamenti con sospetto". E ha strizzato l'occhio a Beppe Grillo, che qualche tempo fa aveva proposto - in maniera provocatoria - di togliere il diritto di voto agli anziani: "Penso che in questo caso abbia ragione, almeno in parte. Su alcune cose che riguardano il futuro, noi anziani – mi ci metto dentro pure io, che ho sessantadue anni – non dovremmo influenzare decisioni che non capiamo".

Emilia-Romagna. Il professore di storia della medicina ha parlato delle elezioni Regionali in Emilia-Romagna che si terranno domenica 26 gennaio 2020: "Gli emiliani non possono dirsi in nessuno modo insoddisfatti dal modo in cui ha governato Stefano Bonaccini. Hanno un sistema sanitario eccellente. Un sistema scolastico ottimo. Delle infrastrutture che funzionano bene". E perciò ha sferrato un durissimo attacco verso gli elettori del Carroccio: "Se gli emiliani voteranno per la Lega dimostreranno di essere dei campioni di autolesionismo". Corbellini infine ha dato un consiglio alle sardine, il movimento che fa proseliti soprattutto nelle città: "L'Emilia-Romagna è fatta anche di campagna, la campagna in cui sono nato e cresciuto, e dove credo che il messaggio di Salvini sarà molto più ascoltato che in città. Nelle campagna c’è una insoddisfazione dovuta a una stagnazione sociale". E perciò l'obiettivo è uno solo: "Occhio, sardine. Salvini non prenderà mai Bologna. Il problema è non fargli prendere tutto il resto".

L’odio sinistro. Augusto Bassi il 7 dicembre 2019 su Il Giornale. Ieri ho scelto l’ironia per fotografare il reale, oggi userò la fotografia per ironizzare sulla realtà. Il dibattito pubblico italiano è così composto: da una parte i sovranisti psichici, populisti, razzisti, sessisti, omofobi, xenofobi, antisemiti, islamofobi, leghisti… che odiano, o così pare. Dall’altra i progressisti, i pacifisti, gli antifascisti, i democratici, i tolleranti, i più umani, le anime belle… in missione contro l’odio degli odiatori. E quest’ultimi come manifestano la propria superiore natura e cultura, come prendono le distanze dall’inciviltà degli odiatori? Abbracciandoli, dirozzandoli, integrandoli? No. Odiandoli. Misurano la propria estraneità all’odio odiando i sovranisti psichici, i populisti, i razzisti, i sessisti, gli omofobi, gli xenofobi, gli antisemiti, gli islamofobi, i leghisti tutti… con vauro livore e afrore, con la scialorrea agli occhi, con il pepe all’ano. Quindi, sfogata la violenza repressa dei pavidi contro la vittima sacrificale, l’abietto, l’inferiore, il dago destrorso, schiacciato il diversamente ascoltabile come un insetto fastidioso, messe le campane al collo del populista come si faceva con gli ebrei, segregato il subumano leghista come si usava con i negri… i progressisti, i pacifisti, gli antifascisti, i democratici, i tolleranti, i più umani, le anime belle… iniziano a cacare il fallo sulle note di Bella ciao nelle piazze, nei teatri, alla radio, sui giornali, al cinema, in televisione, sui social… manifestando contro l’odio. E proprio per questo non possiamo fare a meno di amarli. In definitiva, l’odio nei confronti dell’odio mi pare veramente odioso. Fosse per me, lascerei amare e odiare in santa pace. Tanto più che amore e odio sono sentimenti involontari e reciprocamente necessari. Chi non lo comprende è stupido e io odio la stupidità, quantunque gli stupidi siano così amabili. A tal proposito e in conclusione, giova riportare un dialogo tratto da “Il maestro e Margherita” di Michail Bulgakov, fra il Satanasso e il fariseo, la cui potenza è imperitura e universale, benché il sovranista e sessista autentico si sceglierebbe una fidanzata madrelingua per farselo leggere in russo, dopo averla intiepidita con un po’ di latin love:

– Toh! – esclamò Woland, guardando il nuovo venuto con aria di scherno. – Sei proprio l’uomo che mi sarei aspettato di vedere qui! A che cosa dobbiamo l’onore della tua visita, ospite non invitato?

– Son venuto da te, spirito del male e signore delle ombre – rispose il nuovo venuto guardando Woland di sottecchi, con ostilità.

– Se vieni da me, perché non mi hai salutato, ex pubblicano? – disse severo Woland.

– Perché non voglio che tu goda salute – rispose l’altro insolentemente.

– Eppure dovrai metterti l’animo in pace, – replicò Woland, e un sorriso beffardo distorse la sua bocca. Non hai fatto in tempo a comparire sul tetto che hai già detto una sciocchezza, e ti dirò io in cosa consiste: nel tuo tono. Hai pronunciato le tue parole come se tu non riconoscessi l’esistenza delle ombre, e neppure del male. Non vorresti avere la bontà di riflettere sulla questione: che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose. Ecco l’ombra della mia spada. Ma ci sono le ombre degli alberi e degli esseri viventi. Vuoi forse scorticare tutto il globo terrestre, portandogli via tutti gli alberi e tutto quanto c’è di vivo per il tuo capriccio di goderti la luce nuda? Sei stupido.

– Non intendo discutere con te, vecchio sofista. – rispose Levi Matteo.

– Non puoi neanche discutere con me per il motivo che ho già detto: sei stupido.

Integrare il leghista con Mattia. Augusto Bassi il 6 dicembre 2019. Finalmente!  L’attesa è stata lunga, ma ci siamo. Oggi, grazie al movimento spontaneo delle Sardine, sono certo che il mio appello dell’agosto 2017 verrà finalmente ascoltato. Le spontanee parole di Mattia Santori da Lilli Gruber hanno colpito nel segno e con viva spontaneità: «Vogliamo lavorare sul concetto di integrazione… e non solo fra immigrati e italiani, ma un’integrazione completa: adulti, giovani, anziani, gente bianca, gente di colore, omosessuali, eterosessuali. Il bello delle nostre piazze è che c’è un’integrazione». Bravi ragazzi! Adesso dovete spingervi oltre, osare dove nessuno ha osato prima: dovete integrare il leghista. Facile integrare un estroverso omosessuale pugliese da gay pride con un gioviale islamista da sharia! Quelli si capiscono al volo e così son capaci tutti, raga! E’ integrare il leghista, la vera sfida. Basta slogan carichi di esclusione tipici della sinistra tradizionale come “l’Emilia non si lega”, “Roma non si lega”, “La Sicilia non si lega”, “Salerno non si lega”, “Torino non si lega”, “Cuneo non si lega”, “Paderno Dugnano non si lega”, “Non abbocchiamo all’amo del Capitano”, “I buoni vincono, i leghisti sucano”: con voi ci emanciperemo da questo linguaggio discriminatorio e vivremo nell’Italia dell’inclusione. Dove non c’è integrazione, dove si semina discriminazione, ebbene in quel luogo l’odio deflagrerà e voi lo sapete. Nelle ore immediatamente successive all’ennesima inumana mattanza che ha colpito Londra e l’Europa, la sinistra italiana si è interrogata su come agire per arginare questa crescente ondata di violenza. L’unica cosa perfettamente chiara e unanimemente accettata è l’identità del responsabile: Matteo Salvini. Quando si ha un nemico così feroce sotto tiro, e si è nelle condizioni di sparare, lo sdegno ferito suggerirebbe di far fuoco. Ma così operando – benché i sentimenti di rappresaglia siano hélas comprensibili – si rischierebbe di fare il gioco degli estremisti: mai rispondere all’intolleranza con l’intolleranza. Le volgari reazioni di pancia, i rabbiosi anatemi scagliati contro Salvini e i suoi militanti, queste pubbliche gogne dove imprigionare i sicari del razzismo… non riporteranno in vita le vittime del terrore e soprattutto mostrano di ignorare le sfumature di una dottrina tutt’altro che monolitica. Non tutti i leghisti sono infatti fondamentalisti; esiste anche un leghista moderato. La valanga di barbarie che invade il continente non nasce dall’anima autentica della Lega, che professa al contrario un credo di pace, e lo sciacallaggio indiscriminato che brandisce la falsa equazione leghista=terrorista rischia di colpire anche tantissime persone per bene. Gente che vive rispettando le nostre stesse leggi, i cui figli compitano con i nostri e tifano per le stesse squadre di calcio. Bambini che magari rincorrono un pallone indossando la maglietta di Francesco Totti, ancestrale simbolo di quella Roma ladrona che, nell’immaginario dei mistificatori, i padani sarebbero pronti a conquistare. Colpa precipua di questa confusione ideologica è dell’irsuto leader degli estremisti, che da anni sta instillando rancore nelle menti più deboli, magari nel cuore di emarginati ragazzi di provincia che non hanno un lavoro fisso e vivono alla periferia delle nostre società, portati a odiare gli agi di noi ricchi borghesi, a detestare i nostri cestini di vimini ecofriendly da déjeuner sur l’herbe, i casolari toscani dove degustiamo introverse etichette bio ascoltando brani di indie rock educatamente tribale; questi poveri sempliciotti – cui è stato fatto il lavaggio del cervello da manipolatori senza scrupoli – sono stati costretti a disprezzare la nostra servitù africana di Provenza e a travisare gli epigrammi di Corrado Augias che amiamo sorseggiare sui prendisole di un 130 piedi dalla spiccata marinità. Ma anche in loro risiedono quelle energie fresche che in futuro pagheranno le nostre pensioni! Per salvare anime così drammaticamente vacillanti possiamo contare su vive forze moderate, che grazie a figure carismatiche come Luca Zaia stanno lottando per imporre un paradigma alternativo. Compito della sinistra engagé è quello di aiutarli a isolare i fanatici senza cadere nelle più meschine generalizzazioni. Si solleveranno esitazioni, già le prefiguro. C’è chi si appellerà alla Repubblica minore, quella di Platone, che affermava: «Quando il cittadino accetta che chiunque gli capiti in casa possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e c’è nato; quando i capi tollerano per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine, così muore la democrazia: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo». Ma qui non aiuta rimestare i deliri di 2.500 anni fa; l’umanità è progredita e oggi capiamo quanto la democrazia abbia solo bisogno di più democrazia e che saranno proprio quei lumbard che ora guardiamo con sospetto e che vorremmo scacciare dai nostri openspace a costruire le case di domani, impegnandosi in lavori di falegnameria, muratura, tramezzatura e idraulica; senza dimenticare la grande tradizione di lattoneria edile connaturata a quelle genti. Imperativo categorico è non cedere alla strategia della paura: alzare muri culturali è un rischio da non rischiare. Serve più integrazione, come dice Mattia, qui risiede la chiave. Solo accogliendo il leghista – culturalmente prima ancora che economicamente – possiamo disinnescare le radicalizzazioni. Ius soli e ius culturae sono conquiste della civiltà di cui anche loro un giorno beneficeranno, superando le aberrazioni etnocentriche dello ius sanguinis. C’è un Carroccio fermo alla secessione, all’etnonazionalismo, all’euroscetticismo, all’indipendentismo padano, è vero, ma è numericamente irrilevante rispetto alle correnti organizzate che credono nell’Europa. Non esiste solo la Lega primitiva, quella lombarda, determinata alla guerra contro il terun; ridurla a questo significa semplificarne grossolanamente la fisionomia, come talvolta fanno finanche personalità del calibro di Marco Damilano e Ivan Scalfarotto. Silenziosa ma ben più numerosa è la Lega dei popoli, che ha da tempo rinnegato il “Nord” a favore di un luogo di incontro senza più coordinate, confini o bandiere, dove sono fiorite primavere di tolleranza interregionale. Alla domanda su come sia possibile che alcuni leghisti – cresciuti nelle nostre città, fra di noi – abbiano osato tali atrocità, come suggerivo in precedenza si può rispondere solo mettendo in discussione il nostro farraginoso modello di integrazione. Accogliere il leghista con maggior slancio, inserire i più giovani nel tessuto connettivo della realtà sociale, non cedere alla carrocciofobia, respingere fermamente ogni discriminazione: questo è il formulario per estirpare l’odio, al fine di edificare un’Europa più allegra, più accogliente, più solidale, più non-violenta, più antifascista; come una piazza stracolma di Sardine.

Red Ronnie a Stasera Italia contro le Sardine e Bella Ciao: "L'invasore chi è, Matteo Salvini o l'Europa?" Libero Quotidiano l'8 Dicembre 2019. Parole che strappano un sorriso a Matteo Salvini. Parole di Red Ronnie a Stasera Italia, il programma di Rete 4, rilanciate sui social proprio dal leader della Lega, di fatto difeso a spada tratta dal cantante. Barbara Palombelli chiede a Red Ronnie: "Ma che tipo è Salvini secondo te?". Lui risponde: "È un istintivo, uno che si dice che raggiunga la pancia perché parla con la pancia. Raramente legge dei discorsi, diffido da chi lo fa". Dunque, Red Ronnie prosegue: "All'inizio del servizio avete fatto sentire la canzone C'è chi dice no di Vasco Rossi, in un servizio in cui elencavate tutti i nemici del leghista. Io ho il disco, e devo mettere un pezzo della canzone: continuano a giudicarlo per il Papeete, perché era a torso nudo, perché beveva il mojito. È un po' come quello che Vasco diceva di se stesso. Gli dicevano: guardate l'animale, è un animale? E Salvini oggi è un po' quell'animale che tutti dicono", afferma. Ma non è finita, perché poi nel mirino di Red Ronnie ci finisce Bella Ciao, tornata in auge nelle piazze delle sardine: "Visto che parliamo di canzoni, vorrei parlare di Bella Ciao. È una canzone che va bene nella Casa di Carta ormai. Ma cantare Bella Ciao, quando si dice: mi sveglio la mattina, è arrivato un invasore. Ma l'invasore chi è? Salvini o qualcuno dell'Europa che ci sta invadendo e ci sta comprando? Io sono un anarchico, però vedo che ci sono molte cose che non stanno andando in questo mondo, c'è qualcuno che non sa più che ore sono", conclude. Intervento, come detto, rilanciato sui social da Salvini col commento: "Fortissimo Red Ronnie, parole di buonsenso!".

Non bastano le piazze. Dite cosa volete fare. Alessandro Sallusti, Sabato 07/12/2019 su Il Giornale. I l giovane Santori, leader del movimento delle Sardine, in un dibattito tv ha detto che io ho «gli occhi foderati di prosciutto», immagino intendendo che non vedo questo fenomeno a suo dire epocale. È vero che qualche problema di vista ce l’ho, ma non al punto da non accorgermi delle sue piazze spesso piene. È che non ho capito che diavolo vuole tutta ’sta gente oltre la morte del Centrodestra, cosa legittima, ma priva di un senso politico, a maggior ragione visto che Salvini, Berlusconi e la Meloni si trovano al momento all’opposizione. Cancellare l’opposizione è una fobia delle dittature che vivono di pensiero unico e di zero dissenso. In democrazia chi non la pensa come te lo si batte alle urne e qui non è chiaro verso quali urne le sardine ci vorrebbero indirizzare. Quelle del Pd? Se così è basta dirlo, ma ancora non lo fanno e un motivo ci sarà. Verso quelle di un nuovo partito ittico? Può essere, ma in tal caso servirebbe una proposta politica chiara sui principali temi economici e sociali che ancora manca. Europa, tasse, immigrazione: che cosa voglia il popolo delle Sardine è un mistero che genera solo sospetto. Caro Santori, la questione non è «non vedere», è «non sapere». E se non sai è difficile prendere posizione. Dite: «Siamo in tanti». Bello, ma inutile fino a che non gettate la maschera e vi schierate da qualche parte (oltre, ovviamente, essere contro Salvini). Sono in tanti anche quelli che vanno allo stadio o che si affollano a un concerto, ma non per questo sono una proposta politica. Sono in tanti anche i giovani che sfilano per Greta, ma nessuno di loro potrebbe mai viaggiare in catamarano come fa la paladina dell’ecologismo, illudendo i suoi fan che quella è l’unica strada percorribile per l’umanità. Le Sardine possono riempire tutte le piazze d’Italia ogni santo giorno, ma fino a che non ci diranno chi sono e cosa vogliono in concreto rimarranno un fenomeno di costume, una moda. E faccio una scommessa. Il giorno che ce lo diranno perderanno inevitabilmente molto del fascino e della simpatia attuale. Diventeranno una parte del sistema, come lo sono diventati i grillini più velocemente di quanto si pensasse. Perché un conto è sbraitare contro il nemico di turno, altro è essere capaci di risolvere i non pochi problemi degli italiani.

Sardine, Filippo Rossi,  ex ideologo di Fini: «Io, di destra, in piazza con loro». Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 da Corriere.it. Qualche era politica fa qualcuno lo considerava l’ideologo di Gianfranco Fini. È di destra ma fieramente antisalviniano (ha appena pubblicato il saggio «Dalla parte di Jekyll, Manifesto per una buona destra»). È giornalista ma è stato consigliere comunale di Viterbo fino al 2018. L’addio non è stato cordiale: «Mi fate schifo — ha scritto su Facebook — La politica che sogno è quella eroica dei condottieri, non quella cagasotto dei signorsì». Ora Filippo Rossi, fondatore del festival culturale Caffeina, scende in piazza con le Sardine.

Ma che ci fa uno di destra con le Sardine?

«Sono uno dei tanti. Scendo come militante, non ho nessun ruolo. È vero, è una piazza più a sinistra, ma piace anche a destra, come dicono i sondaggi. L’appartenenza politica non esiste più. La volatilità elettorale è altissima. E poi esiste anche una destra liberale, moderata, che rifiuta l’estremismo. Questa destra non ha voce, non è rappresentata politicamente ma nella società civile c’è».

Le Sardine nascono contro Salvini?

«Certo, anche. Nascono contro un linguaggio politico violento, fatto di slogan vuoti, di rabbia e di odio verso gli altri. Registrano la reazione della società. Hanno saputo dimostrare, del tutto inconsciamente visto che neanche loro se l’aspettavano, che serve una politica meno urlata, più di contenuti. Poi, dentro, c’è tutto e il contrario di tutto».

Salvini dice che raramente si è vista una manifestazione contro l’opposizione.

«Come dice Flavia Perina, le piazze sono sempre contro. Abbiamo manifestato contro i comunisti e contro la Dc, non vedo perché non si possa manifestare contro la destra sovranista».

I 5 Stelle si rivedono agli albori e un po’ rimpiangono i bei tempi scapigliati e ribelli.

«Sì ma i 5 Stelle se la sono giocata male. Se quello di Salvini e Meloni è un populismo pieno di rabbia, il loro è un populismo vuoto e recriminatorio. Il grande errore strategico è stata l’alleanza con Salvini».

E il Pd? È la loro piazza?

«No, questa piazza non è governativa, né antigovernativa. il Pd ha il fiato corto. Le Sardine esistono perché i simboli dem non sono più palpitanti. Il Pd è un ramo freddo della politica». Si contesta spesso alle Sardine la mancanza di contenuti politici.

«È una critica che non ha senso. I movimenti giovanili, di piazza, sono così. Ricordiamoci che il Sessantotto italiano nacque contro la riforma Gui. E poi, anche l’idea di scendere in piazza per dire che la politica non può riempirsi di slogan è un grande contenuto. Non possiamo chiedere alle piazze un programma di governo. Manifestano un sentimento, bello, trasversale. Sono una richiesta di aiuto alla politica». Le piazze, però, spesso si fanno partito. O ci provano.

«È chiaro che il rischio o la tentazione di farsi partito c’è. Però il passaggio da movimento spontaneo a soggetto strutturato è molto più difficile. Io direi alle Sardine: tenetevi il movimentismo per qualche mese, non è il caso di costruire un partito in un paio di settimane. Siate orgogliosi delle vostre piazze e non cedete al ricatto di chi vi chiede contenuti».

L'attacco shock delle sardine: Salvini impiccato sui manifesti. In piazza a Pescara gridano: "Basta con odio, violenza e fascismo". Ma è un'ondata di odio e violenza contro Salvini e la Meloni. Luca Sablone, Domenica 08/12/2019 su Il Giornale. Le sardine scendono in piazza anche a Pescara sulle note di Bella ciao. E anche qui, come già successo in altre città, non sono mancate violente forme d'odio contro il leader della Lega, Matteo Salvini. Tra tutti uno striscione ci ha particolarmente impressionati: sul manifesto contro l'ex ministro dell'Interno spunta un uomo impiccato. "Lega Salvini e lascialo legato", recita lo slogan di una violenza inaudita. Eppure, in corteo, c'è anche chi si definisce democratico. Spinti dalla mobilitazione di Bologna, anche nella città abruzzese diverse persone hanno manifestato: "La gente ha voglia di combattere Salvini e i suoi discorsi pieni di odio. La voglia di opporsi è talmente forte che ha mobilitato quasi tutta l'Italia, tutte quelle persone che volevano rispondere. Prima si rispondeva sui social, ora si scende in piazza. Questo è un ottimo segnale". L'evento è stato organizzato perché "sentiamo fortemente la voglia di urlare a Salvini che non ci rappresenta". Ma a loro giudizio questa non è solo un'occasione per andare contro il leader della Lega: "Qui siamo tutti pro Italia. Abbiamo cercato di portare più persone possibili proprio per questo, per dire che il nostro Paese può avere meglio di Salvini. Partendo da un sentimento di umanità, che viene chiamato buonismo, ma che in realtà rappresenta un atto di generosità e dovrebbe legare tutti". Intervistato in esclusiva da ilGiornale.it, la sardina Gennaro Spinelli ha ribadito come al momento non vi sarebbe alcuna intenzione di schierasi politicamente: "Siamo semplicemente antifascisti. Ovviamente non andiamo con l’estrema destra che vuole dividere invece che unire". La politica non è da considerarsi solo come destra e sinistra: "È anche questo. Alzarsi la mattina e organizzare una manifestazione. Siamo dalla parte delle persone che non ne possono più di questo clima di odio, noi vogliamo la pace per tutti".

Le sardine in piazza contro Salvini tra odio e slogan violenti. Molti critici hanno sollevato dubbi sulle sardine, prive di proposte politiche ma accomunate solo dall'andare contro l'ex ministro dell'Interno: "Il nostro movimento non nasce per dare risposte, ma per dare una rivalsa alle persone che la cercano. È proprio questo che noi andiamo a regalare alle persone che dicono a Salvini che non è il rappresentante di tutta Italia. Noi non siamo politici. La nostra politica è scendere in piazza e contestare la direzione che il Paese sta prendendo". Il loro obiettivo è dunque quello di "dire a una determinata classe politica che è giunto il momento di fare qualcosa di diverso perché è evidente che c'è qualcosa che non va, altrimenti non saremmo qui in piazza". Secondo Gennaro c'è una differenza sostanziale con il Vaffaday: “A differenza di Beppe Grillo noi scendiamo in piazza per far vedere agli altri che noi siamo lì, che non tutti siamo manipolati. Noi non chiediamo, ma diamo il nostro contributo a questa democrazia e all'antifascismo”. E ha confessato che diversi schieramenti hanno fatto delle avances: "Tutti i partiti hanno provato a metterci il cappello e ad entrare in questa cosa, ma abbiamo rifiutato perché è un movimento che nasce dalla spontaneità delle persone. I discorsi nelle piazze non sono politici ma mirano al cuore: l'antifascismo è una questione di etica, e l'etica è cuore. L'antifascismo non ha via libera". Non sono mancate critiche alla politica attuale: "Puntando i riflettori sui migranti non si risolvono i problemi della quotidianità. Le battaglie dei poveri le vincono solo i ricchi. Distogliere l'attenzione dai problemi reali mirandoli verso chi sta peggio non può risolvere". Alla destra chiedono di "smetterla di fare solo slogan"; alla sinistra rivolgono l'invito a "svegliarsi perché qui c’è qualcuno che vuole fare qualcosa". Ma nel mirino è finita anche Giorgia Meloni: "Si è semplicemente adattata al linguaggio di Salvini perché ha visto che portava consensi. Lei, come Salvini, è un altro burattino della politica italiana: va dove tira il vento. In base ai sondaggi cambiano posizioni, opinioni e atteggiamenti. Sono inconsistenti: parlano solo tramite slogan". La sardina infine ha avvertito la destra: "Le persone sono stufe di ascoltare solo slogan, perché a fine mese non ci arrivano veramente".

La gaffe di Lucia Annunziata con Salvini: “Coglioncino a collo alto”. Debora Faravelli il 09/12/2019 su Notizie.it. Nella fretta di fare la domanda a Matteo Salvini, Lucia Annunziata ha compiuto una gaffe che non è passata inosservata. E’ già diventata virale la gaffe compiuta dalla giornalista Lucia Annunziata, padrona di casa di Mezz’ora in più, mentre stava intervistando Matteo Salvini. In molti se ne sono accorti durante la puntata ma è stato lo stesso ex ministro a condividerla sui suoi profili social qualche ora dopo facendola anche entrare in tendenza Twitter. Al termine dell’intervista al leader della Lega, la Annunziata si è spostata dal piano politico a quello personale, facendogli delle domande relative al suo presunto nuovo look. Da quanto è iniziata la campagna in Emilia-Romagna, a Salvini è stato infatti più volte detto di avere un outfit più vicino alla sinistra che alla destra, essendo stato immortalato con Clarks, maglioncini o dolcevita. I più gli hanno quindi chiesto se si trattasse di una strategia politica, quesito a cui lui ha sempre risposto negando con ironia.

La stessa giornalista di Rai3 ha ricordato i numerosi articoli che sono stati scritti sul suo abbigliamento e sul suo “nuovo maglioncino a collo alto“, chiedendogli perché avesse iniziato ad indossarlo. Peccato che nel ripetere il sintagma abbia fuso le parole “maglioncino” e “collo” pronunciando una parola che ha fatto sorridere lei stessa, ovvero “coglioncino“. Accortasi del lapsus, si è immediatamente corretta davanti ad un Salvini, in collegamento, che invece è riuscito a rimanere impassibile. Dopo qualche ora è stato lui stesso a condividere un video effettuato dai suoi collaboratori che lo riprendevano durante l’intervista. Impossibile non notare che sono scoppiati a ridere di fronte alla gaffe. Nella descrizione del suo post, il leader della Lega ha spiegato di essersene accorto ma di aver cercato di trattenere le risate, ammettendo comunque che sono cose che possono capitare. “Comunque orgoglioso del mio…maglioncino“, ha concluso.

Luca Muleo per corriere.it il 15 Novembre 2019. Sono convinti che nel loro curriculum, «normale» e poco militante stia l’essenza di tutto. Vedere la mobilitazione partita da quei «quattro poveri cristi», auto definizione data sul palchetto arrangiato in Piazza Maggiore da Mattia Santori, 32 enne primo ideologo delle seimila - in realtà alla fine quindicimila «sardine contro Salvini» – «ha fatto pensare alla gente che fosse ora di muoversi». La tanto invocata società civile si è riconosciuta nei quattro, sconosciuti trentenni bolognesi, che al grido di «Bologna non si Lega» e «l’Emilia Romagna non abbocca» ha dato il benvenuto al leader leghista e alla sua delfina Lucia Borgonzoni, candidata alla poltrona di governatore nelle elezioni del 26 gennaio.

Idea nata di notte. Era in motorino, l’una di notte, quando gli viene l’illuminazione. La ribellione all’idea di sentir soffiare addosso il vento leghista nella resistente Bologna. Mattia chiama i tre amici, si ritrovano nell’appartamento condiviso con loro per tre anni. La scintilla è proprio questa: quattro ragazzi senza tessere e senza storia politica provano a fare la rivoluzione. La sua vita, come la sua giornata, è divisa a metà. La prima parte, che fa seguito alla laurea magistrale in Economia e Diritto, è dedicata all’attività di ricerca per i mercati energetici, soprattutto guardando alla sostenibilità. Per l’altra metà è istruttore sportivo, che si divide ulteriormente tra l’atletica insegnata ai bambini, il frisbee agli universitari e il basket con i disabili. È presidente de «La ricotta», associazione con la quale organizza il torneo di basket «Gallo da tre», raccogliendo fondi per i playground della periferia bolognese e ricordando l’amico Davide Galletti, scomparso prematuramente a causa di una leucemia.

Il progetto prende vita. Tra volantinaggi, tam tam sui social e ritaglio delle sardine distribuite a chi si metteva in fila al loro personalissimo banco del «mercato del pesce» in Piazza Maggiore, l’organizzazione in sei giorni è stata un’impresa vera per i quattro. Roberto Morotti è ingegnere con la passione per il riciclo della plastica, Giulia Trappoloni, fisioterapista originaria di Sansepolcro, ha 30 anni ed è la più giovane.

Andrea Garreffa,laureato in scienze della comunicazione e con esperienze di studio in Spagna e in America, fa la guida turistica. Oggi il telefono ha squillato senza sosta. Ieri erano stati travolti dagli abbracci della piazza. Hanno lanciato la pagina Facebook per non dare tregua a Salvini e Borgonzoni nelle prossime tappe del loro tour elettorale in Emilia Romagna. Ma la prima preoccupazione è tornare alla vita di tutti i giorni. Per Mattia le pulizie di casa e un viaggio a Madrid prenotato un mese fa, quando le sardine erano ancora dentro a una scatola.

Matteo Salvini e il sospetto sulle "sardine" di Bologna: "4 ragazzi apartitici? No, chi c'è dietro". Libero Quotidiano il 16 Novembre 2019. Altro che "senza partito". Nella Lega hanno un sospetto sul "popolo delle sardine", la manifestazione contro Matteo Salvini che ha riempito giovedì sera il Crescentone in piazza Maggiore a Bologna, in concomitanza con il comizio dell'ex vicepremier e Lucia Borgonzoni al PalaDozza. Ufficialmente, i 4 organizzatori sono giovani lontani dalla politica organizzata: Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa sono amici da tempo e hanno tutti una vita "normale", senza legami particolari con qualche dirigente della sinistra. Addirittura poco "social" a giudicare dai loro profili, eppure sono riusciti a mobilitare con il tam tam su Facebook e il volantinaggio 6.000 persone (qualcuno dice il doppio), senza bandiere e anzi qualche slogan anche contro il Pd.  "In realtà - spiegano al Corriere della Sera fonti leghiste - l'iniziativa è assai meno apartitica di come la si vuole presentare, nasce dall'ispirazione di un assessore comunale". Non si fanno nomi, anche se qualcuno sospetta si riferiscano a Matteo Lepore, tra i primi ad aderire alla manifestazione. La partecipazione è stata massiccia, ma secondo il Carroccio potrebbe non essere un presagio del voto del 26 gennaio: "Molti erano studenti da fuori, non rappresentavano uno spaccato della città". E in ogni caso l'Emilia Romagna non è (solo) Bologna: "La situazione cambia di parecchio da una parte all'altra della Regione", è la riflessione di Salvini. Il Pd resta forte nel capoluogo rosso per eccellenza, ma "noi - spiega il Capitano al Corriere della Sera - possiamo contare su Piacenza e su una parte importante della Romagna". I quattro giovani che hanno battuto Salvini riempiendo Piazza Maggiore di sardine sono dei trentenni, non fanno politica. Hanno coinvolto dodicimila persone, senza disordini né simboli di partito, col solo tam tam di Facebook e un’idea: creatività e bellezza, opposta agli urlatori del web e dei comizi. Mattia Santori, doppia laurea in scienze politiche ed economia, educatore e istruttore Ultimate freesbee, ha creato l'associazione “La ricotta” e ogni anno organizza il torneo di basket “Gallo da tre” per finanziare il rifacimento di campetti di periferia in memoria dell'amico Davide Galletti, morto di leucemia; Roberto Morotti, ingegnere, nel tempo libero tiene laboratori creativi sul riciclo della plastica; Giulia Trappoloni e’ fisioterapista; Andrea Garreffa, laurea in scienze della comunicazione pubblica e sociale, e’ una guida turistica e accompagnatore in ciclopercorsi in tutta Europa. Amici da una vita. Poco social, laurea in tasca, lavoro e sogni, molto impegno nel volontariato e nel sociale. E voglia di reagire all'avanzata sovranista, non per protagonismo, ma per spirito di partecipazione e di comunità.

Lettera di Maria Giovanna Maglie a Dagospia il 15 Novembre 2019. Caro Dago, Parafrasando la frase di marchio gandiano usata da Matteo Salvini sul ring del PalaDozza, prima ti insultano, poi ti censurano, poi perdono. E ricominciano da capo. Non è solo questione di aver manifestato una volta di più una straordinaria intolleranza alle regole e alle licenze della democrazia. Non è solo l'annosa e ormai un po' fradicia questione del pericolo fascista inventato per poter usare metodi fascisti. C'è naturalmente tutto questo e fa molto schifo. Fa schifo pensare che si accusi di fascismo un partito che supera il 34%, uno schieramento che rappresenta ormai saldamente la maggioranza degli elettori, un progetto politico che ha al centro una richiesta sacrosanta ed elementare, fino ad oggi inascoltata, di lavoro e sicurezza degli italiani. Ma ieri sera a Bologna, e infatti fossi in loro eviterei di rallegrarmi, fossi in lei, caro Zingaretti, riascolterei e rivedrei quelle piazze, si è plasticamente manifestata quella che un amico oggi definiva acutamente una situazione lose-lose, ancora una volta. In forme diverse, ma sempre la stessa che sta portando i cosiddetti progressisti a riduzione in salsa ristretta. C'erano i facinorosi provocatori fuori dal Paladozza, che la Lega, in campagna elettorale per le regionali del 26 gennaio prossimo, aveva regolarmente affittato, portando pacificamente un certo numero di pullman e partecipanti che in parte sono stati impediti o rallentati nell'arrivo. Non merita parlarne. Sono gli stessi in tour da anni, mercenari, devastatori, qualche illuso dalla giovane età. Il problema è chi gli dice "bravi ragazzi" da uno scranno in Parlamento, da un posto di sindaco, di governatore o di premier di partito. C'erano i pacifici, le sardine ammucchiate in Piazza Maggiore a significare che l'altra Bologna esiste e intende farsi sentire. Troppo giusto, basta partecipare a propria volta a una bella manifestazione, evitando se è possibile la conta delle pecore. Ma se ti devi sostituire a quelli della tua parte che non la fanno, se per dimostrare che esisti devi boicottare l'altro da te, l'avversario legittimo, forse qualche problema con la democrazia ce l'hai anche tu, cara sardina. Naturalmente centri sociali e sardine non usano gli stessi metodi e se i primi non sanno assolutamente cosa vogliano se non creare caos, a volte in azioni retribuite, i secondi rappresentano un pezzo di società malmostosa, scontenta, ma non certo soddisfatta e placata dalla coalizione dell'attuale governo, dai suoi compromessi , dalle sue iniziative. Vi ricordate quelli che portava per un breve periodo in piazza Nanni Moretti? Una cosa così, che alla fine danneggiò il centro-sinistra sonoramente. Che poi tutte e due le piazze, quella armata di lacrimogeni e molotov e petardi che urla "odio Salvini odio la Lega", innalzando cartelli per i quali la speciale commissione contro l'odio appena nominata dovrebbe avere delle convulsioni, e quella che si sente pacifica e politicamente motivata, molto civile e colta, Green e lgbt al punto giusto, finiscano per cantare tutte e due Bella Ciao, e per avere in comune lo striscione Bologna Partigiana, conferma soltanto che gli argomenti seri, quelli in grado di arginare l'emorragia di voti, a sinistra non ci sono. Spiace. E' il paradosso del pensiero unico dominante, direbbe qualche filosofo, solo che io dico che non è più dominante e qualcuno li dovrebbe avvisare. Che ha fatto il suo tempo, e fa crollare le vendite dei giornali, non a caso, il metodo infame di diffamare come fascista, di essere autorizzati, anzi fieri, a silenziare e aggredire, chiunque a quel pensiero non si voglia più uniformare. Sono tanti, sono sempre di più, anche in Emilia. Hai voglia a mettere su barricate e contromanifestazione per tentare di impedire il convegno, il comizio organizzato da quello diverso da te. Non funziona più cari sinceri democratici di sinistra. Certo, non funziona neanche che Nicola Zingaretti dopo aver elogiato sardine e gruppettari, abbia al centro dei suoi pensieri una modifica dello statuto per svincolare la carica di segretario da quella di candidato premier, o un bel convegno che si chiama "tutta un'altra storia". Tutta un'altra storia da che? Dalle tasse, dalle manette? Se è per questo, neanche che a Torino, Italia Viva di Matteo Renzi pensi di decollare scopiazzando le vecchie proposte di rilancio delle opere pubbliche. Tutta l'iniziativa politica, insomma, affidata alla tiritera stantia del fascismo di ritorno, che si accoppia all'antisemitismo, al tentativo di strumentalizzare la senatrice Liliana Segre, che alla fine si è sonoramente ribellata e ha detto " io presidente della Repubblica fra tre anni grazie no, improponibile". Chissà se penseranno alla figuraccia fatta, dopo aver anche gonfiato le minacce da 200 l'anno a 200 al giorno senza ritenere di scusarsi dopo essere stati sbugiardati. Chissà se continueranno a credere che Bologna e l'Emilia siano una proprietà privata con gestione delle cooperative! Nel marzo del 2018, prima della batosta alle politiche, il centro-sinistra chiuse la campagna elettorale con una bella manifestazione contro il fascismo. Perseverare è diventato diabolico per il Paese da un pezzo.

Le «sardine» contro Salvini, perché si chiamano così e come sono nate. E ora parte la campagna. Pubblicato sabato, 16 novembre 2019 da Corriere.it. Le sardine sono diventate il simbolo della protesta anti-Salvini, dopo la mobilitazione di giovedì sera a Bologna. Ma perché si chiamano così? E da dove viene l’idea? A spiegarla sono i quattro ideatori della chiamata, 4 trentenni- Mattia Santori, Andrea Garreffa, Giulia Trappoloni e Roberto Morotti- che in sei giorni hanno ideato uno slogan («L’Emilia Romagna non abbocca», ma anche «Bologna non si Lega») a sostegno di un simbolo, le sardine, piccoli pesci che si stringono e si spostano in gruppo. Di fronte allo «squalo» dell’ex ministro dell’Interno, le sardine rappresentano pesci piccoli e indifesi, che insieme però si muovono compatti e fanno quindi «massa». I partecipanti erano stati invitati a presentarsi in piazza con una sardina, disegnata su cartone. La mobilitazione era stata lanciata qualche giorno fa via Facebook, poi è stata rilanciata con volantinaggi e campagne social, tramite gruppi WhatsApp, e ha trasformato la piazza di Bologna da un raduno informale in una massa di protesta che adesso è già pronta al bis, a Modena. Il lancio era divertente quanto geniale: «Partecipa al primo flash mob ittico della storia», si leggeva sul gruppo «6000 sardine contro Salvini». La premessa era cronachistica: «L'ultima volta che Salvini è venuto a Bologna ha dichiarato che in Piazza Maggiore c’erano 100.000 persone a sostenerlo- scrivevano gli organizzatori- Una bufala colossale (saranno stati si e no 10.000) che però è in linea con lo stile della Lega di costruire consensi a partire dalla pancia e dalle bugie. Giovedì 14 novembre Salvini torna a Bologna e questa volta fa sul serio: vuole l’Emilia Romagna, vuole noi. Ma questa volta non può barare sui numeri. Già. Perché il Paladozza ha una capienza massima di 5.570 persone. Non puoi andare oltre, per problemi di sicurezza e soprattutto di spazio. Ecco allora che vogliamo lanciare un flash-mob: abbiamo misurato che sul crescentone di Piazza Maggiore ci stanno fino a 6.000 persone. Belle strette, si intende, ma di questi tempi è meglio stringersi che perdersi». L’obiettivo era «dimostrare che i numeri contano più della prepotenza, che la testa viene prima della pancia e che le persone vengono prima degli account social». Gli strumenti? «Avremo macchine fotografiche, videocamere, cervelli. Testimonieremo tutto. Nessuna bandiera, nessun partito, nessun insulto». Ma solo «la tua sardina» per partecipare «alla prima rivoluzione ittica della storia». Così è stato: solo che invece dei seimila previsti, in piazza, ce n’erano 15 mila.

«Vivevamo insieme, ora siamo le Sardine. Nati con un messaggino». Pubblicato sabato, 16 novembre 2019 da Corriere.it. Dopo il successo di Bologna tutti vi vogliono. «Siamo subissati di richieste — spiega Mattia Santori, 32 anni, il portavoce dei quattro ragazzi che hanno lanciato il flash mob delle «sardine» —. Come prima cosa, abbiamo deciso di registrare il marchio e depositare il dominio per evitare che altri se ne approprino a nostra insaputa».

Le «sardine» tornano già domani sera a Modena.

«Sì, e le previsioni di afflusso sono tali che si sta pensando di passare da piazza Mazzini a piazza Matteotti, un luogo molto più ampio. Domani faremo un altro passo avanti».

In che senso?

«Non ripeteremo le ingenuità di Bologna. L’altra sera, per esempio, avevamo preparato 500 “sardine” che in tre minuti sono andate a ruba. Ne avessimo preparate 5.000 sai che immagine avremmo dato... Poi ci sarà un palco, una organizzazione più strutturata. Siamo più pronti».

Ci saranno altri appuntamenti?

«Sì, a Firenze il 30 novembre, ma si sta lavorando per flash mob nelle altre città dell’Emilia-Romagna».

Perché qui è il vostro terreno d’azione, per ora?

«Le “sardine” sono l’argine alla deriva populista che in questo momento cerca di conquistare la nostra regione. Il nostro orizzonte per ora non va oltre».

Ma come vi è venuto in mente di impegnarvi?

«Io, Andrea, Roberto e Giulia abbiamo convissuto a Bologna per tre anni. Siamo diventati molto amici e continuiamo a frequentarci. Una sera di una decina di giorni fa, ho mandato loro un sms: “devo parlarvi”. Il giorno dopo ho spiegato cosa avevo in testa e ho chiesto se ci stavano. Così siamo partiti».

Il simbolo delle «sardine» come nasce?

«Volevamo battere Salvini in un luogo simbolo. Abbiamo scelto il Crescentone di Piazza Maggiore. Fossimo stati in tanti, avremmo dovuto stare stretti stretti. Come le sardine, appunto».

Siete i nuovi «girotondi»?

«Un amico mi ha detto: sei come Nanni Moretti ma in positivo. Non siamo contro nessuno, abbiamo provato a risvegliare un popolo che è stanco di vedere calpestati i propri valori».

Siete di centrosinistra?

«Non so cosa votano i miei amici ma in piazza l’altra sera c’era un pezzo di sinistra».

Lei sembra già stanco.

«Ci è caduta addosso un’enorme responsabilità. Ora dobbiamo dare continuità senza però diventare personaggi. Volevamo lanciare un messaggio, non fare gli eroi».

Daniele Capezzone per “la Verità” il 17 novembre 2019. Giornaloni in estasi per le «sardine» di Bologna. Davanti al successo della manifestazione in Piazza Maggiore (complici falangi di centro sociali e Anpi) come risposta alla prima uscita pubblica di Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni, è partito un coro assordante, a testate (quasi) unificate: «La sinistra riparta dalle sardine», che poi sarebbero - in base al nomignolo scelto dagli organizzatori - i partecipanti all' adunata, stretti come sardine, e capaci di «non abboccare all' amo leghista». Così, è partito un tragicomico tentativo di training autogeno a sinistra, per farsi coraggio contro il nemico alle porte, perché - ci si fa sapere - «Bologna resiste» (non si sa bene contro che e contro chi, visto che a fine gennaio ci saranno elezioni democratiche, non un' invasione aliena). Alla bisogna, sono stati mobilitati numerosi inviati, invariabilmente ritornati alla base con pezzi in fotocopia: ritratto agiografico dei quattro giovani promotori (Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa), citazioni scontatissime di Lucio Dalla e Piazza grande, inevitabile evocazione dei «quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo», e tutto il repertorio già letto e già sentito 1.000 volte: la società civile, il grido di dolore, l' urlo di speranza. Eh sì, perché in poco più di in un anno, la sinistra doveva già «essere ripartita» altre quattro volte. Ripercorriamo i precedenti. La quintultima volta la formula magica era: «La sinistra riparta da Ivano». Ivano chi? Ivano Ciccarelli da Marino, il truce pro accoglienza ai Castelli romani, eroe incontrastato e trionfatore multimediale dell' agosto 2018. Che era successo? Questo Ivano aveva partecipato al presidio comunista a Rocca di Papa per accogliere i migranti in arrivo dalla nave Diciotti, in contrapposizione - pochi metri più in là - ai militanti di destra. In un tripudio di cori Bella ciao, Ivano prese la parola in tv. Maglietta sinistramente chiazzata, manona formato badile che volteggiava vorticosamente (si intuiva che due schiaffi mollati a qualcuno, a piacere, avrebbero potuto rafforzare i concetti), Ivano dettò la linea: «Chi so' quelli? So' un gruppo de fascisti contro la venuta de 'sti poracci Questi, oltre a essersi fatti 'a navigata, 'a sosta, dieci ore de' pullmann, mo' quanno arrivano qua, se devono gode' pure 'sta rottura de cojoni de fascisti». Capite bene che, dopo questo speech, l' incoronazione a leader della sinistra era dietro l' angolo. Sui social, l' apoteosi: «Ivano premier», «Ivano ministro dell' interno», «Ivano segretario del Pd», «Ivano idolo». La quartultima volta, invece, la formula era: «La sinistra riparta dal pischello di Torre Maura». Si era nella primavera 2019, nella periferia più dimenticata di Roma: per giorni, i grandi media ci mostrarono due sole parti in commedia. Da un lato, i militanti di Casa Pound, descritti invariabilmente come orridi fascisti, con in più l' aggravante della strumentalizzazione della sofferenza; ed equiparati a loro, gli abitanti del quartiere, quasi mai ascoltati nel loro disagio, ma dipinti come plebe mobilitata dalla destra e dunque a sua volta intrinsecamente razzista. Dall' altro lato, una figura angelicata e poetica, quella di Simone, il «pischello» che pronunciò il celebre «nun me sta bene che no», frase divenuta inno e manifesto per giorni. Comparvero cartelli con la scritta «Simone presidente», più l' inevitabile dibattito «la sinistra riparta da Simone», una specie di giovane angelo contro le bestie fasciste. Non basta ancora? Cambiamo totalmente scenario. La terzultima volta, la formula era: «La sinistra riparta dalle madamin di Torino». Si trattava della manifestazione Sì Tav di Torino dello scorso novembre, alla quale avevano partecipato anche cittadini di centrodestra. Ma i media si dedicarono a «lanciare» le sette signore organizzatrici, arruolando d' imperio tutti i manifestanti (pure i leghisti?) in un «fronte repubblicano». Nacque così, su La Stampa, il surreale titolo: «La piazza apre al dialogo con Quirinale e governo», con il Quirinale trasformato in una via di mezzo tra un ufficio reclami e una commissione parlamentare per le audizioni, e l' idea che le sette signore bene (con rispetto parlando) fossero la «controparte» del governo. Anche Il Corriere non scherzò, dedicandosi ai propositi di tournée delle madamin e al racconto del «day after», non esattamente di lotta («in un villino liberty affacciato sul parco del Valentino davanti a una tazza di tè e a una guantiera di pasticcini»).La penultima volta è recentissima: «La sinistra riparta da Greta», con gli articoloni melassati sulle manifestazioni degli studenti (sorvolando sulla scuola allegramente marinata, con tanto di «permesso» del ministro), la sensibilità eco-qualchecosa e il «nuovo impegno dei giovani». Fino all' ultima puntata, quella di queste ore: «La sinistra riparta dalle sardine», con tutto il repertorio più spompato e prevedibile che abbiamo già ricordato. È l' eterno ritorno del sempre uguale. La macchina (politica e editoriale) della sinistra ha il motore a pezzi, le gomme sgonfie, il serbatoio vuoto? E allora si supplisce così: con la demonizzazione dell'«altro» (che è per forza «fascista»: e dunque «Bella ciao»), e con la ricerca superstiziosa e palingenetica della ricetta e delle figurine per «ripartire». Occhio, compagni. Perché se in Emilia vincete, forse guadagnate qualche mese. Ma se invece, nonostante tutta questa enfasi, perdete, come la mettiamo?

Daniele Capezzone per “la Verità” il 18 novembre 2019. «Contrordine, compagni!»: iniziavano con un surreale errata corrige le vignette e i testi di Giovanni Guareschi sul suo Candido. Obiettivo: sbeffeggiare l' attitudine dei comunisti trinariciuti all'«obbedienza pronta, cieca e assoluta», immaginando che L' Unità correggesse il giorno successivo la linea del giorno precedente, suscitando però lo stesso sistematico ossequio da parte dei militanti del Pci. Oggi un redivivo Guareschi potrebbe titolare: «Contrordine, compagni! La manifestazione delle sardine bolognesi non era spontanea: era spintanea». Fino a ieri, infatti, la narrazione dei giornaloni era univoca: celebrazione dei quattro trentenni Mattia Santori, Andrea Garreffa, Giulia Trappoloni, Roberto Morotti, e soprattutto sottolineatura del fatto che la manifestazione fosse inaspettata e improvvisa, un urlo della società civile, un inno allo spontaneismo. Funzionale a questo racconto, la biografia dei ragazzi. In particolare, quella di Santori, leader autoproclamato del gruppo, che ieri, al Corriere della Sera, ha raccontato di aver inviato ai suoi amici «un sms: "Devo parlavi"» e di averli incontrati il giorno dopo: «Ho spiegato cosa avevo intesta e ho chiesto se ci stavano». Insomma, tutta una sua idea. Santori è stato presentato come istruttore di frisbee, la Trappoloni come una fisioterapista, gli altri due come l' ingegnere e la guida turistica. «Quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo», tanto per ricorrere all' ennesima citazione scontata. Certo, presi dal protagonismo mediatico, gli interessati si sono un tantino allargati: fanno i politologi, dettano la linea. Sempre al Corriere, Santori ha fatto sapere di aver registrato il marchio delle sardine, che è prevista una specie di tournée (prossime tappe: Modena e Firenze), e che loro sarebbero «l' argine alla deriva populista». Molti auguri. Peccato che a questi elementi biografici manchi qualche pezzo. Nulla di negativo: solo qualche informazione che colloca il capofila della squadra, Santori, più dentro che fuori un certo tipo di sistema emiliano. È sufficiente farsi un giro sul sito della rivista Energia (rivistaenergia.it) per trovare il nome di Mattia Santori nella redazione. Attenzione: è una rivista che ha per direttore l' ex ministro Alberto Clò, l' uomo che, nel 1978, ospitò la famigerata seduta spiritica del «piattino» per ritrovare Aldo Moro, rapito dalle Br. Quella sera, nella residenza di campagna di Clò, c' era anche Romano Prodi.  L' ex premier è cofondatore, con Clò, della rivista, di cui risulta garante insieme a Sabino Cassese, ex giudice costituzionale, eterna riserva della Repubblica (nel 2013 si parlò di lui come candidato al Quirinale in quota Pd), sponsor del sì alla campagna per il referendum sulle riforme istituzionali di Matteo Renzi, collezionista di incarichi in innumerevoli organismi pubblici e privati (Olivetti, Autostrade, Generali, Lottomatica...). Il Santori che fa parte della redazione di Energia è un omonimo? Non possiamo escluderlo, ma sembra improbabile, visto che, sulla pagina Facebook dello stesso Mattia Santori che il 7 novembre lancia la manifestazione delle sardine («Chi non viene è un figlio di acciuga»), qualche tempo prima, il 7 agosto, viene valorizzata un' intervista proprio a Romano Prodi sul portale RiEnergia (sito ideato dalla stessa società Rie-Ricerche industriali e energetiche, che cura anche l' edizione dell' altra rivista, Energia). Intervista che Santori presenta usando il «noi» («Ieri su RiEnergia abbiamo pubblicato questa interessante intervista a Romano Prodi sulla povertà energetica in Africa. Lo abbiamo intervistato per il ruolo che ricopre all' interno dell' Onu proprio nel continente africano»).Notevole, in quel post, il comizietto politico di Santori: «Come sempre accade quando intervistiamo Prodi, il post è stato invaso da commenti denigranti e vergognosi contro di lui, gli africani e i comunisti (sono stati cancellati ma ne seguiranno altri). Ora, ognuno può pensarla come vuole, ma ormai è evidente che c' è una strategia dell'odio social organizzata e finanziata contro le idee, le politiche e i personaggi che in qualche modo sono riconducibili alla sinistra. Che sia finanziata dai russi, da Trump o che sia tutto made in Italy (mi dicono che Salvini spenda migliaia di euro al giorno su Facebook) poco importa. Importa rendersi conto che qua si sta combattendo ad armi impari. E che fare politica a sinistra è diventato un mezzo martirio. Basta andare a vedere la bacheca di Delrio, della Boschi, di Gentiloni. Politici con cui si può essere in disaccordo ma che io non ho mai visto mancare di rispetto a nessuno. Gente che qualsiasi cosa scrive viene sommersa da centinaia di commenti volgari e rabbiosi (senza che Facebook muova un dito). Ve lo dico ora che l' Emilia Romagna è tra le Regioni meglio amministrate d' Europa, che Bologna è ancora la patria dell' integrazione e della cultura. Ve lo dico ora in tempi non sospetti: il nemico che ci troviamo di fronte è forte, è ricco, senza scrupoli e soprattutto gioca sporco». Insomma, un po' di complottismo anti destra; commozione per il «mezzo martirio» dei poveri Prodi, Delrio, Boschi e Gentiloni; e la poetica dell' Emilia splendidamente amministrata. A completare il quadro, ieri su Libero è comparso un interessante articolo di Antonio Rapisarda, che ha fatto il quadro delle adesioni ufficiali e semiufficiali da parte di esponenti del Pd alla manifestazione «spontanea», fino a citare un' eventualità di candidatura per una delle quattro «caposardine», e cioè Andrea Garreffa, che per ora non avrebbe escluso questa ipotesi. Intendiamoci: non c' è nulla di male a candidarsi, né (ci mancherebbe) a collaborare con riviste che sono sotto gli auspici prodiani e sotto l' egida di segmenti del corpaccione del sistema emiliano. Basta che non ci si racconti la favola di Cappuccetto rosso e della rivolta spontanea della base.

La leader delle 6mila sardine ​invocava la morte di Salvini. Samar Zaoui, studentessa, ha promosso la manifestazione a Modena. I post choc contro Salvini. Il leghista: "Aspetto reazioni indignate". Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 18/11/2019, su Il Giornale. Le sardine si preparano a tornare in piazza. L'evento di oggi è intitolato "6mila sardine a Modena - Modena non si Lega", un titolo un po' più generico di quel "contro Salvini" che aveva mosso i colleghi bolognesi. Un modo per evitare che il movimento si identifichi troppo con una "lotta" contro il leader del Carroccio e apparire così più propositivo? Forse. Il fatto è che in queste ore stanno emergendo dettagli non indifferenti sui promotori delle giovani sardine. Se a Bologna a mettere su l'iniziativa erano stati quattro ragazzi (fino ad allora) del tutto anonimi (o quasi), a Modena la storia è un po' diversa. Certo, come raccontato dal Giornale.it, Mattia Santori (ideatore del primo evento insieme a Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa) su Facebook scriveva chiaramente che "Zingaretti non se la cava malaccio". Ma a Modena la storia è un po' diversa. A promuovere l'evento sono due ragazzi, Samar Zaoui e Jamal Houssein. Entrambi sono universitari, poco più che ventenni: la prima studia filosofia, il secondo ingegneria meccanica. Tutto qui? L'attenzione mediatica si è concentrata su Samar dopo che l'ex ministro dell'Interno ha pubblicato sulla pagina Facebook alcuni post condivisi dalla leader delle sardine modenesi. "Una delle 'sardine democratiche' che sarà in piazza oggi a Modena contro di me, poco tempo fa invocava il mio omicidio da parte di un giustiziere e mi raffigurava a testa in giù", scrive il leader della Lega che si aspetta "reazioni indignate di giornalisti, politici e merluzzi...". Come si vede chiaramente da alcuni scatti, Samar è una militante dell'Udu, un sindacato di studenti notoriamente di sinistra. Ovviamente anche l'Udu modenese sarà in piazza stasera, nonostante il meteo preveda pioggia. "La nostra regione non si merita di essere il teatro della demagogia della Lega - si legge - L’Emilia Romagna non deve essere liberata da nessuno, poiché siamo già liberi dal 1945 grazie alla Resistenza". Il profilo Facebook di Samar, dopo il post del leader del Carroccio, è diventato introvabile. Nel suo vecchio post, la promotrice delle sardine pubblicava la foto a testa in giù di Salvini e scriveva: "Avremmo bisogno di un giustiziere sociale, di quelli che compaiono nella storia, che dopo aver ucciso vengono marchiati come anarchici".

Daniele Capezzone per “la Verità” il 19 novembre 2019. Giornataccia per le sardine, tra disastrosi autogol sui social e figuracce in tv. Un minimo di ricerca su Facebook (inevitabile quando la rete si mobilita) ha segato sul nascere la celebrazione mediatica di Samar Zaoui, che sarebbe inevitabilmente scattata dopo la manifestazione di ieri sera a Modena, seconda uscita delle sardine. È infatti venuto fuori che la Zaoui, aspirante laureata e militante Udu (sindacato di studenti di sinistra) e tra le organizzatrici dell' evento modenese insieme al collega di studi Jamal Hussein, a maggio scorso aveva postato una strana via di mezzo tra un appello e una preghiera, corredata dalla condivisione di un inequivocabile video di Matteo Salvini a testa in giù: «Pregate voi, che dio (minuscolo, ndr) vi ascolta. Avremmo bisogno di un giustiziere sociale, di quelli che compaiono nella storia, che dopo aver ucciso vengono marcati come anarchici». Auspicio? Istigazione? Certo, sarà dura d' ora in poi presentare questa signorina come una lottatrice contro l' odio. Lo stesso Salvini prima ha detto di «aspettare reazioni indignate di giornalisti, politici e merluzzi», e poi ha constatato che il «profilo della democratica sardina che invocava il mio omicidio è inspiegabilmente scomparso da Facebook». Ma un' altra autorete era già avvenuta qualche ora prima (a volte il frisbee può ritornare indietro come un boomerang), nella forma di un debutto televisivo tutt' altro che brillante per il capo sardina Mattia Santori. Il quale, all' apparire della prima pagina della Verità di ieri, è stato immediatamente costretto a ricorrere a un' imbarazzata bugia. Metodi da vecchio politicante in difficoltà, più che da giovane promessa della «società civile». Ieri mattina, infatti, ad Agorà su Rai 3, l' ospite d' onore era proprio lui, l' istruttore di frisbee celebrato come un leader: maglioncino senza camicia, barbetta di due giorni, e sorrisino soddisfatto di chi pensa di poter prendere in giro chiunque. Se non che, a un certo punto, la conduttrice Serena Bortone, correttamente, ha letto titolo e sommario della Verità di ieri («C' è Mortadella dietro le sardine - Altro che manifestazione spontanea - Il promotore del raduno lavora per la rivista dell' ex ministro Alberto Clò e di Romano Prodi»), e ne ha chiesto conto a Santori. E lui? Un paio di secondi di smarrimento, sguardo perso, e poi la bugia: «La rivista è di Clò che non c' entra niente con Prodi». Peccato che tutti possano leggere su Internet che Prodi è ancora garante della rivista, insieme con Sabino Cassese. Mentre non occorrono ricerche particolari per sapere quanto la vicenda pubblica di Clò sia stata intrecciata con quella dell' ex premier ulivista. Delle due l' una: o Santori queste cose le sa, e allora si tratta proprio di una bugia. Oppure non le sa, e allora siamo davanti alla dimostrazione di come alcuni ragazzi possano essere usati e strumentalizzati. Sta di fatto che la sardina-in-chief si è trovata in difficoltà. Quando ha sentito la parola «Mortadella», ha bofonchiato: «Questo è il motivo per cui la gente scende in piazza», frase abbastanza priva di senso. Non risultano infatti manifestazioni né contro i titoli della Verità né tanto meno contro i salumi tipici. Dopo di che, il giovane ha recitato la filastrocca che evidentemente aveva preparato: «l' invasione» di Salvini, «il clima di odio», «noi siamo l' argine a una retorica politica che i cittadini non accettano» (nientemeno), siamo contro «una retorica aggressiva che invade piazze e palazzetti dello sport». Purtroppo per lui, in studio, a parte un Maurizio Martina (ex reggente-tumulatore del Pd) che, non sapendo più a che santo votarsi, tentava disperatamente di incoraggiarlo («andate avanti!»), c'erano due voci che hanno efficacemente rimesso Santori al suo posto. Con pazienza quasi paterna, ci ha pensato Claudio Durigon (esponente della Lega, già sottosegretario), che ha impartito al giovane una lezione di educazione civica, spiegandogli che non c' è alcun odio nella manifestazioni leghiste, ma solo opinioni differenti dalle sue, e che è sbagliato parlare di «invasione» quando si radunano cittadini di idee diverse; poi Durigon lo ha invitato ad assistere insieme con lui a uno dei prossimi comizi di Salvini («così sentirai quello che dice e potrai giudicarlo»). L'esponente leghista era anche munito, cellulare alla mano, dei post su Facebook in cui Santori aveva difeso la sinistra. Il giovane, preso un' altra volta alla sprovvista, stava per sbroccare di nuovo: «Ecco, uno porta in piazza 20.000 persone e arrivano gli sciacalli a guardarti i social». Gli sciacalli, testuale. Anche il secondo interlocutore, l' editore Francesco Giubilei, vicino per età ma lontanissimo per idee da Santori, lo ha opportunamente messo in crisi: «La verità è che avete sbagliato piazza, perché l' Emilia è governata da decenni proprio dalla sinistra. Di che alternativa parlate, allora?». Davanti a un esercizio di logica, Santori è parso in seria difficoltà. Conclusione: il pesce (d' allevamento) ha preferito annunciare la tournée: il 28 a Genova, il 30 a Firenze, e così via. Fino a una comunicazione piuttosto surreale: «Stiamo dando le linee guida» a chi ci contatta. Chissà se si tratta solo delle misure delle sardine.

Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 19 novembre 2019. L'unica che tace, da un millennio e pure stasera, è la statua della Bonissima che domina alta Piazza Grande. Sotto, no: nel diluvio d' acqua e di folla, fra migliaia d' ombrelli e di sardine, «Mo-de-na-non-si-Lega!» e Bella Ciao, alle 19.06 il secondo flash mob è un altro lampo negli occhi di Matteo Salvini, «senza violenza e senza insulti». Perché queste settemila «sardine» convenute in piazza, e le 13mila sui social, chissà se saranno bonissime come promettono - c'è una delle loro pescioline pilota che, in un post, s' augura un Salvini a testa in giù -, però ci provano a chiedere che «la politica esca dagli imbonitori degli anni 90 e torni a parlare ai cittadini con toni pacati, senza violenze verbali e soprattutto ai cervelli, non alle pance». Mattia, Roberto, Andrea, Giulia tracciano la rotta dei pesci poveri di queste elezioni emiliane e arrivano a Modena dal clamore del megaraduno spontaneo e sorprendente di Bologna, quello che venerdì ha oscurato il comizio del leader leghista: è il primo test per vedere se le «sardine» possono essere banco (di prova) e corrente (politica), nuotare senza finire nelle reti del velleitarismo che già intrappolò i girotondini di Nanni Moretti o i forconi siciliani. Esperimento riuscito: «Eravamo perfetti sconosciuti - gridano i ragazzi fradici e felici sulla Preda Ringadora, l' antico Speakers' corner dei modenesi che arringavano le genti -, guardate cosa siamo riusciti a organizzare in meno d' una settimana! Tutta Europa ci guarda! Salvini, eccoci!». Lo seguono, lo braccano. Prima all' aperto di Bologna, mentre lui parlava in un palazzetto. Ora nella pioggia di Modena, mentre lui cena al ristorante dell' ex campione mondiale Luca Toni. Poi saranno Rimini, Reggio, Piacenza, «ma ci hanno chiamato anche a Genova, a Firenze, a Sorrento, a Palermo». Si chiamano «sardine» perché sanno stare «pigiati anche in quattro in un metro», come stasera sotto i portici. Solidarizzano con Balotelli inseguito dai buuu. Volevano radunarsi nella piazza Mazzini della sinagoga «in omaggio a Liliana Segre». Danno voce al leaderino modenese Jamal Hussein, studente figlio di libanesi, e un po' imbarazzati anche all' altra organizzatrice, Samar Zaoui, famiglia tunisina, la ragazza che sui social invocava la morte per Salvini e ora non sa che replicare («gliel' abbiamo detto, ha sbagliato...»). Ad applaudirli, di tutto: Arrigo Martinelli, 72 anni, «vecchio liberale che votava Berlusconi»; Loretta Tomanin, 60, «io sono del Pd e voglio continuare a vivere in un' Emilia coi servizi che funzionano»; Paolo Del Fine, 25, «infermiere di Reggio che vuol far vedere a Salvini che ospedali abbiamo»; Simone Gennari, 19, «leghista pentito, ho messo la maschera di Putin per chiedere a Salvini dove sono finiti i miei rubli!» «Noi non siamo contro la destra», assicura Mattia Santori, 32, ritto sulla Preda rossastra e lucida: «Ce l' abbiamo coi populisti. Potrei anche diventare consigliere regionale, ma non ho di queste mire. Voglio solo dire alla gente: basta fare soltanto i leoni da tastiera, venite a protestare in piazza».

Chi sono le "sardine": storia di un movimento e del suo nome. Dai social alla piazza la rapida parabola del nuovo movimentismo anti Lega con mille dubbi ed i soliti slogan anti-Salvini. Panorama il 20 novembre 2019. Prima Bologna, poi Modena. E' la breve ma già rumorosa storia delle "sardine", il movimento di protesta anti Salvini che sta cercando di porsi come argine al centrodestra nelle prossime elezioni regionali in programma in Emilia a fine gennaio. "Nessun insulto, nessun simbolo, nessun partito". Parola di Mattia Santoni, 32 anni, laureato in scienze politiche e collaboratore per una rivista legata a Romano Prodi, uno degli ideatori del cosiddetto movimento delle sardine. 

Da dove nasce il movimento delle sardine. Un'idea, come ha spiegato il giovane al Resto del Carlino, nata nel corso di una notte insonne insieme a tre amici:  Roberto Morotti, 31 anni, ingegnere, Giulia Trappoloni, 30 anni, fisioterapista e Andrea Garreffa, 30 anni, guida turistica. Santoni non poteva accettare che nella rossa Bologna la Lega di Matteo Salvini facesse campagna elettorale a sostegno della candidatura di Lucia Borgonzoni alla poltrona di presidente della regione Emilia Romagna in opposizione al presidente uscente, il piddino Stefano Bonaccini. Da qui l'idea che all'appuntamento leghista per il 14 novembre al Paladozza venisse contrapposta una sorta di manifestazione flash mob di piazza in funzione anti-Lega. "Volevamo essere almeno uno in più di loro, la mattina dopo ci siamo sentiti e abbiamo organizzato tutto velocemente" ha ricordato ancora Santoni.

Perché "sardine". Il nome "sardine" nasce dall'idea di stare tutti stretti stretti come sardine in una scatola a dimostrazione che la piazza antileghista è forte e numerosa. Vicini e silenziosi come pesci per abbassare i toni da quella che via Facebook è stata definita "retorica populista". L'invito - definitivo - recitava: "Nessuna bandiera, nessun partito, nessun insulto. Crea la tua sardina e partecipa alla prima rivoluzione ittica della storia". Dato che il Paladozza, dove era in programma la manifestazione della Bergonzoni e di Salvini può contenere 5.570 persone ai 4 amici sarebbe bastato metterne insieme 6.000 per superare il rivale.

Il tam tam non poteva che partire da Facebook con la creazione dell'evento "Seimila sardine contro Salvini" dove si invitavano i bolognesi ad accorrere numerosi in piazza spiegando: "Il Paladozza ha una capienza massima di 5.570 persone. Non puoi andare oltre, per problemi di sicurezza e soprattutto di spazio. Ecco allora che vogliamo lanciare un flash-mob: abbiamo misurato che sul crescentone di Piazza Maggiore ci stanno fino a 6.000 persone".

Da Bologna a Modena. E così in 15mila sono arrivati giovedì 14 novembre a Piazza Maggiore armati di sardine di cartone per quella che non avrebbe dovuto essere una manifestazione politica ma un flash mob della società civile. In realtà in molti ci vedono dietro burattinai della sinistra che, da dietro le quinte, tessono le file di un potenziale movimento nato dal basso. I 4 ragazzi, inoltre, non si sono fatti trovare impreparati al successo della loro "rivoluzione ittica" e prontamente si sono fatti "ponte" - come detto al Resto del Carlino - per organizzare analoghi eventi altrove. Dopo Bologna, infatti, è stata la volta di Modena dove gli anti Salvini sono stati 7.000 stretti come sardine in Piazza Grande. Anche in questo caso l'antileghismo era tutto indirizzato a boicottare la candidatura della Borgonzoni alla guida della regione. Via Facebook digitando "6.000 sardine" compaiono eventi in fieri in mezza Italia: da Firenze a Torino o Rimini. E se il segretario Pd Nicola Zingaretti plaude l'iniziativa indirizzando la paternità del movimentismo ittico sotto l'ala partitica, Matteo Salvini ricorda che tra gli organizzatori c'è anche chi, senza andare troppo sul sottile, in passato gli ha augurato la morte. Alla faccia del clima d'odio e di violenza.

Giampiero Mughini per Dagospia il 20 novembre 2019. Caro Dago, ovviamente sono tra quelli cui piacciono molto e le immagini e la fenomenologia delle “sardine”, di quanti e quante si ammassano per le strade e nelle piazze d’Italia a contrastare il “sovranismo” più becero e indecente. Vedo che ad aver dato il là a tutto questo sono stati ragazzi e ragazze giovani, contro i quali sputacchiano i giornali che cercano i loro lettori nello stagno sovranista, ossia ragazzi non particolarmente ingombri dei “pesi” del Novecento, delle sue topografie delle sue terminologie. Lo sta dicendo uno che ci ha messo tutta la vita a sbarazzarsi di quei “pesi”, primo tra tutti quello che a tutti i costi “bisogna fare e dire qualcosa di sinistra”. Ecco perché mi ritraggo un tantino rispetto ai commenti di chi vede nell’agire e nel manifestarsi delle “sardine” qualcosa di sinistra e ne esulta. Perché questo è il punto. Se gli uomini e le donne dette “sardine” fossero tutti gente che già votava a sinistra, il discorso è morto in partenza. Sappiamo da trenta o quarant’anni che cosa è e che cosa non è in Italia la sinistra propriamente detta è il 22  per cento o forse il 25 per cento della gente italiana, non uno di più. Ai tempi di Enrico Berlinguer aveva sfiorato il 33 per cento, ma erano tempi lontanissimi e diversissimi dall’oggi. Ebbene con quelle percentuali in una democrazia pluripartitica non vai lontano. Se in tutto e per tutto le “sardine” rappresentano soltanto quel 22-25 per cento che 24 ore al giorno è determinatissima a stare a sinistra, riempiranno sì le piazze ora di Bologna ora di Modena, ma al centesimo corteo ben riuscito si ritireranno in bell’ordine senza aver cambiato di un ette l’indirizzo della politica italiana. Il punto è esattamente questo. Parlare e convincere quelli che non sono di sinistra al modo di una circoncisione alla nascita. Parlare agli uomini e alle donne delle differenti (e diversissime) regioni e classi italiane, agli uomini e alle donne che stanno nel mezzo dei lavoro odierni e che hanno i problemi dei lavori odierni, problemi che non sono più quelli dell’ “autunno caldo” di cinquant’anni fa. Parlare alle partite Iva, ai lavoratori dell’Ilva che rischiano il posto, ai piccoli imprenditori i cui nemici principali sono la burocrazia statale e il sovrappeso fiscale, ai ragazzi che guadagnano meno del reddito di cittadinanza pur facendo un duro lavoro quotidiano (i riders, ma anche i giovani collaboratori di un quotidiano di carta che oggi arrivano a stento a 500-600 euro al mese dopo aver faticato come dei dannati). Questo sì che è veramente difficile, altro che riempire la piazza di Modena in un contrasto di entusiasmo generazionale diffuso e condiviso. Questo sì che è il difficile traguardo di una moderna democrazia industriale. E mancavo di dire una cosa, la necessità di convincere quelli che vedono “l’altro” come un nemico, un rivale, uno che compete con te un euro dopo l’altro. Dargli il diritto a prendersi una cittadinanza, certo, ma ancor prima convincere quelli che gli abitano vicini che quei signori non rappresentano un pericolo quale che sia il colore della loro pelle. L’altro giorno in televisione, e avevo accanto una Sacerdotessa del Bene, ho detto a un certo punto che il mio rapporto principale con il mio Paese (e dunque la mia identità principale) è quello di essere una partita Iva, uno che fattura il suo lavoro e che ci paga sopra l’Iva e tutto il resto delle tasse. La Sacerdotessa mi ha guardato sprezzante, lei sì abituata a volare nel cielo delle utopie e dei presepi sociali, ossia cose che non valgono nulla e non significano nulla. Nulla, proprio nulla. Cose a immaginare e a sognare le quali, non farai mai un baffo a Matteo Salvini e alla sua compagnia cantante sovranista. Una compagnia, lo ha scritto benissimo il mio amico Ernesto Galli della Loggia sulla prima pagina del Corriere, che ha il vento in poppa in questo nostro e quanto mesto nuovo millennio.

Parla il leader delle sardine: "Chi sono i miei riferimenti politici". Mattia Santori: "So chi è Prodi, ma non ho il numero". E sul futuro: "Diventerà un movimento? Presto per dirlo". Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 21/11/2019, su Il Giornale. In tv si era lamentato che nessuno de La Verità, Libero o il Giornale lo avesse chiamato prima d’ora. Ci abbiamo pensato noi. Più che le nostre domande, in realtà, Mattia Santori teme l’ira della fidanzata. La popolarità raggiunta dal leader delle sardine deve aver portato via del tempo agli affetti. Era inevitabile: "Se mi rubi troppo tempo, mi ammazza".

Non la faremo litigare, promesso. Andiamo al punto: dove vogliono arrivare le sardine?

"Non lo sanno nemmeno le sardine. È un esperimento riuscito, ma ancora stiamo studiando i risultati”

Chi c’è dietro di voi?

"Che piaccia o no, ci sono Mattia, Giulia, Roberto e Andrea. Non scrivere i cognomi che poi ci assaltano: voi avete tanti seguaci cattivi" (ride).

Nessun altro?

"È chiaro che abbiamo coinvolto tutte le realtà politiche e sociali della città. Ma l’idea e l’organizzazione è tutta farina del nostro sacco".

Chi avete coinvolto?

"Per non pestare i piedi a nessuno abbiamo chiesto in giro, dai collettivi ad alcuni rappresentanti politici fino alle associazioni, se l’idea potesse piacere".

Con chi avete dialogato nello specifico? Si è parlato dell’assessore del Pd, Matteo Lepore…

"Non è così. So chi è Lepore, ma non ci parlo. I riferimenti politici che posso avere sono alcuni presidenti di quartiere, che conosco attraverso l’attività dell’associazione. Poi Emily Clancy di Coalizione Civica e Elly Schlein di Regione Futura (eurodeputata Pd, poi passata a Possibile, ndr), che ho incontrato 5 giorni prima dell’evento".

Presidenti di quartiere del Pd, immagino…

"Sì, no…cioè: in verità poi non so a chi appartengano. Lorenzo Cipriani non so se è del Pd (lo è, ndr). Ma comunque va al di là del loro colore politico".

Qual è la vostra aerea politica?

"Quando hanno iniziato a cantare Bella Ciao abbiamo capito che il sentimento più radicale era di sinistra. Ma magari a Rimini e Firenze canteranno altro".

Magari l’inno della Lega.

(Ride)

C’è chi dice che le sardine siano una mossa del Pd per andare in piazza senza bandiere, perché se lo facesse coi simboli di partito non lo seguirebbe nessuno.

"Se fosse così Bonaccini non avrebbe convocato una piazza il 7 dicembre…"

Ci andrete?

"Io personalmente sì, ma non daremo un’indicazione".

Salvini dice: "Dietro il sardino trovi il piddino".

"Non ci sono prove. Quando ci porterà qualcosa che dimostri che siamo stati pagati dal Pd o lo abbiamo organizzato con loro, allora ci scuseremo".

Prodi lo conosce?

"So chi è, ma non ho il suo numero. Nella rivista Energia che curiamo lo abbiamo intervistato sull’Africa. Non ci ho nemmeno parlato: mi sono arrivate le risposte su un foglio. Io l’ho solo presa e pubblicata”.

Capisco.

"Però le scriva queste cose…".

Ci mancherebbe.

"La rivista Energia è stata fondata da Alberto Clò: inizialmente era legato a Prodi, però poi lui ha fondato Nomisma. Quindi non c’entra niente. E anche se lo fosse, cosa ci azzecca il mio datore di lavoro con quello che faccio nella vita privata?".

Dite di essere nati dal basso. Però a Modena uno dei due leader ha militato nei Giovani Democratici, costola del Pd.

"Nel momento in cui si scende in piazza senza bandiera, non è una convocazione di partito. Se uno usa l’immagine delle sardine e rilancia il format, non ci vedo nulla di male. Chiaro che chi ha avuto vita politica è più portato a organizzare un evento di piazza. Quindi succederà anche in futuro. L’importante è che non ci sia una connotazione partitica".

Però i movimenti giovanili dei partiti si sono mobilitati per portare sardine in strada.

"È normale. Poi il Pd e i partiti di sinistra che hanno i propri elettori che scendono in piazza con noi dovranno chiedersi come riuscire a coinvolgerli anche senza le sardine".

Gentiloni e Zingaretti esultano per le sardine. Fanno bene?

"Non sta a me deciderlo. Non commento la politica".

Favorirete Bonaccini alle regionali?

"Noi speriamo di avere effetti sulla presenza di Salvini in campagna elettorale".

Non vi sentite strumentalizzati dal Pd?

"No. Il Pd è tra le forze politiche che non mi hanno chiamato per dire: "Facciamo qualcosa insieme"".

Diventerete un movimento politico?

"Non credo, ma è presto per dirlo. Bisogna capire se le sardine hanno un riferimento politico oppure no".

In che senso?

"Volevamo stimolare una risposta di piazza. Se a un certo punto una sardina deciderà che l’offerta politica non li soddisfa, creerà il suo movimento e cercherà di capire se avrà consenso".

Magari uno di voi quattro leader?

"In questo momento non sono interessato e credo nemmeno gli altri".

Non esclude però che la sardina possa diventare movimento.

"Non lo so. Chiaro è che quando faremo centomila presenze in due settimane, qualcosa significa. E cercheremo di capire la politica che risposte offre a questa piazza".

Quali risposte vi aspettate.

"Bella domanda…”

Dica.

"Intanto che la politica torni a parlare di contenuti e sia meno marketing".

Cosa vi distingue da Vaffaday di Grillo?

"Noi non siamo contro la politica, ma contro i criticoni. Chi sta a casa e permette l’avanzata della narrativa populista".

Beh, però eravate 6mila sardine “contro Salvini”.

"Anche lui al Paladozza diceva "Basta Pd". Il "contro" unisce sempre più del "per". Ora però sappiamo chi siamo, abbiamo un’identità, che è la sardina".

"A sprangate e piazzale Loreto": i commenti choc delle sardine. Matteo Salvini ha pubblicato su Facebook i commenti di alcune sardine inferocite contro i leghisti: "Tutti a sprangate andrebbero presi". Federico Giuliani, Mercoledì 20/11/2019, su Il Giornale. Le democratiche sardine, i presunti cittadini modello osannati dalla sinistra per essere scesi in piazza contro Salvini, tornano a sparare a salve contro il leader leghista. L'ex ministro dell'Interno ha pubblicato sul proprio profilo Facebook il dialogo virtuale avvenuto sul medesimo social network tra alcuni aderenti al movimento. L'insegnante di un conservatorio di Napoli, il Conservatorio di Musica San Pietro a Majella, e un suo allievo hanno speso parole al vetriolo all'indirizzo di Salvini e dei leghisti. “Qui ci vorrebbe una nuova piazzale Loreto. Tutti a sprangate nelle arcate gengivali andrebbero presi!” dice il ragazzo. Rinfrancato subito dopo dall'insegnante Emma Innacoli che rincara la dose. “Credimi, non ci sarà bisogno di sporcarsi le mani!”. La ciliegina sulla torta porta la firma dell'allievo: “Io li prenderei a sprangate lo stesso!”. La considerazione di Salvini è lapidaria: “Viva la libera e democratica partecipazione di chi non la pensa come noi. Ma non trovo niente di democratico nel dire che dovremmo essere presi "a sprangate nelle arcate gengivali". Alla faccia di "Salvini semina odio"...”.In un secondo momento, sempre su Facebook, Emma Innacoli si è scusata per quanto detto nella conversazione con l'allievo: “Buonasera a tutti. Vogliamo chiedere scusa a tutti per questa bruttissima frase scappata nella foga della passione politica! È stato ricordato un momento molto brutto della nostra Storia! E davvero è stata una grande leggerezza. Grave leggerezza”. E ancora: “Noi abbiamo idee diverse dalle vostre. E nessuno di noi due ha in odio nessun altro essere umano”. Parole da apprezzare, ma che tuttavia sono arrivate quando la bomba è già esplosa.

La carica delle democratiche sardine. Le sardine, dopo l'esordio a Bologna, hanno replicato a Modena e sono pronte a scendere in piazza in tante altre città italiane. Da Firenze a Napoli, da Roma a Bari passando per Sorrento. Ed è proprio qui, nel luogo famoso per le terme, che si svolgerà il prossimo flash mob in concomitanza con l'arrivo di Matteo Salvini. L'hashtag è già virale, #SorrentoNonSiLega, e le sardine sono convocate giovedì 21 novembre alle 10:30 in piazza Andrea Veniero, dove si svolgerà l'evento #SorrentoNonAbbocca. Gli organizzatori sottolineano come “ognuno è invitato a scegliere un libro e portarlo con sé per 'donarlo' simbolicamente all’ex ministro. Un libro, scelto dai partecipanti, verrà anche fisicamente donato a Salvini" e che l'evento intende essere "la risposta di tutta la penisola sorrentina alla passerella, organizzata dal sindaco di Sorrento Giuseppe Cuomo, per il capo politico della Lega Nord". Insomma, sulla carta tante belle parole ma nei fatti i pensieri di numerose sardine sono alquanto differenti. Offese, minacce e tanto odio nascosto dietro una narrazione che fa passare le sardine per un gruppo di ragazzini spontaneamente prestati al dovere civico per lottare contro quel pericoloso fascista di Salvini. Prendendolo "a sprangate nelle arcate gengivali", ovviamente.

Ilaria Venturi per “la Repubblica” il 20 novembre 2019. «Dopo Bologna e Modena abbiamo capito che lo spontaneismo è bello, ma che ora abbiamo più nemici addosso. E dobbiamo fare i conti con la bacheca degli orrori di Salvini e gli attacchi alle nostre vite private». Mattia Santori, 32 anni, tra i quattro promotori del movimento delle "sardine" che hanno debuttato a Bologna, racconta la macchina del fango che li sta travolgendo.

In che modo?

«Siamo diffamati ogni giorno da alcuni media vicini alla destra populista, siamo spiati nei profili social. I nostri datori di lavoro hanno ricevuto telefonate per sapere chi siamo, la segretaria del mio ufficio è tempestata dalle domande su di me. Vogliono ribaltare le nostre vite per scoprire chissà cosa, la loro ossessione è dimostrare che siamo del Pd, figuriamoci. E chiunque organizzi un flash mob, come è accaduto a Modena, è messo alla gogna».

Si riferisce a Samar Zaoui, la studentessa promotrice? In un vecchio post augurava la morte di Salvini.

«Ha sbagliato, ma è una cosa del suo passato. Come hanno sbagliato tanti a fare i leoni da tastiera. Noi abbiamo indicato un' alternativa. Sul fronte opposto invece attacchi continui. Noi quattro riceviamo insulti, abbiamo oscurato i profili per evitare invasioni di troll, gli amici esperti dicono di non aver mai visto una cosa così. Quel post di Samar, è stato preso da un profilo privato».

Dietro alle "sardine" c' è Prodi, hanno scritto, imputandole di lavorare per una società dell' ex premier.

«Sono educatore, istruttore sportivo e lavoro, a tempo indeterminato, per la rivista Energia, fondata da Alberto Clò e non da Romano Prodi. La macchina del fango è pesante, ci stiamo già muovendo per tutelarci con denunce e querele. Ma vuol dire che abbiamo colpito nel segno. Salvini dice che si rafforza quando lo attaccano, ora la scena si è ribaltata: loro ci attaccano e noi siamo più forti. Rispondiamo con le piazze piene».

Sardine, l'assessore Silvia Benaglia in piazza a Bologna: insultata, porta in tribunale Matteo Salvini. Libero Quotidiano il 21 Novembre 2019. Dalla piazza al tribunale, le sardine anti-Salvini hanno già le idee chiare. Silvia Benaglia, assessora al Comune di Pianoro (Bologna) scesa in strada con i 6.000 (o 12mila?) giovani e meno giovani di piazza Maggiore, giovedì scorso, come riferito dal Corriere della Sera ha annunciato che citerà a giudizio il leader della Lega Matteo Salvini dopo la pubblicazione sulle proprie pagine social la foto della donna e del simbolo del Pd riferiti al flash mob del Crescentone. A indignare la Benaglia i molti messaggi offensivi al suo riguardo tra i commenti in calce ai post di Salvini. Insulti non legati tanto alla sua presenza in piazza, quanto a un post che la stessa Benaglia aveva scritto qualche tempo prima sui leghisti: "Questi non sono politici ma delinquenti prestati alla politica, con l'unico scopo di infangare l'avversario". Parole che la stessa assessora non rinnega, ma che le hanno fatto "guadagnare" insulti e addirittura minacce di morte, tanto che la dem ora dice di avere "paura". Resta un fatto: l'ironia professata dall'organizzatore Mattia Santori e sbandierata in decine di interviste sui giornali e in tv, insomma, sembra già evaporata in un clima di veleni e violenza verbale purtroppo molto nota alla politica di questi anni. 

Diego Fusaro, minacce di morte dopo la critica alle sardine: "Dove si sono spinti". Libero Quotidiano il 20 Novembre 2019. Il filosofo e saggista Diego Fusaro al centro di un vortice di minacce e insulti in rete circa la sua opinione sul movimento delle sardine. "Sulla pagina di Enrico Mentana", dice a Radio Radio, "è comparso un articolo del rotocalco Open da lui diretto dove mi si criticava essenzialmente per essere non allineato rispetto al movimento delle sardine. Fin qui tutto legittimo, ringrazio anzi il direttore Mentana per lo spazio concesso. Tuttavia avviene che sotto l’articolo pubblicato da Mentana si trova un insieme di insulti, di minacce e di commenti gravidi di odio che danno da pensare". "Centinaia di insulti", aggiunge, "che minacciavano anche la famiglia del sottoscritto, che minacciavano aggressioni, talvolta auguravano anche la morte o il campo di concentramento. Alcuni sono stati rimossi da Facebook immagino, ma comunque la cosa grave è che sono comparsi questi insulti da persone che si professano in larga parte antifasciste. Se fossimo negli anni '30 probabilmente li troveremmo con la camicia nera indosso, perché il metodo è esattamente quello". 

Sardine, la prof e l'allievo contro Matteo Salvini: "Sprangate nelle gengive", "Non preoccuparti..." Libero Quotidiano il 20 Novembre 2019. Le sardine a-politiche e non violente? Balle, soltanto balle. L'ultima prova la snocciola sui social ancora Matteo Salvini, il bersaglio delle sardine stesse (il movimento di protesta contro il leghista nato in Emilia Romagna, a Bologna). L'ex ministro dell'Interno, infatti, propone sui social alcuni "gentili dialoghi" tra... sardine. Nel dettaglio, tra un'insegnante del conservatorio di Musica San Pietro a Majella e quello che si qualifica come un suo alunno. Quest'ultimo afferma: "Qui ci vorrebbe una nuova piazzale Loreto. Tutti a sprangate nelle arcate gengivali andrebbero presi!". La signora risponde: "Credimi, non ci sarà bisogno di sporcarsi le mani". E ancora, lui: "Emma, tutto sacrosanto, ma io li prenderei a sprangate lo stesso". Conclude l'insegnante: "Io ti voglio troppo bene". Una discreta porcheria, che il leader della Lega commenta così: "Alla faccia di Salvini semina odio...". Viva la libera e democratica partecipazione di chi non la pensa come noi. Ma non trovo niente di democratico nel dire che dovremmo essere presi "a sprangate nelle arcate gengivali".

Alla faccia di "Salvini semina odio"....Sardine, Repubblica in ginocchio da Mattia Santori "tra Marx e Churchill contro i nazisti". Delirio sinistro. Libero Quotidiano il 21 Novembre 2019. In ginocchio dalle sardine. La sinistra allo sbando cerca nei ragazzotti in piazza contro Matteo Salvini il nuovo faro politico. Il guaio è che la sindrome del "nuovo simbolo" attanaglia non solo i leader del Pd sempre più fragili, ma anche i "salotti intellettuali". Repubblica, in questo senso, è un esempio perfetto. Come ricorda Italia Oggi, il commento di Francesco Merlo è entusiasmo puro: "Le sardine fanno paura a Salvini perché sono la sinistra che finalmente non fa paura", "spaventano Salvini perché non fanno spavento", "stordiscono il predatore" in un "emozionante contagio". Sul fatto che non facciano paura, alla luce dei commenti su Facebook di molti di loro in cui si augurano un Salvini appeso a testa in giù, ci sarebbe da ridire ma questo a Repubblica interessa poco o nulla. Sempre Merlo paragona Mattia Santori e compagni ora a Marx ora a Churchill contro i nazisti, "intonano Bella ciao con la compostezza dei coristi dei college di Cambridge" ed esprimono una "epopea della specie e della collettività che protegge l'individuo". Sì, siamo già al "sardinismo".

Adnkronos il 20 novembre 2019. In principio furono i “Gattini su Salvini”. Decine di micetti protagonisti di una pagina Facebook che nell'ormai lontano 2015 invadevano foto e post del leader del Carroccio per contrastarlo pacificamente. Ora che quella “trollata felina” è ormai finita nella preistoria di internet, ecco che il numero uno della Lega la rilancia, stavolta in suo favore, sbancando i social con “Gattini con Salvini”. A dare il via alla nuova ondata di cuccioli sul web, un post di ieri sera in cui il Capitano porge una singolare domanda ai suoi sostenitori dopo l'ondata (inaspettata) delle Sardine nelle piazze. "Cosa c'è di più dolce e bello - chiede - dei gattini? P.s. Ai vostri bambini felini piacciono sardine e pesciolini? Mettete la foto nei commenti! Miao!", l'eloquente chiosa del post corredato da un altrettanto eloquente immagine: un morbido micino con una sardina in bocca. Una “trollata” in piena regola, insomma, che tuttavia non ha scalfito la fede dei sostenitori, dalla serata di ieri impegnatissimi nel postare foto dei propri amici a quattro zampe insieme alla richiesta, in più di qualche caso, di un saluto o un augurio per Micio o Fuffi direttamente dalla bocca (o tastiera) del leader. Ma come l'hanno presa i detrattori? Dipende. Se da un lato a Salvini viene riconosciuto almeno il merito di essere "il troll migliore di tutti" e di "prendere per il culo tutti. Suoi elettori e non", dall'altro in tanti si interrogano sulle motivazioni che avrebbero spinto il capo del Carroccio a "postare serenamente stronz...". E tra un meme, un'offesa e diverse "braccia che cadono senza pietà", ci si chiede se "gli ultimi tweet" di Salvini "stiano andando davvero cosi male" tanto da dover ricorrere "a povere bestiole ignare" per "risalire nei trend, nel bene o nel male".

Chiara Sarra per il Giornale il 20 novembre 2019. Dopo l'assalto dei pm, che hanno indagato Matteo Salvini per sequestro di persona per il caso della Open Arms, poteva mancare anche quello dei buonisti? E infatti è arrivato subito padre Alex Zanotelli ad attaccare l'ex ministro dell'Interno. "Va processato per la sua disumanità", ha detto all'agenzia Adnkronos il missionario comboniano - da sempre pro migranti e non nuovo a parole choc contro il leader della Lega -. Nella sua invettiva il religioso ha dipinto Salvini come un robot che "non sente il dolore per gli altri, in particolare per chi soffre, non ha alcun senso morale". E per questo si aspetta un esito diverso da quello dell'inchiesta sulla Diciotti, quando il Senato negò l'autorizzazione a procedere: "Voglio augurarmi che stavolta i 5 Stelle, che non sono più parte del governo con la Lega e dicono che non torneranno mai più con Salvini, votino secondo coscienza e si crei un blocco per fare processare l'ex ministro". Alla notizia dell'indagine su Open Arms, in realtà, Salvini ha reagito parlando di una "medaglia". E anche uno dei suoi più ferventi oppositori, il filosofo e saggista Massimo Cacciari, fa notare come la vicenda "politicamente parlando certamente non fa altro che bene al signore, purtroppo". Eppure padre Zanotelli attacca ancora: "Ma come si fa a parlare di medaglia? Chi reagisce così non tiene in alcun conto il dolore di nessuno", dice, "Questa è la cosa grave: il senso di strafottenza tipico dei ricchi nei confronti di chi non ce l'ha fatta". E se la prende pure con il cardinal Ruini che qualche giorno fa aveva chiesto alla Chiesa di dialogare con il leader leghista: "E poi arriva uno come il cardinale Ruini a dire quel che dice su Salvini, che è una figura che rappresenta l'estrema destra", sostiene il religioso, "Mi auguro davvero che Patronaggio, finalmente riesca a portarlo in tribunale per la sua disumanità. Mi vengono in mente le parole che pronunciò il Papa a Lampedusa quando nell'omelia chiese 'Avete mai pianto quando avete visto un barcone affondare?'. Rischiamo tanto oggi, siamo davanti ad una battaglia di valori, di umanità". Parole a cui Salvini ha risposto con una battuta condividendo la notizia sui suoi account social: "Ma Chef Rubio si è travestito da prete?", si chiede ironicamente l'ex vicepremier, accompagnando il post con una emoticon che ride fino alle lacrime.

La "sardina" democratica vuole Salvini morto. Autogol sui social e figuracce in tv per i leader del movimento, soprattutto per Samar Zaoui che voleva un giustiziere sociale per Salvini. Daniele Capezzone il 19 novembre 2019 su Panorama. Giornataccia per le sardine, tra disastrosi autogol sui social e figuracce in tv. Un minimo di ricerca su Facebook (inevitabile quando la rete si mobilita) ha segato sul nascere la celebrazione mediatica di Samar Zaoui, che sarebbe inevitabilmente scattata dopo la manifestazione di ieri sera a Modena, seconda uscita delle sardine. È infatti venuto fuori che la Zaoui, aspirante laureata e militante Udu (sindacato di studenti di sinistra) e tra le organizzatrici dell' evento modenese insieme al collega di studi Jamal Hussein, a maggio scorso aveva postato una strana via di mezzo tra un appello e una preghiera, corredata dalla condivisione di un inequivocabile video di Matteo Salvini a testa in giù: «Pregate voi, che dio (minuscolo, ndr) vi ascolta. Avremmo bisogno di un giustiziere sociale, di quelli che compaiono nella storia, che dopo aver ucciso vengono marcati come anarchici». Auspicio? Istigazione? Certo, sarà dura d' ora in poi presentare questa signorina come una lottatrice contro l'odio. Lo stesso Salvini prima ha detto di «aspettare reazioni indignate di giornalisti, politici e merluzzi», e poi ha constatato che il «profilo della democratica sardina che invocava il mio omicidio è inspiegabilmente scomparso da Facebook». Ma un'altra autorete era già avvenuta qualche ora prima (a volte il frisbee può ritornare indietro come un boomerang), nella forma di un debutto televisivo tutt'altro che brillante per il capo sardina Mattia Santori. Il quale, all'apparire della prima pagina della Verità di ieri, è stato immediatamente costretto a ricorrere a un'imbarazzata bugia. Metodi da vecchio politicante in difficoltà, più che da giovane promessa della «società civile». Ieri mattina, infatti, ad Agorà su Rai 3, l'ospite d' onore era proprio lui, l'istruttore di frisbee celebrato come un leader: maglioncino senza camicia, barbetta di due giorni, e sorrisino soddisfatto di chi pensa di poter prendere in giro chiunque.

Lo "Zar" Zaytsev "schiaccia" Salvini: anche lui è una "sardina". Ivan Zaytsev, capitano della nazionale italiana di pallavolo, ha partecipato al flash-mob del movimento delle "sardine" in piazza Grande, a Modena: "Questa terra porta con sé una storia. Sono un fiero italiano, modenese adottato". Gianni Carotenuto, Martedì 19/11/2019, su Il Giornale. Sport e politica. Un intreccio destinato, ancora una volta, a far discutere. Protagonista Ivan Zaytsev, capitano della nazionale italiana di pallavolo noto per le sue frequenti prese di posizione extracampo. Questa volta, lo schiacciatore del Modena Volley ha fatto parlare di sé per un video, pubblicato sui social, dove compare insieme al compagno di squadra Salvatore Rossini in piazza Grande, a Modena, dove si è svolto l'ultimo flash-mob delle "sardine", il movimento di sinistra nato dal basso per contrastare Matteo Salvini e la Lega, e appoggiare al tempo stesso la ricandidatura di Stefano Bonaccini alle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Zaytsev, di origini russe, è stato uno dei circa 6mila partecipanti alla manifestazione di lunedì. E ha voluto testimoniare la sua discesa in piazza con un breve video girato in compagnia di Rossini. "Questa sera il qui presente Totò e il sottoscritto...", ha detto il campione di origini russe all'inizio del filmato, prima dell'improvvisa comparsa davanti alla fotocamera del cartonato di una sardina. "Occhio, c'è una marea di gente", ha aggiunto l'ex giocatore di Perugia prima di spostare l'inquadratura verso la piazza. Il suo endorsement alle "sardine" non ha lasciato indifferente il web. Puntuale come un orologio svizzero è arrivato il post di Lorenzo Tosa. Giornalista dalle inequivocabili tendenze progressiste, cantore social della sinistra buonista e radical-chic, Tosa ha raccontato, esaltandola, la decisione di Zaytsev di aderire alla manifestazione anti-leghista. "C'era anche lui, sotto quegli ombrelli, insieme alle 6mila meravigliose sardine che questa sera hanno invaso piazza Grande per dire No, anche questa volta non passerete", le parole di Tosa. A cui il pallavolista di Modena ha risposto così: "Grazie Lorenzo, questa terra porta con sé una storia, questa meravigliosa gente è il suo bellissimo presente... Sono un fiero italiano, modenese adottato". In passato Zaytsev aveva fatto parlare di sé per avere pubblicato sui social una sua foto con la figlia Sienna, appena vaccinata. Finendo travolto dagli insulti di alcuni attivisti no-vax, alcuni dei quali irripetibili. E ricevendo, per questo motivo, la solidarietà del mondo dello sport e di buona parte di quello politico.

Pierfrancesco Catucci per gazzetta.it il 21 novembre 2019. Modena c’è. Batte Milano (3-0) e sta dietro a Civitanova che va in campo questa sera in una stagione-hamburger che macina campioni e risultati. Ieri sera – dopo il cappotto con la Lube domenica scorsa – la squadra di Andrea Giani (premiato all’Allianz Cloud) si è rimessa in carreggiata. Anche grazie ai colpi del suo uomo più rappresentativo che, in campo o fuori riesce sempre a fare parlare di se. Mai banale Ivan Zaytsev, quando mura Petric e sigilla il secondo set o quando ci mette la faccia in piazza, come aveva fatto lunedì sera, in piazza a Modena. Una scelta che lo ha fatto diventare un’altra volta bersaglio dei social, dove anche ieri è stato attaccato in maniera pesante. Dopo che era sceso in piazza con le sardine: un gesto che ha provocato parecchie reazioni con qualche messaggio anche dai contenuti molto duri nei confronti del capitano della Nazionale italiana.  “Succede sempre così, sono consapevole che qualsiasi cosa faccia generi delle reazioni, anche estreme. Era successo quando mi esposi con la storia dei vaccini, qualche tempo fa, ed è successo di nuovo in questi ultimi giorni. Ma io sono fatto così e non smetterò mai di metterci la faccia. Dirò sempre quello che penso». La faccia Zaytsev ce l’aveva messa anche lunedì sera, fuori dal campo, quando con Totò Rossini era sceso nella piazza della città che lo ha adottato nelle ultime due stagioni per contestare l’arrivo del leader della Lega Matteo Salvini. “Io leader politico? – scherza e si esibisce in una faccia da sardina – Sono una “sardona”, una sardina gigante. Semplicemente mi faceva piacere lanciare questo messaggio ed essere tra le tante persone che sono scese in piazza Grande, tra l’altro sotto una discreta pioggia. È stato bello e divertente ed era una cosa che sentivo di fare da cittadino italiano” (...)

 Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 21 novembre 2019. Passare dalla ricerca del Papa straniero al culto di Suor Sardina è un attimo, nella sinistra italiana a corto d' idee forza e di volti credibili da opporre alla riconquista dei sovranisti. Sicché il circo politico-mediatico goscista ha appena arruolato la testimonial perfetta per la battaglia inaugurata dalla così detta società civile radunata a Bologna in piazza Maggiore contro Matteo Salvini. Lei è suor Giuliana Galli, è impegnata nella onlus Mamre che lavora con rifugiati, richiedenti asilo e vittime di violenza ridotte in schiavitù, la sua presenza è attesa nell' acquario salottiero di Torino per i primi giorni di dicembre: «Sarò anche io lì, per ripulire le parole dall' odio». Ma non sembra esattamente una sorella anonima, Giuliana, essendo stata vice presidente della Compagnia di San Paolo e cioè la principale fondazione italiana di origine bancaria. Una Suora di establishment e di potere, si direbbe piuttosto, e per capirlo basterebbe ricordare a quale persona subentrò nel 2010 al vertice dell' istituto bancario torinese: Elsa Fornero. La nostra sardina biancovelata, che fino a ieri era soprannominata «Suor Banca» fra i papaveri della finanza, adesso attribuisce ai «fish-mob» «alto senso di pulizia e armonia» e ne benedice l' esportazione nelle altre piazza anti salviniane. Tutto ciò, beninteso, in nome della lotta al «razzismo dilagante», alle «offese a persone come Ilaria Cucchi e a Liliana Segre», o più in generale «davanti a situazioni anche poco cristiane al di là di esibiti simboli cristiani».

VADE RETRO. Se poi, come ha fatto l' Adnkronos, le si domanda di essere più precisa riguardo al bersaglio dell' iniziativa, ovvero il leader della Lega, la sardina mostra i denti del piranha: «Io quella persona non la menziono neanche per sogno, perché tutte le volte che si parla di qualcuno gli si dà spazio. È il non violento e molto altro che le sardine portano alla luce». Alla faccia del «dolce stilnovo» evocato su Repubblica da Francesco Merlo per incorniciare la versione ittica e aggiornata dei girotondi e delle madamine o insomma del mite comunitarismo acefalo impegnato per la salvezza del bon ton che tanto consola la sinistra perbene. Se Parigi valeva bene una messa nella Francia borbonica, oggi l' autoconservazione delle élite assediate dalla volontà popolare prevede di attingere a qualsiasi repertorio parareligioso non ancora consunto dalla delegittimazione dei seminari e dei partiti. E nulla, nelle premesse dei manovratori, dovrebbe fungere meglio di una suora al servizio del sedicente civismo autorganizzato contro la volgarità. Ma se vai a grattare sulla patina dell' oleografia caritatevole, trovi che è pur sempre un appannaggio di agiate oligarchie, ricami e merletti ideologici di alta società, prima ancora che vile sostanza materiale.

SANTO DISPREZZO. E allora tanto vale sacrificare le espettorazioni plebee di padre Alex Zanotelli per dare spazio invece al suprematismo flautato della sardina bianca. E siccome la vanità non conosce clausura, ecco che la madre badessa in grisaglia si fa un vanto di dirigere l' ideale convento laico della solita sinistra armata di disprezzo antropologico e bene attenta a contrabbandare per fresco spontaneismo la consueta coscrizione militante nell' epoca dei social.

CHI LA MANOVRA. Ma suor Giuliana dopotutto che colpe ha? Laureata in sociologia, master in Scienze del comportamento a Miami, numerosi viaggi e soggiorni negli Stati Uniti, domiciliata per anni nella Casa del Cottolengo a Moncalieri, in cui riuscì perfino a ospitare Guido Ceronetti con il suo teatro di marionette. Una vita di altezze morali oltreché finanziarie, la sua Il problema è semmai di chi se ne appropria come fosse la reincarnazione politica e più coltivata del fenomeno Suor Paola, la tifosa della Lazio lanciata in video da Fabio Fazio nel suo «Quelli che il calcio», effigie incosciente di una cinica operazione di marketing televisivo. In fondo siamo alle solite. Faute de mieux, la sinistra priva di consenso e carente di pane politico si rifugia sempre nelle brioches. Con la prossima stagione di crocicchi «autoconvocati», invece dell' ormai canonico flash mob, si potrebbe direttamente mettere in scena il rivoluzionario musical sul «pasticciere trotzkista» di nannimorettiana memoria.

Fiorella Mannoia ancora contro Matteo Salvini: "La tortura? Quest'uomo ormai sta delirando". Libero Quotidiano il 20 Novembre 2019. Fiorella Mannoia torna alla carica contro Matteo Salvini. Questa volta a fare innervosire la cantante è una dichiarazione del leader del Carroccio, che con tanto di allegato, ripropone sul suo profilo Twitter. "Il capo leghista ai poliziotti del Sap: 'Cambierò la legge sulla tortura'". Questo il titolo del Manifesto condiviso dalla Mannoia con l'aggiunta di un suo commento : "La tortura è un abominio, è vietata dalle leggi internazionali. Quest'uomo ormai sta delirando".  La cantante non è nuova a tali insulti e per lei Salvini è ormai un bersaglio di routine. Poco fa infatti, la Mannoia aveva definito l'ex ministro "un vigliacco". Il motivo? Il leader leghista si era detto pronto a ricevere al Viminale la sorella e i familiari di Cucchi. Un invito così indecente? 

 Simona Casalini per roma.repubblica.it il 20 novembre 2019. La rivincita delle tenaci sardine passa anche per Roma. Dopo i settemila "pesciolini" stretti stretti ma, insieme, potenti, in piazza nelle città dell'Emilia, si espandono anche da Torino a Bari, da Milano a Firenze. E si uniscono a loro le sardine romane. Si affacciano e cominciano a contarsi nella pagina Fb "Sardine di Roma" aperta poche ore fa da Stephen Ogongo, giornalista 44enne, originario del Kenya arrivato in Italia per motivi di studio 25 anni fa, già docente all'università Gregoriana, due figlie, e caporedattore di alcune testate del gruppo "Stranieri in Italia". E' anche fondatore del movimento antirazzista "Cara Italia". Uno dei tanti slogan che si leggono che recita così: "Una mattina, mi son svegliato...Salvini ciao ciao ciao!" E' nata da poco ma a scorrerla sembra già molto motivata, coloratissima, con post anche costruttivi: "Protestare è utile e giusto, ma a mio avviso non basta. Molti di noi combattono il sovranismo in mille modi, ogni giorno. Insegnando, lavorando nella cultura, nella musica, nel volontariato. Si parla poco, troppo poco, di quello che facciamo. Fare rete CONTRO è un atto che si nota, ma mentre protestiamo approfittiamo anche per fare rete PER". Il movimento di opposizione alla Lega si presenta così: "Benvenuti a quanti vorranno aggregarsi a questa avventura fantastica per contrastare la politica dell'odio e del disprezzo della diversità. E' ora di slegare questo paese. Lazio non si lega. Sardine unite". Al momento non è chiaro quando ci sarà la prima manifestazione, sulla pagina circolano alcune date: 14 dicembre e 21 dicembre, ma ancora non è stato deciso nulla di preciso. Con l'amministratore Ogongo che punta in alto: "Buongiorno sardine. Come state? Riusciamo a portare in piazza a Roma 1 milione di sardine?" Qualcuno ha pensato anche al logo: sardine che circondano il Colosseo, convinte che "Roma non si Lega". Il numero dei membri cresce di ora in ora, in serata arrivano intorno ai ventimila e c'è chi arringa, "Propongo piazza San Giovanni per lavarla dall'orda fascista che l'ha insudiciata il 19 ottobre". Nelle stesse ore in cui Salvini sferza: "Le sardine? Preferisco i gattini che se le mangiano".

Dopo l’Emilia, le «sardine» arrivano anche a Firenze, Milano e in Puglia. Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 da Corriere.it. Prima Bologna, poi Modena. E ora anche Reggio Emilia, Rimini e Parma dove nei prossimi giorni (rispettivamente il 23, il 24 e il 25 novembre, sempre in concomitanza con il tout elettorale del leader leghista Matteo Salvini) le «sardine» scenderanno di nuovo in piazza. Non solo: la mobilitazione inizia a prendere piede anche in Toscana, dove si lavora per un flash mob il 30 novembre a Firenze. Samar Zaoui, promotrice della manifestazione delle «sardine» a Modena, in un’intervista a Radio Capital ha parlato di contatti anche con l’Umbria. Su Facebook intanto è nata una pagina dedicata a «Le sardine di Milano»: ancora non c’è un appuntamento ufficiale ma i follower in poche ore sono già oltre 800. Quelli del gruppo di Torino, invece, sono saliti a quota 20mila. E poi c’è il Sud, dove per il momento non ci sono né una data precisa né un luogo definito ma solo diversi appelli, affidati a pagine Facebook come «AAA Sardine Sannite Cercasi» («Proviamo a vedere se ci sono sardine sannite?», chiede l’organizzatrice Annachiara Palmieri alle circa 200 persone collegate alla pagina) o «Arcipelago delle Sardine» (che in due giorni ha raccolto oltre 30mila persone tra Puglia e Campania). Anzi, un appuntamento c’è. È quello che organizzato dai «fravagli», cioè i «figli delle sardine bolognesi, appena nati, croccanti e napoletani» come si definiscono su Facebook incitando a scendere in piazza giovedì 21 novembre, alle 10:30, in piazza Andrea Veniero a Sorrento. All’evento, per ora, hanno già aderito quasi 4mila persone. A Bologna, sabato scorso, gli organizzatori del primo evento delle «sardine» avevano previsto di radunarne 7mila. È andata a finire che in piazza se ne sono ritrovate 15mila, più del doppio. «Nessuna bandiera, nessun partito, nessun insulto», avevano precisato Mattia Santori, Andrea Garreffa, Giulia Trappoloni e Roberto Morotti, i quattro trentenni che hanno lanciato l’idea: solo «la tua sardina» per partecipare «alla prima rivoluzione ittica della storia». Perché le sardine? Perché sono pesci piccoli e indifesi davanti allo «squalo» Salvini ma che, se si stringono e si muovono insieme, diventano una massa compatta. Come è successo in piazza Maggiore a Bologna e in piazza Grande a Modena, dove lunedì sera si sono radunate oltre 7mila persone. Tutte con l’ombrello, perché pioveva a dirotto. Il prossimo appuntamento da tenere d’occhio sarà quello di Rimini, domenica 24 novembre alle 17 alla Vecchia Pescheria. Il leader leghista, commentando la mobilitazione, ha infatti dichiarato di essere pronto a incontrare le «sardine»: «Ci vado anche io in piazza con loro. Sono curioso di sapere qual è la proposta». Gli organizzatori del flash mob, a modo loro, hanno già replicato: «Oltre alla vostra sardina - hanno chiesto ai partecipanti - preparate un bel pesce palla da regalargli».

La Puglia aderisce alla sfida delle «sardine» contro Salvini: quasi 40mila adesioni. La regione si attiva con il gruppo Facebook 'Arcipelago delle sardine', fondato, tra gli altri, dal sindaco di Acquaviva, Davide Carlucci. Nello 'staff' di amministratori c'è Michele Abbaticchio, sindaco di Bitonto. La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Novembre 2019. Quasi 40mila iscritti, per ora, con adesioni in costante aumento: il popolo delle 'sardine' contro Salvini approda anche a Bari e in Puglia dove da soli due giorni si sta formando un nutrito gruppo di sostenitori ispirati ai flash-mob anti-sovranisti svoltosi in Emilia Romagna nelle ultime settimane, in concomitanza con i comizi del leader della Lega. Come altre regioni d'Italia (Toscana, Campania, Lazio), anche in Puglia la mobilitazione è attiva con il gruppo Facebook 'Arcipelago delle sardine', fondato, tra gli altri, dal sindaco di Acquaviva, Davide Carlucci. Nello 'staff' di amministratori c'è anche Michele Abbaticchio, il sindaco di Bitonto che è anche numero due di Italia in Comune, stesso partito del collega acquavivese. «C'è un gran movimento per cambiare l’Italia, per renderla più giusta, più sostenibile, più sviluppata e più libera lasciandoci alle spalle la stagione del fasciopulismo sovranista. Teniamoci stretti come le sardine» si legge nelle informazioni. La foto di copertina del gruppo su Facebook è quella della piazza di Bologna gremita di manifestanti per il flash mob anti-sovranista organizzato nei giorni scorsi su iniziativa di un gruppo di giovani emiliani, il cui appello ha radunato 15mila persone. A quella iniziativa si è ispirato il movimento pugliese. «Questo non è assolutamente un gruppo partitico né politico - spiega Carlucci - . Ho voluto abbracciare, insieme a persone che hanno storie e militanze diverse dalla mia, un movimento che ritengo non solo giusto ma anche necessario in questa fase».

Sardine, gretini e gay: contro Matteo Salvini nasce una nuova alleanza. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 24 Novembre 2019. Come prevedibile, è finita malissimo. Dopo una settimana di gloria passata a straparlare di politica e massimi sistemi su televisioni e giornali, i ragazzi del movimento delle Sardine hanno finalmente mostrato il loro buffo volto. Nella massima confusione su idee, obiettivi e metodi, sta per nascere una grande alleanza tra gretini, fan di Vladimir Luxuria e anti-salviniani. Mancano solo Carola Rackete, i terrapiattisti e gli indignados spagnoli, dopodiché la grande ammucchiata sarà completa. Dicevano che la Lega sarebbe stata affossata da questa serie manifestazioni, in realtà è probabile che alla fine sia il Pd a dover temere l' esito dell' operazione. Con avversari così la Lega rischia di schizzare al 50% nei sondaggi anche se fatti direttamente tra gli stretti famigliari di Zingaretti.

CONTRO GLI SCONTI. Il capitolo più corposo riguarda i seguaci della Thunberg, i quali per settimana prossima hanno indetto un curioso sciopero contro i saldi pre-natalizi (il cosiddetto Black Friday) perché considerati «un' orgia di consumismo insostenibile, una festa dello spreco che fa schizzare in alto il consumo di risorse e la produzione di gas serra». Se si compra a prezzo pieno si inquina meno? Non è chiaro. Così come non si spiega perché mai Greta dovrebbe avercela con l' opposizione e non con il governo italiano, visto che (è utile ricordarlo) la ragazzina svedese sostiene che nel 2030 moriremo tutti e che di conseguenza c' è poco tempo per salvare il pianeta. A quanto pare, però, ora gli ecologisti italiani hanno iniziato a concentrarsi su altre priorità: «Siamo certi che tanti di voi abbiano a cuore la situazione climatica» hanno scritto ai giovani scesi in piazza a Bologna e Modena, «così come sappiamo che molti di noi stanno prendendo parte con entusiasmo alle vostre iniziative volte ad evidenziare l' emergenza democratica in corso nel paese». La Repubblica è in pericolo, sostengono senza misurare le parole gli ambientalisti nostrani. Per fortuna c' è la Thunberg.

MUCCASSASSINA. Arriviamo poi alla questione del MuccaAssassina di Roma, famoso locale notturno dove ha mosso i primi passi anche Luxuria, primo trans approdato in Parlamento. Ieri sera nella discoteca (la più grande della capitale) si è tenuto un importante ritrovo: «ospitiamo le Sardine sul nostro palco, dando inizio all' alleanza tra loro e la comunità Lgbt+». E anche qui è meglio se Salvini inizia a tremare: siamo di fronte a un' iniziativa della massima serietà. Cosa potrà fare l' ex ministro degli Interni di fronte alla mobilitazione di una comunità di artisti che annovera tra i suoi membri personalità quali le drag queen "She Wulva" e "She Male" e "Lady Diamante Stupenda"? Il Carroccio è spacciato. In tutto ciò, sembra definitivamente tramontata la barzelletta delle "Sardine movimento senza colori". In poche ore è emerso che a Firenze l' organizzazione è guidata da un ex giovane Pd e i tre leader di Bologna, Ferrara e Parma hanno ammesso candidamente in un' intervista a Cartabianca di considerarsi di sinistra. A Milano, invece, i pescetti si definiscono su Facebook "sinistra subacquea". In altre parole, non è un caso se a Modena in piazza cantavano tutti "Bella ciao" e se si continuano a trovare esponenti dem ai vari eventi (ieri a Palermo è arrivato il sindaco Leoluca Orlando). In pratica, è la maggioranza di governo che ha iniziato a organizzare cortei contro l' opposizione. Un' onda rossa aggressiva, ma anche chic: domani per esempio si terrà una manifestazione a New York, a Washington square. Intanto i nemici di Salvini hanno depositato un marchio ufficiale: registrato presso l' Euipo, l' Ufficio della Ue per la proprietà intellettuale. Mattia Santori, portavoce del movimento, è sicuramente un tipo ambizioso. Diceva di aver appreso «in tre giorni» il lavoro di Matteo Salvini. L' unica certezza è che a montarsi la testa ci ha messo pure meno. Lorenzo Mottola

Adesso sbarcano pure in Usa: ci mancavano le sardine a NY. Domani la manifestazione a New York delle "sardine atlantiche": "La nostra storia è la storia delle sardine di tutta Italia". Bartolo Dall'Orto, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. Dopo Bologna, Modena, Sorrento e Perugia le sardine faranno un lungo viaggio, attraverseranno l'oceano Atlantico e raggiungeranno New York. Sotto i grattacieli made in Usa, non lontano dalla Trump Tower, lì dove little Italy è una tappa quasi obbligata per chi visita la città, gli anti-leghisti si raduneranno in piazza per "una causa tanto importante". "Non c'è tempo da perdere - dicono - si tratta di un'emergenza". L'appuntamento è per domani A Washington Square Park ore 15 locali. Le sardine atlantiche, così si sono definite, stando agli interessamenti su Facebook dovrebbero essere circa 200. "La nostra storia è la storia delle sardine di tutta Italia. Siamo allineate e allineati con il loro manifesto", scrivono sui social. L'evento è stato organizzato in coordinamento con le 6mila sardine "originali". Dunque c'è la bollinatura ufficiale da parte dei ragazzi che hanno pure registrato il marchio a livello europeo per evitare "fake" e approfittatori. L'obiettivo dichiarato è quello di "dialogare, scambiare idee e riportare la politica alla piazza".

La dittatura delle sardine. Il movimento newyorkese è nato "sull’onda" del manifesto delle sardine, pubblicato nei giorni scorsi Mattia Santori&co. "Siamo un gruppo di italiani che vivono a New York - si legge sui social - e abbiamo deciso di mobilitarci spontaneamente per sostenere il movimento delle Sardine che sta inondando il nostro Paese. Crediamo sia giunto il tempo di agire come cittadini attivi e responsabili per ricostruire il dialogo democratico eliminando le parole di odio e raccontando l'Italia con parole nuove!". A dire il vero, l'appello non è rivolto solo a tutti gli italiani presenti nella Grande Mela, ma anche agli "antifascisti non italiani". Sarà una "manifestazione pacifica" per "dimostrare che gli italiani credono in una Italia antifascista, inclusiva, traboccanti di speranza per le sorti del nostro Paese e non d’odio ci sono, sono tanti, e sono in tutto il mondo!". Ci sarà "solidarietà alle migliaia di sardine in tutta Italia" (manco fossero sotto attacco". Si cercherà di "denunciare la retorica dell'odio, della discriminazione, dell'esclusione dei più deboli che sta infestando come erba cattiva la nostra politica". Verrà rinnegata "la politica fatta di slogan e false notizie, di post e likes sui social media". E non mancherà la promozione di "una politica anti-populista che appoggi idee, dialogo e programmi concreti". Infine, le sardine atlantiche sotto il cielo di New York urleranno "a tutto il mondo che l'Italia è antifascista".

Salvini arruola i "gattini" contro le “sardine”. «Almeno le mangiano». Pubblicato mercoledì, 20 novembre 2019 da Corriere.it. Arruola i «gattini» Matteo Salvini per contrastare il popolo delle «sardine», sceso in piazza a Bologna contro il leader della Lega e ora pronto a farsi sentire in tutta Italia. Sui social Salvini posta infatti un felino che addenta una sarda, chiarendo a tutti l’epilogo in cui confida. «Alle “sardine” preferisco i gattini — dice il leader della Lega —, Sono dolci, hanno 7 vite e si mangiano le sardine quando hanno fame. Andrò a trovarli nelle piazze, ad abbracciarli, tanto sono pacifici e democratici». L’ex premier, sui social network, lancia questa campagna per ribattere al movimento delle «sardine», che a Bologna e Modena hanno già portato in piazza oltre 20 mila persone nell’ambito della mobilitazione anti Lega in vista delle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Il movimento ha innescato una lunga serie di iniziative analoghe, da Palermo a Milano, con oltre 30 piazze in calendario. E a questa raffica di flash mob messi in calendario da qui a metà dicembre, Salvini risponde così: «Mi piacciono questi ragazzi — dice il capo della Lega — danno valore e importanza a ogni mia presenza. Nelle prossime occasioni mi propongo di andarli a salutare e ringraziare perché sono un valore aggiunto».

Le Sardine "selvagge" sono il pesce pilota della sinistra in crisi. Il fenomeno si allarga ad altre città. Ma sono pezzi di Pd che ritentano la rottamazione. Giuseppe Marino, Giovedì 21/11/2019, su Il Giornale. In molti nei giorni scorsi si sono esercitati a cercare i legami tra gli organizzatori delle Sardine in corteo nelle piazze emiliane e il Pd. Ricerca che ha svelato più di qualche connessione. Ecco le più evidenti: il portavoce di fatto, Mattia Santori, ha collaborato con Energie, un magazine cofondato da Romano Prodi. Gli animatori della manifestazione a Modena, Jamal Hussein e Samar Zaoui, sarebbero stati legati all'Udu, sindacato studentesco di sinistra e anche i Giovani democratici si sarebbero dati da fare per riempire la piazza emiliana anti-Salvini. Il successo delle due iniziative nate su Facebook ha ringalluzzito l'opinionismo di sinistra e generato emuli in tutta Italia: Rimini, Torino, costiera Amalfitana. La pagina Facebook «6000 Sardine» creata dai quattro amici di Bologna, «ragazzi» per definizione (lo è sempre chi si muove per rinnovare un'area politica, anche se a 32 anni sei ragazzo solo in Italia), tenta con fatica di mantenere il primato sul marchio, raccomandando a tutti gli organizzatori, comprensibilmente, di coordinarsi con loro. Ma la domanda se «dietro» il movimento ci siano Prodi o il governatore emiliano Stefano Bonaccini è chiaramente poco rilevante e oziosa. Proprio come lo stupore per aver mobilitato 12mila persone in pochi giorni con i social network. Che è il mezzo più capillare a disposizione ed è quello normalmente usato per qualunque raduno lampo stile «flash mob». Ma, soprattutto, c'è da chiedersi cosa ci sia di nuovo in una piazza che prende le distanze dai partiti della sinistra con l'unico collante di attaccare il leader della destra. Dalla caduta del Muro in poi, cioè da quando il principale partito progressista ha perso l'originaria ispirazione ideologica, il fenomeno si è ripetuto sempre più spesso. Ogni volta salutato come una ventata di novità e freschezza capace di rigenerare quel campo politico. Il popolo dei fax, i girotondi, il popolo viola, il movimento arancione, sul web i #Facciamorete. Segni caratteristici: l'indignazione, l'insoddisfazione per l'elite di sinistra, quasi sempre l'antifascismo. E ogni volta qualcuno più o meno «giovane» o qualcuno della cosiddetta società civile dava voce a questi umori. Vedi Nanni Moretti a piazza Navona o Debora Serracchiani. Il fatto è che la sinistra da sempre ingloba un pezzo di società civile: aziende, associazioni, intellettuali e gente di spettacolo, con cui stringe un legame organico che però la rende in sostanza parte di quell'elite. La sinistra non si allarga mai davvero a una società civile «altra», perché è elitaria per sua natura. Si riconosce e si specchia solo in canoni intellettuali ed estetici dati. Puoi venire al flash mob solo se citi a memoria Palombella Rossa. Chi non li sposa in tutto e per tutto è un estraneo da marchiare con il solito bollino: fascista. L'unica possibile «rivoluzione» è prendere il posto dei dirigenti più anziani, come Renzi. Solo uscendo da quel perimetro, come ha fatto il grillismo, si crea qualcosa di veramente nuovo (e nuovo non è per forza buono). Le Sardine non nuotano in direzione diversa: anzi, paiono i soliti pesci pilota che nutrono il partito ma ne rosicchiano il corpaccione. E infatti ad affiancarle arriva la solita partita di giro: gli editoriali di Repubblica, la suora nominata da Chiamparino nel consiglio di Fondazione San Paolo, ora anche l'attore Sergio Rubini che si schiera con le Sardine a Un giorno da pecora. Saranno mica questi i voti strappati al centrodestra.

Quei legami tra le Sardine e Prodi. Mattia Santori fa parte della redazione della rivista "Energia", co-fondata dall'ex premier Romano Prodi e diretta dall'ex ministro del governo Dini Alberto Clò. Roberto Vivaldelli, Lunedì 18/11/2019, su Il Giornale. Manifestazione spontanea, nata dal basso, una vera e propria "rivoluzione" in cui l'amore del popolo progressista trionfa contro "l'odio" di Matteo Salvini. Questo, più o meno, il prevedibilissimo storytelling dei giornali progressisti dopo la manifestazione delle Sardine che ha portato migliaia di persone in piazza Maggiore, a Bologna. Come abbiamo spiegato in questo articolo, tutto perfettamente legittimo, ma ci vuole un bel coraggio nel dire che questo sedicente "movimento", nato su iniziativa dei quattro trentenni Mattia Santori, Andrea Garreffa, Giulia Trappoloni e Roberto Morotti, non abbia proprio nulla a che fare né a spartire con i democratici. Mattia Santori, infatti, come abbiamo già raccontato, non nasconde la sua vicinanza ai dem e condivide sui social spassionati apprezzamenti per il segretario del Pd Nicola Zingaretti, lodi sperticate nei confronti dell'amministrazione comunale bolognese di centro-sinistra - "ve lo dico ora che l'Emilia Romagna è tra le regioni meglio amministrate d'Europa, che Bologna è ancora la patria dell'integrazione e della cultura" - e anche i post del governatore piddino Stefano Bonaccini, in corsa per la rielezione contro Lucia Bergonzoni. Nulla di male, s'intende, ma non prendiamoci in giro. La Verità ha scovato un altro elemento che lega Santori alla galassia progressista e democratica. Quest'ultimo, infatti, fa parte della redazione della rivista Energia (rivistaenergia.it) co-fondata nel 1980 da Romano Prodi e diretta dall'ex ministro del governo Dini Alberto Clò. Professore Ordinario di Economia Applicata, presso Università degli Studi di Bologna, è stato nel cda di diverse società - tra le quali Eni, Finmeccanica, Italcementi, Iren e ASM Brescia, Atlantia, Snam - e, come ricorda La Verità, è l'uomo che, nel 1978, ospitò la famigerata seduta spiritica del "piattino" per ritrovare Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse. Seduta - molto discussa - a cui parteciparono Romano Prodi e Mario Baldassarri. Insieme a Prodi, garante della rivista per cui lavora Santori è l'ex giudice costituzionale Sabino Cassese, che nel 2013 il Pd voleva proporre come presidente della Repubblica. Per il resto, abbiamo già parlato delle inequivocabili prese di posizione politiche di Santori sui social. In un post del 7 settembre scorso, per esempio, il promotore delle Sardine sposa in toto l'operato del segretario dem Nicola Zingaretti, pur non essendo iscritto al partito, definendo peraltro dei "pagliacci" gli avversari: "17 giorni per fare un governo (contro i 90 del governo del cambiamento); spread a 148 (contro i 320 dei pagliacci che proponevano Savona all'economia); un ministro dell'Interno che non usa i social network; all'economia un politico dopo 8 anni di tecnici; Salvini che da gradasso diventa lo zimbello d'Italia; centrosinistra unito da Renzi a Bersani (o meglio, da Grillo a Bersani). questo Zingaretti non se la cava malaccio...". Nei commenti, in risposta a chi storceva il naso verso il segretario dem, pubblica poi un articolo de Il Manifesto dal titolo eloquente: "Prima o poi dovremo fare l'elogio di Zingaretti".

Ecco chi c'è (davvero) dietro al movimento delle "sardine". Sui social i leader del "Movimento delle Sardine" condividevano post a favore di Nicola Zingaretti e del presidente dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Roberto Vivaldelli, Lunedì 18/11/2019, su Il Giornale. #6000sardine, #bolognanonabbocca e #emiliaromagnanonsilega: sono gli hastag usati dai quattro ragazzi bolognesi che hanno organizzato il flash mob che ha portato migliaia di persone contro Salvini in piazza. Ma chi sono davvero? Le Sardine non si schierano in modo esplicito anche se è chiaro contro chi si muovono. Mattia Santori, uno dei "leader" del neonato movimento, spiega: "Non pensiamo a candidature per le regionali. Il nostro è un messaggio di sostegno alla politica ed è rivolto ai cittadini. È un dito puntato contro noi stessi. Basta criticare e non fare nulla. Siamo degli anti-criticoni". I giornali progressisti hanno incensato il movimento e l'iniziativa, indiscutibilmente di successo, sottolineando la presunta natura "apolitica" di un movimento che nel momento stesso in cui individua un "nemico" (Matteo Salvini) fa politica (eccome) e con obiettivi chiarissimi. Certo, è un'iniziativa "politica" intesa in senso movimentista ma per questo non "partigiana". È la sinistra "movimentista", riflesso della politica dell'identità, perfettamente organica al campo dem, che tenta di dare una scossa ai progressisti che oggi, come mai era accaduto prima, temono di perdere la Regione rossa per antonomasia. Il centro nevralgico del potere del Partito democratico. Tutto perfettamente legittimo, ma ci vuole un bel coraggio nel dire che questo sedicente "movimento" non abbia proprio nulla a che fare né a spartire con i democratici, come sospettano anche in casa Lega. "In realtà - spiegano al Corriere della Sera fonti leghiste -l'iniziativa è assai meno apartitica di come la si vuole presentare, nasce dall'ispirazione di un assessore comunale". Come riporta Libero, non si fanno nomi, anche se qualcuno sospetta si riferiscano a Matteo Lepore, tra i primi ad aderire alla manifestazione, insieme ai parlamentari emiliani del Pd Andrea De Maria e Luca Rizzo Nervo, senza dimentica Davide Di Noi (giovane leader dem) e Luigi Tosiani, segretario dei dem bolognesi, e l’esponente di Emilia-Romagna Coraggiosa, la lista di sinistra che sostiene il bis del governatore Stefano Bonaccini, Elly Schlein e Roberto Morgantini delle Cucine popolari. Sui social, gli organizzatori del movimento non fanno mistero della loro affinità politico-ideologica con il Partito democratico. In un post del 7 settembre scorso, per esempio, Mattia Santori, promotore delle Sardine - insieme a Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea garreffa - mostra un spensierato apprezzamento per l'operato del segretario dem Nicola Zingaretti, pur non essendo iscritto al partito, definendo peraltro dei "pagliacci" gli avversari: "17 giorni per fare un governo (contro i 90 del governo del cambiamento); spread a 148 (contro i 320 dei pagliacci che proponevano Savona all'economia); un ministro dell'Interno che non usa i social network; all'economia un politico dopo 8 anni di tecnici; Salvini che da gradasso diventa lo zimbello d'Italia; centrosinistra unito da Renzi a Bersani (o meglio, da Grillo a Bersani). questo Zingaretti non se la cava malaccio...". Nei commenti, in risposta a chi storceva il naso verso il segretario dem, pubblica poi un articolo de Il Manifesto dal titolo eloquente: "Prima o poi dovremo fare l'elogio di Zingaretti". In un altro post del 7 agosto, prende le difese dell'ex premier Romano Prodi e rivendica il buon governo del Partito democratico in Emilia: "Ve lo dico ora che l'Emilia Romagna è tra le regioni meglio amministrate d'Europa, che Bologna è ancora la patria dell'integrazione e della cultura. Ve lo dico ora in tempi non sospetti: il nemico che ci troviamo di fronte è forte, è ricco, senza scrupoli e soprattutto gioca sporco. Ricordiamocelo ogni volta che troviamo il pelo nell'uovo, che giochiamo a fare i radical chic della "sinistra è un'altra roba", o che ci uniamo ai cori contro il PD o contro i centri sociali diventando parte di quella retorica costruita ad hoc da chi vuole pulirsi il culo con i nostri valori". Il 2 agosto 2018 condivide addirittura un post del presidente piddino Stefano Bonaccini che parla dell'Emilia Romagna come "locomotiva del Paese". E non meno schierata e di parte è la giovane Samar Zaoui, leader delle "sardine" modenesi, vicina a La sinistra. Altro che novità dirompente, dunque: per la sinistra l'era della politica movimentista non è mai finita: dai girotondi di Nanni Moretti al Popolo viola passando per il movimento femminista Se non ora quando, il filo conduttore è manifestare sempre contro qualcosa o qualcuno, che sia Silvio Berlusconi o Matteo Salvini poco importa, facendo largo uso di una retorica tipicamente "populista" che ai giornaloni di sinistra evidentemente sfugge, fatto di manicheismo ideologico, settarismo, ed emotività di massa.

Ecco le nuove sardine anti Lega: a Firenze l'ex millennial di Renzi. Proposti eventi in molte città. Da Roma a Milano, fino in Puglia. Ecco chi sono i nuovi "leader" che hanno lanciato le iniziative. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. In principio fu Bologna. Poi Modena. Si farà a Reggio Emilia e a Rimini. Le sardine dovevano essere la risposta alla discesa di Matteo Salvini in Emilia Romagna, ma andranno oltre. Dove vogliano arrivare, per ora, non lo sa nemmeno il loro leader Mattia Santori. "Stiamo studiando i risultati", dice al Giornale.it. Di certo ora gli ideatori dovranno fare da collettori di iniziative che si moltiplicano qui e là lungo tutta la penisola.

Sorrento e Napoli. Ieri l'appuntamento era a Sorrento. Le “fravaglie”, così si chiamano, si sentono “figli delle sardine bolognesi”. Dopo le liti tra Chef Rubio e Salvini, secondo il Corriere sarebbe un altro cuoco ad guidare il pescato anti-leghista: Michele Esposito. Al grido di "Sorrento non abbocca" sono scesi in piazza Veniero "in concomitanza con l’arrivo” del leader del Carroccio. "Ognuno è invitato a scegliere un libro e portarlo con sé per ‘donarlo’ simbolicamente all’ex ministro - scrivevano online - Un libro, scelto dai partecipanti, verrà anche fisicamente donato a Salvini”. Sarà un evento "politico", ma "totalmente apartitico". Quindi niente bandiere o simboli di partito. Un flop: a manifestare sotto la pioggia erano solo "quattro gatti". Non lontano da Sorrento, a Napoli, altre persone proveranno a replicare l’iniziativa emiliana. A lanciare il sit-in è Antonella Cerciello, docente di educazione fisica e, assicura, senza tessera di partito. Assicura di non avere "mai avuto nessuna tessera di partito". A muoverla è solo "la strategia della paura" usata da Salvini. Insomma: tutti contro la Lega.

Firenze. Come rivelato dal Giornale.it, dopo la prima manifestazione "partita dal basso", a Modena si sono mobilitati anche i militanti del Partito Democratico. A Firenze la storia è un po' diversa. Ad organizzare il flash mob è stato indetto da Bernard Dika. Il giovane è stato nominato da Mattarella Alfiere della Repubblica. Nel suo curriculum è politico. È stato fino al 2017 Presidente del Parlamento regionale degli studenti della Toscana e da militante del Pd salì agli onori della cronaca per aver "bacchettato" il partito in un discorso diventato famoso. Matteo Renzi lo volle con sé tra i 20 millenials nella direzione del Partito Democratico. Come scrive Repubblica, Bernard è pure collaboratore in Consiglio regionale di Eugenio Giani, aspirante candidato governatore dei dem. Lui assicura che i due piani sono separati, ovviamente. Sarà mai mica che in realtà le sardine toscane (come un po’ quelle modenesi) possano apparire in odor di Pd? "Io stesso non ho più incarichi nel Pd - diceva a Repubblica - e lo sto organizzando da autonomo, non c’entra Giani”.

La Puglia. In Puglia il gruppo "Le Srdine" conta 31mila membri e dovrebbe sponsorizzare le varie manifestazioni locali. "Siamo al corrente dell'idea di organizzare degli eventi a Taranto e Bari nell’immediato", scrive Angelofabio anche se "da quanto ci risulta i gruppi locali non possiedono ancora le autorizzazioni della prefettura". Nel gruppo viene condiviso di tutto. "Ma si può scrivere che Salvini è fascista?", scrive qualcuno. "No, si può scrivere solo che è un figlio di p.", ribatte Vinicio. Il cuore in Puglia lo ha però anche l’Arcipelago delle sardine, 74mila membri e una discussione attivissima. Tra gli amministratori appaiono Davide Carlucci, sindaco di Acquaviva delle Fonti per Italia in Comune, il movimento dell’ex grillino Pizzarotti. Dello stesso partito anche altri due amministratori: Grazia Desario e Michele Abbaticchio, sindaco di Bitonto, vicecoordinatore nazionale di Italia in Comune con cui si è candidato alle europee.

Parma, Umbria, Genova. Andiamo avanti. A Parma dovrebbero scendere in strada lunedì prossimo. All’evento sono interessate quasi diecimila sardine. A organizzarlo Martino Bernuzzi, Francesco Martino e Joy Olayanju. Tutti i profili Fb sono privati. In fondo dai quattro leader originali in fondo è arrivato un consiglio chiaro: “State attenti a esporvi, mettete profili privati, cambiate (e rafforzate) le password di tutti gli account e-mail e social e siate cauti nel rilasciare interviste a tv e stampa”. Anche l’Umbria farà la sua parte, a Genova è previsto per il 28 novembre e la Torino che si “slega” deve ancora definire la data. C’è però una curiosità: tra i manifestanti dovrebbe comparire anche una suora. Si tratta di suor Giuliana Galli, coordinatrice dei volontario del Cottolegno, al Corriere di Torino a assicurato di volerci essere.

Roma e Milano. Ci sarà anche Roma. Qui la partita è un po’ più complessa visto che di iniziative sui social ne sono nate più di una. Quale prevarrà? Basterà attendere. Qualcuno sogna di mobilitare un milione di persone, magari in piazza San Giovanni in Laterano. La stessa riempita dal centrodestra poche settimane fa. Sempre in un luogo caro a Salvini, sotto la Madonnina, potrebbe aver luogo la sardinata milanese. Appuntamento al 1 dicembre.

Matteo Salvini smaschera le sardine: "C'è chi prepara mezzi non propriamente pacifici". Il post-vergogna. Libero Quotidiano il 21 Novembre 2019. Non tutte le sardine, i manifestanti anti-Salvini, sono pacifiche. È il caso di una certa Federica Mariani, una giovane che sul gruppo "Sardine del Belgio" prepara "mezzi non propriamente pacifici" in attesa dell'arrivo del leader della Lega ad Anversa. A denunciare quanto scritto dalla ragazza è lo stesso Matteo Salvini che, sul suo profilo Twitter, ripropone le "dolci" parole della riottosa o, come lei si definisce, "l'amministratrice di Italiani ad Anversa". Tale Mariani dà sfoggio di sé sotto al post di un'altra sardina: "Per manifestare anche con mezzi non propriamente pacifici, ho una vasta esperienza in questo campo". Alla faccia della sincerità. A replicare ci ha pensato il leader del Carroccio: "Il 2 dicembre sarò nelle Fiandre, ad Anversa, e questa signora prepara mezzi non propriamente pacifici (!). Che cosa avrà voluto dire?!?". Beh, più chiaro di così? Alla faccia del dibattito democratico... 

Sardine a Sorrento per contestare Salvini, la signora dalla Merlino: cos'ha in mano, siamo al ridicolo. Libero Quotidiano il 21 Novembre 2019. Le sardine sbarcano a Sorrento, in concomitanza con la visita di Matteo Salvini, e gettano la maschera. Una signora, intervistata a L'aria che tira, spiega perché i contestatori hanno deciso di scendere in strada. "Siamo qui perché non ci dimentichiamo i suoi insulti al Sud. Salvini cantava Vesuvio lavali col fuoco". Myrta Merlino, dallo studio, nota che in mano l'arzilla anti-leghista ha in mano un libro, niente meno che Se questo è un uomo di Primo Levi, libro-denuncia dell'orrore nazista dell'Olocausto. Che c'azzecca? "Perché Salvini non è un uomo, non è un uomo buono". Dopo un momento di smarrimento, la Merlino chiede alla signora per chi voterà alle prossime elezioni. "Voterò contro la sua destra, Salvini ci ha detto che i napoletani puzzano, l'umanità è tutt'altra cosa".

Luca Zaia a testa in giù, la vergogna dell'anarchico: la Lega lo denuncia. Libero Quotidiano il 12 Novembre 2019. Luca Zaia ritratto a testa in giù. È l'ennesima atroce raffigurazione da parte di qualche anarchico che giunge a un esponente della Lega. A prendere di mira il governatore della regione Veneto un 18enne che sul suo profilo Instagram non ha solo postato la foto di Zaia ribaltata, ma anche la frase "Se vedo un punto nero ci sparo a vista". Non solo, oltre al richiamo a Piazzale Loreto spicca anche la citazione di una canzone partigiana che suona: "Leghista, attento, soffia ancora il vento". A fare compagnia (per modo di dire) al governatore altri quattro consiglieri del Carroccio di Conegliano, in provincia di Treviso. Anche loro insultati sul profilo anonimo del ragazzo originario della provincia di Napoli, che sulla piattaforma si presenta come "terrone e antifascista". E ancora: "MC Splinter nasce a Quarto Flegrea (Napoli) il 01/02/2001. Si avvicina al freestyle a Conegliano (Treviso) per raccontare la sua città". Proprio a lui è ora indirizzata una grossa querela. 

La dichiarazione d’indipendenza delle sardine: «La festa è finita». Pubblicato giovedì, 21 novembre 2019 da Corriere.it. «Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita»: si apre così la dichiarazione di indipendenza delle sardine, lanciata dalla pagina Facebook 6000 sardine, la stessa da cui è partita la mobilitazione che una settimana fa ha portato in piazza a Bologna 15 mila persona a manifestare contro Salvini. Da allora il movimento nato dal flash mob di Giulia, Andrea, Roberto e Mattia si sta allargando in tutta Italia, da Torino a Roma, da Milano a Sorrento, portando migliaia di persone a manifestare. Ma per cosa? Provano a spiegarli proprio loro, gli inventori delle sardine, in una lettera ai populisti che appare come un manifesto: «Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. L’avete tesa troppo, e si è spezzata. Per anni avete rovesciato bugie e odio su noi e i nostri concittadini: avete unito verità e menzogne, rappresentando il loro mondo nel modo che più vi faceva comodo. Avete approfittato della nostra buona fede, delle nostre paure e difficoltà per rapire la nostra attenzione. Avete scelto di affogare i vostri contenuti politici sotto un oceano di comunicazione vuota. Di quei contenuti non è rimasto più nulla». Adesso però, risvegliati, presi da «energia pura», le sardine, alias quelli che non condividono il modo di pensare di Salvini- che per ora li liquida con dei gattini pronti a mangiarsele- e di tutti i populisti del mondo, hanno deciso di «guardarsi intorno, per scoprire che siamo tanti e molto più forti di voi». Chi sono? «Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età- raccontano- amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto». Pronti a lanciarsi in politica? Per ora ne prendono le distanze, facendo capire di voler essere ben altro, società civile che guarda alla politica e spinge per far valere i propri diritti, ma rimanendo in «mare aperto»: «Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola- scrivono infatti- In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono. E torneremo a dargli coraggio, dicendogli grazie». Quanti sono? «Siamo già centinaia di migliaia, e siamo pronti a dirvi basta. Lo faremo nelle nostre case, nelle nostre piazze, e sui social network». E forse proprio per aderire a questa formula, che non contempla adesioni partitiche, Bernard Dika, 21 anni, ex millenial della direzione Pd quando alla guida dei Dem c’era Matteo Renzi, ha annunciato di voler fare un passo indietro nella manifestazione delle sardine a Firenze. «Insieme ad altri giovani abbiamo lanciato l’idea di riunirci a Firenze, ognuno con la propria storia, senza bandiere o simboli», ha scritto Dika sulla pagina social di «La Toscana non si lega. Ma poiché «c’è chi attribuisce secondi fini e marchi a iniziative spontanee e plurali», Dika fa un passo indietro, «felice che ci siano dei giovanissimi ragazzi che stanno portando avanti questa bella iniziativa civica». La manifestazione è in programma il 30 novembre, nel giorno in cui è prevista a Firenze una cena con Matteo Salvini per dare avvio alla campagna della Lega per le regionali. Intanto anche il leader di Italia Viva plaude all’iniziativa- «È bello che ci sia tanta gente che vuole impegnarsi»- ma puntualizza: «Dicono no a Salvini, ma devono trovare anche qualcosa per dire dei sì. La grande scommessa è proprio fare proposte positive, per non stare sempre quelle degli altri».

Il manifesto delle sardine contro i populisti. «Adesso la festa è finita». Davide Varì il 22 Novembre 2019 su Il Dubbio. «Basta odio e bugie, unire verità e menzogne, approfittare della nostra buona fede. Per troppo tempo avete distrutto la vita delle persone sulla rete». «Cari populisti, lo avete capito: la festa è finita». Inizia così il manifesto delle sardine, il movimento spontaneo che tallona e “guasta” – per ora con un certo successo – la campagna elettorale emiliana di Matteo Salvini. Un manifesto lanciato ieri in rete – e dove altro sennò – che inizia con un avviso: «La festa è finita», e finisce con un adagio “rubato” all’emilianissimo Lucio Dalla: “com’è profondo il mare”. Il mare che protegge i pesci e le sardine naturalmente: «È chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce scrivono -. Anzi, è un pesce. E come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare. Com’è profondo il mare». Insomma, l’iniziativa dei quattro ragazzi di Bologna che due settimane fa hanno organizzato un flash mob per contestare il leader leghista, va avanti e si moltiplica. C’è chi lo paragona ai girotondi e chi al primo grillismo. Nulla di tutto questo: almeno per ora le sardine si tengono alla larga sia dall’indignazione proto giustizialista dei girotondi, sia dal rabbioso “vaffa” pronunciato da Beppe Grillo sempre a Bologna. Quel che invece le accomuna agli altri movimenti è la paura di essere associati al “palazzo”. Pur smontando il logoro lessico populista e sovranista, le sardine continuano a nuotare nel mare magnum dell’antipolitica. E la politica stessa, soprattutto quella legata ai dem, li guarda a distanza come un appestato e col timore di contagiarle. Eppure il movimento delle sardine sembra aver colto il limite dell’antipolitica: «Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola – scrivono nel manifesto – In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono. E torneremo a dargli coraggio, dicendogli grazie”. Insomma, un omaggio alla buona politica anche se tornano a rivendicare la base civica del movimento sottolineando con discrezione la distanza dal palazzo: «Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza ( verbale e fisica), la creatività, l’ascolto». Ma la gran parte del manifesto è un lettera aperta ai populisti: «Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti», scrivono le sardine. «L’avete tesa troppo, e si è spezzata. Per anni avete rovesciato bugie e odio su noi e i nostri concittadini: avete unito verità e menzogne, rappresentando il loro mondo nel modo che più vi faceva comodo. Avete approfittato della nostra buona fede, delle nostre paure e difficoltà per rapire la nostra attenzione. Avete scelto di affogare i vostri contenuti politici sotto un oceano di comunicazione vuota. Di quei contenuti non è rimasto più nulla». E poi: «Per troppo tempo vi abbiamo lasciato fare. Per troppo tempo avete ridicolizzato argomenti serissimi per proteggervi buttando tutto in caciara. Per troppo tempo avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete. Per troppo tempo vi abbiamo lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi da quanto in basso poteste arrivare». Ora bisognerà capire se dal branco emergerà un pesce pilota. Quello che nel palazzo viene volgarmente definito un leader.

LA SOLITA SINISTRA. Mattia Santori e le "sardine" senza colore di partito. Sicuri? Ecco cosa spunta dalla sua pagina Facebook. Libero Quotidiano il 17 Novembre 2019. "Molto politiche e poco partitiche". Mattia Santori, il 32enne che insieme a tre amici ha organizzato la prima manifestazione delle "sardine", giovedì sera in piazza Maggiore a Bologna, definisce così l'iniziativa che presto avrà un bis a Modena e poi a Firenze. Una protesta contro Matteo Salvini, sovranismo e populismo, ha spiegato a molti, che non si riconosce in nessun partito. Puro impegno civico, insomma, rigorosamente anti-leghista. Di sicuro, né lui né i suoi giovani amici hanno alle spalle un impegno diretto in politica e anche sui social appaiono molto riservati e abbottonati, tanto che, spiega Santori, lui stesso nemmeno sa per chi votano gli altri tre organizzatori, suoi ex coinquilini, coinvolti nel progetto via sms qualche giorno prima e protagonisti poi del tam tam via Facebook e volantinaggio tradizionale. Eppure, proprio spulciando nella pagina Facebook di Santori, qualche dubbio sulla "apartiticità" delle "sardine", o perlomeno del suo ideatore, viene: se i "like" contano qualcosa, il 32enne sembra avere una passionaccia per il Pd in varie declinazioni, seguendo tra gli altri i profili del governatore emiliano Stefano Bonaccini, del segretario Nicola Zingaretti, dell'ex premier Paolo Gentiloni. Intervistato dall'agenzia Adnkronos, Santori ha puntualizzato: "Non credo che il Pd debba fare chissà quali esami di coscienza. La nostra non è stata un'accusa a nessuno, ma anzi il tentativo di arginare questa onda leghista che sembrava inarrestabile. E invece lo è. Perché l'Emilia non è l'Umbria". Quasi un'ammissione.

Salvini zittisce i centri sociali: ​"Squadristi figli di papà viziati". Il leader della Lega contro gli antagonisti: "Dovrebbero andare a lezione di democrazia, di tolleranza e di rispetto". E affonda: "Gli unici squadristi sono loro". Sergio Rame, Sabato 16/11/2019, su Il Giornale. Matteo Salvini non ha dimenticato l'attacco dei centri sociali. Giovedì sera, mentre veniva lanciata la campagna elettorale di Lucia Borgonzoni, candidata unitaria del centrodestra alle regionali in Emilia Romagna, gli antagonisti hanno bloccato le vie vicine al Paladozza e si sono fronteggiate con le forze dell'ordine che hanno dovuto usare gli idranti per disperderli. "A me piacerebbe che mentre noi siamo a proporre nelle piazze, nei teatri, nei palazzetti, nei ristoranti, nei cinema - ha commentato il leader della Lega durante una diretta Facebook - fuori polizia e carabinieri non dovessero usare lacrimogeni e idranti per tenere a bada dei figli di papà viziati e squadristi che dovrebbero andare a lezione di democrazia, di tolleranza e di rispetto". L'attacco di Bologna è solo il primo messo in calendario. Lì, ad aspettare Salvini e la Borgonzoni, c'erano sia le seimila "sardine", che al grido "Bologna antifascista" e "Bologna non si lega" ha protestato contro la candidata del centrodestra, sia i violenti dei centri sociali, che ancora una volta ha cercato di scatenare la guerriglia urbana. Una violenza che il leader leghista conosce bene visto che negli ultimi anni i centri sociali lo hanno seguito ovunque andasse per cercare di zittirlo. Lunedì, a Modena, potrebbe replicarsi la stessa scena. Di sicuro le "sardine" torneranno a manifestare. "II nostro tentativo è di arginare questa onda leghista che sembrava inarrestabile", ha spiegato all'agenzia Adnkronos il 32enne Mattia Santori, uno dei quattro che ha messo in piedi l'iniziativa di giovedì sera. Da lui, come dai big del piddì, non sono state espresse parole di disappunto per i violenti dei centri sociali. Anzi sono in molti, anche a Roma, a sobillare la protesta anti leghista. Per Salvini, però, i violenti dei centri sociali sono una banda di "figli di papà viziati e squadristi" che, anziché mettere a soqquadro le città e attaccare le forze dell'ordine, "dovrebbero andare a lezione di democrazia, di tolleranza e di rispetto". "È bello che poi vanno nelle piazze contro i nuovi fascisti che saremmo noi quando gli unici fascisti, gli unici squadristi sono quelli che fuori con la violenza, con le urla, con i petardi, con le bottiglie e con i sassi vorrebbero a impedire a presunti fascisti di esprimere pacificamente le loro idee", ha continuato l'ex ministro dell'interno durante una diretta Facebook. Durante la diretta su Facebook, Salvini è tornato a pungolare anche la sinistra che nei giorni scorsi si è fatta promotrice della commissione Segre contro l'odio e il razzismo. "A sinistra mi fa pena chi parla di antisemitismo e va a braccetto con chi brucia la bandiera di Israele", ha commentato il leader del Carroccio promettendo di stare "sempre al fianco della democrazia israeliana, baluardo di civiltà nel Medioriente dilaniato da estremismi islamici".

Oscurata la pagina Fb delle “Sardine”: «Bersagliati  di segnalazioni». Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 da Corriere.it. «La pagina 6000 sardine è stata oscurata pochi minuti fa senza giusta causa. In mancanza di post offensivi, violenti o lesivi dei diritti della persona, è stata comunque bersaglio di un gran numero di segnalazioni. Questo ha automaticamente generato l’oscuramento della pagina»: questo è il messaggio comparso sulla pagina Facebook “6000 sardine 2” intorno alle 21 di domenica 24 novembre per segnalare ai simpatizzanti la chiusura dell’account usato negli ultimi giorni come punto di riferimento unitario per l’arcipelago di pagine del movimento anti-leghista delle “Sardine”. Il profilo originario è infatti irraggiungibile e sembra essere stato oscurato da Facebook. «Siamo fiduciosi che (la pagina “6000 Sardine”, ndr) possa tornare on-line nelle prossime ore, ma non abbiamo certezza dei tempi. Si vede che un mare silenzioso fa molto più rumore di quanto si possa pensare», si legge poi nel comunicato postato sulla pagina di riserva del movimento. Il social network fondato da Mark Zuckerberg ha un sistema di moderazione dei contenuti basato sia su algoritmi automatici sia sull’intervento umano. Quando un utente intercetta un contenuto che ritiene contrario ai termini di utilizzo del social, può segnalarlo. Le indicazioni degli iscritti vengono poi verificate da team di moderatori che dovrebbero stabilire se c’è un’effettiva violazione del regolamento interno — che vieta, ad esempio, l’istigazione all’odio razziale, il nudo, la pornografia — oppure no. Non è chiaro quale potrebbe essere stato il motivo che ha causato l’oscuramento della pagina delle “Sardine”. Facebook, contattato dal Corriere, non ha immediatamente fornito una spiegazione. A prescindere dal caso in questione, però, la moderazione dei contenuti su Facebook presenta diversi profili potenzialmente problematici. Primo: l’algoritmo non è infallibile, anzi, può spesso indicare per errore contenuti legittimi come contrari alla policy. Basta pensare ai numerosi casi di opere d’arte erroneamente censurate in quanto «nudi» (è accaduto di recente con alcune sculture del Canova). Secondo: i moderatori possono fraintendere un contenuto, ad esempio scambiando per incitazione all’odio dei contenuti satirici. Terzo: le segnalazioni possono essere usate in modo strumentale per bersagliare una pagina sgradita, esponendola al rischio di essere sospesa. Basta pubblicare un appello su gruppi (pubblici o privati) chiedendo ai propri sostenitori di segnalare in massa un account per attirare su di esso l’occhio dei moderatori. Gli amministratori della pagina delle “Sardine” sull’account di riserva sembrano convinti che sia questo il motivo dell’oscuramento. A settembre, Facebook ha oscurato pagine di Casa Pound e Forza Nuova in quanto contrarie alla norma interna del social sulle persone e organizzazioni pericolose (decisione cui i due movimenti di estrema destra hanno deciso di reagire ricorrendo alle vie legali). Di recente però ci sono anche stati casi di pagine oscurate per errore: è successo ad esempio, sempre a settembre, a quella satirica “I socialisti gaudenti”.

Oscurata la pagina Facebook delle sardine: "Bersaglio di segnalazioni". La pagina social 6000 sardine è stata chiusa e i quattro leader ne hanno dovuta creare una nuova. Giovanna Stella, Lunedì 25/11/2019, su Il Giornale. "La pagina 6000 sardine è stata oscurata pochi minuti fa senza giusta causa. In mancanza di post offensivi, violenti o lesivi dei diritti della persona, è stata comunque bersaglio di un gran numero di segnalazioni. Questo ha automaticamente generato l’oscuramento della pagina". Questo è il messaggio comparso sulla pagina Facebook "6000 sardine 2" intorno alle 21 di domenica 24 novembre per segnalare alle sardine che è stato chiuso il primo account. Quello usato da sempre dai quattro leader e dai simpatizzanti. Il profilo social originario delle sardine è infatti irraggiungibile e sembra essere stato oscurato da Facebook. "Siamo fiduciosi - continua il post - che (la pagina "6000 Sardine", ndr) possa tornare on-line nelle prossime ore, ma non abbiamo certezza dei tempi. Si vede che un mare silenzioso fa molto più rumore di quanto si possa pensare". Non è chiaro cosa sia successo alla pagina, chi l'abbia potuta segnalare o altro. Quello che è certo è che le sardine si sono dovute riorganizzare e creare una nuova pagina Facebook. Immediatamente, sono partiti centinaia di messaggi di solidarietà. Proprio quei messaggi che nei confronti di altre persone non partono mai. "La pagina Facebook "6000 sardine" è stata oscurata per il numero eccessivo di segnalazioni, che ha fatto scattare la tagliola dell’algoritmo di Facebook. Un'evidente operazione di sabotaggio - si legge sulla pagina Facebook di Più Europa -. Esprimiamo solidarietà ai promotori dei flash mob delle sardine e auspichiamo che la loro pagina possa tornare visibile il prima possibile: l'Italia non è la Russia e non lo diventerà. E non c’è algoritmo che possa oscurare le piazze di questi giorni". Che cosa sarà successo alle sardine? Siamo sicuri che nel giro di qualche ora i quattro leader sapranno spiegarci che cosa sia accaduto alla pagina social. Intanto, dopo qualche ora da quando è stata oscurata la prima pagina delle sardine, è stata chiusa anche quella nuova, "6000 sardine 2". Sardine, sbloccata la pagina Facebook. "È stato un attacco vile".

Oscurata nella serata di domenica - insieme alla pagina di riserva "6000 sardine 2" -, la fanpage del movimento anti-Salvini è ora nuovamente visibile. La Repubblica il 25 novembre 2019. È stata oscurata la pagina Facebook delle "6000 sardine". Qualche ora di blocco, poi la pagina Facebook delle "6000 Sardine" è stata ripristinata. Oscurata nella serata di domenica - insieme alla pagina di riserva "6000 sardine 2" -, la fanpage del movimento anti-Salvini è ora nuovamente visibile, anche se al momento non è presente alcun nuovo messaggio da parte degli amministratori. Tanti nel frattempo gli attestati di solidarietà prima del blocco temporaneo, in particolare da altre pagine Facebook che appoggiano le iniziative delle sardine dalla prima, imponente, mobilitazione di Bologna. Fra loro, I 'Sentinelli' di Milano e Roma, che non solo hanno lanciato un 'mail bombing' per segnalare l'anomalia, ma che hanno anche puntato il dito contro un responsabile ben preciso: "Vi mostriamo - scrivevano nella serata di ieri - cosa stanno facendo nei gruppi salviniani per oscurare le pagine delle 'sardine'", allegando al post alcuni screenshot di presunti militanti leghisti impegnati ad organizzarsi per segnalare in blocco le pagine. "Sor Pienipoteri - scrivevano ancora - ha davvero una gran fifa delle piazze pacifiche e democratiche delle sardine. I suoi sgherri digitali, con le loro segnalazioni in massa, basate su nulla che non sia la loro stessa prevaricazione, hanno obbligato l'automatismo di Facebook a oscurare la pagina ufficiale delle sardine. Ci troviamo - accusavano - di fronte a un attacco sistematico quanto vile, tanto che - aperta a tarda sera una seconda pagina di ripiego - è stata fatta subito oscurare anche quella. Fatto sta che, in queste ore - la conclusione del post - molte e molti hanno deciso che scenderanno in piazza proprio a causa di queste nuove prepotenze squadriste". Nella notte, quindi, lo sblocco della pagina ufficiale.

L'attore di Game of Thrones diventa una sardina e se la prende con Salvini. L’attore irlandese di “Game of Thrones” posta un video della manifestazione di Modena e manda a quel paese un utente che lo aveva invitato a “farsi gli affari propri”. Alessandro Zoppo, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Liam Cunningham si è fatto contagiare dal leit motiv Sardine contro Matteo Salvini. L’attore irlandese, che ha interpretato Sir Davos Seaworth nella serie fantasy Game of Thrones, ha postato su Twitter un video della manifestazione del movimento che si è tenuta a Modena. L’estratto del flash mob al quale, in piazza Grande, hanno partecipato circa 7mila persone coglie un momento particolare: i manifestanti, sotto gli ombrelli aperti, intonano “Bella Ciao” e ripetono in coro lo slogan “Modena non si lega”. “‘BELLA CIAO CIAO CIAO’ !!!”: questo il commento di Cunningham al video, condiviso dalla pagina Twitter “Anti-Fascism & Far Right”. Molti utenti hanno commentato con entusiasmo questa presa di posizione dell’attore: “Don’t need dragons, we have Sardine” (“Non abbiamo bisogno dei draghi, abbiamo le Sardine”), “Forse l’Italia si è finalmente risvegliata dal lungo sonno dell’odio e del populismo. Il fascismo non tornerà. Siamo liberi e rimarremo tali”, “Vieni in Italia sir Davos. Porta i Dothraki, e gli uomini del nord, e quelli liberi, perfino i Lannister se necessario e liberaci da tutti i fascismi”. Altri utenti, invece, non hanno apprezzato proprio il suo schierarsi. “Massa di buffoni – scrive un utente –, se veramente non ci fosse libertà, sarebbero dispersi dall’esercito. Questo è solo un esempio di come il Movimento 5 Stelle abbia fallito in tutta la linea, dato che ha permesso la nascita di un altro movimento anti governativo”. “In Italia – aggiunge un altro follower – non ci sono fascisti, ma un sacco di comunisti che disprezzano gli altri partiti e li considerano non democratici. La maggioranza degli italiani ha scelto i partiti di destra in questo momento, questa è democrazia”.

Liam Cunningham: “vaffa” a un fan di Salvini. L’attore ha replicato per le rime a questa persona: il commento è stato cancellato, ma è rimasta la risposta colorita di Sir Davos. “Tu retwitti Salvini – ribatte Cunningham –. Vai a farti fottere”. Non è la prima volta che Cunningham, attualmente a Roma per le riprese della serie Sky Domina, usa i social per denunciare e sferrare critiche senza troppi giri di parole. Ospite lo scorso luglio del BCT – Festival Internazionale del Cinema e della Televisione di Benevento, l’attore ha denunciato i disagi vissuti nel momento di fare ritorno a casa. “L’aeroporto di Napoli – ha scritto sui social – è come l’ambasciata americana durante la caduta di Saigon”. Ad un utente che gli chiedeva dritte e consigli su come evitare caos, code e ritardi, Cunningham ha risposto laconico e sarcastico. “È una favolosa opportunità – il suo cinguettio – per scrivere le tue memorie”.

Le fake news dei sinistri.

La star contro Zuckerberg: "Dittatore, vada in carcere". L'attore inglese Baron Cohen attacca Facebook: "Se Hitler fosse vivo, la Shoah sarebbe sui social". Gaia Cesare, domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Le nostre democrazie «sull'orlo del precipizio». Mark Zuckerberg come Cesare nell'Impero Romano. E con lui, capo di Facebook, gli altri miliardari della Silicon Valley alla guida di Google, Alphabet, YouTube e Twitter. Sei americani in tutto, «più preoccupati di far impennare il valore delle loro azioni che di proteggere la democrazia». Intenti a difendere «il loro imperialismo ideologico, imporre la propria visione al resto del mondo, senza rispondere a nessun governo e comportandosi come se fossero al di sopra della legge». L'ultima cannonata contro i social media arriva da Sacha Baron Cohen, l'attore inglese oggi protagonista della serie Netflix «The Spy» e arcinoto per il personaggio estremo e dissacrante di «Borat», giornalista del Kazakistan razzista, antisemita e misogino, creato e interpretato dalla star nell'omonima pellicola, che lui stesso definisce «un modo per svelare alla gente i propri pregiudizi». Proclamato l'anno scorso dal «Times» uno dei trenta migliori attori comici viventi, Baron Cohen ha parlato a New York dal pulpito di un summit della Anti Defamation League, l'organizzazione internazionale ebraica con sede negli Stati Uniti e che si batte per i diritti umani e i diritti civili. E si è detto «terrorizzato» per come oggi nel mondo i «demagoghi facciano appello ai nostri peggiori istinti» e per quanto spazio venga loro dato dai social media, che definisce «la più grande macchina di propaganda della storia». L'affondo arriva a pochi giorni da un altro pesantissimo verdetto contro Facebook e Google, firmato da Amnesty International, che li ha definiti una minaccia per i diritti umani, a causa del loro modello di business basato sulla sorveglianza e la violazione del diritto alla privacy. Baron Cohen rincara la dose, dopo aver ricordato il suo passato antifascista e anti-apartheid quando era ancora un ragazzo nel Regno Unito: «È come se l'Illuminismo stia finendo e ora la conoscenza sia delegittimata, il consenso scientifico respinto». Tutto sembra legittimo. «Così Breibart - il sito di estrema destra di Steve Bannon, considerato fonte di propaganda razzista e fake news - assomiglia alla Bbc», spiega Cohen. E i social media sono diventati piattaforme in cui è sempre più facile «interferire nelle nostre elezioni», «facilitare un genocidio, come in Myanmar» e «diffondere messaggi politici di qualsiasi genere». L'accusa è la stessa per la quale Zuckerberg è finito nel tritacarne delle domande a raffica della deputata democratica Alexandra Ocasio-Cortez, di fronte alla Commissione Servizi Finanziari della Camera degli Stati Uniti qualche settimana fa, quando - obtorto collo - il fondatore di Facebook ha dovuto ammettere di «non poter fare nulla» di fronte a messaggi politici falsi diffusi da chi paga per la loro promozione perché questa è la policy del social network, garanzia alla «libertà di espressione». «Se paghi saranno pubblicati, anche se si tratta di bugie», infierisce Baron Cohen. Che aggiunge: «In base a questa logica, se Fb ci fosse stato negli anni Trenta, avrebbe consentito a Hitler di pubblicare un messaggio politico sulla soluzione finale al problema degli ebrei». Preoccupato per gli appuntamenti politici che aspettano il mondo - dalle elezioni nel Regno Unito il 12 dicembre alle presidenziali Usa del 2020 - l'attore non ci sta ad accettare l'alibi del troppo difficile, troppo costoso controllare tutti i contenuti, avanzato da Facebook. «Sono le più ricche compagnie al mondo, con i migliori ingegneri al mondo. Se volessero, potrebbero risolvere questi problemi». Ma visto che si rifiutano, almeno corrano i rischi di tutti gli altri editori: rispondano di diffamazione. Infine Cohen sventola l'ipotesi delle manette. «Forse è tempo di dire a Zuckerberg e agli amministratori delegati di queste aziende: avete già concesso a una potenza straniera di interferire nelle nostre elezioni, avete facilitato il genocidio in Myanmar, fatelo di nuovo e finirete in prigione».

Da agi.it il 23 novembre 2019. L'attore comico britannico Sacha Baron Cohen si è scagliato contro le politiche di Facebook, che a suo dire se fosse esistito negli Anni '30 avrebbe permesso anche a Hitler di acquistare pubblicità politica e avere così una piattaforma per le sue idee anti-semite. Famoso per personaggi come Ali G, un aspirante gangsta-rapper inglese, e Borat, un improbabile giornalista kazako, Sacha Baron Cohen, di origine ebraica, ha criticato pubblicamente - in un discorso a New York - non solo la creatura di Mark Zuckerberg, ma anche Google, Twitter e YouTube, colpevoli di far arrivare "assurdità a miliardi di persone". Lo riporta la Bbc. I giganti dei social media e le società di Internet sono sotto pressione da tempo per arginare la diffusione di disinformazione e fakenews, legate alle campagne elettorali. Baron Cohen, intervenendo a un summit della Anti-Defamation League, ha puntato il dito contro Zuckerberg e la scelta di non effettuare un fact-checking sulle pubblicità politiche, vietando quelle che contengono falsità. "Se paghi, Facebook pubblicherà qualsiasi pubblicità politica tu voglia, persino se è una bugia", ha polemizzato l'attore, "se Facebook fosse esistito negli Anni '30, avrebbe permesso a Hitler di postare pubblicità di 30 secondi sulla sua 'soluzione' per la questione ebraica". Il comico, di origini  ha poi lanciato un appello a "ripensare in modo radicale i social media e come diffondono odio, cospirazioni e bugie", mettendo in dubbio che Facebook sia un bastione della "libertà di pensiero" come sostiene il suo fondatore.

Invece è il contrario.

Bari, posta foto con "Salvini Premier": Facebook oscura la pagina della consigliera Manginelli. La replica dell'avvocato Davide Bellomo dopo la decisione del social network. La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Novembre 2019. «Per aver postato la propria foto con l’effige a sostegno di Matteo Salvini quest'oggi è stata oscurata da Facebook la pagina del consigliere comunale di Bari Laura Manginelli senza che le siano state fornite motivazioni e senza ricevere risposta al reclamo presentato». A denunciarlo è il responsabile dell’area territoriale nel nord barese della Lega-Salvini Premier, avv. Davide Bellomo, che attribuisce la chiusura non a contenuti, violenti, razzisti o antisemiti, ma ad un post pubblicato dal consigliere Laura Manginelli, poche ore fa, pro Matteo Salvini. «Siamo al paradossale! Se pensano di poter imbavagliare così i sostenitori della Lega, pensano male! La politica oggi si esercita anche attraverso i media e i social network e noi della Lega non siamo disposti a tirarci indietro», conclude l'avv. Davide Bellomo.

Sardine, il delirio di Mattia Santori: "Salvini, abbiamo imparato a fare il tuo lavoro in 6 giorni. Ora tu..." Libero Quotidiano il 22 Novembre 2019. Il delirio di onnipotenza delle sardine. In studio a Piazzapulita c'è Mattia Santori, ormai ospite fisso dei talk tv da una settimana buona. L'organizzatore del primo flash mob contro Matteo Salvini in piazza Maggiore a Bologna e capostipite dei nuovi "girotondini", con sempre più disinvoltura parla da leader e dopo il manifesto programmatico lancia la sfida direttamente al leader della Lega: "Noi abbiamo imparato a fare il tuo lavoro in sei giorni. Ora prova a fare il nostro". "Abbiamo provato a suonare una sveglia. Ci aspettavamo 6mila persone, hanno risposto in 200mila che scenderanno in piazza in tutte le città d'Italia - si è auto-elogiato -. Il tema è che tutto il sommerso che c'è dentro i social ad un certo punto doveva esplodere". "In questo momento non si fa che parlare di noi, abbiamo sollevato e scoperchiato un problema molto più grosso di quanto pensavamo. Risvegliando una coscienza anti-populista, anti-sovranista, anti-insulto siamo il principale nemico della strategia politica di Salvini". "Questa - ha concluso - è l'Italia reale. Per questo la gente scende in piazza: noi abbiamo detto Questa è la realtà. Ci restituite una politica altrettanto seria?".

Ilaria Venturi per bologna.repubblica.it il 22 novembre 2019. Hanno deciso di scrivere una sorta di manifesto delle "sardine" per spiegare le ragioni della nascita del movimento, inatteso anche per loro all'inizio con questa forza e numeri nelle piazze. I flash mob che pacificamente contestano Matteo Salvini e il populismo leghista si stanno moltiplicando in tutta Italia: oggi a Sorrento, poi Palermo (domani, venerdì 22, piazza Verdi ore 18.30), Reggio Emilia (sabato 23, piazza Prampolini, ore 18.30), Perugia (sabato 23, piazza della Repubblica ore 17.30), Rimini (domenica 24, Vecchia Pesceria, ore 17), Parma (lunedì 25 piazza Duomo, ore 19), Firenze (sabato 30, ) Napoli, (sabato 30, piazza del Gesù, ore 19) Ferrara (sabato 30 novembre, piazza Castello ore 20), Milano (domenica 1 dicembre, piazza Mercanti, ore 17), Avellino (domenica 1 dicembre, piazza Garibaldi, ore 18) e Torino in via di definizione. I quattro trentenni Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa, promotori della piazza di Bologna che ha creato l'onda, hanno aperto una pagina ufficiale, "Seimila sardine", per mettere in Rete tutte le iniziative. Con un manifesto pubblicato oggi che mette in fila i motivi di una protesta partita dal basso, senza bandiere di partito, per dare la sveglia - dicono - alle "nostre coscienze" e "opporci a chi per anni ha rovesciato bugie e odio su noi e i nostri concittadini". Intanto '6000 Sardine' diventa un marchio, con tanto di registrazione all'Ufficio dell'Unione europea per la proprietà intellettuale, l'Euipo. "Dovremmo registrarlo già oggi - spiega Mattia Santori - se ne stanno occupando alcuni amici, stanno sbrigando tutte le pratiche del caso. Ma questo non vuol dire che nasce un movimento o che diventiamo un partito". precisa. La firma, come la pagina Facebook, è "seimila sardine", quelle che a Bologna per prime hanno battuto Salvini sui numeri: alla convention di apertura della campagna elettorale per il voto in Emilia Romagna il 26 gennaio la Lega è arrivata a riempire i cinquemila posti del palazzetto, in piazza l'obiettivo era di arrivare a seimila. Si sono presentate 12mila "sardine", che poi hanno preso il largo.

IL MANIFESTO DELLE SARDINE: Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita. Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. L’avete tesa troppo, e si è spezzata. Per anni avete rovesciato bugie e odio su noi e i nostri concittadini: avete unito verità e menzogne, rappresentando il loro mondo nel modo che più vi faceva comodo. Avete approfittato della nostra buona fede, delle nostre paure e difficoltà per rapire la nostra attenzione. Avete scelto di affogare i vostri contenuti politici sotto un oceano di comunicazione vuota. Di quei contenuti non è rimasto più nulla.

Per troppo tempo vi abbiamo lasciato fare.

Per troppo tempo avete ridicolizzato argomenti serissimi per proteggervi buttando tutto in caciara.

Per troppo tempo avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete.

Per troppo tempo vi abbiamo lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi da quanto in basso poteste arrivare.

Adesso ci avete risvegliato. E siete gli unici a dover avere paura. Siamo scesi in una piazza, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo contati. E’ stata energia pura. Lo sapete cosa abbiamo capito? Che basta guardarsi attorno per scoprire che siamo tanti, e molto più forti di voi.

Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto.

Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono. E torneremo a dargli coraggio, dicendogli grazie.

Non c’è niente da cui ci dovete liberare, siamo noi che dobbiamo liberarci della vostra onnipresenza opprimente, a partire dalla rete. E lo stiamo già facendo. Perché grazie ai nostri padri e nonni avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare.

Siamo già centinaia di migliaia, e siamo pronti a dirvi basta. Lo faremo nelle nostre case, nelle nostre piazze, e sui social network. Condivideremo questo messaggio fino a farvi venire il mal di mare. Perché siamo le persone che si sacrificheranno per convincere i nostri vicini, i parenti, gli amici, i conoscenti che per troppo tempo gli avete mentito. E state certi che li convinceremo.

Vi siete spinti troppo lontani dalle vostre acque torbide e dal vostro porto sicuro. Noi siamo sardine libere, e adesso ci troverete ovunque. Benvenuti in mare aperto. 

“E’ chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce. Anzi, è un pesce. E come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare. Com’è profondo il mare”.

Firmato "6000 sardine".

Le sardine diventano  un marchio: simbolo registrato in Europa. Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. Le sardine diventano un marchio. Il simbolo che ha accompagnato le recenti manifestazioni anti-Salvini in Emilia Romagna è stato ufficialmente registrato all'Euipo, l'ufficio europeo per la proprietà intellettuale. «Lo abbiamo fatto per evitare confusioni — ha spiegato all'AdnKronos il fondatore Mattia Santori —, se ne sono occupati alcuni amici. A Milano, per esempio, scenderemo in piazza il 1 dicembre, ma in queste ore è stato lanciato un evento fake che ha già registrato migliaia di adesioni. Ecco, col marchio registrato potremo sconfessare eventi che non ci appartengono, dire "no, questi non siamo noi" con una certa ufficialità». Disegno in matita su sfondo bianco. Dieci sardine e un baloon che conterrà, di volta in volta, il nome della città che «non si lega». Questo il logo che, d'ora in avanti, sarà protetto con tutti i crismi del caso. È stato denominato «6000 sardine», proprio come la pagina Facebook dalla quale i quattro ideatori hanno lanciato le loro iniziative. «Ma questo non vuol dire che nasce un movimento o che diventiamo un partito», ha precisato sempre Santori. Oltre che sul simbolo, il 32enne hanno voluto fare chiarezza anche intorno al tema del dominio Internet. A fronte di alcune registrazioni fasulle (come «movimentodellesardine.it» e «movimentosardine.it»), l'indirizzo corretto rimane infatti l'originario: «seimilasardine.it». Qualora insomma il gruppo dovesse dotarsi di un sito web, sarà possibile accedervi digitando proprio quest'ultima stringa.

Basta balle sulle "sardine" il movimento apartitico. Ben venga la piazza (anche quando è di centrodestra) ma non raccontateci storie. Le sardine sono la faccia nuova dietro la quale si nasconde la solita sinistra. Mario Giordano il 23 novembre 2019 su Panorama. Ero ospite in tv del programma Diritto e Rovescio di Paolo Del Debbio che aveva come ospiti un paio di "sardine". Una si è subito dichiarata militante di Articolo 1, il partito della sinistra, l'altro ha esposto parte del programma di questo movimento dicendo cose già presenti nel programma del Pd. E poi diversi esponenti del Pd erano presenti alle 3-4 manifestazioni che le sardine hanno organizzato in questi giorni; come si sa che il leader di questo movimento è strettamente legato al mondo di Romano Prodi. Questo toglie valore alla loro azione? Certo che no; è sempre bello e positivo che le persone, la gente, scenda in piazza. Questo sempre, però, perché qualche settimana fa, anzi qualche mese fa quando stava per nascere il Governo Conte-bis e Giorgia Meloni annunciò una manifestazione di piazza in molti si stracciarono le vesti, gridando al rischio democrazia e ai pericoli che sarebbero arrivati proprio da quella piazza. Per me invece era bella quella di allora come lo è quella di adesso, è bella sempre, pensate un po' a quanto sarebbe bello addirittura tornare a votare...Però non raccontiamoci balle, non raccontiamo la balla del movimento trasversale, apartitico, apolitico, che parte dalla base... un par di balle! Le sardine sono un movimento politico e come ogni movimento politico che scende in piazza, caso unico al mondo però lo fa contro l'opposizione e non il Governo. Un movimento di opposizione all'opposizione per sostenere i partiti che in questo momento governano sia a Roma che in Emilia Romagna, dove le sardine sono state fondate e dove guarda caso si andrà a votare a gennaio. Un movimento che sostiene le forze di governo a Roma che oggi, per mille motivi non hanno il coraggio di esporre i loro simboli e quindi hanno bisogno di rifarsi il trucco di mascherarsi dietro un volto pulito. Ecco cosa sono le sardine, sono il maquillage, sono un listino di un partito, di una parte politica, la sinistra, che ha dei problemi oggi a rapportarsi con la loro base. Quindi, non raccontiamoci balle, altrimenti le sardine rischiano di diventare dei pesci palla che si fanno mangiare dai soliti pescecani.

Pupi Avati a ruota libera: "Fascismo? Chi ne parla non lo conosce". A Un giorno da pecora, Pupi Avati ha parlato a ruota libera di politica e cinema. Ha raccontato la sua esperienza con il fascismo e di quando gli soffiarono il Golden Globe, con un interessante cross over tra i due argomenti. Francesca Galici, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Il regista Pupi Avati è stato ospite di Un giorno da Pecora, il programma di grande successo di Rai Radio1 con Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Senza giri di parole, l'uomo ha affrontato a viso aperto molti argomenti di attualità senza risparmiare commenti sull'attuale situazione politica del Paese. Quando il discorso è scivolato sul tema del fascismo, Pupi Avati ha dimostrato di avere le idee molto chiare in materia, anche per la sua esperienza personale. Nato nel 1938 e in pieno Ventennio, Pupi Avati ha conosciuto in prima persona il fascismo e ne ha visto gli effetti, soprattutto ha vissuto sulla sua pelle la Seconda guerra mondiale. Anche per questo motivo rifugge e nega che il periodo storico che stiamo vivendo sia, come dicono da alcune parti, l'anticamera di un nuovo fascismo che avanza. “Io il fascismo l'ho vissuto ed è stata una cosa terrificante, non lo si può paragonare a niente, non c'è nessun tipo di premesse per cui oggi si possa correre questo rischio. Non mi sembra che ci sia nessun pericolo democratico, né da destra né da sinistra”, ha detto Pupi Avanti ai microfoni di Un giorno da pecora. Una dichiarazione forte e netta la sua, che ha delle basi fondate in un vissuto personale del passato che in pochi, oggi, possono raccontare con la stessa lucidità. “La sinistra ha bisogno di utilizzare qualche spauracchio. Mi permetto di dire che non ci sono le condizioni: chi lo dice non sa cosa sia stato il fascismo, totalmente. Durante il fascismo mio nonno e mio padre rimasero chiusi in casa tre anni, uscendo solo la notte. Io l'ho vissuto purtroppo”, ha detto non senza un filo di risentimento il regista, la cui esperienza può essere d'insegnamento alle nuove generazioni.

Pupi Avati è nato a Bologna, una delle storiche roccaforti di sinistra del nostro Paese e le imminenti elezioni per il rinnovo del consiglio regionale sono state l'assist perfetto per far esprimere il regista in merito alle sue preferenze per il presidente della Regione: “La domanda mi crea imbarazzo, non posso esser sincero. Se dico una cosa so che un dolore ad una parte dei miei cari, e viceversa...” Di certo c'è che Pupi Avati non è interessato alla proposta del Movimento 5 Stelle: “Tutte queste cose dettate solo dalla protesta non mi interessano molto.” Non c'è stata, però, solo la politica nella lunga intervista di Pupi Avati a Un giorno da pecora, dove ha affrontato anche temi inerenti al cinema, il suo campo. Ha raccontato di quella volta che perse il Golden Globe per Il Testimone dello sposo nonostante fosse convinto di averlo vinto: “Andai alla serata in smoking, c'era tutta Hollywood. Mi fecero addirittura scendere i tre gradini come prova per andare a ritirare il premio. Quando annunciarono il "best foreign movie" mi alzai, feci i tre gradini, ma il titolo del film vincitore si riferiva ad una pellicola olandese: rimasi li in piedi come un coglione, davanti a tutti. Tornato a Roma, mio fratello rimase in camera con me tutta la notte, seduto al mio fianco, perché era sicuro che mi sarei buttato di sotto..” Ai microfoni di Un giorno da pecora ha anche raccontato di quando ha provato una fortissima invidia nei confronti di Lucio Dalla, chiamato dallo stesso Avati nella sua Jazz Band come suonatore di clarinetto, lo stesso suo strumento. Durante un concerto Lucio Dalla rivelò il suo talento straordinario, al contrario di quanto Pupi Avati immaginava. “Ho sperato fortemente che morisse, ma non c'è stato niente da fare – ha detto ridendo - Io sono una persona invidiosa, preferisco gli insuccessi altrui che i miei successi.” I conduttori hanno poi cercato di mixare politica e cinema con Pupi Avati e il risultato è stato un colpo di genio da parte del maestro. Giorgio Lauro e Geppi Cucciari gli hanno chiesto di immaginare quali ruoli assegnerebbe ai politici di oggi in un film corale: “Sarebbe perfetto come direttore di ristorante di grande classe, alla Carlo Cracco, sarebbe seducente e attento, Renzi potrebbe fare il cameriere del ristorante di fronte a quello di Conte. Di Maio sarebbe il poliziottino, piccolino, che rimane in macchina, che sta alla guida. Salvini potrebbe fare il cantante di liscio, quello che cucca le spose sull'Adriatico, su quelle barche che fanno piccole crociere. Zingaretti potrebbe fare il ginecologo e la Meloni la postina di un luogo come Castelfidardo. Mattarella forse potrebbe fare il sacerdote.”

Il prof leghista minaccia  gli studenti: «Andate con le sardine? Siete idioti». Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 su Corriere.it da Claudio Bozza. Il docente di italiano e latino e le frasi choc su Facebook.. Dura reazione di Fioramonti. Poi le scuse pubbliche. «Cari studenti, se becco qualcuno di voi alla manifestazione delle “sardine”, da martedì cambiate aria: nelle mie materie renderò la vostra vita un inferno». E poi: «Vedrete il 6 con il binocolo e passerete la prossima estate sui libri». E come se non fosse abbastanza, il colpo finale: «Di idioti in classe non ne voglio». Sono le frasi choc che Giancarlo Talamini Bisi, insegnante di italiano e latino in un liceo di Fiorenzuola ha rivolto agli studenti della sua scuola. Frasi offensive, con tante di minacce nemmeno tanto velate, che il docente ha affidato a Facebook, scatenando un putiferio. Da qualche ora il profilo social dell’insegnante non è più visibile. Il profilo di Talamini Bisi è politicamente assai esplicito: «Liberiamo l’Emilia-Romagna», è la scritta che campeggia, ad evidenziare la sua fede per il partito di Matteo Salvini. Il professore ha pubblicato il suo post choc commentando la convocazione social delle «sardine» nella sua città, Fiorenzuola, fissata per domenica 24 novembre in piazzale Taverna.

Professore contro le Sardine minaccia i suoi studenti: «Se vi becco in piazza renderò la vostra vita un inferno». Simone Pierini per leggo.it il 23 novembre 2019. «Io sarò presente. Cari studenti, se becco qualcuno di voi, da martedì cambiate aria, nelle mie materie renderò la vostra vita un inferno, vedrete il 6 col binocolo e passerete la prossima estate sui libri. Di idioti in classe non ne voglio. Sardina avvisata». Il professore di una scuola superiore Giancarlo Talamini Bisi minaccia così i suoi studenti se dovessero partecipare alla manifestazione promossa dalle Sardine a Fiorenzuola in programma domenica 24 novembre. Ha annunciato che sarà presente in piazza in cerca di coloro che decideranno di partecipare. L'uomo ha utilizzato Facebook per lanciare le sue pubbliche minacce ai suoi ragazzi. Ma non solo, ha indirizzato anche messaggi contro il movimento delle Sardine. «Potete anche scrivermi e chiamarmi - scrive in un altro post - ho un sito personale, non temo di metterci la faccia. Venite pure a trovarmi a Torrano di Pontremoli: ho due motoseghe, tre marazzi, un cane, una falce, due accette: credo bastino per darvele sulle vostre teste vuote». E in un commento risponde a una donna evidenziando le sue posizioni politiche: «La retorica fascistoide di Salvini e Meloni e pure di Casapound a me piacciono». E ribadisce la minaccia ai suoi studenti: «Ed essendo un docente alle superiori, andrò ai flash mob delle Sardine per vedere se becco qualche mio studente... poi piangerà di avere un prof che lo rimanda e gli farà vedere il 6 col binocolo». A queste minacce ha risposto la viceministra dell'Istruzione Anna Ascani: «In molti stamattina mi hanno segnalato il gravissimo comportamento di Giancarlo Talamini Bisi - scrive su Facebook - Un insegnante che offende e promette di penalizzare gli studenti solo perché vorrebbero partecipare alle manifestazioni delle sardine, usando turpiloquio e minacce non troppo velate. Non è un comportamento tollerabile. Mi attiverò affinché si prendano provvedimenti. Nessuno può essere discriminato per le proprie idee, tantomeno nella scuola». Le fa eco anche la sottosegretaria all'Istruzione Lucia Azzolina: «Violenza verbale, intolleranza, minacce non possono e non debbono appartenere a chi svolge la professione docente - scrive la Azzolina - Va contro ogni etica dell'insegnamento. Le migliaia di giovani in piazza ci chiedono esattamente l'opposto: ascolto, tolleranza, inclusione, competenza ed un linguaggio non ispirato all'odio sociale. Abbiamo il dovere di accogliere il loro appello». «Ci segnalano il caso di questo insegnante che avrebbe minacciato i suoi alunni di bocciatura in caso di partecipazione alle proteste delle sardine - aggiunge - Se l'episodio fosse confermato sarebbe gravissimo. Chiederemo un approfondimento. Intanto domando a Salvini: non era lui che diceva che i docenti non devono fare "politica" in classe? Cosa dice, oggi, davanti a questo caso?».

Sardine, Fioramonti: Verifica fatti e sospensione Prof. (LaPresse il 23 novembre 2019) - "Educare al rispetto dei principi della Costituzione è uno dei fondamenti dell’istituzione scolastica, tra questi vi sono certamente il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero ed a partecipare alla vita pubblica secondo i modi garantiti dalla Costituzione stessa. La scuola è inclusiva e, per definizione, deve educare al pensiero critico e indipendente. Anche il corpo docente, nell’esercitare la sua importantissima funzione, deve attenersi a questi principi, trasferendoli agli studenti, per non venir meno ai suoi doveri. Non sono perciò assolutamente ammissibili condotte lesive di tali valori, o che addirittura mettano a rischio la fiducia della comunità scolastica. A tutela dei diritti degli studenti e della stessa scuola ho attivato gli uffici del MIUR per verificare i fatti e procedere con provvedimento immediato alla sospensione". Lo scrive su Facebook il ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti, commentando la vicenda del prof di Fiorenzuola che ha diffidato i suoi studenti dall'andare in piazza con le Sardine.

 “Liliana Segre? In un inceneritore”, sospeso il prof dei post pieni di odio. Le Iene il 23 novembre 2019. Ha scritto post su Facebook ricolmi di odio contro la Costituzione, il presidente della Repubblica e Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta alla Shoah. Dopo il servizio di Nina Palmieri, il prof razzista di Venezia non potrà insegnare per 6 mesi. Liliana Segre sta bene in un simpatico termovalorizzatore”. Scriveva così qualche tempo fa contro la senatrice a vita Sebastiano Sartori, il prof di Venezia famoso per i suoi post razzisti e xenofobi su Facebook. Oggi è sospeso dal suo incarico per 6 mesi. Di queste sue esternazioni a mezzo social e di cosa ne pensavano i suoi studenti, se ne era occupata Nina Palmieri nel servizio che vi riproponiamo qui sopra. “Campi di concentramento in Libia? A me piacciono”, scriveva nei suoi post. Ce l’aveva con la Costituzione: “Un libro di merda buono per pulircisi il culo”. E con il presidente della Repubblica: “Togliete le duracel a Mattarella, è durato troppo”. Sono solo alcune perle del prof Sartori. Per molti anni è stato esponente di spicco di movimenti di estrema destra. “Nazionalsocialismo: lo hai aspettato una vita, ma non sarà l’originale. Ci accontentiamo”, scriveva sempre su Facebook. I genitori dei suoi alunni stanchi delle sue esternazioni hanno scritto alla Procura: “Siamo preoccupati che lui sia quotidianamente in contatto con i nostri figli. Inneggia al razzismo, alla guerra, all’intolleranza, al fascismo”. Nel 2013 era finito sotto processo proprio per le sue esternazioni. Come possono convivere le due anime del filonazista e dell’educatore insieme? Nina Palmieri è andata a farsi un giro nella scuola di Venezia dove lui insegna. “È un fascistone da gara”, dice un ragazzo. “Non mi sarei mai aspettato che un professore venga fuori con questi discorsi. Un nazista fa un po’ ribrezzo”, aggiunge un altro. Così abbiamo provato a metterci sulle sue tracce. Per giorni non si è visto finché è arrivato un indizio. “Ogni mattina va con la barca a fare spesa”, ci dicono. Così muniti di barca lo aspettiamo tra i canali di Venezia per chiedergli del suo pensiero. Ma, appena ci vede, scappa. Dopo il nostro servizio si è messo in aspettativa: la scuola ha preso le distanze e anche la Procura ha aperto un fascicolo. Il prof è stato sospeso dall’insegnamento per 6 mesi, potrà tornare in cattedra solo da febbraio. Intanto il suo account Facebook è stato cancellato e pure i suoi post razzisti. Uno stile però che non è solo di Sartori, tanto che il governo sta pensando di istituire una commissione contro l’odio. Tra i nomi nella rosa dei candidati per la presidenza ci sarebbe quello di Liliana Segre, bersaglio non solo del prof di Venezia ma di tanti altri negli ultimi mesi. "Se a quasi 90 anni finisci bersagliata da insulti e sotto scorta, credo sia normale chiedersi 'ma chi me l'ha fatto fare'. Ma non mi arrendo facilmente", dice al Corriere della Sera, la senatrice a vita sopravvissuta alla Shoah. Racconta di trovarsi alla sua età a condurre un'esistenza che non avrebbe mai immaginato. Ma si dice pronta, se dovesse arrivarle la proposta, a presiedere la Commissione parlamentare contro l'odio.

Da ansa.it il 25 novembre 2019. Si sarebbe sentito male stamani nella sua abitazione di Torrano, frazione di appena 33 abitanti nel Comune di Pontremoli (Massa Carrara) il docente di scuola superiore di Fiorenzuola d'Arda (Piacenza), che aveva "minacciato" su facebook, di punire i propri studenti se "avessero osato" manifestare contro Salvini, assieme alle "sardine", a Fiorenzuola. Il docente, secondo quanto si apprende, sarebbe stato soccorso dal 118 e trasportato per precauzione all'ospedale delle Apuane Noa di Massa (Massa Carrara) dove è stato sottoposto a degli accertamenti clinici. Massimo riserbo da parte della Azienda sanitaria locale: l'ipotesi è che l'insegnante abbia accusato un lieve malessere dopo le tensioni scaturite nelle ultime ore a seguito del suo post poi rimosso. Il professore si è poi scusato pubblicamente con tutti studenti, genitori, colleghi e dirigenti. La vicenda - Un docente di scuola superiore di Fiorenzuola, Giancarlo Talamini Bisi, "minaccia" su fb, con toni che non ammettono repliche, di punire i propri studenti se "oseranno" manifestare contro Salvini, assieme alle 'sardine', a Fiorenzuola, comune di 15 mila abitanti della provincia di Piacenza. "Io sarò presente. Cari studenti, se becco qualcuno di voi, da martedì cambiate aria, nelle mie materie renderò la vostra vita un inferno, vedrete il 6 col binocolo e passerete la prossima estate sui libri. Di idioti in classe non ne voglio. Sardina avvisata", ha scritto il docente che però nelle ultime ore, dopo essere stato tempestato di proteste, ha rimosso il post e chiuso il suo profilo fb. Intanto l'istituto superiore nel quale il docente insegna ha preso le distanze. La dirigenza dell'istituto, comunica "di aver già informato del fatto gli organi superiori dell'amministrazione scolastica per adottare le misure opportune. Si sottolinea l'estraneità della scuola dalle affermazioni del docente in questione". Il post non è passato inosservato al ministero dell'Istruzione. "A tutela dei diritti degli studenti e della stessa scuola ho attivato gli uffici del Miur per verificare i fatti e procedere con provvedimento immediato alla sospensione", ha scritto il ministro Lorenzo Fioramonti ricordando il dovere di "educare al rispetto dei principi della Costituzione". "In molti stamattina mi hanno segnalato il gravissimo comportamento di Giancarlo Talamini Bisi. Un insegnante che offende e promette di penalizzare gli studenti solo perché vorrebbero partecipare alle manifestazioni delle "sardine", usando turpiloquio e minacce non troppo velate. Non è un comportamento tollerabile. Mi attiverò affinché si prendano provvedimenti. Nessuno può essere discriminato per le proprie idee, tantomeno nella scuola", scrive su fb la viceministra dell'Istruzione, Anna Ascani (Pd). E la sottosegretaria al Miur Lucia Azzolina (M5S) rincara: "Ci segnalano il caso di questo insegnante che avrebbe minacciato i suoi alunni di bocciatura in caso di partecipazione alle proteste delle "sardine". Se fosse confermato sarebbe gravissimo. Intanto domando a Salvini: non era lui che diceva che i docenti non devono fare "politica" in classe? Cosa dice, oggi, davanti a questo caso?". Pure il sottosegretario all'Istruzione Peppe De Cristofaro, annuncia che si rivolgerà all'Ufficio scolastico regionale, "sono certo - dice - che verranno presi al più presto tutti i necessari provvedimenti per tutelare l'istituzione scolastica pubblica, l'istituto in cui lavora, e gli studenti di quella scuola". Scendono in campo anche gli studenti dell'Unione degli studenti (Uds). "I professori leghisti minacciano di bocciatura gli studenti che vogliono manifestare con i discorsi di odio della destra. E' un comportamento inaccettabile contro cui ci batteremo fermamente. Nessun docente può impedirci di manifestare, né possiamo accettare che si dichiari fascista. Questi personaggi devono essere cacciati dai luoghi della formazione", afferma Giulia Biazzo, coordinatrice di Unione degli Studenti. L'Uds annuncia che nei prossimi giorni sarà attivo lo sportello SOS Studenti e verranno raccolte le segnalazioni di questi abusi a cui gli studenti si opporranno sia per le manifestazioni delle "sardine" che per i cortei dello sciopero globale per il clima del 29 novembre. Contro il prof infine si sono schierati anche i sindacati. In serata, con una mail ad alcuni organi di informazione locali, il docente si è scusato per le sue affermazioni. "Ne approfitto - scrive fra l'altro il professore - per scusarmi pubblicamente con tutti gli studenti, genitori, colleghi e dirigenti che non era certo nelle mie intenzioni mettere in difficoltà attraverso il mio scritto. Chi mi ha conosciuto - conclude - sa che non sarei mai e poi mai in grado di compiere azioni del genere".

"Fuori di qui, vecchia fascista di merda". Insulti choc alla militante FdI. A Bologna il biglietto lasciato sul parabrezza dell'auto. Valeria: "Dobbiamo tornare nei gulag?" Giuseppe De Lorenzo, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. Il biglietto l’ha trovato sul parabrezza dell’auto, a Bologna. "Fuori dal quartiere vecchia fascista di merda - si legge - e porta con te la paraplegica e il nano con gli occhiali". E pensare che questa è la città dove sono nate le sardine contro il presunto "odio" seminato da leghisti e populisti. Siamo nel quartiere Reno-Borgo Panigale. Valeria Bellettini è una militante di Fratelli d’Italia: sessanta anni, nessuna "paura di questi quattro soliti idioti", una vita di passione politica alle spalle. Il biglietto "minatorio" è scritto al computer e stampato. Nessuna firma. I diretti interessati si sentono "tranquilli", certo, molti abitanti hanno dimostrato piena solidarietà. Ma resta un dato di fatto: "Il clima è cambiato - spiega al Giornale.it Valeria - Per un po’ di tempo non ci siamo fatti vedere molto in quartiere, ma ora siamo una presenza abbastanza nutrita". I banchetti di FdI attirano persone, ma anche l’attenzione degli "avversari" politici: "Probabilmente diamo fastidio a qualcuno". Valeria aveva circa 15 anni nei burrascosi anni ’70, quelli in cui le minacce, scritte o verbali, potevano trasformarsi in aggressioni, pallottole e violenza. A volte anche omicidi. Oggi è tutto molto diverso, il biglietto sembra "opera di un coglione", ma non può essere certo sottovalutato del tutto. Almeno non politicamente. "Dà fastidio il fatto che se qualcuno non è allineato, loro reagiscono così - afferma - invece di venire a parlare ai banchetti con noi per capire il nostro punto di vista, arrivano a fare queste cose”. C’è poi il disappunto per gli insulti rivolti agli altri due militanti, alla "signora che fa fatica a camminare" e che viene chiamata "paraplegica"; oppure al ragazzo definito "nano con gli occhiali". "Questo disprezzo verso persone che non la pensano come te fa abbastanza schifo”. Le elezioni di gennaio rischiano di infiammare lo scontro politico. "Il clima in Emilia-Romagna è purtroppo sempre più insopportabile - dice Marco Lisei, candidato FdI in Regione - i centri sociali e i mondi della sinistra radicale arrivano sempre più spesso ad attaccarci, anche fisicamente". Si va dalle minacce di morte sui social a "sputi e insulti" ogni volta "che siamo per le strade a raccogliere firme e a stare tra i cittadini". Secondo Lisei, all'alba del 2020 "sembra di essere tornati negli anni di piombo". E così, in tempo di sardine, di manifesti in cui si sentenzia il divieto per i populisti di avere qualcuno che li vada ad ascoltare, Valeria cerca di spiegare "ai compagni" che "questa non è democrazia". "Per come la vedo io - dice - Ognuno può dire ciò che vuole". Semplice. Invece, al dialogo qualcuno preferisce le intimidazioni. "Credono di avere la verità assoluta in tasca - continua - Ma non fanno nulla per la gente. Oggi la destra si cura di chi ha bisogno, mentre sinistra si aggrappa allo spauracchio del fascismo. Hanno sempre in bocca questa parola. Invece di argomentare dicono: 'Le cose stanno così e se non la pensi come me sei fascista'. Cosa dobbiamo fare, dobbiamo tornare nei gulag?". Valeria, nonstante il biglietto, non intende tirare i remi in barca. Continuerà l'attività politica: "Mi dispiace per loro, ma noi continueremo ad esserci. E loro a vederci e a rodersi dentro".

Marianna Rizzini per il Foglio il 26 novembre 2019. Seimila, dovevano essere, ma si sono presentati in più del doppio. E' iniziata così la storia istantanea delle sardine, quelle che in una settimana hanno riempito (in migliaia, con ombrelli colorati, libri e pesci di carta da issare sulla testa) le piazze di varie città, a partire da Bologna. (...) Che cosa significhi farsi improvvisamente sardina lo hanno spiegato le sardine antesignane bolognesi, nel manifesto pubblicato sulla pagina Facebook "6000 sardine". Una lettera aperta ai populisti che va sotto al titolo "benvenuti in mare aperto", poi diventato canovaccio di convocazione, in tutta Italia, per altri flash mob, alcuni appena conclusi altri ancora in fieri, da Modena a Napoli a Milano a Firenze a Sorrento a Palermo a Parma a Torino a Roma. Un contagio allegro, l' hanno chiamato. Una piazza non convocata in nome del dàgli a un' élite considerata matrigna, ma riempita in nome del "no" all' antipolitica e al populismo, considerati come l' anticamera del nulla. "Il messaggio che vogliamo mandare ai populisti è: siete circondati dai nostri cervelli", dice al Foglio Mattia Santori, ideatore, con Andrea Garreffa, Giulia Trappoloni e Roberto Morotti, del flash mob originario, nato come "esperimento per oscurare la campagna di Matteo Salvini in Emilia-Romagna". (...) Si cerca intanto di capire in che cosa si sentano diverse, le sardine, da chi ha popolato per anni le piazze "contro" (contro Silvio Berlusconi, prima, e poi contro i partiti), dai Girotondi ai Popoli Viola ai paladini dei post-it gialli ai Cinque stelle che adesso, ironia della sorte, guardando le distese di sardine - come si evince dalle dichiarazioni del grillino Max Bugani - hanno nostalgia distorta di sé, intesi come bagno di folla ("dieci anni fa c' eravamo noi"), senza però vedere la trave nel proprio occhio: trave di un populismo uguale e contrario a quello leghista, a monte e a valle del fallito contratto gialloverde. "La nostra mobilitazione", dice Santori, "non è tanto contro qualcuno, quanto contro un modo di fare politica. Siamo diversi dai Girotondi, più legati a una nicchia di persone; diversi da quelli che hanno riempito piazze con facili promesse, diversi anche da chi vede nella politica un male. La gente viene in piazza armata di sardine per andare verso la politica, con la voglia di rimboccarsi le maniche e sostenere chi prova davvero a fare qualcosa per la comunità. Siamo persone normali, con delle responsabilità, persone che amano la creatività, la bellezza. E forse la cosa che dà più fastidio a Salvini è questa: si è sempre trincerato dietro la tastiera, solo che adesso la vita reale sta disintegrando il suo messaggio". Anche le sardine si servono della tastiera, ma come ponte tra "persone propositive come quelle che ci stanno contattando in questi giorni", dice Santori, convinto che queste iniziative di contrasto spontaneo al populismo "faranno benissimo anche alla destra". La paura di essere presi, adottati e cambiati, al momento, non c' è. Né per ora ci si preoccupa del futuro peso effettivo. Qualche dubbio l'ha sollevato Antonio Polito, sul Corriere della Sera: "Il problema di questi movimenti, che ciclicamente sembrano innovare la politica italiana, è sempre lo stesso", scrive Polito: "Grande capacità di mobilitarsi (e di unirsi) contro, scarsa o nessuna capacità di mobilitarsi (e unirsi) per un programma politico o a difesa di una esperienza di governo non c' è dubbio che una forma così pacifica e anche così allegra di partecipazione politica sia la benvenuta, in mezzo a tanta indifferenza, astensionismo e noia ma può anche servire a spostare consensi, allontanandoli da Salvini?". Dice Stephen Ogongo, giornalista quarantacinquenne di origine keniota e promotore della prossima piazza di sardine romane (a dicembre) che "se i partiti vogliono venire, devono venire senza bandiera" e che "l' unica bandiera che accettiamo è la Costituzione". L' obiettivo, per Roma, è di raccogliere, forse nella simbolica Piazza San Giovanni forse altrove, un milione di sardine, per farsi anche plasticamente città "sLegata", cioè no-Lega (...) Neanche a Roma ci si sente "girotondo", e alcune sardine, a leggere i commenti su Facebook, hanno apprezzato l' Amaca in cui Michele Serra, qualche giorno fa, scoraggiava il confronto: "Stando alla lettura sociopolitica in voga negli ultimi anni", scrive, "l' opposizione alla destra populista sarebbe costituita solamente dai famosi radical-chic, barricati con un drink in mano nei loro appartamenti dei centri storici. Per vera e propria grazia ricevuta dal cielo, sono arrivate le sardine a stracciare, con il loro stesso numero, queste carte false. Sono tutti quegli ombrelli non possono esserci solo economisti del Mulino, architetti paesaggisti, autori Einaudi, gastronomi slow food, incisori su pergamena e collezionisti di porcellane inesi. La quantità stessa certifica che ci devono essere, per forza, anche la casalinga di Voghera e il casalingo di Piacenza, lo studente fuori corso e la supplente precaria, l' ultras della Fortitudo e la dog sitter di Pesaro, l' operaio della Ducati e la sfoglina di Budrio, con le dita ancora infarinate. Insomma, popolo. A riprova del fatto che il populismo è una bufala in sé, a partire dal nome che assegna a una sola parte politica la moltitudine delle persone". Per Serra lo smacco c' è già: "Lo smacco vero, e irrimediabile, che le sardine hanno assestato agli assedianti, è dimostrare che oggetto dell' assedio non sono i palazzi del potere, nei quali sono asserragliati pochi potenti. Oggetto dell' assedio è la città intera". L' interrogativo che corre è: "Riusciranno le sardine a non dissolversi nel mare di possibile qualunquismo che sempre corre a fianco della mobilitazioni di massa? (...) "Questi dicono cose da pazzi", ha scritto Giuliano Ferrara su questo giornale, a proposito "dell' adunata antiretorica" delle sardine: "Non piangono miseria sociale e ribellione da controcultura aggiornata agli anni della grande ignoranza. Non alimentano paura e odio per l' avversario populista cosiddetto, si limitano a manifestare la loro stanchezza sembra un sogno, da lasciare in pace, da preservare mettendo in sonno le ansie di recupero più o meno strumentali. Un movimento spontaneo di fiancheggiamento dell' establishment". A Napoli, intanto, ci si prepara a riempire il 30 novembre Piazza del Gesù (...)E mentre Torino e Milano creano pagine Facebook per il proprio "giorno della sardina" (non senza ironia, come quando, a Torino, un' insegnante ha lanciato come simbolo una sardina all' uncinetto), la costante del clima scanzonato contro la "bestia" social salviniana fa proseliti. A Modena, la seconda città dove, dopo Bologna, ci si è mobilitati, i due promotori Samar Zaoui, studentessa di Filosofia, e Jamal Hussein, aspirante ingegnere meccanico, ricordano soddisfatti la sera di qualche giorno fa, quando hanno visto la piazza piena di gente di tutte le età sotto la pioggia. "La nostra piazza", dice Samar, "ha raccolto persone sfiduciate, persone che hanno dato un segnale di risveglio e voglia di partecipare in una regione dove sicuramente di fronte a un ex ministro dell' Interno che parla come Salvini si attiva un feedback ideologico e storico di un certo tipo di sinistra, ma dove è trasversale la saturazione per un modo di fare politica che fa perno sull' ansia e sulla paura" . E' successo anche, in questi giorni, che un antico post antisalviniano di Samar, in cui Salvini appariva raffigurato come Mussolini a testa in giù, sia emerso dalle viscere del web, con reazione immediata dell' interessato. "E' stato un errore, quel post, non ho problemi a dirlo". Vale per tutti il no al discorso d'odio. Il collega Jamal sottolinea la diversità delle sardine dai grillini (che furono): "Una differenza abissale, non fosse altro che per il "vaffa" di Beppe Grillo. Noi non vogliamo dire "vaffa", non vogliamo aizzare..." (...) Ma che forza reale forza hanno le sardine? "I pescatori, già al tempo di Aristotele", scrive su Repubblica Francesco Merlo, "raccontavano la meraviglia delle albe, quando le sardine luccicando si aprono a ventaglio, e gli incanti lunari in cui si addensano e le loro ombre ingigantiscono. Ma le sardine non hanno altre armi che il numero e i sensibilissimi sensori che, studiati dai neurologi, somigliano sia alla coscienza collettiva di Marx sia ai radar e ai sonar che permisero a Churchill di respingere l' invasione nazista". Al momento, dopo le prime piazze, i convenuti ai "sardina-day" si contano sotto gli ombrelli. E se a Bologna risuonavano le parole della canzone di Lucio Dalla - "com' è profondo il mare" - tra i flutti internettiani dei futuri lidi (piazze di Milano, Torino, Roma) naviga la frase del manifesto bolognese in cui si dice "cari populisti, avete ridicolizzato argomenti serissimi per proteggervi, buttando tutto in caciara". La caciara è finita, andate in pace (questa la speranza, se è poco o tanto si vedrà).

Sardine sott'odio. Salvini è il plancton delle sardine: senza di lui non esisterebbero. Il vero obiettivo delle proteste? Silenziare gli italiani. Matteo Carnieletto, Domenica 24/11/2019 su Il Giornale. Da qualche settimana a questa parte, siamo ammorbati dalle sardine, un movimento di protesta nato con un unico scopo (almeno per ora): rompere l'anima al leader leghista Matteo Salvini. Proprio come i pesci, anche le sardine umane si muovono in gruppi senza troppe pretese: l'ex ministro dell'Interno va a Bologna? Allora il banco ittico occupa la piazza. Il capitano (o "capitone" per rimanere in tema, come lo chiama qualcuno) si sposta a Modena? E loro lo seguono. Salvini è in pratica il plancton delle sardine: senza di lui, non esisterebbero. Già perché l'unica fortuna degli organizzatori delle manifestazioni è stata l'ascesa dell'ex ministro dell'Interno e, in particolare, gli ultimi successi alle regionali, quando la Lega e il centrodestra hanno sbaragliato la corazzata Potemkin di sinistra in Umbria e in Abruzzo. E ora rischiano di fare lo stesso nella rossa Emilia Romagna. C'è chi evoca lo spettro del fascismo, ma francamente Salvini non pare proprio avere il physique du role di un Benito Mussolini, e chi teme il clima d'odio creato dallo stesso ex ministro. In realtà non sta accadendo nulla di tutto questo. Semplicemente un politico sta facendo il pieno elettorale puntando sulla pancia degli elettori. Che è esattamente ciò che fanno i politici da millenni, da Giulio Cesare, populista ante litteram, a Matteo Renzi. Non c'è nulla da stupirsi: per poter governare uno deve raccogliere voti e lo fa come meglio crede. Poi sarà la gestione della cosa pubblica la vera cartina al tornasole di quel politico. Ma questo le sardine sembrano dimenticarlo. E se oggi Salvini prende il 34% è perché è più bravo degli altri nel raccogliere il consenso. Un po' come lo era Renzi solo pochi anni fa. Eppure nessuno diceva nulla allora. Nessuno temeva l'uomo solo al comando. Anzi...Le sardine, in pratica, vogliono silenziare quello che è il pensiero comune degli italiani, arrogandosi il diritto di giudicarlo come retrogrado e, perché no?, fascista. E lo fanno odiando, ma con garbo. Per questo possono permettersi di dire che vogliono Salvini morto (guarda il video) e che per i sovranisti "la festa è finita". Finita un po' in tutti i sensi. Un po' come quando ieri un artista napoletano, Salvatore Scuotto, ha realizzato una statua che raffigura l'ex ministro dell'Interno sparare a due migranti e l'ha titolata "La pacchia è finita". Già perché a sinistra si può anche odiare o si può anche prendere per i fondelli i disabili, come ha fatto Patrizia Giussani, candidata di sinistra a Desio. Ma soprattutto, a sinistra, ci si può permettere di zittire l'avversario. Anche e soprattutto quando questo sta per prendersi il governo. Perché il vero problema alla fine è proprio questo: le sardine non stanno manifestando contro un governo. Stanno manifestando contro l'opposizione, solamente perché temono che questa, in un futuro nemmeno troppo lontano, possa entrare a palazzo. Sono manifestazioni preventive. O, meglio, censura preventiva.

Lo scemo di destra. E quello di sinistra. Camillo Langone, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Poi certo che uno si ritira a vita privata. Ma come fai a imbrancarti, anzi a imbancarti (vista la nuova tendenza ittica della politica), con certi personaggi? Destra o sinistra per me pari non sono ma entrambe, a livello di attivisti e adesso anche di artisti, stanno fornendo esempi oltremodo penosi. Col presente articolo candido al premio «Merluzzo del Mese» il professore piacentino Giancarlo Talamini Bisi e lo scultore napoletano Salvatore Scuotto. Il primo campione ha scritto su Facebook che renderà la vita un inferno ai propri allievi pescati a manifestare tra le famose Sardine: «Di idioti in classe non ne voglio». Dopo le reazioni il docente ha subito oscurato il suo profilo ma temo che la manovrina non basterà a scongiurare la sospensione minacciata dal ministro Fioramonti. Il secondo campione ha esposto a Napoli, in una mostra tutta ideologica ossia immigrazionista, una scultura raffigurante Matteo Salvini che spara a due africani su una zattera. Una cosa che non sta né in cielo né in terra ma che evidentemente sta in acqua, nel mare mediatico mai così pieno di pesci pronti ad abboccare. I due episodi non mi risultano sorprendenti: mi risultano sconfortanti. Possibile che un professore di italiano e latino non immaginasse che la sua uscita avrebbe fatto il gioco degli odiati avversari? «L'italiano non è l'italiano» ha scritto Leonardo Sciascia, «l'italiano è il ragionare». Col suo irragionevole post contro le Sardine, Talamini Bisi ha consentito al ministro dell'Istruzione di ergersi a paladino della democrazia, ruolo che proprio non si merita siccome stiamo parlando dello stesso grillino che sul solito Facebook definì Berlusconi «iettatore nano». Invece lo scultore mi fa disperare due volte, primo perché è un artista, e agli artisti chiedo gioia estetica e non polemica politica, secondo perché è un bravo artista, e un bravo artista non dovrebbe ricorrere a simili mezzucci. Salvatore Scuotto assieme ai fratelli ha fondato «La Scarabattola», laboratorio da cui sono usciti alcuni dei più bei presepi napoletani degli ultimi anni. Credevo che fosse semplicemente un pesce rosso (lo seguo, ci siamo scritti), non sapevo fosse un merluzzo. E invece è caduto nella rete dell'esibizionismo gregario e degradante, realizzando un'opera che è il suo suicidio come autore di presepi (altro che «luce dona alle menti / pace infondi nei cuor»: la scultura anti-Salvini è tenebra e guerra).

Antonello Caporale per “il Fatto Quotidiano” il 23 novembre 2019.

Carlo Rossella è un uomo potente. Un pescecane d' altura.

«Ex, prego».

Un giornalista influente.

«Questo glielo permetto».

Il Raymond Queneau dell' informazione italiana.

«Questo è uno sfottò a cui non replico. Mi sento piccino così e non ho mai ecceduto nell'autostima».

Il primo comunista a servire un grande capitalista.

«Berlusconiano, ma nel cuore la falce e martello».

Il primo comunista a rendere Silvio un capellone.

«La copertina di Panorama? Non ho dubbi: fu uno schifoso eccesso di servilismo».

Il primo epurato della storia delle poste del cuore.

«La posta del cuore era divenuta una formidabile rubrica su Chi. "Signora mia", questo il suo titolo, apriva il mondo e lo raccontava alle masse femminili che riempivano di lacrime o di gioia l' intensa corrispondenza».

Nelle risposte c'era charme e c'era ideologia.

«Tanto charme e poi, zac!, la mazzata ideologica».

Ad Arcore non gliel'hanno perdonata. Ma lei li perdoni: non sanno quello che fanno.

«Cattolico professante. Ogni mattina recito il rosario. La fede dà una forza mostruosa».

In effetti lei sarebbe il primo pescecane a simpatizzare per le sardine.

«Ex pescecane».

I pescecani mangiano le sardine a branchi. Non si fidanzano, non simpatizzano.

«Da ex dico che mi piacciono assai questi ragazzi. Volenterosi, gioiosi, improvvisatori, intelligenti. Disarmano la politica, la rendono così inutile davanti alla loro freschezza, la lucidità».

Rossella, un peana eccessivo. Magari le sardine tra un po' finiranno in bocca ai pescecani veri.

«Io ex. Sono stato potente».

Un potente che ammira gli ultimi.

«Sono cresciuto nelle sezioni del Pci. Ho imparato a leggere e a scrivere grazie al partito».

Sotto il cardigan ha ancora la falce e martello?

«Ancora».

Che mattacchione!

«Il mio carattere molto misurato non ha evitato che promuovessi scherzi epici, goliardate di grande livello. Sono mattacchione e me ne vanto».

Ora lei è berlusconiano, ma comunista con un amore impetuoso per i senzacasa con le sardine stampate sul petto.

«Vedo sardine dappertutto. Il logo è stato immesso nel mercato giovanile (e non solo!) e fa furore».

E se fosse un fuoco di paglia? Un tormentone da social?

«Non prevedo infatti la conquista del Palazzo d' inverno».

Salvini le sta sulle scatole.

«Non mi piace, non mi garba, ha un eloquio sconsiderato, eccessivo, debordante. Non è il tipo che fa per me».

Ha invitato a cantare Bandiera rossa ai comizi della Borgonzoni.

«Un atto di difesa civile. Una misura equa. La Borgonzoni è un affronto.

Rossella adesso usa la lingua come una lama. Da potente non le sarebbe uscita una sillaba.

«Il potere si costruisce con le relazioni».

E lei ne ha avute tante.

«Poi c' è il fattore C da considerare. Senza la fortuna non vai da nessuna parte».

La coltivazione intensiva delle relazioni è fondamentale. Essere potente però è una bella rogna.

«In un certo senso sì. Devi farti concavo o convesso a seconda delle necessità o delle convenienze».

Lei si è fatto concavo più di una volta.

«Moltissime occasioni alle quali ho risposto con sapiente convessità».

Un potente elegante e raffinato. Eppure qualcosa non torna.

«Cosa?»

Che lei sia mai potuto essere comunista. È contro il principio della gravità.

«È così. Per me il partito è stato una grande scuola».

Lei è stato un cattivo scolaro. Se Gramsci l' avesse incontrata per strada avrebbe cambiato marciapiede.

«Guardi che Berlusconi è molto più di sinistra di quanto crede».

Molto più di sinistra lo dica altrove.

«Giuro».

Spergiuro.

«E poi a lui non interessano le tue idee politiche. Esige un buon lavoro, che porti la pagnotta a casa».

Racconta lo scherzo che fece a Gianni Morandi?

«Faceva il militare a Pavia. A Pavia c'è il Collegio Borromeo. Un' istituzione per la città, un luogo molto alto, severo, compassato. Io e Fabrizio Del Noce affiggemmo un manifesto, falsissimo, in cui annunciavamo una conferenza di Gianni Morandi nientemeno che al Collegio Borromeo sul tema: "Società e canzone". In piccolo aggiungemmo: alla fine della sua relazione si esibirà con i maggiori successi canori. Era scritto in piccolo. Arrivò quel giorno e davanti al collegio trovammo migliaia di fanciulle ad attendere l'arrivo di Gianni per vederlo cantare. Dovetti fuggire dalla città».

La facevo più compassato.

«Invece c' è verve».

A una certa età anche più disinibizione. Il suo collega Vittorio Feltri, per esempio, coltiva il piacere dell' eloquio greve, deviato, anche volgarotto.

«A una certa età ti liberi dai vincoli di rappresentanza».

E dici vaffanculo a tutti?

«È bellissimo dirlo. Sai che c' è? Vaffanculo!»

Da Rossella mai potrebbe accadere.

«Chi lo sa. Certo che se ci penso la voglia è tanta».

Che fa, vorrebbe liberarsi già adesso?

«Sarebbe un grandissimo piacere».

Già conosco i bersagli. I fottuti dirigenti Fininvest che le hanno tolto la Posta del Cuore.

«Un' epurazione politica».

Eppure donò a Berlusconi tanti capelli, tanta gioia.

«Le ho già ammesso il servilismo. Penso che anche a lui non sia garbata la scelta. Potrebbe però anche essere stata una provocazione».

Alla provocazione chi ci crede? Lei è pescecane.

«Ex».

La dittatura delle sardine. Le sardine giocano con la libertà. Il manifesto anti populisti: "Non avete diritto di essere ascoltati". Così rimarrà solo il pensiero unico. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. C’è un passaggio del "manifesto delle sardine" su cui occorre riflettere, lasciando da parte la retorica del movimento "nato dal basso". Ed è dove afferma che "grazie ai nostri padri e nonni avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare". Se uno ci pensa con calma, fa venire i brividi. È la nuova censura. L'unica differenza con quella "fascista" (le sardine direbbero così) è che invece di tappare la bocca di chi parla, si pone come obiettivo quello di infilare pezzi di tonno nelle orecchie degli uditori. Potete parlare, ma "non avete il diritto" (capito?), il "diritto", di avere "qualcuno che vi stia ad ascoltare". Fa paura. Ho intervistato Mattia Santori, leader del movimento bolognese nato la scorsa settimana. È simpatico e pure pacato nel parlare. Non fa scivoloni, non urla. È preparato. Le sardine non bloccano le strade per impedire ai leghisti di raggiungere il Paladozza. Sono il volto pulito del dissenso anti-leghista. (A dire il vero una di loro ha invocato un “giustiziere” per Salvini, ma sostiene fosse ironico). Di certo non lanciano bombe carta, non pestano i poliziotti, non portano balle di fieno in piazza per bloccare l’ingresso dell'ex ministro. Eppure sono mosse da un principio simile: mentre i centri sociali si mobilitano per impedire fisicamente ad un leader politico di parlare agli italiani (sarebbe la democrazia, compagni!), le sardine puntano a togliere al leghista (e alla destra) il diritto di avere qualcuno che possa andarli a sentire. Il dramma è che se gli italiani non hanno diritto di ascoltare Salvini, Meloni o Borgonzoni, allora devono affidarsi solo alle sirene di chi sta simpatico alle sardine. Magari al Pd o ad Italia Viva. Ai vari Corrado Augias, Roberto Saviano e via dicendo. L’ipotesi fa rabbrividire. Ma non perché Zingaretti, Renzi, Speranza, Potere al Popolo e tutti i pensatori sardine-compatibili non abbiano la libertà di dire ciò che vogliono e di radunare masse intorno alle loro idee. Ma perché l’idea che solo un messaggio di sinistra (o non populista) abbia "diritto" di essere ascoltato è liberticida. Un orrore democratico. Anzi: non ha proprio nulla di democratico. È presunzione radical chic. E il bello (o il brutto) è che una persona intelligente come Mattia Santori, faccia pulita e spirito lodevole, non sembra capirlo. Cercheremo di essere chiari: le sardine hanno facoltà di cercare di occupare il campo leghista, strappargli via l’elettorato, fare da pietra d’inciampo alle elezioni regionali. Se ci riusciranno, bravi loro. Hanno tutto il diritto di svincolarsi dalla "onnipresenza opprimente" dei populisti. Di combattere (presunte) "bugie e odio" che i sovranisti avrebbero "riversato" sui "concittadini". Che si inorridiscano pure per "quanto in basso" l’Italia sarebbe arrivata. Nessun problema. È un bene che credano ancora "nella politica e nei politici con la P maiuscola" (senza però indicare quali). Fanno benissimo a cercar di convincere "vicini, parenti, amici e conoscenti" che "per troppo tempo" la destra ha mentito loro. Ma da qui a mettere per iscritto che Lega, FdI, CasaPound e pure Forza Nuova non possano avere il diritto di rivolgersi ai propri sostenitori ce ne passa eccome. Se non capite dov'è il confine tra opposizione e imposizione, allora abbiamo un problema. Perché questa è la linea rossa che divide la democrazia dalla dittatura del pensiero unico: non esiste un progetto di società giusto o sbagliato, esiste un programma politico mio e tuo, di destra e di sinistra. E nesuno dei due è del tutto "vero" o del tutto "fasullo". Non so se questo articolo verrà mai giudicato da un giudice-sardina o da una Commissione Segre qualsiasi. E comunque mi sento al sicuro: dicono che ho libertà di parola. Ma se dovessimo applicare il manifesto delle sardine, allora non avrei il "diritto" di avere "qualcuno che mi stia ad ascoltare". Ovvero voi lettori. E questo mi fa preoccupare.

Sono soltanto fasciocomunistelli. Alessandro Sallusti, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale.  In tutto il mondo si scende in piazza contro i governi, l'Italia è l'unico paese che preferisce manifestare con forza contro l'opposizione. Per le «sardine» - il movimento di protesta nato a Bologna e poi esportato in tutta Italia - la Lega e il centrodestra tutto sono una minaccia alla libertà e alla democrazia, e come tali vanno silenziati con ogni mezzo. Ieri i quattro fondatori, travolti dalla popolarità, hanno steso un manifesto costitutivo che la dice lunga su quanto giovani siano in realtà nati vecchi, vecchi tromboni infarciti di retorica dozzinale. Scrivono, tra l'altro: «Perché grazie ai nostri padri e ai nostri nonni avete (voi di destra, ndr) il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare». Sarebbe banale ricordare a questi fasciocomunistelli che non può esistere il diritto di parola senza quello di ascolto, che ai ragazzi di Hong Kong, che stanno difendendo le loro basilari libertà dalla dittatura, è stato negato il diritto di ascolto e si preferisce menarli e arrestarli; sarebbe semplice ricordare che non i loro padri e i loro nonni, immagino partigiani, ma le truppe alleate di grandi democrazie hanno restituito agli italiani il diritto di parola e pure quello di ascolto e che se fosse stato per il Pci del '45 (partito dei loro nonni) non avremmo avuto né uno né l'altro com'è successo ai cittadini dei paesi finiti sotto l'influenza dell'Unione Sovietica. Le «sardine» vogliono impedire il diritto di ascolto perché le parole di chi non è di sinistra sono pericolose. Pericolose per chi? Provassero ad ascoltare, forse imparerebbero qualche cosa. Per esempio come si governa nelle regioni del Nord guidate dal centrodestra in nome della libertà e dello sviluppo. In Lombardia, Veneto, Piemonte e Liguria nessuno sente il bisogno di andare sui monti a resistere. Al mattino ci si alza e si va a lavorare perché c'è lavoro; non si muore di malasanità perché gli ospedali funzionano; si stampano libri e giornali di ogni genere e tendenza perché si è liberi; nel Bergamasco, un anno fa, è stato eletto il primo senatore di colore della storia repubblicana, Toni Iwboi, guarda caso nelle liste della Lega. Si sa, i pesci sono boccaloni, e le sardine sono tra i più stupidi. Come dice la freddura: si rinchiude dentro la sua casa, chiude la porta a chiave e la lascia fuori dalla porta.

Leggete due libri prima di delirare. Alessandro Sallusti, Sabato 23/11/2019, su Il Giornale. Per tagliare la testa al toro al falso problema della fascistizzazione dell'Italia, invece di andare in piazza come sardine sarebbe molto più utile leggere due libri appena usciti di due squali (nel senso di re dei mari) del giornalismo italiano, Bruno Vespa ed Eugenio Scalfari. I due, successo a parte, hanno pochi punti in comune, così come diversi sono i due libri: «Perché l'Italia diventò fascista e perché il fascismo non può tornare» (edizioni Mondadori) quello di Vespa; «Grand Hotel Scalfari» (Marsilio edizioni) quello che il fondatore di Repubblica ha dettato a due colleghi. Ciò che li accomuna oltre che la scorrevolezza della scrittura - è la ricostruzione, nella prima parte, di cosa fu in realtà il fascismo (Scalfari lo racconta in prima persona vantandosi per la prima volta in maniera motivata di essere stato a lungo convintamente fascista) e nella seconda il viaggio nell'Italia post fascista (Vespa la proietta direttamente alle vicende di oggi non senza qualche inedito retroscena). Se le sardine avessero la pazienza, direi il piacere, di arrivare fino in fondo alle due letture potrebbero capire che il loro muoversi violentemente in banco a caccia di streghe sta agitando acque che di loro sarebbero sostanzialmente quiete, al massimo increspate da brezze fastidiose sì ma non pericolose per la navigazione della democrazia. Certo, se elevi un cretino a intellettuale, un nostalgico a statista (entrambe le categorie sono non eludibili) allora vale tutto. Ma farlo vuole dire mettersi a livello delle due suddette tipologie e nobilitarle ben oltre la loro forza e consistenza. Senza gli antifascisti i fascistelli in circolazione rimarrebbero confinati a fenomeni da baraccone, al massimo di competenza del commissariato di quartiere. Se viceversa tutto è fascismo, se qualsiasi obiezione al politicamente corretto, se qualsiasi partito non di sinistra viene bollato come fascista, alla fine si ottiene il risultato opposto: nulla è più fascista e quindi neppure il fascismo nei rari casi in cui si appalesa. L'Italia è stata fascista fino al midollo, lo sono stati - oltre a Scalfari - Toscanini, Ignazio Silone e Pietro Nenni, tanto per fare tre nomi noti. E lo è diventata Vespa ben lo documenta come difesa a un violento tentativo di insediare il comunismo fresco della Rivoluzione di Ottobre anche in casa nostra. Oggi, se Dio vuole, non ci sono più né bolscevichi né fascisti, quindi non ci servono neppure partigiani ma ingegneri e operai specializzati. Che si formano a scuola e in università più che nelle piazze.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 22 novembre 2019. Dalla democristiana Balena Bianca siamo precipitati alle acciughe rosse e ciò contraddice la teoria di Darwin relativa alla evoluzione della specie. Un tonfo che tuttavia costituisce una metafora significativa di questi nostri tempi che segnano il disastro della politica. Non bastavano i grillini a darci il senso della decadenza, ci volevano le sardine che stanno bene in scatola e non quando la rompono ogni dì. Portiamo pazienza, è la realtà. Se ci prendono a pesci in faccia, occorre rassegnazione. Rimane da domandarci che cosa vogliano da noi le alici. Essere mangiate? Provvederemo. Esse, se abbiamo compreso i loro intenti, ce l'hanno con Salvini e si mobilitano numerose nelle piazze per contrastarlo. Hanno un programma monotematico: uccidere il nemico lombardo il cui consenso è debordato dal Nord al Centro e perfino al Sud. La popolarità del Capitano, inattesa e straripante, irrita la sinistra che però è incapace di contenerla, il Pd con le proprie forze in estinzione non ce la fa ad arginare la Lega, cosicché, non sapendo che pesci pigliare ha organizzato a latere un allevamento di sarde che finiscono sott'odio anziché sott'olio. E si illudono di frenare l'avanzata di capitan Findus, che le congelerà e le offrirà in pasto agli elettori. Se i gilet gialli transalpini non hanno combinato un accidenti in Francia, figuriamoci cosa potranno fare in Italia alcune migliaia di pesciolini fuor d' acqua. I quali non hanno alcuna strategia se non quella di dire "no" a qualsiasi iniziativa Salviniana, ignari del fatto inequivocabile che il Capitano è ascoltato dal popolo per una semplice ragione: lui parla alla gente e ne interpreta le esigenze a differenza dei progressisti che pensano allo ius soli, si rivolgono ai fighetti dei quartieri alti e trascurano coloro che abitano nelle case popolari. Tali sardine sono insipide, assomigliano a quei ragazzi che assiepano le platee dei concerti pop, cui piace andare in delirio con l' ausilio di droghe e di accordi musicali spacca orecchie. Personaggi di questo genere, che non riescono a migliorare se stessi, è ovvio non possano che peggiorare una politica stracciona quanto l' attuale. Ridateci la Balena Bianca e lasciateci Salvini.

Anche nel dipinto di Goya c’era la…sardina, ma qualcuno se la mangiò. Dalmazio Frau su Il Gioirnale Off il 22/11/2019. Questo articolo di Dalmazio Frau è stato pubblicato su L’Opinione delle Libertà. Chissà, mi domando, se gli ideatori delle “sardine” abbiano mai visto o conoscano il dipinto di Francisco Goya dal titolo La sepoltura della sardina […]. Perché di certo, se lo avessero fatto, non avrebbero potuto non notare come in quell’opera venga rappresentata una processione carnascialesca lungo il Manzanarre, il fiume che scorre a Madrid, che termina con la sepoltura di una sardina che però nel dipinto non c’è. Resta tutt’intorno una folla in delirio che urla e si agita in maniera grottesca e allucinata. La sardina nella Spagna delle guerre napoleoniche allude dunque ad un popolo impazzito e privo di ragione durante il Carnevale, mentre da noi oggi le sardine, quelle che “non abboccano” […] sono diventate il simbolo della protesta anti Salvini in un nuovo carnevale fuori stagione […] Come nel dipinto di Goya, dove la sardina c’era ma qualcuno poi se la deve essere mangiata, i partecipanti ai “mob” avrebbero dovuto presentarsi in piazza con una sardina disegnata su un cartone. Se anni fa c’erano gli indiani metropolitani, i punk, la pantera, i girotondi o “girotonti” come qualcuno sarcasticamente li definì, i “se non ora quando”, il popolo viola e altri, oggi siamo scesi al livello di un branco di pesci. Segni dei tempi, direbbe René Guénon, ignaro del prossimo raduno del pesce azzurro forse in quel di Firenze, quando vederle a Venezia sarebbe stato senz’altro più indicato – anche se rischioso – perché lì le “sarde in sa’or” sono piatto prelibato e ufficiale della cucina della Serenissima. Personalmente gli auguro di non trasformarsi in partito, perché il Movimento 5 Stelle già a suo tempo ce l’aveva con le scatolette di tonno e le sardine costano meno. Pesci, insomma, e non d’aprile ma novembrini, più simili quindi a un baccalà ci invitano a ricordare i versi di Gianni Rodari che recitano: Indovina se ti riesce: / La balena non è un pesce, / Il pipistrello non è un uccello; / E certa gente, chissà perché, / Pare umana e non lo è.

Sardine, contro di loro scendono in campo i pinguini. L'ultima mossa sovranista: "Smaschereremo la sinistra". Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 24 Novembre 2019. Tremate, sardine. «Pochi giorni e siamo già a un passo dai centomila "pinguini" sui social. Presto, chiusa questa prima fase, ci saranno le piazze, e - vedrete - saranno "scomode" per la sinistra e le sue ipocrite controfigure...». Il counter su Facebook cresce di ora in ora: alla chiusura dell' edizione di Libero, a cinque giorni dalla nascita, i "pinguini" sfiorano già quota novantamila. Numeri che fanno gongolare Leonardo Cisaria, ideatore ed animatore del gruppo di internauti («una comunità civile di italiani di buonsenso», spiega a Libero) autoconvocati sotto questo nome e pronti a difendere, come si legge nella loro descrizione, le ragioni «dell' Italia sovranista, partecipe della Comunità europea ma non succube: esattamente il contrario di come opera l' attuale governo». Un gruppo nato d'istinto, con lo scopo di fare bocconi delle sardine, i contestatori "itticamente corretti" - coccolatissimi dal mainstream - che si sono dati come ragione sociale, da applicare nei confronti di Matteo Salvini e dei sovranisti in generale, il liberalissimo principio vergato con tanto di manifesto: «Non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare». Davanti a "contenuti" del genere Cisaria - 61 anni, barese, ex analista finanziario («dal 2001 non voto più, l' ultima volta Berlusconi ma ho la fiamma nel cuore») - non ci ha pensato un attimo e assieme ad alcuni amici ha messo su una pagina di contronarrazione "zoopolitica", come l' ha ribattezzata la Gazzetta del Mezzogiorno: «Assieme a mia moglie ci è venuta l' idea del pinguino: animale elegante e ghiotto di pesci piccoli come le sardine... All' inizio, lo ammetto, è stato un gioco. Poi è diventata una sfida social: ma adesso è già un progetto... un collante per tutto il popolo di centrodestra, dalla Lega a Fratelli d' Italia fino a Forza Italia, che non intende accettare questa ipocrisia di scena nelle contestazioni anti-Salvini». 

VIZIETTO ROSSO - Davanti a questa operazione di cosmesi, celata dietro il volto di un gruppetto di millenial, i "pinguini" denunciano in realtà il solito vizietto rosso con cui si tenta di imbavagliare l' avversario. «Sono caduti in fallo subito», spiega ancora. «Qualche intervista e abbiamo capito subito che vengono tutti dal Partito democratico, da Articolo 1: un' operazione di marketing, con la scelta del portavoce ricciolino, con la faccia da angioletto. La nostra iniziativa, tra gli obiettivi, ha proprio questo: smascherarli città per città». Come? «Con la velocità di una forza "liquida", ramificata spontaneamente da Nord a Sud». Una presenza opposta a Zingaretti, Di Maio e "sardine" - anche con appuntamenti convocati ad hoc - ma non "contraria". «Perché questa campagna d' odio delle sardine è grottesca: dato che è la prima volta che si contesta l' opposizione e non chi sta governando in maniera disastrosa».

SENZA NASCONDERSI - Cosa faranno invece i pinguini? Di certo, come si legge sulla pagina ufficiale Facebook, «non canteranno "Bella Ciao" ma nemmeno "Faccetta Nera"». L' idea, come spiega Antonella Lella - altro "pinguino" e unico promotore con una carica politica (è stata prima dei non eletti al Senato per la Lega in Puglia, membro dell' esecutivo pugliese) - non è per nulla speculare a quella delle sardine, non intende cioè farsi caricatura né nascondersi dietro ad una apoliticità di comodo: «Rappresentiamo apertamente tutti i partiti della coalizione, proprio perché nessuno di noi si vergogna dei rispettivi leader», afferma. «Detto ciò non intendiamo di certo contestare una persona o il diritto alla manifestazione di un leader e dei suoi elettori, per quanto avversari. La nostra presenza, nelle piazze virtuali e nelle prossime settimane anche in quelle fisiche, sarà di proposta: l' esatto opposto di ciò che porta in strada le sardine».

Insomma, arrivati a quota centomila («ma arriveremo presto a raddoppiare, date le richieste», confida ancora Cisaria) la prova della piazza non mancherà di certo. Si parla già di Bologna e non solo. «Saremo di supporto al centrodestra, critici anche dove i partiti non possono arrivare», chiosa l' ideatore, che assicura: «Aver svegliato l' appetito dei pinguini per la sinistra e il governo giallorosso tutto si rivelerà tranne che un buon affare...». Antonio Rapisarda

GIACOMO TALIGNANI per repubblica.it il 29 novembre 2019. Per la prima volta nell'onda verde nuoteranno anche i pesci azzurri. Oggi, durante il quarto sciopero globale per il clima, decine di cittadini che si rispecchiano nei valori del neonato movimento delle Sardine si uniranno infatti ai giovani di FridaysForFuture che sfileranno nelle piazze di più di 100 città italiane per chiedere risposte immediate alla crisi climatica.  Un'unione che in molti casi "esisteva anche prima - raccontano da FridaysForFuture Roma - perché molte delle persone che scioperavano per il clima si sono poi ritrovate in piazza a far sentire la loro voce strette fra le altre sardine". Il movimento delle 6000sardine nato da quattro giovani bolognesi poche settimane fa si è diffuso a macchia di leopardo come risposta a Matteo Salvini nel tentativo di "riappropriarsi della politica" dicono i fondatori, la stessa politica con la P maiuscola che invocano anche i giovani ispirati da Greta Thunberg, "perché servono immediate strategie per ridurre le emissioni ed arginare così gli effetti del surriscaldamento che ci sta rubando il futuro". Per entrambi la parola d'ordine è slegarsi, chi dalla politica dell'insulto, chi da un'economia dipendente dai combustibili fossili e dal consumismo "non sostenibile" come quello del Black Friday di scena oggi. Avendo valori condivisibili, i ragazzi di FridaysForFuture Roma hanno così deciso di scrivere una lettera di invito alle "amiche sardine", ribadendo che "gli obiettivi per cui lottiamo entrambi sono complementari e, anzi, spesso coincidono. Non c'è "noi" o "voi" che tengano. Il fatto che entrambe le mobilitazioni siano promosse da noi ragazze e ragazzi è ancora più importante, perché così vogliamo rivendicare il nostro protagonismo in questo momento di stallo dei grandi" scrivono. Ma dato che le sardine sono un "anticorpo" appena nato, per i giovani ambientalisti trovare una risposta univoca all'invito "non è stato semplice - spiegano da Roma -. Non ci sono ancora coordinatori o punti di riferimento e non abbiamo in programma incontri con loro: l'appello è semplicemente a unirsi a noi, a venire nella corrente per chiedere un cambiamento". A sancire l'unione potrebbe però pensarci il calendario. Oggi per esempio a Mantova si sono dati appuntamento sia le sardine sia i manifestanti del clima. Domani invece le sardine si stringeranno nelle piazze di Firenze, Napoli, Ferrara, Treviso e diverse altre realtà italiane ed è probabile che fra i tanti partecipanti attesi ci siano anche i ragazzi impegnati nella lotta al surriscaldamento globale. Nel gelido autunno colpito da eventi climatici sempre più devastanti per entrambi i gruppi lo scopo è dunque "riscaldarci con il calore delle nostre idee, del nostro entusiasmo". Ecco perché da FridaysForFuture invitano chiunque, nel corteo di stamattina, a portare la propria sardina da mescolare ai tanti cartelli che ricordano l'assenza di un Pianeta B. "Siamo certi che tanti di voi abbiano a cuore la situazione climatica - scrivono i ragazzi di Greta nell'appello - così come sappiamo che molti di noi stanno prendendo parte con entusiasmo alle vostre iniziative volte ad evidenziare l'emergenza democratica in corso nel paese. Questi scambi, queste commistioni, sono il segnale più evidente che l'emergenza climatica non potrà essere affrontata e risolta senza prima affrontare l'emergenza democratica. Vi aspettiamo, aspettateci in piazza".

Per zittire le sardine basta un treno regionale. Cristiano Puglisi il 26 novembre 2019 su Il Giornale. Viadotti crollati, frane. In Italia, in questi giorni, si susseguono momenti drammatici. Eppure l’attenzione mediatica sembra concentrata prevalentemente sulle “sardine”. Il movimento anti-salviniano, sedicente spontaneo, nato in Emilia Romagna (guarda caso) il cui leader è tal Mattia Santoni, che parrebbe essere collaboratore di una rivista legata a Romano Prodi, si pone l’obiettivo di arginare la crescita delle destre in vista del voto regionale di gennaio. Fanno tanto rumore, le sardine. Eppure per zittirle basterebbe poco, pochissimo. Per la precisione un treno regionale. Che c’entrano i treni, vi starete chiedendo. C’entrano per il fatto che la banale retorica anti-leghista di questi gruppi, come sempre preponderante sui media, sempre pronti a incensarli come palingenetico antidoto al ritorno di un fascismo immaginario, si infrange magicamente quando viene a contatto con la dura realtà. Che è, tra le altre situazioni, quella dell’insicurezza diffusa, reale e percepita, a partire proprio dall’Emilia Romagna. Insicurezza che il sottoscritto, di ritorno da un convegno, ha potuto sperimentare sulla propria pelle quando, pochi giorni fa, ha acquistato, per rientrare dalla ridente Forlì verso Milano, un biglietto ferroviario per Bologna, da dove sarebbe partito il treno Frecciarossa per il capoluogo lombardo. L’orario di partenza era fissato alle 21.27. Ebbene, quel viaggio di appena un’oretta (ma basterebbe un tragitto molto più breve, sul serio) sarebbe probabilmente capace di tramutare uno di quei paciosi esponenti delle stesse “sardine”, tutti brufoli, occhiali e capelli arruffati e fintamente ribelli, in un glaciale militante di Forza Nuova. Quell’esperienza tra “risorse” (e non) ubriache e volti poco rassicuranti e altrettanto poco autoctoni e donne e lavoratrici dall’espressione tirata e preoccupata aiuta subito a comprendere come un tragitto di quel tipo sarebbe precluso a una ragazza sola, magari una studentessa universitaria di ritorno da un banale aperitivo con gli amici. Peccato che, a garantire quei convogli, siano proprio le tasse pagate dai genitori di quelle ragazze o da quegli operai che, finita una dura e lunga giornata di lavoro su turni, si servono di quegli stessi treni per tornare dalle proprie famiglie. La foga dell’accoglienza senza prospettive genera disperazione, insicurezza, violenza. Quella violenza di cui, senza andare troppo per il sottile, gli italiani, soprattutto quelli già alle prese con altre preoccupazioni come l’arrivare a fine mese (sì, sono proprio quelli che prendono i treni regionali…), di certo non hanno bisogno. Ecco perché, nonostante le sardine, continueranno a votare Salvini. E la Meloni. Ed ecco perché, quei bravi ragazzi che organizzano cortei di protesta, ma che poi la sera tornano a casa con l’auto comprata dal papi, continueranno a non capire…

"Rep" lancia la rubrica sull'odio. Eccovi un'idea: le minacce a Salvini. I racconti quotidiani raccolti nella rubrica "Piovono pietre" contro il "virus" alimentato "dagli eccessi del populismo sovranista". Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 25/11/2019, su Il Giornale. A leggere Repubblica oggi c’è da provare quasi paura. Stamattina ho scoperto di abitare in un Paese malato d’odio, dove la società è "avvelenata dalla rabbia e dall’intolleranza", sull’orlo del buio pesto, vittima di "pulsioni, sentimenti, slogan" che provano a "spingere indietro le lancette della storia". Un’Italia invasa dal "mondo nero del razzismo" (e te pareva), dell’antisemitismo, dei "rigurgiti fascisti e nazisti" (e te pareva di nuovo). A quanto pare, se giri per strada a Milano o Canicattì è tutto un esplodere di "violenza verbale e fisica", se ti connetti online trovi "manganellatori della rete" e "fomentatori di rancore". L’Apocalisse, praticamente. In realtà è solo l’ultima iniziativa del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Si intitolerà "Piovono pietre" (per fortuna non sardine) e si occuperà ogni giorno di denunciare un episodio d’italico odio. Un "bollettino" quotidiano, di cui sinceramente non se ne sentiva la mancanza. Ma tant’è. Ognuno è libero di scriverlo e di leggerlo. L’obiettivo dichiarato è quello di avvicinarsi "il più possibile alla radice della lunga stagione del cattivismo" che, guarda caso, è "alimentato" in particolare dal "populismo sovranista" (che novità), dalla "cultura muscolare della chiusura" (ma dai), dalle "presunte diversità vissute come minaccia" e (ovviamente) dai "muri". Un "virus sociale" (addirittura) cui Rep non trova altro antidoto che quello di raccontare ogni giorno un brutto episodio. Se non si tratta di una Commissione Segre sull’hate speech in salsa giornalistica, poco ci manca. L’idea, per carità, è legittima. Nessuno intende far la parte dei "silenziatori seriali" o dei "minimizzatori di professione". lo sguardo, però, non va girato solo da una parte. Perché la barbarie non è un'esclusiva populista, razzista, xenofoba e via dicendo. Ma s'alimenta pure sull'altra sponda politica. Un’intera estate ci siamo sorbiti l’allarme sul ritorno del fascismo, eppure la democrazia è ancora qui. Più o meno sana. Per capire che le nuove camicie nere non l'avrebbero abbattuta sarebbe bastato leggere la relazione annuale dei servizi segreti, secondo cui la minaccia più insidiosa sul fronte dell’estremismo interno è quella anarco-insurrezionalista. Non i nipoti del Duce. Ci par di capire che anche i lettori di Rep potranno segnalare un fatto da inserire nella neonata rubrica. Ne approfittiamo, dunque, per regalare (è gratis) qualche idea non richiesta per le prime puntate. Se è di odio che dobbiamo parlare, allora iniziamo da qui: dalle minacce di morte subite da Matteo Salvini, dagli insulti sessisti di cui è vittima Giorgia Meloni o da quel "pezzi di m..." urlato da Vauro in diretta tv contro due esponenti di FdI. Oppure dai pezzi di Rep contro la leader della destra. Perché gli insulti son sempre insulti. Di qualsiasi colore essi siano. Nero o giallo. Populista o progressista. Perché non partire dell’assurdo proclama letto da un gruppo di manifestanti a Trieste di fronte al carcere dove è rinchiuso il killer dei due poliziotti uccisi in questura? Dare del "mercenario" a un agente non è un discorso d’odio? Si potrebbe raccontare la vicenda di Valeria, militante bolognese di Fratelli d’Italia. Nei giorni scorsi la "vecchia fascista di merda" ha trovato un biglietto di minacce sul cruscotto dell’auto. Non ha paura, ma sa che il clima in Emilia è pesante per chi non la pensa in un certo modo. Ecco, allora. Si potrebbe iniziare da qui. Dall’odio sì. Ma quello rosso.

Ironie social per la “lista nera” di Repubblica. Ma Berizzi fa la vittima: “Odio contro di me”. Viola Longo martedì 26 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Solo due risultati ci si poteva aspettare da una rubrica che ha la pretesa di smascherare, stigmatizzare e infine contrastare l’odio: l’amplificazione dell’odio e la trasformazione in martire del suo estensore. Paolo Berizzi e Repubblica li hanno centrati entrambi in due soli giorni: quello dell’annuncio e quello della prima uscita.

La “saga dell’odio” su Twitter. Appena pubblicata la notizia che sarebbe diventato titolare di “una rubrica contro l’odio”, ha scatenato su Twitter una ridda di oltre 300 commenti. “Ogni giorno racconterò un episodio di razzismo, fascismo, nazismo, antisemitismo, bullismo politico, sessismo. L’informazione come antidoto all’odio. Aspetto le vostre segnalazioni!”, ha cinguettato Berizzi, scatenando una ridda di oltre 300 commenti. A scorrerli rapidamente, per la verità, si trovano soprattutto ironie e segnalazioni di episodi d’odio profusi dalla sinistra contro esponenti di destra. Con le annesse richieste di chiarimenti se anche questi troveranno spazio nella rubrica. Lui però oggi, nella prima puntata di “Pietre”, la sua personalissima saga dell’odio, spiega che “senza nemmeno aspettare la prima uscita di questa rubrica, la macchina dell’odio ha iniziato ad attaccare“. E cita cinque delle “centinaia di messaggi social diretti a Repubblica e a me personalmente” nei quali gli viene detto che è “uno schifo”, che “speriamo che i sassi ti arrivino in testa” (anche nella versione “inizia a mettere il casco”), “siete carta straccia” e “merde come i vostri amici musulmani”.

Berizzi, Repubblica e la “Professione odio”. Ora, c’è da dire che Berizzi non sempre ha brillato nella sua carriera per la correttezza con cui ha riportato certe notizie, ma stavolta vogliamo credergli senza verificare. Intanto perché tutti sanno che i social spesso si trasformano in una fogna senza fondo e poi perché lo sforzo di mettersi a leggere tutti e 300 i commenti non vale la candela. Dunque, riconosciamo sulla fiducia a Berizzi e a Repubblica che è bastato l’annuncio per centrare il primo risultato, amplificare l’odio. E che gli è bastata una sola uscita per consolidare quel primo risultato e per ottenere un riscontro anche sul secondo. Detto ciò, ora che i “patetico” e i “bravo” sono stati parimenti conquistati, resterebbe sul tavolo la domanda sull’utilità residua di questa rubrica. Ma sul tavolo c’è anche Repubblica aperta sulla pagina di “Pietre”. E la risposta sta tutta là, nel titolo di oggi: “Professione odio”. Che anche Berizzi, in qualche modo, dovrà pur sbarcare il lunario.

"Meloni bestia, sgorbia, feccia". Ecco l’odio shock delle sardine. Insulti alla leader di FdI nel gruppo L'Arcipelago delle sardine. Le scuse dell'amministratore, esponente di Italia in Comune. Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 28/11/2019 su Il Giornale.  Doveva essere un "popolo di persone normali" che non odiano, che amano "la bellezza, la non violenza verbale e fisica". Eppure anche nel banco di sardine più chic che ci sia, le mele marce non mancano. Anzi. Mentre nel manifesto si attaccano i populisti che rovesciano "bugie e odio" sugli italiani, i seguaci di Santori&co. riempiono di insulti chi non la pensa come loro. Per la precisione, Giorgia Meloni. Finita in un vortice di offese non proprio da pesciolini educati. Succede che un paio di giorni fa nel gruppo Facebook l'Arcipelago delle Sardine un utente pubblica un commento sulla proposta della leader di Fratelli d’Italia di destinare il 5x1000 al fondo per i rimpatri degli immigrati irregolari. L’emendamento alla manovra non piace (c’era da aspettarselo) alle sarde nostrane, che si scatenano in una discussione non certo edificante. Nel post si parla di "proposta oscena" che porterà il Belpaese alla "barbarizzazione". Fin qui, nulla di male. La critica politica è legittima. Anzi: sana espressione di democrazia. Discorso diverso per i commenti che ne scaturiscono. Le sardine si lasciano andare ad un profluvio di insulti che neppure nei peggiori bar de Caracas. "Una demente", scrive qualcuno. "Una pazza da manicomio", fa eco un un altro utente. E poi giù con "bestia", "Gollum", "mer…", "sgorbia", "spregievole", "feccia" e via dicendo. Non manca neppure la richiesta di processarla come i nazisti a Norimberga. Che educazione. Va chiarito che la pagina in questione non è quella ufficiale delle 6mila sardine. Si tratta di un gruppo parallelo da 160mila membri col cuore in Puglia. Tra gli amministratori appare Davide Carlucci, sindaco di Acquaviva delle Fonti ed esponente di Italia in Comune. Al movimento dell’ex grillino Pizzarotti appartengono anche altri due amministratori dell’Arcipelago delle Sardine: Grazia Desario e Michele Abbaticchio, sindaco di Bitonto, vice-coordinatore nazionale del partito con cui si è candidato alle europee. È stato lo stesso Carlucci, dopo le polemiche sugli insulti alla Meloni, a chiedere scusa con un breve post e promettendo di cancellare le offese. L’Arcipelago delle Sardine si proponeva di cambiare l’Italia per lasciarsi alle spalle "la stagione del fasciopopulismo sovranista". Qualcosa però dev'essere andato storto. In realtà non siamo stupiti. Intendiamoci. Giorgia Meloni non è nuova ad attacchi del genere e non ne è esente neppure Salvini. L’accaduto dimostra, se ve ne fosse bisogno, che focalizzare l’attenzione solo "sull’odio populista" è miope. Oltre che sbagliato. A Repubblica, allora, aggiungiamo allora quest’altro suggerimento: nella rubrica contro la violenza verbale (ovviamente xenofoba e sovranista), si parli pure di questo. Che è odio sardinesco.

Insulti e offese per Salvini: ora la toga condanna Toscani. Il fotografo dovrà risarcire Salvini per l'invettiva in radio in cui dava sfogo al suo livore. Angelo Scarano, Mercoledì 27/11/2019 su Il Giornale. Adesso Oliviero Toscani dovrà risarcire Matteo Salvini. Il fotografo pagherà a caro prezzo un suo "delirio" ai microfoni di Radio 24 a La Zanzara. Toscani nel dicembre del 2014 intervenendo alla trasmissione condotta da David Parenzo e da Cruciani non aveva usato giri di parole per attaccare il leader del Carroccio: "Ma poverino - disse, commentando alcuni scatti su Salvini pubblicati dal settimanale Oggi - non ha proprio niente da fare. In quelle foto sembra un maialino sotto il piumino. Uno che dice di uscire dall’Europa e poi si fa fotografare così". Ma non era finita qui. Sempre nel corso della stessa trasmissione, Toscani aveva rincarato la dose con parole pesantissime: "Salvini fa i p..., va benissimo per quello. A chi li fa? Salvini fa i pompini ai cretini, fa anche rima. Prende per il c... chi vota". Adesso per quel durissimo attacco è arrivata una condanna in Appello con 8mila euro di multa. Somma che lo stesso Toscani dovrà versare a Salvini. Per lo stesso caso Toscani era stato già condannato in primo grado nel luglio del 2017. Adesso è arrivata la conferma in Appello. Ma nel corso di questi ultimi anni i battibecchi tra Toscani e Salvini sono stati frequenti e con toni duri. Il fotografo ha più volte attaccato l'ex ministro degli Interni. Solo qualche tempo fa ai microfoni di Radio Capital non aveva usato parole morbide per Salvini: "Io non sono nemico di Salvini - dice Toscani - è lui che è nemico dell'Italia! Gli italiani che votano sono il 40%, di quel 40% lui prende una percentuale inferiore a quella del PD. Smettiamola di fare i frignoni, noi non salvinisti". Qualche settimana fa invece era stata archiviata dal giudice l'ultima sua invettiva contro il segretario del Carroccio: "È un fascista? No, di più. Peggio, dopo aver visto ciò che si è visto. Chi è che parla di castrazione? E lui dice no, non possono sbarcare...non sono clandestini sui barconi c'è della gente. Salvini è un incivile". Anche in questo caso è scattata la querela da parte di Salvini. E proprio il fotografo, qualche giorno dopo, all'Adnkronos aveva rivendicato quella denuncia: "Sono andato persino al palazzo di giustizia per i commenti che faccio. La penso così e pago per questo, i soldi servono per dire quello che uno pensa, questo è il mio commento". Infine aveva concluso così: "È il mio pensiero, il pm mi ha detto 'va bene' - conclude Toscani - quello che ho detto è quello che penso". Ora però quello che "pensa" gli costerà almeno 8000 euro.

Alisa Toaff per adnkronos.com il 28 novembre 2019. "I soldi servono per dire quello che uno dice, in questo caso sono soldi ben spesi. Salvini vale come una Panda usata e se insultarlo mi costa 8mila euro ne vale la pena''. Così ironico il fotografo Oliviero Toscani all'Adnkronos commentando la sentenza della Corte d'Appello di Milano che ha confermato la condanna a 8mila euro di multa nei confronti del fotografo per avere diffamato Matteo Salvini. "Lui voleva 800mila ma ne becca solo 8mila - racconta il fotografo - ringrazio la sentenza perché sono uno che passerà alla storia per aver speso soldi per dire la verità su questo personaggio. Io farò comunque ricorso in Cassazione'', conclude Toscani.

Cosa manca alle sardine per durare nel tempo? Francesco Oggiano il 30/11/2019 su Notizie.it. Le Sardine sono il primo movimento a manifestare contro l’opposizione e mancano di qualcosa: un obiettivo, un programma o, almeno, una richiesta. Un antico proverbio greco dice che “se non c’è carne, bisogna accontentarsi delle sardine”. Nella dispensa della sinistra, priva persino di un piatto di seconda scelta, le sardine rappresentano la portata principale. Destinata forse a scadere presto. La loro «identità» fondante – e loro sperano sfondante – è l’opposizione a Matteo Salvini, al suo linguaggio e al suo programma considerato populista. Con quella, i suoi quattro promotori hanno riunito 15 mila persone in piazza a Bologna e centinaia di migliaia in tutta Italia nei giorni successivi. Hanno creato decine di gruppi su Facebook e una pagina hub che raccoglie oltre 200 mila persone. Hanno raccolto l’ironia di Salvini (che ha risposto postando foto di gattini) e le lodi di quasi tutta la stampa e le televisioni tv italiane (presagio oscuro per quasi ogni passato movimento di società civile). La festa è finita. Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti”. Scrivono di “bugie e odio” rovesciate dai populisti sugli italiani, di un risveglio avvenuto in piazza (“È stata energia pura”), di loro che sono “tanti e più forti” dei populisti; proseguono tracciando l’identità un po’ fiabesca della meglio gioventù (“Cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero”), augurandosi “la politica e i politici con la P maiuscola”, e promettendo nuove manifestazioni. E si congedano con con una dichiarazione di sfida: “Noi siamo sardine libere, e adesso ci troverete ovunque”. 3 mila caratteri che fanno più monologo del Gladiatore, che manifesto concreto di intenti.

Cosa manca alle sardine? Perché è questo il punto: le sardine – movimento a cui qualunque persona dotata di minimo amore per la democrazia non può che augurare un futuro radioso, anche solo per il loro carattere non-violento e antifascista – mancano di qualcosa: un obiettivo, un programma, una misura o una richiesta. I paragoni con i passati movimenti civili fatti finora non sono dei più lusinghieri e forse corretti. Per limitarci a quelli del nuovo millennio, le sardine sono state paragonate ai No Global del 2001, che almeno avevo come denominatore comune la critica al neoliberismo. Sono state affiancate ai girotondi morettiani del 2002, che pure erano nati con una rivendicazione ben più chiara e concreta: sostenere i giudici attaccati dall’allora premier Silvio Berlusconi. Sono state equiparate al V-Day del 2007, che però nasceva sulla base di un obiettivo concretissimo (la raccolta firme per l’iniziativa di legge Parlamento Pulito); al Popolo Viola del 2009, che però chiedeva le dimissioni dell’allora premier dopo la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale; al Movimento arancione del 2011, che almeno portò all’elezione di diversi sindaci in alcune città italiane (tra cui Luigi De Magistris e Giuliano Pisapia). A nulla valgono nemmeno gli accostamenti con i vari movimenti delle piazze di Hong Kong, Santiago o Beirut, che oltre a chiedere azioni precise (dimissioni o ritiro di proposte di legge) si scagliano contro la classe dirigente che in quelle nazioni è al potere. Le Sardine, invece, sono il primo movimento a manifestare contro l’opposizione. Sono l’opposizione all’opposizione, gli unici movimentisti al mondo che scendono in piazza contro chi il potere non ce l’ha. Facendolo, ci mostrano inconsapevolmente due peculiarità italiane proprie di questi mesi: la percezione da parte degli italiani di chi è veramente protagonista del dibattito politico (a nessuno verrebbe in mente di manifestare contro l’inconsistente Nicola Zingaretti); e l’assoluta mancanza a sinistra di una formazione democratica, credibile e soprattutto sexy che sia capace come loro di mobilitare i cittadini italiani. Forse il loro più grande merito a oggi: averci mostrato l’assenza della «carne».

Sardine aggrediscono sindaco "Insulti, sputi e spintoni dagli anti Salvini". Entrambi si stavano recando a una cena elettorale organizzata dalla Lega con il leader Matteo Salvini, che ha denunciato quanto avvenuto. Accerchiati e spintonati. Valentina Dardari, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. Il sindaco di Massa, Francesco Persiani, e l’assessore massese Veronica Ravagli, con le rispettive famiglie, sono stati aggrediti e insultati ieri sera a Firenze, mentre si stavano recando a una cena elettorale organizzata dalla Lega, con il leader Matteo Salvini. Ravagli alle 21,30 ha messo un post sulla sua pagina Facebook dove ha spiegato e denunciato quanto avvenuto.

Cosa è successo. “Poco fa sono stata aggredita, fisicamente e verbalmente, da un folto gruppo di cosiddetti democratici. Stavo andando alla cena della Lega organizzata a Firenze. Qui a pochi metri dal luogo dell'evento, un gruppo di antagonisti ci ha dapprima offeso con insulti irripetibili e poi ci ha letteralmente messo le mani addosso” ha detto l’assessore. Per poi continuare spiegando cosa esattamente sia avvenuto “Sono stata spinta e gettata a terra, mio marito è stato preso a sputi in faccia, la stessa sorte è toccata al Sindaco Persiani e sua moglie Alessandra”. Ravagli ha anche detto che questa non è democrazia, ma Fascismo. Arrabbiata, scossa e spaventata per quanto aveva appena subito, la Ravagli ha definito i suoi aggressori “piccoli uomini che si permettono di alzare le mani su una donna e cercano di impedire con la violenza il libero pensiero, sono i veri fascisti, il vero pericolo per la democrazia”. Si è detta infine ancora più determinata a lottare per i suoi ideali.

Il video dell'aggressione a Firenze e la denuncia di Salvini. Matteo Salvini ha postato il video dell’aggressione su Twitter, registrato direttamente dall’assessore con il telefonino, in cui si vedono chiaramente alcuni sputare, aggredire e insultare: “Schifosi, fascisti di merda”. SaIvini ha così commentato: “Alla faccia della democrazia, ecco chi semina odio... A Firenze aggrediti il sindaco di Massa, Francesco Persiani, con figlia e moglie, e l’assessore Veronica Ravagli che è stata scaraventata a terra, tra sputi e insulti. A loro un abbraccio. Andremo avanti più forte di prima!”. Al termine della cena il leader ha anche sottolineato come le manifestazioni pacifiche siano di suo gradimento, ma non violente, come quella appena accaduta. Salvini ha inoltre sottolineato come non sia possibile avere uno spiegamento di forze dell'ordine per organizzare una cena.

Sardine a spese nostre. Gli striscioni anti-Salvini li regala Bonaccini: furbi no? Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 30 Novembre 2019. Guardi il municipio di Reggio Emilia sabato sera, vedi le luci accese, la gente dentro gli uffici, e pensi che ci sono amministratori pubblici che sgobbano davvero, alla faccia dell' antipolitica. Poi però osservi meglio e noti che sul balcone del Comune c' è un gruppetto di persone intente a filmare e fotografare quanto sta succedendo sotto di loro, in piazza Prampolini, dove le "sardine" stanno manifestando contro la Lega. A quel punto, d' improvviso, ti ricredi. Altro che stakanovisti: sono tutti in municipio per sostenere chi detesta Salvini! Tra i più entusiasti della protesta anti-leghista c' è l' assessore Lanfranco De Franco, esponente di Leu con deleghe alle Politiche Abitative, al Patrimonio, alla Protezione Civile e alla Conciliazione dei tempi di vita e lavoro, che lui pare concili a meraviglia. Il De Franco è scatenato, immortala tutto con lo smartphone, ha l' entusiasmo di un ragazzino al concerto di Benji&Fede, pubblica gli scatti su Facebook e a corredo scrive: «Reggio Emilia, sardine modello "testa quadra"». Già, quadra. L' assessore, per altro, aveva già sostenuto pubblicamente - altre foto sui social - le "sardinate" di Bologna e Modena. In fondo però non c' è da stupirsi visto che il Comune di Reggio Emilia, guidato dal sindaco del Pd Luca Vecchi, è apertamente schierato a favore di chi osteggia la Lega. Basti sapere che l' amministrazione è capofila del "progetto creativo" "Sd Factory", gestito dalla Cooperativa Centro Sociale Papa Giovanni XXIII, e che i rappresentanti di questo progetto creativo avevano coordinato la preparazione di striscioni e cartelli contro l' ex ministro dell' Interno. «Potete portare pennelli, tempere, colori, fogli o cartelloni» era stato parte dell' invito rivolto a tutti e pubblicato in rete. Il Comune è capofila del progetto, dicevamo, e la Regione guidata dal Dem Bonaccini lo finanzia. È tutto scritto nero su bianco. E pensare che i soldi sono stati assegnati in quanto «spazio di formazione ed educazione» inerente all' arte, alla musica, alla fotografia, al videomaking, al teatro e alla danza. «Il progetto è rivolto ai giovani, alle associazioni, alle scuole, alla città», si legge sui documenti ufficiali. Le "sardine" sono schierate a sinistra e la sinistra è schierata con le "sardine", lo abbiamo sostenuto fin da subito. Giorno dopo giorno il legame viene sempre più a galla. Detto del nuovo "guru" pacifista-democratico Mattia Santori, il caposardine bolognese che il 7 dicembre parteciperà all' adunata organizzata da Bonaccini, anche l' ex capo della comunicazione del Pd, il deputato Alessia Rotta, ha di recente pubblicato una "sardinata" sui suoi profili social che trasudano di post avversi a Salvini. Lunedì scorso la Dem ha mostrato la foto della nutrita schiera dei manifestanti di Parma e ha così commentato: «A Parma ci sono quattro gatti #sardine». Insomma: ormai gli esponenti del Pd hanno gettato la maschera. Che poi i commenti al post di molti utenti siano da censurare per quanto non abbiano apprezzato - diciamo così - lo slancio d' entusiasmo pro "sardine" della Rotta, è un' altra storia. Quelli del Pd, in fondo, ormai ci sono abituati. Tanto vale per loro uscire allo scoperto e sperare che la corrente in cui nuotano i pesciolini democratici tiri dalla parte di Bonaccini, altrimenti, da Roma, si torna tutti a casa prima di carnevale. Alessandro Gonzato

Per la sinistra italiana conta solo eliminare il nemico. Marco Gervasoni su NicolaPorro.it il 26 novembre 2019. Non appena la destra, cioè i conservatori e i moderati, trovano uno o più capi, la sinistra vi si scaglia contro e per lei più nulla conta se non eliminare politicamente (ma, se occorre, anche fisicamente) il nemico politico. Questa regola, rispettata negli ultimi anni con il Cavaliere e oggi con Matteo Salvini e con Giorgia Meloni, vale anche per oltre Oceano, dove, prima con Bush jr. e oggi soprattutto con Trump, l’ossessione prima è quella di liberarsi del cattivo. Con tutti i mezzi, a cominciare da quello giudiziario. Non tutta la sinistra però. Sentite qui: «Il partito democratico, in piena collusione con l’apparato dei servizi segreti, riuscirà questa volta a deporre il Presidente Trump in quello che potrebbe essere chiamato un colpo di stato senza spargimento di sangue?». Sono parole di Patrick Lawrence, non un die hard trumpian ma un un editorialista del settimanale di sinistra The Nation. Sullo stesso tono, il mensile più intelligente dell’estrema sinistra americana, The Jacobin, che non bisogna mai dimenticare di leggere – da non confondere però con la sua scialba versione italiana. Per i radical e neo marxisti americani, che si ritrovano in Sanders, eliminare per via giudiziaria Trump sarebbe peggio che un crimine, sarebbe un errore. I democratici tornerebbero eventualmente al potere, vincendo le elezioni, illudendosi che Trump sia stata una parentesi, e che si potrà continuare nella vecchia linea clinton-obamiana, E avere, per Nation e per Jacobin, un presidente dem che persegua le stesse politiche di Trump, cioè di destra dal loro punto di vista, solo con più eleganza e in modo politicamente corretto, sarebbe molto peggio che avere di nuovo Trump. In ogni caso, aggiunge il direttore del Left Business Observer, Doug Henwood, citato in un pezzo di Ted Rall («Wall Street Journal» 24 novembre) «Trump deve essere battuto nelle elezioni». Ah, se avessimo anche da noi una sinistra così. Che sarebbe sempre comunque nostra avversaria, ma un avversario serio, leale, meritevole di rispetto. La nostra invece, tra le due vie, sconfiggere l‘avversario democraticamente e farlo fuori con colpi di mano (della magistratura, dell’Unione europea, ecc), ha sempre scelto la seconda, essendo del resto incapace di perseguire la prima. Ancora oggi, con il cosiddetto movimento delle cosiddette sardine, siamo entro questo orizzonte: demonizzazione moralistica dell’avversario, assenza di programmi e visioni, sola esigenza far fronte contro di lui, sempre additato come «pericolo per la democrazia». Ed è la stessa ragione per la quale si è formato il governo Giuseppi, che appunto io chiamo scherzosamente Cagoia: la paura e l’ossessione per Salvini. Quando cadde il governo Conte I, su queste colonne mi chiesi che fine avrebbero fatto i Saviano, le Murgia, i Carofiglio e tutta l’allegra (si fa per dire) brigata dell’antisalvinismo. Pensavo che si sarebbero dedicati a scrivere opere più interessanti o che avrebbero iniziato a sparare nel loro stesso campo. Mi sono completamente sbagliato nella prima previsione e solo in parte nella seconda. Li ho invece sottovalutati nella loro capacità di raccontarsi favole: si comportano esattamente come se Salvini fosse ancora al governo, anzi come se ne fosse il capo. Nel suo ultimo numero il loro organo di stampa, L’Espresso riporta in copertina un Salvini chiuso nel palazzo, asserragliato dai movimenti delle sardine. E uno di loro, Gianni Riotta, sulla Stampa del 25 novembre, osa paragonare le sardine ai ragazzi di Hong Kong, Beirut e Santiago del Cile, dimenticando un piccolo particolare: quelli sono effettivamente contro il regime, e rischiano la vita, mentre le sardine si battono per il governo contro l’opposizione, per lo più per ora dagli schermi tv. Morale della favola: la sinistra americana un giorno forse troverà un proprio capo, quella italiana sarà sempre destinata ai traffici, agli intrugli, ai complotti e ai Prodi; almeno per quel breve tempo che le resterà da vivere. Marco Gervasoni, 25 novembre 2019.

La sinistra vuole zittirci tutti. Andrea Indini il 16 novembre 2019. Li chiamano presidi antifascisti, sit in democratici, cortei di protesta, ma sono solo espressioni plateali di un’intolleranza inaudita. Il mare di “sardine”, che giovedì sera ha circondato il PalaDozza dove Matteo Salvini ha lanciato la candidatura di Lucia Borgonzoni alle elezioni regionali in Emilia Romagna, ha inaugurato la nuova stagione di rivolta contro il dilagare del centrodestra. Il flash mob, organizzato in piazza Maggiore da Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa, è stato una pugno alla democrazia. Scendere in piazza per zittire il nemico non può essere preso a esempio (come stanno, invece, facendo in queste i vertici del Partito democratico) ma dovrebbe essere condannato da tutti. Seimila persone “non violente” si sono radunate per “oscurare” l’apertura della campagna elettorale della Lega. Altre duemila, nel frattempo, hanno dato battaglia occupando le vie limitrofe e fronteggiando le forze dell’ordine che si sono viste costrette a intervenire con gli idranti. I più violenti facevano parte della rete antagonista bolognese e dei centri sociali che pullulano una regione storicamente rossa. Sono il braccio armato della sinistra radical chic che l’indomani ha lodato sui giornali le imprese delle “sardine”. Eppure queste ultime non sono poi tanto diverse dai no global dal volto coperto che sbraitava contro gli agenti. Certo, non muovono le mani. Certo, si trincerano dietro un finto pacifismo. Certo, si nascondono nell’alone della democrazia per poi usare gli stessi slogan. Ma, al grido “Bologna antifascista” e “Bologna non si Lega”, si oppongono ugualmente alla campagna elettorale della Borgonzoni. Non si tratta di un impegno a favore di un candidato, ma di una azione di contrasto fisica. L’hanno ammantata di surrealismo, inventandosi la “prima rivoluzione ittica della storia”, e hanno raccolto tutta la gente comune che odia Salvini. Cosa c’è di democratico in tutto questo? Nulla. Per gente come Maurizio Martina, l’esempio delle “sardine” va replicato in tutta Italia. Lunedì prossimo, intanto, si ritroveranno a Modena per un’altra protesta. “Vogliamo fermare l’onda leghista”, ha spiegato all’AdnKronos Santori. Tutto questo è possibile solo se la piazza si tinge di colore rosso. Proviamo a fare un esercizio di fantasia: un sit in leghista o di tutto il centrodestra unito che si ritrova per zittire la candidatura di un politico del Pd. Cosa pensate che succederebbe? I giornali parlerebbero di attentato alla democrazia. In parlamento pioverebbero interrogazioni urgenti al ministero dell’Interno. E la società civile (scrittori, attori, pensatori e così via) inscenerebbe caroselli di protesta. Negli ultimi mesi questi episodi di intolleranza nei confronti di esponenti del centrodestra o di pensatori di area si stanno facendo sempre più assidui. Recentemente, per esempio, c’è stato un caso che ha interessato da vicino la redazione del Giornale. Per ben due volte i collettivi hanno attaccato l’Università di Trento per non far parlare Fausto Biloslavo in una conferenza sulla Libia. Al primo round sono riusciti addirittura a far saltare l’incontro. Quando il rettore ha replicato l’invito, hanno assalito con schiamazzi e lancio di oggetti l’aula in cui stava parlando il nostro giornalista. Anche in quel caso si era parlato di “presidio antifascista” e in pochi hanno avvertito la gravità di quanto accaduto. D’altra parte, da quando Salvini ha iniziato ad avere chance per guidare un governo di centrodestra, questo clima di intolleranza si è fatto sempre più palpabile. Nei giorni scorsi un leghista è stato minacciato e cacciato da un’aula della Sapienza. Non passa giorno che antagonisti, radical chic o uomini di chiesa non insultino l’ex ministro dell’Interno con toni che ballano sempre sulla querela. Episodi che non destano mai la benché minima indignazione di chi da settimane si batte per aprire una commissione contro il dilagare dell’odio nel Paese. E, quando in tv Giorgia Meloni fa notare che è la sinistra ad avere qualche scheletro nell’armadio in questo senso, Lilli Gruber la minaccia di “farle togliere l’audio” per zittirla. Perché la censura piace quando se viene da sinistra. E presto potrebbe colpire tutti noi.

Giorgia Meloni si canta il rap ballando con Myrta Merlino di Franco Bechis su  Il Tempo il 26 novembre 2019. La conduttrice di La7 sostiene che "Io sono Giorgia" spiega il boom di Fdi nei sondaggi. Così nella sua puntata di martedì 26 novembre 2019 Myrta Merlino ha invitato in studio Giorgia Meloni inscenando un duetto rap con lei. Sì, questa volta è stata proprio Giorgia, la leader di Fratelli di Italia, a cantare "Io sono Giorgia", il motivetto nato da un suo comizio che impazza sui social soprattutto fra i giovanissimi. La piccola gag è riuscita, anche se la Meloni che sarebbe poi la reale autrice del testo, non ricordava più le parole originarie, e un po' si è impappinata fra le risate. Così alla fine ha ripetuto "Vi odio" agli autori della trasmissione, che poi è filata liscia su un piano più serio. E ancora una volta la Meloni ha dato una stoccata al popolo delle sardine, mettendole un po' in scatola: "Sulle sardine", ha spiegato Giorgia alla Merlino, "ci dicono quanto sono bravi, pacifici. Io ho letto il manifesto delle sardine, e non c’è nulla di pacifico. Dicono: 'non avete diritto ad avere qualcuno che vi stia ad ascoltare, dovete avere paura'. Paura di chi? Io devo avere paura? Di cosa? Io non ho diritto di avere qualcuno che mi stia ad ascoltare? Il punto è se sono convincente. Se non sei convincente non puoi far star zitto qualcun altro, devi essere convincente tu”.

Quella sinistra smemorata che non riconosce di avere inventato il populismo. Andrea Cangini, Lunedì 09/12/2019, su Il Giornale. In principio furono Gianfranco Funari, Michele Santoro e Gad Lerner. Fu quello il micidiale tridente catodico che per primo portò «la piazza» negli studi televisivi e mise «il popolo» sotto i riflettori, collocandolo stabilmente al centro della scena. Il popolo sembrò gradire. Stette al gioco, alzò i toni del risentimento, sfruttò con naturale disinvoltura la possibilità di dire finalmente la propria e con vivo entusiasmo colse l'opportunità di esibirsi in Tv. I tre antesignani dell'Apocalisse populista si assicurarono così un gigantesco potere di condizionamento della società e un indiscutibile successo professionale. A pagare il conto è stata la Politica. Maltrattata, vilipesa, stretta con rabbia in una tenaglia mediatica tra crimine e privilegio. Una Politica incerta, disorientata, alle prese con il sottile sospetto di essere davvero la sentina di tutti i peggiori vizi e la morta gora di ogni virtù così come veniva e viene raccontata. Una politica nuda, spogliata di colpo del proprio prestigio, degradata a causa di tutti i mali italiani. Colpisce, dunque, anche se non sorprende, che lo scorso martedì una splendida Monica Guerritore, ospite dalla Gruber su La7, dei tre capipopolo abbia citato solo il primo: Gianfranco Funari. Su di lui, e solo su di lui, si è abbattuto il suo anatema. È lui il mostro da cui discendono il populismo odierno, la violenza verbale, la banalizzazione dei problemi, la ricerca sistematica di un nemico su cui scaricare le proprie responsabilità. E Michele Santoro? E Gad Lerner? Nulla, rimossi. Come se non fosse esistito, e con tutta evidenza tutt'ora esista, anche un populismo «di sinistra». Come se la demonizzazione dell'avversario (i capitalisti, le destre, certi conduttori televisivi) e la sua proscrizione morale non siano da sempre il metodo di lavoro della sinistra politica e giornalistica. Come se la delegittimazione della Politica e la volgarizzazione del dibattito pubblico non potessero che essere colpa della sola destra. Le responsabilità sono le stesse, diversa è solo la presunzione di superiorità morale: finché la sinistra non se ne libererà, continuerà ad essere colta di sorpresa dalle dinamiche sociali e politiche. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», disse Gesù in difesa di un'adultera che oggi mostra i tratti della Politica.

Dagospia il 9 dicembre 2019. Da “Circo Massimo - Radio Capital”. Un italiano su quattro è pronto a votare per le sardine. Secondo un sondaggio pubblicato da Repubblica, il consenso per il movimento partito da Bologna non fa che crescere. Ma Mattia Santori, l'uomo-immagine delle sardine, nega che ci siano ambizioni politiche: "Noi siamo partiti contro i sondaggi, la manifestazione di Bologna era un modo per dimostrare che i sondaggi erano campati per aria e pubblicati per distorcere la percezione delle persone. Su questo non cambiamo idea", spiega Santori a Circo Massimo, su Radio Capital, "Noi siamo contenti non quando ci danno il 25% ma quando le persone scendono in piazza. Se davvero un italiano su quattro è con noi, lo vedremo in piazza. Anche sabato, a Roma, a piazza San Giovanni". Nessun partito all'orizzonte, quindi: "Ogni giorno scopriamo che c'è un vuoto di rappresentanza più grande di quello che pensassimo, ma sarebbe anche incoerente, non essendo nati come movimento che si sostituisce alla politica, cambiare idea e capitalizzare il consenso che non abbiamo mai voluto avere. Non siamo nati con l'idea di non fare un partito". Ma è vero o no che dietro le sardine c'è Romano Prodi? "Fa parte della barzelletta di questo mese il fatto che la gente non percepisca che l'opposizione a qualcosa di brutto possa nascere dal basso e scatenare un'ondata così forte", ribatte Santori, che però ammette la stima per il professore: "Se sono un estimatore di Prodi? In passato sì, a Bologna è una persona politicamente molto apprezzata". Fra i tanti endorsement ricevuti, anche quello che non t'aspetti: da Francesca Pascale, la compagna di Silvio Berlusconi: "La accettiamo volentieri, ma fa un'apertura al netto del fatto che Forza Italia fa parte della stessa coalizione e sostiene gli stessi candidati della Lega, di cui è una stampella", chiarisce il 32enne bolognese, "Bisognerebbe prendere distanze non solo in piazza ma anche nei banchi del parlamento. Quando c'è stato il non applauso a Liliana Segre non mi sembra che i parlamentari di Forza Italia si siano alzati...".  Maurizio Belpietro su La Verità parla di "sardine sott'odio" e dei commenti forti comparsi nelle piazze o nei post su facebook: "Uno dei codici di condotta di quando ci contattato è il linguaggio, è il terreno su cui lavoriamo di più e su cui abbiamo colpito nel segno", risponde Sanro, "Noi non abbocchiamo se non cadiamo nei tranelli della comunicazione leghista e non solo e soprattutto quando non scadiamo nello stesso linguaggio. Nelle pagine facebook tutti stanno ben attenti a proteggere questo aspetto. Siamo molto fluidi, quindi è difficile andare a verificare tutte le piazze. È difficile anche per un partito". Ma come si organizzano le manifestazioni in tutta Italia? "Non sono il capo delle sardine. Nessuno è il capo. A Bologna c'è un coordinamento che ci hanno chiesto dai territori. Essendo un movimento spontaneo, c'è qualcuno in una città che organizza un evento scrivendo su facebook 6000 sardine. Questa persona ci contatta, o noi contattiamo lui, e iniziamo a parlare, ad avere una relazione umana, e quando verifichiamo che ha capito l'intento del messaggio gli diamo l'ok e lo ufficializziamo sulla pagina centrale", spiega Santori. "È la prima selezione all'ingresso. A Roma ci vedremo con i referenti delle città che non sono persone che hanno creato un gruppo su facebook, ma persone che si sono attivate per organizzare una piazza, che hanno chiesto i permessi in questura e hanno messo la faccia sui giornali. Queste persone si vedranno a Roma, sarà un momento conoscitivo, e in quel momento si farà un bilancio di quello che è stato, e da lì si tornerà a lavorare sui territori. Non è proprio un congresso". E come si evitano le "intrusioni" dei politici di professione? "Quando contattiamo i referenti c'è una specie di interrogatorio per capire che non vi siano politici. Se uno ha avuto un passato politico a noi non interessa. Chiediamo non di farsi da parte ma rimanere nel gruppo e fare in modo che il gruppo sia più variegato. Questo aiuta a far sì che quando qualcuno cerca di emergere o capitalizzare, ha una rete di anticorpi pronta a mandarci una segnalazione, a dirci che c'è pinco pallo che sta cercando di fare carriera politica. Non è sbagliato a prescindere, ma se uno vuole valutare l'opzione di fare politica si iscrive a un partito e fa politica in quel partito". Su diversi quotidiani, nota Massimo Giannini, Santori dà risposte evasive ad alcune domande, ad esempio a quelle sul referendum costituzionale o su Marco Biagi o sul 25 aprile nell'intervista al Fatto Quotidiano: "Non ho letto l'intervista, ma le mie risposte non erano proprio quelle. La mia troppa esposizione, su cui sicuramente ho sbagliato in primis, porta a farmi rispondere o no ad alcune domande scomode. Quando cerco di sviare alcune domande è perché so che vengono strumentalizzate", dice Santori, "Politicamente ho le idee chiare, ma voglio evitare che il mio giudizio venga etichettato con quello di tutto il fenomeno delle sardine".

Dagospia il 10 dicembre 2019. "Non so perché la Pascale ha fatto l'endorsement alle sardine, questo centro-destra è a caccia di tutto. Il Movimento delle sardine ha cambiato il clima in Emilia-Romagna, il PD non c'era e Bonaccini era solo come un cane. Sono un fenomeno inevitabile in una crisi di democrazia rappresentativa come quella che stiamo vivendo. Le sardine non devono strutturarsi, non possono. Sono rappresentazioni".

Da globalist.it il 10 dicembre 2019. - Prima con una previsione sulle elezioni in Emilia-Romagna: "Vincerà Bonaccini. Prima ero meno convinto, ora sono sicuro”. E poi sul movimento delle sardine: "Non so perché la Pascale ha fatto l'endorsement alle sardine, questo centro-destra è a caccia di tutto. Il Movimento delle sardine ha cambiato il clima in Emilia-Romagna, il Pd non c'era e Bonaccini era solo come un cane. Sono un fenomeno inevitabile in una crisi di democrazia rappresentativa come quella che stiamo vivendo. Le sardine non devono strutturarsi, non possono. Sono rappresentazioni". E infine: "La durata di questo governo indebolisce Matteo Salvini, che rappresenta la peggior destra europea”.

Vittorio Feltri per ''Libero Quotidiano'' il 10 dicembre 2019. Scrive la Repubblica: se Salvini cala è merito delle sardine. E aggiunge che Mattia Santori, il capo dei pesci in barile, non vuole trasformare il movimento piazzaiolo in un partito. Domanda: se il suo seguito popolare non diventa un soggetto politico, con tanto di programma e di obiettivi ben fissati a cosa cavolo serve? A ravvivare i luoghi pubblici delle città come Bologna e Roma? A informare il Paese che l' attuale andamento nazionale ha nauseato gli italiani? Poi? Che ce ne facciamo di tante alici disorganizzate e che si limitano a brontolare quali pensionati all' osteria? O diventano un gruppo politico con uno straccio di idea (quale?) da realizzare oppure sono inutili, quanto le previsioni del tempo che non ne azzeccano una su quel che succederà domani, però pretendono di sapere che il surriscaldamento del pianeta farà disastri fra cinquanta anni. Dato che le scatole delle sardine si sono aperte molta gente è elettrizzata e spera in qualche cambiamento. I Dem rappresentati dal giornale più progressista esistente sul mercato si attendono il miracolo che i pesciolini fritti siano in grado di ridimensionare la Lega. Aspetta e spera. A parte che Alberto da Giussano continua ad essere in testa ai sondaggi, se le sardine non si presentano alle elezioni con una propria lista, a chi possono rubare voti? A nessuno. Né alla destra né alla sinistra come è evidente. Perché i suffragi sono ballerini, passano da uno schieramento all' altro: se viceversa il movimento ittico non va di qua e neppure di là e rimane lì fermo a boccheggiare, non comprendiamo a chi potrebbe giovare la sua platonica attività. Oggi tale è lo stato dell' arte: le piazzate fanno scena, tuttavia dubito che incrementino il contenuto delle urne, non quelle del Pd e nemmeno quelle del Carroccio. Specialmente in questa fase: le consultazioni per il rinnovo del Parlamento sono troppo lontane per valutare chi avrà l' opportunità di vincerle.

Mario Ajello per ''Il Messaggero'' il 10 dicembre 2019. Mettiamola in rima: «Le piazze se troppo durano / si usurano». Quindi? Occhio a Piazza San Giovanni, sabato prossimo, che sarà la piazza delle piazze delle sardine. Ma potrà diventare - e gli organizzatori, o almeno i più avvertiti tra di loro, lo sanno bene - anche l'inizio della fine. Sia per il rischio di non riuscire a riempire un luogo così ampio, difficile e storicamente ingombrante, sia per il pericolo di diventare la replica di un qualsiasi concertone del primo maggio del tipo: «Io voglio bene a voi, voi volete bene a me, evviva il volersi beneeeeee...» (questo lo spartito in quelle grandi adunate sindacal-festivaliere). L'estrema insidiosità della location è confermata dall'esito che ebbero i girotondi, spesso considerati e non a torto parenti più anziani delle attuali Sardine. Decisero il colpaccio del 14 settembre 2002 e dal palco di Piazza San Giovanni, davanti a una folla straripante di persone, Nanni Moretti gridò «non perdiamoci di vista» ma da quel momento, dopo l'acme di quell'appuntamento, il girotondismo declinò e chi s'è visto s'è visto. Ora è così alta l'asticella che le Sardine hanno deciso di darsi che il loro leader, Mattia Santori, annuncia: «In quella piazza vedremo se un italiano su quattro sta con noi». Come dice un sondaggio, esagerato davvero e che spinge i pesciolini a montarsi la testa.

IL TREND. Ma adesso il trend è questo: nessuno non può dirsi non sardina (perfino B&B gratis per chi arriva nella Capitale a manifestare sabato), il mainstream ha adottato il movimento, la tivvù lo sta fomentando e normalizzando, e somiglia a un bacio della morte - è mai possibile un'onda di protesta coccolata e protetta dal governo? - la benedizione proveniente dal premier Conte: «Vedo tanta voglia di partecipazione, tanti giovani. E' una cosa bellissima!». Palazzo Chigi darà il suo patrocinio dopo che lo ha dato anche Francesca Pascale? Sì, perché oltre ad essere in piazza sabato o più probabilmente a parteggiare da fuori, la fidanzata di Berlusconi pubblica sui social un quadro della serie di Magritte sull'«uomo con il cappello» ma lo modifica per l'occasione e tra il cappello l'uomo spunta proprio una sardina.

SLOGAN. Lo slogan per il 14 è questo: «Pensa controcorrente, scendi in piazza». Intanto la sardina leader, Mattia, assicura che «non faremo un partito» ma aggiunge: «Dopo Roma, ci sarà una svolta ma dobbiamo ancora vedere che svolta». Dopo l'evento di San Giovanni, l'indomani mattina, i coordinatori delle Sardine nelle varie regioni e città si vedranno proprio per stilare una road map di massima. Che sarà più o meno questa: piazze sempre più piazze in Emilia Romagna per tirare la volata a Bonaccini - e sia lì si nelle altre parti d'Italia la stesura di una serie di punti programmatici (mai odio, evviva l'ambiente pulito e altre priorità di questi tipo, difficilmente non condivisibili) da presentare alla sinistra e ai suoi candidati. Tanto rumore per quasi nulla? O le Sardine s'inventano qualcosa di sostanzioso, oppure finiscono come i girotondi, come il popolo viola e come altre iniziative da società civile e da ceto medio riflessivo. Il che fare - Lenin non c'entra, qui ci sono più Carola e Greta e s'è infilato pure il solito Saviano pur di avere un po' di pubblicità - è il cruccio che aleggia sull'appuntamento di San Giovanni. E il che fare, se si risolverà nella reiterazione degli happening, dopo una piazza un'altra piazza e un'altra ancora (quousque tandem?), finirà per diventare lo specchio di un volontarismo tanto appassionato quanto politicamente inconcludente ma molto includente: visto che le Sardine somigliano, per dirla alla Jovanotti, a una grande chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa. Ma passando dal premier Conte. E un capo di governo che abbraccia una piazza alternativa di fatto la stritola.

Sardine sotto vuoto (di idee). Andrea Indini il 10 dicembre 2019. Va detto subito che a riempire le piazze sono davvero bravi. Si ritrovano città dopo città e stanno lì tutti stipati come sardine, appunto. E pensare che è partito tutto da un flash mob spinto con il tam-tam su Facebook, almeno così dicono. Personalmente non credo affatto alle nascite spontanee dei movimenti di piazza. Non basta un tweet o un invito inviato su Whatsapp a chiamare a raccolta seimila persone. Nemmeno se il grido di battaglia è “Fermiamo a tutti i costi Matteo Salvini“. Ad ogni modo la moda è scoppiata. E, senza nemmeno curarsi di guardare cosa e soprattutto chi ci sia dentro questi pescetti ossei della famiglia delle clupeidae, sembrano tutti affascinati dal fenomeno. Fan di Mattia Santori e compagni se ne trovano anche laddove non ce lo aspetteremmo. Nessuno dei supporter, però, sembra accorgersi del vuoto che si apre dietro di loro. Da quando le sardine hanno iniziato a riempire le piazze si sono spesi fiumi di byte per cercare di inquadrarli. In realtà, il fenomeno non è poi così dissimile dai movimenti di protesta nati in seno alla sinistra ogni qual volta il centrodestra svetta nei sondaggi e il proprio partito di riferimento in parlamento non è in grado di contrastare questo dilagare. È stato così con i girotondini e il popolo viola e, in un certo qual modo, è stato così anche con i “Vaffa Day” che hanno portato i Cinque Stelle nei palazzi romani. Dopo un anno passato a ingoiare sconfitte elettorali, Mattia & Co. erano letteralmente terrorizzati dall’idea di poter perdere anche l’Emilia Romagna, Regione simbolo del potere rosso. Quando i sondaggi hanno dato più di una possibilità a Lucia Borgonzoni di scalzare decenni di strapotere rosso, qualcosa dev’essere corso lungo le squame delle sardine ed è partita la crociata contro Salvini e, più in generale, contro il centrodestra. Ben presto, le elezioni regionali del prossimo 26 gennaio sono diventate un pretesto. Tanto che sabato, con lo “sbarco” a Roma, si coronerà l’aspirazione nazionale del movimento. Seguiranno riunioni tra gli organizzatori, confronti tra le diverse anime che compongono questo banco e, soprattutto, ipotesi per un futuro che, almeno per il momento, non prevede un ingresso in politica ma che già fa da stampella ai politici in difficoltà. Che dietro alle sardine ci sia il Partito democratico, non tanto come macchina politica quanto come macchina ideologica, è un dato di fatto. I principali animatori delle piazze vengono tutti da quel mondo lì. Tuttavia, essendosi smacchiati dal logo piddì, piacciono a molti. Se ci si potevano aspettare parole al miele da parte di gente come Romano Prodi, Gad Lerner, Roberto Saviano e Vauro Senesi, un po’ meno avremmo preventivato che questi pesci d’acqua salata sarebbero piaciuti a personaggi come Mario Monti. Vanno di moda, ecco tutto. Tanto che per loro vengono spese lodi anche da grillini anti establishment e dall’ultrà europeista Paolo Gentiloni. Tutti affascinati. Ma da cosa? Non si sa. Perché, oltre al fatto di essere sfacciatamente e volgarmente contro Salvini e la Meloni, non è dato sapere cosa pensano le sardine. Hanno fatto sapere che si spenderanno per Stefano Bonaccini, ma lo faranno unicamente per non far arrivare la Borgonzoni in Regione. È una crociata contro e non a favore di qualcosa. In questa euforia senza senso gli vengono persino scusati gli attacchi social con insulti sessisti e le minacce di morte sui cartelloni portati in piazza. Ma nessuno scava a fondo: aldilà degli slogan di facciata, non è dato sapere, per esempio, cosa pensino della manovra infarcita di tasse partorita dal governo né come intendano risolvere l’emergenza immigrazione dopo che il governo Conte ha riaperto i porti del Paese alle ong internazionali. Presto la novità smetterà di essere tale. Probabilmente nei prossimi mesi le sardine esprimeranno un nuovo partito che andrà a sguazzare nel mare magnum della politica italiana. Oppure finiranno per essere una delle tante correnti che animano il Partito democratico. Difficile a dirsi. Perché di contenuti non hanno mai parlato. Sappiano solo che sono contro l’odio e che odiano con estrema violenza la destra. Per il resto è il vuoto.

Sardine, l'ex fedelissimo di Gianfranco Fini: "Sono un po' di destra". Nicola Porro: "Ora si capisce tutto". Libero Quotidiano il 10 Dicembre 2019. Un tempo Filippo Rossi era ideologo di Gianfranco Fini. Oggi, invece, pare essersi convertito al verbo delle sardine. Lo dice chiaro e tondo sul blog che cura sul Fatto Quotidiano, dove scrive: "Anche la mia destra è un po' sardina. In fondo, anche la destra, una buona destra, può essere un po' sardina. Perché tattiche, obiettivi, priorità in politica possono essere diversi, ma i valori di civiltà no, quelli possono essere unificanti. Queste piazze sono la dimostrazione che un' altra politica anche in Italia può esistere. E di questo bisogna essere felici. Anche da destra", ha concluso l'ex finiano di ferro. Parole che, per inciso, vengono riprese anche da Nicola Porro nel suo blog, Zuppa di Porro, il quale liquida la vicenda con un commento tranchant: "Oggi coming out di Filippo Rossi un tempo ideologo di Gianfranco Fini che elogia le sardine. E abbiamo capito tutto", conclude Nicola Porro. 

Una maxi Sardina per la piazza di Roma E il Vaticano: cogliere le spinte positive. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 da Corriere.it. Dentro un capannone sulla via Salaria, giorno e notte, 50 «sardine scenografe» stanno preparando lo spettacolo - si parla di una maxi-sardina di 40 metri disegnata su un telo gigantesco - che sabato accoglierà i partecipanti da tutt’Italia al grande raduno di San Giovanni, davanti alla Basilica del Papa. L’attesa è enorme: da Al Jazira alla BBC, in tanti hanno chiesto l’accredito. E sarà un caso, ma ieri pure il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, ha voluto parlare delle “sardine” di San Giovanni. «Io non sono un membro delle sardine - ha premesso prudente il cardinale - credo però che l’importante sia cogliere tutto quello che di buono c’è in questi movimenti. Questo è il mio augurio: le spinte positive siano messe al servizio del bene del Paese». Loro, le “sardine di Roma”, accolgono con favore anche l’ultimo endorsement (dopo quelli già ricevuti da Romano Prodi, Mario Monti, Patti Smith, Dacia Maraini, Moni Ovadia, Erri De Luca) ma intanto, accantonata la polemica con CasaPound, si concentrano sull’organizzazione. «Volete sapere la verità? - rivela uno dei membri del comitato - Noi all’inizio avevamo chiesto di poterci incontrare in piazza del Popolo, ma il 14 dicembre là ci sarà la Comunità di Sant’Egidio (con il Rigiocattolo, ndr) e la Questura stessa allora ci ha consigliato San Giovanni». Cioè la piazza del Concertone del Primo Maggio, dei sindacati e dei lavoratori, ma anche dell’ultima manifestazione del centrodestra, con Salvini, Meloni e Berlusconi il 19 ottobre. Insomma, roba da far tremare i polsi: «La fortuna - raccontano al comitato - è stata quella di non aver dovuto versare al Comune la tassa di occupazione di suolo pubblico. Perché noi siamo solo un’aggregazione popolare, dietro non abbiamo partiti, sindacati, centri sociali. Nessuno». Così la piazza è gratis e loro ce l’hanno quasi fatta: in 7 giorni grazie al crowdfunding su Facebook hanno raccolto più di 11 mila euro e stanno per coprire le spese previste (15 mila euro) per affittare il Tir che farà da palco, l’impianto d’amplificazione, due ambulanze e stampare le 5 mila sardine di cartone da distribuire. Chi ha fatto in tempo ad ordinarlo, inoltre, potrà andare a ritirare in un negozio (via dei Gonzaga 34c) il “portachiavi delle sardine”: costa 8 euro e serve per l’autofinanziamento. Il servizio d’ordine sarà della Cgil? «Macché, un’altra bufala. Sabato avremo circa 300 nostri volontari a fare gli steward e poi ci sarà la polizia», rispondono in coro quelli del comitato organizzatore, una trentina di persone in tutto che due settimane fa in un pub sulla Flaminia lanciò l’idea a Mattia Santori, il leader di Bologna, venuto a Roma per un’intervista tv. In queste due settimane si sono divisi in sottogruppi per occuparsi di permessi, scenografia, media. E così ora sono nate anche le “sardine spazzine”, 124 volontari che sabato, prima e dopo la manifestazione (orario concordato con le autorità, dalle 15 alle 17) puliranno la piazza senza pesare sulla comunità: «Sennò sai quanti attacchi, di nuovo, il giorno dopo...».

Papa Francesco e Scalfari, tutti ossessionati da Salvini: contro di lui insulti e campagne diffamatorie. Antonio Socci il 10 Dicembre 2019 su Libero Quotidiano. Vedendo l' ossessione della Sinistra per Salvini, in questi mesi, sembra di tornare indietro nel tempo. Quante volte abbiamo già visto questo triste film, questa sorta di caccia (politica) all' uomo nero da parte dei "sinceri democratici", questa fanatica mostrificazione, questo assalto collettivo al Nemico dell' umanità? La Sinistra in Italia è sempre stata così, da decenni: una fabbrica di odio, di intolleranza e demonizzazione. Con tanti "addetti ai livori" a supportarla sui media. Ci sono intere biblioteche che documentano questa storia, dagli anni del Dopoguerra a quelli recenti: fiumi di odio tracimanti contro tutti coloro che venivano individuati come nemici perché osavano opporsi alla sua egemonia (in certi momenti storici, in cui i gruppi più settari inseguivano la rivoluzione, com' è noto, non è mancata nemmeno la violenza fisica). I maggiori avversari della Sinistra hanno subito lunghe campagne di odio, sono stati demonizzati, ossessivamente attaccati, dileggiati e "asfaltati". Con il coro - ovvio - di molti media e delle piazze. Si sperava che con il crollo (nella vergogna) del comunismo la nostra Sinistra, che per anni aveva sostenuto regimi disumani, facesse una severa autocritica e cambiasse anche il suo modo di far politica. Invece ha solo rovesciato la giacca, il giorno dopo il crollo del Muro ha annunciato che non c' erano più comunisti (anzi, nessuno ricordava di esserlo stato) e ha continuato a imperversare esattamente con gli stessi metodi: con la stessa pratica della demonizzazione dell' avversario. Accompagnata dai salotti radical-chic e cattoprogressisti. Così negli anni duemila è toccato a Berlusconi, appena entrato in politica. E oggi è esattamente il film che stiamo vedendo contro Salvini e - più di recente - contro Giorgia Meloni da quando il suo consenso è cresciuto (si è già guadagnata la copertina dell' Espresso di questa settimana). È un film già visto. La Sinistra cambia poco. Oggi sono tutti ossessionati da Salvini. Lo sognano pure di notte. Ogni loro discorso ruota attorno a Salvini. Sempre. Salvini qua, Salvini là. Ogni sua parola o gesto o selfie dà l' occasione alla Sinistra per scagliare scomuniche e invettive. Salvini è l' alibi che permette loro di giustificare qualsiasi loro scelta. Sono stati fino ad agosto nemici acerrimi dei grillini? Se le sono dette di tutti i colori? Hanno idee opposte? Eppure subito sono corsi a farci il governo insieme: per fermare Salvini.

SCARSO CONSENSO. Ma - si obietta loro - avete perso le elezioni, gli italiani vi hanno mandato al minimo storico e i sondaggi dicono che è un governo senza maggioranza nel Paese. Risposta: non importa, è nostro dovere fermare Salvini, noi salviamo la democrazia governando come minoranza; dobbiamo fare questa indigestione di poltrone perché altrimenti - se facessimo votare gli italiani - vincerebbe Salvini. Fatto il governo litigano su qualunque cosa, riconoscono loro stessi che un esecutivo così non può andare avanti, che è un disastro per il Paese, però - ti spiegano - dobbiamo tenerlo in vita con l' ossigeno pur di tenere Salvini all'opposizione. Chiedi loro come possono subire il Mes voluto dalla Germania che sarà un disastro l' Italia (come hanno certificato voci autorevoli e indipendenti) e loro ti rispondono: Salvini vuole portarci fuori dall' euro (Gualtieri ha addirittura accusato Salvini di aver fatto sul Mes «una campagna terroristica»). Chiunque attacchi Salvini ha il loro plauso: fosse pure Francesca Pascale, la compagna di Berlusconi, che ha detto di pensare a «scendere in piazza con le sardine». Risposta del capo delle sardine, Mattia Santori: «La Pascale tra noi? Diamo il benvenuto a chiunque si discosti dal sovranismo». Salvini per loro è il male assoluto (il diavolo, insinuava una celebre copertina di Famiglia cristiana). Scalfari ieri è arrivato a scrivere che «Salvini è un dittatore» che «lascerebbe il posto di padrone del Mediterraneo al presidente di tutte le Russie, Vladimir Putin», insomma «Salvini sarebbe il suo alto rappresentante nel Mediterraneo» e vorrebbe «un' Italia rappresentante internazionale d' un grande impero straniero». C' è da trasecolare. In Italia c' è davvero stato un partito che prendeva ordini dall' Unione Sovietica, ma era il Pci. Scalfari fu anticomunista? Del resto a quel tempo era il Pci che accusava la Dc di De Gasperi di essere "asservita" agli Usa e alla Nato.

REALTÀ ROVESCIATA. A proposito di rovesciamento della frittata: Scalfari - invece dei suoi risibili scenari di fantapolitica - non vede oggi concretamente un' Italia "asservita" ad altre potenze straniere? Non coglie sudditanza in altri partiti? Nessuno risponderà. Perché attaccare Salvini è l' imperativo categorico. Salvini ha la colpa di tutto, pure dell' acqua alta a Venezia che c' è da secoli. Per qualunque cosa bisogna puntare il dito su Salvini. Giorni fa si è vista in televisione una "sardina" attaccare Salvini per il Jobs Act. Il realtà il Jobs Act lo ha fatto il Pd, ma quel giovanotto attaccava Salvini perché anno scorso, a suo dire, avrebbe dovuto abolirlo. L' altroieri il giornale dei vescovi, Avvenire, ha pubblicato un editoriale in prima pagina: «Giù le mani da Maria». Parlava dei "collettivi blasfemi" dell' Università di Bologna che avevano organizzato - in occasione della festa dell' Immacolata - il party «Immacolata con(tracc)ezione». L' invito «con tanti preservativi svolazzanti sopra a un' immagine mariana» recitava: «Mettiamo al bando la verginale santità mariana». A Sinistra c' è anche questo, com' è noto. Avvenire in quell' editoriale parlava di «politici senza rispetto» ma - attenzione - non per criticare la Sinistra, bensì per mettere quei «collettivi blasfemi» sullo stesso piano di Salvini perché, a Porta a porta, di recente ha citato, invitando a meditarlo, un messaggio dato dalla Madonna a Medjugorje. Si resta senza parole davanti a tale ostilità preconcetta. Questa è una novità rispetto agli anni Settanta. È entrata a far parte di questo partito del livore e della demonizzazione anche la chiesa bergogliana. E non si ricorda nella storia della Chiesa dell' ultimo secolo una tale demonizzazione personale: mai i media cattolici e i vescovi hanno manifestato una tale ossessione contro un politico (non certo per i leader del Pci, più che rispettati, e neanche per i radicali anticlericali). Mai si è vista una cosa simile. Davvero singolare considerato che Salvini è cattolico, che raccoglie il voto della maggioranza dei cattolici e che si batte in difesa dei valori cristiani (la Lega, per dire, è stata la prima a protestare per quella manifestazione di Bologna, mentre la Curia del cardinal Zuppi è arrivata per ultima). L' altra novità è surreale ed è questa: a differenza dei decenni passati, fino all' epoca Berlusconi, oggi questo "partito dell' odio" e della demonizzazione si maschera, nientemeno, da anti odio, ovviamente accusando di odio Salvini. Ed è tutto una risibile sfilata di vecchi compagni che si atteggiano a suorine dell' amore caritatevole. Il vecchio Marx nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte scriveva: «Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». È il caso della Sinistra italiana che fu comunista, oggi "progressista", che fino a ieri addirittura andava in sollucchero perfino per il testo di Gramsci intitolato Odio gli indifferenti e che oggi scatenerebbe il finimondo se quella parola "odio" fosse pronunciate da Salvini, dal momento che la Sinistra attuale si straccia le vesti accusando di odio i suoi avversari perfino se parlano della fede cristiana e del presepio. È il mondo alla rovescia. Antonio Socci

No delle Sardine a Casapound: «Le nostre piazze sono antifasciste». Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 da Corriere.it. Il movimento delle Sardine chiude le porte a Casapound e all’estrema destra; lo fa con una nota pubblicata sulla pagina Facebook ufficiale del movimento e resasi necessario dopo che i neofascisti avevano dichiarato di voler partecipare alla manifestazione di piazza san Giovanni a Roma «senza bandiere, con le nostre idee ma senza cantare Bella Ciao». L’inaspettata adesione ha creato qualche ora di sconcerto e numerosi post di protesta da parte di «sardine» di tutta Italia, fino ad arrivare alla presa di posizione ufficiale. «Le piazze delle Sardine si sono fin da subito dichiarate antifasciste e intendono rimanerlo. Nessuna apertura a CasaPound, né a Forza Nuova. Né ora né mai» hanno fatto sapere da Bologna i 4 fondatori del movimento spontaneo. «Dal 14 novembre scorso centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza proprio contro quei partiti che con le idee e il linguaggio dei gruppi neofascisti e neonazisti flirtano in maniera neanche troppo nascosta. Stephen Ogongo -scrivono riferendosi a uno degli animatori delle Sardine di Roma- ha commesso un’ingenuità». «Ci dispiace che il concetto di apertura delle piazze sia stato travisato e strumentalizzato, ma non stupisce. In questo momento le piazze fanno gola a molti, lo avevamo già detto e lo ripetiamo. Rammarica che questo fraintendimento sia cavalcato da più parti. Ma è giusto dare una risposta netta. Le sardine sono antifasciste. Le sardine continueranno a riempire le piazze. Si decida da che parte stare. Noi lo abbiamo già fatto». Durante il fine settimana aveva già creato sorpresa e disorientamento l’«endorsement» a favore delle sardine di Francesca Pascale, la fidanzata di Silvio Berlusconi. «Vedo in loro lo spirito di Forza Italia» aveva detto, dichiarandosi antisovranista ma dicendosi ancora indecisa se partecipare alla manifestazione di Roma. Posizione ribadita poche ore fa da Francesca Pascale con un post sul suo profilo Instagram. «Lei è comunque la benvenuta» le aveva risposto il fondatore delle sardine Mattia Santori. Sardine, l'annuncio di CasaPound: "Saremo in piazza a Roma:". Parte la protesta. I fondatori del Movimento: "Siamo antifascisti".

Il leader romano del movimento apre alla partecipazione dei Fascisti del Terzo Millennio. Poi la marcia indietro. I fondatori del movimento: "Nessuna apertura a CasaPound, né a Forza Nuova. Né ora né mai.". Simone Di Stefano, capo di Cpi: "Ci andremo, ma non canteremo Bella Ciao". Paolo Berizzi il 10 dicembre 2019 su La Repubblica. Sardine e CasaPound insieme in piazza San Giovanni il 14 dicembre. Il movimento che canta "Bella ciao" e i "fascisti del terzo millennio". Se non fosse vero, sembrerebbe una barzelletta. E invece potrebbe essere  proprio così: almeno stando alle dichiarazioni di oggi. Effetto impazzito della curiosa apertura ai "fascisti del terzo millennio" da parte di Stephen Ogongo, leader romano delle sardine, il movimento di piazza anti-sovranista nato a Bologna per protestare contro Matteo Salvini. In un'intervista al Fatto Quotidiano, Ogongo non mette paletti in vista della prossima "sardinata" romana di piazza San Giovanni e dice chiaramente che la manifestazione è aperta a tutti: anche ai militanti di estrema destra che si riconoscono nel simbolo della tartaruga nera. L'uscita di Ogongo, che pare surreale, innesca da subito sconcerto e polemiche: e poco importa che il suo invito, nemmeno troppo implicito, venga subito smentito dalle altre sardine. Il punto è che le parole del leaderino vengono prese alla lettera dai militanti di CasaPound. Che, dopo un'iniziale presa di distanza - con tanto di sfotto' delle sardine - sulle colonne del Primato Nazionale, testata ufficiale del movimento, accolgono la "chiamata". Insomma: approfittano del volano lanciato dalle sardine. Simone Di Stefano, in un lancio d'agenzia delle 12.55, ufficializza che CasaPound sarà dunque in piazza.  "L'apertura del leader delle Sardine di Roma stupisce ma va nella direzione del dialogo e noi da sempre ci confrontiamo con tutti - spiega il capo di CPI - . Al momento le Sardine sinceramente mi sembrano un contenitore vuoto e manovrato dalla sinistra ma noi siamo pronti ad andare in piazza, senza bandiere, come abbiamo fatto per la manifestazione con Salvini, Berlusconi, Meloni, e porteremo le nostre idee. Ma sia chiaro 'Bella Ciaò non la cantiamo". Il risultato finale delle parole di Ogongo, dunque, è quello di avere arruolato anche i fascisti di CPI. Che quindi torneranno nella stessa piazza dell'"Orgoglio italiano", la kermesse sovranista targata Lega che ha visto sul palco Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi.

Le proteste sui social, "Ora in molti non verranno, non verremo, e iniziamo a uscire da sto gruppo". La piazza di San Giovanni aperta a tutti, anche a CasaPound, agita le Sardine in vista della manifestazione del 14 dicembre e accende il dibattito sui social. Nel gruppo Sardine di Roma, che su Facebook accoglie circa 140.000 utenti, le parole di Stephen Ogongo, leader della branca capitolina del movimento, hanno lasciato il segno: "Per ora è ammesso chiunque, pure uno di CasaPound va benissimo. Basta che in piazza scenda come una Sardina", ha detto Ogongo al Fatto Quotidiano. "Se troverò un fascista in piazza San Giovanni, questo avrà la fortuna di sentire l'affetto da parte del quartiere che coloro che la pensavano come lui hanno distrutto", scrive un 19enne del Quadraro. "Mi stupisce comunque la leggerezza con la quale uno degli organizzatori possa fare una simile dichiarazione, più che strumentalizzabile... Specie nel momento in cui sartori ha criticato Potere al Popolo accusandola di "infiltrarsi" nelle piazze... Cioè i compagni non vanno bene ma siamo inclusivi con i fascisti? Bisognerebbe fare più attenzione nelle dichiarazioni pubbliche", osserva un altro membro della community. Il comunicato diffuso dall'ufficio stampa del gruppo e pubblicato sulla pagina ("Sappiamo che la piazza di San Giovanni a Roma fa gola a molti. Ma RIBADIAMO con forza che l'invito è rivolto a chi crede che il linguaggio politico di una certa destra abbia passato il segno") non sembra placare tutti gli animi. "L'antifascismo è la prima cosa. Se non vi è chiaro. Ora in molti non verranno, non verremo, e iniziamo a uscire da sto gruppo. I fascisti NO. E se Santori non chiarisce subito che i fascisti NON sono graditi, ADDIO", scrive un'altra persona, chiedendo una presa di posizione netta di Mattia Santori, uno degli ideatori del movimento.

La precisazione dei fondatori del movimento. I quattro fondatori delle Sardine rispondono con un post sulla pagina Facebook "6000 sardine" e precisano: "Le piazze delle sardine si sono fin da subito dichiarate antifasciste e intendono rimanerlo. Nessuna apertura a CasaPound, né a Forza Nuova. Né ora né mai. Dal 14 novembre scorso centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza proprio contro quei partiti che con le idee e il linguaggio dei gruppi neofascisti e neonazisti flirtano in maniera neanche troppo nascosta. Stephen Ogongo ha commesso un’ingenuità. Ci dispiace che il concetto di apertura delle piazze sia statotravisato e strumentalizzato, ma non stupisce. In questo momento le piazze fanno gola a molti, lo avevamo già detto e lo ripetiamo. Rammarica che questo fraintendimento sia cavalcato da più parti. Ma è giusto dare una risposta netta. Le sardine sono antifasciste. Le sardine continueranno a riempire le piazze. Si decida da che parte stare. Noi lo abbiamo già fatto. Andrea, Giulia, Mattia, Roberto e tutte le sardine". 

Giuseppe De Lorenzo per il Giornale l'11 dicembre 2019. Un'intervista manda in tilt le sardine. Sono bastate poche parole per scatenare l'isteria ittica in vista della manifestazione di Roma: "Chiunque vuol scendere in piazza è il benvenuto. Che sia di sinistra, di Forza Italia o di CasaPound". Stephen Ogongo, leader (fino a quando?) del movimento romano, non ha solo costretto i fondatori ad una irritata presa di posizione. Ma ha soprattutto scatenato l'ira generale di chi ieri è andato a letto antifascista e si è risvegliato con l'incubo Di Stefano vicino di corteo. Il risultato è una spaccatura interna e un cortocircuito nella lotta dichiara all'odio. In politica gli scivoloni si pagano. E il leader delle sardine di Roma è cascato su un'enorme buccia di banana. Aprire il banco del pesce a CasaPound è come invitare Satana a un battesimo. L'idea di fondo ("chiunque è benvenuto") è teoricamente corretta (democratica, per così dire), ma il difetto di comunicazione è enorme. Non a caso Mattia Santori e gli altri tre fondatori, dopo ore di polemiche in rete, hanno dovuto firmare una nota ufficiale per smentire l'apertura ai "fascisti del terzo millennio". Il senso è: "Né ora né mai". Più chiaro di così, si muore. Nessuno in fondo si sarebbe aspettato il contrario: in piazza si canta "Bella ciao" e sono note simpatie per la sinistra dei partecipanti. Il problema qui è strutturale. E di organizzazione. La nota di Santori, infatti, è arrivata molte ore dopo la pubblicazione dell'intervista e (soprattutto) anche dopo il comunicato ufficiale del gruppo delle Sardine di Roma. I due testi vanno confrontati, perché raccontano una spaccatura (la seconda) sorta nel movimento. Con l'uscita di Obongo, infatti, online si era scatenato un vero e proprio putiferio. In molti sul gruppo delle sardine di Roma avevano chiesto una netta presa di posizione su quelle frasi. O almeno una smentita. Il chiarimento è arrivato in tarda mattina, ma nel comunicato non vengono mai citate né Casapound né Forza Nuova. Un testo considerato troppo generico dalle sardine, che si sono sfogate sui gruppi Facebook. In molti si sono detti "allibiti" da come vengono scelti i portavoce. Altri hanno lamentato l'assenza di un mea culpa per "aver detto una stronzata". E in tanti erano addirittura pronti a boicottare la piazza. Per questo i fondatori bolognesi sono stati costretti a intervenire. Il mare non era mai stato così agitato. L'incidente costringerà il movimento (che domani dovrebbe riunirsi in una sorta di congresso) ad affrontare una questione di fondo: come organizzare la partecipazione alla vita politica. I leader locali non sono stati scelti da Bologna, sono persone che hanno avuto l'unico merito di aprire per primi una pagina Fb di sardine. Era inevitabile che qualcuno potesse uscirsene con dichiarazioni poco ortodosse. Senza struttura, le sardine rischiano di implodere. Come tutti i vari girotondi e movimenti arancioni che l'hanno precedute. C'è poi un'altra questione emersa sull'onda delle polemiche. Sembrerà secondaria, ma non lo è. Come sapete, le sardine nascono come reazione all'odio populista, eppure sono cadute di nuovo in contraddizione. Dopo gli insulti a Giorgia Meloni, contro CasaPound non sono mancate frasi violente. Si va da un classico "feccia" a "i fascisti in piazza? Sono ben accolti se a testa in giù", passando per "l'unica apertura per Cp e Forza Nuova è quella del cranio". L'idea di trovarsi a braccetto con le "tartarughe" può irritare, si capisce. Ma rifugiarsi in espressioni violente tradisce l'essenza stessa del movimento. O forse dimostra un'incoerenza di fondo: odio è quando a odiare è la destra. 

Casapound annuncia: "Saremo in piazza con le sardine". Simone Di Stefano accoglie l'invito di Ogongo: "Chi si proclama movimento spontaneo, che viene dal basso, dovrebbe essere aperto a tutto". Luca Sablone, Giovedì 12/12/2019, su Il Giornale. Casapound scenderà in piazza con le sardine sabato 14 dicembre, quando a Roma si riuniranno per la loro prima manifestazione nazionale. L'annuncio è stato formalizzato dopo la dichiarazione di Stephen Ogongo, che ha aperto alla presenza anche dell'estrema destra: "Per me, almeno al momento, chiunque vuol scendere in piazza è il benvenuto. Che sia di sinistra, di Forza Italia o di Casapound. Ai paletti penseremo dopo". Successivamente è arrivato l'alt sulla pagina Facebook del movimento: "Le piazze delle sardine si sono fin da subito dichiarate antifasciste e intendono rimanerlo. Nessuna apertura a Casapound, né a Forza Nuova. Né ora né mai". Ma Simone Di Stefano ha comunque accettato l'invito: "Noi ci andremo, non andremo ovviamente in corteo, andremo alla spicciolata e vedremo cosa dice questa piazza. Vorremmo portare dei temi". Anche perché "chi si proclama movimento spontaneo, che viene dal basso, dovrebbe essere aperto a tutto". E ha riconosciuto un pregio delle sardine: "Vogliono cambiare la narrazione, in una nazione in cui si parla solo di odio, di immigrati, di razzismo, antirazzismo. Bisogna spostare l’attenzione sui veri problemi".

"Aperti al dialogo". Intervenuto ai microfoni della trasmissione "L’Italia s'è desta", il segretario nazionale delle tartarughe ha detto che bisogna rimettere al centro "un lavoro stabile, una casa di proprietà, potersi fare una famiglia". Inoltre ha fatto un previsione: "Alla fine secondo me la piazza sarà una piazza di ragazzi sistemati, senza troppi problemi, non ci troveremo gente della periferia romana". A suo giudizio il problema dell'Italia è quello di "non aver superato la guerra civile, il dialogo invece dovrebbe essere fondamentale per trovare una direzione comune". Di Stefano ha sottolineato come Casapound sia aperta al dialogo: "Abbiamo sempre ospitato tutti, cercando di riportare il dialogo politico-nazionale sul piano delle idee, purtroppo però è funzionale ai media schierati dipingerci come violenti e xenofobi". Non ha fatto mancare una stoccata verso Matteo Salvini: "Non cogliamo una reale volontà di cambiamento nella Lega di Salvini, proprio per questo stiamo cercando di portare le nostre idee in area sovranista". Criticando la sua strategia politica: "Ad andare avanti con le campagne elettorali a gattini, sardine, immigrati e tasse, poi si va al governo e si è incapaci di realizzare proposte concrete". Impossibile non parlare anche di Greta Thunberg, ieri nominata da Time come persona dell'anno 2019: "Purtroppo è una costruzione artificiale che serve a coprire interessi internazionali che non sono esattamente indirizzati alla tutela dell’ambiente". In realtà c'è l'estrema necessità di "un grande piano infrastrutturale per rinunciare ai combustibili fossili e investire nelle rinnovabili". Il che al momento non è possibile realizzare poiché "viviamo sempre nella logica che lo Stato non può investire".

La sardina romana Ogongo: "Noi aperti anche a CasaPound". Il fondatore di Cara Italia, originario del Kenya, è l'uomo di riferimento delle sardine nella capitale: "Chiunque è il benvenuto". Pina Francone, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. Si chiama Stephen Ogongo, ha quarantacinque anni, è nato in Kenya ma da un quarto di secolo vive in Italia. E oggi è l'uomo di riferimento delle sardine a Roma. Ma l'impegno politico di Ogongo non nasce certo oggi, visto che nel 2018 ha dato vita a Cara Italia, "un movimento popolare antirazzista e multiculturale che mette insieme tutti - gli italiani e gli immigrati - che lottano per un Italia veramente multiculturale, multireligiosa, libera e dove regnano il rispetto della persona e la dignità umana, la giustizia e il rispetto dei diritti umani di tutti senza nessuna distinzione", come si può leggere nel suo profilo Facebook. E nei mesi scorsi è stato protagonista di più di un battibecco a distanza con Matteo Salvini, accusandolo addirittura di "istigazione all’odio". Il tutto difendendo a spada tratta lo ius soli e lo ius culturae, ovviamente in aperta polemica con chi si batte contro la "cittadinanza facile" agli stranieri. Il 45enne, alter ego capitolino de bolognese Mattia Santori, intervistato da Il Fatto Quotidiano, si è lasciato andare a dichiarazioni forse inaspettata, aprendo le braccia anche all'estrema destra: "Per me, almeno il momento, chiunque vuol scendere in piazza è il benvenuto. Che sia di sinistra, di Forza Italia o di CasaPound. Ai paletti penseremo dopo…". Parole d'ordine, quindi, nessun paletto e porte aperte a tutti, basta che vadano in piazza nel nome della sardina. Le sardine sono in agitazione, visto che sabato 14 dicembre si riuniranno proprio nella Città Eterna per la loro prima manifestazione nazionale: "A noi basta aver unito centinaia di migliaia di persone, che si sono ritrovate in modo spontaneo a dire no a un linguaggio politico pieno di odio e discriminazione. E poi le cose prendono pieghe che nessuno può immaginare…". E sul fondatore e leader delle sardine spreca parole al miele: "Quello che ho sentito dire in televisione da Mattia e da altri rispecchia più o meno quello che diciamo tutti insieme in piazza". Ogongo, però, qualche idea sul futuro delle sardine ce l'ha eccome e la spiega al quotidiano diretto da Marco Travaglio: "A me piacerebbe che le Sardine diventassero un movimento per l'inclusione, per una società multiculturale, come il mio Cara Italia…". Poi, però, il plenipotenziario romano delle sardine, fa (mezza) marcia indietro: "Per quanto mi riguarda le Sardine possono anche finire qui. L'importante è aver dimostrato che l'Italia ha gli anticorpi".

CasaPound accetta l'invito. A stretto giro, è arrivata la risposta - positiva - di CasaPound. Già, perchè Simone di Stefano ha accolto l'"invito" di Stephen Ogongo, leader romano delle sardine: "L'apertura del leader delle Sardine di Roma stupisce ma va nella direzione del dialogo e noi da sempre ci confrontiamo con tutti. Al momento le Sardine sinceramente mi sembrano un contenitore vuoto e manovrato dalla sinistra ma noi siamo pronti ad andare in piazza, senza bandiere, come abbiamo per la manifestazione con Salvini Berlusconi Meloni, e porteremo le nostre idee. Ma sia chiaro 'Bella Ciao' non la cantiamo".

Dagospia il 12 dicembre 2019. Da radiocusanocampus.it. Simone Di Stefano (CasaPound) è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Stephen Ogongo apre a Casapound, ma le Sardine smentiscono. “L’intervista di Ogongo era abbastanza chiara, ha detto che andava bene anche CasaPound purchè venisse senza bandiere –ha affermato Di Stefano-. Chi si proclama movimento spontaneo, che viene dal basso, dovrebbe essere aperto a tutto. Mi sembra assurdo che esista una piazza contro. La volontà di questa piazza qual è? Cambiare l’Italia e fare proposte politiche oppure dire: non bisogna andare alle elezioni perché se no vince Salvini? Noi ci andremo, non andremo ovviamente in corteo, andremo alla spicciolata e vedremo cosa dice questa piazza. Vorremmo portare dei temi. Una cosa che c’è di buono delle Sardine è voler cambiare la narrazione, in una nazione in cui si parla solo di odio, di immigrati, di razzismo, antirazzismo. Bisogna spostare l’attenzione sui veri problemi. Qui serve un lavoro stabile, una casa di proprietà, potersi fare una famiglia. Di queste cose non si parla, speriamo che con questa iniziativa se ne possa parlare. Vediamo se vogliono davvero cambiare le cose queste Sardine anche se ho i miei dubbi. La politica è anche una scelta, devi sapere cosa vuoi. Alla fine secondo me la piazza sarà una piazza di ragazzi sistemati, senza troppi problemi, non ci troveremo gente della periferia romana. Se uno pretende di andare lì e cantare Bella Ciao, allora torniamo al ’45 e dividiamo il campo in due. Uno dei problemi di questa nazione è non aver superato la guerra civile, il dialogo invece dovrebbe essere fondamentale per trovare una direzione comune. Vediamo se sono permeabili ad una proposta politica o se è semplicemente la quinta colonna del PD e del M5S. Ogongo dice una cosa, poi arrivano i 4 leader e lo smentiscono, ma chi sono questi 4 leader? Siamo già alla Casaleggio e Associati? Sicuramente CasaPound è ultra collocata, ma è sempre stata per dialogo. Abbiamo sempre ospitato tutti, cercando di riportare il dialogo politico-nazionale sul piano delle idee, purtroppo però è funzionale ai media schierati dipingerci come violenti e xenofobi. Noi ci siamo sottratti a tutto ciò tirandoci fuori dalla competizione elettorale”. Sulla Lega. “Non cogliamo una reale volontà di cambiamento nella Lega di Salvini, proprio per questo stiamo cercando di portare le nostre idee in area sovranista. Ad andare avanti con le campagne elettorali a gattini, sardine, immigrati e tasse, poi si va al governo e si è incapaci di realizzare proposte concrete. Dobbiamo arrivare al governo con le idee chiare, questo è il ruolo oggi di CasaPound, portare idee chiare”. Su Greta. “Greta purtroppo è una costruzione artificiale che serve a coprire interessi internazionali che non sono esattamente indirizzati alla tutela dell’ambiente. Bisognerebbe fare un grande piano infrastrutturale per rinunciare ai combustibili fossili e investire nelle rinnovabili. E oggi non si può fare perché viviamo sempre nella logica che lo Stato non può investire. La Von Der Leyen ha detto che le spese sul green non potranno essere scorporate dai vincoli di bilancio, lì Greta non si è alzata per dire qualcosa”.

"I fascisti? Solo a testa in giù". ​Il cortocircuito delle sardine. Il leader romano apre a CasaPound. I fondatori lo smentiscono: "Noi antifascisti". Sono contro l'odio, ma insultano i "fascisti". Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 11/12/2019, su Il Giornale. Un'intervista manda in tilt le sardine. Sono bastate poche parole per scatenare l'isteria ittica in vista della manifestazione di Roma: "Chiunque vuol scendere in piazza è il benvenuto. Che sia di sinistra, di Forza Italia o di CasaPound". Stephen Ogongo, leader (fino a quando?) del movimento romano, non ha solo costretto i fondatori ad una irritata presa di posizione. Ma ha soprattutto scatenato l'ira generale di chi ieri è andato a letto antifascista e si è risvegliato con l'incubo Di Stefano vicino di corteo. Il risultato è una spaccatura interna e un cortocircuito nella lotta dichiara all'odio. In politica gli scivoloni si pagano. E il leader delle sardine di Roma è cascato su un'enorme buccia di banana. Aprire il banco del pesce a CasaPound è come invitare Satana a un battesimo. L'idea di fondo ("chiunque è benvenuto") è teoricamente corretta (democratica, per così dire), ma il difetto di comunicazione è enorme. Non a caso Mattia Santori e gli altri tre fondatori, dopo ore di polemiche in rete, hanno dovuto firmare una nota ufficiale per smentire l'apertura ai "fascisti del terzo millennio". Il senso è: "Né ora né mai". Più chiaro di così, si muore. Nessuno in fondo si sarebbe aspettato il contrario: in piazza si canta "Bella ciao" e sono note simpatie per la sinistra dei partecipanti. Il problema qui è strutturale. E di organizzazione. La nota di Santori, infatti, è arrivata molte ore dopo la pubblicazione dell'intervista e (soprattutto) anche dopo il comunicato ufficiale del gruppo delle Sardine di Roma. I due testi vanno confrontati, perché raccontano una spaccatura (la seconda) sorta nel movimento. Con l'uscita di Obongo, infatti, online si era scatenato un vero e proprio putiferio. In molti sul gruppo delle sardine di Roma avevano chiesto una netta presa di posizione su quelle frasi. O almeno una smentita. Il chiarimento è arrivato in tarda mattina, ma nel comunicato non vengono mai citate né Casapound né Forza Nuova. Un testo considerato troppo generico dalle sardine, che si sono sfogate sui gruppi Facebook. In molti si sono detti "allibiti" da come vengono scelti i portavoce. Altri hanno lamentato l'assenza di un mea culpa per "aver detto una stronzata". E in tanti erano addirittura pronti a boicottare la piazza. Per questo i fondatori bolognesi sono stati costretti a intervenire. Il mare non era mai stato così agitato. L'incidente costringerà il movimento (che domani dovrebbe riunirsi in una sorta di congresso) ad affrontare una questione di fondo: come organizzare la partecipazione alla vita politica. I leader locali non sono stati scelti da Bologna, sono persone che hanno avuto l'unico merito di aprire per primi una pagina Fb di sardine. Era inevitabile che qualcuno potesse uscirsene con dichiarazioni poco ortodosse. Senza struttura, le sardine rischiano di implodere. Come tutti i vari girotondi e movimenti arancioni che l'hanno precedute. C'è poi un'altra questione emersa sull'onda delle polemiche. Sembrerà secondaria, ma non lo è. Come sapete, le sardine nascono come reazione all'odio populista, eppure sono cadute di nuovo in contraddizione. Dopo gli insulti a Giorgia Meloni, contro CasaPound non sono mancate frasi violente. Si va da un classico "feccia" a "i fascisti in piazza? Sono ben accolti se a testa in giù", passando per "l'unica apertura per Cp e Forza Nuova è quella del cranio". L'idea di trovarsi a braccetto con le "tartarughe" può irritare, si capisce. Ma rifugiarsi in espressioni violente tradisce l'essenza stessa del movimento. O forse dimostra un'incoerenza di fondo: odio è quando a odiare è la destra.

Ma queste "sardine" possono tentare chi vota centrodestra? Carmelo Caruso, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. Le abbiamo «pizzicate» perché davvero ci avevano incuriosito e, forse, perché temevamo quello che purtroppo è accaduto: la sardina come ultimo travestimento. A Mattia Santori, che del movimento è il leader, proprio Il Giornale aveva chiesto se si potesse nuotare libere come hanno fatto, a Bologna, appena erano emerse o se invece il rischio sarebbe stato di finire nella rete a strascico della sinistra spennacchiata, degli intellettuali in disarmo. Anche lui aveva compreso il pericolo e riconosciuto: «Il rischio c’è, ma io credo che riusciremo ad avere gli anticorpi». E infatti le prime sardine, che sono appunto Matteo, Giulia, Andrea, Roberto, fino a ieri, a Repubblica, hanno ripetuto che non hanno nessuna intenzione di candidarsi, ma più lo ripetono e più, a sinistra, li vogliono eleggere. Romano Prodi se ne è appropriato. Ha detto: «Sono formidabili, ma nessuno le colonizzi» compiendo in pratica quello che negava. Paolo Gentiloni le ha accarezzate: «Mi sono piaciute moltissimo». Mario Monti ormai è una sardina al valore: «Le guardo con molto interesse. Scendere in piazza con loro? Perché no?». Riguardatevi la puntata dell’Aria che tira del 18 novembre e capireste che a minacciare questi ragazzi, per certi versi scanzonati e sicuramente dalla faccia giovane e senza ghigno, non è la destra che anzi li ha «svegliati e portati in piazza», ma il solito reparto di accademici, giornalisti, artisti, emeriti, insomma, i dottor Balanzone che vogliono insegnargli a fare le sardine. La sardina Santori ha dovuto ascoltare le acrobazie sociologiche di Domenico De Masi, professore di reddito di cittadinanza, ma esodato da Luigi Di Maio: «Il vostro movimento è acefalo. Voi siete come dei cancellieri, dei servitori. Potete diventare un grande partito. Il M5s ha iniziato così». Lo blandiva perché spera di diventare ministro sardina del Lavoro. E allora, non è proprio in questo modo che si inquina il loro mare? Non sono proprio quelli che le «inforchettano» a volerle modificare geneticamente? A Milano, in piazza Duomo, lo scrittore Roberto Saviano ha voluto soffocarle d’amore e perfino Santori, per rimanere sardina, ha dovuto prendere le distanze dalle sue frasi: «Salvini è un bandito politico. Il suo destino è il carcere». Un altro come Gad Lerner, che su Salvini ha le stesse idee liberali, le ha fotografate con l’ombrello perché «con la pioggia le sardine si trovano addirittura meglio». Non c’è ragione per non sforzarsi di credere a questi ragazzi che, anche sul loro gruppo, a oggi 227 mila iscritti, continuano a chiedere di non utilizzare un linguaggio violento, di smontare qualsiasi avversario con il sorriso. A unirsi a loro, da pochi giorni, si è presentato Erri De Luca, «professionista delle cesoie», scrittore anti-Tav, che è per la nobiltà del verbo sabotare: «Verbo nobile e democratico». Noto per questi suoi pensieri, è stato processato per istigazione a delinquere e poi assolto. Al momento si è limitato alle suggestioni: «Le sardine si uniscono sulla superficie dell’acqua per dare le sembianze di un unico grande pesce e spaventare così il tonno». A dire il vero spaventa di più il futuro che per loro prepara: «Si è diffusa una febbre civile. Succede, con drammaticità diverse, da Teheran, Hong Kong al Cile». Per fortuna anche le sardine sono consapevoli («Noi stiamo bene») che l’Italia non è il Sudamerica malgrado se la immaginano sempre come tale quelli che, venti anni fa, furono vecchie sarde. E infatti, ogni giorno, da un mese, un reduce dell’antiberlusconismo appare e due giovani sardine rischiano di scomparire. Insomma, si credeva completo l’elenco con Marco Revelli, Vauro e Paolo Flores d’Arcais, (di Silvio Berlusconi scriveva: «La sua libertà è un’indecenza. Deve andare in galera o in stringenti domiciliari»). E invece ci si è dovuti ricredere e registrare gli arrivi di due campioni, entrambi docenti, come Pancho Pardi e Paul Ginsborg. Il primo rivede, ça va sans dire, i suoi girotondi («Hanno la stessa speranza»). Il secondo, storico che considerava Berlusconi una minaccia per la democrazia, ha messo a disposizione la sua Libertàgiustizia, foglio web, per annunciare: «L’Italia si muove e nel profondo del mare si distinguono banchi interi di piccoli pesci italiani. Imperativo capirne il motivo. Benvenuti sardine». E «benvenuta» è stata Francesca Pascale che, in un’intervista all’Huffington Post, le ha salutate con entusiasmo e attenzione, a conferma che a destra si è liberi: anche di parlare bene delle sardine. Ma si può dire altrettanto di uno che voleva chiudere il Salone del Libro di Torino a tutti gli autori ritenuti di destra? Celebre per la sua lista di autori maledetti da inseguire e zittire, a dare alle sardine (cattivi) consigli si è fatto avanti Christian Raimo, scrittore e docente, che chiede in un tweet: «Una battaglia durissima per l’abolizione dei decreti sicurezza». Più composta la cantante Fiorella Mannoia. Ha postato una foto con l’invito un po’ sovranista: «L’Italia chiamò». La verità? L’ha detta Santori: «In passato abbiamo chiamato tanta gente della cultura e dello spettacolo. Ci hanno detto tanti no. Non avevano il coraggio di esporsi». Oggi hanno tutti voglia di esibirsi.

Altro che pacifismo. Le tonache “rosse” aizzano le sardine alla disobbedienza. Marta Lima giovedì 12 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. I preti di strada fanno il tifo per le Sardine. Il movimento civico nato in chiave anti-odio e anti-razzismo che in questi giorni ha ricevuto autorevoli endorsement anche dai vertici della Chiesa. Come il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, che ha detto che bisogna saper cogliere la spinta positiva del movimento e metterla al servizio per il bene del Paese. Per non parlare dell’ex segretario della Cei Galantino, che ha manifestato la sua simpatia per il movimento rammaricandosi del fatto che a volte siano ridicolizzati. Il missionario pacifista Alex Zanotelli, invece, è addirittura sceso in piazza con le Sardine a Napoli: «Ci tenevo ad esserci, è importantissimo», afferma all’Adnkronos. E le tonache rosse preparano anche lo “sbarco” a Roma…

Dagli altari al palcoscenico della politica. A Roma, il rettore della Basilica di Sant’Eustachio sarà “idealmente” con loro a piazza San Giovanni: “Avrei tanto voluto esserci di persona. Sabato ho l’inaugurazione del presepe della nostra Basilica ed essendone il rettore non posso esimermi, ma idealmente sarò con le Sardine al 100%”, dice don Pietro Sigurani. Nei giorni scorsi anche l’ex direttore di “Civiltà Cattolica” padre Bartolomeo Sorge ha elogiato il movimento: “Il pesce delle piazze di oggi (le ‘sardine’) è – come il pesce dei primi cristiani – anelito di libertà da ogni ‘imperatore’ palese o occulto». Un giudizio condiviso da don Sigurani che fotografa la realtà del Paese: «Parliamoci chiaro: la situazione è grave, diventata inevitabile pure la marcia dei sindaci del Paese con la Segre. Ma credo che il vento stia cambiando. Il movimento può essere l’occasione giusta per un cambio di passo, è importante che smuovano la gente».

Padre Alex Zanotelli benedice le Sardine. La cosa “importante”, analizza padre Zanotelli, è che “si tratta di un movimento che è partito dai giovani. E’ una cosa fondamentale che abbiano capito l’importanza di scendere in piazza, uscendo così dal letargo, dal mondo virtuale di Facebook o degli altri social dove ci si parla addosso. Non si vedeva da tanto tempo in Italia una mobilitazione così imponente da parte dei giovani”.

Don Pietro Sigurani, tra due giorni, sarà “idealmente” anche lui a piazza San Giovanni con qualche consiglio: ” lncomincino a tirare fuori qualche ideale, in piazza portino slogan non politici, ma messaggi che inneggiano al rispetto dell’altro, della persona umana prima di tutto. E’ fondamentale che promuovano i valori. Tirino fuori i cartelli sulla necessità di rimettere l’altro al centro. Questa non è ideologia, non sono slogan politici, servono slogan di vita, di valori: no alla paura dell’altro, l’altro è la nostra ricchezza. Io ho fatto un po’ di propaganda per loro, speriamo faccia breccia”.

«Devono imparare a disobbedire». Quanto agli slogan, le Sardine potrebbero ispirarsi ai manifesti che il rettore di Sant’Eustachio ha esposto sulla facciata. «Ho messo due cartelli. Uno dice “Signore, salvaci dai capi bastone”. I capi bastone scendano dal palcoscenico, chiudano il sipario e si mettano a pensare agli altri più che a se stessi. Nell’altro, ho scritto: “Signore, aiutaci a guardare l’unico capo bastone che si è lasciato inchiodare sulla croce”. I politici passano ogni giorno dalla chiesa, guardano con sorpresa, a volte li fotografano. Io spero servano a interpellare le coscienze, sarebbe ora”.

Padre Zanotelli che è sceso in piazza con le Sardine a Napoli, li ha visti all’opera. Perciò osserva: “Per diventare efficaci dovranno diventare più coraggiosi”. Il sacerdote pacifista non esclude la “disobbedienza civile ma beninteso: importante riescano sempre a mantenersi non-violenti. Pensino anche ad alcuni obiettivi, alleanze con Fridays For Future? L’importante è che si muovano nell’ottica di mettere insieme le persone. E’ interessante in un momento in cui a livello mondiale tanta gente sta scendendo in piazza.

Ecco tutti i "preti rossi" affascinati dalle "sardine". I "preti di strada" iniziano ad aderire al "movimento delle sardine". Per questi ecclesiastici, la situazione è grave. Sono i soliti anti-Salvini. Francesco Boezi, Giovedì 12/12/2019, su Il Giornale. Dal "digiuno a staffetta" per protestare contro i porti chiusi di Matteo Salvini alle "sardine" il passo è breve. E infatti i "preti di strada" non si sono smentiti, manifestando prossimità agli anti-salviniani del movimento nato nelle piazze italiane e arrivando persino a condividere la strategia di fondo, che è anzitutto quella della rimostranza pubblica. Nel corso di queste ore, gli appelli si sono moltiplicati. Prima di oggi c'era stata qualche adesione formale, come quella di Suor Giuliana Galli, che non si è limitata alla banale approvazione. Padre Bartolomeo Sorge, gesuita, aveva persino paragonato il simbolo dei primi cistiani con quello utilizzato dalle "sardine". Ieri, poi, è stato il turno della "simpatia" provata dall'ex segretario della Cei Nunzio Galantino. I virgolettati dell'ex vertice dei vescovi sono arrivati attraverso una trasmissione andata in onda su Radio Capital, Ma è in queste ore - magari proprio in virtù dello sdoganamento di Nunzio Galantino - che la questione sembra divenire sempre più seria e partecipata. Perché c'è una parte di Chiesa cattolica che non intende nascondere di condividere le preoccupazioni di chi - in queste settimane - continua a far parlare di sè, pur contestando un partito politico che siede all'opposizione.

Stando a quanto riportato dall'Adnkronos, è lecito raccontare di come padre Alex Zanotelli - da sempre considerato vicino a posizioni progressiste - abbia invitato le nuove generazioni ad alimentare una vera e propria azione "contro l'odio", rimarcando pure come sia necessario "più coraggio". La scorsa estate padre Alex Zanotelli si era fatto promotore, assieme ad altri "preti rossi", di quel "digiuno a staffetta" sopracitato. Bisognava garantire l'accoglienza dei migranti. Adesso il governo è cambiato, così come l'atteggiamento nei confronti di coloro che cercano rifugio sulle nostre coste, ma le istanze di Zanotelli sono sempre le stesse. E puntano comunque a contrastare l'ex ministro dell'Interno e la sua piattaforma ideologica.

Poi c'è il caso di Don Sigurani, che ha constatato come, dal suo punto di vista, la "situazione" sia "grave". Quindi le "sardine" e il loro modo di declinare sul pratico quel sentimento sono più che utili. Un altro di questi preti che ha già dato prova di vicinanza alle sardine è Don Biancalani, che è però finito in una sorta di bufera mediatica derivante dall'esecuzione di "Bella Ciao" nella chiesa in cui è incaricato. Le convinzioni sono comuni, mentre la novità - come premesso - è rappresentata dalla costanza con cui questi ecclesiastici distribuiscono giudizi positivi. In alcuni casi, sembra che i consacrati vogliano premiare solo la partecipazione politica dei giovani.

In questo senso, per esempio, possono essere interpretate le parole del segretario di Stato, il cardinal Pietro Parolin. In altri, invece, si può arrivare ad immaginare un'alleanza organica tra alcuni emisferi clericali e le "sardine". E le "sardine" incassano sostegno, nonostante la loro provenienza idealistica non appaia troppo compatibile con quello che la Chiesa cattolica ha, almeno negli anni passati, espresso in termini valoriali. Si pensi, per esempio, alle battaglie del cardinal Camillo Ruini per i "valori non negoziabili". Lotte che sembrano distanti anni luce dalle priorità del sardinismo, che guarda da tutt'altra parte. La storia però è cambiata. E magari anche l'Ecclesia.

Cosa ci fanno le sardine in un asilo? A Genova i bambini di un nido hanno disegnato e colorato le sardine usate nella manifestazione del 28 novembre dai manifestanti. Panorama il 13 dicembre 2019. I fatti. Il 28 novembre a Genova c'è stata la manifestazione delle "sardine"; in piazza cartelli, fogli, cartoncini con il pesce azzurro in mille colori. Si scopre però che alcuni di questi disegni usati in piazza siano stati realizzati dai bambini di un asilo nido comunale del centro storico. L'asilo in questione, il Vico rosa situato nel centro storico di Genova, è stato dato in gestione dal Comune alla cooperativasociale Mignanego. I responsabili, scoppiata la polemica politica, hanno replicato serenamente che del progetto di far disegnare e colorare le sardine per la manifestazione erano state avvisate le famiglie e solo una si era lamentata (a lavoro concluso) perché secondo loro si sarebbe trattato di "attività politica". "Ai genitori avevamo spiegato - si sono difesi dall'Asilo Nido - di cosa si trattava dicendo che chi avesse avuto qualcosa in contrario invece delle sardine avrebbe potuto disegnare un totano o una balena...". Insomma, sardina o totano per le maestre poco cambiava. E invece no. Ed il discorso non è rivolto solo alle "Sardine" o al caso specifico, ma è un discorso generale. La Politica deve stare fuori dalla scuola, soprattutto da quella dei bambini. E deve starci fuori sempre. Quella di destra, quella di sinistra, quella di partito o quella apartitica, ma pienamente politica, come le sardine. Quei bambini dovevano solo disegnare e colorare. Facciamoli disegnare e colorare Babbo Natale o un Presepe. E invece li si è usati per una cosa politica. E questo è sbagliato. Sempre.

Le sardine da portare in piazza dipinte dai bambini dell'asilo nido, polemica a Genova. "Ma le hanno chieste i genitori". Protesta la Lega. Interrogazione in Comune sui disegni per la manifestazione. La rappresentante della cooperativa che gestisce la struttura: "Dfficile un laboratorio politico con bambini di tre anni". La Repubblica il 12 dicembre 2019. Bambini del nido, di meno di 3 anni, coinvolti dalle maestre nei disegni di sardine per la manifestazione che si è svolta in piazza De Ferrari il 28 novembre scorso. La denuncia di quanto accaduto nelle aule dell'asilo nido Vico Rosa, nel centro storico di Genova, è stata al centro delle interrogazioni in Consiglio comunale da parte di esponenti del centrodestra, Marta Brusoni (Vince Genova) e Lorella Fontana (Lega). Le due hanno stigmatizzato la vicenda e chiesto all'amministrazione cosa intenda fare nei confronti di chi gestisce la struttura scolastica. L'asilo, di proprietà comunale, è stato affidato alla cooperativa sociale Mignanego attraverso un bando pubblico nel 2015 con una concessione decennale. L'attività di laboratorio, anche se realizzata dalle maestre dopo aver chiesto l'autorizzazione dei genitori, è all'attenzione del Comune. All'interrogazione ha risposto l'assessora alla Cultura Barbara Grosso, in vece del vicesindaco Stefano Balleari: "Il nido essendo assegnato con bando pubblico è sottoposto regolarmente a un monitoraggio da parte del Comune, l'ultimo è stato compiuto nella primavera del 2019, ed è stato appurato che al tempo il progetto pedagogico era declinato in maniera corretta". L'assessore ha però sottolineato che il Comune ha deciso di "convocare i responsabili della cooperativa per affrontare e comprendere la dinamica dei fatti accaduti". Il gruppo consiliare della Lega ha richiesto una commissione sull'argomento, mentre sul caso si è pronunciato anche Roberto Calderoli, vice presidente leghista del Senato: "Giù le mani dai bambini! Non entro nel merito dell'episodio specifico di una scuola genovese dove maestre di un asilo avrebbero fatto disegnare delle sardine ai bambini di tre anni in concomitanza con una loro manifestazione. Non mi interessa sapere se sia così oppure no, ma registro che da troppo tempo nelle nostre scuole ci sono cattivi maestri che fanno politica dalla cattedra e questo non lo possiamo accettare. Giù le mani dai bimbi, la politica si fa altrove, non dalla cattedra. Altrimenti si cambia mestiere". In serata però arriva però la spiegazione di quanto accaduto da parte di una delle educatrici. "E' difficile pensare in che cosa consisterebbe un laboratorio politico con bambini di tre anni - dice Paola Campi, legale rappresentante della cooperativa sociale Mignanego e responsabile dei servizi - questo tipo di laboratorio era stato chiesto da un gruppo di genitori, noi collaboriamo da sempre con i genitori. Abbiamo informato tutti, attraverso la nostra chat su Whatsapp, che era stata richiesta questa attività e abbiamo scritto che se qualcuno fosse stato contrario poteva anche dircelo privatamente. In questo caso, per non discriminare, a quei piccoli avremmo fatto disegnare un totano o una balena. Nessuna lamentela è arrivata e solo al termine dell'attività una mamma ha fatto polemica, dicendo che era stata svolta un'attività politica".

Carmelo Caruso per “il Giornale” il 12 dicembre 2019. Ne ragiona e ne conclude che «sono un fenomeno di moda» e come la moda di certo irresistibile, ma anche effimera. E dunque, per Marco Tarchi che è docente di Scienze politiche all' università di Firenze, ma anche uomo riservato che ha studiato a fondo la destra, il movimento delle sardine è per paradosso non un segno di vitalità a sinistra, ma il risultato della sua frustrazione. Di sicuro «le sardine dovrebbero avere idee, visioni del mondo e non solo slogan».

E però, tutti le adulano, i sondaggisti le pesano e professori come Romano Prodi e Mario Monti le promuovono. Lei che idea si è fatto sulle sardine?

«Che è un fenomeno di moda, come molti altri del passato, pieno di umori ma scarso nei contenuti, che si proclama apartitico ma di fatto raccoglie spezzoni delle varie sinistre radicali, le cui parole d' ordine richiamano come ha ammesso giorni fa lo stesso leader in una trasmissione radiofonica («Un giorno da pecora», ndr) il repertorio dei centri sociali: no borders, diritti lgbt, femminismo, accoglienza indiscriminata dei migranti...».

All'inizio li ha uniti l'antisalvinismo, oggi c'è un po' di tutto e tutti ci nuotano dentro.

«È, di fatto, un tentativo di far sì che questo microcosmo, in nome dell' antisalvinismo, si riavvicini alla sinistra istituzionale, Pd in testa. Come tutti i movimenti collettivi, passerà progressivamente dall' euforia e dal protagonismo alla divisione e alla marginalità».

Al momento conosciamo il loro manifesto politico che recita rivolgendosi alla destra: Non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare. È ubriacatura da entusiasmo o sono scorie di un vecchio linguaggio ideologico?

«Entrambe le cose. Ma, come tutti i movimenti di protesta, per vivere hanno bisogno di designare un nemico contro cui mobilitarsi: Salvini è il bersaglio ideale. L'ideologia c'è, ma in una forma diluita e confusa».

Per alcuni, le sardine, stanno iniziando a riempire il vuoto che progressivamente lascia il M5s, per altri sono popolo di sinistra deluso. Per lei? Sono l'uno o l' altro o forse altro ancora?

«La composizione delle loro piazze è eterogenea. Senza dubbio è un'inaspettata fonte di conforto per molte persone di sinistra frustrate dagli insuccessi degli ultimi anni, a cui il ritorno fortunoso del Pd al governo non poteva bastare per riprendersi. Che possa costituire un sostituto funzionale del M5s mi pare improbabile: qualunque giudizio se ne dia, il movimento fondato da Grillo e Casaleggio senior raccoglieva e saldava una serie di istanze anti-establishment piuttosto ampia e non risparmiava, nelle sue critiche, nessuno dei soggetti politici che considerava corresponsabili del degrado della politica italiana».

Il Pd li ha inglobati, i vecchi girotondini ci rivedono la giovinezza perduta e i loro sogni consumati. A che stadio siamo arrivati?

«Qui siamo ancora allo stadio delle esternazioni circoscritte ad un solo bersaglio, Salvini, e nei confronti di alcuni dei pilastri dell' establishment, Pd in testa, non c' è alcuna vera ostilità. Sono fenomeni diversi e per più di un verso lontani».

Si è detto che le sardine sono per la bella politica, ma finora rifiutano simboli politici, si tengono a distanza. È una contraddizione, un ossimoro?

«Non è detto che la bella politica debba avere simboli. Ma di sicuro dovrebbe avere idee, progetti di società, visioni del mondo, programmi d' azione, non solo slogan. Può darsi che questo movimento ne produrrà, ma è sicuro che, non appena preciserà obiettivi e moventi, inizierà a sfilacciarsi. Ai nostri tempi, le mode si consumano in fretta. Questa rischia di durare, tutt' al più, il tempo di una campagna elettorale».

Mario Ajello per il Messaggero il 13 dicembre 2019. C'è già maretta tra le Sardine. Dai territori, in vista della piazza di San Giovanni domani, arrivano malumori. Rivolti a Mattia Santori: «Si comporta da piccolo Stalin. Vuole decidere tutto lui per la scaletta della piazza romana. Che cosa si può dire, che cosa non si può dire, come bisogna comportarsi...». Il leader fa il leader ma nel sardinismo la leadership di Mattia, e la sua sovraesposizione mediatica, a qualcuno non piacciono granché. Anche se con Stephen Ogongo, il capo delle Sardine quirite - a cui Santori non aveva perdonato l'invito in piazza a quelli di Casa Pound con diluvio di polemiche e lo aveva semi-commissariato - ieri sarebbe tornato il sereno. E infatti l'Ogongo silenziato in questi giorni ha riconquistato la parola e lo ha fatto così: «Andremo in piazza non per dare risposte ma per porre domande: è ancora possibile costruire una società senza odio, una società di pace? E' mai possibile un nuovo umanesimo?». Che poi è la formula che piace al premier Conte e infatti a Conte piacciono le Sardine mentre agli skiantos «Piaccion le sbarbine» (loro celebre hit, che potrebbe risuonare a San Giovanni insieme alle canzoni di Fabrizio De Andrè). Ma a parte le polemiche interne sul «commissario politico» - così potrebbero chiamare Mattia, ma non è un tipo di espressione da linguaggio sardinico - c' è ancora da vedere quanta gente andrà in piazza. Ma se ne prevede moltissima. «Io per rispettarli non ci andrò», dice Nicola Zingaretti. Ma dal Nazarerno fanno sapere: «Per curiosità molti dei nostri andranno a buttare un occhio alle Sardine, senza simboli di partito naturalmente». La Fiom ha deciso di aderire in massa, e lo storico servizio d' ordine del sindacato rosso sta dando dritte ai volontari che si occupano della sicurezza della piazza di sabato. E agli espertissimi katanga della Fiom arrivano dai ragazzetti domande ingenue: «Ma se quelli di Casa Pound cominciano a provocare, noi come dobbiamo reagire?». Non sarà facile rapportarsi ai «fascisti del nuovo millennio». Che confermano con il loro leader Di Stefano: «Arriveremo in piazza ma non in corteo. In ordine sparso. Sono sicuro che sarà una piazza di ragazzi ben sistemati, borghesi, non troveremo certo gente da periferia».

IL «DIBBATTITO». Di sicuro non sarà una piazza coatta. Si annuncia, ma speriamo bene, molto perbene. Le Sardine hanno stilato infatti una mappa dei valori, che faranno circolare a San Giovanni, molto educata. Punto primo: «I numeri valgono più della propaganda e delle fake news». Punto 3: «La testa viene prima della pancia, o meglio: le emozioni vanno allineate al pensiero critico». Punto 7: «Non siamo soli, ma parte di relazioni umane». Punto 9: «Riconoscere negli occhi degli altri, in una piazza, i propri valori è un fatto intimo ma rivoluzionario». Ultimo punto, il 10: Se cambio io, non per questo cambia il mondo, ma qualcosa comincia a cambiare». Eccole insomma le Sardine. La sindaca Raggi andrà da loro? No - non sia mai che qualcuno la contesti.... - ma empatizza con loro. E tra i grillini in Parlamento è incorso il «dibbattito»: «Andare o non andare?». Molti andranno. Così come Alba Parietti: «Ma quelli di Casa Pound non li voglio». E la cantante Paola Turci. E probabilmente la Mannoia (già girotondina come Pancho Pardi a sua volta sardina categoria senior come il sociologo Revelli o Mario Monti), per non dire dello scrittore Erri De Luca, ex duro negli anni di piombo e cattivo maestro: «Certo che vado in piazza sabato. Le Sardine rianimano la democrazia». E fanno bene all' anima, secondo padre Zanotelli, il leader dei movimenti arcobaleno negli scorsi decenni, a sua volta sardina entusiasta. Come i «preti di strada». Come la Chiesa che addirittura con Parolin ha battezzato la bellezza delle Sardine e ora le vorrebbero invitare anche in Vaticano. Il cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per lo Sviluppo umano integrale, non disdegna l' ipotesi di un dialogo con il movimento: «Prima dobbiamo conoscere le cause della popolarità poi aspettiamo una mossa della Cei e solo dopo scendiamo in campo». Potrebbe arrivare il saluto di Greta alla piazza, che è green quanto lei. Mentre un problemino lo sta creando Genova. In un asilo le maestre hanno fatto disegnare sardine colorate ai bimbi, per la manifestazione nella capitale ligure, il centrodestra sta insorgendo ma pare ci sia stato il permesso dei genitori. Ma chi sono davvero le Sardine? Dice il sondaggio di Antonio Noto: «Hanno un potenziale elettorale del 20 per cento». Il 42 per cento sarebbero ex elettori Pd e il 22 per cento ex grillini.

Sardine, rivolta interna contro Mattia Santori: "Piccolo Stalin, vuole decidere cosa non si può dire". Libero Quotidiano il 14 Dicembre 2019. A meno di 2 mesi dalla nascita, è già guerra civile dentro le sardine. Il Messaggero parla di "maretta" tra Mattia Santori e gli organizzatori della manifestazione romana di piazza San Giovanni, in programma sabato 14 dicembre. "Si comporta da piccolo Stalin - è l'accusa dei romani al 31enne bolognese, inventore del flashmob di piazza Maggiore contro Matteo Salvini a inizio novembre -. Vuole decidere tutto lui per la scaletta della piazza romana. Che cosa si può dire, che cosa non si può dire, come bisogna comportarsi...". Qualche dubbio era già sorto, vista la sovraesposizione mediatica di Santori, che nel giro di pochi giorni ha di fatto cancellato i 3 amici che avevano organizzato l'evento bolognese insieme a lui diventando, di fatto, la voce e il corpo delle sardine in tv. Tra Santori e Stephen Ogongo, il capo delle Sardine quirite che aveva invitato addirittura CasaPound in piazza, "sarebbe tornato il sereno". Meglio non mettersi contro il "commissario politico" Santori, a cui basta un pollice verso esibito a La7 per azzoppare qualsiasi manifestazione anti-Lega.

Sardine, presenza imbarazzante in piazza a Roma: "Meloni e Salvini parafascisti". Sì, c'è anche lui. Libero Quotidiano il 14 Dicembre 2019. Anche Luigi Saraceni - padre di Federica, l' esponente delle Nuove Brigate Rosse condannata, in via definitiva, a 21 anni e sei mesi di reclusione nel processo per l' omicidio di Massimo D' Antona - si schiera con le Sardine. In un post su Facebook, l' uomo ha annunciato che potrebbe essere in piazza a Roma, dove il movimento si ritroverà - dalle 15 - in piazza di Porta San Giovanni. «Non so se il 14 ce la farò ad andare alla manifestazione delle sardine. Chiunque può deve andare, piazza San Giovanni deve tornare ad essere nostra». Saraceni non fa mistero delle sue posizioni politiche: in un altro post ha attaccato le «spudorate menzogne di Meloni e Salvini a proposito del Mes. L' orribile duo parafascista fonda la sua propaganda sulla paura, accusando il governo di alto tradimento e di versare il sangue degli italiani».

Sardine, l’organizzatore romano: «Io e le mie figlie sul palco ma ci manca la cittadinanza». Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. Il giorno delle sardine è arrivato, Stephen Ogongo. È tutto pronto?

«Sì, siamo pronti, anche i nostri scenografi volontari hanno ormai ultimato il lavoro e la maxisardina di San Giovanni sta per uscire finalmente dall’hangar di via Salaria. Sarà una bella sorpresa».

Centomila, un milione. Quanti sarete oggi in piazza? Ci saranno le tv di mezzo mondo: la Cnn, Al Jazeera. Paura di un flop?

«No, perché? Più che il numero, conterà il messaggio. Sarà la festa nazionale delle Sardine, una festa di famiglie, di gente felice che vuole vivere in armonia, stanca dell’odio, della politica urlata, innamorata della Costituzione italiana. Dal palco ne leggeremo gli articoli, di sicuro almeno i primi tre».

L’idea delle Sardine a Roma venne a lei neanche un mese fa.

«Sì, era martedì 26 novembre. Verso mezzanotte mi misi al computer, lanciai quest’idea e andai a dormire senza aspettarmi nulla. Il mattino dopo, però, c’erano 10 mila persone che chiedevano di partecipare. Di lì è cominciato un lavoro enorme, per cui ho trascurato molto anche la mia famiglia, mia moglie Marie-Jeanne, le mie figlie Florence e Ashley. Che oggi saranno in piazza con me».

Le sue figlie sono nate in Italia?

«Sì, ormai parlano il dialetto, amano la pasta al pesto, eppure dovranno aspettare di compiere 18 anni per diventare cittadine italiane. Una legge assurda. Perciò mi batto per lo ius soli. Io sono un giornalista keniano, ho 45 anni, da 25 vivo in Italia e sto ancora aspettando la cittadinanza...».

Teme che oggi vengano quelli di CasaPound?

«Non credo che verranno. Non credo che un fascista vada a una manifestazione antirazzista e antifascista dove si canta Bella ciao, dove ci saranno Carla Nespolo (la presidente dell’Anpi, ndr) e Pietro Bartolo (il medico di Lampedusa, oggi europarlamentare del Pd, ndr). Purtroppo si è equivocato sulle mie parole. Quando dissi che in piazza è ammesso chiunque, pure uno di CasaPound, era una sfida a riconoscere i nostri valori. Solo chi vi aderisce è benvenuto. La piazza delle Sardine resta libera e antifascista».

Prodi, Patti Smith, il cardinale Parolin, ieri anche il premier Conte ha espresso simpatia verso di voi...

«Magari oggi venisse il Papa! Dopotutto, San Giovanni è la sua Chiesa. Ma qui non contano i personaggi. Qui sta avvenendo un fenomeno straordinario: le Sardine siamo noi, sono la gente comune che finalmente si autorganizza per dire no all’odio, per cambiare il linguaggio della politica. Ecco perché comunque questa giornata rimarrà nella storia e non bisognerà attendere domani. Qualcosa infatti, lo sento nell’aria, è già cambiato».

Proprio domani, però, sempre a Roma, vi vedrete voi organizzatori delle tante piazze italiane delle Sardine. Alla fine nascerà un partito?

«Ma che discorsi! Questo è un fenomeno nuovo, le Sardine sono nate un mese fa. Noi siamo come un bambino appena nato. Non puoi chiedergli mica di mettersi subito a camminare, a correre. Un bambino va lasciato crescere in pace. E non puoi mai sapere che strada prenderà».

Appello alle sardine: non grillizzatevi. Biagio De Giovanni il 13 Dicembre 2019 su Il Riformista. A Beh, il fenomeno è imponente. Come una realtà che d’improvviso esce dal sottosuolo e si scoperchia, ed è assai facile prevedere ciò che avverrà sabato a Roma, immagino qualche centinaio di migliaia di persone, forse più, che “impersoneranno” le sardine. Insofferenza verso un clima, giustamente si dice, qualche volta con un eccesso euforico-retorico, ma la cosa è verissima. Non vorrei, però, ripetere la litania; se si decide di scrivere su un tema, è inutile stare a ripetere il già detto, anche se questo già detto è fondato, e si può riassumere assai in breve così: c’è una rivolta contro il clima di paura, di intolleranza e di odio, che di certo Salvini ha contribuito ad aprire in Italia. L’altro giorno 600 sindaci stretti intorno alla senatrice Segre. Ma detto questo, come andiamo avanti? C’è un paragone con le microparticelle della fisica quantistica che mi spinge a riflettere. Che c’entrano, si dirà? Possono entrarci, con un minimo di fantasia. Quelle particelle si muovono nella trama sottile del vuoto, e ribollono in una miriade di microscopiche fluttuazioni. Dicono gli astrofisici che il principio di indeterminazione (da noi “terrestri” corrisponde al vuoto dei partiti) consente la formazione temporanea, nel vuoto, di microscopiche bollicine di energia, a patto che esse scompaiano rapidamente. Ma poi avviene una specie di miracolo. Questa minuscola fluttuazione quantistica si gonfia a dismisura, spinta da un processo che viene chiamato di inflazione cosmica. E dà vita a un universo, al nostro universo, nel quale, per una straordinaria serie di coincidenze, oggi viviamo. Irresistibilmente le sardine mi hanno richiamato questa situazione. D’improvviso, un moto vorticoso nel vuoto, nel cosmo miliardi di particelle in moto, qui da noi un po’ meno di numero, ma vale lo stesso. Se non decidono a farsi universo, sono destinate a scomparire anche al canto di Bella ciao, che si sentirà sempre più flebile fino al silenzio. Che cosa può dire farsi universo? Qui viene il difficile. Per carità! E mi rivolgo a loro: non fatevi partito, con relativo progetto per l’Italia, e relative tabelle di scadenze temporali, a cominciare dall’evasione fiscale, ben s’intende. Ma non fatevi il doppione dei Cinque stelle al giorno d’oggi. Molti vi vedono così, attenzione! Come siete puri, puliti, sani, pane al pane, con quel che segue, vi ricordate Grillo? E poi oggi li vediamo in azione i Cinque stelle, e qualcuno inorridisce. È vero che già siete tanto diversi, non violenti, non gridati, eppure una tentazione può esserci. Ma ecco il punto vero: voi potete essere un pezzo di Italia che riemerge dopo esser stata sopraffatta dai populismi, attenzione dai populismi, non solo dal sovranismo populista leghista. Lo spettro critico va ampliato e insieme determimato. Non basta dire che l’Emilia “non si lega”, anche se lì, posso capire, c’è il voto di gennaio, ma passato il voto, lo spettro critico va determinato e ampliato: essere contro i populisti non può significare identificarsi con l’opposizione a Salvini, perché la prateria a Salvini la ha aperta il rancore millenaristico dei Cinque stelle, le vecchie particelle quantistiche che, per non scomparire secondo logica cosmica, si sono nascoste nelle pieghe del governo, e lì compaiono e scompaiono, secondo opportunità. Ma ancora vi portano il loro disprezzo per lo Stato di diritto, il loro efferato giustizialismo e il “non si sa che vogliamo” su qualsiasi tema, e l’odio appena nascosto sotto una patina di rispettabilità, Bibbiano insegni. Mi rivolgo direttamente alle sardine. Non prendete questo mio discorso come lo stucchevole consiglio, per di più di un ultraottuagenario, basta con i consigli. Ho provato solo a riflettere sulla soddisfazione insoddisfatta per il vostro apparire sulla scena. Vorrei togliere, per quel che mi riguarda, l’aggettivo usato, molti di noi si mettono in attesa. E ricordatevi della storia delle particelle cosmiche.

La bufala "pancia a destra, testa a sinistra". Francesco Maria Del Vigo, Martedì 10/12/2019, su Il Giornale. L'Italia non ha un problema politico, economico o sociale. Ha un problema dietologico. L'Italia ha la pancia. È evidente, lo dicono tutti gli osservatori più scrupolosi. Se vince il centrodestra, se qualcuno si lamenta dell'immigrazione o della scarsa sicurezza delle nostre città, è perché pensa, sceglie e dunque vota con la pancia. Ha bisogno di un nutrizionista, magari di una dieta a base di sardine. La moda curvy in politica non riscuote successo; meglio la magrezza del pensiero unico. Non si capisce secondo quale bizzarra anatomia politica la pancia debba essere dislocata a destra, mentre la testa a sinistra. Uno degli slogan più spesso ripetuti dalle giovani sardine è proprio questo: noi parliamo alla testa degli italiani. E giù applausi scroscianti per questa rivoluzione comunicativa, questa svolta nordistica della geografia ideologica. Anche Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, uno che per professione dovrebbe auscultare anche le parti più basse della società, si infila in un banco di sardine e dice: «Finalmente qualcuno si rivolge alla testa e all'intelligenza delle persone». «Diciamo che noi proviamo a riempire il cervello delle persone prima che qualcuno riesca a riempire la loro pancia», annuncia, con compiacimento mediatico, Mattia Santori. Il quale probabilmente pensa di avere davanti a sé un sacco di crani vuoti da riempire con la sac à poche del buonismo, come un pasticcere con i bignè. Ed è proprio questo che ci spaventa: che qualcuno voglia riempirci la testa di sardine (sarà per questo che si dice che il pesce puzza dalla testa?). Difendiamola questa povera pancia, non solo perché chi scrive è proprietario di un buon esemplare di essa, ma perché la testa, con la pancia vuota, va a sbattere. Per terra. È una questione medica. E una certa sinistra - che da sempre si infila nel taschino, come fosse una bandiera, la pochette dell'impegno per gli ultimi - forse dovrebbe ricominciare a parlare alle teste di quelli che la pancia non sanno come riempirsela. Che non sanno come mettere insieme il pranzo con la cena e, inevitabilmente, non hanno tempo da perdere per scendere in piazza e fare l'opposizione all'opposizione. Cioè a costituirsi pretoriani del governo. E mentre gli italiani si sono rotti qualcosa più a meridione della buzza, servirebbe una classe politica che mettesse in collegamento la testa con la pancia. E magari che dimostrasse di possedere anche un po' di fegato.

Da adnkronos.com il 14 dicembre 2019. Sulle note della musica dei Beatles, ma anche di Mannarino, dei Pink Floyd, dei Rolling Stones e dei Queen, si è riempita piazza San Giovanni a Roma per il Sardine Day. "Roma non si Lega" è il coro scandito dai simpatizzanti delle Sardine riuniti davanti al palco della manifestazione. "Siamo i partigiani del 2020", scandiscono le Sardine dal palco. Gli organizzatori non hanno ancora comunicato i dati sulla partecipazione ma il colpo d’occhio fa pensare a una manifestazione riuscita con migliaia di persone. Tante le famiglie con bambini al seguito arrivate non solo da Roma ma da tante città italiane, da Bologna fino a Taranto e altre città del sud. La gente sta affluendo ancora dalle vie limitrofe verso il lato della piazza dove è posizionato il tir riadattato a palco da dove si susseguono gli interventi. Tanti i cartelli con il simbolo delle sardine e anche banchetti con i nuovi gadget del movimento. Non si sono visti, invece, bandiere o simboli dei partiti. Finora tutto si è svolto pacificamente. In piazza, tra gli altri, Paolo Flores d’Arcais, filosofo e giornalista, e Nichi Vendola. "Ci siamo riappropriati di piazza San Giovanni", dice al microfono uno degli organizzatori. Carla Nespolo, presidente dell'Anpi, prende la parola per portare il suo "solidale saluto" alla piazza: "Speranza è la parola che ci unisce. Lotta e speranza, futuro e presente da migliorare. E' venuta da voi una grande ventata di speranza e impegno democratico. Odio gli indifferenti, e io lo voglio dire forte: l'Anpi è con voi, i partigiani e le partigiane sono con voi. La Costituzione è il nostro faro e la nostra guida" ed "è antifascista, come vollero i costituenti". "Non è lecito a nessuno diffondere il razzismo, respingere le persone in base al colore della pelle, essere antisemiti", aggiunge.

LA PIAZZA INTONA "BELLA CIAO" - "Credo che a questo punto sia d'obbligo una canzone", dice uno degli organizzatori ddal palco, prima che le note di "Bella Ciao", intonate dai simpatizzanti, risuonino nella piazza della manifestanti, seguite dal coro "ora e sempre resistenza". SARDINE NERE - Dopo "Bella Ciao" è la volta dell'Inno di Mameli (VIDEO). "Basta razzismo", cantano alcuni ragazzi africani che si presentano come le "sardine nere". "Basta razzismo" e "via i decreti sicurezza", gridano i ragazzi delle "sardine nere". Dal palco della manifestazione una ragazza musulmana, col capo avvolto dall'hijab, facendo il verso al video-tormentone della leader di Fdi: "A Salvini e Meloni non piacerà la mia presenza... perché sono una donna, sono musulmana e sono figlia di palestinesi. Non vi permetteremo di aprire le pagine nere del passato, questo è uno Stato di diritto". Sul palco anche il medico di Lampedusa ed eurodeputato Pietro Bartolo. "Siete un popolo straordinario - scandisce - la sardina è un pesce povero ma fa bene, per questo mi sono unito a voi". "Oggi mi sento una sardina come voi, contro chi vuole seminare odio e paura - aggiunge fra gli applausi dei manifestanti - noi dobbiamo restare umani, io credo nella buona politica, che è un servizio e non quelle bugie che ci raccontano sui migranti, che sono donne, bambini, che vengono a cercare umanità e noi dobbiamo accoglierli perché non c’è alcuna invasione e insieme si può stare". "Il mare è crudele ma è più crudele il mare di indifferenza e per questo la politica deve dare risposte - ammonisce Bartolo - Noi siamo sardine e dobbiamo resistere, non permettere che venga calpestata la Costituzione e la nostra Europa. La buona politica deve occuparsi dell’emigrazione, non dell’immigrazione, dare le giuste risposte per un futuro migliore. Insieme ci riusciremo, io sono con voi", "insieme dobbiamo resistere e ritrovare la strada maestra, che è quella dell'umanità".

I MANIFESTANTI - "Vedo un nuovo ‘68, moderato meno urlato, vedo i giovani che finalmente sono usciti dal letargo", dice un manifestante di 71 anni, giunto dalla Toscana. Sostenitore negli anni passati del M5S, ma ora "deluso", mostra una copia della Costituzione italiana e un cartello con scritto "siamo stufi della politica urlata di bassa lega". Molti gli anziani in piazza, tra cui anche un 78enne arrivato da Firenze. "La cosa che mi ha entusiasmato è che siamo riusciti a riempire piazze che erano vuote da anni. Il difficile viene ora - avverte - di delusioni ne abbiamo avute tante". Tanti anche i giovani. "Questo movimento ci piace per la diversità dalla politica attuale fatta di propaganda e fake news, serve invece una politica concreta e basata su numeri e fatti reali" dice Giovanni, 23 anni, da Reggio Emilia. "Siamo stati alle manifestazioni di Bologna e di Reggio Emilia e oggi siamo qui a Roma per un’idea di un mondo più giusto e concreto dove si utilizzi la testa e non la pancia degli elettori" aggiunge Giancarlo, anche lui arrivato da Reggio Emilia.

"Siamo i partigiani del 2020". Le sardine a Roma tra Anpi e insulti. Sul palco di piazza San Giovanni giovani africani e musulmani, il medico dei migranti e le Ong. Il leader delle sardine a ilGiornale.it: "La differenza con la Lega è qualitativa, loro credono a messaggi semplici, qui c'è voglia di complessità". Alessandra Benignetti, Sabato 14/12/2019 su Il Gioirnale. Cantano “Bella Ciao”, poi l’inno d’Italia. Qualcuno grida dal palco: "Siamo i partigiani del 2020". L’esercito delle sardine arriva nella Capitale e getta la maschera. È un popolo di sinistra che ha le idee chiare e vuole riprendersi la scena politica. L’Italia che sognano è multiculturale e antirazzista. È l’Italia dei porti aperti alle Ong. Sono arrivati da tutto lo Stivale per protestare contro odio, violenza e discriminazione, anche se il collante che tiene unito questo popolo è proprio l’essere contro qualcuno. E quel qualcuno ha un nome e un cognome: Matteo Salvini. Sui cartelli che portano in piazza lo definiscono "uomo forte", quello che vuole "pieni poteri". Per tutti qui è un pericolo da arginare. "Un mese fa la piazza di Bologna lanciava un segnale, che era un allarme ma anche una voce di speranza – scandisce dal palco il leader dei pesciolini anti-leghisti, Mattia Santori - quando la bestia del populismo arriva nel tuo territorio hai due scelte: o perderti o stringerti". "La piazza di Bologna ha scelto di stringersi e dire da qui non si passa".

Per il primo appuntamento nazionale Santori ha scelto la stessa piazza riempita dal centrodestra che lo scorso ottobre protestava contro l’"inciucio" giallorosso. Il paragone viene spontaneo. "Innanzitutto quella era una manifestazione promossa da tre partiti, qui la gente è venuta di sua spontanea volontà e a sue spese – spiega a ilGiornale.it il ragazzo bolognese – non so ancora quanti siamo, se più o meno di loro, ma il confronto non è sui numeri bensì sulla qualità". "La gente che vota Lega crede a messaggi semplici, che puntano alla pancia, qui invece c’è voglia di complessità e di tornare a fare parte di una politica che ricominci dalle relazioni umane". Per Joy Olayanju, organizzatrice della piazza di Parma, il leader della Lega è un "razzista". "Sicuramente - ammette questa diciottenne di origini africane - in Emilia le sardine hanno contribuito a far aumentare la popolarità di Stefano Bonaccini". "Non so per chi voteranno", prosegue. Lei, invece, che nella cabina elettorale ci entrerà per la prima volta il prossimo 26 gennaio per eleggere il governatore della sua regione, non ha dubbi: sceglierà il candidato di centrosinistra. Sul palco si alternano la presidente dell’Anpi, Carla Nespolo, l’eurodeputato Pietro Bartolo e la portavoce della Sea Watch, Giorgia Linardi. "Siamo stati investiti da una fortissima campagna di criminalizzazione, dobbiamo abbassare i toni e non avere paura: il sovranismo non funziona perché è un paradosso", urla dal palco l’attivista. "Ancora oggi non mi rendo conto – accusa - di come sia stato possibile quel mare d'odio contro la nostra capitana Carola Rackete". "Dobbiamo denunciare il fatto – prosegue - che oggi chi ci rappresenta fa patti con l'inferno, con la Libia". "Salvini? È anti-democratico", non ha dubbi il medico dei migranti. Il motivo è che l’ex ministro dell’Interno "ha firmato dei decreti legge che fanno diventare un reato salvare una persona". A chiedere che vengano smantellati i decreti sicurezza sono anche le "sardine nere". Ragazzi stranieri “stufi di ricevere insulti per strada e di essere sempre fermati dalla polizia". "Non accettiamo più l'odio che domina la politica", dicono dal palco. Tra gli oratori c’è anche Nibras, una ragazza musulmana. Anche lei si scaglia contro Matteo Salvini e Giorgia Meloni: "Non vi permetteremo di aprire le pagine nere del passato, questo è uno Stato di diritto". "Questa è una piazza antifascista e antirazzista, solo chi abbraccia questi valori può essere qui oggi", ribadisce anche il portavoce delle sardine romane Stephen Ogongo, che mette a tacere tutte le voci sulla presunta apertura a Casapound. "Con loro non abbiamo nulla da dirci", conferma la presidente dei partigiani italiani. E in serata arriva anche l’endorsement del segretario del Pd, Nicola Zingaretti. "Grazie per aver reso Roma così bella, per la passione che ci mettete, per chiedere con tanta forza un'idea di politica inclusiva e sana", ha scritto su Facebook il leader Dem, che promette alle sardine che il Partito Democratico "farà di tutto per mettere in atto" le loro proposte. “Cambiamo insieme l’Italia”, è questo l’appello del capo del Pd. 

Anziani comunisti, giovani grillini delusi, famiglie e mondo Lgbt (tutti senza bandiere). Pubblicato domenica, 15 dicembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Roncone. La manifestazione delle sardine riempie piazza San Giovanni. Secondo la Questura i partecipanti erano circa 35 mila. Mattia Santori elenca sei proposte pensando a Matteo Salvini (che però non nomina), e dice: io candidato? Mai dire mai. SU 7 Lilli Gruber: «Lasciamo nuotare le sardine (prima di inscatolarle)». Dal cassone di un vecchio tir trasformato in palco: gran colpo d’occhio (ma bisogna stare sulle punte dei piedi). Piazza San Giovanni, pomeriggio di tramontana e politica, folla di sardine militanti che — adesso — cominciano a cantare «Bella ciao». Anche qui nessuna bandiera. Nessun colore. Nessun simbolo che non sia il pescetto stilizzato. C’è una presentatrice improvvisata che urla nel microfono «Libertà!/ Libertà!», c’è un situazionismo diffuso e allegro, fotografi e cameraman dietro qualche metro di nastro bianco e rosso da cantiere, i compagni della Fiom — e questa è la prima informazione importante per capire il Dna dei manifestanti — mettono un po’ di ordine. Poi si sente uno che dice: «Quelle sono due mie amiche. Fatele passare».Ecco Mattia Santori, il capo. Il suo sguardo ingenuo e sincero ha preso qualcosa di furbesco ed eccitato. La capigliatura riccia, per l’occasione, è tenuta stretta da un cerchietto (tipo rockstar). Un mese fa, quando tutto cominciò, furono in quattro a inventarsi su Facebook quello strepitoso flash mob in piazza Maggiore, a Bologna, contro il sovranismo di Matteo Salvini: ma dopo un mese e altre cento piazze è lui — 32 anni, laurea in Economia — ad essere diventato personaggio, e leader. Grappoli di interviste, ogni sera in tv, quei geniacci di Un giorno da pecora, su Radio 1, gli hanno fatto persino mangiare un piatto di sarde sott’olio e lui, un po’ tronfio, ha avuto la prima botta da piacione confessando di essere assediato da signore cinquantenni. Ma se deve spiegare cos’è, e cosa può diventare questo movimento, Mattia è sempre piuttosto fumoso («Vogliamo utilizzare arte, bellezza, creatività, ascolto»). Soprannome inevitabile: Supercazzola (in politica, basta un niente). Comunque questa folla non sembra troppo interessata ai messaggi, ai discorsi. Pochi applausi, pochi cori, ma moltissima voglia di esserci, di stare insieme. Famiglie al completo e giovani, anziani comunisti («Mi chiamo Nicola Fantasia, 83 anni, e finché c’è stato, ho votato Pci»), grillini delusi («Disgustata dal Pd, ho sognato con Grillo: ma mi sono ritrovata con quella sciagura di Di Maio aggrappato alla poltrona», dice Loredana Demin, 47 anni, impiegata). Poi rappresentanti del mondo Lgbt, boy-scout, Carla Nespolo, presidente dell’Anpi, accolta tra grida di evviva. Lei: «I partigiani sono con voi». Anche i Papaboys: «Sardine, moltiplicatevi», dice Daniele Venturi, presidente del movimento giovanile che iniziò a camminare con Giovanni Paolo II. Sul palco sta salendoPietro Bartolo, medico a Lampedusa per 28 anni. Alzano un cartello: «Salvini, fascista grasso».Si sparge la voce che, in un punto imprecisato della piazza, sia arrivata anche Francesca Pascale, la fidanzata del Cavaliere. Ma non ci sono conferme. I fotografi vanno allora a cercare Fiorella Mannoia e Paola Turci, che pure avevano annunciato la loro presenza. La Mannoia, in realtà, si entusiasma ciclicamente: c’era già ai tempi dei Girotondi di Nanni Moretti, quasi diciotto anni fa. Volendo per forza provare un paragone, questa piazza è forse un po’ meno radical-chic, meno twinset in cashmere e filo di perle, di quella girotondina, e meno arrabbiata di quella grillina. Ma certo appare come una limpida piazza di sinistra. Con dentro un popolo che aspetta di essere mobilitato, di avere un orizzonte. Si volta Erri De Luca, scrittore, poeta, ex capo del servizio d’ordine di Lotta continua: «Questa infatti è una magnifica piazza di smistamento verso il futuro».

Appunto: quale?

Inno di Mameli, poi Francesco De Gregori, «La Storia siamo noi/ nessuno si senta offeso…». Così torniamo dall’unico capo che c’è, Santori.

«Tra poche ore comincia una fase nuova» (si sistema il cerchietto, perché intanto è arrivata la troupe del Tg1).

Che significa?

«Le sardine non sono mai veramente esistite». Non la seguo.

«Vogliamo più amore nelle parole».

Ma su lavoro, immigrazione, Europa: che pensate?

«Intanto, non ci piacciono le fake news».

Intanto, avete registrato il marchio «Sardine».

«Ma non diventeremo un partito».

Lei prevede di candidarsi?

«Beh…».

Sì o no?

«Mai dire mai» (e si aggiusta un ricciolo).

Che strano, le sardine criticano l’opposizione…Dino Cofrancesco su Il Dubbio il 14 dicembre 2019. Le sardine, nelle loro adunate oceaniche, saranno pure poco violente in senso fisico ma, nella sostanza, rappresentano il prodotto delle nostre istituzioni educative. Che il movimento delle sardine riesca a riempire le piazze a far parlare di sé stampa, radio, tv, blog e twitter vari è innegabile. Che si tratti di giovani motivati e in buona fede è altrettanto certo. A molti hanno ricordato il ’ 68 ma, a mio avviso, a torto. Le differenze, infatti, sono varie e rilevanti. Innanzitutto, di natura ideologica. Il ’ 68 fu segnato da una forte componente marxista e di critica radicale al “sistema”( capitalistico, of course) e, inoltre dal disegno ambizioso di costituire un asse di acciaio tra le avanguardie studentesche e la classe operaia non ancora socialdemocratizzata. In secondo luogo, il terreno dello scontro, la posta in gioco. Gli studenti riprendevano la bandiera rivoluzionaria che i partiti della sinistra avevano riposto nell’armadio per chiamare a raccolta una società civile liberata dalle catene della morale borghese e del tradizionalismo cattolico. In terzo luogo, le “armi della critica”. Il ’ 68 fu contraddistinto da un’elevata erogazione di violenza che le frange più radicali avrebbero trasmesso alle Br. Nulla di tutto questo richiama il fenomeno delle sardine. In primis, la loro ideologia nella pars destruens, è ( almeno apparentemente) “leggera” e fatta di negazioni condivisibili – antifascismo, antisovranismo, antirazzismo etc. – mentre, nella pars construens, è costituita dagli ingredienti classici del “buonismo”, dalla filosofia dell’accoglienza alla condanna della guerra e dello sfruttamento della natura. L’obiettivo polemico, per venire al secondo punto, non è costituito dalle classi dirigenti economiche, politiche, religiose, come nel 68. E’ il ventre molle della società civile che esse odiano, sono i demagoghi che diffondono ansie e paure per il “diverso” e che, per questo, rappresentano una minaccia sia per la democrazia sia per l’etica universalistica ereditata dal cristianesimo e dall’illuminismo. Infine, gli strumenti di lotta. Le sardine sono non violente, ripudiano lo stile dei centri sociali, rifuggono dai pugni chiusi esibiti dagli antagonisti. E tuttavia, ricordate e sottolineate queste differenze, non mancano le analogie. Ad accomunare 68 e sardine, è per così dire il “momento francescano” ovvero la rivolta del Movimento contro le Istituzioni e il richiamo di queste ultime alla coerenza, al dovere di difendere i valori tanto sbandierati a parole coi fatti. Tali indubbie analogie confermano il fatto che sia negli anni ’ 60 che oggi, il senso dello Stato di diritto e l’etica liberale non sono mai entrati nelle nostre scuole. La democrazia è sempre stata intesa non come un sistema di regole, ma come un ‘ mezzo’ volto a procurare benessere e felicità ai popoli. La libertà politica è benedetta solo come «libertà per il bene» e i partiti hanno pieno riconoscimento morale e costituzionale solo se si pongono al servizio delle buone cause. In tal modo, i valori degli altri diventano disvalori, i loro programmi di governo attentati ai diritti dei cittadini. Cosa fanno i partiti di sinistra e gli organi di governo per porre argine a questa deriva? Di qui il paradosso, fatto rilevare da molti, di un movimento che non marcia contro il governo ma contro un’opposizione che potrebbe andare al governo: qualcosa che fa venire in mente non il 68 ma il «dì una parola di sinistra» dei girotondi d’antan, lo svegliarino dato i ‘ nostri’ che se ne stanno lì a guardare mentre la reazione avanza. Entrambi, sardine e sessantottini, sono i pasdaran di una nuova stagione culturale ma i secondi in nome di una classe operaia tradita, le prime in nome di una generica comunità politica rimasta priva di ancoraggi spirituali. Le sardine, nelle loro adunate oceaniche, saranno pure poco violente in senso fisico ma, nella sostanza, rappresentano il prodotto delle nostre istituzioni educative. Si dicono al di fuori della politica ma fascistizzando gli avversari, intonando Bella ciao per segnare una ‘ identità’ forte e divisiva, invitando a ‘ legare’ Salvini, tallonando il capitano nei suoi spostamenti, impedendogli di passeggiare nelle vie della città dopo un comizio ( che non possono impedire) – lo ha ricordato Paolo Armaroli in un articolo sul Dubbio di alcuni giorni fa – non rappresentano certo un modello di civiltà e di tolleranza in un Paese allo sfascio come il nostro.

Le Sardine a Roma: «Siamo in 100mila. E da domani inizia la fase due». Pubblicato sabato, 14 dicembre 2019 su Corriere.it da Nino Luca. Il discorso dal palco di Piazza San Giovanni a Roma del leader del movimento. «Vi do una notizia — dice a sorpresa Mattia Santori davanti alla piazza piena di San Giovanni — le Sardine non sono mai esistite! Qui ci sono le persone, cervelli che valgono più di un milione di like». Obiettivo raggiunto, esulta il 32enne bolognese, ormai capo-sardina nazionale. La piazza numero 113, quella di Roma, la più impegnativa da quando le Sardine sono nate un mese fa, ieri non ha tradito: «Siamo più di 100 mila», annunciano gli organizzatori. Per la prima volta, però, ecco il balletto dei numeri: per la Questura «35 mila persone». Comunque, un successo. E nessuna traccia di CasaPound nella piazza antifascista. «Siamo noi i partigiani del 2020», gridano a Carla Nespolo, presidente dell’Anpi. Susanna Camusso canta tra la folla Bella ciao. Tante le facce note: Isabella Ferrari, Michele Santoro, Erri De Luca. Dalle proteste alle proposte, Mattia Santori elenca 6 punti pensando a Matteo Salvini, che però non nomina: «Uno: pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare. Due: chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solo nei canali istituzionali. Tre: pretendiamo trasparenza dell’uso che la politica fa dei social network. Quattro: pretendiamo che il mondo dell’informazione traduca questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti. Cinque: che la violenza venga esclusa dai toni della politica. E anzi che la violenza verbale venga equiparata a quella fisica. Sei: ripensare, anzi abrogare, il decreto sicurezza». «E da domani inizia la fase due». Alla fine per loro tanti complimenti: «L’Italia s’è desta», twitta il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni. «Cambiamola insieme, la nostra bella Italia», l’invito del segretario dem Nicola Zingaretti. Applaude anche la sindaca M5S di Roma, Virginia Raggi: «Festa di popolo». Diversi i toni del centrodestra: «Ma non era la piazza dell’amore?», dice la leader di FdI Giorgia Meloni, riferendosi ai cori contro. Riccardo Molinari, Lega, è tranchant: «Elettori di centrosinistra che hanno vergogna di presentarsi con la bandiera del Pd». Oggi, per discutere su come riprendere a gennaio, i coordinatori delle 113 piazze si riuniranno nel palazzo occupato Spin Time, dove l’elemosiniere del Papa riallacciò la luce staccata dall’Acea. Ma Santori ha già le idee chiare: «Prima le elezioni in Emilia-Romagna e Calabria. Poi a febbraio la fase 3 e si ragionerà sui temi». In agenda anche un incontro con il premier Conte, a cui le Sardine «fanno molta simpatia».

Le Sardine erano solo 35mila. La piazza di centrodestra batte quella di Bella Ciao. Fortunata Cerri sabato 14 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Ancora una volta le note di Bella Ciao risuonano in piazza San Giovanni, a chiusura della manifestazione delle Sardine, con gli organizzatori che intonano la canzone simbolo della lotta partigiana, abbracciati sul palco. «L’idea era quella di riempire la piazza e cambiare un po’ la percezione della politica in questi anni», per questo «direi che l’obiettivo è stato raggiunto», ha detto Mattia Santori, leader delle Sardine.

I numeri. Ma secondo i dati della Questura di Roma, erano solo in 35mila. Gli organizzatori rilanciano: eravamo in 100mila. Ma  numeri alla mano la piazza di centrodestra batte quella delle sardine. Secondo i dati degli organizzatori della manifestazione Orgoglio italiano  che si è tenuta in piazza San Giovanni a ottobre c’erano oltre duecentomila persone. Patrioti provenienti da ogni parte d’Italia per protestare contro il governo giallorosso. Per la questura erano solo 70mila. In ogni caso la manifestazione del centrodestra  vince di gran lunga quella delle sardine.

Sardine, cori anti-Lega. Propongono fuori la violenza dalla politica ma poi in piazza si alzano i cori anti-Lega. “Odio la Lega”, hanno urlato alcuni militanti, che poi hanno intonato anche Fischia il vento, nota canzone dei partigiani. Molti i cartelli contro il leader leghista ed ex ministro dell’Interno Matteo Salvini.

Sardine, Meloni: «Ma non era la piazza dell’amore?». «È una buona notizia se la sinistra ha deciso di riscoprire la bellezza di scendere in piazza, dopo anni passati nei salotti». Giorgia Meloni commenta all’Adnkronos la manifestazione delle Sardine. «Ci aspettiamo che adesso abbiano più rispetto per chi le piazze le continua a mobilitare da sempre, come accaduto per FdI a piazza Montecitorio e per il centrodestra a San Giovanni». E poi ancora: «Ora speriamo di capire quali sono le rivendicazioni della sinistra che scende in piazza e soprattutto perché non le attuano visto che sono al governo della nazione». Quanto ai cori “odio la Lega” e agli attacchi a Giorgia Meloni, la leader di FdI risponde con una battuta: «Ma non era la piazza dell’amore?».

I “pinguini” ironizzano. «Se i numeri trapelati dalla questura di Roma sono realistici, allora vuol dire che la maggior parte delle Sardine è rimasta nella “scatola”. Il dato di 35mila partecipanti alla manifestazione di piazza San Giovanni sta a significare che si è arrivati a meno del 50% dei 100mila manifestanti attesi oggi a Roma». Potito Perruggini, portavoce del movimento dei “Pinguini”, nato in contrapposizione alle Sardine, commenta con ironia all’Adnkronos l’esito della manifestazione a Roma. «Adesso che la manifestazione si è conclusa, ci chiediamo chi pagherà le spese di pulizia di Piazza San Giovanni», aggiunge Perruggini ricordando che «sotto questo profilo l’ultima grande manifestazione in Piazza San Giovanni, quella del 18 ottobre scorso, è costata alla Lega ben 9mila euro di contributo».

Le sardine sotto vuoto e i loro 10 (inutili) comandamenti. Massimiliano Parente, Sabato 14/12/2019, su Il Giornale. Era tanto che lo aspettavo, e finalmente le sardine hanno enunciato il loro programma, con punti molto concreti, dall'economia alla salvezza del pianeta. Certo, bisogna saperli leggere, per questo ci sono io, e credetemi, è un decalogo della Madonna. Non la Madonna di Salvini, la Madonna delle sardine, comunque sia una Madonna. Anzitutto «i numeri valgono più della propaganda», per carità, un po' un'arma a doppio taglio, perché se Salvini prende il trenta per cento e le sardine il tre, pace, contano i numeri. Questa affermazione magari andrebbe leggermente migliorata, ma chi sono io per dirlo? Una sardina? No, e dunque se l'hanno scritto avranno ragione loro, hanno studiato, cavolo. Comunque «è possibile cambiare l'inerzia di una retorica populista. Come? Utilizzando arte, bellezza, creatività e ascolto». Tradotto in pratica: Troppe tasse? Ti vai a vedere un quadro di Raffaello. Disoccupato? Datti al bricolage. Tua suocera non smette di parlarti e la chiuderesti in cantina? Ascoltala. Due punti del decalogo dicono la stessa cosa, ma importantissima. Tanto per cominciare «protagonista è la piazza, non gli organizzatori». Proprio così, la piazza. A differenza delle piazze dell'orrido Salvini, per esempio, che sono organizzate, le piazze delle belle sardine no. Una sardina esce per caso di casa e si ritrova in piazza con altre diecimila sardine, per caso, senza che nessuno gliel'abbia detto. Una figata. Hanno una specie di sesto senso, sono telepatiche. Anche perché «la piazza è parte del mondo reale ed è lì che vogliamo tornare». Basta stare a casa, con Netflix, Amazon che ti porta tutto ciò che vuoi, la Playstation, la televisione, YouTube, YouPorn, il divano, il riscaldamento. Bisogna trasferirsi tutti in piazza, è il mondo reale. Loro sono come Morpheus in Matrix. Quindi usciamo da casa, cioè da Matrix, e mangiamo in piazza, dormiamo in piazza, facciamo i bisogni in piazza, è bellissimo. Io le piazze le ho sempre odiate, di destra o di sinistra che siano, ma le sardine mi hanno fatto riflettere. Anche perché «non siamo soli, ma parte di relazioni umane». Questa è una grande verità, devono avere studiato tantissimo per arrivarci, da Kant a Darwin a Freud ma soprattutto deve esserci lo zampino di Massimo Recalcati. Noi pensavamo di essere soli, invece ci sono le relazioni umane. È da non sottovalutare neppure questo punto: «Siamo vulnerabili e accettiamo la commozione nello spettro delle emozioni possibili, nonché necessarie. Siamo empatici». Minchia. Sono empatici. E accettano la commozione. Si commuovono. Nello spettro delle emozioni possibili, ovviamente. Io non penso possano esserci arrivati da soli, almeno Paolo Crepet li avrà aiutati. Ma come si commuovono le sardine, e soprattutto dove? Ma è ovvio, in piazza, dove se no? «Riconoscere negli occhi degli altri, in una piazza, i propri valori, è un fatto intimo ma rivoluzionario». Io penso che veramente questo movimento rivoluzionario delle sardine spaccherà tutto. Non sto scherzando, sono veramente commosso. Mi viene da piangere, e non sono ancora uscito per andare in piazza, incrociare gli sguardi, sentirmi empatico, portarmi dietro un poster del Beato Angelico, e annullarmi, smettere di essere lo stronzo che sono, smettere di pensare troppo, e diventare anche io una sardina. Tanto prima o poi dovranno pur arrivare i delfini, almeno spero.

Quanto dureranno le "Sardine"? E' vitale ma ci sono molti dubbi su questo "movimento spontaneo" che alla base l'anti-salvinismo. Supererà la primavera o verrà pescato prima? Marcello Veneziani il 13 dicembre 2019 su Panorama. Evviva, i ragazzi scoprono la politica, l’impegno civile, il gusto del dissenso. L’onda lunga delle sardine è stata salutata da un boato di speranza e di sostegno con una sfilata di sponsor da grandi eventi, preti inclusi. Che gioia il ritorno del figliol prodigo, la gioventù ritrovata. Da troppo tempo latitante dalla politica, eccola che si fa largo. Risale il Novecento, secolo della giovinezza, almeno fino al Sessantotto, si ritrovano i ragazzi sulla breccia, come li vedemmo sull’orlo infranto del Muro di Berlino, salvo poi sparire nei pub, nei display e nei consumi privati. Superata la prima fase di euforia, sorgono i dubbi. Il primo, già noto. Non vi pare strano che i ragazzi scendano in piazza non per contestare un potere, un governo, una dominazione politica e culturale ma per attaccare l’opposizione, per condannare un libero e vasto consenso popolare, per opporsi a chi si oppone all’establishment politico e culturale, all’ideologia dominante e al relativo conformismo? Non ci sono precedenti...Il secondo dubbio è se sono davvero un fenomeno spontaneo: chi c’è dietro? Non siamo in grado di confermare o smentire niente. Ma possiamo dire che appena sono apparsi, la ditta dei santini si è messa subito al loro servizio, compatta, come già aveva fatto per Greta e i manifestanti a scuola, per Karola e i suoi tifosi, per tutte le icone, Papa Francesco incluso, di volta in volta agitate per sostituire - usando le parole di Gramsci - un populismo progressivo al populismo regressivo. Qual è la differenza tra i due? È ideologica, pregiudiziale, tautologica: questi sono buoni perché progressisti, quelli sono nefasti perché bollati come regressisti. Dietro le sardine non ci sarà nessuno ma i pescivendoli hanno già lanciato le loro reti politiche. La terza osservazione è sulla loro consistenza. Leggi il loro manifesto e non trovi nulla che giustifichi qualcosa di più di una manifestazione di piazza. Non ci sono idee, non ci sono ragionamenti, non ci sono programmi, niente. E intorno c’è solo una residua simbologia venuta dal passato: Bella Ciao, via retrocedendo nel tempo e nelle forme. Qualcuno dirà, e siamo al quarto inciampo, ma fateli parlare, ascoltateli prima di emettere giudizi. E invece dopo aver sentito i loro esordi pubblici, direi il contrario: sardine, disertate i talk show, per il vostro bene, non andate mai in tv e nei dibattiti. Quando vanno sono una delusione: il vuoto assoluto, il balbettante carosello di luoghi comuni, istanze generiche, più l’odio verso Salvini & C., come unico segno comune distintivo. E poi le vaghe menate sui muri da abbattere, l’ambiente, il senso civico, il politically correct. Troppo poco per dare consistenza a un movimento. Meglio restare sott’acqua, meglio far tappezzeria in piazza, nascondersi nel branco e restare muti come pesci, piuttosto che dire ovvietà con la scusante che sono ragazzi e vanno al Dams. In certi casi si fa miglior figura a essere figuranti. Restate nei collettivi, non separatevi mai dal coro, perché se dite, sapete solo ripetere le banalità dei grandi, con l’attenuante dell’inesperienza e il candore dell’estraneità. Quinta obiezione. I giovani scoprono la politica, ma dieci anni fa, i ragazzi che si affacciavano ai Vaffa-day di Grillo non erano in prevalenza giovani? E poi il popolo viola, i girotondini, le pantere... Non è dunque una novità assoluta. Diciamo che ciclicamente accade e di solito la rapidità con cui spuntano dal nulla è pari alla rapidità con cui spariscono nel nulla. Sesto dubbio, sono l’iceberg di una vasta gioventù o rappresentano su scala giovanile la stessa minoranza che la sinistra dem rappresenta a livello adulto? Dubbio più che legittimo perché sondaggi di altro tipo dimostrano una diffusa se non prevalente tendenza giovanile inversa rispetto alle sardine. E a tal proposito sorge una domanda congiunta: ma perché non si vedono le triglie conservatrici, le alici destrorse che avversano questo governo, l’establishment e la sua ideologia politically correct? Non esistono, non riescono a fare gruppo, passano inosservati? Difficile che non esistano, possibile che non riescano a fare gruppo, probabile che passino inosservati all’occhio dei media. Dico occhio al singolare, perché si sa che la fabbrica delle opinioni vede solo con l’occhio sinistro. Intanto si parla di pinguini e di gattini...A parte questi dubbi, alla fine fa piacere che ci siano dei ragazzi che si impegnino sul piano civile e politico, non dirò che si espongano perché non hanno da rischiare più che non abbiano da trarre vantaggi. Ma il dubbio che resta è: dureranno? Andranno oltre le elezioni amministrative di gennaio e forse di primavera, o avranno vita breve e finiranno nelle reti della pesca a strascico? Alla fine, però, con tutti i limiti, i difetti e i dubbi espressi, e ben sapendo che sono dalla parte opposta di chi vi scrive, ben vengano le sardine e altri animali politici. Anche perché suscitano l’impegno avverso, come già accadde alla generazione sessantottina che stimolò per reazione e contrappasso una vasta gioventù di «destra» negli anni Settanta. Ne abbiamo visti tanti di proclami e annunci di nuove generazioni alle porte, e poi dopo poco hanno sciolto le righe, si sono imboscati, sono rimasti in carriera politica solo i caporioni. Non devono impressionare le recriminazioni delle generazioni precedenti verso quelle successive, ci sono sempre state. Ognuna si esprime a suo modo. La vera novità è che gli ultimi ragazzi sembrano più sconnessi dalla storia, dalla polis, dal rapporto anche conflittuale con le altre generazioni. Com’è profondo il mare, troppo vasto, liquido, cangiante, per essere riempito dalle esili sardine.

 “Faccio cose, vedo gente”… in fondo fu Nanni Moretti a intervistare la prima sardina. Francesco Storace domenica 15 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Eppure, da qualche parte, quella sardina devo averla già vista… E ti torna alla memoria Nanni Moretti, Ecce Bombo, “faccio cose, vedo gente”. Eccoli, i nipotini di Moretti, i loro papà facevano girotondi. Piazza San Giovanni, ieri il raduno degli ossessionati. Sardine militanti col tabù del sovranismo. La fiera del vecchiume con la faccia da rampollo con la paghetta di papà. Le scemenze messe in fila alla pagliacciata tanto attesa sono difficili da numerare. Anche se va riconosciuto che la più bella di tutte l’ha pronunciata senza arrossire, Mattia Santori. E’ il cocco prediletto dalla Prody’s band, è arrivato a dire che “la nostra sfida è mantenere la spontaneità”. “Ma te c’hanno mai mannato a quel paese….“, avrebbe risposto Alberto Sordi. I vecchi più giovani della sinistra italiana sono arrivati a Roma promettendo la rivoluzione. Ma senza una ventata di novità. Con lo stesso copione dell’ultima settantina d’anni. La canzone più gettonata sempre la solita, quella che si intona in parrocchia da don Biancalani, sotto l’Albero di Natale a Torremaggiore e pure a San Giovanni, dove già l’avevano sentita qualche anno fa, Bella Ciao. Ma no? E vuoi mettere quel nuovissimo slogan, che fa tanto Premio Fantasia, urlato non si sa a chi “Ora e sempre resistenza”? L’antico repertorio non deve mancare mai. Così Zingaretti non si dispiace. Poi l’editto. Politica via dai social. Violenza verbale uguale a quella fisica. E basta con quei commenti dei giornalisti. Sardine andate a male, con le rughe di qualche secolo fa. Davvero uno spettacolo assolutamente patetico. La vigilia sembrava promettere di meglio (per chi si illudeva). Gli unici a far festa, a piazza San Giovanni, sono stati i commercianti di magliette antifasciste, praticamente un’altra rarità. Costa dieci euro indossare T- shirt con scritto fra l’altro "qui nessuno è straniero", "ieri partigiani oggi antifascisti" "stop racism, stop violence". La maschera Pd la davano gratis. Non poteva mancare il calcio d’inizio dato dalla giovanissima presidente dell’associazione partigiani, Carla Nespolo, sardina grigia. Poi, quella islamica, proveniente dall’altra parte del mondo, avrebbe detto Papa Bergoglio. “Sicuramente noi non piaceremo a Salvini e Meloni: perche’ io sono Ibras, sono una donna, sono musulmana e sono figlia di palestinesi”, grida una ragazza dal palco di san Giovanni. Un copione imbarazzante, sono scesi dalla Luna dopo decenni di vacanza lontani dalla Terra. Sono quelli che gridano, al raduno dell’antichità: “Tutti coloro che vogliono riaprire la pagine nere del passato dico: non ve lo permetteremo mai”. Poi, le solite perle di Mattia, il gran capo. “Conte ci vuole vedere? Poi ci penseremo”, risponde il presuntuosetto. A proposito, ha anche detto che siccome “vuole una politica seria”, gli sarebbe piaciuto vedere in piazza Virginia Raggi. Certo, se se la portasse a casa sua, Roma gli tributerebbe una standing ovation a questo stratega della nuova politica. Per la serie politica seria, segnaliamo la pacifica dichiarazione del quasi omonimo Michele Santoro. Sì, in piazza a celebrare il nuovo, c’era anche lui, con il suo paragone intelligentissimo su Salvini e Meloni uguali a Hitler. Questa gente vorrebbe cambiare il Paese. Farebbe meglio a cambiare Paese. Chi va in piazza per fare l’opposizione all’opposizione non serve. Provoca solo sbadigli.

 Il veleno della sardina col velo "Salvini? Stupido e ignorante". Dal palco di piazza San Giovanni, Nibras, 25enne di origini arabe, fa il verso a Giorgia Meloni: "Sono una donna, sono musulmana, sono figlia di palestinesi". E al Giornale.it dice: "Salvini? Stupido e ignorante, i leghisti mi fanno pena". Alessandra Benignetti, Domenica 15/12/2019, su Il Giornale. "Sono una donna, sono musulmana, sono figlia di palestinesi". A fare il verso dell’ormai celebre parodia dance dei comizi di Giorgia Meloni, al raduno nazionale delle sardine di piazza San Giovanni, a Roma, è Nibras, una ragazza milanese di 25 anni. Porta l’hijab con fierezza e vuole dimostrare che le donne musulmane non sono affatto discriminate o sottomesse, anzi. Sale sul palco e come se nulla fosse si rivolge alle 35mila sardine presenti in piazza. "A Salvini e Meloni non piacerà la mia presenza", esordisce. L’accusa nei loro confronti è quella di voler riportare la “dittatura” nel nostro Paese. "Non vi permetteremo di aprire le pagine nere del passato, questo è uno Stato di diritto", li avverte Nibras. La folla la applaude. "Siamo qui per denunciare le politiche di odio messe in atto da Matteo Salvini e Giorgia Meloni, perché anche lei non è da meno", spiega ai microfoni del Giornale.it. Si riferisce in particolare alla "discriminazione contro i musulmani". "Ormai in Italia siamo diventati un capro espiatorio - denuncia – soprattutto noi donne, che siamo viste come sottomesse, senza un’istruzione o una carriera". Di donne come lei, con la testa avvolta nell’hijab, ce ne sono molte in piazza San Giovanni. Segno che il programma delle sardine contro l’odio, la violenza e il razzismo fa presa anche sulla comunità islamica presente nel nostro Paese. "Siamo come le donne italiane – garantisce - lavoriamo, siamo madri, facciamo la stessa identica vita e siamo parte integrante di questa società". Con il suo leggero accento milanese ci assicura di non sentirsi affatto discriminata. "Però - precisa subito dopo - so che la mia comunità, al contrario, è continuamente sotto i riflettori ed è accusata di qualsiasi cosa". Per questo ha scelto di tuffarsi anche lei nel mare dei pesciolini anti-leghisti. "Quello delle sardine – ci spiega - è un movimento che promuove la libertà contro il clima di odio che si sta diffondendo e che è veramente preoccupante". Ma quando la conversazione vira sul destinatario delle accuse, la tolleranza viene subito messa da parte per lasciare spazio agli insulti. "Salvini? È un ignorante perché non conosce la Costituzione", attacca dopo aver letto uno degli articoli della Carta dal palco della manifestazione. "Chiede pieni poteri? Ma dove crede di essere? Le pagine nere della storia italiana sono morte e sepolte, non gli permetteremo di riaprirle", afferma perentoria. Eppure, alle ultime tornate elettorali, quasi un cittadino su tre ha scelto di votare per il Carroccio. Ma Nibras è convinta: "I suoi elettori mi fanno pena". "Lui è ignorante, è stupido – ribadisce - cerca di convincere queste persone facendo leva sulle loro paure e preoccupazioni, che sono anche le nostre". Poi si rivolge direttamente ai leghisti: "Mi fate pena, spero che un giorno vi svegliate". Nel frattempo il consiglio di questa giovane musulmana è di "leggere e studiare la Storia". "Noi siamo tutti uguali", ricorda. "Siamo qui per difendere la libertà, contro l’odio di Salvini e contro l’odio che avete nei vostri cuori". La sua è una promessa. Ma suona più come una minaccia.

Sardine, in piazza c’è anche chi imita Meloni: “Sono Nibran, sono una donna, sono musulmana”. Il Secolo d'Italia sabato 14 dicembre 2019. Sardine in piazza a Roma e c’è anche chi rifà il verso a Giorgia Meloni. Così una ragazza col velo sul palco allestito a San Giovanni: “Sono Nibran, sono una donna, sono musulmana e sono figlia di palestinesi. A chi vuole riaprire pagine buie della storia dico ’non ci avrete mai, non ve lo permetteremo”. La ragazza ha letto assieme ad altri alcuni articoli della Costituzione. “Ovviamente questo non piacerà a Salvini e alla Meloni…”, ha premesso la giovane. Dopo di lei anche una ragazza transessuale ha ripreso le parole della leader di FdI, dichiarandosi orgogliosamente transessuale. La ragazza musulmana ha imitato il passaggio del discorso di Giorgia Meloni a piazza san Giovanni che è poi diventato un vero e proprio inno pop. “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana e tutto questo non me lo toglierete mai”. La stessa Meloni aveva così commentato la manifestazione di oggi delle sardine: “Buona manifestazione, per me quando la gente scende in piazza è sempre una cosa interessante. Poi chiaramente io so benissimo chi sono le sardine: è il Pd, che in grande difficoltà, cerca di darsi una veste nuova. Ci sta, ma adesso raccontarla come una manifestazione spontanea, mi pare eccessivo”. “Diciamo – ha aggiunto Meloni – che quando le manifestazioni sono veramente spontanee il mainstream di solito non le spinge. Il fatto che le sardine siano così coccolate dal mainstream tradisce il fatto che non siano esattamente un movimento spontaneo. Ma quando la gente scende in piazza è sempre una buona notizia, per cui buona manifestazione”.

Sardine, Nibran l’anti-Meloni: “Sono una donna, sono musulmana”. Laura Pellegrini il 15/12/2019 su Notizie.it. Nibran è una ragazza musulmana figlia di genitori palestinesi: sul palco di piazza San Giovanni a Roma si è unita alle Sardine. Sul palco delle Sardine riunite in piazza San Giovanni a Roma è salita una ragazza musulmana, Nibran l’anti-Meloni. La giovanissima ha letto alcuni articoli della Costituzione italiana, poi però ha aggiunto: “Ovviamente questo non piacerà a Salvini e alla Meloni…”. “Sono Nibran – ha detto la ragazza -, sono una donna, sono musulmana e sono figlia di palestinesi. A chi vuole riaprire pagine buie della storia dico ’non ci avrete mai, non ve lo permetteremo”.

Sardine, il messaggio di Nibran. La manifestazione delle Sardine a Roma, avvenuta sabato 14 dicembre 2019, ha riunito oltre 100 mila persone: tra queste anche Nibran, la ragazza anti-Meloni. La sua presenza è diventata un simbolo. Infatti, dopo aver letto alcuni articoli della Costituzione, dal palco di Piazza San Giovanni Nibran ha rivendicato la sua identità: è musulmana e figlia di genitori palestinesi. Nonostante questo, però, chiede di godere degli stessi diritti dei cittadini italiani. “A Salvini e Meloni non piacerà la mia presenza… – ha dichiarato dal palco -. Perché sono una donna, sono musulmana e sono figlia di palestinesi. Non vi permetteremo di aprire le pagine nere del passato, questo è uno Stato di diritto”. Tantissime le reazioni dopo il messaggio lanciato dalla giovanissima ragazza con il velo. Qualcuno l’ha acclamata con un “brava e coraggiosa”, altri l’hanno definita “l’anti-Meloni”, infine qualcuno l’ha attacca dicendo: “Hai dimenticato di dire sono sottomessa”. Ma il messaggio che voleva arrivasse a tutta la piazza e alla politica è passato.

La replica di Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia replica all’intervento della ragazza musulmana sul palco di Piazza San Giovanni. “Quello che non mi è chiaro della simpatica ragazza nel video è: perché se tu sei fiera di essere islamica, io non posso esserlo di dirmi cristiana?” ha scritto la Meloni. Quello che non mi è chiaro della simpatica ragazza nel video è: perché se tu sei fiera di essere islamica, io non posso esserlo di dirmi cristiana?  

Sardine, Giorgia Meloni a Nibras: "Perché tu sei fiera di essere islamica e io non posso dirmi cristiana?" Libero Quotidiano il 16 Dicembre 2019. Come demolire le sardine in poche battute. Giorgia Meloni è finita spesso nei pensieri degli attivisti anti-sovranisti riunitisi sabato scorso in piazza San Giovanni a Roma. Dalla trans che la sfotte al ritmo di "Sono una donna sono una trans" fino alla giovane ragazza musulmana Nibras Asfa, salita sul palco con il velo per colpire duro la leader di Fratelli d'Italia. E lei, la Meloni risponde colpo su colpo: "Quello che non mi è chiaro della simpatica ragazza nel video è: perché se tu sei fiera di essere islamica, io non posso esserlo di dirmi cristiana?", le chiede provocatoriamente su Twitter. Nibras, peraltro, è moglie di Sulaiman Hijazi, con il quale condivide anche sui social l'appoggio al controverso movimento palestinese Hamas coinvolto in azioni di terrorismo contro Israele. Intorno alle sardine, peraltro, gravita un mondo poco a suo agio con la legalità come quello dei centri sociali. Il congresso dei 160 delegati, domenica mattina, è andato in scena nel palazzo occupato diventato famoso perché l'elemosiniere del Papa cardinale Krajewski, lo scorso maggio, intervenne personalmente con un blitz notturno per riattivare i contatori della luce a cui le autorità avevano messo i sigilli per i debiti degli abusivi. Anche su questo punto la Meloni non può tacere: "Le sardine riunite in uno stabile occupato con lo slogan: Viva le sardine, abbasso gli sgombri. La solita storia, secondo questa gente la sinistra può violare la legge come meglio crede: per occupare immobili, per far entrare immigrati illegali, per distribuire hashish e per impedire agli avversari politici di manifestare. Noi preferiamo stare dalla parte della legalità".

Nibras Asfa, la sardina musulmana attaccata da Lega e FI: «Vicina ad Hamas». Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 su Corriere.it da Cesare Zapperi. La giovane islamica che sabato ha parlato in piazza San Giovanni. Lega e Forza Italia si scagliano contro Nibras Asfa, la giovane musulmana (figlia dell’imam di Milano) che sabato ha parlato alle Sardine (chi sono e chi è il loro ideatore Mattia Santori) a Roma. «Il marito è vicino ai terroristi di Hamas» denunciano il senatore Lucio Malan (FI) e il deputato Paolo Grimoldi (Lega). «La giovane donna che ha parlato stretta nell’hijab all’evento delle `sardine´ - attacca il primo — in piazza San Giovanni è Nibras (non Nibran come scritto da alcuni giornali) Asfa, moglie di Sulaiman Hijazi, con il quale non manca occasione di manifestare piena solidarietà di intenti. Hijazi si dichiara, nel suo stesso profilo Facebook, esponente di Hamas, l’organizzazione palestinese considerata terroristica, tra gli altri, da Unione Europea, Stati Uniti, Australia, Giordania, Giappone e Regno Unito, che ha l’obiettivo di distruggere lo Stato d’Israele, considerando “territorio occupato” ogni centimetro dello stato ebraico». Il marito di Nibras, Sulaiman Hijazi, su Fb spiega: «Io sono di Hebron, una città che ha visto il peggio dell’occupazione israeliana, io non faccio altro che informazione su quello che vive il mio popolo e che viene spesso oscurato dai media, e di questo vado orgoglioso e continuerò a farlo senza timore — precisa di Sulaiman Hijazi — Però ciò non significa che faccio parte di un partito politico né sostenitore di Hamas, perché credo fortemente che chi fa informazione debba essere imparziale e oggettivo. «Non permetterò a nessuno di strumentalizzare ciò che faccio per colpire me e la mia famiglia. Siamo orgogliosi di ciò che siamo e andremo avanti contro ogni tipo di ingiustizia e odio», conclude Sulaiman Hijazi. Ma il leghista Grimoldi contrattacca: «Toh... oggi scopriamo che la signora Nibras che insulta Salvini e quel 35% che le `fa pena´ perché vota Lega è la consorte di Suleiman Hijazi, un radicalizzato islamico che nei suoi post su Facebook definisce martiri i terroristi palestinesi di Hamas, che solidarizza con chi spara razzi contro Israele e inneggia alla resistenza palestinese. Bel soggetto...».

Dagospia il 16 dicembre 2019. Di Nino Luca, Immagini di Agtw /Corriere Tv. «Io sono Nibras, sono una donna, sono musulmana e sono figlia di genitori palestinesi». Sul palco di piazza San Giovanni a Roma, sabato c’era anche Nibras Asfa giovane che ha rivendicato con sua forza la sua origine e la sua identità. Ma dopo il suo discorso si sono scatenate le polemiche. Il marito di Nibras, infatti, è considerato membro di Hamas. Circostanza che Lega e Forza Italia non hanno mancato polemicamente di sottolineare.

Alberto Giannoni per "Il Giornale" il 16 dicembre 2019. L' anti-Meloni si chiama Nibras, ha 25 anni e porta il velo. È figlia dell' imam di via Padova a Milano ed è al centro di un caso. Sta facendo il giro del web la sua foto insieme a Mattia Santori, leader del movimento delle sardine, e a suo marito Sulaiman Hijazi. È stata lei ad accreditarsi come l' alternativa alla leader di Fdi, andando in piazza San Giovanni, parlando dal palco e facendo il verso all' ormai noto «sono Giorgia, sono una madre e sono cristiana», il manifesto meloniano che era risuonato due mesi fa nella stessa piazza e che qualcuno ha trasformato in un tormentone rap. «Sono Nibras - ha replicato sabato, sorridendo, la giovane milanese - sono una donna, sono musulmana e sono figlia di palestinesi». Ha dimostrato spirito, Nibras. Ha letto con enfasi l' articolo 3 della Costituzione e lanciato il suo monito: «A tutti coloro che vogliono riaprire le pagine nere del passato dico non ci avrete mai, non ve lo permetteremo, perché questo è uno stato di diritto». E qui il discorso delle sardine che l' hanno applaudita comincia a mostrare delle crepe. E il nodo è sempre lo stesso: Israele. Se parliamo di Stato di diritto, Israele è l' unico in Medio Oriente, tanto che un magistrato ha appena incriminato il premier per un presunto «favore legale». A Gaza, per dire, un dirigente di Hamas è stato torturato e ucciso in piazza con l' accusa di essere gay. L' opinione di Nibras invece tradisce il solito doppio standard.

«L' unico Paese democratico del Medio Oriente? - chiese lei a fine 2017 - Cosa hanno di democratico questi mostri che non risparmiano donne, bambini e disabili?». E il senatore di Fi Lucio Malan le rimprovera di aver definito Israele «uno stato nazi-fasci-sionista».

Nibras ha le sue radici e ha diritto al suo punto di vista, ma quando si parla dal palco di una piazza «contro l' odio» i riflettori si accendono. Il padre di Nibras è un uomo che a Milano è stimato e benvoluto: Mahmoud Asfa ha fondato e dirige dal '92 la Casa di via Padova, centro islamico accreditato come dialogante e trasparente. Era nel Forum delle religioni, ha ottenuto un Ambrogino d' oro ed era molto stimato dall' assessore Aldo Brandirali (ciellino del Pdl). Se c' è un rimprovero rivolto alla sinistra è di averlo snobbato a beneficio di altri meno meritevoli. La Curia ambrosiana, più attenta, lo ha invitato in Duomo il 25 marzo 2017 per accogliere Bergoglio a Milano, e accanto a lui c' era proprio la figlia. Asfa è indipendente dall' islam egemone, ma certo - anche per biografia - non si definirebbe mai «amico di Israele» come il franco-tunisino Hassen Chalghoumi. E la sua «stella» di moderato di recente si è un po' offuscata, anche per la partecipazione a cortei «pro Palestina» (e anti-Israele) molto discussi. La sua moschea l' ha visitata anche Matteo Salvini, ma la Lega accusata di usare l' odio in politica ora chiede coerenza. Hijazi, da portavoce della Comunità islamica di Cagliari dichiarò di temere più Israele dell' Isis. Malan ad aprile aveva contestato al grillino Gianluca Ferrara di aver incontrato, con lui e una delegazione dell' Associazione dei Palestinesi in Italia, anche Riyad al-Bustanji, imam noto per aver glorificato le azioni kamikaze contro Israele. Inoltre a Hijazi a viene addebitato un giudizio benevolo su Hamas. «È questo il cambiamento che vogliono le sardine?» ha chiesto il leghista Paolo Grimoldi. Ieri Hijazi ha denunciato di aver ricevuto «provocazioni e insulti». «Sono stato accusato di appartenere a Hamas e di sostenere il terrorismo islamico» ha detto, difendendosi: «Non faccio altro che informazione. Però ciò non significa che faccio parte di un partito politico né sostenitore di Hamas. Non permetterò a nessuno di strumentalizzare ciò che faccio».

Persino i musulmani contro la sardina islamica. Dopo l'intervento della giovane musulmana sul palco delle sardine a Roma, il presidente Villani ripete le parole del profeta Muhammad: "Chi di voi imita gli altri, sarà inevitabilmente come chi cerca di imitare". Emanuela Carucci, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. "Non si deve prendere in giro nessuno" dichiara in una nota l'associazione nazionale musulmani italiani. Una considerazione forte che spacca in due il mondo dei musulmani che vivono in Italia dopo l'imitazione della Meloni sul palco delle sardine da parte di Nibras, una giovane donna milanese di 25 anni di fede islamica. Non solo, sabato scorso la 25enne ha anche insultato il leader leghista Matteo Salvini definendolo "stupido e ignorante" oltre a dire che le fanno pena gli elettori della Lega. L'associazione dei musulmani italiani si dissocia dalle dichiarazioni della giovane e ne prende le distanze. "Noi di Anmi (l'associazione nazionale dei musulmani italiani, ndr) con le nostre azioni, non abbiamo mai preso in giro nessuno e mai abbiamo imitato nessuno. 'Chi di voi imita gli altri, sarà inevitabilmente come chi cerca di imitare', parole del nostro Profeta Muhammad, che Dio lo abbia in gloria, che dovrebbero insegnare molto anche a chi ha, nella sua indole, la mania di protagonismo". Sono queste le dichiarazioni del presidente dell'associazione, Raffaello Yazan Villani. A diffondere per primo la nota dell'associazione è il giornale on line "Daily Muslim". Villani ci tiene a precisare che l'associazione di cui è presidente è apartitica e che quindi non è dalla parte di nessuno, ma condanna, allo stesso tempo, chi insulta gli altri. "Ci allontaniamo da qualsiasi pensiero o opera che possa ricondurre a ciò che la ragazza ha espresso solo a suo nome e non dell’intera comunità musulmana italiana, togliendo da ogni dubbio chi abbia potuto intravedere in quelle parole una nostra approvazione" continua Villani. La "sardina" di fede islamica con le sue dichiarazioni in Piazza San Giovanni a Roma sabato scorso ha creato molto scalpore soprattutto nel mondo musulmano ed il video con le sue dichiarazioni ha fatto il giro del web. "Il credente può decidere se fare politica, ma in generale una religione non deve essere associata ad un partito politico. Detto questo, nel caso specifico, io penso che un buon musulmano non debba imitare nessuno, anche riprendendo le parole del Profeta. La ragazza ha sbagliato a imitare la Meloni perché in questo modo è come se fosse diventata la Meloni stessa" ha dichiarato a IlGiornale.it Raffaello Yazan Villani. Sull'intervento di Nibras Giorgia Meloni in un post su Facebook ha replicato scrivendo: "Quello che non mi è chiaro della simpatica ragazza nel video è: perché se tu sei fiera di essere islamica, io non posso esserlo di dirmi cristiana?". Anche il vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, ha parlato di "gravi insulti" ed invita Nibras a "riflettere sulle tue parole".

Sardine, di chi è moglie la donna con il velo che insulta Matteo Salvini: c'è dietro Hamas. Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019.  "La giovane donna che ha parlato stretta nell’hijab all’evento delle ‘sardine’ in piazza San Giovanni è Nibras (non Nibran come scritto da alcuni giornali) Asfa, moglie di Sulaiman Hijazi, con il quale non manca occasione di manifestare piena solidarietà di intenti". Lo dichiara in una nota Lucio Malan, vice capogruppo vicario dei senatori di Forza Italia. "Hijazi si dichiara", prosegue il forzista, "nel suo stesso profilo Facebook, esponente di Hamas, l’organizzazione palestinese considerata terroristica, tra gli altri, da Unione Europea, Stati Uniti, Australia, Giordania, Giappone e Regno Unito, che ha l’obiettivo di distruggere lo Stato d’Israele, considerando ‘territorio occupato’ ogni centimetro dello stato ebraico". "È gravissimo che le ‘sardine’", conclude, "diano ampio spazio a questa donna, dopo aver proposto di abolire l’odio e la violenza, fisica e verbale, dalla politica". 

I post pro-Hamas del marito della "sardina". Emergono altri inquietanti post di Suleiman Hijazi, il marito della sardina Nibras Asfa, che aveva insultato Salvini e i leghisti dal palco di Piazza San Giovanni a Roma. Giovanni Giacalone, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Emergono nuovi post inquietanti, a favore degli islamisti di Hamas, pubblicati sul profilo Facebook del marito di Nibras Asfa, la "sardina velata" che, dal palco di Piazza San Giovanni a Roma, aveva insultato Matteo Salvini e gli elettori leghisti, accusando l'ex ministro degli Interni e la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, di diffondere odio. In seguito ad alcuni suoi post inneggianti a Hamas e a segnalazioni di una sua collaborazione con l'Abspp (considerata vicina a Hamas), il marito della Asfa, Suleiman Hijazi aveva replicato così sui social:" È da ieri pomeriggio che io e mia moglie riceviamo provocazioni e insulti di tutti i colori, tante accuse, a cui sono anche abituato, ma questa volta hanno esagerato. Sono stato accusato di appartenere a Hamas e di sostenere il terrorismo islamico".Il marito di Nibras continua: "Io sono di Hebron, una città che ha visto il peggio dell'occupazione israeliana, io non faccio altro che informazione su quello che vive il mio popolo e che viene spesso oscurato dai media, e di questo vado orgoglioso e continuerò a farlo senza timore. Però ciò non significa che faccio parte di un partito politico né sostenitore di Hamas, perché credo fortemente che chi fa informazione debba essere imparziale e oggettivo". Come già precedentemente fatto notare dal Giornale però, l'accusa non è di far parte di Hamas, ma di non distanziarsene; del resto sono stati rinvenuti ulteriori post che non possono non destare perplessità sulle posizioni di Hijazi, a partire da quelli in relazione al sequestro di tre sedicenni israeliani uccisi da terroristi palestinesi nel 2014, dove Hijazi scrive: "Rapiti perchè ebrei. Eh no. Premesso che è squallido confondere deliberatamente e per l'ennesima volta Ebraismo e Sionismo-due concetti molto diversi- Quei ragazzi erano coloni. Coloni. Premesso che ancora non è dato sapere chi li abbia rapiti, i tre erano certamente consapevoli (no doubt, ma l'arroganza e l'onnipotenza ti porta a fare quello che vuoi) che camminando in Territori palestinesi stavano infrangendo l'articolo 49.6 della quarta convenzione di Ginevra, oltre a una serie di risoluzioni di diritto internazionale". Dopo alcune dichiarazioni contro le operazioni militari israeliani di risposta a Gaza, Hebron e Ramallah, Hijazi lamenta che "tre ragazzi con la faccia da occidentali rapiti fanno ben più presa dei soliti palestinesi privati quotidianamente dei diritti più elementari". Insomma, non erano tre ragazzini di 16 anni, ma tre "coloni" colpevoli di aver camminato in territori palestinesi. La faccenda non finisce qui, perchè in un commento sottostante il post Hijazi risponde a un utente che auspica la liberazione dei tre ragazzini in questo modo: "io sto sempre con la resistenza Matteo, tu insisti ancora che sono stati rapiti? Questi non stanno reagendo ora, hanno sempre attaccato le nostre case, da 66 anni che stiamo soffrendo, non è una novità". Del resto, che il marito della "sardina" stia sempre con quella che egli definisce "resistenza" è evidente dai post che pubblicava sui social, come quello col leader di Hamas, Khaled Meshal, con tanto di motto "the man who haunts Israel" (l'uomo che perseguita Israele) e il commento di Hijazi "presto usciranno i detenuti eroi palestinesi con uno scambio che farà felici tutti i palestinesi (Khaled Meshal)". In un altro post appare una foto di uomini armati di Hamas col commento di Hijazi: " il braccio armato di Hamas (alqassam) ha convocato tutti i movimenti della resistenza per decidere su come reagire a queste violazioni della tregua. Oggi Israele ha ammazzato un combattente a Khan Younes e la resistenza ha ferito un soldato gravemente, dimostrando che sono sempre pronti a qualsiasi violazione della tregua. Sempre più orgoglioso di mio popolo e la resistenza". In un'altra foto altri jihadisti di Hamas con commento "la resistenza a Gaza oggi" e ulteriori altre foto degli islamisti con commento "14/12/1987 la nascita di Hamas". In un'altra immagine ancora compaiono le facce di venticinque miliziani e vittime con il commento "onore a voi fratelli". A questo punto il marito della "sardina" ha parecchio da spiegare, a partire da cosa intende quando cita termini come "resistenza", "combattenti", "fratelli". Hamas è "resistenza" o terrorismo? E' bene ricordare che l'organizzazione è inserita nella black list del terrorismo non solo da Israele ma anche da Stati Uniti ed Unione Europea, con tanto di conferma del Tribunale dell'UE dello scorso marzo. In conclusione, è bene ricordare quanto incluso nello statuto costitutivo di Hamas all'articolo 7: Benché gli anelli siano distanti l’uno dall’altro, e molti ostacoli siano stati posti di fronte ai combattenti da coloro che si muovono agli ordini del sionismo così da rendere talora impossibile il perseguimento del jihad, il Movimento di Resistenza Islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Allah, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta – le preghiere e la pace di Allah siano con Lui – dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo; ma l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei”. Parole più che eloquenti.

La lezione di Greta. E quella di Trump. Greta Thunberg e Donald Trump. Mario Furlan su Il Giornale il 16 dicembre 2019. C’è chi storce il naso perché il noto settimanale americano Time ha proclamato Greta Thunberg “persona dell’anno”: ma come, un simile onore a una ragazzina? Come diavolo fa a stare sulla copertina che ha celebrato giganti come Winston Churchill e Papa Francesco, Gandhi e Nelson Mandela, Roland Reagan e Donald Trump?

Si dà il caso che questa ragazzina sia riuscita a mobilitare milioni di giovani nel mondo ben più di centinaia di illustrissimi scienziati che ormai da decenni lanciano allarmi sul futuro del pianeta. Strano? No, logico. Perché noi umani siamo molto, molto più emotivi che razionali. Un algido scienziato che con voce distaccata sciorina freddi dati sui cambiamenti climatici lascia del tutto indifferenti. Mentre una sedicenne autistica con la faccia un po’ inquietante che grida “La nostra casa è in fiamme!” emoziona e spinge all’azione. Muove le masse. Ma non i capi di Stato. Infatti la Conferenza sul clima di Madrid è stata un fallimento. Perché? Perché qui entra in gioco una seconda legge del comportamento umano. Noi bipedi siamo, in gran parte, miopi. Non vogliamo rinunciare a qualcosa oggi in vista di un bene maggiore domani. Preferiamo l’uovo oggi alla gallina domani. I politici, si sa, spesso non vedono oltre le prossime elezioni. Sono in campagna elettorale permanente. Puntano al consenso immediato. Donald Trump, principale artefice del fallimento della Conferenza, è tutto concentrato sulla sua rielezione nel 2020. Imporre restrizioni all’inquinamento gli costerebbe voti: non gli conviene. E se tra dieci o vent’anni la situazione climatica mondiale, quindi anche americana, sarà fuori controllo? Chissenefrega, pensa. Tra dieci anni non sarò più presidente. E tra vent’anni non sarò, probabilmente, più al mondo. Che ci pensino i miei successori! Spesso anche noi siamo così nella nostra vita personale. Ragioniamo a corto termine. Ma mentre Trump ha il suo tornaconto personale, noi dovremo pagare lo scotto della nostra miopia. Morale: per raggiungere i tuoi obiettivi nel 2020 fai come Greta: usa le emozioni, non ti fermare alla sola razionalità. E non fare come i politici: non essere miope, guarda lontano! Felice anno nuovo, e che tu possa realizzare i tuoi sogni più belli!

Greta e Mattia, il nulla al potere. Max Del Papa, 16 dicembre 2019 su Nicolaporro.it. Vanno di moda gli sparafumo, i Manuel Fantoni, quello che “un bel giorno m’imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana”. Di preferenza giovani, perché la società cialtronesca attuale ha bisogno di giovani eterni, fino a novant’anni. Il primo Manuel Fantoni è il sardina leader, Mattia Sartori, quello che si aggiusta il cerchietto quando vede una telecamera. È patetico, è imbarazzante, ha davvero l’ignoranza globale di un pesce, Francesco Giubilei, che è suo coetaneo ma di un altro pianeta, lo ha fatto nero, anzi rosso in televisione ma quello rideva, ride sempre, secondo la massima latina. Confonde sovranismo e populismo, che tiene in fama demoniaca, ma il suo mantra è la piazza, ha ragione la piazza, ha deciso la piazza, comanda la piazza, quanto a dire lo stampo del più truce populismo marxista leninista, decide uno solo in nome della piazza. Hanno trovato sulla sua bacheca una immagine che esalta il comunismo delle vacche, “che fornisce latte a tutti”, più che Manuel Fantoni ricorda il geometra Calboni, “tre scotches”; lo accusano di stalinismo, di far fuori i dissidenti, di vano narcisismo ma lui risponde: io riempio le piazze, io vengo bene in televisione. Dove gli fanno mangiare in continuazione piatti di sardine. Le quali non sono da meno del leader ridicolo: “Quali sono i vostri programmi?”. “Antifascismo, antirazzismo, antisessismo e, diciamolo, far fuori Salvini che è pericoloso”. Quella sardina da balcone, tale Justine o Jasmine, se possibile più vacua ancora del sardino Mattia, che citava ad minchiam Adorno, per darsi un tono, ma poi, messa in difficoltà da Daniele Capezzone, tornava alla sardinità verace: “Ah, questo è sessismo, lei si rivolge così a una donna”. La donna-sardina non gradisce essere contraddetta mentre spreca scemenze e accuse perniciose, “Salvini è pericoloso: è un dato di fatto”. Il branco dei pesci dell’amore si ritrova a piazza san Giovanni, mente sull’afflusso, ospita giovani rottami degli anni di piombo, delusi dal grillismo, esaltati da centro sociale, nostalgici della spranga e della chiave inglese, e giù coi canti degli angeli, da Bella Ciao ai cantautori “di protesta”, e slogan, imprecazioni, minacce al Salvini e alla Meloni che “non è una donna”, filoislamismo a la page, palestinismo di riserva e generoso antisemitismo doc. Odiatori di Israele per Liliana Segre. Tutto scortato dai mazzieri della Fiom Cgil, servizio d’ordine a tutta prova. Tutto in nome dell’amore eterno, come la setta dell’altro personaggio verdoniano, “Ruggiè”, quello che si ritrovò in una piscina “con la spada de fori” e “love, love, love”. Tra le issues vaghe, fumose delle sardine non manca “la tutela del pianeta”, nella saldatura giovanile tra cerchietti e treccine, ma come raggiungerla, ammesso che il pianeta sia davvero spacciato, non lo dicono; ci pensa Greta, la Manuel Fantoni in sospetto disagio, ma non è che anche con lei le cose vadano meglio: “Vecchi, ci avete rubato il futuro, mi avete rubato i sogni, come osate”; “Non c’è più tempo bisogna fare in fretta”; “Evviva i giovani, ci siamo arrabbiati, no al fascismo e alla società patriarcale”. La sardina Greta sembra la sardona Michela Murgia, ma con questo approccio parascientifico, e soprattutto paraculo, non si va lontano, il prof. Franco Battaglia ha calcolato che le vaghe misure gretine, un misto di ritorno al Medioevo delle torce e di futurismo eventuale, costerebbero, solo in termini negativi, cioè sbaraccare l’esistente, circa 3000 miliardi di euro solo per partire, anzi per distruggere: e poi? Il COP, la rituale conferenza dell’ONU sull’ecologia, è arrivata al venticinquesimo fallimento in venticinque edizioni, non si mettono d’accordo sulle misure in quanto demenziali, cioè gretesche, e siccome la misura più demenziale e più “Manuel Fantoni” sarebbe quella di risolvere l’inquinamento per via marxista, cioè soldi “in risarcimento” per le colpe dell’occidente capitalista ai paesi poveri, che però vogliono più energia a qualunque costo, cioè vogliono diventare come l’occidente capitalista, non se ne esce. L’unico successo è per la furbissima squilibrata con le trecce, che si ritrae come una barbona sul convoglio che la riporta in Svezia e invece, fanno sapere le ferrovie tedesche, ha viaggiato in prima classe riverita da tutto il personale. Curioso caso di Manuel Fantoni alla rovescia, “un bel giorno m’imbarcai su un mulo” e invece gira di lusso. Ma sempre Manuel Fantoni resta. “Chi è bugiardo è ladro”, recita un proverbio ormai in disuso. Oggi si potrebbe chiosare, chi è cialtrone è ladro; ladro di buona fede collettiva, e siccome la buona fede collettiva poi si traduce in clic, in like, e questi ultimi in pubblicità, secondo legge degli influencer, e la pubblicità in interviste, contratti, ospitate, libri, sponsor, insomma in soldi, chi è cialtrone è ladro. Ma la società sardinesca e cialtronesca, questo vuole: se ce l’ha fatta uno con il cerchietto, una con le treccine, eterni giovani che non sanno niente e niente dicono, perché io no? Il mondo forse non sarà in pericolo, ma ha quel che si merita. Ma che colpa abbiamo noi, noi apoti, come dice sempre Riccardo Ruggieri, noi che non ce la beviamo e ci facciamo il sangue amaro (e quindi ci danno di fascisti)? Max Del Papa, 16 dicembre 2019

Vorrebbero tutti muti come pesci. Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Cosa vogliono queste benedette sardine? Ce lo chiediamo da settimane, da quando hanno fatto la loro comparsa in piazza a Bologna. Odiano Salvini, il sovranismo e, in generale, tutto il centrodestra, questo è chiaro. E, come abbiamo già detto, fa sorridere che un movimento di piazza faccia l'opposizione all'opposizione e non al governo. Sabato, da piazza San Giovanni, finalmente hanno prodotto un'idea: abolire il decreto sicurezza. Per carità, è un'idea almeno, distruttiva e non propositiva, ma è qualcosa. Il problema è che, a corollario di questa ideona, hanno partorito altre cinque ideine. Che sono un vero e proprio distillato del (finto) buonismo sardinista.

1) «Pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare». Banale, ma sacrosanto. Posto che un ministro, o ancor di più un deputato, non è detto che faccia meglio il suo lavoro stando inchiodato alla poltrona senza mai farsi un giro tra la gente. Ma è una scusa come un'altra per attaccare Salvini, ovviamente.

2) «Che chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente nei canali istituzionali». E qui siamo alla follia. Alla censura. Un politico deve comunicare il suo operato ai cittadini utilizzando i mezzi più efficaci. Siano la tv, i social network o la radio. E poi quali sarebbero i canali istituzionali? I vetusti siti dei dicasteri? Solo le reti Rai? L'Eiar? Dal progressismo al regressismo.

3) «Pretendiamo trasparenza dell'uso che la politica fa dei social network». Una supercazzola perfetta. Anche perché, forse le sardine non lo sanno o più semplicemente fanno i pesci in barile, su Facebook esiste una funzione che si chiama «Libreria inserzioni» e permette di monitorare, con la massima trasparenza, tutti gli investimenti dei politici sulle loro pagine social.

4) «Pretendiamo che il mondo dell'informazione protegga, difenda e si avvicini alla verità e traduca tutto questo sforzo in messaggi fedeli ai fatti». Detto da uno come Santori, che da un mese spadroneggia su tutte le tv e su tutti i quotidiani, fa abbastanza ridere. Se non fosse che loro si prendono assolutamente sul serio. Loro non chiedono. Loro pretendono. Anche di dire ai giornalisti cosa scrivere.

5) «La violenza venga esclusa dai toni e dai contenuti della politica in ogni sua forma, e aggiungerei: è il momento che la violenza verbale venga equiparata a quella fisica». E qui, al di là del solito buonismo mieloso, il terreno si fa scivoloso. Cos'è la violenza verbale? Dire «chiudiamo i porti» o «prima gli italiani» è violenza e come tale deve essere perseguita penalmente? È violenza tutto quello che esce dal perimetro, sapientemente disegnato dalla sinistra, del politicamente corretto? Viene il dubbio che il vero scopo delle sardine, la loro pretesa, sia rendere muti come pesci tutti quelli che non la pensano come loro.

Le sardine nuotano nell’illegalità. Andrea Indini su Il Giornale il 16 dicembre 2019. Le sardine hanno finalmente gettato la maschera. Non che avessimo dubbi sulla loro fede politica. Ci interessava, però, capire quanto rosse fossero realmente. Non lo hanno dimostrato compilando un inutile programma in sei punti, ma decidendo di fare la loro prima riunione in un palazzo occupato, lo spazio Spin time di via di Santa Croce in Gerusalemme, a due passi dalla piazza San Giovanni che hanno riempito sabato pomeriggio. Una scelta di campo, al fianco dell’illegalità. La stessa fatta lo scorso maggio dall’elemosiniere di papa Francesco che aveva tranciato i sigilli apposti dalla società a cui gli abusivi rubavano la corrente elettrica. Quasi sempre i gesti valgono molto più delle parole. E quelle pretese che le sardine hanno voluto mettere nel loro testamento non dicono nulla. Sono fuffa, fumo negli occhi per provare a replicare chi, come noi, le accusava di non avere nemmeno una proposta da fare al Paese. Se ne sono uscite con una lista di proposte assurde. Fa eccezione solo l’ultimo punto che propone di cancellare i decreti Sicurezza per contrastare l’immigrazione clandestina. Questo, oltre che essere assurdo, è pericoloso per il Paese. Che fossero a favore dei porti aperti e che sostenessero il business dell’accoglienza non era certo un mistero. Bastava ascoltare gli slogan scanditi in piazza per capire in che direzione nuotassero. Ora, però, lo hanno messo nero su bianco. E questo farà sicuramente presa sul Pd che, oltre a chiedere da tempo immemore l’abolizione dei due decreti voluti da Matteo Salvini, stanno cercando in tutti i modi di accalappiarsi i loro voti. Mattia Santori e compagni non si schierano solo a favore degli immigrati che vogliono entrare clandestinamente nel nostro Paese, ma abbracciano anche quei movimenti della sinistra radicale che occupano le case. Con la scelta di indire la prima riunione nello stabile, dove vivono irregolarmente 150 famiglie, abbiamo avuto un’ulteriore conferma del fatto che vanno a braccetto con l’illegalità. La loro è stata una scelta di campo che fa male a tutto il Paese perché fa passare (ancora una volta) un messaggio sbagliato, e cioè che le regole possono essere calpestate. Non a caso questa mattina gli abusivi, fortificati dal vertice di ieri, hanno esposto sulla facciata del palazzo occupato lo striscione con la scritta “Viva le sardine, abbasso gli sgombri”. Lì a far da padroni sono i militanti di Action, una delle tante sigle della sinistra radicale che a Roma fanno carta straccia della proprietà privata. Al loro fianco si era già schierato l’elemosiniere di Bergoglio che, in barba a tutti gli indigenti d’Italia che non arrivano a fine mese, si era calato nel pozzo per staccare i sigilli messi al contatore della corrente elettrica dopo che gli abusivi avevano accumulato 300mila euro. Il solito cliché che si ripete in eterno inchiodando la sinistra ai suoi stessi stereotipi. Clandestini e abusivi, dunque. Ora manca all’appello soltanto la simpatia per i violenti dei centri sociali. Ma quelli, lo abbiamo già visto in piazza, spesso manifestano insieme a loro. Magari a pochi metri di distanza. E nessuna sardina si è mai sognata di prenderne le distanze. Sembra di vedere la fotocopia del Partito democratico…

Le Sardine, anticorpi tra la rete e la piazza in difesa della Costituzione. Il movimento è la risposta immunitaria della società civile contro malattie che non è disposta a sopportare: il sovranismo, il razzismo, l’intolleranza. Luciano Floridi il 16 dicembre 2019 su L'Espresso. Dopo la manifestazione di Bologna del 14 novembre, e quelle seguenti, si parla molto del Movimento delle Sardine. Le interpretazioni si susseguono, i posizionamenti si moltiplicano, come i tentativi di mettere le Sardine nella propria scatoletta preesistente (“sono di…”), per farsele amiche a sinistra, o sminuirne e magari condannarne l’importanza a destra. Vizi da politichetta di tutti i colori, che concepisce solo i suoi schemi. È in realtà una bella manifestazione di resistenza diffusa, contro il degrado politico ormai insopportabile, che merita rispetto intellettuale, non mera appropriazione o polemica d’interesse. Per esercitare questo rispetto, bisogna cercare di capire meglio come mai tante persone, anche così diverse per età, ceto, cultura, e provenienza geografica, sono disposte a partecipare a civili manifestazioni di protesta in tante piazze italiane e non solo, anche sotto la pioggia, anche se deluse dalla politica, a volte per la prima volta in vita loro. Le Sardine non sono un branco a caccia di fama multimediale, di uno spazio partitico, di una qualche rappresentatività politica, o di una ipotetica candidatura. Sono un banco a difesa della Costituzione e di una politica in grado di raggiungere compromessi senza compromettersi, fatta di confronti onesti, informati, competenti, educati, e ragionevoli sulle vere questioni che preoccupano le persone: dall’educazione alla sanità, dal lavoro alla pensione, dalla sicurezza sociale alla protezione dell’ambiente. Chiedono alla classe politica di fare il suo lavoro decentemente, per migliorare il presente e progettare il futuro. Oggi sembra chiedere la luna. Che si sia arrivati a questo punto indica quanto sia malata la politica. Ma è per questo che è sciocco o furbino obiettare che le Sardine non hanno un programma propositivo. È come dire che gli anticorpi non hanno una funzione salutare. Meglio interpretare le Sardine come la risposta immunitaria della società civile contro malattie che non è disposta a sopportare: il sovranismo, il populismo, il razzismo e la xenofobia, l’intolleranza, il negazionismo (dal riscaldamento globale alle atrocità nazi-fasciste), i rigurgiti fascisti, la litigiosità, l’incompetenza e la corruzione di troppi, la comunicazione violenta, maleducata e faziosa di molti. Chi obietta che si tratta solo di un “movimento di protesta” confonde il non volere la politica, che è uno sterile rigetto apolitico fine a se stesso, con il volere che la politica sia una cosa seria e proficua, che è una richiesta di riforma e un gesto di fiducia verso quanto è possibile fare tutti insieme, come società, contro la rassegnazione collettiva. Si può accettare che “va tutto male” e rimboccarsi le maniche, non che “non c’è niente da fare” e farsi gli affari propri. Le Sardine non vogliono fare politica, vogliono che si faccia Politica. Chi risponde che questo è pur sempre fare politica non ha torto, ma sbaglia nel pensare che allora deve essere un certo tipo di politica. È una richiesta di buona Politica, non il tentativo di soddisfare tale richiesta politicamente. Quindi le Sardine sono proPolitiche non aPolitiche. Per questo non si incontrano in luoghi storici, non sfilano per strada, ma si stringono in piazza, nell’agorà, il luogo democratico per eccellenza. E per organizzarsi usano la rete, mostrando che Internet non serve solo a manipolare l’opinione pubblica demagogicamente dall’alto, ma resta uno splendido strumento di condivisione di idee e coordinamento sociale dal basso. Questa modalità di protesta pacifica e quasi pacifista, senza bandiere e senza proclami, attraverso non il dire ma il mostrare che siamo tutti sulla stessa piazza-barca, che possiamo prosperare solo tutti insieme, come tutti insieme rischiamo di affondare, ha richiesto un’innovazione comunicativa. L’espressione flash mob nasce nel 2003 per indicare un assembramento intenzionale ma inaspettato di persone in uno spazio pubblico, reso possibile dal coordinamento occasionale dell’azione di gruppo, di solito attraverso Internet. Qualcuno si è stupito e ha esaltato l’unione tra Facebook e la piazza come una straordinaria novità. La verità è che la separazione tra digitale e analogico, tra online e offline è degli anni Novanta. Facebook è nata nel 2004. Gli organizzatori del flash mob di Bologna sono trentenni che vivono da tempo onlife. Il fine di un flash mob è quello di sorprendere e attrarre l’attenzione pubblica con la sua stessa esistenza e significatività. Non rimanda ad altro, come un comizio, ma è il suo stesso contenuto, come una canzone. Insistere nel chiedere quale sia il “vero” messaggio vuol dire non aver mai sentito parlare di McLuhan: l’evento è il messaggio (the medium is the message), fine. Questo è importante, perché oggi controbattere certi temi è, per usare un detto inglese, come lottare con un maiale: si finisce solo per sporcarsi e inoltre il maiale si diverte un mondo. Ingaggiare un dibattito serio sull’ “emergenza immigrazione”, per esempio, rischia di legittimarla come una posizione degna di essere discussa e di concentrare l’attenzione di tutti sui temi sbagliati. Si aggiunge rumore, distraendo ulteriormente l’opinione pubblica dalle cose serie, e facendo così un favore a chi vuole monopolizzare l’attenzione su simili temi. Pessima mossa, ma resta il problema: se non ci si impegna, come ci si può difendere? Le Sardine hanno identificato una modalità, elegante: la co-presenza in piazza come segnale dirompente per criticare senza legittimare, per dare a tutte le persone che non ne possono più di politichetta e anti-politichetta la possibilità di un gesto di dissenso educato contro le malattie di cui soffre tutta la politicaccia. Con il valore aggiunto di far parlare i giornalisti di qualcosa di diverso dai soliti temi cari alla politicaccia stessa. I cattivi politici non vedono l’ora che si smetta di parlare di Sardine e si riprenda a parlare di loro. Come diceva Oscar Wilde, l’unica cosa peggiore del parlar male di me e che non si parli di me. Acronimizzare “Sardine” non ha senso e va contro l’approccio immunologico. Il termine è nato accidentalmente, dall’espressione “stretti come sardine”. Meglio lasciarlo come un modo per identificare un’ampia reazione civile contro il populismo sovranista. Altrimenti si inizierà a litigare se la S possa stare per “Sostenibilità” o “Solidarietà”, o la A per “Accoglienza” o “Amicizia”. Il termine “Sardine” è ben scelto. Nel 2014, pubblicai un testo in cui introducevo il concetto di protezione della privacy di gruppo argomentando che ciascun individuo pensa di essere speciale, come Moby Dick, ma in realtà quasi tutti siamo sardine. Ogni sardina teme che il populista stia cercando di pescare proprio lei. Ma il populista non è interessato alla sardina, cerca di pescare tutto il banco. È quindi il banco che deve essere protetto, per salvare ogni sardina. Un’etica che si rivolge a ciascuno di noi come se fossimo tutti Moby Dick è lusinghiera, ma deve essere aggiornata urgentemente. A volte l’unico modo per proteggere l’individuo è proteggere il gruppo al quale appartiene. In conclusione, resta la domanda più difficile: che cosa si può fare ora che gli anticorpi sembrano contrastare i malanni peggiori della politica? Alla lavagna, le opzioni sono tre. Si può riformare un partito esistente, per farlo diventare Politico. Sembra impossibile, qualunque sia la scelta di partenza. Si può trasformare il Movimento delle Sardine in un partito. Sembra contraddittorio, qualunque sia la speranza di arrivo. O si può creare un partito nuovo, non basato su qualche velleità individualistica, ma che si faccia portavoce e coordinatore di tutte le esigenze di buona politica che ormai da anni sono espresse da tanti movimenti diversi. Sembra utopistico, ma si sa, le Sardine tendono a essere ottimiste.

Sardine, Diego Fusaro le "arrostisce": "Cantate Bella Ciao e poi...", come si sono presentate in piazza. Libero Quotidiano il 16 Dicembre 2019. Diego Fusaro torna su un  tema a lui caro: le sardine. Il filosofo sovranista rampogna i militanti sinistri su Twitter: "Cantare Bella ciao  e poi accettare con ebete euforia il manganello invisibile del mercato e della Ue significa non avere appreso nulla dall'antifascismo". L'ideologo di Vox Italia non è tenero affatto: "Significa usare l'antifascismo come alibi per accettare serenamente il nuovo potere del capitale". Già due giorni fa il filosofo aveva attaccato le sardine manifestanti. "Sardine con la bandiera della Ue", aveva scritto, "non solo cogito interrotto: utili anime belle al servigio del padronato cosmopolitico". Con due parole Diego Fusaro liquida la manifestazione delle sardine a Roma".   Ci sarà anche un terzo round?

Sardine, altra provocazione in vista: dove stanno programmando la prossima manifestazione. Libero Quotidiano il 16 Dicembre 2019. Smaltita la sbornia di euforia per le centomila persone in piazza San Giovanni, le Sardine sono già alla ricerca di quelli che il Messaggero definisce "simboli da aggredire". Infatti il nuovo movimento politico sta programmando una manifestazione a Predappio e poi una a Torino, davanti allo stabilimento della ThyssenKrupp. Lo scorso 28 ottobre in tremila si erano presentati a Predappio per visitare la cripta di Benito Mussolini in occasione del 97esimo anniversario della marcia su Roma. Prossimamente il comune romagnolo sarà invece invaso dalle Sardine, pronte a ballare sulla tomba del Duce pur di attirare ulteriormente l'attenzione. Scendere in piazza e manifestare contro tutto e tutti è semplice, mentre non lo è affatto dare un'identità politica a questo fenomeno. Il quale nasce come movimento che guarda a sinistra ma che decide di non esporsi sulle imminenti elezioni regionali in Emilia Romagna: una mossa poco lungimirante, considerando che le Sardine nascono a Bologna e quindi corrono il rischio concreto di vedere Matteo Salvini trionfare anche a casa loro. Tra l'altro le Sardine hanno già iniziato ad avvertire la paura di dividersi sui grandi temi. Domenica 15 dicembre si sono riunite in assemblea per la prima volta e hanno palesato difficoltà nel trovare una linea comune: dal decreto sicurezza ai migranti, passando per l'ambiente, non si capisce dove il movimento vuole andare a parare. 

Non solo Pd. Se le sardine sprofondano nell’estremismo rosso, la loro missione è già finita. Francesco Storace martedì 17 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Il gratta e vinci con le sardine finisce presto. Perché se è vero tutto quel che sta emergendo – ed è vero – questo movimento di senzatesta si sta trasformando nel veicolo della peggiore sinistra, quella che lambisce il Pd e sprofonda nei centri sociali. Altro che novità. Siamo semplicemente di fronte alla rappresentazione di un grande inganno, un pallone destinato inevitabilmente a sgonfiarsi. Non che affascinassero nelle loro sembianze da rivoluzionari da salotto. Però in fondo questi delle sardine potevano apparire insidiosi come alternativi alla destra che odiano, molto più degli apparati da nomenclatura che stanno aggrappati al potere senza voti. E nella piazza di sabato c’era andata anche brava gente, insospettabili purosangue rispetto alla politica. Chissà che cosa risponderebbe Isabella Ferrari ad una domanda semplice semplice? Lei, che immaginiamo come elettrice di una sinistra moderata, sarebbe andata lo stesso in piazza se avesse saputo di potersi imbattere in Tarzan e la sua banda? Sì, l’estremista di sinistra più amato dai centri sociali, quell’Andrea Alzetta che non poté tornare in Campidoglio per via di problemi giudiziari?

Per Mario Monti – orrore – le sardine sono “interessanti”, Zingaretti gronda entusiasmo per le piazze che il Pd non riesce più a riempire e lasciare fare ai “ragazzi”. Ne è ammirato persino Renzo Piano e ci stavano facendo un pensierino pure Virginia Raggi e Luigi di Maio. I giudizi del giorno dopo possono essere ancora gli stessi del giorno prima? Si sono sprecati gli endorsement dei vip nei confronti di questo fenomeno esploso così all’improvviso. Ma difficilmente si può resistere se non si supera la prova dell’ambiguità: per chi fa politica  – e loro vogliono farla – è decisiva. Già, perché poi ti giri un attimo e ti ritrovi la ciurma di Mattia Santori radunata per quello che chiamano “congresso” all’interno di uno stabile occupato. Dove gli offrono anche la “sede”. Centri sociali, clandestini, viva l’illegalità. E che c’entra tutto questo con gli inni all’amore e le parole a vuoto contro l’odio? La “pretesa” delle occupazioni non ce l’hanno messa nel compitino in sei punti sventolato a piazza San Giovanni. E chissà se a Tarzan hanno spiegato che una parolaccia equivale a una bastonata. Se violenza verbale e violenza fisica sono un tutt’uno nel loro modo di disegnare la giustizia italiana come la vorrebbero, per l’estremismo rosso sarebbe una pacchia che ricomincia.

Poveri Papaboys, povera Brigata ebraica…Peccato che non hanno fatto parlare quelli ancora peggio di quanti hanno chiamato ad arringare la folla. Chissà come avrebbero reagito i Papaboys se avessero ascoltato il solito fritto misto su unioni civili, famiglia da sfasciare, ode all’eutanasia… E la Brigata ebraica sarebbe stata a suo agio con chi inneggia ad Hamas? Rimaneva in piazza o avrebbe raggiunto un posto più tranquillo? Sembra di rivivere i primi tempi dei gilet gialli in Francia. All’inizio un grande movimento di popolo, ammirato anche dalle nostre parti, e poi via via trasformatosi in un manipolo di violenti, da cui in molti hanno poi preso le distanze. Per carità, sono realtà che esisteranno sempre, ma guai a spacciarle come novità. Il sol dell’avvenire fatica ad elevarsi. E in fondo è meglio così.

Sardine, Francesco Merlo su Repubblica attacca Mattia Santori: "Sempre in tv a dire banalità". Libero Quotidiano il 6 Dicembre 2019. Comincia a commettere qualche errore la Sardina Mattia Santori. O forse, questa bella Sardina comincia a dare fastidio al Pd, che sembra risentirne nei sondaggi. Tant'è. Francesco Merlo, in un editoriale su La Repubblica, attacca infatti il leader del movimento, colpevole di imperversare nei talk show televisivi, e di essere andato a Un Giorno da Pecora a dire una serie di fesserie, tipo "compiacersi" di attirare le "over cinquanta", o commettere errori di stile, come mangiare "in diretta un piatto di sardine al limone", una vera "banalità". Ma non solo. Mattia "ha confessato il vizietto di passare col rosso con il motorino", però, nota Merlo, "le sardine sono il contrario dell'Italia che passa col rosso, che è la stessa che salta le code e parcheggia in seconda fila". Le sardine sono "la necessità di una regola d'eleganza in un Paese che ha elevato a pedagogia il fregare il prossimo". E affonda: "L'Italia dei 'meglio furbi che virtuosi' è quella della prepotenza e non della solidarietà. Insomma non è l'Italia delle sardine". Mattia "non si perde una trasmissione, da Piazza Pulita a Floris, da Daria Bignardi a Lilly Gruber, sta sempre lì a fare il marziano. Dico la verità: mi capita, quando lo vedo, di imbarazzarmi per lui. Anche perché sono sicuro che le altre tre sardine - Andrea Garreffa che è la testa, Roberto Morotti che è la coscienza, e Giulia Trappoloni che è il cuore - sanno bene", infierisce Merlo, "che il marziano, a furia di essere intervistato, finì ubriaco in via Veneto dietro ai paparazzi che non gli andavano più dietro". E occhio, così "rischiano di trasformare la bella faccia di Mattia, che giustamente hanno scelto a rappresentare tutte le loro belle facce pulite, in quella dell'ultimo allampanato dal successo. Il suo volto ingenuo e allegro si sta estenuando nel farsi ordinario, famoso perché non ci sarà niente di lui che si farà ricordare e perché la troppa televisione cambia i connotati di tutti, anche delle sardine". 

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 15 dicembre 2019. Alla sardina Mattia Santori succede ogni volta che va in tivù: con buona pace di sua madre che se ne dispiace, gli danno sempre del tu. All' attore Gioele Dix succede quando va a comprare un paio di jeans: il capo di abbigliamento «giovane» autorizza le commesse e i commessi a trattarlo da «giovane»; sul tema ci ha imbastito un passaggio del monologo teatrale Vorrei essere figlio di un uomo felice. Al presidente francese Emmanuel Macron successe durante la cerimonia del 18 giugno dell' anno scorso, quando uno studente con un po' di imprudenza gli chiese «ça va Manu?» e lui replicò fermo: «No, no, no, sei a una cerimonia ufficiale, mi devi chiamare signor presidente della Repubblica o signore». La scomparsa del lei sembra ormai un lutto solo per la famiglia degli allocutivi (quei pronomi personali usati per rivolgersi a un' altra persona) e per pochi nostalgici delle buone maniere. Colpa forse dell' inglese, dove usa comunemente «you», «tu». Ma l' alibi anglofilo non convince Samuele Briatore, presidente dell' Accademia italiana galateo: «La lingua inglese rende la formalità con la costruzione della frase. Anche se usano il "tu", la formulazione è rispettosa dei ruoli». Il linguista Marco Santagata, piuttosto, nel declino del lei ci vede qualcosa di più sostanziale: «Mi chiedo se non sia venuto meno il modo di rapportarsi con rispetto e dignità con gli altri». Appiattire il linguaggio significa appiattire le relazioni, ma le relazioni non sono tutte uguali, hanno intensità diverse. E su questo si fonda la «ribellione» di Gioele Dix: «Non rifiuto il tu per snobismo, che poi non ti fa nemmeno dispiacere quando ti dicono ciao. La tua illusione è che ti vedano giovane, ma non è così. Penso invece che i linguaggi debbano essere adeguati ai contesti, non puoi parlare allo stesso modo nello stesso luogo con tutti». La lingua italiana, però, è fluida e pertanto destinata a cambiare. Combattere il tu talvolta può essere una battaglia inutile, ma vale la pena insistere in certe circostanze. «Sul posto di lavoro è da preferirsi il lei, sempre. Immaginate una lite tra colleghi: se fatta con il tu perde di valore, mentre il lei mantiene la giusta distanza che la rende definitiva», spiega Briatore. Anche in un negozio è da preferirsi il lei: «È una questione di rispetto. Del cliente, nei confronti del professionista che lo sta servendo. E del commesso, che in quel momento rappresenta anzitutto l' azienda per cui lavora». Il punto dirimente, allora, è chi dà del tu a chi. Briatore insiste: «È grave quando c' è una relazione impari, e chi dà del tu lo fa stabilendo una gerarchia di potere. Piuttosto lo si chiede prima, possiamo darci del tu?». Ma Santagata è realista: «Il lei è venuto meno, assieme al congiuntivo. Questi sono fenomeni storici non governabili. È inutile stracciarsi le vesti per gli anglismi imperanti. Però forse la scuola può fare un'operazione di salvaguardia di alcuni atteggiamenti formali tra generazioni. Ormai i genitori non ci riescono più...».

Santori star tv: 16 talk show in 28 giorni. Il leader delle sardine nuota da un mese tra gli studi di Rai e La7. Domenico Di Sanzo, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Una sardina al giorno. Come una pillola da mandare giù per i telespettatori della Rai e di La7. L'ultima ospitata in Tv, per il capo sardina Mattia Santori, è stata ieri su Rai 3, a Mezz'ora in più condotto da Lucia Annunziata. E fanno 16 presenze. In 28 giorni. Una maratona che immaginiamo sia estenuante per un ragazzo di 32 anni che un mese fa era uno sconosciuto. «Sono quello più esposto, il martire dei media perché me la cavo abbastanza bene in tv», ha detto la star Santori il 5 dicembre a Otto e Mezzo, La7, gradito ospite del salotto di Lilli Gruber. Per autori e conduttori dal 18 novembre è partita la caccia alla sardina. Una corsa ad accaparrarsi la nuova icona pop della politica italiana. Tutto riccioloni, sorrisoni e maglioncini senza camicia. Sabato a Piazza San Giovanni, a Roma, le sardine hanno lanciato i loro sei punti programmatici. Tra questi la pretesa che chiunque ricopra la carica di ministro «comunichi solo sui canali istituzionali». Niente talk show, parrebbe di capire. E siccome Santori ministro non lo è ancora è lecito che si sbizzarrisca. Bando alla sobrietà comunicativa richiesta alla politica. La vita della sardina in capo è tutta una nuotata da uno studio televisivo all'altro. Partiamo da 28 giorni fa. Debutto ad Agorà su Rai 3. Un battesimo di fuoco, perché nello stesso 18 novembre Santori è stato ospite di Rai News 24. Come ricostruito anche dal sito Blogo, il giorno dopo la sardina ha fatto una vera e propria scorpacciata di televisione. Un tris su La7: mattina presto ad Omnibus, metà mattinata a L'aria che tira, esordio in prima serata a Dimartedì condotto da Giovanni Floris. Il 20 novembre è stato meno frenetico, solo un'intervista a Sky Tg 24. Nuova giornata, nuovo talk show. Il 21 spazio a Santori, stavolta accompagnato da altre due sardine, a Piazzapulita di Corrado Formigli. Due giorni di riposo e domenica 24 il primo invito di Lucia Annunziata a Mezz'ora in più. A fine novembre una settimana di pausa. Perché alla domenica successiva il volto delle sardine si è guadagnato un'ospitata di lusso: Che tempo che fa di Fabio Fazio su Rai3. Il resto è storia più recente: bis a Dimartedì, faccia a faccia con Daria Bignardi a L'assedio sul Nove il 4 dicembre, Otto e Mezzo il giorno dopo, match con il comunista Marco Rizzo a Tg2 Post il 10, ritorno a L'aria che tira il 12 e passerella a Propaganda Live, sempre su La7, venerdì 13. Dal conto sono escluse le registrazioni mandate in onda dai Tg, le interviste radiofoniche e le dirette video online. Il totale fa un giorno sì e l'altro no in Tv. Un po' come i grillini di qualche tempo fa le sardine, o meglio il loro portavoce, si concedono il lusso di selezionare le modalità delle partecipazioni televisive. Niente «dibattiti tra politici». E soprattutto nessuna intenzione di prendere parte ai programmi di approfondimento targati Mediaset. Su Rete 4 «non ci vedrete mai» hanno fatto sapere tramite un post su Facebook. A proposito del presenzialismo della sardina Santori è arrivato il consiglio (non richiesto) del giornalista del Fatto Quotidiano Andrea Scanzi. Che ha detto: «Apparite meno in Tv». E lo ha fatto dallo studio di Otto e Mezzo su La7, di fronte a Lilli Gruber, il 9 dicembre scorso. 

"Pretendo, pretendo, pretendo". ​Che orrore il programma delle sardine. Lo aspettavamo da giorni: ecco il programma delle sardine. Ma sono solo sei banalità. E le "pretendono" pure. Giuseppe De Lorenzo, Domenica 15/12/2019 su Il Giornale. Le attendevamo impazienti, queste benedette proposte politiche delle sardine. Le abbiamo viste scendere in piazza, riempire programmi televisivi, occupare prime pagine dei giornali. Sono un bel colpo d’occhio, ma dopo una decina di flash mob al grido “Bella Ciao” e “abbasso la Lega” qualcuno aveva iniziato a chiedersi: sì, tutto bello, ma nel concreto cosa vogliono queste sardine? Qual è il loro progetto politico? Cosa immaginano per l’Italia di domani? Qualche giorno fa Mattia Santori in tv promise: “Per il programma del nostro movimento aspettiamo la manifestazione di Roma". Quel giorno è arrivato, Piazza San Giovanni era piena (100mila secondo gli organizzatori, 35mila per la questura) e tutti in trepidazione attendevano finalmente di scoprire il vero segreto delle sardine. Il programma in grado di dare nuovo slancio alla politica, la via da seguire per strappare l’Italia agli odiati populisti. Santori aveva in mano un foglietto, ci aspettavamo un discorso degno di nota. In fondo tutti i referenti locali (il contatore è arrivato a 113 piazze sparse in tutta Italia) hanno avuto un mese per redigere i punti programmatici. Un mese. E cos’hanno prodotto? Nulla, o quasi. Un topolino, più che un pesce. Un elenco di sei banalità sostanzialmente inutili per il Paese. L’unico sussulto riguarda il Decreto Sicurezza (e te pareva), l’odiosissima legge voluta da quel Matteo Salvini che è - alla fine - il vero ispiratore delle sardine. A Bologna sono nate contro il leghista e a Roma si sono riconfermate in grado soltanto di opporsi al Carroccio. Senza proporre granché.

Entriamo nel dettaglio. Il primo punto: “Pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a fare politica invece di fare campagna elettorale permanente”. Applausi. Secondo: “Pretendiamo che chiunque ricopre la carica di ministro, comunichi solo attraverso i canali istituzionali”. Ovazione. Terzo: “Pretendiamo trasparenza nell’uso che la politica fa dei social network, sia economica che comunicativa”. Acclamazione. Quarto: “Pretendiamo che il mondo dell’informazione protegga, difenda e si avvicini alla verità e traduca tutto questo sforzo in messaggi fedeli ai fatti”. Standing ovation. Quinto: “Pretendiamo che la violenza venga esclusa dai toni e dai contenuti della politica in ogni sua forma. E che la violenza verbale venga equiparata alla violenza fisica”. Evviva. Sesto: “Chiediamo di rivedere (dalla piazza gridano “abrogare”) il Decreto Sicurezza, c’è bisogno di leggi che non mettano al centro la paura ma il desiderio costruire una società inclusiva e che vedano la diversità come ricchezza non come minaccia”. Amen.

Vista la profondità di pensiero, mi immagino già lo sforzo per arrivare a sei. Dunque chiedere di scriverne dieci forse sarebbe stato un po’ troppo. Ma quel che sorprende è l’assenza di sostanza politica, sociale, economica. Abbassiamo le tasse o le alziamo? Firmiamo il Mes oppure no? Liberismo o statalismo? Mistero. L'unica cosa certa (in fondo sul palco sono salite pure le Ong) è che desiderano i porti aperti. Ci pare un po' poco.

Quel che invece preoccupa sono i toni. Lo avevamo detto alla pubblicazione del manifesto: quando le senti parlare, le sardine puzzano di dittatura sinistra. I populisti - dicono - non hanno diritto di essere ascoltati, loro invece “pretendono”. Non l’avete notato? Cinque delle sei proposte enunciate a Roma iniziano con quella parola. “Pretendo, pretendo, pretendo”. Come se tutto fosse loro dovuto. Invece, in democrazia un programma si propone agli elettori, ci si candida e - una volta al potere - si cerca di applicarlo. Non si pretende alcunché. L’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino dei Re sardina.

Sardine, "chi è davvero Santori e cosa diventerà molto presto". Indiscreto: Salvini e Meloni fanno festa. Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019. "Non ditemi bravo, dite bravi". Mattia Santori, da piazza San Giovanni, arringa la folla delle sardine e in maniera un po' pelosetta sembra rifiutare l'etichetta di leader di un movimento che lui stesso, insieme a tre amici, ha inaugurato a inizio novembre in piazza Maggiore a Bologna. La verità, come sottolinea anche Flavia Perina sulla Stampa, è che nella Capitale il 31enne bolognese si è definitivamente laureato "capopopolo" degli anti-Salvini. Tanto da leggere al microfono le sei "pretese" del programma politico delle sardine, a cominciare dall'eliminazione dei decreti sicurezza. Tra Bella ciao, Costituzione, riferimenti all'anti-fascismo, "più che una manifestazione è andato in scena un happening palesemente improvvisato, una Woodstock di suggestioni sovrapposte dove due terzi della platea non sono riusciti a sentire nemmeno una parola o una nota", spiega con una punta d'ironia la Perina. L'importante era partecipare, "stare nel banco" delle sardine. L'ambizione di Santori "non è quella di fare un partito ma di costruire un aggregatore simbolico di tutto ciò che si muove nello spazio tra il Pd, l'ala sinistra del M5s e i Centri Sociali", centri sociali che non a caso domenica ospitano in un palazzo occupato il "congresso" dei delegati. Il rischio, prosegue la Perina, è però che Santori e i suoi non siano ossigeno, ma "una dolorosissima spina nel fianco" della sinistra ufficiale e il "pretendiamo" scandito con forza dal leader sono "un bel guaio per Pd e M5s", più che per Salvini e Giorgia Meloni. "Anzi, i leader sovranisti hanno trovato un nuovo nemico, che si connette in tutta evidenza alla sinistra, e potranno cimentarsi con lui in quel tipo di competizione aggressiva che prediligono".

Le allucinanti proposte del leader delle Sardine: censura sui social, bavaglio alla libera stampa. Il Secolo d'Italia sabato 14 dicembre 2019. Allucinanti le proposte lette dal palco di San Giovanni dal leader delle sardine Mattia Santori. Molto applaudito e coccolato dalla piazza romana, ma il decalogo che ha letto suscita interrogativi inquietanti. Ecco ciò che ha detto Santori leggendo la piattaforma del movimento: “Pretendiamo che chi è eletto vada nelle sedi istituzionali a fare politica invece di fare campagna elettorale permanentemente. Che chiunque ricopre la carica di ministro comunichi solo sui canali istituzionali. Pretendiamo trasparenza nell’uso che la politica fa dei social. Che il mondo dell’informazione si avvicini alla verità e traduca questo sforzo in messaggi fedeli ai fatti. Che la violenza venga esclusa dai toni della politica in ogni sua forma, che la violenza verbale venga equiparata alla violenza fisica. Chiediamo di abrogare il decreto sicurezza”.

Allucinanti proposte accolte al grido “libertà, libertà”. Una piattaforma che lascia perplessi, accolta dal grido “libertà, libertà”. Libertà sarebbe limitare l’uso dei social? Oppure controllare la stampa? O ancora trattare giuridicamente alla stessa stregua una violenza fisica e un’ingiuria? O impedire che Salvini si faccia selfie e li posti sui suoi profili social? Ancora più inquietante il fatto che il capo del Pd Zingaretti abbia definito “belle” le proposte lanciate dalla piazza di Roma. E a proposito di un eventuale incontro col premier Giuseppe Conte Santori ha detto ai giornalisti: “Sì, ma è ancora presto per quella fase. Stiamo ancora lavorando sull’organizzazione delle piazze”. “Abbiamo registrato il marchio delle Sardine di Bologna – spiega Sartori –  per evitare che sia strumentalizzato non per fare politica. E’ chiaro che nessuno può usare il marchio delle sardine per fare politica”. “Come a Bologna e nelle altre città, qui non si passa” ha detto ancora Santori dal palco.  “Le piazze hanno preso la forma dell’antifascismo e della lotta alla discriminazione. Con mezzi ignoti al sovranismo bieco, la gratuità, l’arte, il racconto della diversità”, ha affermato. “Le Sardine non sono mai veramente esistite, in quelle piazze c’erano solo delle persone capaci di distinguere la politica dal marketing”, ha aggiunto.

La sardina contro Il Giornale: "Fa male alla democrazia". Nel mirino delle sardine anti-leghiste di piazza San Giovanni finisce anche Il Giornale: "Fa male alla democrazia italiana". Elena Barlozzari, Domenica 15/12/2019, su Il Giornale.  E meno male che le sardine si erano date appuntamento in piazza San Giovanni per darci lezioni di libertà e diritti. Dal palco allestito all’ombra della basilica hanno letto e riletto gli articoli della nostra Costituzione esaltandone le virtù. Raccontandoci che quel prezioso patrimonio di valori sta andando perduto a causa della deriva fascio-leghista del Paese. Una piega brutta contro cui bisogna resistere con le unghie e con i denti, nel nome di chi, quella Costituzione, l’ha scritta con il proprio sangue. Sono tutti eroi in questa piazza. Si definiscono “partigiani del 2020”. I partigiani immaginari che non hanno né una guerra né un invasore da combattere sono alla disperata ricerca di un nemico, di una ragione d’essere. E allora l’avversario può essere chiunque. Matteo Salvini, leader di un partito di opposizione, viene dipinto come il dittatore da rovesciare. Chi lo ha sostenuto esercitando un sacrosanto diritto è un pazzo che farebbe meglio a prendere ripetizioni prima di presentarsi alle urne. E nel grande calderone dei nemici d’occasione, naturalmente, ci finiscono anche i media non allineati alla visione della piazza. Già da qualche giorno Mattia Santori e i suoi hanno fatto sapere che avrebbero accuratamente evitato quei salotti televisivi che offrono ai propri spettatori “un dibattito sterile, parziale e demagogico”. Una specie di lista di proscrizione che ha la pretesa di distinguere l’informazione buona da quella cattiva. Guarda caso, quest’ultima, è proprio quella dove il rischio di vedersi rivolgere una domanda scomoda o una critica è più elevato. Alla faccia del pluralismo, sancito anch’esso da una sentenza della Corte Costituzionale. Nel mare magum dei media dove le sardine non vogliono sguazzare c’è anche il nostro giornale. Non tutte le sardine di piazza San Giovanni, infatti, accettano di parlare ai nostri microfoni. Questo perché Il Giornale è considerato una minaccia per la democrazia italiana. A spiegarcelo senza troppi giri di parole è una donna sulla sessantina: “Siamo in piazza per dire che non ci riconosciamo nella politiche di odio e di mancata inclusione di Salvini e che molto spesso il vostro giornale rilancia con dei servizi che sono quantomeno discutibili”. “Il Giornale e Libero – prosegue la signora – fanno un giornalismo che non è rappresentativo della tradizione dei giornali italiani”. Quindi? Chi non la pensa come i pesciolini dovrebbe starsene zitto? Le domandiamo. “Lei ha lo stesso diritto che ho io di parlare – risponde la sardina – ma credo che Il Giornale e Libero siano due testate che non fanno bene alla democrazia italiana”. Viene spontaneo domandarsi a quale modello di democrazia facciano riferimento la signora e questa piazza. E se davvero conoscano a fondo la nostra Costituzione che tanto vanno sbandierando. Che non è un catalogo da cui prendere solo ciò che piace a loro. Allora il consiglio è quello di leggere e rileggere anche l’articolo 21.

Sardine tra bugie e verità. Mentre i coordinatori annunciano la "fase 2" e "fase 3" del movimento bisogna capire che non è tutto oro quello che luccica. Panorama il 16 dicembre 2019. Sulle sardine ormai siamo alla venerazione; a leggere certa stampa, a sentire certi opinionisti, la narrazione ci riporta che:

- sabato a Roma è stato un trionfo con centomila persone in piazza. E, comunque, ogni loro manifestazione è un tripudio di gente e piazze stracolme

- evviva la nuova eroina, la prima sardina musulmana, Nibras Asfa, che ha fatto pure il verso alla Meloni dal palco: "Sono una donna e sono musulmana", e giù applausi

- non ci leghiamo a nessun partito

- il suo leader, Mattia Santori, non ha alcuna intenzione di candidarsi

- vogliamo interessare un italiano su 4, il 25%

- ora comincerà la fase 2. Con un programma di 10 punti. Alcuni dei quali noti (da notare che la sardine "Pretendono" e non "Chiedono"...)

• Uno: pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare;

• Due: chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solo attraverso i canali istituzionali;

• Tre: pretendiamo trasparenza dell’uso che la politica fa dei social network;

• Quattro: pretendiamo che il mondo dell’informazione traduca questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti;

• Cinque: che la violenza venga esclusa dai toni della politica e anzi che la violenza verbale venga equiparata a quella fisica;

• Sei: abrogare il decreto sicurezza di Matteo Salvini.

- presto saranno ricevuti dal premier Conte che li sta seguendo con attenzione, favore ed interesse.

Questo il riassunto della propaganda ittico-politica. Peccato che, però, ci sarebbero anche altre cose, non dette:

- Non tutte le manifestazioni della sardine hanno avuto lo stesso successo. A Monza, tanto per dire l'ultima in ordine di tempo, le sardine in piazza erano un centinaio. C'era più gente nel vicino negozio di un noto brand di abbigliamento per gli acquisti di Natale.

- la nuova eroina musulmana prima di salire su di un palco, prendere un microfono e parlare di toni della politica, di violenza verbale dovrebbe quantomento fare due chiacchiere con il marito, Sulaiman Hijazi, che sulla sua pagina facebook si definisce ed appoggia Hamas, l’organizzazione palestinese considerata terroristica, tra gli altri, da Unione Europea, Stati Uniti, Australia, Giordania, Giappone e Regno Unito, che ha l’obiettivo di distruggere lo Stato d’Israele

- Santori, tra un'intervista in tv e l'altra è già passato da "non faremo politica" a "Candidarmi? Mai dire mai".

- secondo i sondaggisti più che il 25% le persone disposte a votare un eventuale partito delle Sardine è il 4,5%.

- già nella prima settimana di vita il rappresentante della sardine di Modena salì per primo sul palco della manifestazione che diede il via alla campagna elettorale di Bonaccini per dire che le sardine avrebbero votato per il candidato del Pd alle prossime regionali.

- in ultimo: il premier Conte se mai vi dovesse incontrare e se mai quel giorno sarà ancora presidente del Consiglio (perché in tutto questo il Governo è da settimane sull'orlo del baratro) lo farà solo per la foto di rito e mettere la "sua" bandierina sul neo movimento.

- per quanto riguarda il decreto Sicurezza di Salvini dovrebbero chiedere al Pd ed alla sinistra che appoggiano e che governano da mesi come mai non li abbiano ancora abrogati, come avevano promesso.

 Sardine, Augusta Montaruli le stronca ad Agorà: "Il finto messaggio di Liliana Segre e il divieto ai Sì Tav". Libero Quotidiano il 16 Dicembre 2019. Le tanto osannate Sardine, in realtà, qualche bella figuraccia l'hanno fatta. A svelarle in diretta da Serena Bortone, ad Agorà, su Rai tre, è la deputata di Fratelli d'Italia, Augusta Montaruli: "A Torino avete detto ai rappresentati del Si Tav, alle madamine, di non venire in piazza e poi però le sardine fanno salire sul palco quelli dei centri sociali", attacca la meloniana. Ma non solo. Sempre a Torino, continua la Montaruli, "le sardine hanno letto un messaggio dicendo che era di Liliana Segre e poi Liliana Segre mezz'ora dopo ha dovuto smentire che quel messaggio fosse suo. Quindi non mi posso sentire rappresentata da queste persone". 

Barbara Spinelli per il “Fatto quotidiano” il 17 dicembre 2019. Sabato a San Giovanni le Sardine hanno annunciato il loro programma, non economico né sociale, ma incentrato quasi interamente sulla comunicazione e sull' uso nonché controllo dei social network. Essendomi occupata di questo tema nella scorsa legislatura europea, come relatore della risoluzione dell' aprile 2018 sul pluralismo e la libertà dei media nell' Unione europea, non posso fare a meno di esprimere disagio. Ricordo che le principali obiezioni a una piena libertà dei media e a un più scrupoloso rispetto del diritto internazionale sono venute - durante i negoziati che ho condotto con i vari gruppi del Parlamento prima che la relazione venisse adottata - dal Partito popolare, dai Conservatori e da buona parte dei Socialisti e dei Liberali. Le obiezioni non mi hanno permesso, tra l'altro, di mantenere nella sua integralità il paragrafo sul reato di diffamazione, di cui chiedevo la depenalizzazione. Meglio dunque i silenzi e il vuoto di messaggio delle prime manifestazioni di piazza che la nuova Costituzione distopica "pretesa" dalle Sardine (ma da chi, fra le Sardine?) nei 6 punti indicati a San Giovanni. Eccoli elencati, in ordine di gravità. Il numero 5 ("La violenza verbale venga equiparata a quella fisica") non resisterebbe al giudizio di nessuna Corte: internazionale (Onu), europea o nazionale. Da anni - e soprattutto dall' inizio delle guerre contro il terrorismo - le Corti discutono e sentenziano su quale violenza sia condannabile, nei media offline e online: i verdetti invariabilmente e puntigliosamente separano la violenza verbale da quella fisica, pur fissando alcuni paletti molto ben definiti alla violenza verbale (in sostanza: la violenza che prelude inequivocabilmente a IMMINENTI violenze fisiche). L' equiparazione è un temibile novum giuridico, da evitare a tutti i costi e in tutte le sedi. Il reato di diffamazione, criticato da diverse Corti europee e internazionali che raccomandano di sostituirlo con l' imputazione di illecito amministrativo, viene rafforzato. I numeri 3 e 4 promettono male, contaminati come sono, e forzatamente, dal numero 5 che introduce il novum giuridico sulla violenza. Il numero 3 pretende "trasparenza nell' uso che la politica fa dei social network". Il numero 4 pretende che "il mondo dell' informazione traduca tutto questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti". Si profila l' aspirazione a un vasto controllo/soppressione dei media e dei loro contenuti, soprattutto online. Tutto quello che viene ritenuto violento (da chi? Da quale istanza?) è passibile di azioni che limitano la libertà di diffondere e ricevere informazioni. Il numero 6 pretende l' abrogazione dei decreti Sicurezza. È l' unico punto veramente sensato, ma se la pretesa sulla violenza contenuta nel numero 5 (applicata in vari ambiti: media online e offline, manifestazioni pubbliche etc.) viene inserita nei decreti riscritti, è meglio forse tenersi quelli di Salvini. Il numero 2 ("Chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente nei canali istituzionali") blinda le oligarchie e non le obbliga, come invece queste dovrebbero, a comunicare tous azimuts, anziché solo nei canali istituzionali. La comunicazione limitata le protegge da ogni sorta di attacco esterno, rinchiudendole in un recinto separato. Il numero 1 recita: "Chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare". È immaginabile che si faccia qui riferimento alle attività non istituzionali di Salvini ministro dell' Interno. Ma la pretesa viene generalizzata e ha un suono inquietante, soprattutto se legata al numero 2.

Paolo Frosina per il “Fatto quotidiano” il 17 dicembre 2019. Nessuna richiesta al governo, se non quella (tentennante) di abrogare i decreti Sicurezza. Nessun dibattito sul documento (che poi è un post su Facebook) finale. E d' ora in poi niente interviste né ospitate in tv, a meno che non ti chiami Mattia Santori. Dal "congresso" di domenica al centro sociale Spin Time Lab, al netto dell' unità di facciata, più di una Sardina è uscita con l' amaro in bocca. A non convincere - soprattutto chi viene dalla militanza di sinistra - è la linea imposta dai "quattro di Bologna", i fondatori del movimento: ecumenica, prudente fino all' estremo, più adatta, secondo loro, a un gruppo di scout che a un soggetto che vuol provare a far politica. Tant' è che nelle sei "pretese" elencate da Santori in piazza san Giovanni - anche quelle mai discusse con la base - di politica ce n' è ben poca: giusto l' invito a "rivedere" i decreti Sicurezza, poi corretto a furor di piazza in "abrogare". Ma è lo stesso leader a dire ai microfoni, sotto il palco, che nelle leggi-simbolo di Salvini "ci sono anche aspetti positivi, che vanno mantenuti". Domenica, nel palazzo occupato all' Esquilino, erano in 150. Hanno parlato in 20 circa, uno per ogni regione. Nessuno, per timore di rovinare il clima, è entrato in polemica diretta con la leadership. Ma quando Santori impone a tutti (meno che a se stesso, giovedì sarà a Piazzapulita) di evitare le interviste ("chi va in tv senza dire nulla può uscire dal gruppo e prendere la sua strada"), nelle chat delle Sardine qualcuno ha iniziato a sfogarsi. "Questo vuole fare il capetto, si è montato la testa. Ha paura che possiamo dire cose divisive sull'ambiente, i decreti, l'autonomia e Regeni. Avete visto che faccia ha fatto quando l' avvocato di Regeni è stato applaudito in quel modo?". Già, perché uno degli episodi più discussi riguarda Alessandra Ballerini, avvocato della famiglia Regeni e convinta "Sardina" genovese. Anche lei era allo Spin Time, in rappresentanza della Liguria. Dopo il suo intervento Lorenzo Donnoli, un attivista di Bologna, ha chiesto all' assemblea un applauso per onorare il suo impegno alla ricerca della verità per il ricercatore ucciso in Egitto. Ma subito dopo l'ovazione, Santori avrebbe riportato tutti alla calma, invitando a non esagerare sui temi "divisivi". Aggettivo speso anche per stigmatizzare le prese di posizione di alcuni attivisti su questioni ambientali o in opposizione all' autonomia differenziata. Provocando la rabbia (soffocata) di molti: "Come cazzo gli viene in mente di dire che l' ambiente è un tema divisivo?", si sfoga una Sardina in un gruppo Whatsapp. Non è strano allora che nel post-documento diffuso ieri non si faccia cenno a questioni politiche, ma solo a future iniziative (per ora piuttosto vaghe) sui territori e nelle periferie. La giustificazione è che "i temi politici specifici sono complessi, non possono essere affrontati in una mattinata in modo adeguato". Ma gli attivisti più a sinistra non sono convinti: "La verità è che non vuole che i temi vengano fuori prima delle elezioni in Emilia, a lui importa solo di quelle. E non vuole dare fastidio a nessuno", scrive un ragazzo. "L' ho visto in difficoltà, non si aspettava una conferenza così carica a sinistra", gli fa eco un altro. Poi ci sono gli insulti sui social arrivati nelle ultime ore a Nibras Arfa e Sulajman Hijazi, due giovani palestinesi intervenuti a San Giovanni. Giorgia Meloni e i giornali di centrodestra li hanno accusati, senza fondamento, di essere vicini ad Hamas. "Mi sono arrivati migliaia di minacce e messaggi terribili in posta privata. In Italia non si può parlare di Palestina senza passare per antisemiti", dice Nibras, che ha 25 anni e studia Giurisprudenza a Milano. Ma né Santori né gli altri leader delle Sardine si sono spesi per difenderli. "Si vede che erano troppo divisivi anche loro", dice una ragazza.

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 17 dicembre 2019. Il primo comandamento del decalogo delle sardine recita: «I numeri valgono più della propaganda e delle fake news». Giusto: parliamo allora di numeri e di bugie. Il numero è 300.000, cioè l' ammontare in euro delle bollette non pagate da Spintime Labs, il «centro culturale» in cui le sardine si sono riunite domenica per stilare il loro programma sotto vuoto. La bugia, invece, è quella del cardinal Bolletta, al secolo Konrad Krajewski, l' Elemosiniere del Papa. Il monsignore, lo scorso maggio, ruppe i sigilli dello stabile occupato in via di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, per riattivare le utenze che erano state bloccate. Arrivò addirittura a calarsi in un pozzo per consentire all' edificio di riavere l' elettricità. «Da questo momento, da quando è stato riattaccato il contatore, pago io, non c' è problema», ribadì il monsignore. «Non voglio che diventi una cosa politica, io faccio l' elemosiniere e mi preoccupo dei poveri, di quelle famiglie, dei bambini. Intanto, hanno luce e acqua calda, finalmente. Adesso tutto dipende dal Comune, aspettiamo che riaprano gli uffici». Piccolo problema: il cardinal Bolletta non ha sganciato un euro. Come ha scritto ieri il Messaggero, «nessuno ha pagato il maxi debito, ma soprattutto non è più possibile registrare i consumi elettrici mensili: il contatore, infatti, è stato blindato con una catena e ai tecnici di Acea viene impedito di visionare gli effettivi consumi». Sono notizie di cui La Verità ha avuto conferma: per i tecnici di Acea, la multiutility romana dei servizi, è rischioso anche solo avvicinarsi al contatore, cosa che gli occupanti non gradiscono. Quanto al debito, le centinaia di migliaia di euro (che continuano ad aumentare) non andrebbero versate ad Acea, ma a Hera. Stiamo parlando di un' altra multiutility con sede a Bologna, controllata da un patto di sindacato al quale aderiscono 118 Comuni e che conta 198 azionisti pubblici. Gran parte delle amministrazioni coinvolte, per altro, sono emiliano-romagnole, quindi il bolognese Mattia Santori e i suoi colleghi - legittimando l' occupazione a sbafo - stanno causando un danno ai loro concittadini. Lorenzo Donnoli, la sardina capo di Ferrara, ieri ha difeso con vigore la decisione di riunirsi nello stabile occupato. Lo stesso Santori ha dichiarato: «Conoscevamo la situazione e la storia di questo immobile, ma abbiamo deciso di presentarci qui proprio perché vogliamo stare dalla parte dei più deboli». Solo che, in questo caso, i «più deboli» sarebbero il compagno Tarzan di Action, il movimento antagonista che gestisce le occupazioni romane, e i suoi allegri compagni di militanza. Fu sempre il Messaggero, tempo fa, a spiegare che l' occupazione del palazzo romano garantiva ad Action «un flusso di denaro superiore a 250.000 euro l' anno, tra parte ludica e affitti versati dai 450 occupanti. Anche qui, tutto in nero. Le attività della discoteca (capienza oltre 1000 persone: e poco importa che non ci siano uscite di emergenza o impianto antincendio) e del ristorante, ma anche della scuola per birrai, o ancora, dei corsi di milonga, della sala cinematografica, sono ampiamente pubblicizzate sui social». Già, perché all' interno di quel palazzo si svolgono (a pagamento) attività ludiche e di intrattenimento, che grazie all' intervento del cardinal Bolletta hanno potuto continuare senza problemi. Vale la pena di ricordare anche un altro piccolo particolare. Il monsignore elettricista riattaccò le utenze a maggio. In giugno, su Avvenire, il quotidiano dei vescovi, comparve uno stravagante appello. Su Popotus, l' inserto dedicato ai bambini, fu pubblicato un articolo che celebrava l' impresa del cardinale. Nel pezzo si spiegava che Krajewski aveva «lasciato un biglietto: alla bolletta non pagata ci penso io». Il passaggio più interessante, però, era quello in cui ai piccoli lettori di Avvenire si chiariva in che modo il cardinale avrebbe trovato il denaro necessario a pagare il debito: «La risposta la conosciamo molto bene noi di Avvenire: perché ogni anno diamo una mano a raccogliere in tutte le parrocchie italiane le offerte della gente per la Carità del Papa, cioè quel salvadanaio del quale solo il Papa tiene la chiave e che gli serve proprio per pagare operazioni come quella di Roma, e un' infinità di altre in tutto il mondo». Insomma, il quotidiano dei vescovi sosteneva che la bolletta sarebbe stata pagata con i soldi delle elemosine. Non solo: Avvenire invitava i bimbi a contribuire: «Domenica 30 giugno», scrisse Popotus, «sarà la Giornata per la Carità del Papa: se nella tua parrocchia raccolgono le offerte per questo scopo siamo sicuri che darai una mano a Francesco anche tu». Immaginiamo che qualche bambino di buon cuore abbia rotto il salvadanaio e abbia versato i soldini, o si sia rivolto a mamma e papà per farsi dare qualche spicciolo da donare in parrocchia. Chi chiediamo: dove sono finiti quei soldi? Da Hera fanno sapere che, fino a non molto tempo fa, nessun pagamento era ancora giunto. Acea nemmeno riesce a leggere più il contatore. Intanto le attività del «centro culturale occupato», comprese quelle di intrattenimento, vanno avanti in serenità. E le sardine si ritrovano a concionare illuminate dalla corrente pagata dagli italiani. Speriamo che a Natale Santori e soci mandino almeno un regalino al cardinal Krajewski. Magari un bel pesce balla.

Sardine, la lezione definitiva di Barbara Palombelli: qual è il loro errore madornale. Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019. Barbara Palombelli dà la lezione definitiva al movimento delle Sardine che ha manifestato a Roma in pompa magna. Ecco cosa dice a Mattia Santori e amici su Facebook: "Le sardine dovrebbero vietare agli over 60 di partecipare alle loro manifestazioni...", scrive la giornalista, che argomenta: "Ogni generazione ha il diritto/dovere di scendere in piazza per combattere a difesa del proprio futuro e per i propri diritti! Noi grandi abbiamo già dato... alla loro età, era forte la passione (io mi sarei infuriata se avessi visto i miei genitori o i miei professori nei cortei, ai tempi)". Conclude la conduttrice di Stasera Italia: "Oggi ci dobbiamo mobilitare per le nostre battaglie ma dobbiamo lasciare in pace i ragazzi... guai a condizionarli troppo!".

Sardine, Antonio Socci severo: "Ecco il solito errore della sinistra". Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019. Suscita molta ilarità la rilettura dei giornali italiani di questi mesi che inneggiavano alle manifestazioni londinesi contro la Brexit. Secondo la maggior parte dei nostri quotidiani e dei nostri politici di Sinistra, era evidente che i britannici non volevano (più) uscire dall' Unione europea. Il 23 marzo celebravano trionfalmente «un milione in piazza contro la Brexit» (titolo del Corriere della sera).

La settimana dopo Avvenire titolava: «Inglesi sull' orlo di una crisi di Brexit: Restiamo nell' Ue e basta».

Ad agosto ancora mobilitazione contro la sospensione del Parlamento. Il Sole 24 ore parlava di «proteste in tutta la Gran Bretagna» e annunciava: «Brexit, manifestazioni in 30 città contro Johnson». Il 19 ottobre scorso ci risiamo. Repubblica proclamava: «Londra, un milione in corteo contro la Brexit: "La Gran Bretagna ha cambiato idea, rifacciamo il referendum"».

Secondo la narrazione dominante il popolo britannico non voleva più la Brexit, il voto al referendum era stato falsato dalle fake news e comunque era da ripetere o almeno era chiaro che i cittadini del Regno Unito si erano pentiti. La piazza piena di manifestanti europeisti - secondo loro - lo dimostrava Poi è arrivato il 12 dicembre e il brusco risveglio: a valanga i britannici hanno urlato la loro decisa volontà di uscire dalla Ue. Hanno cantato, nelle urne, il loro "Bella ciao" a Bruxelles, senza se e senza ma. È stata la più clamorosa smentita a chi li rappresentava come pentiti del voto referendario.

Mai un'autocritica - Per i giornali italiani, per i commentatori e i politici di Sinistra è stato l' ennesimo choc. Non ne azzeccano una: era accaduto lo stesso con il referendum sulla Brexit e con le presidenziali americane vinte da Trump. Ma su quei giornali non si legge mai un' autocritica. Mai una volta che s' interroghino sul perché descrivono un mondo che poi si rivela del tutto diverso dalla realtà. Non si chiedono mai perché sono così disinteressati alla realtà vera. Il miraggio delle piazze poi è, per la Sinistra, una sorta di autoinganno volontario che produce la narrazione di un' Italia che non c' è, se non nella loro fervida fantasia. Nonostante il trascorrere degli anni sembra che la Sinistra faccia sempre il solito errore: credere alla propria propaganda.

Pietro Nenni lo capì dopo il 18 aprile 1948, quando il Fronte popolare subì la sua colossale disfatta. L' amara diagnosi di Nenni fu: «Piazze piene ed urne vuote». Da allora tanto tempo è passato, ma la Sinistra, nei decenni, sembra sia rimasta quella della mobilitazione permanente, della lotta continua, della Pantera, della società civile, del popolo dei fax, dei cortei viola, del popolo arancione, dei girotondi, degli adepti di Greta, delle sardine.

Fuori dalla loro piazza - in cui si compiacciono di essere qualche migliaio (peraltro sembrano sempre gli stessi che girano tutte le piazze) - ci sono milioni di italiani, che lavorano, che faticano, che tirano avanti le loro famiglie e questo povero Paese e che non credono ai mobilitati permanenti e non votano per loro (o non vogliono più votare per loro). Cosicché le urne sanciscono puntualmente la sconfitta della Sinistra che aveva riempito le piazze. In gran Bretagna come negli Stati Uniti come in Italia. A questo punto i "sinceri democratici" se la prendono pure col suffragio universale e arrivano a definire il voto che non gradiscono «un eccesso di democrazia». Il popolo che li ha bocciati diventa subito sospetto di populismo, xenofobia, fascismo o comunque - ai loro occhi - è un popolo che si è fatto abbindolare dai demogoghi, dalle fake news, dai russi e da chissà cos' altro. L' elettore medio è dipinto come incompetente. La gente comune viene guatata dall' alto in basso dagli "impegnati", e viene bollata come «indifferente»: poco tempo fa i mobilitati permanenti andavano in estasi per l' invettiva di Gramsci «Odio gli indifferenti». Oggi continuano a nutrire gli stessi livori, ma la parola "odio" non è più pronunciabile perché hanno deciso di usarla come capo d' imputazione di Salvini e dei "sovranisti", e loro si rappresentano come pervasi di amore da capo a piedi. Specialmente le Sardine sono rafigurate dai media come tracimanti di buoni sentimenti. Perché la caratteristica di questo tipo di piazze è di vivere in simbiosi con i media e con il Palazzo, di alimentarsi a vicenda, di specchiarsi l'uno nell' altro. Infatti sono piazze applaudite dal potere e celebrate dai media dell' establishment. Gilet gialli ignorato - Non così - per esempio - i gilet gialli su cui i media italiani e i politici di area Pd sono molto duri. Ieri Diego Fusaro osservava: «Mentre le giubbe gialle in Francia chiedono salari più alti e vengono manganellati senza pietà, Greta Thunberg, con le sue proteste amiche del Potere, è nominata "Persona dell' Anno" da Time. C' è di che riflettere». Esistono infatti piazze buone e piazze cattive. Le "buone", sono quelle così propagandate dai media che quasi possiamo definirle "convocate" dai media stessi. Sono le piazze applaudite dal Palazzo, caldeggiate e amate dall' élite.

Le seconde piazze, quelle "cattive", esprimono un malessere di popolo, danno voce ai problemi della gente comune, sono piazze di opposizione e vengono perlopiù ignorate dai media o - se non possono ignorarle - comunque criticate. È stata impressionante ad esempio la campagna elettorale di Salvini in Umbria: in ogni paese o piccola città si è trovato attorno un mare di gente per ascoltarlo. Senza convocazione dei media e senza resoconti giornalistici successivi. Come si è visto dai risultati elettorali era una folla desiderosa di cambiare. Il Pd, Zingaretti e compagni non potevano sperare in nulla del genere, nemmeno in Emilia Romagna e così - dovendosi evitare il ripetersi del caso Umbria a Bologna - guarda caso è venuta fuori l' invenzione delle Sardine. Che permette al Pd di riprendersi la piazza senza apparire. La domanda che suscita la manifestazione di ieri delle sardine, a Roma, è la seguente: se contro Salvini e i sovranisti sono davvero così tanti, perché la Sinistra vuole impedire ad ogni costo le elezioni? Perché non vogliono far pronunciare gli italiani? Antonio Socci

 Lettera Massimiliano Parente a Dagospia il 16 dicembre 2019. Caro Dago, mi piacerebbe vedere una piazza di giovani eccellenti: dottorandi in fisica, in biologia, in medicina, in ingegneria, in informatica. Ma quelli non vanno in piazza, se ne vanno direttamente all’estero. Da noi vanno in piazza solo diverse tipologie di coglioni che o inneggiano al capitano con il rosario in mano o cantano Bella Ciao. Tipo le sardine. Le quali, intervistate nella trasmissione Propaganda Live, hanno dichiarato di votare PD e 5 Stelle. Cioè, fammi capire, quando i 5 Stelle erano al governo con Salvini nessuno cantava Bella Ciao, e ora che al governo ci sono PD e 5 Stelle scendono in piazza contro Salvini? A proposito dico: ma com’è che ogni volta che si ritrova in piazza un’opposizione di sinistra, di giovani, di ribelli, devono cantare quella cagata di Bella Ciao? Possibile non ci sia nessun’altra canzone? Possibile vedere dei giovani che dicono una mattina mi sono alzato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao ciao ciao come dei cretini? Non ne posso più di Bella Ciao, davvero. Una delle canzoni più brutte e più tristi e più deprimenti e più sfigate mai scritte. A parte il fatto che Bella Ciao, se proprio vogliamo, è una canzone sessista, con quell’idea della donna che sta a casa ai fornelli e l’eroe partigiano parte a combattere, e dunque non dovrebbe piacere neppure alle femministe, ma quelle tanto non capiscono niente di loro, lasciamo stare. E però così hanno ragione quelli che dicono che sono comunisti, perché se non fossero comunisti non canterebbero Bella Ciao. I fascisti, c’è da dire, non cantano niente, neppure Faccetta nera. Forse perché sono stonati. Insomma, non ne faccio una questione ideologica, a me fa vomitare pure l’inno nazionale, che piacerà tanto a Salvini e alla Meloni, con l’Italia che s’è cinta la testa con l’elmo di Scipio e tutte quelle cose ammuffite lì. Gli inni andrebbero svecchiati. Cingetevi la testa con un foulard di Armani, che ne so. Tuttavia io non ci posso credere che dei giovani si identifichino in Bella Ciao. Dei giovani cresciuti con Facebook, Instagram, l’iPhone, Netflix, la Playstation, che appena si ritrovano insieme, uomini o sardine che siano, si mettano a cantare Bella Ciao (ma magari stanno cantando solo la colonna sonora de La casa di carta, chi lo sa). Con il partigiano che se muore da partigiano lei, la donna del partigiano, lo deve seppellir. Cosa normale, mica lo lascia a marcire in un prato. Però il partigiano vuole proprio che lo seppellisca lei, deve scavare una fossa con le sue mani da casalinga e seppellirlo. Ma attenzione, dove lo deve seppellire? Chiama le pompe funebri e lo mette nel cimitero più vicino? Macché, troppo facile. Lassù in montagna. Metti che muoia al mare, o in campagna, niente, deve essere seppellito lassù, in montagna, come fosse Heidi. E dove? In un posto qualsiasi? No, sotto l’ombra di un bel fior. Cosa che davvero neppure a quel montanaro di Mauro Corona verrebbe in mente. Anche perché dovete spiegarmi che cazzo di ombra potrà mai fare un fiore. E poi, diciamolo, se in Italia non entrava la Quinta Armata del generale Clark qui stavamo ancora a camminare con il passo dell’oca, altro che partigiano. Gli americani, che guarda caso non piacciono né ai fascisti né ai comunisti. Io fossi un giovane antifascista e anticomunista canterei l’inno americano. O al massimo la suoneria della Apple.

Quando le sardine italo-spagnole cantano “Bella Ciao” a Madrid. Roberto Pellegrino su Il Giornale il 14 dicembre 2019. Oggi, 14 dicembre, se passate per Madrid dalle parti della centralissima Puerta del Sol – che gli spagnoli chiamano soltanto Sol – quella sormontata dalla pubblicità del liquore Tio Peppe e con l’orso in bronzo che mangia dall’albero del madrogno per magiare il corbezzolo, per intenderci, potrete incontrare un capannoni di italiani, residenti nella capitale, unitisi al movimento delle sardine che canteranno “Bella Ciao”. Lo slogan è “la Spagna non si Lega”, accompagnato da “somos màs que voxotros”, in riferimento al partito di estrema destra spagnolo, Vox. Oltre a cantare lo storico inno antifascista, ormai più che abusato – gli spagnoli più giovani lo hanno sentito per la prima volta guadando la seconda serie su Netflix della “Casa di Carta (Casa de Papel) – le sardinas d’esportazione qui a Madrid raccoglieranno alimenti, in particolare, scatolame a lunga conservazione, e in particolare sardine. Il tuto per per beneficenza. L’ideatore della succursale madrilena delle sardine è Erik Zanon che a fine novembre ha a perso su faceboook la pagina “6000 Sardine a Madrid“. Ma sembra che la prima città estera abitata da italiani emigrati non sia stata Madrid, ma New York. Non esiste una struttura organizzativa, ma la pagina è un punto d’incontro per coordinarsi e diffondere informazioni tramite Whatsapp. La mobilitazione di oggi, in programma dalle 17 fa parte di altre che si terranno in tutta Europa. Il Comune di Madrid e la Policia Nacional hanno dato il permesso alle sardine italiano a manifestare a Sol, luogo storico di tute le proteste, tra cui quella degli Indignados che sette anni fa si accamparono per tre mesi qui. Alle 18 inizieranno gli interventi, in linea con gli orari e le abitudini della capitale spagnola. Le sardine spagnole non guardano soltanto alla politica italiana, ma puntano alla realtà spagnola con l’ashtag  #somosmasquevoxotros, vogliono mostrare la loro “politica del rispetto e non del disprezzo”  contro l’avanzata dell’estrema destra di Vox,  secondo lil loro manifesto politico che recita:  “nel pensiero dettato dalla testa e non dalla pancia, nella diversità come elemento di miglioramento della società”. Una mobilitazione per frenare ogni “retorica populista” di questi ultimi anni, contro “la politica dell’odio” di Matteo Salvini, Le Pen, Abascal (leader di Vox in Spagna), Trump, Orban.

Alessandro Gassmann sostiene le sardine: “La parte migliore del paese”. Jacopo Bongini il 14/12/2019 su Notizie.it. L'attore Alessandro Gassmann si è esplicitamente schierato dalla parte del popolo delle sardine, descrivendole come la parte migliore del paese. Anche Alessandro Gassmann si è schierato dalla parte del popolo delle sardine durante la giornata in cui si teneva la manifestazione di piazza San Giovanni a Roma. Il celebre attore, figlio di Vittorio Gassman, ha infatti dedicato un post sui social a tutti coloro che sono scesi in piazza per protestare contro il populismo, sottolineando come le migliaia di giovani presenti al raduno siano la parte migliore del paese. Alessandro Gassmann sta con le sardine. Tante sardine…ma proprio tante tante. I giovani sono, ora come non mai, la parte migliore del paese. CORAGGIO!!! Gassmann era anch’egli presente in piazza San Giovanni alla manifestazione delle sardine e per commemorare l’evento ha postato sui social una foto panoramica che ritrae l’immensa folla radunatasi nella Capitale. Sotto la fotografia, Gassmann ha poi commentato: “Tante sardine…ma proprio tante tante.I giovani sono,ora come non mai,la parte migliore del paese. CORAGGIO!!!”. L’attore non è nuovo ad esplicite prese di posizione politiche, in particolare contro la giunta di Roma guidata dalla pentastellata Virginia Raggi. Numerose volte infatti Gassmann ha rimproverato sui social la presunta approssimazione con la quale la città viene amministrata e con cui viene mantenuto il decoro urbano, come quando lo scorso maggio criticò l’asfaltatura di un marciapiede in cui la colata di bitume aveva letteralmente intrappolato il tronco di un povero alberello. In quell’occasione Gassmann commentò amareggiato: “A coloro che hanno rifatto la pavimentazione di questi marciapiedi nel quartiere Aurelio, andrebbero cementati i piedi per vedere se riescono a sopravvivere”. 

Sardine, in piazza a Roma anche gli emissari di Papa Francesco: quello che era sfuggito. Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019. Non c'era CasaPound, in piazza San Giovanni, ma i Papaboys sì. Gli ultrà di Papa Francesco per un giorno si trasformano in tifosi delle sardine, con entusiasmo. "La piazza è bellissima", spiega Daniele Venturi, presidente del movimento giovanile nato con Papa Giovanni Paolo II. "Il bello del movimento è che dicono cose che la politica non è riuscita a dire ai giovani: sono per, ma non contro, ma mi pare che in tanti lo abbiano capito e guardino alle sardine con l'attenzione che meritano", sosteneva Venturi prima dell'evento romano, come ricordato anche dal Fatto quotidiano. La benedizione dei bergogliani ora è ufficiale: "In questi giorni le sardine stanno scrivendo una pagina di storia del nostro Paese e stanno risvegliando la coscienza popolare degli italiani". 

Sardine, Michele Santoro in piazza a Roma "scalda" la folla: "Salvini e Meloni ricordano Hitler". Libero Quotidiano il 14 Dicembre 2019. Ci sarà anche Michele Santoro in piazza San Giovanni a Roma con le sardine. Il conduttore più di sinistra della tv italiana le considera i degni eredi delle "bandiere arcobaleno durante la guerra in Iraq e i girotondi". E visto che si tratta di una "manifestazione anti-fascista", lui si adegua: "C'è una destra aggressiva in Italia? Sì, allora ribadiamo che i valori dell'antifascismo non sono scomparsi, segniamo un limite con i nostri corpi e pacificamente", spiega Zio Michele in un'intervista all'HuffingtonPost.it. L'obiettivo di Santoro, come del quasi omonimo Mattia Santori, organizzatore del primo flashmob bolognese, sono Matteo Salvini e Giorgia Meloni. E il giornalista sfriziona: "Su alcune frasi, quando parlano dell’identità non sono tanto differenti da Hitler e dalla sua definizione di cittadinanza". "Hitler - spiega Santoro, convinto - diceva un negro non sarà mai tedesco. Perché Salvini non ci spiega se italiani si nasce per sangue e terra oppure italiani si diventa per cultura e comportamento? E chi vuole diventarlo deve percorrere la Via Crucis?". Lui, per sicurezza, scende in piazza.

Sardine, Diego Fusaro le distrugge in due parole: la cosa che nessuno ha notato. Libero Quotidiano il 14 Dicembre 2019. "Sardine con la bandiera della Ue. Non solo cogito interrotto: utili anime belle al servigio del padronato cosmopolitico". Con due parole Diego Fusaro liquida la manifestazione delle sardine a Roma. Le sardine si prendono anche piazza San Giovanni a Roma, luogo storico della sinistra, stipate a decine di migliaia. Più di 100 mila, dicono gli organizzatori. Un terzo circa, per la questura. «L'idea era riempirla e cambiare un po' la percezione della politica in questi anni - esulta Mattia Santori - direi che l'obiettivo è stato raggiunto». In un happening collettivo antifascista e antirazzista il leader bolognese elenca dal palco le prime proposte, tra cui la revisione (o abrogazione) dei decreti sicurezza.

Sardine non solo a Roma: flash mob a Parigi, Bruxelles e New York. Laura Pellegrini il 15/12/2019 su Notizie.it. Il fenomeno delle Sardine ha invaso piazza San Giovanni a Roma ma non solo: in altre 24 città del mondo le piazze si sono riempite. Il movimento delle Sardine travalica i confini nazionali: mentre si svolgeva il flash mob a Roma, infatti, anche altre 9 città internazionali si riempivano di persone. Non solo piazza San Giovanni, ma anche i centri di Parigi, Berlino, Londra, Bruxelles e New York. Mattia Santori ha radunato oltre 100 mila persone nella Capitale ma anche molte altre all’estero. Basti pensare che in Francia si sono ritrovati in 200 nella piazza del Trocadero, mentre a Bruxelles erano centinaia le persone in piazza.

Sardine, il flash mob. Le Sardine continuano a radunare migliaia di persone in Italia e altre centinaia all’estero: il flash mob organizzato da Mattia Santori ha invaso tutto il mondo. Da Parigi a New York passando per Bruxelles. In tutte le piazze internazionali si intonano le canzoni diventate ormai un inno per il movimento delle Sardine: da "Com’è profondo il mare" di Lucio Dalla a "La Libertà" di Giorgio Gaber fino a "People have the power" di Patti Smith.

Immancabile "Bella ciao". Nella piazza dei Diritti Umani, “Parvis des Droits de l’Homme”, a Parigi c’erano almeno 200 persone; altre centinaia erano invece a Bruxelles, nella place de l’Albertine. Nella capitale francese, già scossa per le proteste contro il sistema pensionistico voluto da Emmanuel Macron, tantissimi giovani sono scesi in piazza. Tutti insieme in un clima tipicamente invernale piuttosto raro in Francia. Tutti con lo stesso obbiettivo: fermare l’avanzata dell’estrema destra e in particolare le politiche di Matteo Salvini.

Sardine, la coordinatrice Jasmine: Cosa cè dietro al movimento”. Laura Pellegrini il 15/12/2019 su Notizie.it. Ospite a Stasera Italia, Jasmine Cristallo, coordinatrice di ‘6000 Sardine’ ha svelato cosa si cela dietro al movimento che continua a riunire migliaia di persone in Italia e all’estero. Innanzitutto, la 38enne ha voluto precisare che parlare soltanto di giovani sarebbe riduttivo. Infatti, in piazza San Giovanni a Roma, nella giornata di sabato 14 dicembre, c’erano sicuramente moltissimi ragazzi ma anche persone adulte. Il pubblico che riesce a catturare il movimento, infatti, è fortemente eterogeneo ma accomunato dagli stessi ideali.

Sardine, parla Jasmine Cristallo. Le Sardine hanno ormai oltrepassato i confini nazionali e si sono radunate anche nelle principali piazze europee e mondiali: il flash mob è arrivato anche a Parigi, Bruxelles e New York. Jasmine Cristallo, la coordinatrice di ‘6000 Saridne’ ha spiegato a Stasera Italia che dietro al movimento “c’è un desiderio”. Si tratta di quello “che sta muovendo le persone, giovani e meno giovani. C’è un desiderio – ha proseguito Jasmine – di riappropriarsi di alcuni territori e dire no alla paura“. Jasmine è una donna di 38 anni che con Potere al Popolo, Usb e il Collettivo studentesco ha dato il via a una rivolta dei balconi per contestare Matteo Salvini a Catanzaro. Nata e cresciuta nella provincia calabrese, Jasmine ha lanciato una grande manifestazione. La protesta, infatti, ha preso il via lo scorso maggio attraverso l’esposizione di drappi ai balconi contro il leader leghista. Infine, Jasmine è divenuta anche l’attivista del movimento delle Sardine nato in Emilia-Romagna.

 Renato Mannheimer per “il Giornale” il 18 dicembre 2019. Da diversi decenni, gli elettori italiani vanno perpetuamente in cerca di novità. Le forze politiche che si presentano come innovative e «diverse» (se non «opposte») ai partiti tradizionali hanno avuto sempre almeno inizialmente un certo successo. È accaduto così a suo tempo per la Lega di Bossi e poi, in dimensioni molto maggiori, per Forza Italia di Berlusconi. E, più di recente, è anche al connotato di «novità» e di «diversità» che va attribuita, in una prima fase, la performance del Movimento Cinque Stelle. Ora è la volta delle sardine. Che rappresentano la protesta non solo verso lo stile salviniano di far politica, ma anche, per molti versi, l' insoddisfazione per l' immobilismo della sinistra tradizionale. L' iniziativa dei giovani bolognesi ha avuto un largo seguito in tutte le piazze d' Italia. Coinvolgendo, specie sul tema del rinnovamento del discorso politico, molti giovani, ma mobilitando anche tanti cittadini di età più matura, prevalentemente (ma non totalmente) orientati al centrosinistra, tra i quali alcuni che avevano già partecipato ai «Girotondi» contro Berlusconi. Secondo un recente sondaggio (effettuato da Demos per La Repubblica) le manifestazioni delle sardine hanno mobilitato il 4% dell' elettorato, suscitando tuttavia un consenso molto più largo, pari a oltre il 40% (65% tra gli under25). Di qui la tentazione, già emersa in alcuni esponenti della leadership del movimento, di incidere maggiormente e in modo più netto nello scenario politico del Paese. I temi proposti dalle sardine sono, ancora una volta, quelli legati alle modalità di far politica e comunicazione e invitano ad un maggiore rispetto delle regole di convivenza civile e del modo corretto di agire per chi assume incarichi pubblici. Elementi certo di grande importanza su aspetti che hanno caratterizzato (in negativo) la vita politica del nostro (e di altri) paesi. Ma che, pur nel loro rilievo, non possono costituire un programma politico che affronti i problemi socioeconomici del Paese. Ciò naturalmente non costituisce un ostacolo dirimente ad un possibile successo elettorale. Come si è accennato, gli elettori sono spesso più coinvolti da argomenti più legati al superamento della politica (e dei suoi attori) esistente che ai temi programmatici «di contenuto», inevitabilmente più complessi. Sino a questo momento, tuttavia, la simpatia diffusa che oggi caratterizza il movimento delle sardine non si riflette necessariamente sul comportamento elettorale che si può oggi manifestare in occasione del voto «vero». Il fatto di essere così decisamente schierati contro l' opposizione (fattispecie assai rara per un movimento di protesta) non li aiuta: secondo i primi sondaggi (Ghisleri) si attesterebbero attorno al 4%. D' altra parte, a tutt' oggi la maggioranza dell' elettorato sembra orientata a votare per un partito di centrodestra. Il primato va alla Lega di Salvini (31% stimato da Eumetra), con performance crescenti anche per Fratelli d' Italia della Meloni (attorno all' 11%). Insomma, il movimento delle sardine non sembra avere modificato sin qui le intenzioni di voto. Nel caso, per ora non preso in considerazione, che esso formasse una lista elettorale, «pescherebbe» soprattutto nel centrosinistra, accrescendo inevitabilmente la frammentazione di quest' ultimo. Dal punto di vista dei consensi elettorali, dunque, si può sostenere che le sardine costituiscono in primo luogo un problema in più per il centrosinistra.

Dio benedica Mattia Santori e le sardine, viva la complessità! Piero Sansonetti il 17 Dicembre 2019 su Il Riformista. La prima volta che ho partecipato ad una manifestazione politica, da liceale, era una manifestazione antifascista. Parlo della fine degli anni Sessanta. Gridavamo slogan contro Almirante e il Msi. L’Msi era un partito di estrema destra che non era mai stato al governo. La seconda volta invece era una manifestazione studentesca molto agguerrita, mi ricordo che sfilammo in via Cavour, a Roma, e gridavamo: “Siamo sempre più incazzati con governo e sindacati”. I sindacati non sostenevano il governo, anzi, erano filo-Pci, in gran parte, e stavamo vivendo un periodo di fortissimo conflitto sociale. Più tardi, da giornalista – faccio un salto negli anni 90 e Duemila – ho seguito diverse manifestazioni contro Berlusconi, anche quando Berlusconi non era al governo. Negli anni 70 invece avevo seguito le manifestazioni contro il Pci, che era il partito cardine dell’opposizione. Mi stupisce che un sociologo e politologo colto e serio come il professor Luca Ricolfi (ma non solo lui: tanti altri commentatori colti e seri) consideri un paradosso e una insensatezza e un fenomeno senza precedenti, il fatto che le Sardine sfilino contro un partito di opposizione, e cioè la Lega di Salvini, invece che contro il governo.  La mia, intendiamoci, non è una obiezione filo-sardine. In questo momento non entro nella discussione sulla loro natura e sugli effetti positivi o negativi che potranno avere sulla società e sulla politica italiana. Mi interessa semplicemente osservare come forse talvolta un pregiudizio politico possa far male non tanto alla politica, quanto alla politologia. Salvini in questo momento è quasi l’unico leader politico sulla scena. Comunque è il leader di una forza politica maggioritaria, nei sondaggi sicuramente, e ragionevolmente anche nell’opinione pubblica. Salvini ha dato al suo partito una impronta ideologica e una identità molto nette e in contrasto apertissimo con il cattolicesimo bergogliano e con il pensiero liberale, socialdemocratico, laico e progressista. Cosa c’è di strano, o addirittura di scorretto, se compare una piazza che è contro di lui e che contesta le sue idee e il suo slang?

P.S. Il giovane leader delle Sardine, Mattia Santori, ha chiesto ai leader politici “di usare un linguaggio più complesso”. Dio lo benedica! Erano anni che sentivo solo inviti a parlare più semplice. Tanto che alla fine la parola più usata nel dialogo politico era diventata vaffanculo. Viva la complessità. Almeno su questo: grazie Santori. 

Quale futuro per le sardine? Speriamo non come gli Uccelli del ’68. Alberto Abruzzese il 17 Dicembre 2019 su Il Riformista. Anche senza volere, a Roma – stretta tra le sue Chiese e i suoi Palazzi di governo – i raduni di piazza diventano qualcosa di assai vicino al carnevale: sospensione e insurrezioni simboliche in cui si cerca, si desidera, un evento di liberazione: tanti corpi – diversi per quantità e qualità: individui, gruppi, ceti, organizzazioni e via dicendo – che manifestano in quanto appunto festa di se stessi e con i linguaggi, i travestimenti, della festa (compresa la disperazione che la motiva). I grandi raduni a San Giovanni per celebrare il lavoro non a caso diventarono anche (sempre più) concerti, canzoni, divertimento. Il simbolo delle sardine ha dunque in sé il gusto della festa, lo scherno (e schermo) gettato contro i potenti. Qualcuno ricorda la grafica protestataria de “Gli Uccelli”? Non a caso architetti: il tempo che è trascorso dal lontano clima sessantottardo adesso si rivela nel salto dalle aule della creatività universitaria alla fluidità dei social. Ma per l’ascesa progressiva delle sardine, questa giornata romana è davvero l’appuntamento più cruciale e più a rischio. Il passaggio tra acque che si potrebbero richiudere senza che abbiano ancora potuto realizzare il loro desiderato esodo. Dunque attenzione! La piazza cresce e per ciò stesso crescono anche tutte le infiltrazioni ideologiche, culturali e comportamentali, che sempre una piazza è costretta a subire, anzi deve, se vuole crescere, ma al tempo stesso ha l’obbligo, se non vuole tornare deserta, di riuscire a filtrare e depurare. Deve ridurre alla propria ispirazione originaria. Alla propria Fortuna! Il movimento delle Sardine – a trovare la parola giusta sarebbe assai meglio dire emergenza o convergenza, così da non rischiare di adulterarne e deviarne la natura di “passione nascente” – viene visto da tre diverse angolazioni. La prima: quella pesante e ottusa dei quadri tradizionali del conflitto politico tra destra, centro e sinistra, che sberleffano le sardine per la loro ingenuità e incultura e, insieme, per la propria invidia. Per la propria paura di perdere la loro posizione sociale. Forme di snobismo della più irriducibile appartenenza al sistema di interessi che ha sempre più (di)mostrato di agire all’insegna del privilegio: un sistema trasversale, in comune, interclassista, interculturale. La seconda angolazione: quella che, invece, dell’insorgere delle sardine mette in rilievo il grado di innovazione e le possibilità di sviluppare, anzi incubare, contenuti utili ad affrontare la crisi di sistema che va corrodendo dall’interno e dall’esterno ogni tradizionale figura della politica. Penso ad esempio alle posizioni assunte dal senso civile di Marco Revelli e dall’intuito culturale di Giuliano Ferrara. E non solo. Forse c’è allora da sperare che, paradossalmente, alcuni opinionisti afflitti dal carico della propria cultura trovino in essa stessa gli strumenti – e ce ne sarebbero in abbondanza – per superare il proprio qualunquismo erudito. Infine, la terza angolazione, quella più pericolosa per le varie possibilità (ricorso ai miti della storia o meglio alla loro inarrestabile finzione politica e mediatica) che essa ha di infiltrarsi in un corpo collettivo appena nato come è la folla giovane delle sardine. A questa terza pericolosissima tanto quanto probabile angolazione, a questa prospettiva a bassissimo grado di innovazione e altissimo grado di restaurazione, appartengono immagini e decaloghi che si vanno rafforzando – guarda un po’ – proprio in occasione del raduno nella piazza di Roma, città di rovine materiali e immateriali. Si veda il post messo sui social con la faccia di Enrico Berlinguer. E le attese di Marco Damilano: «Mi aspetto una grande manifestazione a Roma, nella storica piazza della sinistra». Con le sue compiaciute osservazioni sulla “globalizzazione di bella ciao”. Ma si leggano anche i contraddittori tentativi di bozze programmatiche che i leader delle sardine cercano di stendere per due ragioni opposte: resistere alle offerte esterne della politica e insieme soddisfare la necessità di affermare le proprie stesse capacità argomentative proprio in opposizione a un sistema di cui sentono sempre più il fiato sul collo. Forse persino la seduzione? Sono emersi in questi giorni due buoni motivi di riflessione. La prima: perché alla sardina Stephen Ogongo è venuto in mente di dare ospitalità a Casapound? Ha forse pensato che persino dietro alle più irriducibili identità politiche, le più violente, ci sia la persona umana? E che sia proprio la singola persona, spogliata di ogni ideologia sociale, strappata a ogni sua etichetta, a dovere essere convocata? A volere correre il rischio di essere persone aperte invece che chiuse al mutamento, sarebbe dunque necessario dare libero ingresso a uno spazio senza più recinti e discriminazioni? Eppure la piazza è dispositivo storico della “città” e questa è tutt’altra cosa in quanto sistema di valori politici. La storia sociale del presente ha conservato, trasformandole in ben altre dimensioni materiali, fisiche, e immateriali, invisibili, le stesse mura e porte di recinzione del suo passato antico, rinascimentale e moderno. Eppure credo davvero che – al di là delle intenzioni reali di Ogongo e della cattiva fede dei Casapound – uno dei nodi teorici e pratici che il liquido fluttuare delle sardine dovrebbe aiutarci a sciogliere potrebbe riguardare proprio la necessità di sapere separare, sradicare, la persona dai ruoli politici in cui è stata così a lungo (da sempre?) imprigionata. La seconda occasione di riflessione. Le sardine «sono una richiesta di aiuto alla politica» ha detto Filippo Rossi, autore di un titolo illuminante come Dalla parte di Jekyll: Manifesto per una buona destra (2019). È una richiesta che ci auguriamo nessuna sardina rivolga persino al migliore offerente. Ma di certo c’è da temere che possa farsi avanti la seduzione di una destra capace di rinnovarsi solo un poco di più della sinistra. Anche se molto di più, invece, rispetto all’infestante circolo vizioso tra neo-sovranismi e vetero-fascismi: l’idea di Rossi ha infatti l’astuzia di sostituire alla micidiale opposizione destra/sinistra quella tra i conservatori che sanno fare il loro mestiere e quelli che lo hanno disperso e perduto.  Sui social leggo di molti della sinistra classica – o del popolo democratico – che rivendicano di essere anche loro presenti in piazza per sedare la propria frustrazione e insieme soddisfare le loro speranze. Dunque essa è espressione tutt’altro che uniforme, uniformata in una sola esclusiva identità. La piazza diventa così una versione post-postmoderna di folla, non più quella in chiave metropolitana e post-metropolitana, tutta accentrata su di sé, ma quella in cui i nodi della rete corrispondono ai luoghi, sottostanti e sovrastanti, del territorio. E su questo si fonda la natura internazionale, europea e potenzialmente globale, di chi insorge nel segno delle sardine. Sul fatto che la loro cittadinanza vive del virus che le reti propagano in tempo reale: la scintilla di un sentire comune sospeso nell’intermezzo così tipico delle folle che protestano e più ancora testimoniano: ancora indecise tra ribellione, rivolta e ascolto. Mattia Santori, sardina leader anche lui, a chi gli domanda se loro ascoltino la voce di esponenti del Pd, risponde: «Non ci chiama Zingaretti, ci chiamano altri che ci dicono: ma perché non sentite Zingaretti?». E aggiunge: «Non è ancora tempo. Noi dobbiamo trovare un dialogo con la politica, ma non siamo ancora pronti né a trovare i punti del dialogo né un interlocutore politico». Mi viene in mente una dichiarazione di tanto tempo fa: «Così noi Uccelli occupammo la cupola del Borromini e iniziò il Sessantotto». Ma che la storia non si ripeta! È la sua ripetizione a impedire che venga sconfitta.

Il fuoco amico di zio Flores: "Errore la sardina islamica". Il direttore di MicroMega: «Vìola la Costituzione» Anche la girotondina Spinelli critica la piazza. Carmelo Caruso, Mercoledì 18/12/2019, su Il Giornale. È lo «zio» delle sardine, ma la pensa come Giorgia Meloni: «La sardina islamica e con il velo, no! È un simbolo di oppressione». L'impensabile è accaduto: il padre di girotondi ha rimandato in laicità il popolo delle sardine. Dopo aver cantato Bella ciao insieme a loro a Roma, Paolo Flores d'Arcais gliele ha cantate sul suo giornale, Micromega. Insomma, non hanno ancora cominciato e lo hanno fatto già arrabbiare. E va bene che ci ha pensato un po' di giorni, anzi, prima le ha incitate sull'Huffington Post (si sa che l'uomo è poligrafo) con tanto di aggettivi come «sardine esaltanti» e «partecipazione sottostimata». Ieri, però, anche d'Arcais non ci ha visto più e ha squarciato il «velo». A fargli perdere la ragione è stata la partecipazione sul palco di San Giovanni della sardina islamica Nibras Asfa. Come ha raccontato Il Giornale, è moglie di Sulaiman Hijazi, uno che in quanto a odio verbale, («Mai più linguaggio di odio» chiedono le sardine), risulta essere un campione. È seguace di Hamas, organizzazione che vuole distruggere «ogni centimetro dello stato ebraico». Come dire: un moderato. Ma a fare infuriare lo «zio» sardina, che ha immediatamente proclamato le sardine sue nipoti («Mi ricordano i miei girotondi»), non è stato il marito ma la moglie che si è presentata con il velo e che, a dirla tutta, è il meno peggio. Scomodando perfino Dante, ecco il titolo dell'articolo-accusa del padre, padrino, un po' padrone delle sardine: Ma la sardina col velo no. E infatti per d'Arcais: «Il velo islamico è un simbolo di oppressione. Al quadrato. Oppressione della religione sulla legge civile, a cui pretende di imporsi, violando quella precondizione della democrazia che è il principio di laicità dello Stato». Quando si dice gli affetti. Ma da professore quale è, d'Arcais ha notato che le sardine sono deboli pure in diritto costituzionale. Altro ammonimento: «Le sardine hanno ripetuto prima di ogni manifestazione che la loro bussola è la Costituzione. Tra i valori della Costituzione ci sono l'eguaglianza delle donne con gli uomini e la laicità delle istituzioni». Il resto è la nota sul registro di classe: «Le sardine hanno il dovere di un comportamento coerente con i valori costituzionali, altrimenti ne va della loro intera credibilità. E il velo islamico con la Costituzione repubblicana è in contraddizione insanabile, quella che Immanuel Kant chiamava realrepugnanz». Sono state avvisate: alla prossima imprudenza rischiano di giocarsi la promozione in Scienze delle rivoluzioni. E che la giornata fosse partita male si era capito già di mattina quando su Il Fatto Quotidiano, Barbara Spinelli aveva consigliato alle sardine di presentarsi agli esami al prossimo appello. In un saggio implacabile, la professoressa di «pluralismo e libertà dei media» («Essendomi occupata di questo nella scorsa legislatura europea...») ha smontato punto per punto il loro programma. Cominciamo. Violenza verbale equiparata a quella fisica? «Non resisterebbe al giudizio di nessuna Corte». Voto 5-. Il mondo dell'informazione deve veicolare messaggi fedeli ai fatti? «Si profila l'aspirazione a un vasto controllo e soppressione dei media». Voto 4. Abolizione dei decreti sicurezza? Dibattito vasto, «Forse meglio tenersi le leggi di Salvini». Voto 5 e mezzo. I ministri devono comunicare solo con i canali istituzionali? «Blinda le oligarchie. Inquietante». Voto 3. Povere sardine, rimandate dai loro tutor. Anche per urlare bisogna ormai studiare.

Dream generation, storie dei ragazzi che sognano un mondo più giusto. Dai Fridays For Future alle Sardine, i giovani riscoprono la politica. In nome della collettività. Per un pianeta senza odio e razzismo. Salvato  dal cambiamento climatico. Elena Testi il 19 dicembre 2019 su L'Espresso.

Giulia Fidale, calabrese, 20 anni è un'attivista contro la 'ndrangheta Hanno riscoperto la politica, ben prima di diventare sardine. Usano la parola «comunità», ma anche «collettività» e soprattutto «bene comune». Sono impegnati, ma senza per questo seguire qualche partito. Anzi, non li nominano mai, se non per identificare uno spartiacque generazionale che si sta formando tra l’attuale classe dirigente e loro. C’è chi lotta contro la mafia, chi manifesta per l’ambiente, chi studia la Costituzione e per questo è antifascista, chi si batte per l’Europa. Nella stagione di «prima gli italiani» e prima noi stessi, mentre si raccontava solo l’avanzata dell’estrema destra, sono spuntati quelli che lottano per i diritti degli altri, a sorpresa. E si è scoperto che sono tanti.

Lorenzo Donnoli, 28 anni, promotore delle Sardine Lorenzo Donnoli, 28 anni, sardina romana, è rimasto due anni in Australia prima di tornare per staccare biglietti al Colosseo: «Ho deciso di tornare perché ogni volta che parlavano male dell’Italia e degli italiani piangevo». Diventato celebre nel web per aver pubblicato un post contro Beppe Grillo «da tempo pensavo di fondare un movimento o una forza politica che fosse costruttiva e non distruttiva, il movimento delle sardine risponde a quella mia idea di reazione popolare da far scaturire negli altri». Nessuna appartenenza a un partito «ma solo politica attiva». E spiega: «Ho insegnato in Ecuador, ho aderito a Ong che si occupavano di ambiente, mi sto impegnando per realizzare insieme ad altri il sogno di una mia amica africana, malata di Sla, di diventare stilista». E così via. «Adesso con le Sardine la fase uno è la battaglia culturale, uscire da questo cono nero di odio e riportare nella società un dialogo democratico, lontano da quello imposto da Matteo Salvini, Giorgia Meloni o Luigi Di Maio». La fase due si concretizza con una birra, dopo la piazza di San Giovanni a Roma: «Abbiamo un programma che va oltre lo scendere in piazza e che abbiamo intenzione di presentare alle forze politiche, vedremo se ci ascolteranno». Una risposta allo «scollamento generazionale a cui stiamo assistendo, dove le nuove generazioni si preoccupano per quelle che verranno e tentano di cogliere una riflessione più profonda che abbia contenuti». Lorenzo appartiene a quella onda anomala che interroga e mescola le coscienza con un rimando continuo alla Costituzione: «Il confronto giusto da fare è con il ’48, momento in cui i padri fondatori si riconoscevano in valori comuni, di confronto pulito e di antifascismo. Non è più stato così ed è tempo di tornare a questo». Lui, sindrome di Asperger come Greta Thunberg, spiega: «Ho fatto qualsiasi lavoro nella mia vita per entrare nella testa degli altri e capire come diventare più empatico». Da migrante a barista, fino al semplice volontario. È una generazione che studia il passato per cambiare il futuro. Distaccati da un presente che guardano con diffidenza.

Deborah Fruner, 24 anni, studentessa. Una tra le organizzatrici della piazza delle sardine di Verona, nomina la Costituzione, ne conosce i principi e la prende come esempio per la sua città: «Questa è diventata una città complessa e non credevamo che rispondessero alla chiamata oltre seimila persone». Verona la città dell’estrema destra, dell’Hellas Calcio, di Fortezza Europa. La città dal passato oscuro che porta con sé lo pseudonimo Ludwig: i due serial killer che uccisero in nome del neonazismo. Ma questa è anche la città «che canta Bella Ciao, canzone di liberazione e non certo comunista come molti l’hanno stigmatizzata». Deborah pronuncia la parola ricorrente collettività: «Abbiamo lanciato una sfida e l’abbiamo vinta, non per noi, ma per tutti, perché questa è una piazza nata per far nascere nuovamente quei valori democratici che sentiamo perduti e rispondere a un vuoto politico che si è creato». Continua: «La verità è che si guarda solo ai fini politici, ma ci siamo scordati delle persone, della comunità e questo deve cambiare, altrimenti non andiamo da nessuna parte».

Non hanno confini, non ne vogliono, ma sperano in un mondo globale dove il problema di uno diventi il problema di tutti. Antonio Lenti, 28 anni, quartiere Tamburi di Taranto, vicino all’Ilva, così vicino da sentirne l’odore. Non parla solo di coscienza, ma anche di tumori, piani programmatici, disoccupazione giovanile, ma soprattutto, anche lui, come in una preghiera costante «di bene della collettività che supera manovre di bilancio». È un attivista del FridaysForFuture, il movimento contro i cambiamenti climatici nato con Greta Thunberg, ma è anche sardina, uno che scende in piazza a prescindere «basta che sia giusto», perché «la nostra generazione un giorno si è svegliata e ha capito che non era più sola. Che il problema di Genova, di Bagnoli, dell’Ilva di Taranto erano tutti problemi della collettività». Antonio si accalora: «Noi siamo i NoTav, i no Tap, siamo la Sardegna, siamo questo mondo che non va e che continua a distruggersi. Noi siamo quelli che si chiedono cosa lasceremo alle nuove generazioni». «Ci sono state persone scese in piazza in questi anni per motivi specifici, ognuno guardando il proprio orto, ma mai nessuno aveva trattato tutto questo globalmente. A questo punto il problema è però di sostanza: collegare tutte le battaglie e farne un’unica lotta». Questo per Antonio e per tutti gli altri «è fare politica, farla seriamente». Era presente quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, saputo che Arcelor Mittal voleva lasciare Taranto, è arrivato in città: «Mi ha stupito sentirlo confessare che non aveva soluzioni, ma ancor di più mi ha allibito quando ci ha chiesto se volevamo lasciare il quartiere Tamburi e spostarci in soluzioni abitative provvisorie. La cosa forse più assurda è che non sapeva quanta gente vivesse nel quartiere». Antonio parla di una città devastata, ammazzata dalla disoccupazione: «Gli abbiamo presentato un piano di 370 pagine, dove spieghiamo punto per punto come chiudere l’Ilva e creare lavoro, il tutto correlato di dati, studi di Confindustria e un’idea di futuro».

Emmanuele Napoli ha 21 anni, emigrato a Milano da Terrasini, paese della costa siciliana. È uno dei settecentomila studenti fuori-sede e lotta per chi non vive nel suo paese di origine ed è costretto a tornare «molti non riescono a votare perché non hanno i soldi per un aereo». Si emoziona quando racconta la sua vita al collegio Augustinianum dell’università Cattolica dove studiarono Romano Prodi, Giovanni Maria Flick e Tiziano Treu. E lui come loro è cattolico: «Mi sento un anticonformista. Ma purtroppo anche il cristianesimo sociale sta diventando estraneo a una parte della Chiesa». Progressista per natura, volontario per vocazione, politico finto inesperto: «Credo che la superficialità di oggi abbia invaso il dibattito pubblico, i giovani ora chiedono semplicemente di superarla. Abbiamo capito che bisogna combattere pigrizia e ignoranza e il modo migliore per farlo è scendere nelle piazze e combattere la politica fatta da bufale e campagne elettorali continue». Nessuno parla di Europa «perché per la nostra generazione è un fatto scontato, siamo patrioti europei, non c’è molto da discutere in merito». Torniamo a parlare di fede e politica: «Il mio impegno da cattolico non mi spinge a fare politica con metodi diversi ma a concentrare il mio impegno su quei temi che partono da una determinata lettura del Vangelo che significa solo aiutare il prossimo, senza bigottismo».

Viaggiano costantemente, abituati a spostarsi da un capo all’altro. Amnin Anour va verso Verona. Somalo d’origine, arrivato in Italia che aveva appena due anni. Lui che la cittadinanza non ce l’ha, nonostante un accento romano impietoso: «Da piccolo ero una promessa del karate, non ho potuto continuare perché per me era impossibile partecipare alle gare. Allora mi sono detto “farò l’attore” ma visto il colore della mia pelle mi davano sempre le stesse parti. Allora ho detto “farò il regista” ma il governo giallo-verde ha chiuso i bandi che mi permettevano ad accedere ai fondi, visto che non sono cittadino italiano potevo aspirare solo a quelli». Insomma, uno stillicidio di sogni infranti, ma il riscatto «della piazza, lontana da quelle realtà che si ghettizzano e si incattiviscono, guardando solo il proprio ombelico». Da qui la voglia di appoggiare tutte le cause: «Oh, io scendo in piazza sempre, sardine, diritti civili violati, diritto di cittadinanza». «La verità è che noi abbiamo capito, a dispetto di chi ci governa, che la vittoria di uno è la vittoria di tutti». Una frase che non si concretizza nell’uno vale uno del Movimento5Stelle, ma nel «siamo tutti diversi, siamo tutti minoranza, ma siamo tutti una grande comunità e per questo dobbiamo lottare e affermare i diritti».

Amnin è amico di Diana Pesci, 34 anni, impegnata in tutto quello che le capita a tiro. La intervistiamo mentre torna da un flash mob contro la violenza sulle donne. «In piazza anche oggi», ci pensa un attimo e con il fiatone riprende, «le nuove generazioni hanno una visione trasversale delle lotte, un amore per la Costituzione e per i principi umani». Figlia legittima dell’Erasmus: «Sono andata a vivere in Francia, mi sarebbe convenuto restare, ma per cambiare bisogna tornare nel proprio paese». Sarà l’apertura verso nuovi mondi, sarà l’assenza di confini con la quale siamo cresciuti, sarà l’abbattimento dei muri: «Bisogna avere una visione globale delle cose, cerchiamo di portare avanti una serie di principi e valori umani che sempre di più vengono messi in discussione dagli attuali politici ed è per questo che non scendo in piazza solo per l’emancipazione femminile ma per tutti». La lontananza dai partiti politici e la necessità per Diana «di avere gli strumenti giusti per interpretare una società divenuta complessa e che ha perso la sua umanità, generando mostri».

Chiedono democrazia, ma anche cultura. Valerio Carocci, uno dei ragazzi del Cinema America di Roma: «Cerchiamo di ricostruire un legame intorno alle piazze, generando discussione e confronto. Facciamo politica così». In Europa ad appropriarsi nuovamente dei cinema sono i giovani perché «strumenti di aggregazione, dove la comunità torna al centro». Valerio racconta il sostegno avuto dopo l’aggressione di alcuni neofascisti la scorsa estate quando a Trastevere sono arrivati da Richard Gere a Francis Ford Coppola: «In un giorno abbiamo avuto migliaia di condivisioni e quello che è accaduto, grazie alla rete, è arrivato lontano». Anche in questo caso abbattimento dei muri: «C’è un cambiamento epocale dovuto al potenziale comunicativo, è come se avessimo rotto delle barriere con i social».

Il cinema che si fa operatore: «Ci confrontiamo e difendiamo con la cultura la nostra libertà democratica». Non solo: «I movimenti giovanili che stanno nascendo sono consapevoli che dobbiamo attivarci per creare e cambiare le cose. È il momento in cui tutti dobbiamo fare la nostra parte e lasciare un mondo migliore rispetto a quello che abbiamo trovato, diceva Baden-Powell». Il Cinema America ha un nuovo sogno realizzato: «A Roma daremo vita a un cinema aperto 24 ore su 24, da sala di proiezione a biblioteca e aula studio, un luogo dove i nostri coetanei potranno essere protagonisti e non più semplici fruitori».

Giulia Fidale, 20 anni, nata a Polissena, in Calabria, è cresciuta con le storie dei morti ammazzati per strada e da sempre impegnata nell’antimafia. «Qui la ’ndrangheta esiste». Racconta dei figli dei boss che si intrecciano alla sua vita «consapevoli che è giusto che il padre sia in carcere» ma anche di quelli «che no, non cambiano». Giulia va in piazza «per cambiare le cose, perché ogni volta che vado in piazza lo faccio non per la Calabria, ma per l’Italia intera». La collettività, la responsabilità della società e l’impegno «per le generazioni future, perché quando insegno legalità ai bambini lo faccio nella speranza che un giorno i miei nipoti mi chiedano “nonna, ma cosa era la mafia?”». È sicura che un giorno succederà, ne è certissima. «Lo sai che il palazzo dove abito era di una famiglia di mafiosi, sono stati portati per strada e li hanno uccisi». Giulia si è formata con don Pino Demasi, il referente di Libera per la piana di Gioia Tauro, «grazie a lui ho capito cosa è il bene comune». Come tutti questi ragazzi, parla poco di partiti politici, come se non esistessero, non vive l’assenza di concretezza, ma la riempie con l’atto per eccellenza «manifestazioni pacifiche». Giulia si sfoga: «Ogni volta che arriva il 21 marzo, vado a leggere i nomi delle vittime di mafia, mi hanno sempre detto “ma che ti frega, non è mica che il boss cambia idea se tu leggi quei nomi”, e invece da un po’ di anni a questa parte è successo che, a forza di farlo, in molti si sono convinti a venire». Il risultato, lo dice, soddisfatta e serissima. «Le cose stanno cambiando anche qui da noi. Perché hanno ragione le sardine, tanti uno fanno un oceano».

Sardine, Mattia Santori a PiazzaPulita: "Periferie e parassiti", tutto il peggio della sinistra. Libero Quotidiano il 20 Dicembre 2019. Per quanto riguarda le proposte stiamo a zero, o quasi. Invece per quel che riguarda le idee siamo messi anche peggio. Si parla ovviamente del sardina, Mattia Santori, onnipresente in tv e giovedì sera ospite trattato con i guanti da Corrado Formigli a PiazzaPulita, su La7. E in studio, il pesciolino anti-salvini, ha dato sfoggio di tutto il peggio della sinistra, di quel complesso di superiorità che da sempre tratteggia il profilo dei compagni. Già, perché Santori ha detto: "È il momento di andare anche in periferia, prima che arrivino i parassiti della fragilità". Ordunque: le sardine pensano in subordine ("anche") alle periferie, un luogo laddove "i parassiti della fragilità" attecchiscono più in fretta. Evidentemente, se ne evince, perché secondo Santori in periferia vivono soltanto degli zoticoni ignoranti che non hanno i mezzi per pesare con la loro testa. Dunque, il sardina ribadisce il concetto e lo argomenta un poco più a fondo: "Giocare a tennis nelle periferie è la sfida. Adesso è il momento di sporcarsi le mani, prima che arrivino i parassiti della fragilità a spiegare che tutti i problemi verranno risolti facilmente". Prendiamo insomma atto del fatto che "giocare a tennis nelle periferie è la sfida". Lo ha detto davvero.

Ilaria Venturi per “la Repubblica” il 20 dicembre 2019. Sono nate con un post su Facebook: «Seimila sardine contro Salvini». Il leader della Lega era annunciato al PalaDozza di Bologna il 14 novembre per l'avvio della campagna elettorale in Emilia Romagna a sostegno della candidata alla Regione Lucia Borgonzoni. Loro, quattro ragazzi trentenni, hanno fatto i conti: il palazzetto tiene cinquemila posti, noi andiamo in piazza per dimostrare che siamo più di loro, per dire che Bologna non si Lega. Hanno scelto un simbolo: la sardina, un pesce piccolo la cui forza è muoversi in banco. E muto, per opporsi ai populisti urlatori. Idea diventata virale in pochi giorni. In piazza sono scese 12mila persone, oltre ogni loro aspettativa. Così Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa, amici da una vita, laureati e un lavoro stabile, poco social, molto impegno nel sociale, hanno deciso di continuare a nuotare rispondendo alle tante richieste che arrivavano da altre città, prima Modena, poi fuori dall' Emilia: Sorrento, Palermo, Torino, Milano sino alle capitali europee e Roma il 14 dicembre. Un giro oltre 100 piazze. Il format? Un flash mob: si va in piazza, discorsi brevi, musica e a casa dopo un' ora. La prima canzone scelta è stata "Come è profondo il mare" di Lucio Dalla, poi ha prevalso Bella ciao. Parte così il movimento che incalza la politica fuori dai partiti e contesta il sovranismo della destra. E che dopo il tuffo nella Capitale è tornato in provincia a riempire altre piazze.

Sardine, lettera a Repubblica dei quattro fondatori: "Noi e la libertà di non fare un partito". I quattro ragazzi che hanno dato vita alla manifestazione di piazza Maggiore: "Siamo una rivolta pacifica. Dare una cornice è come mettere confini al mare". Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori e Giulia Trappoloni il 20 dicembre 2019 su La Repubblica. Caro direttore, il 14 novembre eravamo quattro trentenni come ce ne sono tanti in Italia. Roberto in ufficio, Giulia in ambulatorio, Mattia in palestra, Andrea in piazza a farsi carico delle questioni logistiche. "Ma non dovresti essere qui, dovresti essere in piazza a preparare per stasera" ci veniva detto da clienti, pazienti, mamme e colleghi. Dopo poche ore piazza Maggiore sarebbe stata strabordante di Sardine. In una misura che nessuno prevedeva, tantomeno noi. Nella notte, le foto di quella piazza avrebbero fatto il giro del mondo. La mattina seguente le Sardine erano già un fenomeno mediatico di portata internazionale, ma noi non lo sapevamo. Avevamo scatenato un maremoto a nostra insaputa. Imprevisto quanto insperato. Quei giornalisti che nei giorni precedenti ci avevano ignorato sarebbero diventati la nostra ombra. È buffo ripensare a quanto fossimo infastiditi da quell'unica telecamera presente a Bologna. "La piazza non ha bisogno di eroi", rivendicavamo con convinzione. Tre giorni dopo, a Modena, le telecamere sarebbero state una dozzina. Un mese dopo, a Roma, un centinaio. Ma ripartiamo dall'inizio. Il 15 novembre eravamo quattro trentenni come ce ne sono tanti in Italia. Ma il telefono squilla e su Facebook spuntano i primi tre eventi spontanei: Modena, Firenze, Sorrento. Nel marasma generale troviamo un secondo per confrontarci e prendiamo una decisione che ci avrebbe sconvolto la vita. Decidiamo che l'Emilia-Romagna non è la sola terra in cerca di un modo per esprimere un sentire diffuso e diamo vita a un coordinamento nazionale, con l'obiettivo di favorire lo sviluppo di un fenomeno culturale e sociale di resistenza all'avanzata del populismo e dei suoi meccanismi di attecchimento. Ci è chiaro fin da subito che questo fenomeno deve rimanere in tutto e per tutto spontaneo, nutrirsi della ritrovata voglia di partecipare delle persone, e al contempo riproporre ogni volta, in chiave locale, le emozioni di piazza Maggiore. Trovavamo giusto che il messaggio di rivalsa e speranza lanciato a Bologna potesse rivivere in tutte le piazze d'Italia. Ed era bello che questo avvenisse tramite persone che fino a quel momento non si erano mai conosciute tra loro. La forza delle Sardine è collegare il virtuale al reale, e non c'era niente di meglio che favorire la nascita di un fenomeno sociale fatto di individui in carne e ossa, capaci di mostrare che le piazze, virtuali e reali, sono di tutti. La squadra bolognese si è allargata e questo ci ha permesso di rispondere alle centinaia di mail e messaggi che ricevevamo - e che tuttora riceviamo - ogni giorno. Lo schema per gli organizzatori era semplice: prendi contatto con i bolognesi, valuta i suggerimenti, procurati i documenti necessari, lancia l'evento su Facebook, lavora per riempire la piazza di persone e contenuti, stupisciti di quanto la tua città sia migliore di come te l'aspettavi. Una volta lanciato, l'evento viene inserito nel calendario ufficiale della pagina "6000sardine" e un referente per piazza aggiunto alla chat nazionale. Il 14 dicembre eravamo quattro trentenni come ce ne sono tanti in Italia, solo con tante ore di sonno perse. Dopo piazza San Giovanni era tempo di fare due calcoli. In 30 giorni si erano riempite 92 piazze in tutta Italia, a cui si sono aggiunte 24 piazze estere, europee e statunitensi. Circa mezzo milione di persone sono uscite di casa, al freddo e sotto la pioggia, per dire che la loro idea di società non rispecchiava per nulla quella presentata dall'attuale destra italiana, quella stessa destra che non perde occasione per affermare di avere il popolo dalla sua parte. Hanno raggiunto piazze fidandosi di un invito giunto in maniera anonima. Talvolta non sono neanche riuscite a raggiungerle per via della massa che occupava gli ingressi, come a Firenze. Spesso, raggiunta la piazza, non sono riuscite ad ascoltare cosa veniva detto, letto o cantato, perché l'impianto audio non era adeguato. Eppure c'erano. Hanno voluto esserci. Corpi fisici in uno spazio. L'unico elemento non manipolabile in un mondo pervaso dalla comunicazione "mediata". C'è chi ha provato a dire che la foto di Bologna risaliva a un capodanno, chi ha affermato che a Roma c'erano solo 35.000 persone. Ma troppa gente poteva provare il contrario, troppi occhi, troppe orecchie, troppi cuori potevano riaffermare la verità. Ogni piazza è stata diversa: per età, genere e provenienza politica. Nonostante gli attacchi e le sirene del populismo abbiano iniziato a mitragliare, le persone si sono fidate, hanno continuato a fidarsi. E lo hanno dimostrato diventando Sardine e riempiendo le piazze. Dalla Sicilia al Friuli Venezia Giulia. Dai feudi rossi alle roccaforti leghiste... Contribuendo ad inondare i giornali, i social e il web di foto di piazze gremite. Il 15 dicembre eravamo 150 persone come ce ne sono tante in Italia. Solo con tante ore di sonno perse e il portafoglio più vuoto del solito. Operai, studenti, insegnanti, professionisti, precari, disoccupati. Militanti, ex politici, disillusi, attivisti, volontari. Un muro di giornalisti fuori, molta semplicità dentro. Tante facce nuove. Forse troppe. Spazi spartani e molto freddo. Sensazione da primo giorno di scuola, gente troppo adulta per poterci essere abituata. Ma la classe è numerosa e ci accorgiamo subito che le cose che ci uniscono sono molte di più di quelle che ci dividono. Che in qualche modo siamo sempre stati fratelli e sorelle, solo non ci eravamo mai conosciuti. Ci organizziamo in tavoli di lavoro geografici e scopriamo che l'integrazione è più facile a dirsi che a praticarsi. Ma ci serve. Nessuno è portatore di verità assolute e il dialogo, che passa dall'ascolto, è l'unica sintesi di quelle differenze che, contaminandosi, rimarranno tali anche dopo essersi confrontati. Ci diamo una strada comune: tornare nelle piazze, nelle strade, nei territori. E, quando dopo un'ora, ci ritroviamo nell'auditorium per presentare le proposte, è un'emozione dietro l'altra. Ogni iniziativa scatena un applauso, suscita speranza, ci avvicina. La strada è lunga, lo sappiamo. La fretta è il nostro più grande nemico, sappiamo anche questo. Tutto sta nel trovare il ritmo giusto e soprattutto nel mantenere, proteggere e curare quel dialogo che ci ha permesso di vivere e condividere una mattinata che rimarrà nei nostri cuori per sempre. A prescindere da quello che sarà. Il 20 dicembre siamo quattro trentenni come ce ne sono tanti in Italia. Il processo che abbiamo contribuito a creare sarà lungo ma intanto è iniziato. E per quanto possiamo essere qualcuno all'interno delle piazze, dei nostri collettivi e dei nostri circoli, non siamo nessuno all'interno di questo processo. Le sardine non esistono, non sono mai esistite. Sono state solo un pretesto. Potevano essere storioni, salmoni o stambecchi. La verità è che la pentola era pronta per scoppiare. Poteva farlo e lasciare tutti scottati. Per fortuna le sardine le hanno permesso semplicemente di fischiare. Non è stato grazie a noi, né tantomeno a chi ha organizzato le piazze dopo di noi. È stato grazie a un bisogno condiviso di tornare a sentirsi liberi. Liberi di esprimere pacificamente un pensiero e di farlo con il corpo, contro ogni tentativo di manipolazione imposto dai tunnel solipsistici dei social media. La condivisione dello stesso male ci ha resi alleati coesi, ha unito il fronte. Le proteste sono frequenti come stelle cadenti, le rivolte sono rare come le eclissi. L'Italia è nel mezzo di una rivolta popolare pacifica che non ha precedenti negli ultimi decenni. Chi cercherà di osteggiarla sentirà solo più acuto il fischio, chi tenterà di cavalcarla rimarrà deluso. La forma stessa di un partito sarebbe un oltraggio a ciò che è stato e che potrebbe essere. E non perché i partiti siano sbagliati, ma perché veniamo da una pentola e non è lì che vogliamo tornare. Chiedere che cornice dare a una rivolta è come mettere confini al mare. Puoi farlo, ma risulterai ridicolo. Noi ci chiediamo ogni giorno come fare, e ci sentiamo ridicoli, inadatti e impreparati... ma finalmente liberi. L'unica certezza che abbiamo è che siamo stati sdraiati per troppo tempo. E che ora abbiamo bisogno di nuotare.

Le sardine ora scrivono a Rep, ma la loro lettera è solo fuffa. I quattro fondatori del movimento di piazza nato a Bologna scrivono al quotidiano: "Noi mai più in scatola". Pina Francone, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. È lunga, anzi lunghissima la lettera che le sardine hanno vergato e spedito a La Repubblica. E il quotidiano ne ha dato ampio risalto, aprendoci giornale odierno con una prima pagina "ittica". "Di Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori, Giulia Trappoloni", sembrano gli autori di una canzone come vengono letti a Sanremo e invece sono proprio i nomi e i cognomi dei quattro fondatori del movimento di protesta - nato in Piazza Maggiore a Bologna per manifestare contro l'evento al Paladozza di Matteo Salvini -, che hanno firmato la missiva al direttore Carlo Verdelli. Per spiegare cosa sono e cosa vogliono fare. "Mai più in scatola", lo slogan dei pesciolini, che a otto mani cercano di spiegare come sia nato il tam-tam che ha portato all'evento di Bologna e a quello in tutte le altre città d'Italia in queste settimane. Ma la lettera spedita a Rep – così come i 6 punti programmatici del movimento – sono solo chiacchiere. Fuffa. Nella serata di ieri, il portavoce Mattia Santori è stato nuovamente ospite di Piazzapulita e Corrado Formigli ha letto i loro "comandamenti". Il primo, per esempio, recita così: "Pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a fare politica invece che fare campagna elettorale permanente". Il secondo? Eccolo servito: "Pretendiamo che chiunque ricopra la carica di ministri comunichi solamente su canali istituzionali". Dunque il terzo, che come i precedenti, dice tutto e niente: "Pretendiamo trasparenza nell’uso che la politica fa dei social network". Quattro: "Pretendiamo che il mondo dell’informazione protegga, difenda e si avvicini il più possibile alla verità". "Pretendiamo che la violenza, in ogni sua forma, venga esclusa dai toni e dai contenuti della politica", recita il quinto e infine ecco la sesta "perla", che non pretende ma chiede "alla politica di rivedere il concetto di sicurezza, e per questo di abrogare i decreti sicurezza attualmente vigenti". Insomma, è una sfilza di "pretendiamo". Una parola che non compare nel lungo scritto pubblicato da Repubblica. Compare invece l'autoesaltazione. Si legge: "Decidiamo che l'Emilia-Romagna non è la sola terra in cerca di un modo per esprimere un sentire diffuso e diamo vita a un coordinamento nazionale, con l'obiettivo di favorire lo sviluppo di un fenomeno culturale e sociale di resistenza all'avanzata del populismo e dei suoi meccanismi di attecchimento". "L'unica certezza che abbiamo è che siamo stati sdraiati per troppo tempo. E che ora abbiamo bisogno di nuotare", chiosa la lettera delle sardine. Che, dunque, promettono battaglia.

Sardine, Vespa contro Bella ciao in chiesa: "Hanno perso la brocca". Il giornalista commenta quanto successo nella chiesa romana di San Luigi, dove durante la messa è stata intonata la canzone partigiana. Pina Francone, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Era forse solo questione di tempo prima che le sardine incontrassero, e andassero a braccetto, con Bella ciao. E infatti, il canto simbolo della lotta partigiana e della Resistenza è stato intonato da un coro polifonico a più voci all'interno di una chiesa di Roma, dopo che il movimento ittico lo aveva cantato in Piazza San Giovanni, in occasione della loro prima manifestazione nazionale durante la quale - non a caso - qualcuno ha urlato alla folla: "Siamo i partigiani del 2020". È successo a San Luigi dei Francesi, nel cuore della capitale e a un tiro di schioppo dal Parlamento: non un posto qualsiasi, che conserva anche alcuni capolavori pittorici del Caravaggio, al secolo Michelangelo Merisi. E, oltretutto, è la casa del Signore. Anche se qualcuno se lo è dimenticato e si è messo a fare politica a messa. Ma ormai, questa, non è certo una novità...A denunciare l'accaduto ci ha pensato il leader della Lega Matteo Salvini, che con un video pubblicato sui propri profili social ha scritto: "Roba da matti, cantare Bella ciao in chiesa una domenica sera a Roma, ma vi pare normale?". Ora la chiesa teatro del misfatto ha preso le distanze dal coro di Bella ciao e il portavoce Stein Stephan – come riportato da Adnkronos – ha dichiarato: "Io non ero stato avvertito e quando ho sentito il coro che ha intonato 'Bella ciao', anche se si è limitato al ritornello senza eseguirla tutta, ho avuto un sobbalzo. Se lo avessi saputo prima, avrei detto al maestro del coro di lasciare perdere. La canzone simbolo della liberazione dal nazifascismo non è un motivo che si possa cantare in chiesa, né a cuor leggero. Ci sarebbero dovuti arrivare da soli...". Adesso, è arrivata la bacchettata anche da parte di Bruno Vespa. Sì, perché l'ideatore e conduttore di Porta a Porta ha ironicamente commentato la vicenda con un ficcante post su Twitter. Eccolo allora l'affondo social del noto giornalista: "Mi telefona Caravaggio. 'Senti, io sono uno sconsacrato. Ma sentire le Sardine cantare Bella Ciao qui a San Luigi significa che hanno proprio perso la brocca…'".

Sardine, Nicola Porro demolisce Mattia Santori: "Ecco perché non viene a Quarta Repubblica". Libero Quotidiano il 17 Dicembre 2019. Continua il braccio di ferro tra Nicola Porro e le Sardine, con quest'ultime che hanno deciso di non partecipare mai a Quarta Repubblica perché "inquina il dibattito politico con mistificazioni e dice un sacco di falsità sul nostro conto". In risposta il volto noto di Rete4 ha pubblicato un post sul suo sito in cui smonta le accuse di Mattia Santori. "Il capo delle Sardine - scrive Porro - sostiene che dovrei chiedere scusa per alcune parole, secondo lui inappropriate, che ho utilizzato nei loro confronti, anche se non chiarisce mai quali. Ho provato a invitarlo più volte per dargli spazio e capire quali siano veramente le idee che portano avanti, se ci sono. Ma niente, Santori non ha mai accettato". Il conduttore di Quarta Repubblica serve poi l'affondo decisivo: "Forse è lui che ha un pregiudizio nei miei confronti e di chiunque non applauda acriticamente al movimento, come fanno molti media mainstream".

Il Capo Sardina: “Porro ci deve chiedere scusa!”. Nicola Porro il 17 dicembre 2019.

00:00 Perché avete dichiarato che non parteciperete a programma come Quarta Repubblica?

01:35 Se la invitassimo, verrebbe?

03:45 In studio, avreste la possibilità di dire la vostra…

04:45 Qual è il vostro obiettivo?

05:52 C’è un partito al quale vi sentite più affini?

06:45 I Cinque stelle sono populisti?

07:34 Perché se vince la destra è sempre una questione di fragilità della sinistra?

Il capo delle Sardine, Mattia Sartori, sostiene che dovrei chiedergli scusa per alcune parole, secondo lui inappropriate, che ho utilizzato nei loro confronti (anche se non chiarisce mai quali, non il massimo oggettivamente per chi chiede “competenza” e “rigore” alla politica).

Dal canto mio ho provato a invitarlo più volte a Quarta Repubblica per dargli spazio e capire quali siano veramente le idee che portano avanti, se ci sono. Ma niente, Sartori non ha mai accettato. Forse è lui che ha un pregiudizio nei miei confronti e del programma che conduco, e di chiunque non applauda acriticamente al movimento, come fanno molti media mainstream. In ogni caso, ecco la video-intervista in cui spiega le sue ragioni, giudicate voi.

Le sardine a Roma nel centro sociale: è il palazzo occupato del blitz dell'elemosiniere del Papa pro-abusivi. Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019. Tutto torna. I 150 delegati delle sardine, dopo la manifestazione in piazza San Giovanni sabato pomeriggio, domenica mattina hanno iniziato il loro "congresso" romano per delineare le prossime mosse. Dove? Allo Spin Time Labs, gli spazi occupati da un centro sociale nell'immobile ex Inpdap di via Santa Croce in Gerusalemme. Per i più smemorati: lo scorso 12 maggio, nottetempo, l'elemosiniere di Papa Francesco, il cardinale Krajewski, tolse i sigilli e riattivò i contatori della luce per i 450 occupanti che avevano accumulato con Acea un debito di 300mila euro. Un blitz anti-legalità e pro-abusivi "benedetto" da Bergoglio in persona. E immaginiamo che dal vicino Vaticano abbiano benedetto anche le sardine. 

La nuova "casa" delle sardine? Il centro sociale degli abusivi. Dopo piazza San Giovanni, ora le sardine pensano al futuro del movimento. 150 delegati provenienti da tutta Italia sono riuniti nel palazzo occupato dove l’elemosiniere del Papa riattaccò la corrente elettrica. Giorgia Baroncini, Domenica 15/12/2019, su Il Giornale. Dopo aver riempito piazza San Giovanni a Roma, ora le sardine pensano al loro futuro. Nessuno fino ad ora si era preoccupato del "cosa faremo da grandi?", ma il giorno dopo la grande manifestazione nella Capitale (secondo la Questura i partecipanti erano circa 35mila) si sente la necessità di prendere una direzione ben definita. E così, i 150 delegati che hanno promosso i flash mob in diverse città di tutta Italia, hanno deciso di riunirsi questa mattina. Dove? Nel palazzo occupato di via Santa Croce in Gerusalemme 55 a Roma. Sì, si tratta proprio del palazzo occupato da un centinaio di famiglie dove lo scorso 12 maggio l'elemosiniere del Papa, il cardinale Konrad Krajewski, entrò per togliere i sigilli ai contatori e riattivare la luce. Un blitz che provocò molte polemiche. Il cardinale si calò nella centralina elettrica e ripristinò così la corrente nell'immobile abitato da 450 persone. Nell'ex sede dell'Inpdap di via Santa Croce in Gerusalemme, occupata abusivamente dall'ottobre 2013 da Action, ci sono anche un centinaio di ragazzini minorenni. Nel corso degli anni, gli occupanti hanno accumulato un debito di circa 300 mila euro. Una cifra che nessuno voleva pagare tanto che la società che eroga l'energia aveva deciso di mettere i sigilli al contatore e staccare la corrente. Così era intervenuto il cardinale Konrad Krajewski. "È arrivato nel pomeriggio, ha portato regali a tutti i bambini e ha promesso che se entro le 20 non fosse stata ripristinata la corrente nello stabile l'avrebbe riallacciata lui stesso. E così è stato. Padre Konrad si è calato nel pozzo, ha staccato i sigilli e ha riacceso la luce. E si è preso, a nome del Vaticano, la piena responsabilità dell'azione con Prefettura e Acea", avevano raccontato i testimoni. "È stato un gesto disperato - aveva dichiarato lo stesso porporato -. Sono intervenuto personalmente. C'erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi". E ora, in quel palazzo occupato, ci sono tutti i 150 rappresentanti delle sardine. Fuori dal quartier generale romano uno striscione: "Viva le sardine, abbasso gli sgombri". Capitanati da Mattia Santori, i delegati stanno discutendo del futuro dei pesciolini che, dalla prima manifestazione in piazza Maggiore a Bologna, hanno riempito numerose città da Nord a Sud. Ora è arrivato il momento di pensare a qualcosa che vada oltre le piazze, una fase 2 che partirà proprio dal palazzo occupato. Secondo le prime indiscrezioni, il dialogo con la politica è previsto solo nella fase 3. Per le 14 è prevista la lettura di un comunicato: inizierà così il futuro delle sardine.

Il rispetto dell'illegalità delle Sardine. Il movimento si è riunito a Roma nella casa occupata, famosa per la corrente riallacciata dal Cardinale che però non ha mai pagato le bollette. Andrea Soglio il 17 dicembre 2019 su Panorama. "Non vedo nulla di male nel riunirci in uno stabile occupato. Siamo venuti qui per stare tra i più deboli", con buona pace della legalità e del rispetto delle regole. Mattia Santori, il prezzemolissimo leader delle "Sardine" che ormai vedete ogni giorno in qualsiasi programma tv (tranne da quei sovranisti di Rete 4, come ha annunciato) ha risposto così a chi gli ha chiesto se fosse stata una scelta intelligente quella di organizzare la prima riunione programmatica del movimento in uno stabile occupato di Roma. E lui, quello che "pretende" dalla politica la fine della violenze e dell'uso dei social (che lui però può usare tranquillamente, ci mancherebbe) ha fatto capire di essere al di sopra di certe regole, senza alcun problema. E per di più mica uno stabile occupato qualsiasi. Si, perché mesi fa lo stabile dove si trova il "centro culturale" Spintime Labs è finito al centro delle cronache nazionali per il gesto del Cardinale Konrad Krajewski che di persona andò a riallacciare la corrente che era stata tolta per il mancato pagamento delle bollette. Un debito verso la società elettrica di mesi e mesi per un ammontare di 250 mila euro, mica bruscolini. "Da questo momento - disse allora l'alto prelato - pago io, non c'è problema. L'importante è che chi vive in questo stabile abbia corrente ed acqua calda". Peccato che da allora non sia arrivato un euro che sia uno. Il debito quindi è salito ancora ma adesso è impossibile per la società controllare il consumo della corrente o staccarla. Si perché gli attivisti presenti impedirebbero fisicamente ai tecnici di avvicinarsi alla centralina (come riporta il "Messaggero". Eppure i soldi per pagare la corrente ci sarebbero, eccome. Nello stabile infatti è sempre aperta la discoteca, il ristorante, i vari corsi, ed il giro di affitti (gestito da chi?) tutto in "nero", ovviamente per decine se non centinaia di migliaia di euro al mese. Insomma il covo supremo dell'illegalità fiscale, sociale, legale. Per Mattia Santori però tutto questo non è un problema: occupare una casa? E che problema c'è? Non pagare le bollette? Non versare le tasse? Non registrare gli affitti? Va tutto bene. "Oh Bella Ciao, Bella ciao, Bella ciao ciao ciao..."

·         Perché il populismo?

L’apocalisse della democrazia italiana, le cause dell’avanzata del populismo. Stefano Ceccanti il 18 Dicembre 2019 su Il Riformista. Hans Schadee, Paolo Segatti e Cristiano Vezzoni hanno scritto un bel testo dal titolo L’apocalisse della democrazia italiana. Alle origini di due terremoti elettorali, appena uscito per Il Mulino. Un titolo dove, è bene chiarirlo, apocalisse è inteso in senso etimologico come scoperta, disvelamento. La chiave esplicativa fondamentale è che non siano cambiati in modo radicale i punti di vista degli elettori sulle policies, al massimo ne sia cambiato il grado di importanza, ma che piuttosto sia crollata l’autorevolezza, la capacità a risolvere i problemi, delle due forze su cui si era fondato il secondo sistema dei partiti, Pd e Forza Italia. Gli elettori, a un certo punto, sulla base di questi “fattori di repulsione” (pag. 12), hanno quindi preferito «un salto nel buio» (pag. 10). È calata la “reputazione” del partito prima votato (pag. 148) più di quanto non siano cambiate le proprie specifiche opinioni. In particolare l’apparizione sul lato dell’offerta del M5s ha consentito di calamitare lì i voti dei delusi, superando la difficoltà preesistente a cambiare campo tra centrodestra e centrosinistra che bloccava gran parte dell’elettorato (pagg. 20 e 101). Un muro che di per sé sarebbe invece “ancora ben presente” (pag. 60). Il M5s ha quindi avuto successo perché ciascuno, uscendo dal proprio partito, vi ha voluto vedere le cose più simili alle proprie opinioni. Il M5s, come sostenuto da Kriesi, avrebbe avuto successo come «un partito populista di centro» raccogliendo elettori moderati sulle policies, ma radicali contro il funzionamento della democrazia rappresentativa (pag. 151). I due passaggi che hanno inciso sono stati nel 2011 la caduta del Governo Berlusconi con i partiti ancora impreparati a presentare un’alternativa e che hanno finito per delegare la gestione della fase solo a un governo tecnico, una confessione di impotenza ben più forte che non una Grande Coalizione esplicita, e poi il passaggio del referendum costituzionale, avvenuto mentre il debole miglioramento dell’economia non spostava la rassegnazione dell’elettorato rispetto all’incapacità delle forze politiche di cambiare effettivamente la situazione (pagg. 60 e 121) e che quindi in sostanza fu soprattutto un giudizio sul governo e prescindere dal merito (pag. 138). Il salto nel buio è andato a chi (Lega, M5s) era non casualmente rimasto all’opposizione in tutto il periodo considerato (pag. 122). Il Volume presenta poi un bel capitolo (il settimo) sulle contestazioni alla democrazia rappresentativa, convergenti, ma diverse. Mentre nell’ottica del M5s il problema è rappresentato dall’eccessiva autonomia degli eletti, in quella della Lega il nodo è l’eccesso di influenza delle élites. Nel primo caso, quindi, la soluzione è l’innesto di forme di democrazia diretta, mentre nel secondo è la delega plebiscitaria al leader (pag. 123). Nonostante tutti i limiti dei partiti e della democrazia rappresentativa, e i possibili correttivi da introdurre, troviamo qui alcune scorciatoie che gli autori ben confutano. Queste spinte, e in particolare la prima, tendono a veicolare l’immagine che, al netto degli eletti e delle élites, i cittadini di per sé tenderebbero a pensarla allo stesso modo, sottovalutando i conflitti reali nella società. È un’idea distorta che sulla scia di Hibbling e Morse gli autori definiscono “democrazia invisibile” o “impolitica” (pag. 155). A dir la verità, però, mi permetto di aggiungere, se un’idea sbagliata ottiene consenso reale occorre porsi il problema del perché ciò accada: questa reazione non ci sarebbe stata se in tutto il periodo del secondo sistema dei partiti le leadership politiche con qualche rara eccezione (come Veltroni nel 2008) non avessero esagerato nella partigianeria eccitando l’elettorato di appartenenza e sovrastimando le distanze reali, impedendo anche accordi di sistema tra diversi. L’opinione quindi per cui la politica crea divisioni che non esisterebbero nella società è in generale falsa, però non è priva di alcune anime di verità. Anche la teoria di un sistema ingessato dalle élites e poco capace di decidere trova alcuni agganci reali, specie a chi confronta l’efficacia dei sistemi comunali e regionali con quello nazionale, per quanto quest’ultimo sia obiettivamente più complesso. Il punto è però che alle nuove forze votate si è finito per chiedere qualcosa di profondamente contraddittorio: «un radicale cambiamento» ma col desiderio non tanto recondito di riprodurre «le sicurezze del passato, come se i problemi dell’oggi non venissero proprio da quel passato» (pag. 160). La conclusione è che nulla appare scontato, anche perché le motivazioni di voto, al netto di tutti i possibili sistemi elettorali vigenti e futuri, si sono ormai spostate da quelle espressive di un’identità a quelle strumentali in funzione della scelta di un governo (pag. 158). Da questo punto di vista, però, aggiungerei che il problema si presenta asimmetrico: Forza Italia è stata sfidata dalla Lega nella sua parte del campo e, quindi, ben difficilmente può riprendersi come partito egemone di quell’area. Viceversa il Pd è stato sfidato da un soggetto eterogeneo, che ha più difficoltà a mantenere il proprio collante, specie dopo due diverse esperienze di governo. In ogni caso la lezione del testo è chiara: l’offerta, vecchia, nuova e rinnovata, è più decisiva delle domande, delle posizioni di policies degli elettori. Non ci sono determinismi.

I populisti? Sono analfabeti funzionali. Gilberto Corbellini il 17 Dicembre 2019 su Il Riformista. Chi non studia non sa, chi non sa non capisce, chi non capisce sbaglia, chi sbaglia non è libero, etc. Quasi ovvio. Ma se solo ci si azzarda a dirlo si viene insultati per essere politicamente scorretti o per lesa dignità di persone che si credono libere solo perché agiscono scompostamente, etc. mentre sono eterodirette o mosse da irrazionali impulsi lesisi e autolesivi. Decine di studi sui profili di coloro che hanno votato Trump e Brexit, mostrano che il livello di istruzione è il principale parametro predittivo del voto populista. Ma se si dice che il populismo italiano è la conseguenza del grave tasso nazionale dell’analfabetismo funzionale si viene messi alla gogna. Ci saranno sicuramente persone molto istruite che si riconoscono nel populismo e persone poco istruire che lo rifuggono, ma la statistica dice che le persone con bassi livelli di istruzione è più probabile che votino dal lato populista. “Analfabetismo funzionale” non è un insulto, ma una definizione tecnica, relativa a persone che sanno leggere e scrivere (in Italia l’analfabetismo totale quasi non esiste, trattandosi dello 0,2%), ma non sanno estrarre da un testo il suo preciso contenuto o scoprire che è falso. Dal 28% (fonte Ocse) al 48% (Human Development Index) degli adulti italiani tra 16 e 65 anni è colpito da questa condizione. Siamo ultimi tra i Paesi Ocse e siamo tra gli ultimi in Occidente. Persino i recenti risultati del test Ocse-Pisa certificano il dramma. Paesi che avvertono meno dell’Italia il problema, come la Francia, hanno lanciato dal 2016 una campagna capillare per migliorare i livelli di istruzione media sulla base di interventi fondati su prove di efficacia, e non mere di chiacchiere pseudopedagogiche. L’ascesa del populismo forse non si spiega ovviamente solo o direttamente con bassi livelli di istruzione. C’entrano anche i social media, internet, il fallimento politico della sinistra, la crisi finanziaria, etc. Ma gli effetti di questi fattori cambiano a seconda della base culturale e psicologica delle persone su cui agiscono.  È possibile che la correlazione con la scarsa istruzione sia in realtà una spia di altri fattori. Per esempio, l’apertura mentale delle persone, misurata da test che rilevano specifici tratti della personalità (Big Five) come la disposizione o meno a socializzare, a essere creativi, emozionalmente stabili, interessati alla complessità, etc. Esistono studi sul profilo di personalità di chi ha un orientamento populista, e tutti portano al risultato che è caratterizzato da chiusura mentale e tende a essere convenzionale e tradizionalista. Sembra che esista una significativa correlazione tra apertura mentale e prosecuzione degli studi superiori, nonché per orientamenti meno populisti. Ergo, può darsi che coloro che decidono di andare all’università abbiano meno probabilità di avere opinioni populiste, anche prima di ricevere istruzione extra, e i livelli di istruzione potrebbero indicare una apertura preesistente, e livelli di istruzione bassi possono semplicemente segnalare una mentalità più tradizionale o “chiusa”. Alcuni pensano che non siano i livelli di istruzione che qualcuno riceve, a modellare le opinioni populiste, ma il “tipo”. L’educazione contemporanea metterebbe troppa enfasi sul superamento di test, abuso di indicatori bibliometrici o sulle prospettive occupazionali di uno studente, invece di insegnare il pensiero critico e le capacità analitiche. Se non viene insegnato a mettere in discussione ciò che ascoltiamo, il populismo diventa più attraente. Oggi, “pensiero critico” è una delle espressioni più usate anche in Italia, quando ci si lamenta di troppa pseudoscienza o superstizione, ma se si interroga chiunque non si riceverà una definizione uniforme. Eppure, si possono costruire mappe di concetti, teorie, valori e procedimenti utili alle persone per capire e affrontare le sfide della contemporaneità. Il pensiero critico serve perché i politici avvelenano le statistiche per calcoli personali, ovvero adattano le variabili alla loro argomentazione, dando semplicemente priorità al loro successo elettorale, senza necessariamente mentire. Non hanno alcun interesse a cercare la verità interrogando questioni complicate. Inoltre, lo scontro tra le visioni politiche è controproducente poiché il dibattito quasi sempre si basa sulla polarizzazione, che non mette in discussione la fissità o dogmaticità di presunte verità alternative. La politica ridotta a battaglia demagogica tra fazioni di tifosi minaccia la democrazia in quanto gli elettori sono scoraggiati dal mettere in discussione regimi di verità fisse, proposte come approdi sicuri. Istituzioni come università o partiti politici non possono fare nulla per impedire una tendenza perversa. La mancanza di pensiero critico e il perpetuarsi della demagogia favoriscono la percezione della naturale incertezza dell’esistenza come una ansiogena insicurezza, che accetta risposte acritiche. I politologi degli anni Cinquanta sapevano che l’istruzione svolge un ruolo chiave per la maturazione di un’autoconsapevolezza politica. Tanto più, quindi, in una società della conoscenza dove servono strumenti precisi o definiti per analizzare i problemi e valutare le decisioni. Sempre che siamo ancora in tempo.

Perché il populismo? È tutta questione di… riflessione. Alessandro Bertirotti su Il Giornale il 16 dicembre 2019. Partiamo da queste considerazioni, che giudico fonte preziosa di riflessioni a meditazioni.

La prima considerazione è di ordine neuro-cognitivo, e si riferisce al fatto che il politologo di cui si parla nell’articolo linkato, afferma con giustezza scientifica che la mente è espressione delle proprie emozioni. Noi sappiamo, in effetti, che le emozioni hanno il compito evolutivo di dirigere le nostre scelte razionali, e che permettono una valutazione istantanea, intuitiva dell’ambiente, segnalando alla mente quali riflessioni siano utili per la sopravvivenza. Dunque, rispetto alla tristezza, per esempio, quando la nostra mente l’avverte, avviene quella elaborazione che permette ad ognuno di noi di superarla, giustificarla e comprenderla, associando tale elaborazione allo stimolo che l’ha alimentata. Questo avviene per tutte le nostre sei emozioni primarie, ossia per la sorpresa, la paura, il dolore, la gioia, l’ira e il disgusto. Quindi, ciò che viene definito oggi populismo non è pancia umana, ma elaborazione socio-culturale di menti umane che hanno valutato in un certo modo le emozioni che vivono tutti i giorni. E si tratta di emozioni che hanno a che fare con i propri progetti di vita, le proprie esigenze lavorative e dunque il proprio futuro. Sono dunque risposte meditate e non improvvise, oppure impulsive, per pensare al proprio futuro in termini possibili, e non improbabili. Questo è la Brexit e questi sono i diversi sovranismi che stanno emergendo in tutta Europa, e non solo. Mi sembra che anche gli Stati Uniti, la Cina, l’Australia ed altre grandi nazioni/continenti si stiano organizzando in questo modo. Ciò significa che nell’era della globalizzazione e dei social, tutti noi siamo isolate e connessi.

La seconda considerazione è di ordine più antropologico-evolutivo. Gli eventi che caratterizzano l’evoluzione della nostra specie, in tutte le sue manifestazioni culturali, sono suddivisibili in due grandi categorie fondamentali: a) macroscopici e b) microscopici. Entrambe le categorie, si suddividono ulteriormente in: a) macroscopici visibili o invisibili e b) microscopici visibili o invisibili. Quando sono macroscopici, le reazioni del potere costituito sono della stessa intensità, come nel caso della Rivoluzione Francese del 1789 e della Restaurazione nel 1815, considerate nella loro dimensione evolutivo-antropologica, individuando le dovute differenze socio-culturali. Quando gli eventi sono microscopici, le reazioni sono sporadiche, localizzate e apparentemente “normali”, come nel caso della caduta dei governi edei risultati elettorali gestiti con i sondaggi. In questo ultimo caso, possono anche non presentarsi reazioni apparenti, ma si presentano comunque strategie a lungo di termine di risposta, sempre da parte del potere costituito.

Ed è esattamente questo ultimo tipo di reazione che si sta verificando in Europa, da parte dei tecnocrati e del potere dello status quo, rispetto alle istanze, sempre meno sotterranee, di autonomia nazionale, sociale e culturale. Ecco perché, sono d’accordo totalmente con il politologo circa il fatto che ciò che sta avvenendo in Gran Bretagna aprirà le porte sociali e culturali verso un aumento progressivo dei diversi sentimenti nazionali dei singoli Stati Europei. In questo contesto, persino le sardine, che rappresentano una reazione disperata del PD per recuperare voti tornando fra la gente (senza però nessuna capacità di giustificare politicamente questo recupero, dato il livello di sfiducia cognitiva per i sinistrati che il popolo tutto nutre) non fanno altro che alimentare la riflessione definita sovranista.

In questo scenario, cosa penso? Beh, penso che il male della politica mondiale generale, e in particolare quella italiana, sia quello di creare e cercare alleanze partitiche, invece di produrre idee realistiche, concrete e realizzabili di futuro condiviso. E, come accade sempre, per ora, nella storia biologica umana, vincerà il desiderio di sopravvivenza, ossia la speranza di un futuro. Non dimentichiamo che io definisco la speranza come l’esercizio quotidiano della volontà che si adegua al proprio immaginario di futuro.

Quella sinistra smemorata che non riconosce di avere inventato il populismo. Andrea Cangini, Lunedì 09/12/2019, su Il Giornale. In principio furono Gianfranco Funari, Michele Santoro e Gad Lerner. Fu quello il micidiale tridente catodico che per primo portò «la piazza» negli studi televisivi e mise «il popolo» sotto i riflettori, collocandolo stabilmente al centro della scena. Il popolo sembrò gradire. Stette al gioco, alzò i toni del risentimento, sfruttò con naturale disinvoltura la possibilità di dire finalmente la propria e con vivo entusiasmo colse l'opportunità di esibirsi in Tv. I tre antesignani dell'Apocalisse populista si assicurarono così un gigantesco potere di condizionamento della società e un indiscutibile successo professionale. A pagare il conto è stata la Politica. Maltrattata, vilipesa, stretta con rabbia in una tenaglia mediatica tra crimine e privilegio. Una Politica incerta, disorientata, alle prese con il sottile sospetto di essere davvero la sentina di tutti i peggiori vizi e la morta gora di ogni virtù così come veniva e viene raccontata. Una politica nuda, spogliata di colpo del proprio prestigio, degradata a causa di tutti i mali italiani. Colpisce, dunque, anche se non sorprende, che lo scorso martedì una splendida Monica Guerritore, ospite dalla Gruber su La7, dei tre capipopolo abbia citato solo il primo: Gianfranco Funari. Su di lui, e solo su di lui, si è abbattuto il suo anatema. È lui il mostro da cui discendono il populismo odierno, la violenza verbale, la banalizzazione dei problemi, la ricerca sistematica di un nemico su cui scaricare le proprie responsabilità. E Michele Santoro? E Gad Lerner? Nulla, rimossi. Come se non fosse esistito, e con tutta evidenza tutt'ora esista, anche un populismo «di sinistra». Come se la demonizzazione dell'avversario (i capitalisti, le destre, certi conduttori televisivi) e la sua proscrizione morale non siano da sempre il metodo di lavoro della sinistra politica e giornalistica. Come se la delegittimazione della Politica e la volgarizzazione del dibattito pubblico non potessero che essere colpa della sola destra. Le responsabilità sono le stesse, diversa è solo la presunzione di superiorità morale: finché la sinistra non se ne libererà, continuerà ad essere colta di sorpresa dalle dinamiche sociali e politiche. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», disse Gesù in difesa di un'adultera che oggi mostra i tratti della Politica.

La politica ha deciso di abbandonare la storia per rifugiarsi nella geografia. Caduti i punti di riferimento, ci si rinchiude nella trincea identitaria e territoriale. Mentre tutto quello che sta alle nostre spalle è percepito come un fardello del quale conviene liberarsi il prima possibile. Marco Follini il 16 dicembre 2019 su L'Espresso. Mano a mano che la politica si libera dalla storia, finisce per inchinarsi alla geografia. Con l’effetto collaterale, non troppo paradossale, di detronizzare i padri e incoronare i nonni. Il culto della novità a cui le ultime generazioni politiche si sono votate fagocita infatti ogni passato, archivia le tradizioni e cancella il nesso tra un tempo e l’altro della nostra vita civile. Come a dire che tutto quello che sta alle nostre spalle è solo un fardello del quale conviene liberarsi il prima possibile. In una parola, si tratta di fare a meno della storia, appunto. O quasi. Ma una volta che si spezzi il legame col passato e ci si disancori da ogni ricordo, diventa fatale cercare nuovi (?) punti di riferimento scavando nelle più ravvicinate trincee identitarie. E per l’appunto non c’è identità più facile e più a portata di mano di quella che ha a che vedere con il territorio. Sia per quanto riguarda il destino dei paesi - immersi nel magma della globalizzazione; sia per quanto riguarda la prospettiva delle forze politiche - legate al mito di terre e confini a volte reali, a volte immaginari. La politica, come è noto, non contempla il vuoto. Dunque, se essa si libera dai sacri testi che l’hanno vincolata lungo tutto il secolo scorso, giocoforza se ne andrà alla ricerca di ancoraggi più robusti. E fatalmente finirà per trovarli, se non proprio nel sangue e nella terra, nei loro dintorni. E infatti mentre traballano le grandi architetture internazionali, debitrici anch’esse di pensieri un po’ ideologici, si irrobustiscono e diventano sempre più fitte le radici del giardino di casa. I paesi cercano di riprendere sovranità. E i territori fanno sentire con voce più forte le loro ragioni. Cosa che è sempre successa, si dirà. Ma che ora trae nuovo vigore dal fatto che per l’appunto la storia se ne va in soffitta e la geografia, o se vogliamo la geopolitica, si riprende il posto d’onore che aveva un tempo. Così, per esempio, è facile immaginare che dalle nostre parti il conflitto tra nord e sud sia destinato ormai a contare di più del conflitto tradizionale tra destra e sinistra. E che di conseguenza partiti e leader si attrezzeranno, ognuno a modo suo, per dare voce, e una voce sempre più stentorea, al cortile di casa. A farla semplice, ci saranno meno idee e più luoghi. Col rischio però che fioriscano luoghi senza troppe idee, e che strada facendo il conflitto tra i luoghi perda di vista ogni cornice che una volta poteva contenerli e armonizzarli. In questa riscoperta dei luoghi e del loro primato, s’intende, c’è il bene e c’è il male - assieme. Ma in un paese tanto frammentato e diversificato, come il nostro, e così squilibrato tra una regione e l’altra, e ancora (e sempre più) così diviso tra nord e sud, è evidente che se la politica non ha più la capacità di unire - cosa che faceva attraverso la sua storia - la geografia sarà portata a dividere. Fino a qualche anno fa la politica somigliava a una disputa storiografica. A Craxi serviva Proudhon per sfidare il Pci, il Pd celebrava Moro e Berlinguer e perfino a Renzi tornava utile La Pira per dar conto di sé. Ora non più. Che sia il bando alle nocciole di importazione, ovvero una felpa indossata con il nome del paese cui si fa visita, oppure il più banale campanilismo delle risorse, ci si esprime sempre più per schemi territoriali. La trasmissione delle idee si è fatta più incerta. L’ancoraggio al territorio è tornato ad essere cruciale. Le cartine geografiche hanno ripreso il sopravvento sui tomi polverosi di una volta. Con qualche rischio di scivolare nell’etnicismo, come è facile immaginare. Con il che si conferma il sospetto che ogni volta che la politica mette in discussione i padri è facile poi trovarsi a venerare i nonni.

·         Basta sparare sulle élites.

“IL POPOLO È UNA BRUTTA BESTIA. DOBBIAMO COMINCIARE A EDUCARE LA GENTE”. Gianni Carotenuto per Il Giornale il 12 Settembre 2019. "Il popolo senza mediazioni è una brutta bestia. Dobbiamo cominciare a educare la gente". Ospite di una delle ultime puntate di "In Onda", su La7, Achille Occhetto si è lanciato in una lunga riflessione sulla politica italiana e sul ribaltone parlamentare che ha portato alla nascita del governo giallorosso. Un'alleanza di governo, quella tra Pd e 5 Stelle, che ha riportato la Lega all'opposizione. L'uscita di Matteo Salvini dal Viminale è stata accolta da Occhetto - ultimo segretario del Pci e artefice della svolta della Bolognina che nel 1991 portò alla nascita del Pds - con grande soddisfazione. E un lunghissimo sospiro di sollievo. "Noi, in Italia, siamo arrivati a una situazione che faceva paura. Ero spaventato da qualche cosa che non riguarda solo Salvini, ma dalla sottocultura che si è sviluppata nel nostro Paese. Credo che tutto questo non sarà cancellato da un colpo di spugna", l'inizio della riflessione di Occhetto, il quale ha parlato poi di una "sottocultura legata all'odio, del disprezzo degli altri e dei diversi, alla capacità di creare passione sulla base del pericolo e quindi si crea fatalmente un pericolo che una volta è uno e una volta è un altro, e si determina nella parte più pronta ad accettare tutto questo: una situazione irrazionale", il giudizio di Occhetto, che subito dopo ha fatto un richiamo al fascismo e al fondatore del Pci, Antonio Gramsci. "Gramsci scriveva che il fascismo era riuscito a prendere la parte peggiore del popolo italiano. Gramsci non era radical-chic, parlava del popolo in modo giusto". Quindi l'affondo contro gli italiani che non si riconoscono nella sua stessa idea di società: "Il popolo senza mediazioni è una brutta bestia. Dobbiamo cominciare a educare la gente contro questa idea di popolo. Un popolo che è stato aizzato contro le istituzioni". Parole durissime che sono passate inosservate per qualche giorno, prima che Matteo Salvini le diffondesse sui social commentandole così: "Il popolo è una brutta bestia, dice l’ex segretario comunista. Cosí va bene sprangare l’ingresso di Montecitorio a sfregio di migliaia di persone che chiedevano solo la più alta espressione della democrazia: le elezioni". Il riferimento del segretario leghista è a quanto successo lunedì a margine della manifestazione contro il governo indetta da Lega e Fratelli d'Italia, quando le forze dell'ordine erano intervenute per impedire a centinaia di persone di spostarsi verso la Camera dei Deputati. "Ma ormai a Pd, sinistra e loro alleati evidentemente il popolo fa un po’ schifo", la chiosa finale del leader del Carroccio.

Occhetto: "Frainteso, Salvini dà notizie a metà". Poche ore dopo, ad Adnkronos, la replica di Occhetto: "Evidentemente Salvini ha l'abitudine di dare notizie a metà, la mia frase non intendeva dire che le classi subalterne e popolari siano una brutta bestia, ma che il popolo, inteso in senso indiscriminato e senza mediazioni, può essere una brutta bestia". Quindi l'ex segretario del Pci si giustifica: "Ho citato affermazioni di un uomo che era di sinistra e ha pagato la sua battaglia con la vita: Antonio Gramsci. Tutti i grandi leader, da Gramsci a Lenin, hanno criticato la nozione generica di popolo, alla quale sostituiscono quella di classe, di ceti medi, di contadini, di operai, che per me, a differenza di Salvini - conclude Occhetto - non sono delle brutte bestie".

SE LE ÉLITE VI SEMBRANO MARCE, GUARDATE LE LORO SCUOLE. Enrico Franceschini per “Affari & Finanza - la Repubblica” il 22 agosto 2019. Negli Usa gli scandali sulla Ivy League, la fabbrica dei presidenti. In Francia Macron risponde agli attacchi alla casta chiudendo l' Ena. E nel Regno Unito Oxford e Cambridge rischiano l' effetto della Brexit. Le èlite senza più riferimenti D alla torre d' avorio dell' istruzione d' élite arriva ultimamente un odore poco piacevole. Negli Stati Uniti, le migliori università sono state travolte dal peggiore scandalo di corruzione della loro storia: la scoperta che genitori danarosi pagavano milioni di dollari di bustarelle per ottenere che i propri figli fossero iscritti anche se i voti non lo meritavano. In Francia, Emmanuel Macron ha deciso di chiudere l'Ecole National d'Administration, più nota con l' acronimo Ena, la scuola da cui sono uscite generazioni della classe dirigente nazionale: una mossa ufficialmente motivata come necessaria per diminuire la diseguaglianza, ma che i suoi critici accusano di populismo. Potrebbero approfittarne i college dell' Inghilterra, a cominciare da Oxford e Cambridge, "Oxbridge" come vengono chiamate le due rivali gemelle, da sempre in testa alle classifiche internazionali sul rendimento accademico: ma le università inglesi sono preoccupate dalla minaccia della Brexit, che rischia di togliere loro preziosi fondi europei per la ricerca e fare calare il numero di studenti dagli altri 27 paesi della Ue. A cui si aggiungono i piani del laburista Jeremy Corbyn, se andrà al potere alle prossime elezioni anticipate, come predicono alcuni sondaggi, di riformare la scuola superiore, limitando o sopprimendo i licei privati come Eton, sui cui prestigiosi banchi hanno studiato per secoli futuri e primi ministri. Sembra insomma che tutto d'un colpo l'istruzione più qualificata ed esclusiva sia sconvolta da un tornado con diverse origini ma comunque in grado di renderla irriconoscibile. Cambiando le regole del gioco, ovvero il metodo per conseguire un titolo di studio capace di garantire un lavoro e un reddito sicuri, in un contesto di crescente incertezza, già agitato dalla rivoluzione digitale e dai rapidi sviluppi dell' intelligenza artificiale. Se le università migliori sono corrotte, chiudono o perdono finanziamenti, dove bisognerà mandare a studiare i giovani d' oggi e gli adulti di domani? E come si può rendere l' istruzione superiore al tempo stesso più sofisticata e più aperta alle masse, tenendola al passo con il ritmo vertiginoso del ventunesimo secolo? Sono i quesiti che giacciono sotto le pur differenti sfide del momento in America e in Europa per rinnovare il mondo accademico. Lo scandalo delle università americane è l' aspetto più eclatante del fenomeno. Ha condotto finora all' incriminazione di 50 persone, fra cui l'attrice Felicity Huffman, famosa per il suo ruolo nel serial televisivo "Desperate Housewives". La sua disperazione non era recitata, quando è apparsa in tribunale fra le lacrime, riconoscendosi colpevole di avere pagato almeno 25 mila sterline per fare ammettere la figlia a Yale. Non è un caso isolato: le altre università coinvolte nella gigantesca truffa includono Standford, Georgetown, l'Ucla (University of California Los Angeles), la University of Southern California e l' università del Texas. In tutto sono state pagate tangenti per 40 milioni di dollari, con singole bustarelle che vanno da 15 a 75 mila dollari. L' imbroglio consisteva nel cambiare i voti dei test d' ammissione, passare in anticipo le risposte esatte agli studenti o addirittura sostituire gli studenti con esperti in condizioni di prendere i voti più alti. Altri trucchi: dare a uno studente lo status di "borsa di studio per meriti sportivi", in discipline che nemmeno praticava; o qualificarsi per disabilità che facevano effettuare i test in ambienti protetti, dove era più facile manomettere i risultati degli esami. In un singolo caso, una famiglia ha pagato 1 milione e 200 mila dollari per l' ammissione a Yale. In un altro, una madre pronta a pagare dice all' esaminatore corrotto, senza sapere che la conversazione veniva registrata dall' Fbi: "So che suona folle ma voglio che mio figlio entri all' University of Southern California. E poi voglio che troviate una cura per il cancro e che facciate la pace in Medio Oriente". La differenza tra una laurea in un' università americana di élite (dove peraltro si paga già una fortuna per iscriversi: 55 mila dollari l' anno) e una qualsiasi può essere notevole: 100 mila dollari l' anno come primo stipendio contro 40 mila. Ma le statistiche dimostrano che a trarne vantaggio sono mediamente soprattutto gli studenti che provengono da ambienti non privilegiati. Gli stessi che, paradossalmente, faticano di più a ottenere l' ammissione. Perché studiare in quelle università costa molto. E perché le famiglie privilegiate, come si è scoperta ora, comprano posti a peso d' oro. Apparentemente l' annuncio del presidente francese sulla soppressione dell' Ena mira appunto a mettere fine a una analoga situazione di privilegio. Se otto ex-presidenti degli Usa sono usciti da Harvard (tra cui Barack Obama, John Kennedy e Franklin Roosevelt), la quale tra i suoi alunni vanta pure i due più famosi ex-studenti mai laureati, Bill Gates e Mark Zuckeberg, poi fondatori di Microsoft e Facebook, se da Yale sono passati Bill Clinton, George Bush padre e George Bush figlio, e se a Stanford hanno studiato i fondatori di Google (Larry Page e Sergey Brin), Instagram Mike Krieger e Kevin Systrom) e Netflix (Reed Hastings), la Ecole National d' Administration disegna un sentiero ancora più stretto e obbligato per la classe dirigente francese: oltre a Macron, lui stesso un énarque, tra i suoi illustri diplomati si contano altri tre presidenti, Valery Giscard d' Estaing, Jacques Chirac e Francois Hollande, vari primi ministri compreso Edouard Philippe, che ha servito sotto Macron medesimo, e innumerevoli capitani d' industria e della finanza, da Henri de Castries dell' Axa a Louis Gallois, ex-amministratore delegato dell' Eads.  Basti ricordare che Nathalie Loiseau, scelta da Macron per guidare il suo partito En Marche alle elezioni europee della settimana scorsa, era nientemeno che la direttrice dell' Ena. "Chiuderla è una decisione populista per rispondere alle dimostrazioni dei gilet gialli", dice tuttavia al Financial Times un anonimo top manager che vi ha studiato. "La vera sfida sarebbe aprirla alle classi meno abbienti". Negli anni '50, il 45 per cento degli iscritti veniva dall' alta società; oggi la percentuale è salita al 70 per cento. «Un problema che non riguarda soltanto l' Ena, ma tutte le grandi scuole d' élite francesi», concorda l' ex-ministro della Cultura Jack Lang. Macron non è il primo presidente francese che parla di chiudere l' Ena: ci hanno provato anche Chirac e Sarkozy. E dovrà anche decidere se la prestigiosa scuola di stato è un sintomo delle odierne divisioni di classe della società francese o ne è una causa: «Oggi», afferma lo storico Jean Garrigues dell' università di Orleans, «viene percepita come la fortezza della gente che ha il potere ». Sull' altra riva della Manica, in realtà il quadro non è diverso. Il 7 per cento delle famiglie britanniche mandano i figli a studiare nelle costose scuole private (da 25 mila sterline annue di retta in su), da cui esce il 50 per cento della classe dirigente. Da Eton sono usciti i principi William e Harry, una dozzina di premier fra cui David Cameron e Boris Johnson, creando un network di contatti e privilegio che prosegue a Oxford e Cambridge, bene illustrato dal Bullingdon Club, la società di studenti in frac che il sabato sera si ubriacavano spaccando tutto, tanto poi pagava papà. Per questo Corbyn vorrebbe abolire le scuole private e risanare quelle statali. Ma l' altro guaio, per l' istruzione inglese, è perdere 130 mila studenti europei, che avranno bisogno di un visto e pagheranno più del doppio (22 mila sterline l' anno invece di 9 mila) dopo la Brexit. E rinunciare a 90 miliardi euro di fondi Ue per la ricerca che diventerebbero disponibili dal prossimo anno, se la Gran Bretagna restasse in Europa. Si intravede insomma un periodo difficile per tutti. Forse è il concetto stesso di "torre d' avorio" che va ripensato. Non per nulla il termine viene da un verso dell' Odissea in cui Omero distingueva due tipi di sogni provenienti dal regno di Morfeo: i sogni veri che passano dalle porte di corno e quelli fallaci che passano dalle porte d' avorio.

 

POPOLO CONTRO ÉLITES. Alessandro Baricco per “Robinson – la Repubblica” il 21 maggio 2019. Trump e la Brexit non sono passati invano, così se entri in un libreria di Londra o New York ne trovi a chili di libri che cercano di spiegare perché, capire come, sostenere che. Sono sotto scacco, le élites anglosassoni (le élites per eccellenza, solo i francesi reggono quel ritmo) e poiché una delle cose che fanno da secoli è scrivere libri, ci danno dentro alla grande. Ogni tanto, ne arriva qualcuno anche in Italia, di quei libri. Adesso per esempio Einaudi Stile Libero ne ha pubblicato uno che si intitola Stati nervosi. Sottotitolo: Come l’emotività ha conquistato il mondo. Detto così ci si può aspettare l’ennesima lamentazione sul fatto che la gastro-intelligenza dei populisti ha fatto fuori la cristallina cultura di noi che abbiamo studiato, ma la verità è che no, il libro dice qualcosa di più interessante, e utile. Parte da quella sfida lì — esperti contro predicatori, élites contro popoli, razionalità contro emotività, fatti contro favole — ma appena può chiarisce bene una cosa: se pensate di cavarvela stando dalla parte degli intelligenti state prendendo una bella cantonata. Dato che l’autore si chiama William Davies, insegna all’University of London e collabora con testate come The Guardian o London Review of Books, e insomma è chiaramente iscritto al club degli intelligenti, la cosa appare abbastanza curiosa, se non anomala. Per cui mi son messo a leggere con attenzione. Quel che dice Davies è che l’idea di gestire la realtà in modo razionale, usando i numeri, affidandoli a gente competente e isolando una serie di fatti universalmente condivisi e non discutibili, è nata in Europa dopo il macello della Guerra dei Trent’anni, quindi nella seconda metà del ‘ 600. Troppe sofferenze per troppi anni fecero collassare quasi tutti i modelli preesistenti, che fossero militari o economici, e se ne venne fuori quell’idea di Nazioni tecnocratiche, organizzate in modo che l’insidia del caso e il veleno delle emozioni venissero messi ai margini dei processi decisionali. Non era un’idea campata in aria, anzi in qualche modo era coerente con tutto un habitat culturale che si stava formando. Rivoluzione scientifica, Cartesio, Hobbes: gli umani occidentali stavano facendosi un nuovo nido mentale. Davies fa l’esempio, molto puntuale, della Royal Society, in Inghilterra (1660): una comunità di esperti che, lasciando da parte sentimenti, opinioni ed emozioni, cercava di collezionare fatti, da tutti condivisi, su cui si potesse costruire una governance della realtà: come bene riassume Davies «si cercava qualcosa che fosse al di là delle dispute, ma che non fosse Dio». Il culto dei fatti nasce lì. Come progetto, bisogna dirlo, era visionario ed elettrizzante. Oggi un dirigente del Fondo Monetario Internazionale non è una figura che inclini alla simpatia, ma se lo prendete e lo collocate nel 1660 quello fa la figura del genio visionario, ve l’assicuro. E in effetti, registra Davies, quell’idea di rifarsi a una realtà più possibile oggettiva e di capirla con la forza dei numeri e degli esperti è un’idea che ci ha portato dentro la modernità, alleviando sofferenze e smantellando un bel po’ di assurdità. Bene. Solo che, come tutte le religioni, anche quella dei fatti ci ha messo poco a diventare una forma di idolatria cieca e uno strumento di dominio per una casta sacerdotale. E qui Davies ci va giù duro. Quel che è successo, dice, è che definire i fatti, stilare i numeri e formulare le decisioni è diventato nei secoli un giochino riservato a un’élite di esperti sempre meno interessata a capire il mondo nella sua complessità e sempre più ossessionata dalla necessità di semplificarlo per poterlo controllare e dominare meglio (vedi le statistiche, splendido esempio di non-sapere utile al dominio). Volendo riassumere, la razionalità è diventata una forma di pensiero unico al servizio del Capitale. Negli ultimi cinquant’anni, conclude Davies, il neoliberismo ha dato la spallata finale, arruolando i fatti, i numeri e la razionalità nella sacra missione di perseguire il progresso, aumentare la ricchezza collettiva, santificare la figura dell’Imprenditore Privato e difendere il Mercato dalle pericolose ingerenze degli Stati. Da quel momento il valore dei fatti ha iniziato a crollare, la razionalità è diventata qualcosa di infido e i numeri si sono svelati per quel che sono: pura narrazione travestita da oggettività. C’è tutto un mondo che si fida ormai più dell’istinto, dei ricordi, del buon senso, e delle parole. Può non piacere, dice Davies, ma è così. « Il successo dei populisti sia di destra sia di sinistra dovrebbe dirci che il desiderio di cambiare rotta e di giungere a una sicurezza collettiva è molto più importante per le persone rispetto al bisogno di verificare i fatti». È quasi un cammino irreversibile. «Gli eccessi della tecnocrazia sono responsabili di questo declino della ragione politica ». Amen. In una situazione del genere, affonda Davies, ostinarsi a reclamare il valore dei fatti e della razionalità è una forma di inutile "machismo" (la definisce proprio così) che «serve in parte a nascondere una scomoda verità, cioè che gli appelli delle élite all’oggettività sono sempre più vulnerabili ». Abbastanza feroce. Voglio ricordare che in tutto il libro non c’è una sola riga in cui i populismi siano ritenuti anche solo lontanamente un fenomeno di cui essere lieti. Tuttavia Davies è convinto che i populisti non facciano che cavalcare qualcosa che è già successo prima di loro: quando il neoliberismo ha iniziato a crollare si è trascinato con sé quell’ideale di oggettività, di freddezza scientifica, di competenza di cui si era servito cinicamente per i propri scopi. Da quel momento, pensare di invertire la rotta è illusorio. Probabilmente, conclude Davies, dobbiamo prendere atto che questa è una guerra diversa, che si combatte su un piano diverso, con materiali e tecniche diversi. È un nuovo terreno da gioco, mi sembra di capire, in cui lo statuto dei fatti è velocemente cambiato, e in cui porre l’alternativa tra razionalità e emotività è da stupidi. Davis la dice così: «Che sia arrivato il momento di prendere esempio dai populisti e nazionalisti e accettare il fatto che siamo tutti in una situazione di quasi guerra?[…] Può darsi che le "guerre culturali" si debbano combattere da entrambi i fronti. Questo non è necessariamente spaventoso come potrebbe sembrare». Spaventoso no, ma magari un tantino vago? Certo, mentre rileggevo qua e là il libro, mi è venuto in mente perché alla fine Davies mi è sembrato uno da leggere, pur nei suoi limiti: rappresenta bene un preciso tipo di smarrimento molto diffuso tra un certa élite outsider. Si incrociano, in quelle coscienze, tante cose — il disprezzo per il neoliberismo, il trauma di vedere i deboli rappresentati dalla destra, la difesa del pianeta terra, la quasi paranoica paura del Game, la fiducia negli esperti ma non in quegli esperti, la fascinazione per il sapere, l’empatia per l’ignoranza: alla fine è molto difficile convogliare tutta quella intensità — quella passione — a combattere su un fronte, perché non si trova il fronte. Sono intelligenze orfane di una guerra, perché sono circondate dal nemico ma non riescono mai, veramente, ad arrivargli davanti. Adorerebbero combattere, ma è dubbio che ci sia ancora una gente, o una terra, dietro, da difendere. Così bruciano quantità immense di giovinezza nel buio, a scaldarsi ai falò delle retroguardie. Non posso escludere che sia il posto da cui, senza accorgermene, scrivo queste righe.

"LE ÈLITES AL POTERE SI SONO ALLONTANATE DAL POPOLO”. L'intervista è stata realizzata dal direttore del "Financial Times" Lionel Barber e dal corrispondente a Mosca Henry Foy e pubblicata “la Repubblica” l'1 luglio 2019.

Presidente Putin, come ha visto cambiare il mondo nei vent' anni in cui è stato al potere?

«La prima cosa che vorrei dire è che non sono stato al potere per tutti questi vent' anni. Per quattro anni sono stato primo ministro, e non è la carica più alta della Federazione Russa. Tuttavia, sono da parecchio tempo al Governo, perciò sono in grado di giudicare che cosa sta cambiando. Mi arrischierei a dire che la situazione non è cambiata in meglio, ma resto ottimista. Tuttavia, per dirla senza mezzi termini, la situazione è diventata più drammatica ed esplosiva».

Ritiene che il mondo sia più frammentato?

«Sicuramente, perché durante la Guerra Fredda, il problema era la Guerra Fredda, è vero. Ma almeno c' erano alcune regole che tutti i soggetti che prendevano parte alla comunicazione internazionale più o meno sottoscrivevano. Ora sembra che non ci sia più nessuna regola. In questo senso, il mondo è diventato più frammentato e meno prevedibile, che è la cosa più deplorevole».

Lei è uno studioso di storia. Ha intrattenuto ore di conversazioni con Henry Kissinger. Quasi sicuramente avrà letto il suo libro, "Ordine mondiale". Con Trump assistiamo a un sistema molto più transazionale. Trump è molto critico delle alleanze. Va a vantaggio della Russia?

«Sarebbe meglio chiedere che cosa sarebbe a vantaggio dell' America. Trump non è un politico di professione. Ha una visione diversa degli interessi nazionali degli Stati Uniti. Molti dei suoi metodi non li accetto. Ma penso che sia una persona di talento. Sa molto bene che cosa si aspettano da lui i suoi elettori. La Russia è stata accusata, e per strano che possa sembrare lo è ancora nonostante il rapporto Mueller, di una fantomatica interferenza nelle elezioni americane. Che cosa è successo in realtà? È successo che Trump ha visto i cambiamenti nella società americana, e ne ha approfittato. Qualcuno ha mai ragionato su chi abbia beneficiato della globalizzazione? La Cina è quella che ha tratto vantaggio più di tutti. Negli Stati Uniti la classe media non ne ha beneficiato. La squadra di Trump lo ha usato in campagna elettorale. È qui che bisogna cercare le ragioni della vittoria di Trump, non in qualche presunta interferenza estera. Penso che questo possa spiegare le sue apparentemente irragionevoli decisioni economiche e i suoi rapporti con partner e alleati».

Lei difende la globalizzazione insieme al presidente della Cina, Xi Jinping, mentre Trump dice "Prima l' America". Come spiega questo paradosso?

«Non penso che il suo desiderio di dare la precedenza all' America sia un paradosso. Io do la precedenza alla Russia, e nessuno lo percepisce come un paradosso».

Lei si è incontrato spesso con il presidente Xi, e Russia e Cina si sono indubbiamente avvicinate. Non sta puntando troppe fiches su una carta sola? Perché la politica estera russa, anche sotto la sua guida, si è sempre fatta un vanto di parlare con tutti.

«Tanto per cominciare, le fiches da puntare non ci mancano, ma non ci sono molte carte su cui puntarle. Questo è il primo punto. Il secondo è che valutiamo sempre i rischi. Il terzo è che le nostre relazioni con la Cina non sono motivate da opportunismo politico. Il trattato d' amicizia con la Cina fu firmato nel 2001, molto prima degli attuali disaccordi economici, per usare un eufemismo, fra Stati Uniti e Cina. Sì, la Russia e la Cina hanno molti interessi che coincidono. È la ragione dei frequenti contatti fra me e il presidente Xi Jinping. Naturalmente abbiamo anche stabilito un rapporto personale molto caloroso. Ci stiamo muovendo in linea con la nostra agenda bilaterale generale, che formulammo già nel lontano 2001, ma reagiamo rapidamente agli sviluppi mondiali. Non rivolgiamo mai le nostre relazioni bilaterali contro qualcuno. Non siamo contro nessuno, siamo per noi stessi».

Dopo 20 anni al vertice o vicino al vertice ha più fame di rischi?

«La mia fame di rischi non è aumentata né diminuita. Il rischio deve essere sempre ben giustificato. Non si può ricorrere al proverbio russo "Chi non rischia non berrà mai champagne". Prima di rischiare bisogna procedere a una valutazione meticolosa di ogni aspetto. I rischi folli, che trascurano la situazione reale e non tengono conto delle conseguenze, sono inaccettabili perché possono mettere in pericolo gli interessi di un gran numero di persone».

La sua decisione di intervenire in Siria è stata un rischio grosso?

«Abbastanza elevato. Però ho riflettuto attentamente con largo anticipo. Ho deciso che a lungo termine gli effetti positivi per la Russia avrebbero superato di gran lunga la scelta di restare a guardare mentre una organizzazione terrorista internazionale si rafforza vicino ai nostri confini».

Che genere di risultato ha portato il rischio assunto in Siria?

«Innanzitutto molti militanti intenzionati a far ritorno in Russia sono stati eliminati. In secondo luogo, siamo riusciti a stabilizzare una regione contigua. Quindi abbiamo rafforzato direttamente la sicurezza interna della Russia. Questo in terzo luogo. Quarto, abbiamo stabilito rapporti commerciali buoni con tutti i Paesi della regione e le nostre posizioni in Medio oriente si sono stabilizzate. Quanto alla Siria, siamo riusciti a preservarne la sovranità, impedendo che il paese cadesse nel caos come la Libia».

Lei è impegnato a far sì che Al Assad resti al potere o può essere, ad un certo punto, che in Siria avvenga una transizione, con l' appoggio russo, che non sia come quella in Libia?

«Credo che i siriani debbano essere liberi di scegliere il proprio futuro. Al contempo, vorrei che le azioni degli attori esterni fossero, come nel caso dei rischi, prevedibili e comprensibili. Quando abbiamo discusso la questione con la precedente amministrazione Usa, abbiamo chiesto, "supponiamo che Assad si dimetta, cosa succederà domani?". "Non lo sappiamo", hanno detto. Ma se non sai cosa accadrà domani, perché parlare a vanvera oggi?».

Ritiene che vi sia la possibilità di un miglioramento delle relazioni anglo-russe e che si possano superare alcune questioni delicate, come la vicenda Skripal?

«Senta, tutta questa storia di spie e controspie non è degna di relazioni interstatali serie. Questa spy story non vale cinque copechi. E nemmeno cinque sterline. Le questioni riguardanti le relazioni interstatali si misurano in miliardi e riguardano il destino di milioni di persone. Come possiamo paragonare le due cose? Sappiamo che le imprese del Regno Unito, vogliono lavorare con noi. E noi sosteniamo questa intenzione. Creano posti di lavoro e valore aggiunto. E se aggiungiamo una situazione politica imprevedibile, non saranno in grado di lavorare. Penso che sia la Russia che il Regno Unito siano interessati a ripristinare pienamente le loro relazioni. Penso che sia più facile per May, perché se ne sta andando ed è libera di fare ciò che ritiene giusto e necessario senza preoccuparsi di alcune conseguenze di politica interna».

Qualcuno potrebbe dire che una vita umana vale più di cinque centesimi.

«È morto qualcuno?».

Oh, sì. Quel signore che aveva un problema di droga ed è morto dopo aver toccato il Novichok.

«E pensa che sia assolutamente colpa della Russia?».

Non ho detto questo. Ho detto che qualcuno è morto.

«Sì, è morto un uomo, e questa è una tragedia. Ma cosa abbiamo a che fare con questo?».

Crede che quel che è successo a Salisbury mandi un messaggio a chiunque pensi di tradire Mosca?

«Il tradimento è il crimine più grave possibile e i traditori devono essere puniti. Non sto dicendo che l' incidente di Salisbury sia il modo di farlo. Questo signore, Skripal, era già stato punito. Era stato arrestato, condannato, aveva scontato la sua pena in prigione. Era fuori dal radar. Perché interessarsi ancora a lui? Per quanto riguarda il tradimento, deve essere punibile. È il crimine più spregevole che si possa immaginare».

All' inizio della nostra conversazione ho parlato della frammentazione. Un altro fenomeno odierno è che c' è una reazione popolare contro le élite e contro l' establishment e lo si è visto con la Brexit in Gran Bretagna, in Germania con l' Afd, in Turchia e nel mondo arabo. Per quanto tempo pensa che la Russia possa rimanere immune da questo movimento globale?

«Bisogna considerare la realtà di ogni singolo caso. Certo, ci sono alcune tendenze, ma sono solo generali. Per quanto tempo la Russia rimarrà un paese stabile? Più a lungo è, meglio è. Perché molte cose e la sua posizione nel mondo dipendono dalla stabilità. La ragione interna del crollo dell' Unione Sovietica fu che la vita era difficile per la gente. I negozi erano vuoti e la gente aveva perso il desiderio di preservare lo Stato. Pensavano che non potesse andare peggio. Invece la vita peggiorò, specie all' inizio degli Anni '90, quando collassarono i sistemi di protezione sociale e di assistenza sanitaria e l' industria si sgretolò. Poteva anche funzionare male, ma almeno la gente aveva un lavoro. Dopo il crollo, lo perse. Quindi, ogni caso va esaminato separatamente. Che cosa sta succedendo in Occidente? Le élite al potere si sono allontanate dal popolo. C'è anche la cosiddetta idea liberale che ha esaurito il suo scopo. Quando il problema dell' immigrazione ha raggiunto un punto critico, molti nostri partner occidentali hanno ammesso che il multiculturalismo non è efficace e che gli interessi della popolazione locale vanno presi in considerazione. Al tempo stesso, chi si trova in difficoltà a causa dei problemi politici nel proprio Paese d' origine ha bisogno della nostra assistenza. È giusto, ma cosa ne è degli interessi della popolazione locale quando il numero di migranti diretti verso l' Europa occidentale è nell' ordine di migliaia o centinaia di migliaia?».

Angela Merkel ha commesso un errore?

«Un errore capitale. Si può criticare Trump per la sua intenzione di costruire un muro tra il Messico e gli Stati Uniti. Forse esagera. Ma almeno sta cercando una soluzione. Per quanto riguarda l' idea liberale, i suoi sostenitori non stanno facendo nulla. Dicono che tutto va bene. Ma è così? Sono seduti nei loro accoglienti uffici, mentre coloro che affrontano il problema non sono contenti. Lo stesso accade in Europa. L'idea liberale presuppone che non ci sia bisogno di fare nulla. I migranti possono uccidere, saccheggiare e stuprare impunemente perché i loro diritti devono essere tutelati. Quindi, l' idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione. O prendiamo i valori tradizionali. Non voglio insultare nessuno, perché siamo già stati condannati per la nostra presunta omofobia. Non abbiamo problemi con le persone Lgbt. Ma alcune cose ci sembrano eccessive. Ora c' è chi sostiene che i bambini possono svolgere cinque o sei ruoli di genere. Lasciamo che tutti siano felici, ma non dobbiamo permettere che ciò metta in secondo piano la cultura, le tradizioni e i valori familiari tradizionali di milioni di persone».

Ha conosciuto molti leader mondiali. Chi ammira di più?

«Pietro il Grande».

Ma è morto.

«Vivrà finché la sua causa sarà viva come la causa di ognuno di noi. (Ride). Vivremo finché vivrà la nostra causa. Se si riferisce ai leader attuali di diversi Paesi e Stati, sono rimasto molto colpito dall' ex presidente francese Chirac. È un vero intellettuale, un vero professore, un uomo saggio e molto interessante. Quando era presidente, aveva la sua opinione su ogni questione, sapeva come difenderla e rispettava sempre le opinioni dei suoi partner».

I grandi leader preparano sempre la propria successione. Può dirci con quale processo sarà scelto il suo successore?

«Posso dirle che ci ho sempre pensato, fin dal 2000. La situazione cambia e cambiano anche alcune esigenze delle persone. Alla fine, e lo dico senza teatralità, la decisione dovrà prenderla il popolo russo. Non importa tanto quello che fa l' attuale leader e come lo fa, né chi rappresenta e come, perché è l' elettore che ha l' ultima parola».

Quindi la scelta sarà approvata dal popolo russo in una votazione?

«Nel vostro Paese, un leader se ne va e il leader che gli succede non è eletto dal voto diretto del popolo, ma dal partito al potere. In Russia è diverso, perché siamo un Paese democratico. Se i nostri alti funzionari se ne vanno, si tengono elezioni a scrutinio segreto diretto universale. Lo stesso accadrà in questo caso».

Non posso fare a meno di sottolineare che lei ha assunto la presidenza prima delle elezioni.

«Sì, è vero. E allora? Ero presidente in carica e, per essere eletto e diventare capo di Stato, ho dovuto partecipare a un' elezione, cosa che ho fatto. Sono grato al popolo russo per la fiducia accordatami all' epoca e, successivamente, nelle elezioni successive. È un grande onore essere il leader della Russia».

Che questi parlamentari siano dannati. Odiati perché privilegiati, attaccati per gli stipendi elevati. Ma, invece che dimezzare gli assegni, non è meglio tagliarne il numero? Scrive Marcello Veneziani il 16 gennaio 2019 su "Panorama". Ale Di Battista e Giggino Di Maio s’incontrano a Capodanno e come anello di fidanzamento per celebrare la loro unione fanno una solenne promessa agli italiani: quest’anno vi regaleremo il dimezzamento degli stipendi ai parlamentari. Perché a un Paese che ha bisogno di tante cose, che ha cento priorità urgenti, due capi e due comunicatori abili promettono in dono una punizione, un provvedimento contro pochi anziché a favore di tanti? Sarebbe facile dire perché le altre riforme costano, questa no, è tecnicamente più facile, fa scena e fa pure risparmiare qualche soldino. Sarebbe facile aggiungere che i due pentastellati conoscono bene il loro elettorato, sanno che il voto contro, il risentimento diffuso, l’invidia egualitaria hanno un peso importante nella gente, a partire da chi se la passa male. Ma tutto questo non basta. C’è qualcosa di più profondo che i dioscuri del grillismo capiscono a naso. Gli italiani detestano da sempre i parlamentari, quando devono indicare una figura negativa ne hanno una che pure ossequiano con un titolo che sa di medioevo giapponese: l’Onorevole. Eccolo, l’Abominevole Onorevole, Mangiapane a tradimento, Privilegiato, Superpagato. Un tempo disprezzato perché Notabile, uno di Lorsignori, oggi disprezzato perché baciato dalla ruota della fortuna senza particolari meriti e curriculum. I grillini gli preferiscono la democrazia diretta dei cittadini, rousseauviana come la loro piattaforma, senza mediazioni, reticolare, fondata sul plebiscito permanente e il sondaggio pop. Ma in questo i rivoluzionari grillini sfondano una porta aperta. C’è un filo rosso che percorre la storia d’Italia dall’unità ai giorni nostri. È un filo a volte palese, a volte sommerso, ma ci accompagna dalla nascita. È la critica, il rifiuto, il rigetto del parlamentarismo. La critica al parlamento nacque già col suo primo insediamento. Era ancora a Torino il Parlamento del neonato Stato italiano, e un parlamentare, uno di loro, come del resto Di Maio e Di Battista (ex, ma presto di ritorno), scrisse una stroncatura memorabile: I moribondi di Palazzo Carignano, di Ferdinando Petruccelli della Gattina. Un libro contro i parlamentari. Contro il parlamentarismo, i connubi, i trasformismi, sorse una vasta opinione tra l’ottocento e il novecento. Era una letturatura conservatrice, aristocratica, elitista. Ma presto s’incrociò con l’antiparlamentarismo che veniva dal basso, rivoluzionario, socialista, sindacalista. E l’incrocio partorì il fascismo, l’invettiva ducesca contro l’«aula sorda e grigia». Ma l’antiparlamentarismo restò anche con l’avvento della repubblica democratica e antifascista. Vi apparve subito dopo la guerra, e l’Uomo qualunque ne fu vibrante espressione; s’insinuò tra scrittori e giornalisti, si ritrovò nei partiti di destra ma anche di sinistra, quelli che rimpiangevano lo stato autoritario, la dittatura del proletariato o il governo degli ottimati. Frenavano la critica popolare due ragioni, la convinzione e la convenienza, ossia la comune ideologia e i favori clientelari. Poi si esaurirono. Non c’è stata crisi in Italia che non abbia visto risalire il rigurgito antiparlamentare e la voglia di punire gli onorevoli. Se in Italia ci fosse un referendum istituzionale, la democrazia presidenziale avrebbe trionfato sulla democrazia parlamentare. L’indennità del parlamentare è sempre stata la prima pietra dello scandalo; la seconda era il vitalizio, già castigato; poi l’immunità parlamentare, infine i vantaggi, le tessere gratis, la mensa delle Camere a prezzi di barbone ma con prestazioni, secondo la vox populi, da gran ristorante. Ridurre o addirittura dimezzare i loro «stipendi» incontra un consenso largo e profondo, che viene da lontano. Ma non rischia di squalificare ancor di più il ruolo e il profilo dei parlamentari? Di reclutare personale politico sempre più scadente? Chi magnifica i risparmi non capisce la differenza tra i milioni e i miliardi di euro, o pensa che spalmare mezza indennità di mille persone su venti milioni di pensioni e salari poveri sia un gran vantaggio; ma è solo una tazzina di caffè a testa. E se invece di dimezzare i loro stipendi si dimezzasse il loro numero davvero eccessivo? Il risparmio sarebbe maggiore, perché si eliminerebbe la pletora di privilegi, assistenti e personale procapite, si snellirebbero le procedure. E la qualità dei parlamentari, magari, potrebbe migliorare con una selezione più stringente. Anzi, vi scandalizza che la classe dirigente di un Paese abbia stipendi così alti, come i magistrati del resto; ma non vi scandalizzano gli stipendi dei commessi delle Camere, che fanno un lavoro non più importante degli altri dipendenti pubblici ma guadagnano quattro volte tanto? C’è poi una riforma strutturale più radicale che gli italiani approverebbero a maggioranza larga e che davvero porterebbe un gran risparmio: e se toccassero le Regioni, se fosse stata la loro introduzione quasi 50 anni fa a dare la mazzata fatale ai conti pubblici, con venti staterelli, venti governi, venti burocrazie, e venti parlamenti? Insomma, se si vuole toccare il campo dei privilegi, delle ingiustizie e degli sprechi, si potrebbero adottare riforme più organiche, più razionali, più radicali. Che darebbero insieme più dignità agli stessi rappresentanti del popolo sovrano e minori alibi. I parlamentari prendono troppo o sono troppi e valgono poco? Averne meno ma scelti meglio: meno onorevoli ma onorevoli davvero...

Basta sparare sulle élites. Sui media impazza l’attacco ai circoli ristretti che hanno guidato il paese. Giusto denunciare privilegi ma guai ai processi sommari per sostituirsi agli ex potenti mantenendo gli stessi vizi, scrive Carlo Fusi il 16 gennaio 2019 su "Il Dubbio".  Nell’ottobre scorso Giuseppe De Rita spiegava al Dubbio che «all’Italia serve una nuova élite» perché «non esiste società complessa che ne possa fare a meno». Poi tutto è tracimato. Del tema si è impossessato Ernesto Galli della Loggia. Che prima ha messo nel mirino le élites internazionali e poi se l’è presa con quelle nostrane. Ma il botto più grosso l’ha fatto lo scrittore Alessandro Barricco che ha spiegato: «È andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola. Vuole che si scriva nella Storia che le èlites hanno fallito e se ne devono andare». Su un’analisi così spietata è piombato Enrico Mentana, riprendendo e dando ampio spazio nel suo Tg alle argomentazioni di Baricco, facendole in qualche modo proprie. Ezio Mauro, ex direttore di Repubblica, ha provato a sistematizzare la questione: «Possiamo vivere senza élites?». Popolo vs élites; alto contro basso delle società. Tema che a molti può apparire talmente etereo da diventare siderale. Però è un errore. Popolo vs élites: battaglia giusta o esercizio trasformistico per trovare capri espiatori? Ma chi ha cominciato? Tralasciando le analisi, i saggi, le ricerche, gli studi, gli approfondimenti e restando, diciamo così, alla superficie del dibattito sui media, la palma spetta al Dubbio. Dalle cui pagine già nell’ottobre scorso Giuseppe De Rita, intervistato da Franco Insardà, spiegava che «all’Italia serve una nuova élite» perché «non esiste società complessa che ne possa fare a meno». E che questa nuova élite avrebbe dovuto avere come bussola «l’etica della responsabilità e non quella delle buone intenzioni che storicamente ha prodotto il nazismo, il fascismo e il comunismo». Poi tutto è tracimato. Del tema si è impossessato Ernesto Galli della Loggia. Che prima ha messo nel mirino le élites internazionali, colpevoli di aver puntato tutto sulla globalizzazione: i cui frutti avvelenati hanno prodotto una delegittimazione che ha portato allo scontro (perso) con il resto della società. E poi se l’è presa con quelle nostrane, irrimediabilmente ammalate di autoreferenzialità, refrattarie al merito come criterio di selezione; colpevoli di preferire i rapporti personali ed il familismo alla sana competizione tra talenti. Ma il botto più grosso l’ha fatto lo scrittore Alessandro Barricco con un vero e proprio j’accuse come redivivo Emile Zola. L’autore di Oceano mare ha spiegato che «è andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola. Vuole che si scriva nella Storia che le èlites hanno fallito e se ne devono andare». Tuttavia «la gente si sveglia ogni giorno per andare all’assalto della fortezza delle élites; e più lo fa, più vince e più si fa male». L’unico antidoto possibile è la cultura, «smettendo di dare alla politica tutta l’importanza che le diamo: non passa di lì la nostra felicità». Su un’analisi così spietata è piombato Enrico Mentana, riprendendo e dando ampio spazio nel suo Tg alle argomentazioni di Baricco, facendole in qualche modo proprie. Ezio Mauro, ex direttore di Repubblica, ha provato a sistematizzare la questione: «Possiamo vivere senza élites? Come si è arrivati al loro suicidio sommerse dalla disapprovazione generale? Quanto tempo impiegheremo a considerare élites la nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia?». Popolo vs élites; alto contro basso delle società. Tema che a molti può apparire talmente etereo da diventare siderale: altri sono i problemi, dal lavoro alla sicurezza, dall’immigrazione alla crescente disuguaglianza. Però è un errore. Infatti che si tratti di un nervo scoperto della descrizione del “nuovo” che si sta imponendo nelle società occidentali, è un fatto. Come pure è un fatto che solo analizzando e spiegando le ragioni di questa specie di lotta di classe 2.0, asprissima e senza tregua, si può tentare di comprendere la direzione che prenderà il futuro. Più che un argomento di discussione si tratta di una voragine ideale e valoriale della quale nessuno può pretendere di possedere le esclusive chiavi di comprensione. Forse è utile operare una prima distinzione: in troppi con intenti non sempre irreprensibili – si affannano ad accomunare in un unico fascio delegittimante élites economiche, finanziarie, sociali, sovranazionali assieme a rappresentanze politiche ed istituzionali che non solo sono obbligate ma risultano addirittura salvifiche nelle società complesse. Mischiando tutto, il pericolo è che si finisca per buttare assieme all’acqua sporca delle logge, delle lobby opache, delle incrostazioni e dei favoritismi che fanno collassare l’ascensore sociale, anche il bambino della delega liberamente assegnata. Cioè il cuore pulsante di ogni sistema che si definisca democratico. E’ giusto e doveroso attaccare sclerotizzazioni che portano un pezzetto sempre più esiguo delle società ad assommare un potere e una capacità di cooptazione enorme nelle proprie mani. Ma bisogna stare attenti a non svilire il ruolo e la portata della rappresentanza politica, al di fuori della quale alligna l’arbitrio dei più forti. Di qui è possibile un primo accenno a Baricco: ci vuole più cultura ma guai a pensare che possa crescere e sconfiggere le spinte dissolutrici a discapito della politica. E’ esattamente il contrario: solo l’esercizio della politica – da svolgersi entro regole precise, condivise e rispettate – può salvare dalla barbarie dei più potenti. Sono le istituzioni politiche, a partire dal Parlamento e poi dal governo, dalla magistratura e dai vari poteri pubblici opportunamente bilanciati l’un l’altro, a poter garantire l’adeguato svolgimento della competition tra interessi diversi e la loro composizione ai fini del bene generale nelle società complesse. Proviamo, per brevità, a saltare altri passaggi e a venire, a giudizio di chi scrive, al nocciolo più significativo della questione. Non c’è dubbio che sia in atto un gigantesco sommovimento sociale che individua nelle élites la responsabilità del fallimento delle ricette anticrisi e addossa ad esse la colpa di aver ristretto a loro vantaggio la redistribuzione della ricchezza e la tutela delle condizioni di non essere raggiunte. E’ un fenomeno di proporzioni epocali, da maneggiare con cura. Il rischio che va evitato è che alla fine non si risolva tutto nell’ennesimo giro di giostra all’italiana, in un riflesso ammiccante che individua il capro espiatorio e gli getta addosso tutte i misfatti lavandosi le mani dalle proprie responsabilità. In un ritorno al più gattopardesco dei girotondi. Globalizzazione e crisi economica hanno sconvolto l’Occidente ma i cittadini sono rimasti gli stessi, con le loro qualità e i loro difetti. Significa, per stare nelle cose, che se in Italia lobby, consorterie e élites (che non sono affatto la stessa cosa) hanno prosperato è anche perché gli italiani della Prima, Seconda e magari anche Terza Repubblica preferiscono ingegnarsi per cercare il santo in paradiso piuttosto che gareggiare, molto più faticosamente, per emergere in virtù dei propri talenti. Spesso, anzi spessissimo è vero, quei talenti vengono misconosciuti a favore dei “raccomandati”. Ma in tante altre occasioni si preferisce aggirare le regole invece di reclamarne il rispetto, in una furbesca salvaguardia del particulare. Populismo e demagogia sono mali antichi italiani: nei decenni passati l’uovo del serpente lo hanno covato in tanti. Solo che i vecchi partiti svolgevano anche un ruolo di pedagogia politica che oggi è scomparso. Se è così, il pericolo diventa che la sacrosanta battaglia contro privilegi e guarentigie si trasformi nell’ennesimo rivolgimento farlocco; nel reclamato cambiamento di carattere rivoluzionario che diventa nient’altro che opportunità per i nuovi potenti di prendere il posto – e magari anche i vizi di coloro che vengono spodestati. Ovviamente sempre in nome e per conto del popolo. Se alla fine è solo una metamorfosi cosmetica e altre élites prendono il posto di quelle vecchie senza che nessuno si impegni in una ricerca anche impietosa dei motivi che hanno prodotto un così vasto risentimento sociale, allora si rischia di assistere ad uno spettacolare esercizio trasformistico. Altro che mutamento. Dal 1948 ad oggi, salvo alcuni aggiustamenti, la Costituzione italiana non è cambiata. L’articolo 34 della Carta stabilisce che «i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti». Si parla di studi, ma il concetto è estensibile. Quei capaci e meritevoli poi non possono che diventare élites. E’ il ricambio sano che è ineludibile: non la tabula rasa.

Le élites? La storia è un cimitero di aristocrazie…Il popolo almeno da due secoli a questa parte è l’alibi che le classi dirigenti usano per compiacere se stesse, scrive di Gennaro Malgieri il 18 gennaio 2019 su "Il Dubbio". La polemica, alquanto becera e sicuramente strumentale contro le élites da parte dei movimenti cosiddetti populisti, invece di innescare una discussione seria sul tema sembra che stia deragliando verso una sorta di conflitto tra classi dirigenti sconfitte e classi dirigenti emergenti che come tali oggettivamente tendono a diventare élites a loro volta e, dunque, a rivolgere contro se stesse le imputazioni che ne hanno agevolato le fortune politiche, a dimostrazione che le società prive di élites non sono immaginabili. Che poi siano attrezzate o meno culturalmente, è un altro discorso. Sulle nuove élites italiane non avrei dubbi: sono tecnicamente abusive, ancorché legittimate dalla posizione che occupano. Il problema è che non immaginano minimamente di essere “provvisorie” e, come tali destinate alla consunzione. Il tema è di grande impatto come ha segnalato su questo giornale Carlo Fusi nei giorni scorsi. E si ha un bel dire che la qualità delle élites non conta: conta eccome, come Fusi ora e Galli della Loggia qualche settimana fa sul Corriere della sera preoccupato ammetteva. Purtroppo le comunità deperiscono quando esprimono élites inadeguate al ruolo. E dunque la loro mutevole consistenza e qualità è un problema che non si può scansare. Risalendo alle fonti dell’indagine sulle élites ci si può rendere conto, mettendo da parte per un attimo la discussione corrente, di come il gioco avviato intorno alla negazione delle élites per costituirne altre sia piuttosto gravido di incongruenze che non possono che alimentare un conflitto artificioso e pernicioso. “La storia è un cimitero di aristocrazie”, scriveva Vilfredo Pareto. Ed il tempo s’è incaricato di dimostrare la ragionevolezza dell’assunto del fondatore della moderna sociologia italiana, che nel suo monumentale Trattato di sociologia generale ha delineato la formazione delle élites come fattore ineluttabile della vita associata e la loro “circolazione” quale evento insopprimibile del divenire storico delle comunità organizzate. Le leggi non scritte hanno più senso di quelle vergate e tramandate: il senso della visione paretiana è nella logica della dimensione organizzativa che gli uomini, da quanto hanno scoperto la vocazione alla convivenza ed alla formazione di gruppi omogenei, hanno spontaneamente accettato. Ma le élites, o gruppi di comando, o leadership (come si dice oggi) non sempre rispondono alle esigenze del popolo. Anzi, il più delle volte, soprattutto in democrazia, questo è soggiogato dai centri di potere che guerreggiano tra di loro al fine di stabilire la supremazia. E’ questa “costante” che si può iscrivere sotto la dizione di “ferrea legge delle oligarchie” la cui formulazione teorica è del pensatore tedesco- italiano Roberto Michels che, per quanto contestato da Antonio Gramsci, lo stesso fondatore del Partito comunista gli dava sostanzialmente ragione individuando nelle classi dirigenti politiche (compreso il suo, si presume) un “naturale” allontanamento dalle masse. Il che vuol dire che la forza della minoranza è sempre e comunque “irresistibile”, come lucidamente sosteneva Gaetano Mosca, “di fronte ad ogni individuo della maggioranza, il quale si trova solo davanti alla totalità della minoranza organizzata; e nello stesso tempo si può dire che essa è organizzata appunto perché é minoranza”. Se questo è il quadro – e mi pare nitidamente incontrovertibile – è assolutamente vero che dalle élites non si può prescindere, al di là delle opzioni politiche che si nutrono e che alla luce anche delle riflessioni indotte dall’evoluzione delle scienze umane appaiono sempre più desuete. Elitisti, insomma, beninteso ognuno a suo modo, tutti gli “ideologi” citati? Non c’è alcun dubbio. E basta del resto sfogliare un’essenziale antologia Élites. Le illusioni della democrazia (Gog edizioni) per rendersi conto che Mosca, Pareto e Michels, con l’aggiunta di Gramsci (tutt’altro che eccentrica), avevano inquadrato il problema con larghissimo anticipo sul manifestarsi della crisi della rappresentanza democratica. Il popolo, insomma, almeno da due secoli a questa parte, è l’alibi che le classi dirigenti, non più aristocratiche nel senso proprio del termine, utilizzano per compiacere se stesse e servire potentati, soprattutto oggi, economico- finanziari e mediatici che con il “sentimento popolare” hanno ben poco da spartire. Tuttavia, come acutamente osserva Vitelli nel suo denso saggio introduttivo, le élites di ogni devono saper interpretare lo spirito del tempo, connettersi con il popolo che le esprime comunque e che resta il loro interlocutore. Insomma, se il consenso manca, in democrazia non c’è classe dirigente; ma il consenso non lo creano forse le classi dirigenti capaci di indirizzare, nel senso migliore, il popolo? E’ su questo interrogativo che soprattutto Pareto – molto più di Mosca che nutriva illusioni liberali, pur essendo un conservatore – ha molto riflettuto raccogliendo i frutti di un’indagine che praticamente è durata tutta la vita, oltre che nel Trattato, nel saggio I sistemi socialisti, dove si legge: “Le élite si manifestano in parecchi modi, secondo le condizioni della vita economica e sociale”. Anche nei partiti politici, avrebbe aggiunto anni dopo Michels difendendone la legittimità come fattori storici inestirpabili, tuttavia deprecando l’eccessivo culto dei leader ma si sarebbe ricreduto diventando in seguito un fervente fascista, uno degli intellettuali di punta del movimento e del regime. Ciò che ci lasciano gli “élitisti”, come approssimativamente sono stati chiamati, è appunto la “codificazione” di un dato non eliminabile che genera conflitti e rimette sempre, anche quando non lo si crede più, la storia. Insieme a tutto ciò, è la valutazione finale che ci intriga – o dovrebbe intrigarci. Concerne la dimensione “morale” che, come insegna Carl Schmitt, non fa parte della politica e neppure della sociologia. E allora, se questo punto di vista è ritenuto valido, non ci si può che fermare alla constatazione e alla “difesa” del principio stesso, cioè a dire che nessun sistema democratico è immune dalla lotta tra le élites. La storia dirà sempre, con ragionevole ritardo, quali delle “nuove aristocrazie” hanno avuto la meglio ed hanno agito al di là del loro interesse. Ma la cronaca, nella quale siamo immersi, ci consegna un’altra incontestabile verità: l’assoluta mancanza di visione da parte delle élites dominanti ai nostri giorni che non sono “costruzioni” legittimate dal consenso democratico, per quanto fittizio possa essere, ma da invisibili lobbies che si costituiscono in forma di centri di manovra allo scopo di far passare le loro “verità” come “bene comune”, utilizzando ( e disprezzando) la democrazia che perciò oggi, in ogni parte del mondo, è il problema, come anni fa, ammoniva l’intellettuale francese Alain de Benoist. Ed i problemi dovrebbero essere risolti, come si sa. In qual modo oggi è difficile immaginarlo. L’egemonizzazione dello spazio culturale, sociale e politico a cui si riferiva Gramsci, non sembra alla portata. L’alta finanza, il capitalismo globalista, perfino il comunismo tecnocratico (Xi Jinping è un vero genio!), il neo- colonialismo umanitario di fronte alle decadenti democrazie occidentali hanno partita facile. La rigenerazione di altre élites presuppone complessi di riferimento dai quali possano prodursi e ristabilire una corretta “circolazione”, come Pareto la intendeva. Utopia? E sia. Probabilmente i nuovi conflitti planetari offriranno “spazi” che ancora non si vedono o che forse appena si intuiscono.

·         L’élite: La Politica con le Facce da Culo.

Crisi, il giorno in cui Giuseppe Conte si gioca il ruolo da protagonista: "Governo finisce qui". Il discorso al Senato del premier è il passaggio decisivo della "crisi più trasparente della storia" che, in realtà, è stata il regno delle trattative segrete. La prima puntata del "Diario" del direttore Marco Damilano. Marco Damilano il 20 agosto 2019 su L'Espresso. «Rileggiamo la Costituzione. Non vi troviamo la debolezza dell'esecutivo che paralizza chiunque sieda a Palazzo Chigi, né la prassi delle crisi extraparlamentari, né l'asservimento dell'informazione pubblica al sistema politico... Nella prima Repubblica vera sede del potere erano i partiti, i governi non erano scelti dai cittadini ma da strutture di partito sottratte al controllo e ai rischi del voto popolare, la composizione dei governi era stabilita dalle segreterie dei partiti. Oggi quelle prassi sono residui del passato che impediscono al sistema politico di operare in modo efficace al servizio dei cittadini». Chissà se, preparando il suo intervento di oggi nell'aula di Palazzo Madama, il presidente del Consiglio Giuseppe Conteavrà letto queste parole, il discorso dell'ultimo premier sfiduciato dal Senato. Era il 24 gennaio 2008, quando Romano Prodi sfidò i senatori a votargli contro. Una seduta drammatica, con cambi di schieramento, insulti, sputi, mortadelle, spumanti, il presidente Franco Marini che scampanellava: «Colleghi, non siamo in osteria!». Finì così quel governo, e quella legislatura brevissima, con un'orribile sbornia di senatori comprati e venduti. Oggi la «crisi più trasparente della storia», come aveva promesso Conte, è al suo passaggio decisivo. Si è visto pochissimo, in realtà: trattative segrete, giochi a tutto campo, vertici balneari, mosse e contromosse. L'ultima prevede che sia l'artefice della crisi Matteo Salvini a dimettersi prima di Conte. Lasciare il Viminale per mostrare (tardivamente) a tutti che lui non è attaccato alla poltrona e per riconquistare le mani libere, come Umberto Bossi con Silvio Berlusconi nel 1994, così gli ha consigliato di fare Giancarlo Giorgetti, lo scrive Francesca Schianchi sulla Stampa. Ma oggi tocca a Conte parlare. E tracciare la riga tra lui, il Movimento 5 Stelle e la Lega. Quanto profonda e invalicabile si vedrà, la crisi dipende da questo. Intanto, la strada di Conte si è già intrecciata con quella del predecessore Prodi: l'idea di una “maggioranza Ursula” di cui ha scritto il Professore sul Messaggero, come la coalizione che in Europa ha eletto la nuova presidente della Commissione, ovvero Pd-M5S (e Forza Italia...) è rappresentata soprattutto dall'avvocato Conte, asceso incredibilmente a crocevia della politica italiana. Il governo Conte-bis, con appoggio esterno del Pd e di Forza Italia, è il fantasma che si aggira nei palazzi romani. Da balbettante burattino dei gialloverdi a attore protagonista. Aveva preso la parola per la prima volta nell'aula alle 12.10 del 5 giugno 2018: «Oggi inauguriamo una fase nuova nel segno della trasparenza e della chiarezza. Assumo questo incarico con umiltà, determinazione, passione e abnegazione...». Dopo pochi minuti, Salvini aveva già agguantato lo smartphone, Di Maio aveva il sorriso stampato. Oggi l'avvocato del popolo si gioca il ruolo da protagonista. Il governo del cambiamento ci ha riportato alla situazione di anni fa: l'esecutivo sfrattato dalle segreterie di partito. Ma, nel frattempo, non ci sono più i partiti. Ci sono i leader, con i loro calcoli strettamente personali, i gruppi parlamentari trascinati di qua e di là, i seguaci sui social chiamati ad applaudire questo o quel numero di prestigio. Per questo è possibile per tutti allearsi con tutti. O con nessuno.

I (veri) responsabili della fine del governo Conte. Andrea Indini il 20 agosto 2019 su Il Giornale. Un anno e rotti. Non è durato tanto l’esperimento gialloverde, nato da una pessima legge elettorale e da un contratto di governo che sin dall’inizio era difficile vedersi realizzato fino alla fine. E così, dopo cinque settimane di duri scontri, il premier Giuseppe Conte ha risposto alla sfiducia presentata dalla Lega dimettendosi. Nel farlo ha addossato tutte le colpe a Matteo Salvini accusandolo di aver “inseguito interessi personali”. Che Salvini abbia sempre tirato dritto, perseguendo gli interessi del proprio elettorato, è fuor di dubbio. In alcuni casi si è anche visto costretto a cedere su temi che ai propri sostenitori proprio non andavano giù. Lo ha fatto, ovviamente, in virtù di quel contratto sottoscritto con l’alleato Luigi Di Maio. A ben guardare il film di questo ultimo anno, segnato da continui alti e bassi, i veri responsabili della fine del governo Conte vanno ricercati altrove. È vero che la sfiducia è stata presentata dal Carroccio. Ma gli uomini di Salvini hanno reagito allo strappo dei grillini sulla Tav. Quando i Cinque Stelle hanno votato contro, in spregio alle stesse direttive di Conte, il ministro dell’Interno ha colto la palla al balzo e ha rotto. Per molti è stato un azzardo che non porterà a elezioni ma a una nuova maggioranza giallorossa. Persino Giancarlo Giorgetti ha preso le distanze da questa fuga in avanti. In realtà tutto era già evaporato ancor prima che la sfiducia venisse presentata. Tanto che Steve Bannon aveva detto in tempi non sospetti che anche i matrimoni finiscono. Le colpe, dunque. A mio avviso vanno cercate tra chi oggi sbraita a più non posso. Di Maio è colpevole di non aver mai tenuto i suoi: sebbene alla fine abbiano sempre votato tutti i decreti del governo (anche i più invisi come le due versioni del dl Sicurezza), i grillini non hanno mai mancato di accalcarsi sui giornali per attaccare l’alleato. Dichiarazione sguaiate non hanno fatto altro che alzare la tensione senza produrre risultati. Non solo. I continui “no” dei pentastellati in Consiglio dei ministri e in parlamento hanno bloccato riforme importanti come l’autonomia e messo a rischio investimenti consistenti che dovrebbero contribuire allo sviluppo del Paese. Più volte il ministro Danilo Toninelli ha pericolosamente ammiccato ai No Tav e ai movimenti contrari a qualsiasi infrastruttura. E, se Conte non si fosse dimesso oggi, Alfonso Bonafede avrebbe portato avanti a testa bassa una riforma manettara della giustizia. La litigiosità nel governo non è stata alimentata soltanto dagli uomini di Di Maio ma anche dai ministri da lui scelti. Una su tutti la titolare della Difesa, Elisabetta Trenta, che ha più volte preso le distanze dalle scelte del Viminale creando all’estero una dicotomia che ha indebolito il Paese. Lo stesso dicasi per Giovanni Tria che, facendo sponda con Bruxelles, ha a più riprese messo i bastoni tra le ruote al taglio delle tasse chiesto dalla Lega. Lo stesso Conte non può chiamarsi fuori. Lui, che si è sempre definito l’avvocato del popolo, è finito per fare l’avvocato dei Cinque Stelle. Non poteva che concludersi così, questo matrimonio tra partner tanto diversi. Ora però il premier uscente spera in Sergio Mattarella affinché non porti il Paese alle urne e unisca il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico in seconde nozze. Un matrimonio riparatore che farebbe solo il male dell’Italia.

"Caro Giuseppe, oggi è un giorno molto importante. Il giorno in cui la Lega dovrà rispondere delle proprie colpe per aver deciso di far crollare tutto, aprendo una crisi di governo in pieno agosto, in spiaggia, solo per rincorrere i sondaggi. Oggi, al Senato, i ministri M5S saranno al tuo fianco. Ci presenteremo in aula a testa alta. Tutti, ognuno di noi, sa di stare dalla parte giusta della storia. Qualunque cosa accada, volevo dirti che è stato un onore lavorare insieme in questo Governo. Vorrei sfruttare l’opportunità di questo post per ringraziarti. Sì, ringraziarti. Quando tutta Italia ha conosciuto Giuseppe Conte, lo ha conosciuto come uno dei membri della squadra di Governo del Movimento 5 Stelle. Era il 2 marzo del 2018, io ero candidato Premier e tu mi avevi dato la disponibilità a ricoprire il ruolo di candidato Ministro della Funzione Pubblica. Sono sicuro lo avresti fatto ai massimi livelli e saresti stato il Ministro più amato d’Italia. Ma, diciamocelo, saresti stato sprecato. Allora avevamo ben compreso le tue capacità e competenze, non ancora invece la tua profonda umanità. Per fortuna, quando è nato questo Governo, a me e Alfonso Bonafede venne l’idea di proporre te come Presidente del Consiglio di garanzia tra le due coalizioni. In 14 mesi hai salvato l’Italia da due procedure di infrazione, hai rappresentato l’Italia ai tavoli europei ottenendo i margini di bilancio per dare ai cittadini Quota 100 e il Reddito di Cittadinanza. Hai saputo farti amare dagli Italiani soprattutto nelle aree più disagiate del Paese. Qualunque cosa accadrà oggi, sappi che per me e per tutti noi vederti in quel ruolo è stato motivo di orgoglio. Sei una delle scelte di cui vado più fiero nella mia vita. Sei una perla rara, un servitore della Nazione che l’Italia non può perdere. Forza amico mio!" Pagina Facebook di Luigi Di Maio 20 agosto 2019.

Il Blog delle Stelle : «Salvini inaffidabile» E elenca tutte le «giravolte». Pubblicato martedì, 20 agosto 2019 da Corriere.it. «Caro Giuseppe, oggi è un giorno molto importante. Il giorno in cui la Lega dovrà rispondere delle proprie colpe per aver deciso di far crollare tutto, aprendo una crisi di governo in pieno agosto, in spiaggia, solo per rincorrere i sondaggi. Oggi, al Senato, i ministri M5S saranno al tuo fianco. Ci presenteremo in aula a testa alta». Nel giorno della «verità» del governo gialloverde, il vicepremier e capo politico del M5S posta su Facebook una lettera aperta indirizzata al presidente del Consiglio, atteso oggi pomeriggio in Senato per le sue comunicazioni. «Sei una perla rara, un servitore della Nazione che l'Italia non può perdere», prosegue Luigi Di Maio. «In 14 mesi hai salvato l'Italia da due procedure di infrazione, hai rappresentato l'Italia ai tavoli europei ottenendo i margini di bilancio per dare ai cittadini Quota 100 e il Reddito di Cittadinanza. Hai saputo farti amare dagli Italiani soprattutto nelle aree più disagiate del Paese». E conclude: «Forza, amico mio!». E, in mattinata, un lungo striscione con scritto «Presidente Giuseppe Conte Italia ti ama» è stato affisso nella piazza davanti a Montecitorio. A fianco, è stata appesa una bandiera del Movimento Cinque Stelle ed esposto un cartellone — «Siamo tutti Conte» — incorniciato da cinque stelle gialle. La posizione dei pentastellati si va di ora in ora facendo più rigida: poco dopo le 14.30 sul blog delle stelle è apparso un post in cui Salvini viene definito inaffidabile: «Il Ministro Matteo Salvini, fra un comizio e un mojito, è alla ricerca di un `centro di gravità permanente´ che, suggeriva Battiato, non gli faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente. `Suo malgrado´ qui c’è una forza come il MoVimento 5 Stelle che ha invece deciso di agire in maniera decisa e credibile. Non c’è tempo da perdere con chi si dimostra inaffidabile, dobbiamo pensare agli interessi degli italiani» ecco le parole usate. Il post elenca poi, con tanto di date, tutte le «giravolte» di Salvini , a cominciare das «andiamo in parlamento a sfiduciare Conte» che diventa l’ormai celebre «il mio telefono è sempre acceso» .

M5s sul Blog pubblica l’elenco delle ultime “capriole” di Salvini: “Non c’è tempo da perdere con chi si dimostra inaffidabile”. Il post pubblicato a pochi minuti dal discorso di Conte in Senato è il segnale che per i 5 stelle l'esperienza di governo con i gialloverde è chiusa. Sotto accusa i cambi di posizione continui su alcuni temi chiave, dal governo all'alleanza con Berlusconi. Il Fatto Quotidiano il 20 agosto 2019. A pochi minuti dal discorso di Giuseppe Conte in Aula, i 5 stelle hanno deciso di pubblicare un post sul Blog delle Stelle con le dichiarazioni e i cambi di posizione di Matteo Salvini. Il messaggio di chiusura definitivo agli ex soci del Carroccio. “Il ministro Salvini, fra un comizio e un mojito, è alla ricerca di un “centro di gravità permanente” che, suggeriva Battiato, non gli faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente”, è l’esordio. “Suo malgrado qui c’è una forza come il MoVimento 5 Stelle che ha invece deciso di agire in maniera decisa e credibile. Non c’è tempo da perdere con chi si dimostra inaffidabile, dobbiamo pensare agli interessi degli italiani”. I 5 stelle rivendicano di “aver lavorato per obiettivi seri e concreti, sottoscritti in un Contratto di Governo su cui ci siamo dimostrati sempre leali. Altri si sono persi in dichiarazioni e slogan che sono tutto e il contrario di tutto”. E a seguire “lo strano Vangelo secondo Matteo, con le dichiarazioni del Ministro Salvini degli ultimi 10 giorni”. E chiudono: “A pensarci bene, il vero Vangelo ci aveva avvertito: ‘In verità vi dico, uno di voi mi tradirà'”. Il primo elenco di frasi riguarda il “governo del presidente Conte, dalle minacce al telefono acceso“: “Andiamo subito in Parlamento per prendere atto che non c’è più una maggioranza e restituiamo velocemente la parola agli elettori (8 agosto)”; “Il 20 agosto sfiduceremo il premier Conte” (14 agosto); “Se qualcuno vuole dialogare io sono qua, sono la persona più paziente del mondo e il mio telefono è sempre acceso”; “Di no l’Italia muore, un governo muore, abbiamo bisogno di sì, se qualcuno dice sì ragioniamo” (15 agosto); “Se non c’è un governo la via maestra sono le elezioni. Altrimenti ci si risiede al tavolo e si lavora. Martedì ci sono all’ordine del giorno le comunicazioni del presidente del Consiglio: le ascolterò e vediamo cosa dirà (18 agosto)”. Poi i cambi di posizione sulle dimissioni da ministro dell’Interno: “Siamo disposti a mettere in gioco le nostre poltrone, noi siamo al servizio del popolo italiano (8 agosto); “Pronto a ritirare delegazione? Pronto a tutto. Non siamo attaccati alle poltrone, lo vedrete presto (12 agosto)”; “Non do la soddisfazione ai compagni di lasciare il ministero dell’Interno (18 agosto)”. Quindi sul “taglio parlamentari“: “Approvare prima la riforma per il taglio dei parlamentari come chiede Di Maio? Così poi non si vota. Se passa questa legge non si va più a votare (8 agosto)”; “Prendo e rilancio: tagliamo i parlamentari la prossima settimana e poi andiamo subito al voto (13 agosto)”. Infine il rapporto con l’ex alleato Silvio Berlusconi: “Non mi interessa tornare al vecchio, se devo mettermi in gioco con un’idea di futuro lo faccio da solo e a testa alta (8 agosto)”; “Nelle prossime ore vedrò Berlusconi e la Meloni alla luce del sole. Parleremo sia di elezioni regionali che di quelle Politiche. Gli proporrò un patto, l’Italia del sì contro l’Italia del no”; “Io non escludo nessuno, questo non è il momento di escludere ma di includere il più possibile (12 agosto)”.

Morra: "Salvini col rosario ha mandato messaggio per 'ndrangheta". Il pentastellato Nicola Morra attacca Matteo Salvini: "Ostentare un rosario, votarsi alla Madonna dove c'è il santuario in cui la 'ndrangheta ha deciso di votarsi, significa mandare messaggi in codice ai mafiosi". Francesco Curridori, Martedì 20/08/2019, su Il Giornale. "Salvini ha preso per i fondelli il Parlamento e un ministro della Repubblica non può prendere per i fondelli il Parlamento e i cittadini". Così il senatore pentastellato Nicola Morra ha attaccato il ministro dell'Interno nel corso del suo intervento a Palazzo Madama.  Secondo Morra, uno dei grillini più critici per l'alleanza con la Lega, ha ricordato a Matteo Salvini che non si possono chiedere "pieni poteri" in quanto la sovranità, in base alla Costituzione "appartiene al popolo". Ma l'attacco più veemente, il presidente della commissione Antimafia in Senato, lo ha riservato per quanto riguarda l'uso e l'abuso del rosario, dato che "la laicità dello stato è un valore indiscutibile" per qualsiasi uomo politico. E, poi, ha attaccato Salvini "che l'8 agosto ha fatto sapere urbi et orbi, dando la benedizione del Papeete che bisognava interrompere l'esperienza di governo" e, poco dopo, è partito per la Calabria dove ha ostentato un rosario. "Ostentare un rosario, votarsi alla Madonna dove c'è il santuario in cui la 'ndrangheta ha deciso di votarsi, significa mandare messaggi in codice che uomini di stato debbono combattere e non favorire. Ma sicuramente è stato per ignoranza e non per intenzione", ha chiosato Morra. La replica di Salvini non si è fatta attendere: "Il senatore Morra, ha detto che il rosario in Calabria è un omaggio alla 'ndrangheta. Io rifacendomi a Maria e al buon Dio, secondo Morra, ho mandato un messaggio alla ndrangheta. Ma vi rendete conto? Ora in Calabria non si può pregare la Madonna. Alla faccia della libertà".

Morra, che fai, mi convochi? Mercoledì, 21 agosto 2019 – San Pio X Papa – da Casa Nino Spirlì, in Calabria, su Il Giornale. Signore, io non la conosco. Non sapevo, fino a ieri pomeriggio, che lei esistesse. Men che meno che fosse calabrese. Che fosse senatore della Repubblica. Che fosse presidente di una importante commissione che si occupa di malavita. Pensi, non sapevo neanche che fosse grillino.

Per me, sa, signore, i grillini sono piccoli insetti che, le confesso, mi fanno orrore. Quasi quanto le blatte. Al solo pensiero di potermene trovare uno vicino, o, peggio, addosso, potrei svenire. Che ci vuole fare, sono debolezze da vecchia checca. Ma suppongo che il suo grillinismo non sia legato alla specie d’appartenenza, visto che è rappresentante di Istituzioni e, soprattutto, di Popolo. E, per giunta, Popolo Calabrese. Oh, signor Morra, che brutte parole ha usato, ieri pomeriggio, nella sua veste ufficiale: ha pensato che, per attaccare un suo emerito collega senatore, col quale condivide destini e privilegi, oltre che oneri e responsabilità, bastasse asfaltare un intero popolo! Anzi, oltre due miliardi di Esseri Umani Cristiani Cattolici. Ha fatto scivolare, fra un attacco politico e l’altro (di cui non voglio occuparmi), una baionettata diritta verso il cuore della regione che le ha regalato così tanti privilegi, definendoci tutti NDRANGHETISTI solo perché preghiamo la Santa Vergine Maria, recitando il Santo Rosario. Ha dichiarato con tono perentorio che, in Calabria, chi prega recitando il Santo Rosario e si reca in pellegrinaggio al Santuario della Madonna, è mafioso. E che esporre  la Corona del Rosario è un segno certo di appartenenza. Mi convochi, Signore, perché io, Cristiano Cattolico Praticante e Devoto, vestito del Santo Scapolare della Vergine del Monte Carmelo e che recito strenuamente  e quotidianamente il Santo Rosario, che tanto le fa orrore, possa venire ad autodenunciarmi in quanto facente parte di questa nuova Mafia di Dio da lei immaginata. Eh, sì! Perché, se recitare il Santo Rosario e manifestarlo, tenendolo addosso e mostrandolo in qualsiasi momento della mia giornata, è segno di appartenenza mafiosa, allora mi devo dichiarare pubblicamente MAFIOSO DI DIO!!! Oppure, signor Morra, è momento che lei chieda scusa!

Salvini, il braccio destro di Papa Francesco tifa per Conte: "Basta accostare simboli politici e religiosi". Libero Quotidiano il 20 Agosto 2019. Padre Antonio Spadaro, direttore della rivista Civiltà Cattolica - a ridosso del discorso in Senato di Giuseppe Conte - si occupa anche di politica. Il braccio destro di Papa Francesco, molto attivo sui social, ha ben pensato di condividere le parole del premier: "Evitare di accostare ai simboli politici i simboli religiosi. Sono episodi di incoscienza religiosa che rischiano di offendere il sentimento dei credenti e di offuscare il principio di laicità, tratto caratteristico dello stato moderno". Questa l'invettiva di Conte nei confronti di Matteo Salvini, reo non solo di aver aperto la crisi di governo, ma anche di utilizzare simboli religiosi per fare politica. Da che pulpito arriva però la predica, dato che a fare politica sembra (come in questa occasione) che ci pensino direttamente i vertici del Vaticano. 

Senato, De Falco all’attacco di Salvini: “Buffone, vai a casa”. Nel corso della discussione al Senato, l’esponente penta stellato ha pesantemente attacco il ministro dell’interno Matteo Salvini. Gabriele Laganà, Martedì 20/08/2019 su Il Giornale. Che il senatore del M5s Gregorio De Falco non “amasse” il ministro dell’Interno Matteo Salvini era cosa nota da tempo. Oggi, nel corso della discussione in aula al Senato con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ha annunciato la fine del Governo, l’esponente politico pentastellato ha dato libero sfogo a tutto il suo astio contro il leader della Lega. Durante l’intervento di Salvini, De Falco si è alzato in piedi e, dalla parte opposta dell'aula, ha pesantemente contestato il suo ex alleato gridando"Tu... tu... vai a casa...”. Il tutto accompagnato da una mimica eloquente che lascia poco spazio ai dubbi. Il senatore del M5s, anche poco prima di sedersi al suo posto, con un sorrisino ironico forse dettato dal nervosismo ha continuato ad inveire contro il ministro. Le strade tra i due si separano qui, in attesa di nuovi sviluppi sulla crisi di Governo. Difficilmente in futuro li rivedremo alleati.

Giorgia Meloni, la verità sui grillini: "Prima del discorso di Conte, erano già attaccati alle poltrone". Libero Quotidiano il 20 Agosto 2019. "I ministri cinquestelle a dieci minuti dall'inizio dell'intervento di Giuseppe Conte occupano tutti i banchi del governo. Ci tengono a dare un'altra plastica rappresentazione del loro attaccamento alla poltrona". Giorgia Meloni commenta con queste dure parole la reazione del Movimento 5 Stelle a ridosso della discussione in Senato sulla mozione di sfiducia nei confronti del premier (ancora per poco) del governo gialloverde. I grillini - secondo quanto riferito dalla leader di Fratelli d'Italia - appena aperte le porte dell'Aula, erano già seduti sulle poltrone. D'altronde nella giornata di martedì 20 agosto non si decreterà solo la sorte del governo Di Maio-Salvini ma anche quella dello stesso Movimento. 

Luigi Di Maio, la fine politica di un capo. "Riunione deputati M5s alla Camera, perché lui non ci sarà". Libero Quotidiano il 20 Agosto 2019. "Non ci posso credere, non ci posso credere". Luigi Di Maio oggi è l'unico dei leader politici a non aver preso la parola in Senato né fatto un comunicato, stampa o social che sia. Semplicemente muto. Incredulo, a Palazzo Madama, quando ha sentito Matteo Salvini proporre: "Se volete proseguire il percorso di riforme iniziato, noi ci siamo". Un "governo di scopo" che non si farà, perché ormai tra M5s e Lega è finita. Ma forse è finita anche per il vicepremier grillino. Un segnale su tutti: martedì sera i deputati 5 Stelle si riuniranno a Montecitorio per decidere che linea tenere sulla crisi, ma alla Camera Di Maio non andrà e non per qualche impegno improrogabile. Fonti grilline hanno spiegato al TgLa7 che la scelta è stata presa per lasciare "maggior libertà" ai deputati impegnati nel confronto. Che è un po' quello che avviene nel calcio, quando i giocatori chiedono all'allenatore di poter avere un confronto senza di lui nello spogliatoio. Siamo quasi all'autogestione, che è sempre l'anticamera dell'esonero. 

Il Pd contro Salvini: "Bravo Capitan Findus, bacioni!". Ma Elisabetta Casellati li zittisce immediatamente. Libero Quotidiano il 20 Agosto 2019. "Bravo Capitan Findus, bacioni!". È questa la scritta che spunta sul cartellone mostrato da una senatrice Pd all'inizio dell'intervento in Senato del leghista Matteo Salvini. A intervenire per placare gli animi e riportare serietà ci ha pensato la presidente Elisabetta Alberti Casellati, che ha chiesto immediatamente di rimuoverlo, mentre Salvini ha commentato "li lasci pure protestare". La Casellati ha bacchettato anche i leghisti e i grillini a pochi minuti dall'inizio del discorso di Giuseppe Conte: "Vorrei ascoltare il presidente del Consiglio senza tifoserie, grazie". In Aula comanda la presidente del Senato e si vede. Dopo le contestazioni delle opposizioni su quanto tempo ha utilizzato Salvini per parlare, la Casellati fa sentire (ancora una volta) la sua voce: "Ho sbagliato io prima a dire che Salvini poteva parlare dieci minuti, il ministro può invece intervenire per 20 minuti dei 40 complessivi concessi alla Lega in conferenza dei capigruppo". Poi ribadisce la sua imparzialità: "Do tempo a tutti, non faccio differenze".  Poi, ancor più severa: "Ma lo avete capito o no che oggi c'è la crisi di governo?". Di fronte alla gazzarra da bar dell'opposizione, non avrebbe potuto trovare frase più adatta. 

Giuseppe Conte, il punto più basso: "Non si fa", cosa arriva a rinfacciare a Salvini. Libero Quotidiano il 20 Agosto 2019. Più che un discorso sulla crisi, quello di Giuseppe Conte è un processo a Matteo Salvini, l'ormai ex alleato che ha presentato una mozione di sfiducia contro di lui. I retroscena lo avevano anticipato, ma forse le parole di Conte sono ancora più dure del previsto. Il premier, che per un anno pubblicamente ha taciuto su tutto, ha rinfacciato in pochi minuti tutte le accuse rivolte a Salvini dal Pd (e dai 5 Stellenelle ultime settimane), e anche questo è significativo. "La vicenda russa oggi merita di essere chiarita per i riflessi sul piano internazionale", una bomba a freddo sulla Lega, che per molto tempo lo stesso Conte ha evitato accuratamente di sganciare, probabilmente per salvarsi la poltrona. Il punto più basso, però, lo tocca quando critica Salvini sul piano politico personale: "Chiedi pieni poteri e ti ho sentito invocare nelle piazze un tuo sostegno, questa tua concezione mi preoccupa". E ancora, la frase che ha provocato la risata sarcastica del Capitano, con tanto di braccia allargate: "Chi ha compiti di responsabilità istituzionale dovrebbe evitare di accostare ai comizi politici i simboli religiosi". L'esposizione del crocifisso e del rosario non è un atto di coscienza religiosa, rincara, ma di "incoscienza religiosa".

Matteo Salvini prende la parola dopo Conte e lo umilia: "Bastava un Saviano o un Travaglio qualsiasi..." Libero Quotidiano il 20 Agosto 2019. È visibilmente sorpreso, Matteo Salvini. Non si aspettava nemmeno lui attacchi tanto violenti e personali da Giuseppe Conte, il premier che in Senato pochi secondi prima ha concluso il suo discorso, annunciando le imminenti dimissioni. Critiche su soldi russi alla Lega, sul rosario nei comizi e sui "pieni poteri" chiesti per governare. "Mi spiace che lei mi abbia dovuto mal sopportare per un anno - esordisce Salvini spostatosi dai banchi del governo agli scranni dei senatori -. Pericoloso, autoritario? Bastava il Saviano di turno a raccogliere tutta questa sequela di insulti, bastava il Travaglio, un Renzi, non il presidente del Consiglio". Di fronte a queste parole, i leghisti sono esplosi in una ovazione e anche a Luigi Di Maio, rimasto seduto a fianco di Conte, scappa un sorriso (ironico?).

IN VIDEO VERITAS. Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 20 Agosto 2019. In video veritas. Secondo i suoi alfieri del passato, la fisiognomica era una scienza esatta. E in effetti, pur senza voler minimamente fare del lombrosismo, la drammatica giornata politica di ieri si comprende meglio proprio attraverso le espressioni dei volti e il linguaggio non verbale dei corpi dei presenti. Bisognava guardarli in faccia i protagonisti di questa crisi di governo durante le comunicazioni del premier dimissionario e gli interventi successivi per leggere, insieme alle emozioni, anche i riposizionamenti di immagine (ovvero quella postpolitica che ai nostri tempi conta parecchio). Uno psicodramma politico nel quale le facce hanno restituito, nel tripudio della «crisi più pazza del mondo», frammenti e barlumi di verità. Così, dalle reiterate dichiarazioni di amicizia e di quasi affinità elettive che hanno accompagnato per oltre un anno il rapporto tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio siamo passati tutto d' un colpo agli insulti personali e agli stracci che volano. E viene proprio da dare a ragione a Giuseppe Conte quando in uno dei passaggi del suo durissimo discorso contro la Lega ha evocato il «gran bisogno di politica con la P maiuscola», visto che lo spettacolo andato in scena ieri al Senato aveva, invece, moltissimo di prepolitico. Come, peraltro, anche logico, trattandosi di leader populisti che dell'emozionalizzazione esasperata della comunicazione hanno fatto il pilastro del loro successo. Sfoderando il consueto timbro e tono di voce pacato, per tutto il suo intervento Conte ha voluto riconfermarsi come un leader assertivo, quello che gestisce i problemi sterilizzando il conflitto e ricercando l' armonia tra i collaboratori. A dire il vero, la sua - quando è riuscito a esercitarla effettivamente - è stata più una leadership di tipo situazionale (ossia di adattamento alle circostanze), ma l' intera mimica del suo discorso ha puntato a ribadire che lui è un uomo delle istituzioni (e, potenzialmente, una «riserva della Repubblica»). Il suo antagonista in tutto per tutto era, naturalmente, il capo leghista, che ha ripetutamente baciato durante la seduta un rosario bianco proseguendo nella sua piattaforma politico-visiva ispirata a un confessionalismo (e convenzionalismo) cristiano da Paesi del Gruppo di Visegrad. Conte lo ha rimproverato di «incoscienza religiosa» e, per contro, è parso volersi riappropriare dello "stile laico" della consuetudine democristiana di governo. Ascoltando le parole del premier, Salvini ha ostentato un repertorio completo di espressioni facciali, dal sornione al sardonico, dall' indifferenza e la sufficienza al fastidio, come da prassi del politico populista "maschio alfa" (e da tradizione del virilismo leghista). Per poi, a tratti, innervosirsi e abbandonarsi a una serie di gesti stizziti, così come nella replica ha ampiamente gesticolato ed esibito una prossemica finalizzata a suscitare gli applausi del suo gruppo parlamentare. Al contrario, una sorta di sfinge impassibile (e imperscrutabile) Di Maio, che ha abbandonato la compostezza e rigidità abituali solo per sottolineare con qualche movimento del volto l'approvazione nei confronti di Conte. Insomma, se per la Terza Repubblica c' è ancora da aspettare, il reality show è già sbarcato alle Camere da tempo, e ieri ne è appunto "andata in onda" una puntata fondamentale.

IN SENATO GIUSEPPE CONTE PRENDE A SGANASSONI SALVINI E ANNUNCIA LE DIMISSIONI.

(LaPresse il 20 Agosto 2019) - "La crisi in atto compromette l'azione di questo Governo che qui si arresta". Così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nelle sue dichiarazioni in aula.

(Ansa il 20 Agosto 2019) "Ho chiesto di intervenire per riferire sulla crisi di governo innescata dalle dichiarazioni del ministro dell'interno e leader di una delle due forza di maggioranza". Lo afferma il premier Giuseppe Conte nel suo intervento in Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "L'8 agosto Salvini ha diramato una nota con cui si diceva che la Lega poneva fine alla sua esperienza e voleva le urne. Ha quindi chiesto la calendarizzazione di comunicazioni. Oggetto grave che comporta conseguenze gravi". Lo afferma il premier, Giuseppe Conte, intervenendo nell'Aula del Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - Questo passaggio "merita di essere chiarito in un pubblico dibattito che consenta trasparenza e assunzione di responsabilità da parte di tutti i protagonisti della crisi. Io ho garantito che questa sarebbe stata un'esperienza di governo all'insegna della trasparenza e del cambiamento e non posso permettere che questo passaggio possa consumarsi a mezzo di conciliaboli riservati, comunicazioni rilasciate sui social o per strada". Lo afferma il premier Giuseppe Conte nel corso delle comunicazioni al Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "I tempi di questa decisione espongono a gravi rischi il nostro Paese". Lo ha detto i premier Giuseppe Conte nelle sue comunicazioni al Senato parlando della decisione di Salvini di avviare la crisi di Governo.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Con i tempi di questa crisi si mette il Paese a rischio di ritrovarsi in esercizio provvisorio. Questo è altamente probabile". Lo afferma il premier, Giuseppe Conte, intervenendo nell'Aula del Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "La decisione di innescare la crisi è irresponsabile. Per questa via il ministro dell'interno ha mostrato di seguire interessi personali e di partito". Lo ha detto i premier Giuseppe Conte nelle sue comunicazioni al Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Questa crisi interviene in un momento delicato dell'interlocuzione con le istituzioni Ue. In questi giorni si stanno per concludere le trattativa per i commissari e io mi sono adoperato per garantire all'Italia un ruolo centrale. E' evidente che l'Italia corre il rischio di partecipare a questa trattativa in condizioni di oggettiva debolezza". Lo afferma il premier Giuseppe Conte nel corso delle comunicazioni al Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Il nuovo governo avrebbe difficoltà nel contrastare l'aumento dell'iva e sarebbe esposto agli sbalzi dello spread". Lo afferma il premier Giuseppe Conte nel suo intervento in Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Quando si assumono così rilevanti incarichi istituzionali e dando il via del governo del cambiamento si assumo precisi doveri verso i cittadini e verso lo Stato". Lo afferma il premier, Giuseppe Conte, intervenendo nell'Aula del Senato. "Far votare i cittadini è l'essenza della democrazia, sollecitarli a votare ogni anno è irresponsabile".

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Ogni partito è chiamato ad operare una mediazione tra gli interessi di parte e quelli generali, quando ci si concentra solo su interessi di parte non si tradisce solo la nobiltà della politica ma si compromette l'interesse nazionale". Lo afferma il premier Conte.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "I comportamenti adottati in questi ultimi giorni dal ministro dell'interno rivelano scarsa responsabilità istituzionale e grave carenza di cultura costituzionale. Mi assumo la responsabilità di quello che dico". Lo ha detto il premier Giuseppe Conte al Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Questa decisione è stata annunciata subito dopo aver incassato la fiducia sul dl sicurezza bis, con una coincidenza elettorale che suggerisce opportunismo politico". Lo afferma il premier, Giuseppe Conte, intervenendo nell'Aula del Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Aprire la crisi in pieno agosto per un'esperienza di governo giudicata limitativa da chi ha rivendicato pieni poteri e la scelta di rinviare fino ad oggi la decisione presa da tempo è un gesto di imprudenza istituzionale irriguardoso per il Parlamento e portando il paese in un vorticosa spirale di incertezza politica e finanziaria". Lo afferma il premier Giuseppe Conte nel suo intervento in Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Amici della Lega, avete tentato di comunicare l'idea del governo dei No e, così, avete macchiato 14 mesi di intensa attività di governo pur di alimentare questa grancassa mediatica. Così, avete offeso non solo il mio impegno personale, e passi, ma anche la costante dedizione dei ministri". Lo afferma il premier Giuseppe Conte nel corso delle comunicazioni al Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "La verità è che all'indomani del voto europeo, Salvini ha posto in essere un 'operazione di distacco e pretesto per lasciare il governo: questa decisione tuttavia ha compromesso lavoro legge di bilancio". Lo afferma il premier, Giuseppe Conte, intervenendo nell'Aula del Senato. Mentre Conte pronunciava queste parole, Salvini, al suo fianco, diceva di no con la testa.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Il Paese ha urgente bisogno che siano completate le misure per favorire la crescita economica e gli investimenti. Abbiamo predisposto vari strumenti che con questa incertezza rischia di non essere valorizzati. Caro ministro dell'Interno, promuovendo questa crisi di governo ti sei assunto una grande responsabilità di fronte al Paese. Ti ho sentito chiedere "pieni poteri" e invocare le piazze a tuo sostegno, questa tua concezione mi preoccupa". Lo afferma il premier Giuseppe Conte nel corso delle comunicazioni al Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Non abbiamo bisogno di persone e uomini con pieni poteri, ma che abbiano cultura istituzionale e senso di responsabilità". Lo ha detto il premier Giuseppe Conte al Senato. "Le crisi di governo, nel nostro ordinamento, non si affrontano e regolano nelle piazze - ha spiegato - ma nel Parlamento. In secondo luogo, il principio dei pesi e contrappesi è fondamentale perché sia garantito l'equilibrio del nostro sistema e siano precluse vie autoritarie".

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "In coincidenza dei più importanti Consigli europei non sei riuscito a contenere la foga comunicativa creando un controcanto politico che ha generato confusione". Lo afferma il premier, Giuseppe Conte, intervenendo nell'Aula del Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Se avessi accettato di venire qui al Senato per riferire sulla vicenda russa che oggettivamente merita di essere chiarita anche per i riflessi sul piano internazionale...". Lo afferma il premier Giuseppe Conte nel suo intervento in Senato. E il vicepremier Salvini commenta con un gesto eloquente, tirando idealmente una riga nel vuoto con due dita.

(Ansa il 20 Agosto 2019)- "Se tu avessi mostrato cultura delle regole l'intera azione di governo ne avrebbe tratto giovamento. Ci sono stati molti episodi che riservatamente e pubblicamente ti ho fatto notare, come ad esempio ti avevo detto di indicarmi i delegati della Lega per i lavori per approntare la finanziaria ma ho atteso due mesi". Lo afferma il premier Giuseppe Conte nel suo intervento in Senato.

(Ansa il 20 Agosto 2019) - "Chi ha compiti di responsabilità dovrebbe evitare di accostare agli slogan politici i simboli religiosi. Sono episodi di incoscienza religiosa che rischiano di offendere il sentimento dei credenti e di oscurare il principio di laicità alla base dello Stato moderno". Lo afferma il premier Giuseppe Conte nel corso delle comunicazioni al Senato.

"BASTAVA SAVIANO PER RACCOGLIERE TUTTI QUESTI INSULTI, O UN TRAVAGLIO, O UN RENZI". 

(LaPresse il 20 Agosto 2019) - "E' una novità di oggi, mi dispiace che il presidente del Consiglio mi abbia dovuto mal sopportare per un anno. Bastava Saviano per raccogliere tutti questi insulti, un Travaglio, un Renzi, non il presidente del Consiglio". Così Matteo Salvini, vicepremier e ministro dell'Interno, parlando in aula al Senato dopo le comunicazioni di Giuseppe Conte

(LaPresse il 20 Agosto 2019) - "Se volete proseguire percorso di riforme iniziato, noi ci siamo". Così Matteo Salvini, vicepremier e ministro dell'Interno, parlando in aula al Senato dopo le comunicazioni di Giuseppe Conte. "Al di là attacchi personali, che mi hanno dispiaciuto, ma sono disponibile a soprassedere.C'è già un accordo preso tra Pd e M5s? Se non è così se invece c'è voglia di costruire e termine un discorso virtuoso, facciamo taglio parlamentari bloccare le tasse andiamo subito al voto" aggiunge.

(LaPresse il 20 Agosto 2019) - "Grazie e finalmente, rifarei tutto quello che ho fatto, con la grande forza di essere un uomo libero. Quindi vuole dire che non ho paura del giudizio degli Italia. Chi ha paura degli italiani non è un uomo e una donna libera". Così Matteo salvini, vicepremier e ministro dell'Interno, parlando in aula al Senato dopo le comunicazioni di Giuseppe Conte.

(LaPresse il 20 Agosto 2019) - "Chi ha paura del giudizio del popolo italiano non è una donna o un uomo libero. E' il sale della democrazia". Lo dice Matteo Salvini nel suo intervento in Senato.

(LaPresse il 20 Agosto 2019) - Dopo un attimo di incertezza, Matteo Salvini -su indicazione della presidente del Senato Elisabetta Casellati- si è spostato dal seggio riservato al vicepremier, accanto a Giuseppe Conte, allo scranno del senatore della Lega, e ha iniziato il suo intervento.

(LaPresse il 20 Agosto 2019) - "Non mi è mai capitato di parlare con Merkel sui propri interessi di partito per chiedere consigli su come vincere le elezioni...Non ho mai preso un caffè lamentandomi che Salvini ha chiuso i porti ". Lo afferma il vicepremier, Matteo Salvini, intervenendo nell'Aula del Senato.

(ANSA il 20 Agosto 2019) - "Poi racconto l'Italia che abbiamo in testa e nel cuore, che non cresce dello zero vergola, che ha una giustizia quella vera, dove ci sono 60 milioni di presunti innocenti fino a prova contraria". Lo ha detto Matteo Salvini al Senato.

(LaPresse il 20 Agosto 2019) - "Il coraggio se uno non ce l'ha difficilmente si può dare. Non cadrò nell'insulto quotidiano e sistematico, anche perché se questo governo si è interrotto è perché da mesi c'erano dei signor no che bloccavano tutto quanto". Così Matteo Salvini, vicepremier e ministro dell'Interno, parlando in aula al Senato dopo le comunicazioni di Giuseppe Conte.

(ANSA il 20 Agosto 2019) -  "Se qualcuno da settimane, se non da mesi, pensava a un cambio di alleanza, molliamo quei rompipalle della Lega e ingoiamo il Pd, non aveva che da dirlo. Noi non abbiamo paura". L'ha detto il vicepremier Matteo Salvini in Aula al Senato.

(ANSA il 20 Agosto 2019) - "Si vota anche a settembre, non veniteci a parlare di aumento Iva, di spread, di esercizio provvisorio, di recessione... ". Lo afferma il vicepremier, Matteo Salvini, intervenendo nell'Aula del Senato.(ANSA).

(ANSA il 20 Agosto 2019) -  "La libertà non consiste nell'avere il padrone giusto ma nel non avere nessun padrone". Lo ha detto Matteo Salvini citando Cicerone. "Non voglio una Italia schiava di nessuno, non voglio catene, non la catena lunga. Siamo il Paese più bello e potenzialmente più ricco del mondo e sono stufo che ogni decisione debba dipendere dalla firma di qualche funzionario eruopeo, siamo o non siamo liberi?". Lo ha detto Matteo Salvini al Senato.

(ANSA il 20 Agosto 2019) -  "A lei che mi ha detto che ho incontrato le parti sociali, dico che non li ascoltava nessuno. E se l'avesse fatto qualcuno prima di me, avremmo fatto in fretta, apriamo all'Italia, senza paura e a testa alta". L'ha detto il vicepremier Matteo Salvini replicando, in Aula al Senato, al premier Conte. (ANSA).

Roberto Alessi per “Novella 2000” il 20 Agosto 2019. L’uomo più appetibile con cui stare insieme oggi in Italia? Matteo Salvini. Con tutto il potere che ha (la Lega oggi come oggi potrebbe per gli appassionati di sondaggi superare il 40 per cento dei consensi), la grinta, il carisma e la fama è sicuramente il protagonista assoluto di questo 2019. Essere la sua fidanzata è un privilegio. L’uomo più difficile con cui stare insieme? Matteo Salvini. Con tutto l’odio che si è tirato addosso dai nemici, con tutta l’invidia di chi avrebbe voluto i suoi consensi, con le sue posizioni senza se e senza ma, è sicuramente la persona più detestata in Italia. Essere indicata come la sua fidanzata è quasi una grana, sicuramente una perdita di libertà e non è un sacrificio da niente se sei una ragazza come Francesca Verdini, vent’anni meno di Matteo, colta, legatissima alla sua famiglia, figlia di Denis Verdini, imprenditore e politico, sorella di Tommaso, anche lui imprenditore (lei lo aiuta nei ristoranti PaStation, tra Londra, Firenze, Roma e presto anche a Milano), una madre e una nonna che adora e un nonno che non c’è più e la cui assenza sente in ogni momento. Lei e Matteo Salvini hanno iniziato a frequentarsi dalla fine dell’anno scorso, lui impazzisce per la pasta e al PaStation la pasta è ottima, ma è bastato un assaggio del primo incontro per farlo sbarellare per Francesca. Oggi, la loro storia viene vissuta sia da Salvini sia da Francesca con grande attenzione e delicatezza. Salvini, chiamato da Roberto D’Agostino, irriverente come lui solo, “il truce”, protegge il loro legame, non ne parla. E anche Francesca evita sovraesposizioni. Per delicatezza, per evitare domande, per timidezza (pare che lui sia molto più timido di lei sulle faccende di cuore) e anche perché, a 26 anni, ci si sente sempre insicuri su quello che è il futuro accanto a un uomo così determinante e determinato in politica, con due figli, uno adolescente, una ancora bambina. Avuti da due donne diverse. Non è facile per una ragazza confrontarsi con realtà e passati più presenti. Franci ci prova. Tensioni? Forse. Incertezze? Di questi tempi che cosa c’è di certo? Non manca chi gufa sulla loro storia. Lui non fa una piega, lei nemmeno. “Vivimi senza paura”, canta Laura Pausini. Sembrerebbe il loro inno. Le incertezze le lasciano agli altri, in politica, come in amore.

Le accuse di Morra, l’ironia di La Russa, i dubbi di Bonino. Il Dubbio il 21 Agosto 2019. Finito il fuoco di fila dei big, gli interventi nell’ aula sempre più vuot. Da la Russa alla Bonino fino alle accuse di Nicola Morra a Salvini.

Il più duro, e ironico, è Ignazio La Russa Quando prende la parola l’Aula del Senato è quasi vuota, ma le sue accuse si fanno sentire eccome: «O hai mentito prima o menti ora- dice rivolto al premier Conte – Raramente ho sentito tante accuse nei confronti di un proprio ministro, te ne potevi accorgere prima», ha infatti tuonato l’onorevole di Fdi. E ancora: «La parola torni al più presto agli italiani – ha continuato La Russa -, vi chiedo di dire pane al pane, vino al vino. Lo capisce anche un bambino che si è creato in questo Parlamento il partito di chi ha il terrore del voto. Non c’è nessuna argomentazione che possa nascondere ciò che oggi unisce il M5s, il Pd e l’estrema sinistra: il terrore del responso elettorale».

Stessa richiesta, ma decisamente meno accorata, arriva dalla forzista Anna Maria Bernini: «Il modo più rapido ed efficace per risolvere i problemi manifestati dal presidente del Consiglio nel suo intervento è andare il più velocemente possibile al voto». Secondo Bernini, «il presidente del Consiglio vuole rimanere con la scusa dell’interesse del Paese, che invece è andare al voto. Non ci possiamo permettere l’esercizio provvisorio e l’aumento dell’Iva che voi avete inserito in legge di Bilancio. Siamo convinti che tutto questo vada evitato» con il ritorno alle urne.

Per Emma Bonino, invece, «le dissociazioni postume da un ministro mi sembrano un pò troppo comode». Lo ha detto Emma Bonino, intervenendo nell’Aula del Senato. L’esponete di + Europa ha poi aggiunto: «la deferenza a Mattarella» sembra recitare: abbiamo combinato in questi 15 mesi un gran pasticcio «, » presidente ci aiuti lei «ad uscire dalla situazione che si è creata.» Un nuovo esecutivo che si basasse sulla retorica anti parlamentare credo non sia accettabile, nè è accettabile un governo che si proponesse di attuare la parte gialla «di questo esecutivo. «Quello che è certo è che il Governo della demagogia è arrivato al capolinea» .

Un intervento tutto mirato sulle inadempienze di Matteo Salvini come ministro dell’Interno nei suoi rapporti con la commissione Antimafia, quello del grillino Nicola Morra, che ha lamentato come il vice premier si fosse impegnato a intervenire in commissione salvo poi venir meno: «È stata una presa per i fondelli». L’esponente M5S ha ricordato che, per Costituzione, «la sovranità appartiene al popolo che la esercita entro i limiti della Costituzione» e, ha aggiunto rivolto alla Lega, «dovreste sapere che la Carta ha avuto il consenso di tutti» mentre oggi l’atteggiamento attuale è quello di chi non riconosce «i valori di libertà e democrazia» .

L’ex presidente del Senato Piero Grasso, particolarmente attivo nei giorni caldi della crisi, ha “denunciato” la volontà di Matteo Salvini che «incredibilmente si è presentato non dimissionario, perché il potere è più forte della dignità». «Perchè – ha continuato duro Grasso – si è resto conto che i pieni poteri li ha al Papeete e non in Parlamento e così l’uomo forte si è asserragliato nel fortino. Patetico». «C’è bisogno di riscrivere l’agenda del Paese», ha sottolineato, aggiungendo che l’Italia «non ha bisogno di un accordicchio» e se «il Parlamento ribalta agenda attuale, avremmo il dovere storico di provarci. A quel governo darei personale e convinto voto di fiducia», ha concluso Grasso.

La resa dei conti in Senato Urla, rosari e rubli: tra Lega  e 5 Stelle un finale con rissa. Pubblicato martedì, 20 agosto 2019 da Aldo Cazzullo su Corriere.it. Salvini arriva al Senato con il cellulare all’orecchio e trova tutti i banchi del governo occupati dai 5 Stelle. Hanno dovuto portare delle sedie in più per i sottosegretari. L’ordine della Casaleggio&Associati è trasmettere al Truce il messaggio: non ti vogliamo più. Il ministro dell’Interno è costretto ad attendere nervosamente in piedi che il Guardasigilli Bonafede gli ceda il posto accanto a Conte. Sembra una profferta di pace: Salvini si siede accanto al suo presidente del Consiglio, pronto ad accoglierne i rimproveri, e a ricucire l’alleanza; se necessario promuovendo Conte a commissario europeo e Di Maio a Palazzo Chigi. È la «sorpresa» annunciata da Calderoli poco prima davanti al (pessimo) caffè della buvette. Ma il premier, che è andato dal parrucchiere e offre ai riflettori una chioma particolarmente corvina, non raccoglie. Anzi, per mezz’ora abbandona l’involuto linguaggio da leguleio per andare giù piatto su Salvini. Lo tratta ora come un padre severo, ora come un professore indignato. Gli appoggia la mano sulla spalla mentre gli rinfaccia gli strafalcioni istituzionali e le scortesie umane, le assenze sgarbate, le convocazioni inopportune dei sindacati. Salvini a volte sogghigna come Franti, a volte appare seccato per l’umiliazione pubblica. Ma le accuse vere devono ancora arrivare. Riguardano la Russia. E il rosario. «Caro ministro, caro Matteo, se tu avessi accettato di venire qui al Senato per riferire sulla vicenda russa, avresti evitato al tuo presidente del Consiglio di presentarsi al tuo posto, rifiutandoti per giunta di condividere con lui le informazioni di cui sei in possesso…». L’attacco non potrebbe essere più duro: il premier rinfaccia al suo vice di tenere nascoste notizie che potrebbero nuocere al Paese «sul piano internazionale». La seconda accusa è politicamente meno grave, ma scalda molto di più l’aula del Senato: «Chi ha compiti di responsabilità dovrebbe evitare, durante i comizi, di accostare agli slogan politici i simboli religiosi…». E qui Salvini dà mano al rosario con crocefisso. «Matteo questi comportamenti non hanno nulla a che fare con la libertà di coscienza religiosa, piuttosto sono episodi di incoscienza religiosa…». Ora Salvini il crocefisso lo bacia. Al di là dei passaggi grotteschi, come quando si dice ispirato «dal nuovo umanesimo» e rivendica di aver istituto il Giorno delle Tradizioni folcloristiche e popolari, il discorso di Conte più che un annuncio di dimissioni pare l’investitura di un nuovo governo. Il premier sale al Quirinale per rimettere l’incarico nelle mani di Mattarella, con la chiara speranza di riaverlo. Ma sarà dura per il Pd sostenere il capo dell’ex squadra gialloverde. Renzi fa sapere che per lui non c’è problema; ma proprio per questo Zingaretti, che non può farsi dettare la linea su tutto, chiede discontinuità. Fuori dal Senato i sostenitori di Conte, tra cui i compaesani di Volturara Appula, si azzuffano con i leghisti. Il leggendario Scilipoti apre al governo istituzionale: «Dovrebbero essere tutti come me: responsabili». Morra dei 5 Stelle rivendica di essere presidente dell’Antimafia e di essere credente pure lui. Mentre i 5 Stelle acclamano Conte in piedi e Di Maio abbronzatissimo lo bacia, Salvini si alza e va a parlare dai banchi della Lega. La Casellati, oggi in viola, lo chiama di nuovo presidente, ma dalle file del Pd la rimbrottano: «Non è presidente, è ministro!». Lui elenca tutte le offese ascoltate da Conte — «pericoloso, autoritario, preoccupante, irresponsabile, opportunista, inefficace, incosciente» —, lo paragona ai cari nemici Saviano e Renzi, ma in sostanza non chiude, anzi: «Volete tagliare i parlamentari? Ci siamo. Se poi qualcuno volesse aggiungerci una manovra economica coraggiosa per bloccare aumenti e ridurre le tasse a dieci milioni di italiani, ci siamo». Quanto alla religione, Salvini precisa che all’immacolato cuore di Maria ha chiesto aiuto non per sé, ma per il popolo italiano. «Sei il nuovo Padre Pio!» gli gridano da sinistra, «stanotte riceverai le stigmate!». Il Truce fa la voce grossa, a tratti ha il fiatone, però quella che ai senatori pare difficoltà è semplicemente la sua oratoria: non sta parlando a loro, ma ai follower; è infatti in diretta facebook. «Stratosferico discorso del Capitano» twitta Luca Morisi, aizzatore della Bestia digitale. In attesa delle stigmate, il Capitano si proclama martire: «Volevate un bersaglio? Eccomi». Ora la Casellati lo chiama ministro, ma quelli del Pd non sono soddisfatti: «Non ministro, è un semplice senatore!». In realtà Salvini si guarda dal rinunciare al Viminale, sui social vola alto e cita Proust: «Molto spesso per riuscire a capire che siamo innamorati, forse anche per diventarlo, bisogna che arrivi il giorno della separazione». Come a dire ai 5 Stelle: siamo ancora in tempo a tornare insieme. La crisi mistica continua: «Voi citate Saviano, noi san Giovanni Paolo II!». Un senatore leghista, deferente, lo ascolta in piedi. Gli altri si alzano solo all’applauso finale. La Russa commenta la performance annotando che Salvini è pessimo stratega ma grande comunicatore, secondo solo ad Almirante. È anche un po’ fascista? «Non esageriamo con i complimenti». «Conte l’Italia è al tuo fianco» dice lo striscione portato qui dal paese natale. Scilipoti invoca dieci, cento, mille Responsabili. Morra ribadisce: «Sono presidente dell’Antimafia, e so bene che in Calabria ostentare crocefisso e rosario è un segnale alla ‘ndrangheta!». Renzi, che fino a questo momento ha scritto messaggini sul cellulare con cinque dita tipo concorso di dattilografia, si unisce volentieri alla gara di dottrina cattolica: «Come dice il Vangelo, ovviamente secondo Matteo…». Il Bomba è soddisfatto di essersi ripreso la scena, e un po’ anche il partito: «Ho portato il pallone fin qui, cos’altro volete da me?» gigioneggia dietro le quinte. Il punto è che ormai quasi nessuno si fida di lui. Il timore di Zingaretti e pure dei 5 Stelle è che, lasciato fuori dal governo, Renzi possa farlo cadere nel momento più favorevole alle sue ambizioni. «È il nuovo D’Alema» dice di lui una senatrice Pd: tattico impeccabile, dal ribaltone del 1995 alla presa del potere del 1998; poi però arrivano quella grande seccatura che sono le elezioni. Stavolta il voto sembra poter attendere. Dal Quirinale chiariscono che non può essere il presidente a risolvere la crisi, che il suo compito è ascoltare quello che gli diranno i partiti. Ma la convinzione generale auscultata al Senato è che la distanza antropologica tra il cattolico democratico Mattarella e il deejay Matteo del Papeete sia tale che, se potrà dare una spintarella a Salvini portato dai 5 Stelle sull’orlo del burrone, il presidente non potrà e forse non vorrà esimersi. L’intesa politica tra grillini e dem è lontana e difficile. Più semplice, sussurra Renzi, sarebbe mettere su un bel governo istituzionale con figure gradite a entrambi i fronti, tipo Cantone, Gratteri, Gabrielli, accanto a politici non troppo usurati. Zingaretti non potrebbe certo negare la fiducia; Grillo neppure; e una volta che la Camera avrà votato il taglio dei parlamentari, il nuovo esecutivo avrebbe almeno un anno davanti. Giorgetti fa ascoltare alla portavoce leghista Iva Garibaldi una canzone di Sergio Endrigo nei suoi momenti più malinconici — «Chissà se finirà/ se un nuovo sogno la mia mano prenderà…» — e mostra di non credere troppo al voto anticipato: «Alla fine prevarrà lo spirito di conservazione della specie». È il motto dei peones, i parlamentari di seconda e terza schiera: «Quando ci ricapita?». Eppure le elezioni non sono affatto escluse, e i contorni della nuova stagione restano oscuri. C’è un nome cui sarebbe ancora più difficile dire di no. Ma nessuno osa citare apertamente Draghi. Molto attivo invece Scilipoti: «Dovrebbero fare tutti come me, anteporre l’interesse pubblico a quello personale…». Morra, che in effetti è il presidente della Commissione antimafia, prega per Salvini parafrasando Gesù in croce: «Padre perdonalo perché non sapeva cosa stava facendo». Il gesuita Spadaro, consigliere del Papa, rilancia le parole di Conte sul rosario. Si vede Ghedini, come solo nelle grandi occasioni: Forza Italia è divisa tra chi vorrebbe seguire Salvini e chi è tentato da Renzi. Verdini, di passaggio: «Matteo non è ancora mio genero, e poi mi ascoltavano di più Berlusconi e l’altro Matteo…». Arriva pure Rocco Casalino, freschissimo: «Conte è l’uomo del giorno. Mi sa che lo rivedremo presto». A Palazzo Chigi o a Bruxelles? I compaesani apuli srotolano l’ultimo striscione: «Presidente l’Italia ti ama». Salvini avvisa: ci rivedremo nelle piazze.

La stampa estera attacca: "Hanno trasformato l'Italia nel social media reality". La notizia delle dimissioni del premier Giuseppe Conte fa il giro del mondo. L'attacco del New York Times: "Salvini e Di Maio hanno trasformato il Paese in un social media reality show”. Alessandra Benignetti, Martedì 20/08/2019, su Il Giornale. “Il caos si è trasformato in incertezza”. Commenta così il New York Times le dimissioni di Giuseppe Conte in un articolo che racconta tappe e retroscena della crisi di governo agostana aperta dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Finisce così, spiega il quotidiano della Grande Mela, il governo più “nazionalista, populista e anomalo” che l’Italia ha conosciuto negli ultimi decenni. I leader di Movimento 5 Stelle e Lega, accusa il corrispondente a Roma, Jason Horowitz, “hanno trasformato il Paese in un social media reality show”, scontrandosi via Twitter e attraverso le dirette Facebook su “infrastrutture, tasse, autonomie e persino sulle vacanze estive”. “Nel frattempo – si legge sul quotidiano statunitense – il Paese è diventato sempre più isolato in Europa e la situazione finanziaria si è progressivamente aggravata”. I numeri della crisi economica sciorinati dal quotidiano americano sono eloquenti: crescita zero e un debito pubblico di oltre duemila miliardi di euro, con lo spread tra titoli italiani e tedeschi che è rimasto alle stelle per tutta la durata dell’esecutivo. Se dai colloqui con il presidente della Repubblica non emergesse alcuna maggioranza, gli scenari possibili secondo il New York Times sono due: quello di un governo guidato da una figura istituzionale, come il presidente della Camera o del Senato, per varare la finanziaria e scongiurare l’aumento dell’Iva, oppure la creazione di un “esecutivo super partes”, formato da tecnici, che traghetti il Paese verso le elezioni anticipate che potrebbero essere calendarizzate già per il mese di ottobre. In questo caso, però, osserva Horowitz, evitare l’aumento delle tasse sarebbe impossibile. Insomma, conclude laconico il corrispondente dalla Capitale, l’Italia “indebolita finanziariamente e sempre meno influente all’estero” si ritrova nel bel mezzo di un “disastro creato con le proprie mani”. Lancia l’allarme sul “caos governo in Italia” anche il quotidiano più letto in Germania, la Bild Zeitung, che riporta ampi stralci del discorso di Conte, dando risalto alla requisitoria dell'ex premier contro Salvini. Anche la Frankfurter Allgemeine Zeitung preconizza “tempi inquieti” per il nostro Paese e punta il dito contro il ministro dell’Interno, accusandolo di aver fatto sprofondare l'Italia in un "caos estivo". La soluzione migliore per uscire dall'impasse, quindi, secondo il quotidiano di Francoforte sarebbe "un governo di transizione formato da Pd e M5S”. La notizia delle dimissioni di Conte è balzata in apertura sui maggiori siti di informazione del globo, dalla Cnn alla Bbc, fino ad Al Jazeera e al quotidiano turco Daily Sabah. "L'Italia non ha più un governo”, ha titolato il francese Le Monde.

LA CONTROFFENSIVA DI SALVINI SARÀ SUI SOCIAL. Emilio Pucci per “il Messaggero” il 21 Agosto 2019. Ieri c'erano molti musi lunghi nella Lega, mentre la Bestia, vale a dire la corazzata social di Salvini, sta già scaldando i motori contro l'ex alleato pentastellato. Ministri che si aggiravano nel Transatlantico del Senato con la certezza che ormai toccherà fare gli scatoloni, deputati e senatori che non si aspettavano che Matteo Renzi riuscisse a dettare la linea nel Partito democratico, che Luigi Di Maio cambiasse totalmente strategia stringendo addirittura un asse con i dem in poco più di una settimana. I più contenti? Proprio quelli che in questo governo non ci hanno mai creduto. Neanche per un attimo. Il ministro Lorenzo Fontana (prima alla Famiglia, poi agli Affari Europei) è uno di loro. «Finalmente sono un uomo libero», dice ad un collega del partito. «Non si poteva andare avanti in questo modo. I Consigli dei ministri duravano ogni volta dieci ore», dice un altro esponente leghista dell'esecutivo. Ma quello più euforico a Palazzo Madama è Giancarlo Giorgetti. Da giorni assedia gli altri ex lumbard con una lista di canzoni sulla crisi di governo. «La festa appena cominciata è già finita. Il nostro amore era l'invidia». Il numero due del Carroccio canta. Felice. È stato l'unico ad aver stretto la mano al presidente del Consiglio, Conte nell'emiciclo del Senato. Tra i ministri però nessuno è stato preso veramente di sorpresa. Gli attacchi impietosi di Giuseppe Conte? «Tutto previsto. Ora però dovranno farmi vedere come Pd e Movimento 5 stelle possano andare d'accordo». Ancora: «Il presidente della Repubblica alla fine non potrà che mandarci al voto. Fidatevi - ripetono alcuni dirigenti di lungo corso della Lega -, questi non vanno da nessuna parte. E in ogni caso non resisterebbero neanche cinque minuti, non bisogna preoccuparsi più di tanto». Anche quei visi tirati, tra sottosegretari, ministri e parlamentari, si rianimano quando si parla di Matteo Renzi: «Sarà lui il carnefice di questo asse Pd-M5s. Sarà lui ad accoltellare Nicola Zingaretti», osserva un big della Lega. Eppure fino a ieri pomeriggio i pontieri erano al lavoro. «Il Movimento 5 stelle rischia l'estinzione se va con il Partito democratico. Invece se va al voto dopo il taglio dei parlamentari prende il 26 per cento», osserva un altro esponente di via Bellerio. «Giuseppe Conte ha sbagliato: così è emerso che non era affatto un premier di garanzia. Avrebbe potuto parlare solo di riforme. È lui che ha voluto la crisi, non Salvini», azzarda un senatore, «ora Pd e M5s dovranno uscire allo scoperto». Nella Lega ci si aggrappa alle tesi più disperate, con la consapevolezza che non è più il Capo a dettare la linea. Ma niente processi. «Salvini non si discute», dicono in tanti, però. Ora prima di portare la gente in piazza per protestare, scenderà in campo la Bestia, la macchina social di Salvini che sta già scaldando i motori. «Movimento 5 Stelle e Partito democratico cadranno prima nella rete, poi nei palazzi», la convinzione. E Morisi, l'uomo della comunicazione sul web della Lega, già pianifica la battaglia: «Nessuna spallata, ma gli elettori del Movimento 5 stelle e del Pd non ci staranno a questo inciucio».

Con Trump o con l’Ue: la vera crisi di governo. Lorenzo Vita su it.insideover.com il 20 Agosto 2019. Una crisi di governo che ha anche il sapore di uno scontro internazionale. Il voto sulla nomina del nuovo presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, aveva già chiarito quale fosse la linea di faglia tra Lega e Movimento Cinque Stelle in campo internazionale. Da una parte il partito di Matteo Salvini, profondamente incastonato su posizioni atlantiche e orientato all’asse con l’amministrazione Trump in un’ottica anti europea e legato allo schieramento sovranista mondiale. Dall’altra parte il Movimento 5 Stelle, che sposa invece la linea della moderazione, incentrata sul sostegno alla Von der Leyen e che ha ribadito, proprio con il discorso di Giuseppe Conte in Senato, la concezione dei due pilastri su cui si fonda la linea internazionale pentastellata: Europa e alleanza atlantica. Due visioni non per forza contrapposte, ma che in questo periodo si sono sempre più polarizzate. All’ombra della crisi di governo, si staglia infatti uno scontro di rilevanza internazionale che nella contesa del Senato si è manifestata in tutte le sue forme. Con l’Unione europea, questa Unione europea, a esser l’epicentro di una crisi nazionale che ha il sapore di un redde rationem di matrice interiorizzale. E non a caso è proprio dagli Stati Uniti che è arrivato il placet a Salvini per scatenare una crisi di governo che nasce da questioni interne ma che ha profonde motivazioni strategiche. Come spiegato più volte in queste settimane, Washington è apparsa molto delusa dal governo gialloverde. E il voto finale sulla von der Leyen è stata una sorta di dichiarazione di voto generale sulla direzione che avrebbe intrapreso questo esecutivo nel prossimo futuro. Nel momento in cui l’amministrazione Trump ha chiesto una netta presa di posizione nei confronti dell’asse franco-tedesco, Conte ha scelto un’altra strada: quella promosso proprio da Angela Merkel e Emmanuel Macron. Un cambiamento rispetto ad alcune battaglie pentastellate che è stata confermata dallo scontro frontale di oggi, a Palazzo Madama, dove il premier ha ribadito quella scelta mentre il leader della Lega, ricordando dei punti tipici di tutti i programmi sovranisti europei (di cui Trump è pienamente  concorde), ha parlato di un’italia libera dai vincoli dell’Europa sia sul fronte migratorio sia su quello economico e finanziario. Solo alcuni passaggi che però hanno chiarito come una delle grandi questioni su cui è nata questa crisi agostana è stata proprio Bruxelles, sul cui trono c’è una Urusla von der Leyen che ha già fatto capire in tutti i modi di discostarsi completamente dal fronte sovranista e che di fatto ha sconfessato pienamente la Lega all’interno dell’esecutivo italiano. Il richiamo all’alleanza “Ursula” non è semplicemente una definizione giornalistica sul possibile nuovo governo giallorosso Pd-5 Stelle. C’è qualcosa di più profondo in quella terminologia: è proprio il “sistema Ursula” a essere in gioco, che significa l’Unione europea a trazione franco-tedesca e gli interessi della Cina. Da una parte c’è la Lega filo-atlantica cui è arrivata la condanna di Macron e Merkel, la benedizione di Trump e la ridondante accusa di legami con il Cremlino fissata nello schema del Russiagate. Il Carroccio guidato da Salvini rappresenta quel blocco che si oppone a una certa logica europeista che si basa al contrario sul rafforzamento dell’alleanza tra Parigi e Berlino quali nuclei dell’Ue, sul fronte comune anti-Trump, anti-Putin e che strizza l’occhio alla Cina con investimenti che però mirano ad arricchire solo una parte del Vecchio continente. In questo fronte si è unito anche il Movimento 5 Stelle, che ha palesato la condivisione di questa strategia con due mosse: il memorandum per la Nuova Via della Seta e il voto a favore della Von der Leyen. Due mosse apprezzate e condivise proprio dal Partito democratico, visto che quando era al governo ha fatto il possibile per includere Roma nel progetto cinese della One Belt One Road, che ha contrastato in tutti i modi l’attuale amministrazione americana e russa e che, infine, ha pienamente sostenuto nell’ambito del Partito socialista europeo, il voto alla von der Leyen. Di fatto, in politica estera, l’alleanza Ursula è già un realtà. Pd e Cinque Stelle si trovano già sulla stessa barricata e hanno già isolato la Lega per convergere nel grande gioco europeo.

Tutti al mare? No, tu no. Ferragosto a Montecitorio. Luciano Scateni su La Voce delle Voci il 14 Agosto 2019. Di primo mattino, allo spuntar della luce,  ancora privi del quotidiano a cui si è affezionati, i notiziari televisivi sopperiscono con ampiezza di notiziari ed augurano il buongiorno o, al contrario, propongono una letale dose di  veleni senza antidoto. Digerita la prima colazione di news e con l’aiuto di uno  yogurt al "probiotico bifidus", Microsoft, con un clic nell’apposito box di notizie della politica, offre una trentina di titoli "l’un contro l’altro armati". Il disorientamento è assicurato, in virtù di una caotica accozzaglia di contrapposizioni, che nel rispetto della pestifera par condicio rendono pressoché indistricabile il loro politichese.

Salvini: “Apro al taglio dei parlamentari. Poi subito al voto”. Ma il vice premier leghista non aveva giurato di completare la legislatura per garantire un lustro di laute remunerazioni ai suoi parlamentari e a se stesso il ruolo prestigioso scippato alla democrazia? Boh…

Sentita in Parlamento: “L’asse Pd-5Stelle tiene, elezioni più lontane”. E come? Sbaragliato in un amen il reciproco, duro, ostracismo? Spariti i fitti, reiterati scambi di contumelie, i proclami di incompatibilità?

Forza Italia: “No a liste uniche con Salvini”. E tutte quelle in corso tra Comuni e Regioni? Rimosse dalla coscienza?

Salvini: “Voglio un governo con Giorgetti ministro dell’economia” E perché no, Siri o Savoini al Quirinale, dopo aver deposto Mattarella? Giorgetti risponde con una nemmeno larvata accusa al referente del Viminale: “Il via alla crisi, scaturito dalla disputa sul Tav e sulla giustizia è una decisione del capo. La crisi andava aperta prima”. Bella riconoscenza…

Renzi: “L’accordo con i 5Stelle è possibile”. Ma l’altro ieri non aveva detto “Mai con i pentastellati?” E poi: “Salvini si dimetta, un governo no tax è possibile”(???)

Si può andare alle urne subito dopo una riforma costituzionale? (taglio dei parlamentari, ndr). La Lega sostiene che non si può e allora  Salvini finge di cedere ai 5Stelle, ma di fatto punta a rinviare la riforma al dopo voto.

Crisi di governo, i social: Salvini perde fan, Renzi cresce”. Il 38% attribuito al ministro leghista dai sondaggi? Solo frottole?

Salvini a Di Maio: “Chiudiamo in bellezza, sì al taglio dei parlamentari”.  Come sopra, sparate da millantatore.

Centinaio (Lega) “Non chiudo le porte a nuovo dialogo con M5S. Poi, ascoltato da orecchie attente: “Con chi cazzo abbiamo governato?”

Casellati, fan very chic,  rivolta al vice premier del Carroccio: “Presidente Salvini”. Sarcastico il Pd: “Presidente di cosa?

Salvini al Pd: “Invidio certe abbronzature”  Pd: “Ministro, il più abbronzato sei tu”.

Salvini: “Faccio dimettere i ‘miei’ sei ministri”. Fischi e pernacchi degli interessati e sono tutti sul proprio scanno.

De Petris, gruppo misto a Salvini: “Ha paura dei processi, ha paura del voto”.

De Magistris, sindaco di Napoli: “Mi candido a guidare il Paese”. Ma ci fa o ci è?

C’è chi azzarda la prospettiva in tempi brevi di una nuova maggioranza giallorossa, ma è un’impura commistione tra  lana  e seta. Nel frattempo l’Istat, a trazione gialloverde, sbandiera numeri dell’occupazione in crescita. Lo fa  nel corso di una crisi strutturale del comparto produttivo con il segno meno e dimentica che la crisi politica mette a rischio 240mila posti di lavoro (Ilva, Whirpool, Piaggio, Bekaert, Embraco, altri centinaia di casi). La grande emergenza dell’industria in recessione è oscurata dalla beghe Salvini-Di Maio. Le ore di cassa integrazione hanno toccato l’impressionante numero di oltre 27milioni. Cos’altro ci aspetta?

Spigolando qua e là. Salvini è in ritardo nell’accedere al Viminale e gli uscieri, non avendolo mai visto, lo bloccano all’ingresso.

Salvini, durante il voto si assenta per concedersi agli intervistatori. Il medico deve avergli consigliato di non sostare a Palazzo Madama più di 5 minuti. Rischierebbe lo choc anafilattico (spunti da Luca Bottura, la Repubblica).  

Tragicommedia di Stato. Alessandro Sallusti, Giovedì 15/08/2019, su Il Giornale. Più che assistere a una sfida politica ci sembra di vedere una riedizione de L'aereo più pazzo del mondo, il celebre film tragicomico di inizio anni Ottanta in cui si raccontavano le avventure paradossali e surreali dei passeggeri a bordo di un aereo condotto da un pilota che aveva paura di volare. Risate e paura, come oggi sull'«aereo Italia». Piccola carrellata: il Senato è stato riaperto per discutere - di fatto - sull'abbronzatura dei suoi membri mentre Bankitalia rendeva noto che il debito pubblico ha sfondato la quota record di 2386 miliardi (+21 sul mese precedente); Conte e Salvini inscenano l'ennesima sceneggiata sull'ingresso in porto di una nave carica di immigrati che da giorni staziona al largo di Lampedusa nelle ore in cui la Germania entra ufficialmente in recessione e fa crollare le Borse (soprattutto quella di Milano), antipasto di una devastante crisi in arrivo; dopo averlo votato in Parlamento, il ministro leghista Massimo Garavaglia ci ha informato ieri che il reddito di cittadinanza è una bufala e che il 70 per cento dei disoccupati che l'hanno ottenuto non ne avrebbero diritto (senza specificare quando ha fatto questa scoperta, da quanto e perché la teneva segreta, né se intende denunciare qualcuno per truffa e peculato come sarebbe nei suoi doveri); Salvini ha confermato ieri di voler sfiduciare il premier Conte ma si è presentato con lui alla commemorazione dei morti sotto il ponte di Genova, che è un po' come dire ai parenti delle vittime e alla città tutta: «Fidatevi di quest'uomo, è un vero incapace». Ho dimenticato qualche cosa? Certamente sì e mi scuso, ma non possiamo passare tutta la vigilia di Ferragosto a romperci i maroni appresso a questi pazzi che, come il pilota nel film dell'aereo, vorrebbero governare ma hanno paura di farlo e quindi buttano tutto in caciara mentre il Paese sta precipitando nella tempesta. L'unica buona notizia è che oggi i giornali sono chiusi per cui scommetto che tutti gli attori di questa tragicommedia si prenderanno una piccola pausa: domani si ricomincia, chissà con quali sorprese, gag e finti psicodrammi. Speriamo solo che questo pazzo aereo Italia atterri al più presto, non ne facciamo neppure più una questione di aeroporto sicuro. A questo punto uno vale l'altro. Che siano elezioni anticipate o governi più o meno «mostri», tutto è meglio di così. Basta che si tocchi terra.

“IL GIORNALE” DI BERLUSCONI GODE NEL METTERE IN FILA TUTTI GLI ERRORI DI SALVINI. Paolo Bracalini per “il Giornale” il 16 agosto 2019. In politica passare da leader infallibili a incapaci che non ne azzeccano una è un attimo, chiedere informazioni a Matteo Renzi. Dopo anni sulla cresta dell' onda con i consensi passati dal 4% al 34%, anche per Matteo Salvini sembra arrivato il momento critico. I suoi consiglieri iniziano a prendere le distanze dalle ultime mosse del segretario, segno che il mito del capo invincibile si è sciolto al sole agostano. Le probabilità che esca con le osse rotte dalla crisi da lui stesso scatenata sono aumentate. È ormai chiaro che Salvini, dopo aver infilato una successo dietro l' altro, dall' 8 agosto scorso - giorno in cui ha aperto la crisi di governo - le ha invece sbagliate tutte o quasi. Primo errore, ha sottovalutato l' attaccamento al potere di Giuseppe Conte, dando per scontato che il professore - catapultato da una cattedra universitaria a Palazzo Chigi quasi per caso - avrebbe accettato senza colpo ferire la sua richiesta di dimettersi da Palazzo Chigi, agevolando così la corsa verso le elezioni. Sbagliato. Dopo un anno e mezzo a capo del governo, invitato ai summit mondiali alla pari di Trump e Putin, Conte non è più l'oscuro notaio del patto tra Salvini e Di Maio, ma si crede veramente il presidente del Consiglio italiano. In più è un avvocato, quindi di cavilli e regolamenti ci campa, ed è proprio nella gabbia di paletti costituzionali e parlamentari che ha intrappolato Salvini. Secondo errore, trattare i Cinque Stelle come un partito che vale la metà della Lega. Fatto vero forse fuori dal Parlamento, ma non nei numeri di Camera e Senato fermi al marzo 2018, quando il M5s era il primo partito italiano. Infatti il gruppo parlamentare M5s è il più numeroso, e nel pallottoliere di una crisi di governo sono soltanto quelli i numeri che contano. E questo ci porta al terzo errore. Aver sottovalutato la capacità del Pd di cambiare radicalmente posizione sui grillini pur di cogliere l' incredibile opportunità di passare nella maggioranza di governo e magari starci per tutta la legislatura. E, allo stesso modo, la capacità di Di Maio e soci di rimangiarsi anni di insulti e guerre a Renzi&Boschi pur di evitare lo scioglimento delle Camere, l' addio al lignaggio ministeriale e un' elezione per loro molto complicata. L'equazione tolgo la fiducia a Conte così si vota, si è rivelata sbagliata. L'altro errore tattico gliel' ha rinfacciato Giancarlo Giorgetti. Non è quello di aver rotto con i grillini, ma di averlo fatto troppo tardi nel momento sbagliato. Secondo il più ascoltato consigliere di Salvini, la spina andava staccata subito dopo le Europee, quando era chiaro che i rapporti di forza tra Lega e M5s si erano completamente ribaltati. In più non ci sarebbe stato l' alibi della scadenza imminente della finanziria e si sarebbe aperta la finestra del voto in modo più semplice. Il ministro invece ha aspettato, passando le successive settimane a litigare con i grillini ma smentendo a ripetizione l' intenzione di voler rompere il contratto con i Cinque Stelle. Fino a cambiare repentinamente linea ad agosto, dopo aver «scoperto» che il M5s è No-Tav. Un fatto che sapevano anche le pietre della val di Susa. Altro errore, non aver ritirato la delegazione di ministri leghisti. Operazione che gli avrebbe garantito due cose poter rivendicare davanti al popolo di aver rinunciato alle «poltrone»; ma soprattutto avrebbe tagliato le gambe al governo Conte costringendolo a presentarsi dimissionario al Quirinale. Ennesima superficialità riguarda anche Mattarella. Salvini pensava che il capo dello Stato si sarebbe limitato a prendere atto della sue decisione di chiudere con i grillini per andare al voto? La mossa di dire ok al taglio dei parlamentari ma poi subito al voto» (tra l' altro dopo aver detto che era solo un alibi per allungare i tempi), non ha fatto altro che irritare il Quirinale per la forzatura. L' ultimo e più tragico errore, però, sarebbe quello di fare una seconda svolta e tornare da Di Maio. A quel punto oltre a perdere la possibilità delle elezioni, la Lega rischierebbe di perdere la faccia.

Vittorio Macioce per “il Giornale” il 16 agosto 2019. I patti in politica non sono sacri, ma chi li rompe, spesso, paga pegno. Tutto questo Matteo Salvini lo sapeva, per mesi ha spinto il suo alleato di governo verso il «non ne posso più». Forse non ha previsto una cosa. Di Maio ha mostrato di avere una dote non difficile da immaginare: è un buon incassatore. Così, in un giorno d'estate, è stato Salvini a dire basta, con l' annuncio di una sfiducia a Conte, improvvisa, messa lì quasi d' istinto, come un colpo d' azzardo. Ora, però, quella sfiducia poggiata sul tavolo come una pistola sembra non avere proiettili. È scarica. Il risultato è che il leader della Lega si ritrova spalle al muro e con l' accusa di tradimento. È così che lo chiama Alessandro Di Battista: «Il ministro del tradimento». Qualcosa non ha funzionato. Non importa che sia vero o no. Salvini può dire che il contratto di governo non aveva più senso. Il guaio per lui è che è rimasto con il cerino in mano. È l' uomo del disordine, quello che si defila o va a incassare il malloppo di voti alla vigilia di una manovra economica ricca di insidie. È sotto accusa come voltagabbana, senza avere uno straccio di scusa per fare saltare il governo. Questa avventura spericolata, cominciata con il contratto innaturale tra due forze politiche poco affini, finisce per pagarla lui. Il futuro magari gli darà ragione, ma certi salti senza strategia non portano fortuna. Non ne è uscito più forte Renzi, bollato dallo «stai sereno» sulla guancia di Enrico Letta. Non è andata bene a Gianfranco Fini, quando, per un errore di calcolo, pensò di indossare un vestito antiberlusconiano. Fu ingannato dalla «scossa» giudiziaria evocata da D' Alema e scommise su quel «che fai, mi cacci?» come passaporto per una riabilitazione a sinistra. La scommessa era costruire una destra diversa, che però s' infranse contro la delusione dei suoi elettori di riferimento e sul muro della casa di Montecarlo. Lì, Fini, oltre al «tradimento», ci mise anche una patetica serie di bugie, promesse non rispettate, complicità nascoste e affari di famiglia che lo fecero passare in una stagione da «furbastro» a «coglione» (per sua stessa ammissione). È così che dell' uomo della svolta di Fiuggi non è rimasto che qualche brandello di voti. È scomparso, sconfitto da una macchia indelebile: non avere più credibilità. La rottura dei patti non ha portato bene ad Alfano, che ha pagato fino in fondo il governo dei responsabili con Enrico Letta e poi l' alleanza con Matteo Renzi. Massimo D' Alema si ritrovò a giustificarsi per il tranello contro Prodi, candidato al Quirinale: «Non fu colpa mia». Tutto sta nel senso di una telefonata tra i due. Per D' Alema era un consiglio amichevole, per Prodi una mezza minaccia. «Quel giorno - ricorda il Professore - ho messo giù il telefono, ho chiamato mia moglie e le ho detto che certamente non sarei diventato presidente della Repubblica». Non era la prima volta. Nel 1998 D' Alema diventa capo del governo con un sottocolpo da maestro. Bertinotti, segretario di Rifondazione Comunista, abbandona Prodi. D' Alema va a Palazzo Chigi con l' appoggio dei centristi di Mastella. È di fatto la fine dell' Ulivo. È il dicembre del 1994. Umberto Bossi contesta a Silvio Berlusconi la riforma delle pensioni, e l' altro lo attacca frontalmente in tv. Allora Bossi reagisce dicendo che l' alleato non sta rispettando i patti sulla riforma del federalismo, punto centrale per la Lega. Forse Bossi teme anche di essere schiacciato dal peso di Berlusconi, forse teme di perdere autonomia. Sta di fatto che il capo dei leghisti, insieme a D' Alema e Buttiglione, sigla il «patto delle sardine». Il governo Berlusconi non ha più la maggioranza. Oscar Luigi Scalfaro affida al «berlusconiano» Lamberto Dini l'incarico di formare un nuovo governo di centro-lega-sinistra. La Seconda repubblica è stata il regno dei ribaltoni. Questa nuova stagione politica vaga ancora di più nell' incertezza dei patti di governo. Come si fa a parlare di tradimento quando tutto è così fluido? Salvini era al governo con i grillini, ma nelle Regioni sta con Berlusconi e la Meloni. Gli stessi grillini, sacerdoti della purezza, ora tramano per un governo di scopo con Renzi che, a sua volta, intriga contro Zingaretti che, da parte sua, ricerca sponde alla sinistra cinquestelle e non disdegna accordi tattici con Salvini. Tutti insieme a tradire con quel che resta della democrazia.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 16 agosto 2019. Caro Salvini, ti scrivo per dirti che non ho capito le tue ultime, e anche penultime mosse. Spero che tu me ne possa spiegare il senso. Per oltre un anno hai governato insieme ai ciula del M5S, con i quali hai pure litigato di brutto, ma tutto sommato sei riuscito a tenere stretta la compagnia del filo di ferro senza subire danni, anzi guadagnando consensi per la Lega. Poi alle europee hai avuto un trionfo e un sacco di gente ti ha implorato: «Rompi l'alleanza così si va ad elezioni anticipate e si ridimensionano le pretese scriteriate dei pentastellati». La quale gente però non sa che la politica è connessa all' aritmetica. Per cui ignora un fatto: se tu vinci le europee con largo margine, tuttavia nel Parlamento nazionale hai il 17 per cento dei voti, mentre i grillini conservano il 33, è evidente che il torrone ce l'hanno in mano questi ultimi. I quali, se tu Carroccio sfasci la maggioranza, avendo una rappresentanza alla Camera e in Senato più cospicua della tua, prima di tornarsene a casa cercano in aula un partito che permetta loro di sostenere un governo di colore diverso, e lo trovano nel Pd, che ha sempre affermato di detestare i cinquestelle, ma un conto è il dire e un conto è il fare. Cosicché, quando Matteo ha mollato (e non si comprende perché) Di Maio, immediatamente i seguaci di Renzi e Zingaretti si sono messi a disposizione per fottere Alberto da Giussano. Ciò che sorprende non è l'atteggiamento ondeggiante del Pd, bensì la superficialità di Salvini che si è illuso si potesse giungere alle consultazioni. Finché a Montecitorio e a Palazzo Madama vi è una maggioranza alternativa a quella in disfacimento, ovvio che le urne restino chiuse. Mattarella guarda i numeri e non le facce dei deputati e dei senatori. Sorvolare su questo dato è da fessi. Ciò premesso, occorre aggiungere che quello di Salvini è stato un tentativo di suicidio. Egli va incontro alla crisi e non si accorge di fare il gioco degli avversari, che non aspettano altro per costituire un esecutivo tutto loro, consentito dalla matematica (le idee in politica non contano un tubo) e dalla Costituzione. A questo punto il Matteo lombardo, infinocchiato dal Matteo fiorentino, si accorge della topica e accetta di approvare la diminuzione dei rappresentanti della popolazione, come via di salvezza. Errore clamoroso. Se la Lega accoglie il taglio si va alle calende greche. In quanto la modifica di una legge costituzionale prevede un iter lunghissimo, comprendente un referendum. Tutto ciò richiede minimo un anno, pertanto Salvini le elezioni se le sogna. Arriveranno a babbo morto. L'importante è che non perisca di inedia pure il Capitano nel frattempo poiché, è noto, il favore dei cittadini va e viene, sempre più velocemente. Renzi ne sa qualcosa. Eppure la cosa più buffa è un'altra. Il Matteo milanese ha chiesto la sfiducia di Conte, che andrà in onda tra una settimana. Come si comporterà il capo padano? Se la vota cade il governo, allora egli entrerebbe in rotta di collisione con la sua scelta di segare i parlamentari; se non la vota va contro la propria mozione. Siamo alla confusione totale, alla schizofrenia. La sensazione è che Salvini si sia infilato in un cul de sac.

Ipocrisia Zingaretti-Di Maio: si insultavano ma ora fanno l'inciucio. Neanche pochi mesi fa il grillino considerava il segretario Pd peggiore di Renzi. E Zingaretti tuonava: "Di Maio sciacallo che cerca voti". Domenico Ferrara, Venerdì 23/08/2019 su Il Giornale. Dal diavolo all'acqua santa. In un battibaleno. Senza neanche tanto pudore e con estrema velocità. Pd e M5s, quei due partiti che se ne dicevano peste e corna, Zingaretti e Di Maio, quei due artefici del probabile inciucio che verrà, adesso che l'inizio della trattativa Pd-M5s è diventato ufficiale, vanno a braccetto. Amici mai, per chi si odia come loro. Nemici nemmeno però. Al passato basta dare un colpo di spugna. Almeno fino a quando conviene. Il 24 marzo 2013, Luigi Di Maio dichiarava: "Il Movimento è nato in reazione a Pd e Pdl, in reazione al loro modo di fare politica. E oggi propone uno stile nuovo, radicalmente diverso. Nulla a che vedere con inciuci politici o pasticci tecnici. Su questa linea siamo coesi, compatti e motivati, non c'è spazio per scout e agenti di mercato. Non ci spaccheremo, sono pronto a scommettere". Oggi queste parole fanno storcere un po' il naso. Ma senza andare poi così lontano, il leader pentastellato, nel maggio dell'anno scorso, sembrava lapidario: "Se il Pd è ancora Renzi, come ha dimostrato, e dopo che hanno aperto al dialogo al Colle hanno poi chiuso in una trasmissione tv io col Pd non voglio averci mai più nulla a che fare". Un anno dopo, sembrava ancora più tranchant: "Il Pd è un condominio ed io non ho intenzione di mettermi a discutere con un partito che ha dentro 100 anime che si sono messe subito a litigare prima che chiarissi che la proposta era rivolta alla Lega". E ancora, nel maggio 2019: "La vera natura del Pd è quella di difendere privilegi e perseguire interessi personali: è per questo che il governo deve andare avanti. Questa gente che sia Pd o Forza Italia deve stare all'opposizione, perché in maggioranza continuerà a sperperare i nostri soldi per i loro privilegi. Zingaretti sta facendo punteggio in negativo, ne aggiunge un altro dopo la legge Zanda che doveva aumentare gli stipendi ai parlamentari, dopo la legge Zanda che doveva ricostituire i vitalizi, dopo la legge per reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti adesso vota contro il taglio dei parlamentari, è la vera natura del Pd e non mi meraviglia". Di Maio tuonava poi così il 16 maggio scorso: "Il Pd in queste settimane si è tenuto il presidente della Regione Calabria, indagato per corruzione su sanità e appalti. In Umbria c'è stato uno scandalo vergognoso e il silenzio di Zingaretti sulle indagini che stanno attraversando il Pd ricorda molto, o peggio ancora, il silenzio di Renzi sulla Boschi. Il Pd ha cambiato il volto ma non la sua natura. Questo è il partito con cui si sta dicendo in questi giorni che vogliamo fare un'alleanza? Con un partito che è lo stesso partito renziano ma ha solo cambiato il volto. Un partito che si è alleato con Cirino Pomicino in Campania, che sta governando Gela con FI. Zingaretti, quello del cambiamento?". Dal canto suo, il diretto interessato del Pd ha sempre ribattuto a tono alle accuse grilline. Qualche esempio? "Di Maio dice che votare per me è votare l'establishment? Un altro manifesto dell'ipocrisia. Uno che a 27 anni faceva il deputato e fa la parte del proletario ha una idea dell'Italia capovolta", dichiarava il segretario dem. E poi, giusto per semplificare: Di Maio è "un bugiardo seriale", "sta bruciando miliardi di euro degli italiani", "osceno", "sciacallo che cerca voti", "pensa prima alle poltrone", "indecente", "gioca sulla pelle dei lavoratori" e così via. Offese personali, attacchi e contrattacchi veementi, odio e rancori che tutto lasciavano presagire meno che scoppiasse un amore, seppur condizionato. Oggi Zingaretti dice che non pone nessun veto su Di Maio e Di Maio ordina ai suoi di intavolare dialogo e trattative. Insomma, c'eravamo tanto odiati ma ora scurdámmoce 'o ppassato, ché tocca pensare alla poltrona.

"Ebetino", "Ballista", "Fai schifo". Ma ora Beppe fa la corte a Renzi. Il guru del M5s apre all'intesa con chi insultò in modo feroce. Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 12/08/2019 su Il Giornale. In Italia tutto è possibile. In politica ancor di più. La storia recente ce lo ha insegnato. Ma che si aprisse un confronto, e probabilmente un asse, tra Grillo e Renzi sembrava fantascienza. Anzi, per amor di precisione, sembrava un film horror. In questa folle estate, invece, è successo anche questo e all'orizzonte si profila l'incubo di un governo Pd-Cinque Stelle. Gli effetti della poltronite (l'amore viscerale per le comode sedute di Camera e Senato) hanno avvicinato l'inavvicinabile e il post, pubblicato due giorni fa da Grillo sul suo blog, non lascia spazio a interpretazioni: i due stanno flirtando. Non sappiamo se sarà amore, ma sappiamo con certezza che finora è stato odio. Vi riproponiamo una piccola antologia di insulti recapitati dall'ex comico all'ex premier. Roba delicatissima e di raffinata eleganza, come è nello stile del leader genovese. Nel corso degli anni, tra gli altri, gli ha affibbiato i nomignoli di «ebolino», «ebetino», «Renzie» (dopo che Matteo aveva sfoggiato il giubbotto da Fonzie) e «scrofa ferita». Ma è solo l'inizio dello scambio di gentilezze tra i due. «Siete passati da Lorenzo il Magnifico all'ebetino di Firenze», ammoniva il pubblico durante uno spettacolo nel 2010. Aveva già capito che Renzi avrebbe fatto carriera, era il primo di una lunga lista di sberleffi al limite della diffamazione. «Hanno bussato alla porta e non c'era nessuno. Era Matteo Renzi» attacca Grillo nel 2012 dal palco, ma questi sono solo bufetti. «Pd, partito di lotta e di massoneria» (2014), il riferimento a squadre e compassi è una costante della grammatica grillesca che raggiungerà l'acme durante il caso Consip, quando Renzi gli rispose, per difendere il padre Tiziano, con un pacatissimo: «Grillo fai schifo». Massone e amico dei poteri forti, ovviamente: «Matteo Renzi non dice mai una cosa vicina alla gente comune. Il fu giovane Renzie lo si ricorda per le sue comparsate, in giubbetto di pelle, da Maria De Filippi. È l'uomo delle banche e dei capitali» (2013). Poteva mancare un allusione sessuale nel florilegio di insulti? Ma ovviamente no: «Renzi soffre di invidia penis» (2012). E poi una lunga serie di hashtag che corrispondono ad altrettante battaglie sul web ingaggiate dai grillini: «#RenzieBuffone internazionale» (2014). «#RenzieSparaballe» (2014). «Forte coi deboli, debole coi forti #ebetinodenunciacitutti» (2014). «Renzie, ballista da esportazione #Renziebastaballe» (2015). Non mancano nemmeno i paragoni con personaggi discussi: «Mussolini ebbe più pudore. Non le chiamò riforme» (2014). «È come Achille Lauro che per diventare sindaco di Napoli regalò ai potenziali elettori una scarpa con la promessa di dare la seconda se fosse stato eletto. Gli 80 euro di Renzie sono peggio. Lui almeno una scarpa prima delle elezioni l'ha data». (2014). «Renzi come Schettino» (2014). «Renzi peggio di Monti» (2015). «Renzi come Lubitz» (il pilota che ha fatto precipitare volontariamente l'aereo della Germanwings nel 2015). Praticamente il male assoluto, che però diventa un male necessario quando non si vuole mollare il governo. E poi una sequela infinita di insulti e minacce, ve ne riproponiamo una piccola parte:_«Renzi? È falso e ipocrita» (2014), «Renzi è una persona malata. L'ebetino, così come Monti e Letta, vanno analizzati dal punto di vista psichiatrico: hanno la alessitimia, non hanno cioè la capacità di riconoscere le emozioni» (2014), «Renzi pifferaio magico» (2014), «Renzi burattino» (2014), «Renzi voltagabbana» (2014), «Non sei credibile» (2014). «Denunceremo Renzi per abuso di credulità» (2015), «Vuoi i nomi per il Quirinale? Vaffanculo» (2015). «Sei una gaffe esistenziale» (2015), «Ha rottamato solo suo padre» (2017). Una corrispondenza amorosa che si srotola nel corso di sette anni e che ora potrebbe sfociare in una mostruosa convivenza, tutto nel nome del demone dell'antisalvinismo. E i presupposti sono quelli di un disastro.

I mille voltafaccia di Matteo Renzi. Da #enricostaisereno a #senzadime, passando dalla promessa di lasciare la politica in caso di sconfitta al referendum costituzionale, le giravolte di Matteo Renzi ormai non si contano più. Francesco Curridori, Venerdì 16/08/2019, su Il Giornale. "Non sono pentito, le condizioni allora erano completamente diverse”. Matteo Renzidisconosce sé stesso e, al contrario di un anno fa, propone un governo con i Cinquestelle.

Il voltafaccia di Renzi sul governo M5S-PD. Un cambio di linea repentino e fatto senza alcun pudore. Non è certamente la prima volta che il senatore di Rignano sull’Arno ribalta completamente le sue posizioni ma le motivazioni sono alquanto bizzarre. “In quella fase l’accordo tra Pd e M5S avrebbe dato l’idea di un’intesa per le poltrone”, spiega affermando che ora siamo di fronte a “tutta un’altra storia rispetto a 18 mesi fa" perché Matteo Salvini ha aperto la crisi poco prima di Ferragosto. Sinceramente nutriamo qualche dubbio sul fatto che la nascita di un eventuale esecutivo Pd-M5S non dipenda dall’esigenza di salvaguardare le proprie poltrone ma, pur prendendo per buono le parole di Renzi, quale articolo costituzionale vieta di far cadere un governo in piena estate? Renzi ha agito per senso di responsabilità o forse per la necessità di sbarrare la strada a una vittoria di Matteo Salvini alle elezioni?

Il fallimento della "politica del pop-corn". Non sarebbe stato più responsabile avviare un governo Pd-M5S il giorno dopo le elezioni del marzo 2018, dal momento che l’esito delle urne decretava, sì, una debaclè del Partito democratico ma grillini e democratici rappresentavano le prime due forze in Parlamento? Il successo di Salvini fu evidente ma, stando alle percentuali, si posizionò terzo (M5S 32,5%, Pd 18% e la Lega 17%). In un qualunque altro Paese europeo, di norma, in situazioni di stallo, si forma un governo di grande coalizione tra i primi due partiti. In Italia nella primavera del 2018 avvenne diversamente perché Renzi preferì adottare la politica del “pop-corn”: mettiamoli alla prova, vediamo che sanno fare e aspettiamo che falliscano. Risultato? La Lega al 34% e il M5S al 17%. Un ribaltamento che, inevitabilmente, non poteva che portare alla fine del governo Conte. Ma, prima di proseguire, è bene ricordare quali furono le dichiarazioni pubbliche di Renzi in quei giorni concitati e nei mesi successivi. "Quando vedo certe capriole, sono orgoglioso di aver contribuito – insieme a tanti altri militanti – a evitare l’accordo tra il Pd e i Cinque Stelle. Lo ripeto: sono orgoglioso. Perché non è stata una ripicca, ma solo una constatazione: rispetto ai dirigenti Cinque Stelle noi abbiamo una diversa concezione dell’Europa, del lavoro, del futuro, dei diritti, della lotta politica contro gli avversari”, dichiarò l’ex premier il 4 maggio di un anno fa. E ancora: “Se hanno i numeri per governare, governino. Ma massimo rispetto anche per chi non vuole finire la propria esperienza come partner di minoranza della Casaleggio e Associati srl”. Parole che, probabilmente, erano rivolte a esponenti del Pd, come Dario Franceschini, che in quei mesi si era speso molto affinché i dem stringessero un patto con i pentastellati. “Il 5 marzo mi chiamò Franceschini, voleva un accordo Pd-M5S e Di Maio premier”, rivelò da Bruno Vespa l’ex segretario Pd. “Non mettevano veti, anzi si auguravano che portassi la mia esperienza in Italia o all’estero. Manco morto, risposi, io non ci sono, noi non ci siamo”, ribadì Renzi che, in quel periodo, aveva lanciato l’hashtag #senzadime.

Da #enricostaidereno alla promessa di lasciare la politica. Ma l’hasthag divenuto un vero cult è senza dubbio #enricostaisereno pronunciato il 17 gennaio 2014 nel corso del programma Le invasioni barbariche condotto da Daria Bignardi. “Mi piacerebbe arrivare a Palazzo Chigi passando dalle elezioni, non con inciuci di Palazzo”, disse l’allora segretario del Pd aggiungendo: “Diamo un hastag #enricostaisereno, nessuno ti vuol prendere il posto”. Morale della favola? Il 22 febbraio 2014 Renzi si insedia a Palazzo Chigi, ovviamente senza passare attraverso un voto popolare. Poi, da presidente del Consiglio, le bugie, o meglio le promesse mancate, aumentano. L’impegno di visitare una scuola ogni settimana viene disatteso dopo che alcuni bambini cantano per lui una canzoncina dando vita allo scoppio di inevitabili e fragorose polemiche. Il 13 marzo 2014, ospite di Porta a Porta, annuncia che avrebbe pagato i debiti della pubblica amministrazione entro il 21 settembre successivo.“Se lo facciamo, lei poi va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario”, aveva scommesso con Bruno Vespa. Il 23 maggio 2014, sempre a Porta a Porta, promette: “Entro l’anno noi andiamo a eliminare tutte le accise ridicole sulla benzina”. Nulla di tutto ciò è mai accaduto. Infine la madre di tutte le promesse mai mantenuta: il ritiro dalla vita pubblica in caso di sconfitta al referendum costituzionale. "Ho personalmente affermato davanti alla stampa e lo ribadisco qui davanti alle senatrici e ai senatori che nel caso in cui perdessi il referendum, considererei conclusa la mia esperienza politica”, dichiarò il 20 gennaio 2016 intervenendo a Palazzo Madama. Anche in questo caso sappiamo tutti com’è andata a finire… Visti i precedenti non escludiamo altri voltafaccia, compresa la possibilità di fondare un nuovo partito sebbene, dopo la vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie, Renzi avesse promesso che non avrebbe fatto da contraltare al nuovo segretario del Pd e tantomeno una scissione.

Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 16 agosto 2019. Zitto zitto Giuseppe Conte sopravvivrà a se stesso e al governo di squinternati gialloverdi destinato a morte semicerta, per reincarnarsi in una cosa più rossa che gialla perché sorretta dal Partito democratico. Gli è bastato fingersi svenuto per un paio di mesi dopo la conferenza stampa d'inizio estate in cui lanciava un improbabile ultimatum agli alleati litiganti («se non la smettete mi dimetto», e come no ); ovvero fare il morto a galla mentre Matteo Salvini preannunciava stentoreo una tempestosa sfiducia gravida di conseguenze fauste e nefaste al tempo stesso. Et voilà: la resistibile ascesa del Conte rosso, pronto per un bis, è diventata un tema di stringente e desolata attualità, la sola nota comprensibile nella concitata cacofonia parlamentare di queste ore. Un concerto per dilettanti allo sbaraglio (o già sbaragliati) in cui è quasi impossibile comprendere chi suona cosa e perché, inframezzato dalla silenziosa tessitura di un avvocato di provincia romanizzato nei salotti giusti e diventato celebre per il ruolo di mediatore tra Lega e Cinque stelle. Dal giugno 2018 a oggi, Conte è rimasto in apparenza identico a se stesso, pettinato e inamidato a festa come un fresco cultore della materia politica, ma in realtà si è progressivamente ritagliato uno spazio suo, una rete di protezione istituzionale italiana e straniera, un salvacondotto artificiale assemblato per contrasto rispetto al vociare contundente dei firmatari del contratto di governo. Impermeabile ai feroci motteggi di un' opposizione democratica che fino a ieri gli dava del decerebrato e oggi lo rivaluta come fosse Aldo Moro. Ha avviato la sua carriera a Palazzo Chigi lento e spaesato, il premier Conte, un po' scudo umano un po' arbitro di una partita più grande di lui. Ha impiegato tutte le sue ordinarie qualità di provinciale inurbato per non spaventare i manovratori pentaleghisti, dalla voce letargica al fraseggio incolore, e sempre in omaggio al troncare e sopire di manzoniano conio democristiano. Ma piano piano ha compreso che il Quirinale e i così detti poteri neutrali guardavano a lui, insieme con Giovanni Tria ed Enzo Moavero Milanesi, come al principale interlocutore utile a frenare le esuberanze sovraniste. Indicato da Luigi Di Maio con un gratta e vinci tra le mani, accettato dai leghisti con un grugnito d' indifferenza, è diventato presto il rassicurante beniamino di dame e cavalieri attovagliati nelle terrazze capitoline, nonché la riserva di Repubblica (il quotidiano-partito) che ne ha caricato a pallettoni la vanità gonfiandolo come l'anti Salvini al quale rivolgersi nei momenti di sconforto. Lui ci ha preso gusto, si è spinto fin dove era lecito osare e anche oltre, come in quel noto dialogo da bar con Angela Merkel in cui prometteva di contrastare le chiusure dei porti stabilite al Viminale e opporsi da par suo all' avanzata sovranista. A forza di strizzare l' occhio ai mandarini franco-tedeschi e agli euroburocrati, con l' incarico ufficiale di disinnescarne le intenzioni punitive sui nostri bilanci pubblici, Conte ha compreso che per lui il 2019 poteva davvero rivelarsi un «anno bellissimo». Al resto hanno pensato Matteo e Luigino, maschere battibeccanti di una commedia leggera all' italiana, e forse quel Padre Pio al quale il premier di Volturara Appula rende omaggi e preghiere costanti. Fatto sta che in un anno abbondante, al dunque, questo abitante della penombra è riuscito a emergere come un esordiente stimato perché mai veramente temuto, popolare come può esserlo un venditore ambulante di sogni, disponibile come uno specchio incantato pronto ad abbellire fattezze e colori di chi vi si accosti. E dal gialloverde al rosso, sebbene stinto, per lui, non c' è alcun salto cromatico impossibile. Quando poi nelle ultime settimane la lotta s' è fatta smisurata e hanno cominciato a volare i piatti, Conte non ha fatto altro che dissolversi in attesa di comunicare al Parlamento le proprie deduzioni. C' è da scommettere che rimarrà acquartierato fino all' ultimo istante, poi si manifesterà in Aula per bersagliare lo sfidante assediato (Salvini) con cavillosa acredine e infine riparerà contrito verso i divani di Sergio Matterella. Lì, accoccolato fra le tappezzerie regali, sfiduciato o dimissionario, il conte rosso pronuncerà le sue parole fatidiche: «Come posso continuare a servire la vostra maestà?».

Figura di Palta Show: vota la tua preferita. L'Espresso 13 agosto 2019. Chi fra i seguenti personaggi ha fatto la peggiore figuraccia negli ultimi 10 giorni? Sono stati e sono tuttora giorni difficili per la coerenza e la stabilità psichica di chi fa e segue la politica. Curve e controcurve, come diceva il mitico Adriano De Zan, rincorse e colpi di mano. E, complice anche il caldo, in molti hanno infilato spaventevoli figuracce. E questo è solo un elenco parziale. Scegliete la vostra preferita per eleggere il Peggiore di Ferragosto.

Luigi Di Maio: Che in 18 mesi ha svenduto la Tav, ha salvato Salvini, ha votato i decreti sicurezza e legittima difesa, e non gli è servito a niente.

Matteo Salvini: Che ha detto mille volte “questa legislatura durerà 5 anni” poi ciao.

Alessandro Sallusti: Che è uscito con l'editoriale “non ci sarà la crisi” il mattino in cui è caduto il governo.

Matteo Renzi: Che è passato dal "senza-di-me" al "basta-che-ci-sono-io".

Flavio Briatore: Che da Porto Cervo si propone come ministro di un governo del popolo con Salvini premier.

Giovanni Toti: Che è uscito da FI un giorno prima che Berlusconi rientrasse nei giochi (in ogni tragedia c’è un lato comico).

Nicola Zingaretti: Di cui si è visto che comanda nel Pd come io a casa mia.

Gaetano Quagliariello: Che non va a votare in Senato perché sta facendo il cammino di Santiago.

Dario Franceschini: Che sembra sparito poi riemerge sempre come nuovo a ogni riposizionamento-ribaltone

“POLITICI CON LA FACCIA COME IL CULO!” di Pina Fasciani. Luciano Odorisio il 5 Marzo 2019. Sferzante richiamo ad un po’ di dignità nel PD da parte dell’appassionata Pina. “Le facce di cu…o.  Una tra le tante cose che il PD dovrebbe riconquistare è la credibilità. Nelle proposte politiche e nei suoi rappresentanti. Prendiamo  i rappresentanti. Molti che fino a ieri erano Renzianissimi, l’altro ieri erano Bersaniani, oggi si ripropongono Zingarettiani con la scusa che “basta con il fuoco amico”. Così si riciclano. Credibilità sottozero. Ne avrete di esempi sotto gli occhi! Io ho un lungo elenco in Abruzzo. Fateci caso sono più o meno sempre gli stessi che da decenni stanno sempre lì a testimoniare una categoria quella dei recicloni, non rosiconi, ma recicloni. Oggi sono diventati dei veri e propri professionisti del genere. In questo caso aveva perfettamente ragione il povero Giacchetti che esprimendo un aulico pensiero politico affermava ” hai la faccia come il cu…o!” . Ora io dico : Cercate almeno di passare inosservati. Neanche quello! Dichiarano, commentano, propongono. Si affrettano “urbi et orbi” a farlo sapere! Lo fanno in nome dell’unità, quella che secondo loro pareggia i conti, rimette le cose a posto, cancella tutto. Tapini! Si assiste a un delirio di dichiarazioni, di sostegno leale, di “sincero” quanto appassionato impegno per iniziare un nuovo corso. Con loro naturalmente. Ma ciò sarebbe il minimo se non fosse che costoro sono disponibili ad accettare qualsiasi proposta politica, anche le torsioni a destra…e chissà che altro, pur di restare a galla. Tutto sommato fanno pena,   si rendono conto che la faccia come il cu…o si vede tale e quale, ma resistono stoicamente! Finché dura per restare dove sono va bene così. Certo è faticoso eh! Ci vuole un certo impegno, applicazione, sempre tesi per capire dove soffia il vento! Na faticaccia! Buttateli fuori.” Pina Fasciani .

Paola De Micheli. A questo proposito ho appena letto che probabilmente Paola De Micheli, ex bersaniana di ferro, poi lettiana, renziana, sembra sarà la vice di Zingaretti…sigh!  Cominciamo bene …

Un paese di facce da culo! Renzi & C. attaccano Conte: “non eletto dagli Italiani”… Ma dove erano queste facce da culo quando hanno governato Monti, Letta, Gentiloni e… soprattutto lo stesso Renzi che, dopo aver distrutto il Paese senza essere stato votato, ora pontifica…Il Fastidioso 22 maggio 2018.

Conte premier non eletto? Di Maio: "Era nella mia squadra, lo hanno votato 11 milioni di italiani". Alcuni opinionisti e quotidiani come “Il Giornale” parlano di Conte premier non eletto. Luigi Di Maio ha risposto a chi diffonde queste voci nel corso del suo intervento al termine del colloquio con il Capo dello Stato: “A chi dice che non è stato eletto, rispondo che Giuseppe Conte era nella mia squadra, lo hanno votato 11 milioni di italiani”, ha detto. Il capo politico del M5S ha anche affermato che ora “siamo di fronte a un momento storico”. M5S e Lega, ha proseguito, hanno “indicato il nome di Giuseppe Conte al presidente della Repubblica”. “Un nome – ha spiegato – che può portare avanti il contratto di governo”. Di Maio si è detto “particolarmente orgoglioso di questa scelta” in quanto Conte “sarà un premier politico di un governo politico, indicato da due forze politiche, con figure politiche al proprio interno”. “E soprattutto – ha aggiunto – con il sostegno di due forze politiche votate”. Il leader 5 Stelle ha sottolineato che non ci sono stati cambi di casacca, ovvero “persone che vengono dal gruppo misto e che entrano in altri gruppi”. “Questo – ha continuato – lo spirito che volevamo dare al governo”. Di Maio ha poi ribadito l’obiettivo del Movimento 5 Stelle: “migliorare la qualità della vita degli italiani”. “In questi 80 giorni – ha detto – abbiamo imposto un metodo: prima si è discusso di temi e poi di nomi”. I 5 Stelle hanno “portato al governo il nostro programma elettorale”, ha aggiunto il numero uno pentastellato: “dal Reddito di Cittadinanza al superamento della legge Fornero, a più spazi di bilancio in Europa, dalla lotta al gioco d’azzardo, al superamento della buona scuola, alla sanità, con la meritocrazia per chi è a capo degli ospedali.” Poi la replica agli attacchi che arrivano dall’Europa: “fateci partire prima. Poi ci criticate, ma almeno fateci partire”. “Se il presidente Mattarella valuta giusto il nome – ha concluso – allora sarà un governo politico che mette al centro le questioni politiche.”

Le facce da culo della politica. Beppe Grillo su Affari Italiani mercoledì, 15 giugno 2011. La maschera rossa è già entrata nel castello dove sono trincerati i partiti. Loro, però, fanno finta di nulla. L'allegra brigata crede di essere immune al cambiamento, alla peste che la distruggerà. E' come un morto che cammina, ma non sa di esserlo. Le cinte di mura che ha costruito in tanti anni di regno, in apparenza solide come quelle di Costantinopoli, per escludere i cittadini da ogni aspetto della cosa pubblica cominciano a franare. La partitocrazia si crede invulnerabile e, fino ad ora, ha avuto buoni motivi per pensarlo. Vive da decenni tra agi e privilegi, opera per editti indiscutibili da coloro che tratta da sudditi. Si è autoeletta e si è propagata in ogni ganglio del Paese, in ogni struttura pubblica e privata, come una metastasi della democrazia. In alcuni momenti si è sentita perduta, ma non si è mai persa d'animo, ha fatto una capovolta come nel '92, si è rifatta il belletto e si è ripresentata all'elettorato. Ci hanno pensato poi i giornali e la televisione a trasformare in vergini delle vecchie baldracche. Ora il gioco è finito, la Rete ne mostra le rughe, le falsità, i bubboni. Le eterne facce da culo abbozzano, depistano, confondono. Credono, come i vecchi mafiosi, che il vento passerà e sia sufficiente farsi canna per poi rialzarsi quando il tempo tornerà al sereno. Dopo il risultato del referendum si sono presentate di fronte agli italiani da vecchie maitresse consumate per recitare la solita stanca parte, non accorgendosi che non se le vuole trombare più nessuno. Hanno trasformato la vittoria degli italiani in una loro vittoria. Un voto per il futuro del Paese in un voto politico. Fini, Casini e Rutelli hanno dichiarato: "La grande partecipazione popolare ai Referendum dimostra la volontà degli italiani di tornare ad essere protagonisti: é ormai chiaro che la maggioranza e il governo sono totalmente sordi, incapaci di capire ciò che vogliono gli italiani". Dopo Fukushima Fini era ancora nuclearista senza tentennamenti e Casini pure. Fini: "Il problema della sicurezza nucleare va al di là dei confini nazionali. Ci sono centrali in Slovenia e in Francia e se lì ci fossero dei disastri colpirebbero anche noi. Da più parti inoltre ho letto che le centrali giapponesi non sono di ultimissima generazione. In Italia si parla di centrali nucleari di ultimissima generazione. Il mio auspicio è che non si decida sull'onda dell'emozione". Casini: "Sarebbe il caso che il governo passasse dalle parole ai fatti altrimenti tra dieci anni saremo ancora fermi a discutere". Il supercazzolaro Vendola che non ha reso pubblica la gestione dell'acqua in Puglia, non si è smentito: "Oggi vince l'Italia dei beni comuni, perde l'Italia delle lobbies, perde un pezzo abbastanza pregiato dell'ideologia liberista che ha governato le sorti del mondo". Le due maitresse anziane, quelle con più esperienza, hanno espresso la loro migliore faccia da culo per l'occasione. Bersani ha spiegato con la sua esse blesa che l'acqua "per forza" non va bene,ma l'acqua privatizzata "per volontà" dei pubblici amministratori è più buona. Il Pdmenoelle ha già una legge calda-calda. Il cadavere di Berlusconi ha affermato "Dovremo impegnarci fortemente sul settore delle energie rinnovabili". E' lo stesso figuro che rassicurava fino a ieri Sarkozy sul nucleare e bombarda il fratello Gheddafi. Gargamella Bersani ha detto che il Paese ha divorziato dal centro destra. Non è vero. Il Paese ha divorziato dai partiti, ma le facce da culo non lo hanno ancora capito.

Grillo contro il Pd: "Hanno la faccia come il culo, stanno facendo un mercato delle vacche". I democratici sono in cerca di voti per creare una maggioranza, ma il leader del Movimento 5 Stelle denuncia la campagna acquisti del Pd: "Questi hanno la faccia come il culo. I vertici del pdmenoelle si stanno comportando come dei volgari adescatori". Errani: "Non esiste nulla di tutto questo". Libero Pennucci, Venerdì 01/03/2013 su Il Giornale.  La stagione dello scouting è ufficialmente aperta e Grillo ha paura. Minaccia il Pd e avvisa i suoi: "Il Movimento 5 Stelle non è in vendita". È un atto di accusa ma anche un monito. Ai suoi. "Questi hanno la faccia come il culo. I vertici del pdmenoelle si stanno comportando come dei volgari adescatori", attacca l'ex comico dal suo profilo Twitter. Poi rincara la dose:"In questi giorni è in atto il mercato delle vacche. Al M5S arrivano continue offerte di presidenze della Camera, di commissioni, persino di ministri. Il Pdmenoelle ha già identificato a tavolino le persone del M5S per le varie cariche dando loro la giusta evidenza mediatica sui suoi giornali e sulle sue televisioni. È il solito modo puttanesco di fare politica. Per attuarlo però ci devono essere persone disposte a vendersi. E il M5S, i suoi eletti, i suoi attivisti, i suoi elettori non sono in vendita". "Bersani è fuori dalla storia e non se ne rende conto - prosegue Grillo - i giochini sono finiti e quando si aprirà la voragine del Monte dei Paschi di Siena forse del pdmenoelle non rimarrà neppure il ricordo. Renzi che come uniche credenziali ha quelle di aver fatto il politico di professione senza nessun risultato apprezzabile ora si candida a premier, ma non aveva perso le primarie? Questi hanno lafaccia come il culo". "Per la sua elezione - continua - Bersani e Errani sono convinti di avere il sostegno decisivo di molti senatori 5 Stelle. Il lavoro di scouting sarebbe andato in porto". In altre parole i vertici del pdmenoelle si stanno comportando come dei volgari adescatori. Questa è politica? Fare compravendita? Affermare una cosa il giorno prima e contraddirsi il giorno dopo per convenienza post elettorale? Il M5S è composto da persone responsabili che vogliono un cambiamento radicale della morale pubblica, fermarlo è impossibile, in particolare con i soliti giochini da palazzo. Grillo ribadisce che i parlamentari pentastellati voteranno decidendo provvedimento dopo provvedimento, senza allearsi con nessuno: "I gruppi parlamentari del MoVimento 5 Stelle non dovranno associarsi con altri partiti o coalizioni o gruppi se non per votazioni su punti condivisi" . "Il Codice di comportamento degli eletti è stato firmato da tutti i candidati e reso pubblico agli elettori prima delle elezioni, Queste regole erano note a tutti, al politburo del pdmenoelle compreso. Se il pdmenoelle vuole trasformare Camera e Senato in un Vietnam il M5S non starà certo a guardare". Grillo sputtana il Partito Democratico ma lancia anche un memento ai suoj giovani e scalmanati parlamentari. Immediata la replica di Vasco Erraniche respinge al mittente le accuse: "Non esiste nulla di tutto questo, da questo punto di vista noi facciamo quello che diciamo: niente tavolini, niente tavoletti, niente rispetto la vecchia politica, niente accordi sottobanco". A sostegno della posizione di Grillo arriva anche un'intervista di Gianroberto Casaleggio rilasciata al Guardian: "Il Movimento 5 Stelle non appoggerà nessun governo. Il presidente della Repubblica deciderà a chi dare il mandato, per tentare di fare un governo. Lui deciderà se ci sono le condizioni per formare un governo e se quel governo ha la fiducia alla Camera e al Senato. Noi non vogliamo entrare in quel processo".

La vera crisi l'abbiamo vista in diretta: ed è la catastrofe di una classe dirigente. Salvini, Renzi, Casellati, Marcucci. La seduta agostana del Senato ha mostrato il problema più grave di questo Paese: la spaventosa pochezza culturale, etica e soprattutto umana dei protagonisti della politica. Alessandro Gilioli il 14 agosto 2019 su L'Espresso. L'avete vista, la chiave del disastro (politico, etico, economico, culturale) in cui si trova questo Paese. L'avete vista ieri, martedì, in diretta, nella sequenza andata in onda sulla crisi: Renzi, Salvini, Casellati, fino ai comprimari come Marcucci. Il che non vuol dire mettere tutti sullo stesso piano - ci mancherebbe, esistono molte gradazioni e sfumature di peggio nella vita - ma insieme ieri pomeriggio hanno dipinto un quadro impressionista (e impressionante) in cui era rappresentata tutta la qualità della classe politica che abbiamo: e sto parlando proprio di qualità umana, di sistema cognitivo, di intendimenti, di visione delle cose. Con il menzognero e quasi burlesco cappello degli "interessi del Paese" continuamente tirato in ballo proprio mentre si palesava come l'unico interesse sia se stessi, la propria parrocchia, il proprio team di potere. E l'unico scopo è allargarlo o difenderlo, comunque sottrarne pezzi alla squadra avversaria, in un vorace Risiko e in una totalizzante estensione dell'io che non lascia spazio a nient'altro.

L'io, sempre davanti a tutto. L'io di Renzi, il primo andato in scena, così tronfio di sé, così eccitato di essere tornato protagonista, di poter manovrare a piacere quei gruppi parlamentari che domani potrebbero essere decisivi. Un io talmente tracimante da renderlo poco credibile - zero credibile - perfino quando diceva cose di buon senso, tanto era evidente che erano di buon senso solo per caso, perché fortuitamente coincidono oggi con i suoi interessi personali e di corrente, con i suoi disegni, con le sue strategie – e domani chissà. Io io io, sempre davanti a tutto, io pronto a cambiare idea su tutto in ogni momento a seconda di quello che conviene, io passato in un attimo dai popcorn alla trattativa, dal mai all'adesso, dal senza-di-me al basta-che-ci-sia-io,io che mi intesto una nuova possibile maggioranza per dettarne le condizioni e tenerla in pugno, io che così mi tengo aperta ogni strada, riprendermi il Pd o farmi il partito con Carfagna, io di cui non potete fare a meno, da cui non potete prescindere, eccomi qui, mi davate per morto e ora dovete di nuovo fare i conti con me, altro che senatore semplice, altro che osservatore esterno, altro che «mi interesso solo dei democratici americani».

E poi subito dopo, l'io assai più spaventoso di Salvini in Senato, postura e ghigno da gangster, in piedi a mandar baci di scherno a chi lo contesta, ad allargare le braccia fingendo umiltà, a simulare cortesie per poter subito dopo azzannare meglio, a chiamare beffardamente "amici" tutti quelli che vorrebbe veder morti - «l'amico Di Maio», «gli amici 5 Stelle», perfino «gli amici del Pd» , e poi ancora altre infinite derisioni, «vi vedo belli frizzantelli», tutto circondato da maschi sessantenni in cravatta che ridono servili, che ridono esageratamente per mostrare la propria fedeltà, tutti della stessa pasta del Capo e quindi probabilmente pronti domani a tradirlo se le cose andassero male, del resto sono entrati in politica sventolando l'indipendenza della Padania e adesso eccoli ad applaudire come patrioti da sempre, quando dal boss parte l'urlo «Viva l'Italia!».

Un urlo incredibile, per quello che c'era dentro. L'Italia? Ma l'Italia ieri in quell'aula era solo un boccone da sbranare, uno scalpo da esibire, un terreno su cui spadroneggiare, non certo scopo ma spudoratamente mezzo, mezzo di estensione del sé, del “comandare che è meglio che è fottere”, un Paese sacrificato al testosterone di anziani machos in cui libido e potere si mescolano fino a diventare una cosa sola. Già, l'Italia. L'Italia uscita a pezzi da vent'anni di berlusconismo e da trent'anni di lotta di classe mondiale dall'alto verso il basso, l'Italia derubata e colpita al cuore ma che dimentica tutto. E per dimenticare ancora di più, si droga di slogan e promesse, di capi da adulare e innalzare sempre più in alto per il sadico gusto di vederli poi precipitare, il tutto rivestito da un'estetica trash gabellata per popolare (ma perché il popolo non dovrebbe avere diritto al bello, invece? Perché si falsifica per "popolare" ciò che è pattumiera? Quanto c'è di profondamente classista e di destra in questa identificazione del popolare col brutto?).

L'Italia, appunto. L'Italia a cui uno spera siano almeno rimaste le istituzioni, le alte cariche dello Stato, quelle personalità che se non altro per ruolo non dovrebbero pensare più solo a sé e alla propria tribù di appartenenza ma al Paese fuori, insomma quelli da cui ti aspetti ingenuo un colpo d'ala.

E poi invece vedi Casellati, il primo frutto avvelenato di questa legislatura, Casellati che strillava già eversiva sulle scale del tribunale di Milano, Casellati che giurava su Ruby nipote di Mubarak - e diventare la seconda carica dello Stato purtroppo non l'ha per nulla cambiata, anzi. Ed eccola lì, sullo scranno più alto, a chiamare Salvini "Presidente" (ma presidente di cosa, santo Dio?), a fingere di fare l'arbitro quando ogni suo tono gesto e parola tradiva gli ordini ricevuti dall'alto, il centrodestra unito, la vecchia e nuova coalizione in cui magari lei farà il ministro della Giustizia, la vita è lunga, non sia mai che si corra il rischio di finire in penombra. Casellati, che imbarazzo per lei, assai più imbarazzo che rabbia, imbarazzo per quanto enormemente e visibilmente è “unfit” al ruolo che copre. Casellati seconda carica dello Stato, e poi abbiamo il coraggio a parlare ai ragazzi di meritocrazia, chissà perché non ci crede nessuno.

Infine gli altri, le seconde linee, i comprimari. Tra questi, il capogruppo del Pd Andrea Marcucci, che Dio lo perdoni, il rampollo milionario Marcucci che entrò in politica a destra e a destra divenne deputato a 24 anni con una campagna elettorale da mezzo miliardo, prima di capire che nella sua Toscana gli affari migliori si facevano a sinistra - la sinistra intesa come complesso produttivo, industriale e turistico - e allora ecco la Margherita, e la relazione a 360 gradi con quel giovane presidente della provincia di nome Matteo Renzi. Marcucci, mezza dozzina di poltrone tra holding finanziarie e industrie di emoderivati, Marcucci imperatore del Ciocco, Marcucci dominus incontrastato di un partito-vallata nella sua Lucchesia, Marcucci che nell'aula del Senato dovrebbe rappresentare l'alternativa a Salvini, mamma mia. Marcucci che prende la parola e sbraita con Casellati per parlare anche lui un quarto d'ora ma poi ha concetti in testa per occuparne a stento sei, Marcucci abbronzato che accusa l'altro di essere più abbronzato di lui, Marcucci che si impantana in un italiano approssimativo e in una sintassi incertissima, «e noi oggi è una bella giornata», un altro che parlando manda un messaggio chiaro ai giovani di questo Paese: non studiate, non sbattetevi, chi nasce bene e sa manovrare vince sempre, gli altri anneghino. Marcucci che ha pure il coraggio di chiudere il suo triste spettacolo parlando di «senso dello Stato», senza rendersi conto che con gente così rischia di essere lo Stato a far senso. Ecco, questo abbiamo visto, crudamente, transitare martedì 13 agosto davanti ai nostri occhi. Non solo la crisi politica e nemmeno la crisi istituzionale, di sistema, in cui pure siamo immersi. Ma anche una gigantesca catastrofe culturale, etica e soprattutto umana di un'intera classe dirigente.

Così Salvini ha disarticolato tutti i partiti italiani, Lega (Nord) compresa…Paolo Delgado 14 Agosto 2019 su Il Dubbio. La nuova geografia politica, la strategia di Salvini che ha cambiato tutti i partiti non esclusa la stessa vocazione nordista della Lega tradizionale. Cosa riservi il futuro a Matteo Salvini, se riuscirà o meno a trasformare in governo le sue indiscutibili doti di propagandista e agitatore, nessuno può oggi dirlo. Ma sin qui si può invece affermare che nessuno è riuscito quanto lui a incidere sui partiti esistenti, a mutarli geneticamente, svuotarli, disarticolarli. Il primo è stato proprio la Lega Nord. Il partito con cui oggi Salvini tenta la scalata al governo ha ben poco in comune con la Lega di Umberto Bossi, in nessuna delle sue versioni: il partito “federalista” del settentrione, quello secessionista padana, il partito di governo di questo millennio. Di quella Lega Salvini ha mantenuto gli umori rancorosi, si è rivolto, allargandola, alla stessa base sociale, ha recuperato i toni ringhiosi del primo Bossi, che in realtà la Lega aveva deposto al momento di tornare al governo con Berlusconi nei primi anni 2000. Ma nel profondo ha stravolto gli obiettivi, la ragione sociale e la struttura interna della Lega trasformandola nel suo partito, modellato su se stesso. Le lacerazioni di Fi non possono essere tutte addebitate al leader leghista. Preesistevano. Si erano sempre più acuite via via che, col passare degli anni, Silvio Berlusconi, unico vero collante del partito azzurro, vedeva indebolirsi la sua presa. Su quel castello diventato fragile Salvini si è abbattuto come un ciclone, mettendo in moto una serie di processi centrifughi che non accenna a placarsi e il cui risultato, in termini di voti, è il progressivo e implacabile svuotamento del serbatoio elettorale forzista. Con l’M5S la missione sembrava più difficile. Quello era un partito sulla cresta dell’onda, non in declino come l’armata di Arcore. Un partito fortemente ideologico che nel 2018 aveva stravinto d’impeto le elezioni e in Parlamento vantava una forza doppia rispetto a quella dell’alleato di governo. Salvini non ha puntato ha spaccare il gruppo dirigente, non ha cercato di innescare anche qui dinamiche centrifughe. Ha scommesso sul divorzio tra quel vertice e una parte sostanziosa della base elettorale. Ha offerto alla parte più affine alla base leghista dell’elettorato pentastellato, quella più animata dagli stessi umori più che dalla stessa ideologia, un prodotto migliore. Più netto. Più inferocito. Più drastico. L’ultima vittima di Matteo Salvini è il Pd. Questione di tattica, non di strategia. Pescare nel bacino elettorale dem non è mai stato obiettivo del leghista. Quell’esodo c’è, ma c’è da decenni e porta la firma dell’ex iscritto al Pci Umberto Bossi, non quella dell’ex “comunista padano” Salvini. Ma quando si è trattato di giocare di sponda, chissà quanto esplicitamente, il leader della Lega non ha esitato a strizzare l’occhio al nemico numero uno Zingaretti. Lo stato di guerra civile permanente nel quale versa il Pd ha fatto il resto. Un partito che da anni si lacerava sull’opportunità o meno di intavolare dialoghi e trattative con l’M5S è infine esploso quando nel suo campo è entrato il capo leghista. E’ certo che Salvini mirasse a questi risultati. Ma se è riuscito tutto sommato con estrema facilità a scompaginare in meno di due anni l’intero quadro politico italiano è perché quel quadro era già minato da una debolezza intrinseca. La bomba Salvini è esplosa alla fine di un decennio segnato dal miraggio “né di destra né di sinistra” ( messo in campo per primo, con larghissimo anticipo, proprio da Bossi). Era la formula magica che permetteva ai 5S di pescare voti ovunque, ma era anche la chiave del Pd renziano, per cui la collocazione nel “centrosinistra” era pura liturgia, e in realtà persino l’ultima Forza Italia si connotava come punto di riferimento dei “moderati” più che della destra, tanto che sul piano della giustizia e in alcune aree, come quella di Mara Carfagna, anche della difesa dei diritti era spesso più a sinistra del Pd. Uscita di scena An, le bandiere tradizionali della sinistra e della destra erano rimaste nelle mani di formazioni minori, la sinistra radicale, devastata dalle sue stesse divisioni dottrinarie e la destra di FdI, costretta in un perimetro limitato dall’ombra lunga del Msi neofascista. La grande bugia del “né di destra né di sinistra” era la fragilità strutturale insita in quella mappa politica. Salvini è irrotto in campo presentandosi come forza apertamente di destra. Senza discendenze genealogiche scomode con il neofascismo ma neppure chiuso nel recinto, diventato all’improvviso angusto, del moderatismo. Salvini, comunque vada a finire la sua parabola politica, ha svelato l’inganno nascosto dietro quella formula ipocrita e con ciò ha provocato le detonazioni a catena che hanno squassato Fi e smnatellato il rapporto fiduciario tra i vertici 5S e la loro base. Ancora oggi il suo asso nella manica è l’aver capito per primo e quasi da solo che quella pudibonda negazione di un’appartenenza alla destra o alla sinistra, cresciuta prima che la crisi del 2008 cambiasse tutto, ha fatto il suo tempo.

Matteo Salvini fregato, Renato Farina: mossa dopo mossa, ecco chi lo ha tradito. Renato Farina su Libero Quotidiano il 17 Agosto 2019. L'errore di Salvini, a cui sta cercando di rimediare, usando identica machiavellica moneta, è di essersi fidato degli avversari. Ora prova anche lui a far finta di non aver sfiduciato sul serio il governo. Forse la sua mozione era solo un pizzicotto per svegliarlo, un gavettone goliardico sulla testa pettinata del damerino Conte. Vedremo se il ministro dell' Interno tutt'ora in carica si sarà fatto furbo in questi quattro giorni di mal mangiare e mal dormire. Intanto qui facciamo l'elenco dei traditori. Proveremo a spiegare come l' hanno fatto fesso, beffando il Matteo da Giussano come un qualsiasi ciula dell' oratorio. Aveva anche i proverbi dalla sua. Antichi detti insegnano che peggio dei nemici ci sono solo gli amici e i parenti. Anche i nemici però se la cavano nel fotterti quando si avvicinano come amiconi dandoti ragione. Cappuccetto rosso insegna. Fidarsi, senza avere i numeri in tasca, in politica equivale a un tentato suicidio. Per fortuna che i harakiri non sempre riescono. Qualche volta se ci si butta a capofitto dal settimo piano, come ha fatto il leader della Lega in quest' agosto, si rimbalza su una tenda e ci si ritrova con qualche bitorzolo ma in piedi. Martedì sera, l' antivigilia di Ferragosto, al Senato Salvini aveva intuito la fregatura, e ha provato ad aprire l' ombrello sull' abisso. Lo ha fatto in modo apparentemente dilettantesco parlando di voto per tagliare i parlamentari e poi votare subito. Assurdo. In realtà era una manina non tanto gelida offerta ai grillini. I quali per bocca del capogruppo Stefano Patuanelli - Libero è stato il solo a notarlo - hanno offerto la via d' uscita: «Mi aspetto quindi che venga ritirata la proposta del presidente Romeo». E notavamo profetici: «Ci sono sei giorni perché Lega e M5S si ritrovino come fratelli. Forse anche per questo oggi Salvini non ha ritirato i ministri. Forse però è un po' tardi per fare macchina indietro». Questi giorni, queste ore sono talmente variopinte di ipotesi finte e di balle vere, che le sole cose certe sono le trappole in cui Salvini ha messo un piedino, due piedini, infine il capoccione. Da cui cerca di trarsi fuori. Mascalzone latino Matteo Renzi, il mascalzone latino. Matteo Salvini non ha mai odiato il capitano del Giglio. A dire il vero neanche viceversa. Tra corsari di flotte diverse ci si cannoneggia ma ci si rispetta. Così, dinanzi ai ripetuti no dei grillini su autonomia, cantieri, flat tax il vicepremier leghista ha deciso di rompere. Sapendo che M5S+Pd+Leu sono maggioranza in Parlamento, ha sondato i dem per capirne le intenzioni. Non è scemo. Non gli era bastata la direzione del Partito democratico del 21 luglio dove si proclamava solennemente la volontà unanime di andare ad elezioni. Si sa: i comunisti sono specialisti nel contrordine compagni. Così Matteo si è deciso a stipulare un patto con l' omonimo toscano, tutto meno che comunista, anzi il loro rottamatore, secondo la vulgata. Come Pinocchio ha deciso di andare da colui che è insieme il Gatto e la Volpe. Costui controlla più del 50 per cento dei senatori, destinati in caso di elezioni a essere soppressi da Nicola Zingaretti. Renzi è deciso a spaccare il Pd, per andare al voto da solo - gli fa sapere. Ha fatto i calcoli, Renzi, e conta di valere un 8 per cento. La richiesta fatta arrivare dal Giglio viola, ma anche piuttosto verde di vergogna a questo punto, era che la Lega evitasse qualsiasi accordo elettorale con Forza Italia, così da consentire al Fiorentino di imbarcarsela lui, almeno in parte, superando il dieci per cento, e andando verso il 15 per cento. A questo punto la Lega poteva vincere da sola o scegliere se allearsi per superare il 50 per cento dei seggi con Fratelli d' Italia o trasformarsi in un partito democristiano e di destra alleandosi poi con il Centro Renzian-Forzista. Salvini se l'è bevuta? Così pare. Fateci caso. Non ha dato segno alcuno, se non dopo le dichiarazioni da piazzista di Matteo Renzi, di riavvicinarsi ad Arcore. Un attimo dopo l'apertura sostanziale (ma non formale!) della crisi, Renzi si è rimangiato tutto, dichiarazioni pubbliche e promesse private. Ha proposto un nuovo governo con il detestato Di Maio, in nome dell' interesse nazionale addirittura, il cui ombelico naturalmente sta sull' Arno. Niente da dire. Un diavolo vincente, uno che fa scherzi da seminarista in gita con una lieta coscienza da vero mascalzone di sagrestia o da doppia morale togliattiana. Per questo Salvini il 13 agosto gli ha tirato sette palle in faccia, e mai ha colpito Di Maio e tanto meno Zingaretti. Ci sperava, povero Salvini. traditore anguillesco Nicola Zingaretti, il traditore anguillesco. Caspiterina. Di Zingaretti dicevano tutti che non ha carisma, raccoglie consensi tra gli italiani come Trump in Palestina e Salvini tra i senegalesi, però è una brava persona. A suo nome, ancora il 10 agosto era intervenuta in Rai la sua vice, Paola De Micheli spergiurando: «Non esistono le condizioni politiche per un altro governo, almeno con il Pd: è la linea che la direzione nazionale ha approvato 15 giorni fa all' unanimità». È quanto aveva assicurato a Salvini anche il fratello di Montalbano in persona. Poi cosa è successo? Prima il governatore del Lazio ha lasciato andare avanti il suo ideologo, Goffredo Bettini, il quale ha corretto il disegno minimalista renziano (governino di emergenza) in un governone, anzi in un governaccio di legislatura, consentendo così a Zingaretti di non sembrare al traino del fiorentino, e meritandogli la medaglia di salvatore dell' unità del Pd. Titubava, girovagava, sfuggiva nelle paludi tiberine. Infine è arrivata la telefonata di Rasputin, al secolo Romano Prodi: guai a cedere l' Italia al fascista e razzista Salvini. Noi riteniamo che finga, gli fa comodo questa versione. Ci sovviene che il compianto Massimo Bordin, in una delle ultime esibizioni nell' imperdibile rassegna stampa su Radio Radicale lo aveva ritratto così: «Ricordo che Zingaretti nella federazione del Pci era soprannominato Anguilla». Bisognava ricordarlo a Salvini.

Volta rousseau Beppe Grillo, il volta Rousseau. Serve rammentare le intemerate del fondatore e garante politico del Movimento 5 Stelle contro il Pd? Lo ha costantemente equiparato al partito dello Psiconano, qualificandolo come "Pidimenoelle". Ha attaccato in modo violento Renzi, ma non solo, ha preso di mira la sua famiglia. Ha sempre proclamato l'"elevazione" morale e intellettuale sua personale e dei suoi "meravigliosi ragazzi", a cui del potere non importerebbe nulla, ma lasciano volentieri agli italiani di meritarsi gli stronzi che vogliono votare. Aveva vietato ai suoi discepoli qualsiasi rapporto impuro. L' accordo tra M5S e Lega era chiaro: il contratto dura tutta la legislatura, se viene rotto, si va a elezioni. Niente da fare. Il motto di Grillo, passato volentieri a Di Maio, è stato: sopravvivere. Garantirsi da mangià, tradire l' onestà, parapapà. Il salto del Grillo è come quello della Quaglia.

Damerino senza qualità Giuseppe Conte, il damerino senza qualità. È un traditore anomalo. Non si troverà mai una frase da lui pronunciata che si possa mettere contro un' altra sua proposizione detta o scritta. È un maestro dello sfilarsi da tutto meno che dalla cadrega. Il capogruppo della Lega al Senato, Romeo, ha depositato una mozione di sfiducia. Non fa piacere. Non c' era però neppure una punzecchiatura personale. I bersagli erano i ministri pentacretini del no. Ancora in aula, martedì, Salvini l' aveva quasi accarezzato. Neppure una parolina. Come dire: non sei tu il problema, avvocato nostro, rifugio dei peccatori. Ed ecco che nel momento di difficoltà obiettiva di Salvini, di incertezza sul futuro di questo Paese, che fa Conte? Non gli esprime dissenso politico. No, suadente e falso come una cipolla, gli scrive una lettera in cui lo chiama «Gentile ministro dell' Interno, caro Matteo» e quindi lo infilza come si usa in curia con uno stilo: lo accusa di «sleale collaborazione, l' ennesima» nella vicenda dei «porti chiusi» e di Open Arms. Slealtà è un aggettivo morale, non politico, è un insulto personale. Dopo di che, prende forse il coraggio a due mani e fa sbarcare i profughi prendendosi la responsabilità del gesto, come farebbe un premier serio, una Thatcher? Figuriamoci. Si mette a posto il colletto, compiaciuto dei complimenti. Come dicono in Texas, ha il cappello in testa, ma niente bestiame, solo il cravattino da damerino. Detto questo vedremo se Salvini saprà rendere a un brigante un brigante e mezzo, e fregandosene di quanto potranno rimproverargli gli altri, districarsi per impedire che vada su un governo che sarebbe il peggio del peggio. Non ci credete? A dispetto dei propositi di Renzi, a Milano è apparso già un bel manifesto che spiega la linea del prossimo governo Fico-Delrio-Boldrini. Migranti e manette a gogò. Come si legge nel manifesto del circolo Pd di Porta Romana, vero pesce pilota della Balenottera rossa, si annuncia già l' esibizione del dottor Armando Spataro, che da procuratore di Torino vagheggiava processi contro Salvini («Non si può respingere in mare gli immigrati e non vagliare la loro richiesta di status di rifugiato politico. Se accadesse il contrario, tale comportamento sarebbe oggetto di una nostra indagine») e di Emanuele Fiano, che vede fascisti da incarcerare dappertutto. Trova un pretesto, un ghirigoro, una riverenza, ma fermali. Renato Farina

Feltri, Salvini e "l'ora del coglioni": "Ecco come puoi evitare di consegnarci ai comunisti del piffero". Libero Quotidiano il 17 Agosto 2019. In Emilia e in Romagna si dice saggiamente che l' ora del coglione piglia tutti. Gli uomini sbagliano e quelli che ammettono i propri errori ne dimezzano la gravità. Mi pare quindi che a Salvini convenga riconoscere di aver calpestato una buccia di banana allorché ha deciso di aprire la crisi di governo al buio, mandando al diavolo il premier Conte, chiedendone la sfiducia, e i grillini con i quali bene o male ha collaborato per oltre un anno. La topica consiste nel fatto ineluttabile che i pentastellati hanno immediatamente intavolato trattative con il Pd (Renzi e Zingaretti) allo scopo di costituire un esecutivo alternativo a quello attuale. Vero che i progressisti per mesi avevano dichiarato pubblicamente: «Piuttosto che allearci con i grillini ci spariamo». Ma erano chiacchiere a cui il Matteo lombardo aveva ingenuamente creduto. Egli in sostanza ha abboccato e ha lanciato il cuore oltre l' ostacolo supponendo che, essendo impossibile un patto tra M5S e progressisti dei miei stivali, l' unica soluzione fossero le elezioni anticipate che Alberto da Giussano avrebbe affrontato con le mani in tasca, forte dei sondaggi che lo davano vicino al 40 per cento. Col cavolo. Le indagini demoscopiche annunciano una realtà ma non la riflettono. Ciò che conta sono i numeri in Parlamento: Di Maio ha il 33 per cento dei deputati e dei senatori, mentre Salvini ha solamente il 17. Quest' ultimo pertanto ha perso in partenza. Nel senso che Gigino più gli ex nemici del Pd hanno la maggioranza e fregano alla grande la Lega. Non è un problema politico bensì aritmetico. E chi pensa che i partiti siano fedeli agli ideali (di cui sono privi) più che alle poltrone da cui si gestisce il potere sono è un povero pirlacchione. Ecco, Salvini si è comportato, stranamente, da pirlacchione facendosi infinocchiare come un principiante. Dispiace dirlo, visto che lo stimo, però stavolta si è fatto turlupinare dai vecchi lupi della partitocrazia. Ora egli ha a disposizione soltanto una carta: rimangiarsi la sfiducia a Conte e continuare a governare con i ciula gialli. Poi si vedrà. L' importante non è andare a votare ad ottobre, a questo punto, bensì non affidare il Paese alla grinfie degli ex comunisti del piffero e agli scugnizzi che cadono dalle Stelle filanti. Vittorio Feltri

Pierluigi Bersani, la auto-umiliazione. Scrive a Repubblica: "Molti mi chiedono...", tragica figuraccia. Libero Quotidiano il 17 Agosto 2019. Se si parla di governo Pd-M5s, nessuno può dimenticare chi da quello scenario uscì stritolato. Nel 2013 Pierluigi Bersani lavorò a quella ipotesi e l'impietoso confronto in streaming con i grillini Lombardi e Crimi, di fatto, segnò non solo il suo fallimento personale, ma pure la sua fine politica. Fuoriuscito dai dem a causa dell'onda lunga del renzismo, oggi si è riavvicinato e sta consigliando il segretario Nicola Zingaretti sul da farsi. Speriamo per il governatore che le dritte dell'uomo di Bettola siano un po' più chiare della lettera che Bersani ha inviato a Repubblica. E a cui in redazione hanno accompagnato, un po' sadicamente, proprio la foto del faccia a faccia d'annata con i due pentastellati. "Caro direttore, c'è chi mi chiede perché me ne stia zitto mentre tutti parlano. Sostanzialmente per non ripetermi", è l'incalzante incipit. Con un po' di ironia, si potrebbe tagliar corto: forse perché il resto del mondo non ne sente un gran bisogno, visti i trascorsi poco felici. Ma Bersani non demorde e spiega, con eloquio piuttosto fumoso e ragionamenti anchilosati, che per la sinistra i grillini sono "un" problema, ma "il" problema è "l'insorgere di una destra nuova, egemonica e regressiva". Da qui la conseguenza: meglio un governicchio giallorosso che urne anticipate in grado di spianare la strada a Matteo Salvini. Ma Bersani va oltre e chiede "una piattaforma di svolta", quasi un nuovo soggetto politico in grado di riassumere le posizioni di chi vota Pd, LeU e M5s. "O si prende questo tornante come un'occasione per una correzione di rotta da parte di tutti i protagonisti, o qualsiasi soluzione apparirà un arrocco difensivo, e la destra potrà rimanere protagonista nel paese", ammonisce. "Se mancheranno il coraggio e la generosità, com'è legittimo temere, ci si rassegnerà al rito consolatorio di chi pensa di contrastare Salvini facendo quello che dice lui".

Crisi di Governo: le frasi di Conte, Renzi, Di Maio e Salvini. Ecco cos'hanno detto, anche l'uno dell'altro, i 4 protagonisti di questa crisi di Governo di ferragosto. Panorama 18 agosto 2019. In questi giorni di Crisi di Governo tornano alla memoria alcune delle dichiarazioni che i 4 grandi protagonisti (Renzi, Di Maio, Salvini ed il premier Giuseppe Conte) hanno fatto su loro stessi o su uno degli altri personaggi. Dichiarazioni che risultano quantomeno curiose in questi giorni di trattative per nuovi o vecchi governi.

Giuseppe Conte

Roma, 5 giugno 2018: "Renzi dice che sono un suo collega? Perché? E' professore anche lui?"

Lecce, 24 marzo 2019: "Io personalmente l'ho detto, non ho la prospettiva di lavorare per una nuova esperienza di Governo. La mia esperienza di Governo termina con questa".

Roma, 19 luglio 2019: "Che io possa andare in Parlamento a cercare una maggioranza alternativa, quando è ben chiaro che io in Parlamento ci vado per trasparenza nei confronti dei cittadini e rispetto delle istituzioni, è pura fantasia. Invito voi giornalisti che dovete riempire le pagine. Non facciamo i peggiori ragionamenti della prima Repubblica. Restituiamo alla politica la sua nobiltà e la sua nobile vocazione. Voliamo alto".

Roma, 8 agosto 2019: "Non permetterò più che si alimenti la narrativa di un Governo che non opera, di un Governo dei No. Questo Governo ha sempre parlato poco e lavorato molto; questo Governo non era in spiaggia".

Roma, 15 agosto 2019: "Su Open Arms ennesima prova di sleale collaborazione da parte di Salvini, è inaccettabile".

Matteo Renzi

Roma, 5 giugno 2018: "Giuseppe Conte lei è un premier non eletto, praticamente un mio collega".

Ravenna, 7 settembre 2018: "La cosa più curiosa è Conte che non è andato al primo Consiglio dei Ministri. Ma abbiamo scoperto perché, lo ha detto lui. Doveva studiare. Aveva un esame d'inglese lunedì mattina per diventare professore. Per lui il G7 è dopolavoro".

Milano, 11 settembre 2018: "Il Movimento 5 Stelle al Governo è una banda di scappati di casa, mentono. Sono una piccola banda di imbroglioni. Toninelli, o Toninulla, è un bugiardo con i riccioli. E con questi nel Pd c'è pure qualcuno che vuol farci anche un accordo".

Roma, 15 febbraio 2019: “Conte è la più grande fake news vivente. Hanno detto che Conte parlava quattro lingue. L'ho sentito in inglese, sono pronto al confronto in inglese e francese con lui. E sono pronto al confronto in italiano con Di Maio, gli do tre congiuntivi di vantaggio" "Avete notato che Salvini porta sempre le divise? Non ha più nessuno che gliele stira". "Di Maio vola in economy? Vai in business e studia, cialtrone".

Milano, 18 febbraio 2019: "Di Maio è quello che è andato sul balcone a dire di aver abolito la povertà. Uno così è da Trattamento Sanitario Obbligatorio".

Roma, 24 maggio 2019: "Essere come Di Maio non è un insulto. E' una sfiga".

Luigi Di Maio

Milano, 18 dicembre 2017: "Ma come si fa ad essere d'accordo con uno come Renzi che ha fatto della politica una televendita?"

Roma, 17 agosto 2018: "Renzi è uno che vergognosamente compra un aereo gigante inutile sprecando i soldi degli italiani; è quello che aveva detto che si sarebbe ritirato dalla politica dopo la vittoria del no al referendum e che oggi siede sulla poltrona da senatore".

Genova, 25 settembre 2018: "Sia dannato il giorno in cui venne fatto il Jobs act. Renzi che lo ha fatto non deve essere chiamato statista ma assassino politico".

Roma, 18 Luglio 2019: "Ricordo che la Lega ha votato con il PD, col partito che in Emilia toglieva i bambini io non voglio avere nulla a che fare".

Roma, 13 agosto 2018: "Il M5S non vuole sedersi al tavolo con Renzi".

Matteo Salvini

Facebook, febbraio 2018: "A me piace chi cambia idea. Non chi la cambia ogni 10 minuti come Di Maio: sulla scuola, le tasse, l'immigrazione. Io non darei mai le chiavi del mio paese ad uno che ha le idee quantomeno confuse".

Facebook, febbraio 2018: "Il voto per Di Maio è un voto per il vecchio sistema di potere".

Bruxelles, 18 luglio 2019: "C'è una mancanza di fiducia anche personale. Il M5S a Bruxelles si è seduta al tavolo con Renzi la Merkel e Macron...".

Castel Volturno, 16 agosto 2019: "Mi spiace che certe cose invece di dirle in faccia il gentile presidente del Consiglio le abbia pubblicate mentre da ore coordinavo i lavori a Castel Volturno, zona da recuperare alla legalità. Evidentemente qualcuno sta passando un Ferragosto più tranquillo".

Il limite invalicabile dell'idiozia. Alessandro Sallusti. Domenica 18/08/2019, su Il Giornale. Distinguere in queste ore il vero dal falso, le provocazioni dalle intenzioni e dai depistaggi è un esercizio inutile. Ma se fosse vero, o anche solo verosimile, che Matteo Salvini - come è stato scritto e non smentito dal leader leghista - ha pensato di offrire a Luigi Di Maio la poltrona di presidente del Consiglio al posto di Giuseppe Conte pur di ricucire lo strappo con i Cinque Stelle, beh allora vuole dire che il caldo ha davvero giocato brutti scherzi. Parliamone di Luigi Di Maio premier, cioè di uno che pochi mesi fa si affacciò al balcone proprio di Palazzo Chigi per annunciare che aveva «sconfitto la povertà» e poco dopo fece la famosa previsione di un «boom economico in arrivo per il 2019». Già questo basterebbe per dire che se l’ipotesi si avverasse avremmo un premier idiota, non nel senso offensivo ma in quello letterale del termine, che significa «persona che rivela o denota una sconcertante stupidità». Ma andiamo oltre. Come si fa a immaginare di dare in mano il Paese a uno che ha preso in mano un partito in grande spolvero, i Cinque Stelle, ne ha dimezzato i consensi in meno di un anno dimostrando plasticamente e matematicamente tutta la sua incapacità e inadeguatezza, ad essere leader? Non ci sono precedenti di perdenti di tal fatta messi consapevolmente in posti strategici. Lo avevano capito già i latini, che a proposito dei mediocri di successo coniarono la famosa locuzione: promoveatur ut amoveatur, cioè promosso sì ma rimosso e assegnato a posizioni formalmente di prestigio ma in realtà assolutamente inutili dalle quali è impossibili fare danni. Luigi Di Maio, per venire alla nostra epoca, è anche la prova dell’esattezza del principio di Peter, lo psicologo canadese che negli anni Sessanta elaborò una formula sulle dinamiche e sul limite delle capacità umane: ogni persona - in sintesi - è utile a una organizzazione fino a che non raggiunge il proprio livello di incompetenza. Ecco, quel livello Di Maio lo ha già raggiunto e superato il giorno stesso che ha deciso di lasciare il lavoro di bibitaio dello stadio di Napoli e si è messo a fare politica. Ovviamente io non so come si risolverà questa crisi e siamo pronti a tutto. Ma quando dico «tutto» non intendo proprio «tutto». E sicuramente non Di Maio premier. 

Alessandro Trocino per il “Corriere della sera” il 19 agosto 2019. Un summit così forse non c' era mai stato. Il ritratto di famiglia nell' interno di Villa Grillo, a Marina di Bibbona, vede riunite tutte le anime dei 5 Stelle. Anime molto distanti tra loro, che però alla fine convergono per definire «vergognosa» la retromarcia di Matteo Salvini e sancire, sia pure in sede poco istituzionale, la fine del governo giallo-verde. Lo stesso che, nelle intenzioni del premier Giuseppe Conte, doveva darci «un anno bellissimo». La riunione Sembra passato un secolo da quando, solo un mesetto fa, Grillo se ne stava in disparte. Ora è tornato in trincea. Con lui c' è Davide Casaleggio, che, in teoria, non dovrebbe avere un ruolo politico. La riunione in villa è piuttosto animata. Sono presenti due dei più grandi oppositori del Pd, Paola Taverna e Alessandro Di Battista. Quest'ultimo, come Grillo, aveva deciso di darsi ad altri mestieri, dal reportage alla falegnameria, ma è tornato giusto in tempo per martellare Salvini, definito il «ministro del tradimento». Ma ormai anche Luigi Di Maio, che pure ha lavorato con Salvini d'amore e d'accordo per mesi prima di cominciare a litigare, tiene a sottolineare la sua distanza. Ai presenti spiega: «Nessuno più di me ha perso stima di Salvini. Mi ero fidato di lui». Parole che sanno di rimpianto, perché per Di Maio sarebbe più facile continuare al governo, che reinventarsi un futuro complesso, con possibili veti dai dem. Su questo punto c'è un singolare paradosso: i più favorevoli a vedere Di Maio come capo della trattativa sono i renziani, che sperano così di eliminare il veto per il loro leader. La questione, nel vertice, viene messa sul personale. Il problema, ripetono in molti, «è Salvini, non la Lega». Del resto è palese il rammarico di molti per lo stop improvviso. Le responsabilità vengono divise: «Dopo l' errore che ha commesso, non si può più parlare con Salvini. Peccato, perché nella Lega ci sono altri interlocutori possibili». Grillo, in serata, fa un video dei suoi, per dare il colpo di grazia all' uomo di cui si fidava. Parla di «pugnalata», dice che siamo in un momento «magico, strano, tragico». E finge una telefonata con Bossi, al quale chiede se anche lui considerasse Salvini «un uomo con livello medio di intelligenza ma leale». La risposta sono parolacce con tono bossiano. Se tutti sono d' accordo nell' attaccare il leader leghista, il problema nasce sul che fare. Grillo spinge per un accordo con il Pd. Non un patto allargato di breve termine, come qualcuno vorrebbe per annacquare la presenza dem, ma un vero patto di legislatura, con tanto di contratto di governo. In questo caso, salterebbero i temi identitari leghisti e tornerebbero quelli cari al Movimento delle origini, che possono incrociarsi bene con il Pd, a partire dall' ambiente. E con il Pd si starebbe già cercando di far passare l' ipotesi (senza incontrare grandi resistenze) di avere Conte ancora come premier. Sarebbe anche un modo per far accettare alla base il patto con il diavolo, il «partito di Bibbiano». Si aspetta di capire se il premier ha intenzione di gettare la spugna, subito dopo aver fatto le dichiarazioni al Senato di domani. O se ci sarà spazio per risoluzioni e voti. In quel caso il Movimento vuole stare ben attento a non concedere margini all'estro leghista, che potrebbe votare anche una risoluzione ostile, pur di mischiare le carte. Roberto Fico, sornione, aspetta. Si sa che è l'esponente più vicino al Pd (o meno lontano). Le trattative vengono negate, ma ci sono. Tra i più attivi, c'è anche Francesco D' Uva, che tiene i rapporti con Graziano Delrio. Oggi c'è la congiunta con i gruppi. La maggioranza, come sempre accade, vuole vivere o sopravvivere. Ma non sono pochi quelli che già rimpiangono la Lega. Come Gianluigi Paragone, ferocemente ostile al Pd e critico verso la linea di Di Maio.

Antonio Socci, quello che nessuno dice sul Pd: "Se passa la linea Renzi, il partito va in malora". Libero Quotidiano il 18 Agosto 2019. Con tutti i riflettori sulla Lega e il M5S, pochi hanno riflettuto sulle incredibili capriole del Pd, che sono le più sorprendenti. Dunque, il 26 luglio Nicola Zingaretti, aprendo la Direzione nazionale del Pd, dice: «Noi non perseguiamo un' alleanza con i 5 Stelle, non è nelle intenzioni, né è mai stato un nostro obiettivo, non lavoriamo a una crisi parlamentare per fare un governo con loro». L' esito di quella direzione lo spiega in tv, il 10 agosto, la vicesegretaria del partito Paola De Micheli: «Non esistono le condizioni politiche per un altro governo, almeno con il Pd: è la linea che la direzione nazionale ha approvato 15 giorni fa all' unanimità». Passano poche ore e il Pd è prontissimo a fare un governo col M5S, nella frenesia di riprendersi le poltrone da cui gli italiani lo avevano sfrattato col voto politico del 2018. Tutto questo è serietà? Era stato Matteo Renzi, all' indomani del voto del 4 marzo 2018, in cui il Pd aveva toccato il suo minimo storico, a bloccare tutte le ipotesi di pastrocchi con il M5S con queste parole. Aveva scritto: «Siamo seri. Chi ha perso le elezioni non può andare al Governo. Non possiamo rientrare dalla finestra dopo che gli italiani ci hanno fatto uscire dalla porta. I giochetti dei caminetti romani non possono valere più degli italiani». E Renzi ha tenuto questa posizione per mesi. Al punto che alla vigilia della Direzione del Pd del 26 luglio lanciava avvertimenti durissimi via Twitter. Il 17 luglio scriveva: «Oggi i giornali rilanciano accordo coi Cinque Stelle. Penso a Di Maio/Gilet gialli, Di Battista contro Obama, Lezzi sul Pil, Taverna sui vaccini, scie chimiche, vaccini, Olimpiadi, Tav, allunaggio. E ripeto forte e chiaro il mio NO all' accordo con questi». Il 22 luglio ripeteva: «La mia risposta a chi vuole fare accordi con i Cinque Stelle "per difendere insieme certi valori". Perché io sono contrario a questo accordo». Seguiva il link a un suo post su Facebook in cui attaccava duramente Di Maio e quegli esponenti del Pd che «aprivano ai grillini». Renzi ripeteva il suo no e rispondeva a Franceschini: «Io non vedo valori comuni con chi ha governato in questo anno».

Dal 26 luglio all' 11 agosto In effetti la Direzione del Pd, il 26 luglio, ha preso questa posizione di chiusura al M5S «all' unanimità». Ma appena Salvini ha parlato di sfiducia al governo, il Pd, in men che non si dica, ha capovolto quanto aveva deliberato all' unanimità. E chi è stato a portare di colpo il partito in questa opposta posizione? È stato Matteo Renzi, con una intervista al Corriere della Sera l' 11 agosto. Proprio colui che fino a poche ore prima tuonava contro chi era tentato di accordarsi col M5S. E Carlo Calenda glielo ha rinfacciato riproducendo queste parole di Renzi pronunciate a luglio: «L' accordo con i 5 stelle serve solo per trovare una cura a qualche politico dem di lungo corso in crisi di astinenza. Astinenza da poltrona». Dopo tutte queste capriole arrivano pure ad attaccare Salvini per aver cambiato posizione sulla crisi D' altra parte anche il M5S ha sempre avuto parole di fuoco contro il Pd. Fino a ieri. Jacopo Iacoboni, nel suo libro L' esecuzione, ricorda addirittura ciò che disse a suo tempo il fondatore e ispiratore del M5S Gianroberto Casaleggio: «Se il M5S facesse un governo con il Pd, io uscirei dal Movimento». Tornando al Pd, la cosa incredibile è la paura di un partito che si definisce «democratico» di dare la parola agli italiani e il bisogno estremo di fiondarsi sulle poltrone del potere appena può, anche se gli italiani li hanno sfrattati: segno di inconsistenza politica e grave sfiducia nelle proprie idee. Pierluigi Battista - ricordando che «votare non è un dramma, è democrazia» - si è rivolto su Facebook al segretario del Pd: «Zinga, sveglia: fa paura un Pd ridotto così. Fai vedere che guidi tu, non lasciare la scena a chi ha portato il tuo partito al minimo storico. Preparati alle elezioni, offri un volto meno impaurito Esci. Dimostra di avere coraggio. Vai nelle piazze (e nelle spiagge) gira l' Italia come fa Salvini con un' energia pazzesca». Gli suggerisce poi di proporre alla gente «cinque cose per cui vale la pena votarti, uscendo dalle stanzette delle formule rancide. Mettiti in gioco. Suda. Beccati anche i fischi. Muoviti. Dì qualcosa. Dimostra che sei un leader e allora niente è perduto». Anche un grande vecchio del Pci, Emanuele Macaluso, ieri ha tuonato contro l' accordo col M5S: «Il Pd è malato di governismo, non si ferma questa destra con una manovra di palazzo ma chi l' ha detto che l' Italia sceglierà Salvini?». La sua intervista è titolata: "Compagni, non abbiate paura del popolo". Peraltro che la confusione regni sovrana nel Pd lo si è visto con l' autogol del 13 agosto quando, invece di votare la mozione che avrebbe affrettato la crisi di governo, il Pd ha votato l' altra che l' allontanava, facendo così un involontario favore proprio a Salvini. L' altro errore capitale di Zingaretti è stato subire l' iniziativa di Renzi che, di fatto, gli ha sfilato il partito di mano imponendo la sua linea (che aveva appena capovolto), per mettere il cappello sull' accordo col M5S ed evitare le elezioni (che per la sua egemonia nei gruppi parlamentari sarebbero disastrose).

La resa dei conti Ora però nel Pd, se dovesse saltare l' accordo col M5S, si prepara la resa dei conti. Se l' accordo salta, ha detto Renzi, la responsabilità sarà di Zingaretti (parole che sembrano già prefigurare la rottura). Dall' altra parte il Segretario, se l' accordo salta, metterà sotto accusa proprio Renzi che - per intestarsi l' operazione - è uscito troppo presto allo scoperto, quando la crisi non c' era ancora, dando così la possibilità a Salvini di correre ai ripari. Se poi il governo Pd/M5S dovesse davvero partire (magari perché spingono i più anziani del Pd che aspirano al Quirinale nel 2022) significa che l' accordo sarà tra grillini e Renzi perché è lui a controllare i gruppi parlamentari del Pd. Per Zingaretti un tale governo sarebbe un suicidio politico perché sancirebbe la sua marginalità, ma anche per il M5S perché sarebbe un esecutivo sostanzialmente nelle mani di Renzi, che con la sua consueta abilità, controllando i gruppi parlamentari, farebbe pesare il suo potere di veto. Avrebbe potere di vita e di morte sul governo, decidendo - quanto lo ritiene - di staccare la spina. Così, di fatto, terrebbe in pugno il M5S che vede le elezioni come il tacchino vede il Natale. Antonio Socci 

Emauele Buzzi per il “Corriere della sera” il 20 agosto 2019. Tutto in una telefonata mai partita e in un' altra che ha gelato il rapporto, fino a spezzarlo. Una telefonata che anche ieri è tornata come un fantasma al centro della scena, citata da Luigi Di Maio nel suo incontro con i parlamentari. E, allo stesso tempo, velatamente al centro dei rumors tra ex alleati. Con veleni incrociati «Il taglio dei parlamentari? - dicono fonti del Carroccio - La Lega è pronta al voto, il Pd invece no». Non è un caso se dopo l' assemblea congiunta dei parlamentari del Movimento qualcuno ironizza sulle chiamate di Salvini. «Invece di dire che ha il telefono acceso, lo usasse», commenta Stefano Buffagni. Ma per comprendere quello che si delinea come il finale dell' esperienza di governo gialloverde occorre riavvolgere il nastro e tornare indietro alla sera del 7 agosto quando Di Maio e Matteo Salvini si confrontano e il loro asse (incrinato già dai mesi di campagna elettorale) si spezza definitivamente. Una telefonata raccontata alle truppe del Movimento per spiegare le ragioni pentastellate. Il leader della Lega ha appena incontrato Giuseppe Conte al quale ha comunicato la volontà di aprire la crisi e in serata è atteso a Sabaudia dove dovrebbe fare un annuncio importante (annuncio che verrà ritardato di 24 ore per permettere al premier di conferire con Sergio Mattarella). In questo lasso di tempo, mentre i media rilanciano le indiscrezioni di una rottura nell' esecutivo, si consuma lo strappo. E si ribaltano i ruoli. La Lega finora non ha comunicato nulla al M5S. La crisi, per Di Maio, al momento è solo uno spettro evocato da tv e giornali. Ma dopo il colloquio con Conte, il vicepremier pentastellato riceve un messaggio da Salvini e richiama. «Ti rendi conto di quello che stai facendo?», dice. Di Maio teme che la crisi possa far aumentare l' Iva e che molti provvedimenti si blocchino. «Sei sleale, hai tradito la mia fiducia sul piano umano e quella del Paese. Queste cose si pagano nella storia». Salvini ribadisce che per lui è arrivato il momento di tornare alle urne. Le posizioni tra i due rimangono inconciliabili. Di Maio replica: «Decideranno gli italiani, ma tagliamo il numero dei parlamentari, è una riforma storica, arriviamo almeno al 9 settembre per il taglio». Salvini risponde: «A settembre non ci arrivi, dobbiamo andare a votare». I due vicepremier - raccontano fonti del Movimento - da allora non hanno più contatti diretti, ma sono gli uomini di raccordo più vicini a Giancarlo Giorgetti e i fedelissimi di Di Maio a tessere i rapporti in questa fase. Chiusa quella telefonata con Salvini, Di Maio chiama il suo capo di gabinetto, Vito Cozzoli: è l' inizio di una nuova fase, quella della crisi.

Giancarlo Giorgetti e Salvini, allarme rosso: "Non può andare avanti così". La voce dal cuore Lega. Libero Quotidiano il 22 Agosto 2019. Mercoledì alle 13 Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti hanno "fatto pace" davanti ai giornalisti che li attendevano a Montecitorio, dove si era appena chiusa la riunione dei deputati della Lega. Segretario e vice, sorridenti e scherzosi, hanno assicurato che non c'è alcuna crisi o divisione dentro il Carroccio. Ma un retroscena del Giornale oggi racconta un altro clima. Si parla di "facce scure" dei parlamentari leghisti costretti a far saltare le ferie per le dimissioni di Giuseppe Conte e di sottosegretari e funzionari ministeriali imbufaliti perché costretti a fare gli scatoloni. Il problema vero, però, pare essere la gestione stessa della Lega, non solo la strategia che ha portato alla crisi. "Il dubbio che Salvini abbia perso il tocco magico si va insinuando anche nei fedeli più osservanti - scrive il Giornale -. Sul banco degli imputati c'è soprattutto la sua conduzione solitaria del partito". A microfoni spenti, Giorgetti avrebbe ribadito le critiche sul timing della crisi. Salvini si sarebbe fatto consigliare dalle persone sbagliate e ora "rischia di consegnare al Paese uno dei governi più di sinistra della sua storia". Ai giornalisti il sottosegretario uscente ha giurato: "Guardate che è stato lui a dirmi di andare davanti ai giornalisti a dire che aveva sbagliato i tempi della crisi. È una strategia studiata a tavolino". Ma non sono in tanti a credergli. Anche perché a Giorgetti avrebbe confidato agli uomini a lui più vicini: "Matteo non può più fare tutto da solo". E che nel partito serpeggi delusione emerge anche dalle parole di Luca Morisi, il responsabile social di Salvini, il famoso papà della mitologica "Bestia": dal punto di vista dei contatti Facebook e Twitter "l'intervento in Senato non è andato bene come pensavamo".

NELLA LEGA QUALCOSA E’ CAMBIATO. Adalberto Signore per “il Giornale” il 22 Agosto 2019. Da ieri Matteo Salvini non è più Re Mida. Almeno nella percezione dei suoi deputati e senatori, sempre devoti al culto del leader al punto di celebrarne lodi e gesta in ogni dove. A taccuini aperti, infatti, negli ultimi 14 mesi non c'è stato leghista che si permettesse solo di dubitare delle capacità quasi divinatorie del Capitano. Fino a ieri, dicevamo. Quando complici forse i 30 gradi che picchiavano su piazza Montecitorio a ora di pranzo qualche mugugno s' è iniziato a sentire. Salvini, infatti, dopo aver incontrato alla Camera i suoi deputati li ha voluti tutti fuori per un bel selfie di gruppo e la solita diretta Facebook. Giacche in spalla per il caldo e facce scure, in tanti non sembravano entusiasti di aver «alzato il culo» (copyright Salvini) ed essere tornati a Roma in pieno agosto. C' è chi si lamenta per la vacanza in Corsica già pagata e andata ovviamente a farsi benedire. E chi invece è stato costretto a lasciare moglie e figli dall' altra parte d' Europa, con buona pace della serenità familiare. Per non parlare della folta pattuglia ministeriale, intenta a fare gli scatoloni. Tornano a casa non solo ministri e sottosegretari, ma anche decine di assistenti, consiglieri e uffici stampa che ora sono a spasso e senza uno stipendio. Insomma, tutt' altro che un clima di festa. «Questa operazione scellerata aveva un senso se fossimo tornati al voto, ma a meno che Renzi non ne combini una delle sue, ormai parliamo di uno scenario lontanissimo», sbotta un sottosegretario così contrariato che martedì ha preferito non presentarsi in Senato per assistere all' ultimo atto dell' autoproclamato «governo del cambiamento». Tutte perplessità e obiezioni che, ci mancherebbe, nessuno riferisce a microfoni accesi. Serpeggiano, però, sotto traccia. E il dubbio che Salvini abbia perso il tocco magico si va insinuando anche nei fedeli più osservanti. Sul banco degli imputati c' è soprattutto la sua conduzione solitaria del partito. Certo, il leader della Lega è stato capace di trascinare il suo movimento dal 4% delle politiche 2013 al 34% delle ultime Europee, un trend senza precedenti in Italia. Ma forse, continua il sottosegretario di cui sopra, se si fosse fatto consigliare dalle persone giuste non si sarebbe infilato in una crisi che «rischia di consegnare al Paese uno dei governi più di sinistra della sua storia». E questo del «gabinetto di guerra» di Salvini è un tema che nei giorni scorsi, nei suoi colloqui privati, ha sollevato pure Giancarlo Giorgetti. Ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio era anche lui in piazza e smentiva incomprensioni con il leader. «Guardate che è stato lui a dirmi di andare davanti ai giornalisti a dire che aveva sbagliato i tempi della crisi. È una strategia studiata a tavolino», la butta lì Giorgetti. La verità è però un'altra. Perché sono davvero troppi gli interlocutori non solo in Lega, ma pure in Forza Italia e Fratelli d'Italia con cui il sottosegretario ha manifestato i suoi dubbi. Non a caso, dopo il voto sul calendario in Senato la scorsa settimana, i due sono stati giorni senza sentirsi. Anche Giorgetti, peraltro, è convinto che «Matteo non può più fare tutto da solo». Non è più il tempo, insomma, del «one man show» ma c' è bisogno di consiglieri seri che lo aiutino in certe scelte. Magari si sarebbe potuto evitare di aprire una crisi suicida che, è la convinzione del sottosegretario già da giorni, non porterà alle urne. E forse si sarebbe potuto gestire l' intervento in Senato non tarando la comunicazione sulla contemporanea diretta Facebook, perché una cosa è parlare alla piazza, altra al Parlamento. Lo stesso Luca Morisi, l'uomo web della Lega che ieri era alla Camera con Salvini, con un big del Carroccio si è lasciato scappare che «l' intervento in Senato non è andato bene come pensavamo» sotto il profilo dell' impatto mediatico. Ma il ragionamento di Giorgetti riguarda anche chi è tornato a sussurrare a Salvini consigli sul fronte economico, come il no euro Alberto Bagnai o l' inventore dei Mini bot Claudio Borghi. Secondo il sottosegretario, «economisti improvvisati».

Roberto Maroni sulla crisi di governo: "Salvini avrebbe dovuto ritirare i ministri come fece Bossi". Libero Quotidiano il 19 Agosto 2019. Roberto Maroni, segretario federale della Lega Nord fino al 2013, torna a parlare del partito ora guidato da Matteo Salvini. "Salvini avrebbe dovuto ritirare i Ministri leghisti come fece Umberto Bossi quando sfiduciò Silvio Berlusconi alla fine del 1994. Bossi riuscì nell'intento proprio per questo mentre Salvini no, lui ha perso tempo. Se avesse sfiduciato i ministri sarebbe venuto meno il governo e sarebbe andato subito al Quirinale" ha spiegato ai microfoni di Omnibus su La7. "Situazione opposta fu quando Gianfranco Fini sfiduciò ancora, nel 2010, Berlusconi ma gli diede il tempo per organizzarsi. Presentò la mozione di sfiducia discussa dopo tre settimane e si mise alla ricerca dei voti che portarono alla bocciatura della mozione. Questi precedenti indicano che se fai una mossa inaspettata e sorprendente come questa, devi farlo rapidamente, devi andare fino in fondo ma con rapidità". Che tra i due non scorresse buon sangue, questo si sapeva. Dopo il rifiuto (un anno fa) di candidarsi alle Regionali in Lombardia, Maroni aveva lanciato una frecciatina al leader del Carroccio: "Da leninista, non posso sopportare di essere trattato con metodi stalinisti e di diventare un bersaglio mediatico solo perché a detta di qualcuno potrei essere un rischio". Dichiarazione che aveva immediatamente dato vita a un botta e risposta al vetriolo. 

“L’ALLEANZA PD-M5S E’ UNA BARZELLETTA”. Alessandro Rico per “la Verità” il 19 agosto 2019.

Pierluigi Battista, che succede? Matteo Salvini ha compiuto un miracolo?

«Un miracolo, dice?».

Non ha visto? Ha messo d' accordo Beppe Grillo e Luigi Di Maio con il «partito di Bibbiano», Il Foglio con Il Fatto Quotidiano, il Rottamatore Matteo Renzi con il rottamato Massimo D' Alema.

«Ah certo. L'ancien régime che si ricompatta per non far vincere Salvini. La democrazia parlamentare usata come scudo umano».

Renzi invoca proprio quella.

«Una delle caratteristiche di questa crisi pazza: si usano espressioni vuote».

Ad esempio?

«"Deve decidere il presidente della Repubblica"».

Non è vero?

«Certo che è vero. Ma quello che deve decidere è se c'è una maggioranza politica alternativa. E questo non mi pare sia emerso con chiarezza».

Dice che non ci sono le basi per un' alleanza tra Pd e 5 stelle?

«Io in linea di principio non sono contrario alle coalizioni tra diversi. Ma dev' essere una cosa seria. Questa è una barzelletta».

Una barzelletta?

«Ma sì. Niente a che vedere, ad esempio, con quello che succede in Germania».

Graziano Delrio ha suggerito proprio di arrivare a un contratto alla tedesca.

«Ma per favore. In Germania, se cristiano-democratici e socialdemocratici decidono di fare un governo insieme, passano dei mesi, durante i quali i partiti analizzano dettagliatamente i programmi. L'Spd ha lanciato un referendum tra i propri iscritti, la Cdu ha passato la proposta al vaglio dell' assemblea del partito. Qui si fa tutto in qualche giorno. Quella di Pd e 5 stelle cos' è? Una burla. La burla della democrazia parlamentare».

Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera, ha il tono concitato. Le voci di accordo tra Partito democratico e Movimento 5 stelle per evitare di andare al voto sembrano averlo indignato. Basta scorrere il suo profilo Twitter, dove qualche giorno fa ha battagliato con Giuliano Ferrara: «Io voglio solo andare a votare», ha scritto al fondatore del Foglio, «tu vai con quelli che negano lo sbarco sulla Luna».

Secondo lei dem e grillini, dopo essersi insultati per anni, potrebbero davvero governare insieme?

«Impossibile. Ma non tanto per gli insulti in sé. È che sono arrivati alla totale delegittimazione reciproca. Il Movimento 5 stelle ha chiamato il Pd "il partito di Bibbiano".».

Anche «un punto di riferimento per il crimine». Questa è di Alessandro Di Battista.

«Appunto. Ma pure il Pd ne ha dette di tutti i colori: "Cialtroni", "buffoni" C'è quasi un' inconciliabilità antropologica. È come se, nella prima Repubblica, dall' oggi al domani, il Pci e il Msi avessero deciso di fare un governo insieme, con qualche transfuga di altri partiti, per mettere all' angolo la Dc. Ci sarebbe sembrata una cosa seria?».

In effetti... Però, appunto, questi si appellano al senso di responsabilità, alla necessità di sterilizzare l' aumento dell' Iva.

«Quanta ipocrisia. Guardi, sarebbe la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana che si forma un governo non per fare qualcosa, ma per non votare, perché si sa benissimo che si perderebbero le elezioni».

Si scrive «democrazia parlamentare» ma si legge «abbiamo paura di andare al voto»?

«C'è un vulnus della democrazia: il popolo guardato come qualcosa di cui diffidare».

Possibile che capiti pure ai 5 stelle, quelli che invocavano la democrazia diretta?

«Be', come il Pd, sono alla canna del gas».

E non è comprensibile che un partito voglia evitare il tracollo?

«Senta, io passo per salviniano - il che è assurdo: non voterò Salvini, probabilmente non voterò nessuno - ma il punto è che in democrazia gli avversari si sconfiggono politicamente».

Nell'era dei leader carismatici e dei sondaggi, che lo stesso Renzi ha cavalcato e plasmato, si può ignorare l'opinione pubblica e pensare solo ai numeri in Parlamento?

«Mi sta bene che si dica: non possiamo agire solo inseguendo i sondaggi. Ma allora che si vada alle elezioni! Mi sembra piuttosto che la questione sia: non andiamo a votare perché c'è uno che non siamo in grado di battere. Sta qui l'assurdità dei riferimenti alla democrazia parlamentare».

Cioè?

«Contrapporre, alla democrazia elettorale, una democrazia parlamentare concepita come una trincea in cui arroccarsi per arginare quello che loro chiamano il populismo. A meno che».

A meno che?

«A meno che non si dica - e qualcuno lo sostiene esplicitamente - che Salvini è un nazista. E allora contro i nazisti qualunque mezzo è buono, pure un governo d' emergenza tra partiti incompatibili. Ma l'emergenza nazionale sarebbe che il 34% degli italiani vota Salvini?».

Se qualcuno obiettasse che non possiamo votare ogni anno?

«In Spagna votano continuamente. Non è un dramma. È la fisiologia democratica. In Grecia, Alexis Tsipras, che non mi pare sia un fascistone, quando ha perso le europee ha indetto nuove elezioni politiche. Si rivoterà in Austria, si voterà in Polonia. Si vota. Non c' è nessuno scandalo».

In sostanza, solo da noi non si voterebbe.

«Perché qui, appunto, si contrappone la democrazia parlamentare come il regno dell'ordine, alla democrazia elettorale come il caos. Il popolo sudato, il popolo del Papeete. E questo aggraverà la frattura che si è creata già il 4 marzo 2018».

Il cordone sanitario anti Salvini finirebbe con il favorire lui?

«L'inciucione non potrà che durare poco. E nel frattempo la gente si sarà eccitata: "Voi non ci date la parola perché sapete che voteremmo diversamente da come volete voi, per cui fate un pastrocchio in Parlamento? E noi vi facciamo vedere". Immagini una cosa».

Che cosa?

«Se anche Forza Italia si unisse all'inciucione. I 5 stelle finirebbero al governo con Silvio Berlusconi».

Quello che loro e il Fatto hanno sempre dileggiato come Mister B.

«Ecco, appunto. Se lo immagina? E con questo torno alla sua domanda iniziale».

Quella sul «miracolo» di Salvini?

«Esatto. Si ricompatta tutto l'ancien régime. Quelli che sembravano diversi e opposti si ricongiungono. E tutto questo per stare in sella qualche mese in più. Non a caso, sul voto, rispetto al 2018, c' è stato un sostanziale cambio di linguaggio».

Ovvero?

«Prima, quando ancora non si era profilata l'alleanza tra Lega e 5 stelle, si diceva: "Inutile tornare al voto, perché ci ritroveremmo nella stessa situazione". Cioè, nessuna maggioranza. Adesso una maggioranza molto probabilmente ci sarebbe, ma non si può andare a votare lo stesso. Solo e soltanto perché Salvini non deve vincere».

Oltre che la paura di Salvini, conta anche il timore che nel 2022 i sovranisti possano mettere le mani sul Quirinale?

«Certo. Ma qualcuno pensa che l' inciucio potrebbe reggere fino al 2022? Il governo Lega-5 stelle è durato poco più di un anno. E partiva da basi molto più forti».

Negli ultimi giorni, però, è sembrato che Salvini, tornato ai toni concilianti con i 5 stelle, quasi a volersi rimangiare la crisi, temesse qualcosa. E se invece un governo giallorosso potesse durare?

«Ma in che modo?».

Deficit al 2,9% perché l' Europa sarebbe più tenera, distribuzione di mancette, Ong che smettono di sbarcare perché non hanno più motivo di esercitare pressione sul nemico politico E la gente si convince: è meglio la pace con i partiti di sistema, che la mobilitazione permanente con i sovranisti.

«Sì, può darsi. Ma io per adesso sono dell' idea che stiano tutti sottovalutando la rivolta della gente. Il 4 marzo è stato un segnale forte. E in caso di voto, a questo punto, su Pd e 5 stelle peserebbe un altro elemento».

Quale?

«Quello che ha detto Carlo Calenda: gli elettori ormai li percepiscono come alleati. Ciò che effetto avrebbe sia sugli equilibri interni ai partiti sia sui consensi? Quando gli elettori hanno scelto Pd o 5 stelle non sapevano di questa possibile intesa. Se l' avessero saputo, magari non li avrebbero votati».

Di Giuseppe Conte che idea s' è fatto? Un anno fa scherniva Renzi («lui mio collega? È un professore?), adesso pare pronto a scendere a patti con lui.

«Si sta giocando la partita della vita. E sa di avere appoggi importanti...».

Il Colle?

«Diciamo che sa di non essere solo».

Il dramma della stampa. Chi finora ha bastonato i grillini, come convincerà i lettori che quegli stessi Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Danilo Toninelli, reietti quando stavano con la Lega, saranno diventati statisti con il Pd?

«Non li convincerà. Come nessuno convincerà gli elettori. L' effetto fortezza, l'effetto ponte levatoio, l' effetto ancien régime contro i sanculotti agita ancora di più chi si sente definire "barbaro". Ecco, il 34% degli elettori italiani viene considerato "barbaro". E secondo lei questi non s' incazzano? Lei parlava di mancette: pure gli 80 euro lo erano».

E gli elettori si sono incazzati lo stesso.

«Proprio così».

L' alterco con Ferrara?

«Ma lasciamogli dire quello che vuole».

Non è buffo che si ritrovi sulla stessa barca di Marco Travaglio?

«Lo è. Ma, appunto, l' immagine è quella dei Borbone asserragliati a Gaeta, di parrucconi che si arroccano senza saper dire nulla sulla società italiana, su cosa farebbero per risolverne i problemi... È spaventoso. È disperante. Regalano a Salvini la bandiera della democrazia. È un suicidio culturale».

Pierluigi Battista per il “Corriere della sera” il 19 agosto 2019. Comunque vada a finire, sarà uno spasso. Che spettacolo: i salti acrobatici, le piroette, i contorsionismi di tutti quelli che hanno trattato i 5 Stelle come il demonio e adesso sfideranno il ridicolo rimangiandosi tutto per giustificare nientedimeno che un'alleanza di governo con chi veniva (molto volgarmente) bollato come «buffone», «cialtrone», «nemico della democrazia», «idiota». Al confronto sembrerà troppo morbido il Guareschi che sbertucciava con il «contrordine compagni» chi era costretto per disciplina a dire il contrario di ciò che aveva detto il giorno prima per rispettare le giravolte tattiche del Partito. Altri tempi. Altra decenza. Altra serietà. Altri partiti, anche. Non c' è alcuna serietà, invece, nei repentini voltafaccia cui assisteremo con stupefazione (ma già stiamo cominciando) nei prossimi mesi. Dicevano, mica un anno fa, ma solo quindici giorni fa: non vogliamo nemmeno parlare con i 5 Stelle che infamano il Pd chiamandolo il «partito di Bibbiano». Ora, forse, non ci parleranno, ma intanto ci fanno un governo assieme. Già si scaldano i muscoli per la grottesca e corale autosmentita politici di secondo e terzo rango, professionisti del commento arcigno, star della rissa social, giornalini conformisti, maestri dell' insulto politico dozzinale, tonitruanti chierici del «mai» che, a seconda delle circostanze, diventa «qualche volta», «dipende», «se conviene». Perché certo, la politica muta, le alleanze si possono pure cambiare, ma in questo caso era la denigrazione antropologica il segno della guerra santa che i nuovi protagonisti del «contrordine compagni» avevano incautamente scatenato contro quella che veniva trattata come la «marmaglia» grillina. Non il dissenso politico anche radicale, bensì il disprezzo gridato e rivendicato, la violenza verbale inaudita contro gli esponenti dei 5 Stelle con cui adesso, forse, toccherà allearsi rimangiandosi tutto, senza decoro. E chi invece sommessamente avanzava il dubbio che questa guerra santa intollerante e velenosa stesse rendendo cieche le (peggiori) menti della nostra generazione, veniva addirittura deplorato come «filo-grillino». E adesso marcia indietro senza senso del ridicolo. Sarà uno spasso, portate gli specchi dove saranno costretti ad arrampicarsi. Una risata li seppellirà.

La vergogna è morta. Da Berlusconi a Trump: così un sentimento è scomparso dall’orizzonte dei valori individuali e collettivi. Marco Belpoliti il 15 dicembre 2017 su L'Espresso. Quando nel 1995 Christopher Lasch, l’autore del celebre volume “La cultura del narcisismo”, diede alle stampe un altro capitolo della sua indagine sulla società americana, “La rivolta delle élite” (ora ristampato opportunamente da Neri Pozza), pensò bene di dedicare un capitolo alla abolizione della vergogna. Lasch esaminava gli scritti di psicoanalisti e psicologi americani che avevano lavorato per eliminare quella che sembrava un deficit delle singole personalità individuali: la vergogna quale origine della scarsa stima di sé. La pubblicistica delle scienze dell’anima vedeva in questo sentimento una delle ultime forme di patologia sociale, tanto da suggerire delle vere e proprie campagne per ridurre la vergogna, cosa che è avvenuta in California, ad esempio («programma cognitivo-affettivo finalizzato a ridurre la vergogna»). Lasch non ha fatto in tempo a vedere come questo sentimento sia stato abolito dalla classe dirigente che è apparsa sulla scena della politica mondiale all’indomani del 1994, anno in cui lo studioso della cultura è scomparso.

Con il debutto di Silvio Berlusconi in politica la vergogna è ufficialmente scomparsa dall’orizzonte dei valori e dei sentimenti individuali e collettivi. Le élite che hanno scorrazzato nel paesaggio italiano nel ventennio successivo alla “discesa in campo” sono state totalmente prive di questo. In un certo senso Berlusconi è stato l’avanguardia di una classe politico-affaristica che ha il suo culmine nella figura dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Nessuno dei due uomini d’affari trasformati in leader politici conosce né il senso di colpa né la vergogna propriamente detta. La vergogna, come sostengono gli psicologi, costituisce un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale. Per provarla occorre immedesimarsi in un pubblico che biasima e condanna. Ma questo pubblico non esiste più. Ci sono innumerevoli figure dello spettacolo, della politica, della economia e del giornalismo, per cui la sfrontatezza, l’esibizione del cinismo, la menzogna fanno parte della serie di espressioni consuete esibite davanti alle telecamere televisive e nel web. Nessuno prova più vergogna. Anzi, proprio questi aspetti negativi servono a creare un’immagine personale riconoscibile e, se non proprio stimata, almeno rispettata o temuta. Come ha detto una volta Berlusconi, genio del rovesciamento semantico di quasi tutto: «Ci metto la faccia». È l’esatto contrario del “perdere la faccia”, sentimento che prova chi sente gravare dentro di sé la vergogna. Metterci la faccia significa apparire rimuovendo ogni senso di colpa, di perdita del senso dell’onore, della rispettabilità.

L’esibizione dell’autostima è al centro del libro più celebre di Lasch, quello dedicato al narcisismo. «Meglio essere temuti che amati», recita un proverbio; nel rovesciamento avvenuto negli ultimi quarant’anni, cui non è estranea la televisione commerciale inventata da Silvio Berlusconi, è molto meglio che gli altri ti vedano come sei: cattivo, spietato, senza vergogna. L’assenza del senso di vergogna è generata dall’assenza di standard pubblici legati a violazioni o trasgressioni. Nella vergogna s’esperimenta l’immagine negativa di sé stessi, si prova il senso di un’impotenza. Questa emozione rientra in quel novero di quelle esperienze che sono definite dagli psicologi “morali”. Ciò che sembra scomparso in questi ultimi decenni è proprio un sistema di valori morali condivisi.

Non è lontano dal vero immaginare che la deriva populista nasca anche da questa crisi verticale di valori, dall’assenza di un codice etico collettivo. Nell’età del narcisismo di massa ognuno fa per sé, stabilendo regole e comportamenti che prescindono dagli altri o dalla società come entità concreta, entro cui si misura la propria esistenza individuale. La vergogna è senza dubbio un sentimento distruttivo, probabilmente molto di più del senso di colpa, come certificano gli psicoanalisti. Sovente porta a derive estreme, a reazioni autodistruttive, e tuttavia è probabilmente uno dei sentimenti più umani che esistano. Per capire come funzioni la vergogna basta leggere uno dei libri più terribili e insieme alti del XX secolo, “I sommersi e i salvati” (Einaudi) di Primo Levi nel capitolo intitolato Vergogna. Lo scrittore vi riprende una pagina di un suo libro, l’inizio de “La tregua”, dove si racconta l’arrivo dei soldati russi ad Auschwitz. Sono dei giovani militari a cavallo che assistono alla deposizione del corpo di uno dei compagni di Levi gettato in una fossa comune. Il cumulo dei cadaveri li ha come pietrificati. Levi riconosce nei soldati russi il medesimo sentimento che lo assaliva nel Lager dopo le selezioni: la vergogna, scrive, che i tedeschi non avevano provato. La scrittore spiega che non è solo un sentimento che si prova per aver compiuto qualcosa di male, di scorretto o di errato. Nasce piuttosto dalla “colpa commessa da altrui”: la vergogna dei deportati scaturisce proprio da quello che hanno fatto i carnefici. Una vergogna assoluta, che rimorde alla coscienza delle vittime per la colpa commessa dai carnefici: «gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa». Levi parla di una vergogna radicale, che svela la profonda umanità di questo sentimento.

Gli psicologi affermano che la vergogna è molto più distruttiva del senso di colpa. Proprio per questo è lì che si comprende quale sia la vera radice dell’umano. Si tratta della «vergogna del mondo», come la definisce Levi, vergogna assoluta per ciò che gli uomini hanno fatto agli altri uomini, e non solo ad Auschwitz, ma anche in Cambogia, nella ex Jugoslavia, in Ruanda, nel Mar Mediterraneo e in altri mille posti ancora. Che la vergogna ci faccia umani non lo dice solo Levi in modo estremo, ma lo evidenzia l’ultima frase di uno dei più straordinari testi letterari mai scritti, “Il processo” di Franz Kafka. Libro che quasi tutti hanno letto almeno una volta da giovani. Il romanzo dello scrittore praghese termina con una frase emblematica: «E la vergogna gli sopravvisse». K. è stato ucciso dai due scherani che l’hanno perseguitato nel corso dell’intera storia. L’hanno barbaramente accoltellato al cuore, dopo avere tentato inutilmente di convincerlo a farlo lui stesso. Il libro di Kafka si chiude con questa frase che, come ha segnalato Giorgio Agamben, significa esattamente questo: la vergogna ci rende umani. Chissà se Silvio Berlusconi e la sua corte hanno mai avuto in mano questo racconto, se l’hanno letto. Probabilmente no. Ma anche se lo avessero fatto, dubito che ne avrebbero tratto qualche ammaestramento, com’è evidente da quello che è seguito dal 1994: senza vergogna.

Rifare una classe dirigente. Il binomio tra democrazia ed economia di mercato funziona se la mobilità sociale è viva e lotta insieme a noi. Oggi c’è un ceto governante arcigno da rivoluzionare. Antonio Funiciello il 22 Luglio 2018 su Il Foglio. Il rapporto tra governati e governanti non fila mai liscio come vorrebbero i governanti. A ogni passaggio decisivo dell’evoluzione liberale del regime democratico tra Otto e Novecento, la grande maggioranza dei governati ha dato non pochi problemi alla piccola minoranza dei governanti. E’ accaduto e accade anche nei regimi politici non democratici o in quelli a democrazia non liberale. Esiste, insomma, una tensione storica irrisolta tra massa dei governati e minoranza organizzata (Mosca), o corpo specializzato (Weber), o avanguardia rivoluzionaria (Gramsci).

E’ come nell’Enrico VI di Shakespeare: se si vuol fare una rivoluzione non c’è che cominciarla uccidendo tutti gli avvocati. Oggi questa tensione si colora di sfumature nuove nella contestazione non solo del ceto politico, ma della classe dirigente nella sua più ampia e corretta definizione. La critica populista mette all’indice le trame delle multinazionali, le manovre dei banchieri d’affari, le pretese scientiste di medici e ricercatori, i cavilli, gli arzigogoli e i sofismi dei grandi avvocati. E’, a guardar bene, un segno di maturazione dei contestatori concepire le élite governanti come classi dirigenti tout court e non solo come politische klasse (ancora Weber). Un grande avvocato ha indubbiamente un peso specifico “dirigente” molto più elevato di un parlamentare medio. Così, come nell’ Enrico VI di Shakespeare, è ancor più vero oggi di ieri che se si vuol fare una rivoluzione non c’è che cominciarla uccidendo tutti gli avvocati: “ The first thing we do, let’s kill all the lawyers!”.

Scherzi e Shakespeare a parte, è interessante considerare come sia cambiata la critica alla classe dirigente a seguito della globalizzazione. La forza del mutamento globalista è tale da chiedere di esaminare con attenzione la nuova élite globale, a partire dai modi nuovi in cui si forma e in cui conserva la propria posizione dominante. Il distacco tra classe governante e masse governate fa, infatti, il suo esordio già nella fase della formazione scolastica e universitaria, per poi proseguire in quella postuniversitaria. E mai come oggi l’intergenerational earnings elasticity (che verifica quanto il reddito lavorativo di un figlio sia connesso a quello dei genitori) segnala l’arroccamento di un’élite chiusa in un fortino inespugnabile. Ma procediamo per gradi.

Classe dirigente e globalizzazione. La globalizzazione, si è detto molte volte e con varie ragioni, ha tirato fuori dalla povertà un numero di esseri umani che si aggira intorno al miliardo. Questo fenomeno si è registrato nelle società non occidentali, laddove in quelle occidentali la globalizzazione ha inversamente divaricato la forbice tra chi ha di più e chi ha di meno. Quando in passato, nel mondo occidentale, si è assistito a fenomeni così importanti di innalzamento della condizione economica di vaste fasce di popolazione, si sono anche determinate potenti modificazioni dei tessuti sociali, delle classi politiche e della coscienza civica delle nazioni. Le rivoluzioni industriali hanno alimentato emancipazione civica e riorganizzazione di sistemi politici per dare rappresentanza istituzionale all’emersione sociale di nuovi “gruppi” di individui. Questi processi di cambiamento civico e sociale, economico e politico, non sono mai stati tranquilli. Hanno sempre recato con sé il conflitto. L’espansione dello spazio pubblico prodotto da tali processi ha accolto contese tenaci. Dalla composizione di queste contese è emersa la democrazia liberale della seconda metà del Novecento, che ha ampliato le libertà civili e il benessere economico-sociale come mai era accaduto prima. Una delle principali conseguenze è stata il rimescolamento e l’allargamento della classe dirigente intesa nel suo complesso. Nell’epoca d’oro dell’occidente (che coincide in particolare con gli anni 50 e 60 del secolo scorso) lo spazio della classe dirigente è stato molto accogliente per chi, provenendo dal basso e con la forza del proprio talento, ha potuto perseguire il proprio progetto di vita e di ricerca della felicità. Si è così determinato un continuo scambio tra minoranza governante e maggioranza governata. Esattamente quello che non accade oggi, in un’epoca che divide in comparti stagni i ceti sociali. Non soltanto il gap tra chi ha di più e chi ha di meno si è allargato come non mai, ma si è esacerbato il contrasto tra una classe dirigente globalista e cosmopolita sempre più chiusa nel proprio egoismo di classe, e le masse governate che, con ragione storica, faticano a vedere migliorate le proprie condizioni di vita.

Oggi il compito principale della classe o minoranza dirigente è aprire se stessa, sin dai percorsi formativi, alla maggioranza governata. Diversamente, i paesi non occidentali, a seguito dell’innalzamento complessivo delle condizioni di vita del già ricordato miliardo di persone uscito dalla povertà, hanno governato con ordine gli effetti di tale innalzamento. La loro configurazione di nazioni a regime democratico non liberale, o a regime totalitario, ha temperato le spinte dei fuoriusciti dalla povertà. Qua e là ha accettato di allargare lo spazio delle élite nazionali, accogliendo nuovi aspiranti membri della classe dirigente, ma non ha permesso a chi spingeva per entrare di mettere in discussione l’ordine costituito. I regimi illiberali o totalitari sono riusciti in questo intento proprio perché tali: illiberali e/o totalitari. I naturali rivolgimenti all’interno delle loro classi dirigenti (ma qui “naturali” tradisce il punto di vista occidentale di chi scrive) sono stati, all’occorrenza anche brutalmente, normalizzati. Nei regimi illiberali e/o totalitari, le élite dirigenti preesistenti all’azione antipauperistica della globalizzazione hanno difeso il proprio perimetro di ceto dominante. Hanno cooptato chi volevano cooptare (e secondo modalità da loro definite) e hanno sedato, con gli strumenti della coercizione politica di stato, le inquietudini che pure si erano agitate. Un esogeno alleato hanno trovato nel tracollo attrattivo del soft power delle società occidentali, entro le quali la globalizzazione andava riducendo le opportunità e aumentando la povertà. In sintesi. Nei paesi a democrazia illiberale o nelle nazioni a regime totalitaria, le classi dirigenti hanno accolto tra le proprie fila chi volevano, tenendo buoni i tanti che avevano aspirazioni in tal senso con il mero appagamento derivante dalle maggiori possibilità consumistiche. Lo hanno fatto con gli strumenti iper-dirigisti propri di quei regimi politici e forti della crisi del soft power occidentale. All’opposto, nelle democrazie occidentali la ferale staticità sociale ha prodotto un incattivimento e una chiusura della classe dirigente: oggi lo scambio tra minoranza governante e maggioranza governata è così basso da lasciarsi leggere come inesistente se misurato su larga scala. Un gran bel pasticcio se si tiene conto del fatto (storico) che l’occidente è cresciuto complessivamente di più quando questo scambio è stato molto più intenso.

La presunzione intellettuale dell’élite. Da questo punto di vista, assume nuovo significato la diffidenza delle masse governate verso la presunzione intellettuale delle minoranze governanti. Intendiamoci. La critica contro la competenza dell’élite dirigente (tornata oggi di moda grazie a Tom Nichols) è antica quanto la critica alla democrazia. Platone, nella Repubblica, vedeva nell’antintellettualismo della democrazia il suo peccato mortale. La prospettiva che i governanti si facessero filosofi, e i filosofi governanti, non era altro che la schietta affermazione della necessaria (per Platone) coincidenza tra potere e sapere. Un regime che non avesse previsto questa coincidenza, avrebbe sì superato i limiti demagogici della democrazia, ma non la diffidenza del tiranno Gerone verso la saggezza del poeta Simonide, descritta da Senofonte nel dialogo lungamente chiosato da Leo Strauss e Alexandre Kojève. Se quindi l’antintellettualismo delle maggioranze governate verso le minoranze governanti è antico quanto la civiltà occidentale stessa, oggi che la mobilità sociale è bassa in Germania, molto bassa in Francia, praticamente inesistente in Usa, nel Regno Unito e in Italia, quell’antintellettualismo acquisisce significati molto interessanti. Significati che ne spiegano l’estremismo verbale (non le sempre deprecabili volgarità ed efferatezza), ma soprattutto la fondatezza storica. Ancor più se alla rivolta contro l’intellettualismo delle masse governate, le minoranze governanti rispondono opponendo con arroganza la propria superiorità intellettuale. Dalla quale per giunta fanno discendere la propria superiorità morale! Il dibattito sui vaccini è in tal senso un esempio perfetto. Non siamo passati dai primi tentativi di vaiolizzazione della fine del Settecento alla vaccinazione di massa antipolio della seconda metà del Novecento, insultando i malati o le loro famiglie. La diffidenza dei non istruiti verso la sperimentazione scientifica è un atteggiamento naturale. Non lo abbiamo in passato superato imponendo con presunzione il punto di vista intellettuale. Ma con lente e appassionate campagne di informazione e comunicazione, espressione di politiche gradualiste di governi nazionali e organizzazioni sovranazionali. Per quanto possa apparire assurdo, ma appare tale solo a chi ha un’idea bislacca della democrazia, con l’informazione e la persuasione abbiamo costruito consenso intorno alle politiche di vaccinazione di massa. Come se si trattasse di costruire consenso tra i contadini per una riforma agraria. E così dovremmo continuare a fare, nella migliore tradizione occidentale. Ovvio che diffondere conoscenza, piuttosto che spocchia intellettuale, comporta il rischio che coloro che acquisiscono conoscenza pretendano poi di insidiare le posizioni della classe dirigente. Ma è proprio la possibilità che chi oggi fa parte della minoranza governante, se sprovvisto di talento, possa discendere al grado di maggioranza governata, che rende la relazione tra minoranza e maggioranza più quieta ed equilibrata. Come la speculare possibilità di ascendere al ruolo di minoranza governante per chi è nato e cresciuto nel perimetro ampio della maggioranza governata.

Scegliere i medici tra i figli dei medici. Qualche settimana fa Matthew Stewart, sull’Atlantic, ha raccontato come il sogno americano sia diventato un incubo. In particolare negli anni di Bush figlio e ancora di più negli anni di quel mito del progressismo mondiale che è Barack Obama, negli Stati Uniti le diseguaglianze di reddito e di conoscenza sono letteralmente esplose. Privilegi di classe e diseguaglianze sono diventati ereditari. Scrive Stewart: “La classe meritocratica ha imparato il vecchio trucco di consolidare la ricchezza e trasmettere i privilegi ai nostri figli a spesa dei figli degli altri. Noi non siamo gente che passa di lì per caso e vede crescere la concentrazione della ricchezza. Noi siamo i principali complici di un processo che sta lentamente strangolando l’economia, destabilizzando la politica americana ed erodendo la democrazia”. La tesi di Stewart non demonizza il merito in quanto tale. Il problema è un altro. Per stare nello schema della fortunata diade di meriti e bisogni di Claudio Martelli, è come se la politica abbia sostituito i bisogni con i meriti. Chi è più in buona fede ha pensato, insomma, che puntare sui meriti avrebbe prodotto una crescita economica tale da poter essere usata, dopo che essa si fosse determinata, in favore dei bisogni. Ma sono sorti due problemi. Il primo di metodo: l’azione di governo o è simultanea e sintetica nei riguardi della diade meriti/bisogni o finisce, per forza di cose, per creare squilibrio sociale. Il secondo di contesto: la globalizzazione, sbilanciando la crescita in favore delle aree non occidentali del pianeta, non ha suscitato una crescita economica in occidente sufficientemente elevata per porre rimedio ai bisogni, dopo aver sublimato i meriti. Stewart segnala un ulteriore drammatico problema. Negli Stati Uniti (e nel resto delle democrazie avanzate d’occidente) è nata una nuova aristocrazia. Non composta da quello 0,1 per cento più ricco a spese del 90 per cento della popolazione variamente più disagiata. Ma da un 9,9% di popolazione che ama definirsi ceto medio e, in realtà, ha assunto un ruolo di classe dirigente più arcigno e più egocentrico di quello assunto dal famigerato 0,1. Un 9,9 molto più impegnato dello 0,1 a immobilizzare e fossilizzare la dinamica tra minoranza governante e maggioranza governata: “Siamo gente ben educata che veste abiti di flanella: avvocati, medici, dentisti, piccoli banchieri d’affari, alti funzionari di Stato, professionisti d’ogni genere – il tipo di gente che s’invita a cena. Siamo così schivi da negare la nostra esistenza. Continuiamo a ripetere che siamo il ceto medio”. Questa nuova minoranza silenziosa è la classe dirigente dei nostri tempi. E’ una classe dirigente che ha con la propria specializzazione tecnica un rapporto orgiastico e incestuoso. Contro la massa governata intesa come insieme delle persone non particolarmente specializzate (Ortega y Gasset), la nuova minoranza governante oppone il dominio familistico del sapere tecnico-specialistico. Un sapere da trasmettere per via ereditaria ai propri figli come la casa di campagna. Un sapere a cui non fare accedere la grande maggioranza governata allo scopo di non insidiare la propria posizione di dominio. Il cortocircuito è dietro l’angolo. Il binomio tra democrazia liberale ed economia di mercato funziona se la mobilità sociale è viva e lotta insieme a noi. Diversamente, la classe dirigente diviene sempre più improduttiva sul piano economico come su quello civile. Scegliere i medici tra i figli dei medici presenta, cioè, vari problemi. E’ chiaramente una di quelle cose che – da giovani – avremmo definito “un’ingiustizia sociale”. E in tal senso attenta alla liberalità stessa dei nostri regimi politici democratici. Tuttavia scegliere i medici tra i figli dei medici (e gli ingegneri tra i figli degli ingegneri…) produce anche un danno economico perché, restringendo il bacino di reclutamento, la società potrà contare su medici sempre meno capaci. Generalizzando, questo fenomeno di radicale introversione delle classi dirigenti non può che incattivire le masse governate che vedono bloccata ogni possibilità di vera ascesa sociale ed economica.

Classe dirigente e formazione. Forse il primo terreno su cui rinnovare le classi dirigenti occidentali è quello della formazione universitaria e postuniversitaria. L’Italia, in particolare, si trova in una situazione critica. I partiti politici non sono più organizzati come strumenti di formazione e selezione del ceto politico. L’unico apprendistato rimasto è quello dell’amministrazione locale. Ma non si dà classe dirigente nazionale per sommatoria di classi dirigenti locali. La classe dirigente, intesa nella sua interezza e non solo come classe politica, dovrebbe recuperare il gusto, oltre che l’obiettivo, di corroborare le proprie stanche energie aprendo alla minoranza governata i propri percorsi di formazione. E’ un lavoro che dovrebbe riguardare un nuovo investimento di risorse e di fiducia collettiva nelle nostre università, soprattutto in quelle pubbliche, così di recente stupidamente bistrattate da quella propaganda che ha sostituito i meriti ai bisogni. Un lavoro che dovrebbe collegare sempre più in modo sistemico le università al mondo produttivo. A partire da fatti simbolici come la collocazione della delega di governo a più stretto contatto con quella dello sviluppo economico, che non con quella dell’istruzione di base. Tuttavia il compito principale della classe o minoranza dirigente è quello di riconoscersi davvero come tale. Aprire se stessa, sin dai percorsi formativi, alla maggioranza governata è un postulato che va snocciolato anche in luoghi diversi dalle aule universitarie. La pressione delle grandi masse governate, insoddisfatte da come sono governate, può trovare sfogo costruttivo e rasserenamento sentimentale proprio nell’immissione nei percorsi formativi. Con un sistema dei partiti fragile e in via di trasformazione, un ruolo di supplenza nella formazione di una più inclusiva classe dirigente non può che venire anzitutto dal mondo dell’impresa. In Italia percorsi simili formativi specialistici già esistono. Quel che manca è la capacità di ripensarli e riformarli in un’ottica più generale. In anni come quelli che viviamo, anche un manager d’impresa dovrà saper collegare la propria conoscenza specialistica con la consapevolezza civica più generale del suo ruolo nella propria comunità di valori, interessi e bisogni. L’obiettivo, oltre all’acquisizione di un sapere tecnico-specialistico, è la valorizzazione ideale e civile della formazione. Solo così potremo anche dinamizzare la società. In un contesto bloccato come il nostro, non è possibile dischiudere spazi senza mettere a rischio i privilegi ereditati. Se non si mettono a rischio, l’abilità della classe dirigente di dirigere davvero il sistema-paese (in Italia come altrove) avrà sempre meno respiro storico. E la pressione delle grandi masse governate finirà fatalmente per risultare irrazionalista e distruttiva. O si sblocca la nostra democrazia e la si rende socialmente fluida, o il sistema-paese sbanderà in modo ancora più evidente.

Un brillante meridionalista irpino, Guido Dorso, negli anni Quaranta ha offerto un’originalissima definizione di democrazia. L’antintellettualismo delle maggioranze governate verso le minoranze governanti è antico quanto la civiltà occidentale stessa. diretta. Non condividendo il concetto in senso assoluto, nei suoi scritti metteva in guardia la democrazia rappresentativa dal chiudersi a riccio in stratificazioni sociali refrattarie a ogni movimento interclassista. Per Dorso la democrazia diretta era la forma storica della democrazia rappresentativa: “Un’organizzazione nella quale sia opposto il minor numero di ostacoli al duplice ricambio tra classe diretta e classe dirigente”. Dorso andava oltre. Riconosceva, infatti, nella forma di democrazia bloccata, della democrazia senza ricambio, lo schema storico-logico della decadenza di una civiltà e della rivoluzione. Thomas Jefferson, altro uomo del sud come Guido Dorso, vedeva nell’affermazione dell’aristocrazia delle virtù e dei talenti, contro l’aristocrazia delle ricchezze e dei privilegi, l’essenza stessa dell’identità americana e del progetto della nuova nazione. Oggi che i termini della dialettica cara a Jefferson si sono ribaltati, a partire dalla sua America, le classi dirigenti occidentali hanno perduto ogni capacità di visione complessiva dei fenomeni e sono tutte concentrate nel difendere l’intricato ordito di privilegi che hanno tessuto. Ma i forgotten man, come ai tempi di Roosevelt, suonano le loro trombe, bussano al portone della fortezza e hanno ormai i calli sulle nocche che da tempo battono il legno. L’eco dei colpi è sempre più fragoroso. I gangheri del portone cominciano a cedere. Antonio Funiciello

Cercasi classe dirigente. Cercansi nuove vocazioni al bene comune. Politica, la crisi della classe dirigente. Angelo Picariello giovedì 10 dicembre 2015 su Avvenire. Il deficit sembra arrivato al suo picco più preoccupante. Nell'inchiesta di Angelo Picariello i sintomi e le difficoltà di una crisi e le possibili soluzioni. Il deficit di classe dirigente nel nostro Paese, lascito della ultra-ventennale crisi dei partiti, sembra al suo picco più preoccupante. Tre anni fa titolammo un’inchiesta sull’avvento dei social network in politica: «Partiti in crisi, un tweet li sostituirà?». Il punto interrogativo che i manuali bandiscono nei titoli in quel caso fu necessario. E ci permette oggi di abbozzare una risposta. No, l’abilità a primeggiare nel nuovo circo mediatico non crea da sola classe dirigente. La capacità di interpretare una sensibilità diffusa, tramite il veloce ed efficace veicolo dei new media si è mostrato in grado di agevolare l’ascesa di giovani leadership che i rigidi rituali dei partiti old style non avrebbero consentito, ma questo non produce automaticamente l’innervarsi sul territorio di un progetto. Si avvicina un turno amministrativo importante (la prossima primavera vanno al voto città come Milano, Torino, Napoli e Bologna) e i partiti non sanno più come e dove andare a scegliere i loro candidati, mentre nuove ventate impetuose di antipolitica tolgono loro ulteriore credibilità. Quella stessa inchiesta evidenziava, tre anni fa, il ritardo del centrodestra nell’approcciare i nuovi strumenti comunicativi, fatta eccezione, nella Lega, per il caso di Matteo Salvini. Che – dominus assoluto delle dirette di Radio Padania – iniziava a intravedere nei nuovi mezzi una modalità per interagire con tutto il Paese, approfittando di una crisi di rappresentanza della destra e di Forza Italia. Ancora troppo legata quest’ultima a un’idea superata di centralità della tv, modello “discesa in campo” o “patto con gli italiani”. Nel Pd invece, accanto all’allora segretario Bersani, l’unico a vantare, tre anni fa, più di 100mila seguaci su Twitter, era quel Matteo Renzi, destinato presto a scalare prima il partito e poi Palazzo Chigi fino a diventare primatista assoluto di follower, con oltre due milioni, superando di recente anche Beppe Grillo che ne conta circa 1 milione 900mila. Ma il boom elettorale dei due Matteo ha messo paradossalmente in crisi le due relative strutture-partito. La Lega salviniana ha assunto, nei numeri, la leadership del centrodestra e ora sfrutta la scia del boom lepenista. Tuttavia il partito di via Bellerio a dispetto del passaggio a doppia cifra dei consensi, quasi non esiste più nella percezione generale, e non c’è un altro gruppo dirigente che ne abbia preso il posto. Rotto l’ultimo tabù, sbarcata lo scorso febbraio a piazza del Popolo nel cuore dell’ex 'Roma ladrona', questi nuovi consensi fuori dal tradizionale territorio sembrano ancora privi di intestatari: eserciti elettorali privi di condottieri. nvece qualche passo avanti, nell’allargamento del gruppo dirigente lo registra proprio M5S, il partito nato sulla spinta della Rete, che si è posto il problema di una guida plurale, facendo scomparire il nome di Beppe Grillo dal simbolo e palesando nuovi protagonisti in Parlamento. Mentre il deficit di classe dirigente a livello locale non risparmia certo il partito che detiene la golden share della maggioranza di governo, che era arrivato a superare il 40 per cento alle Europee. Nella Milano uscita vittoriosa dalla sfida dell’Expo il Pd tenta di sfruttarne la scia spingendo alla candidatura il suo principale protagonista, Giuseppe Sala. La politica in crisi, a Milano - a differenza dei casi di Roma e Napoli - sembra almeno poter guardare alla vitalità del suo ceto manageriale. In Campania, invece, il Pd sembra oscurato da due figure che pensava di aver ormai archiviato, da un lato Vincenzo De Luca, insediato alla Regione nonostante gli appesantimenti legati alla legge Severino e alle inchieste che hanno coinvolto anche la sua anticamera, e dall’altro Antonio Bassolino, che si dice pronto a riproporsi a Napoli, nonostante i veti del Nazareno. Due nomi in campo come negli anni ’90, quando il G8 consacrò il sindaco del Rinascimento napoletano, e a fargli da contraltare spuntò poi il sindaco sceriffo di Salerno. Come se 20 anni fossero passati invano, come se nel frattempo i prestigiosi atenei campani non avessero sfornato nuovi cervelli, o l’associazionismo, il mondo delle imprese non avesse offerto nuove facce ed energie da prestare alla politica. Il quadro delle difficoltà a selezionare classe dirigente che vive il primo partito italiano vede però il punto più acuto a Roma, dove viene salutata con un sospiro di sollievo la presa in consegna della città, in vista del Giubileo, da parte di ben due commissari. Meglio loro, agli occhi dei vertici Pd, di Ignazio Marino, l’uomo che il partito aveva scelto per guidare la Capitale. Una soluzione, il commissariamento, che consente di prendere tempo, sperando – come a Milano – di sfruttare la scia di un evento che ben gestito. Renzi sembra essersi reso conto. Il Pd ha iniziato a «sgranchirsi le gambe» (espressione di Pierluigi Bersani) con i suoi 2.100 e passa banchetti e decine di migliaia di volontari a distribuire 5 milioni di volantini. E ancora ieri il premier era simbolicamente nella periferia lucana a dare l’ultimo saluto a un dirigente locale scomparso. Una politica ostaggio di individualità che a volte 'subisce' e a volte cerca di coinvolgere, ma che stenta a farsi progetto e rapporto con il territorio. «Senti Francesco Rutelli parlare di Tor Bella Monaca, o Tor Sapienza e ti accorgi che sa almeno di che cosa parla», dice Giuseppe De Rita, a sintetizzare 20 anni di passi indietro della politica, a Roma e non solo a Roma. «Può darsi che io sia uno del ’900, ma non credo che i social network possano servire a elaborare una linea politica. Sono tante molecole che non fanno un disegno», pronosticava tre anni fa, nella nostra inchiesta. E i fatti gli danno ragione, purtroppo. Col risultato che «a Roma – dice oggi il fondatore del Censis – il miracolo non potrebbe farlo neppure Nembo Kid, da solo». «Ma non è che all’estero va diversamente», sostiene Paolo Messa, grande esperto di comunicazione politica, direttore del think tank 'Formiche' e consigliere di amministrazione Rai. «Il livello di elaborazione politica dell’attuale classe dirigente europea non regge certo il confronto con quella dei tempi di Schuman e Adenauer, e neanche, più di recente, di Kohl e Mitterrand. Ma la colpa non è dei social network, non confondiamo le cause con gli effetti». Allora tocca rassegnarsi? «A Roma servirebbe almeno una sana oligarchia», dice De Rita. Una squadra, insomma. Ma da che mondo le persone si mettono insieme sulla scena pubblica per due diverse ragioni: o per interesse o per amore al bene comune. E a Roma – come le inchieste di Mafia Capitale hanno portato alla luce – la politica sembra in ostaggio dei peggiori interessi, persino sui temi più legati a un’idea di bene comune, come l’aiuto agli ultimi e l’accoglienza dei profughi. Che fare allora? Il Pd rispolvera le primarie che sembrava voler accantonare. Ma, come le recenti esperienze di Roma e Napoli dovrebbero aver insegnato, in un’epoca di distacco dalla politica che vede recarsi a votare in media il 50 per cento degli aventi diritto, il rischio - nell’indifferenza dei più - è di finire in balia delle ambizioni e della mobilitazione dei singoli, l’uno contro l’altro armati. Forse, allora, per i partiti sarebbe meglio fare esercizio di umiltà provando a dialogare con il mondo delle liste civiche e dell’associazionismo che meccanismi politicizzati come le primarie spesso non riescono a intercettare. Ma non è solo colpa dei partiti. Questi sono solo il termometro che misura la generale perdita di passione civile, di dedizione al bene comune. Un recente saggio ha evidenziato come nella Costituente, nell’Italia ad alto analfabetismo del dopoguerra, c’era una percentuale di laureati molto maggiore rispetto a quella dell’attuale compagine parlamentare. La più alta forma di carità, la politica nella definizione di Paolo VI, ha smesso di meritare l’impegno delle migliori energie del Paese. Il Consiglio pastorale della Diocesi di Roma ha lavorato un anno e mezzo a confrontarsi sulla situazione di grave difficoltà amministrativa che vive la Capitale. Ne è scaturita una lettera molto bella che il cardinale vicario Agostino Vallini ha inviato ai cittadini romani: «Troppo spesso – scrive – persone di valore non hanno la forza di esprimere la propria vocazione al servizio del bene comune e di incidere beneficamente sulla società, mentre altri per brama di potere e desiderio smodato di arricchimento occupano posti nella direzione e gestione delle istituzioni senza le doti, la motivazione e la competenza necessarie per promuovere programmi e politiche di equità sociale a favore di tutti i cittadini». Una riflessione pensata per Roma, ma che vale per tutti. Un invito a promuovere e a non lasciare sole nuove vocazioni alla politica. A «costruire adeguati cammini di formazione pre-politica aperti a tutti, particolarmente alle migliori energie giovanili». Un lavoro lungo, paziente, difficile, che richiede esempi e buone pratiche. Non basterà un tweet a invertire la rotta. E neppure le primarie. 

·         L'Italia non è per gli Uomini soli al Comando.

L'ESTATE PAZZA DI MATTEO SALVINI. ALBERTO MATTIOLI per la Stampa il 29 agosto 2019. Chi abbia davvero vinto alla riffa della crisi, ancora non è chiaro. Di sicuro, si sa chi ha perso: Matteo Salvini, precipitato in pochi giorni dall'onnipotenza all' irrilevanza, dall'altare alla polvere, dalle stelle (non cinque) alle stalle, dal tutto al nulla. Perfino al Tg2, il Capitano non è più il titolo di apertura. L'attuale classe politica, già in difficoltà con l' italiano, non ricorrerebbe mai al latino. Ma scommetteremmo che a qualche vecchio saggio democristiano tipo Mattarella sarà venuto in mente Genesi, 3, 19, «memento qui pulvis es et pulverem reverteris», oppure Ecclesiaste 1, 2, «vanitas vanitatum et omnia vanitas». Ma forse più che di vanitas il Capitano ha peccato di hybris, in un' estate dove tutto gli sembrava possibile e alla fine tutto gli è sfuggito dalle mani. Un' estate dove il Papeete Beach di Milano Marittima era diventato la succursale del Viminale o, perfino, in proiezione, di Palazzo Chigi e magari pure di Palazzo Venezia. Un' estate da uomo forte, di editti da spiaggia, di giornalisti sfanculati in diretta Facebook, di onnipresenza mediatica e onnipotenza social e perfino di sogni in infradito sui «pieni poteri». Bullizzando Di Maio e pentasoci fra un mojito e un bagno nell' Amarissimo come già un illustre predecessore, lui però a Riccione, mentre alle Europee entravano milioni di voti, le barche dei disperati non entravano nei porti, sotto l' ombrellone il Paese pareva apprezzare e a detta di tutti l' omo de panza era anche omo de sostanza, lanciato verso gli immancabili destini che in Italia, chissà perché, alla fine non quagliano mai. Poi il solito democristiano cinico e baro, un altro Matteo, ha fatto il suo gioco di prestigio e ha rinnovato la lunga e gloriosa tradizione nostrana di connubi, trasformismi, ribaltoni e così via. L' ha ammesso anche lui, il Matteo leghista, pur con tutti i distinguo del caso, «un errore se lo si considera in base alle logiche della vecchia politica», ma insomma sì, un errore: «Io non pensavo che ci sarebbero stati dei parlamentari renziani che invece di andare alle elezioni avrebbero votato anche per il governo di Pippo e Topolino», che invece poi sarà, pare, il Conte II. L' usato sicuro va forte anche a Topolinia. Matteo, inteso come Salvini, non l'ha presa benissimo. Prima è sparito, poi ha dato la sua versione della caduta: la colpa è dei poteri forti, dell' Europa cattiva, della coppia di fatto Merkel-Macron. «Questo governo nasce a Bruxelles per far fuori quel rompipalle di Salvini», dice l' interessato in una delle sue duemila dirette quotidiane. Naturalmente il complotto demo-pluto-massonico si tramava da tempo, anche se poi non si capisce perché Salvini gli abbia dato una mano sfiduciando Conte. Già, Conte. Macché avvocato del popolo, «è l' avvocato dei poteri forti». L' ex amico è diventato tanto nemico che oggi il Capitano non andrà nemmeno a farsi consultare. E commenta sprezzante il discorso di investitura: «L' ho sentito parlare di nuovo umanesimo. Manca che risolva la pace nel mondo e la ricrescita dei capelli» (sulla tinta, invece, il professore ha già dato). E certo, forse in casa Lega servirà una riflessione su una politica estera spericolata, una maggior attenzione nella scelta degli amici sovranisti, e anche degli intermediari. Putin sarà meglio non farlo più approcciare dai Savoini di turno, Bolsonaro ha ridato Battisti ma sull' Amazzonia non sta facendo una bella figura, Johnson aggiorna il Parlamento come Carlo I Stuart, Trump cinguetta elogi per «Giuseppi» Conte e Orban non si è preso nemmeno un migrante. In compenso ieri ha mandato una scarna letterina dove assicura il «caro Matteo» che lui non lo dimenticherà, che detto così suona perfino un po' jettatorio. E adesso? Adesso, è chiaro, riprende la campagna elettorale, concesso e non dato che sia mai finita. Il Capitano riparte col giro d'Italia delle feste leghiste, oggi a Conselve, domani a Pinzolo, domenica ad Alzano. È innegabile: l' uomo ha più energia di una Duracell. Già annuncia un week-end di gazebo il 21 e 22 settembre «per chiedere democrazia», il garden party a Pontida il 15 ottobre e soprattutto «una grande giornata di orgoglio italiano» il 19 ottobre, con il popolo chiamato manifestare in piazza a Roma. Si è già capito dove martellerà «la Bestia», la macchina della propaganda social leghista: ancora una volta, il derby da narrare sarà quello del popolo contro l' élite, dell' Italia contro l' Europa, delle urne contro i giochi di palazzo. Le prospettive sono più incerte, però. E soprattutto non dipendono solo da Salvini e dalla sua capacità di entrare in sintonia con la pancia del Paese (che conta certamente più del suo cervello, almeno per quei radical chic che poi lo accusano di votare coi piedi). Dipende anche da cosa i giallorossi riusciranno a fare e soprattutto da quanto riusciranno a durare. L' opposizione paga se non si prolunga troppo, e oggi nella politica italiana un anno è un' eternità. Già i sondaggi, per la prima volta da molto tempo, mostrano una flessione della Lega. E nel partito ormai in molti si erano abituati a posare le terga su poltrone prestigiose. La fronda, per ora, è limitata alla minoranza, a quelli che pensano ancora al Nord e al problema settentrionale, non hanno ancora digerito il salto dalle erezioni bossiane alle ostensioni salviniane e vedono che l' autonomia rimane una chimera. Ma per tenere insieme il partito, per ricostruire dopo la prima sconfitta (tattica, ma pur sempre sconfitta) il mito del Capo infallibile, bisogna che la traversata del deserto non sia troppo lunga. Qualche mal di pancia già affiora. Per esempio, l' insistenza con la quale la testa leghista più fina, insomma Giancarlo Giorgetti, ripete che Salvini ha fatto tutto da solo la dice lunga. Chi però lo dà per politicamente morto sbaglia, e i tripudi sulla fine del Truce o la caduta del Capitone appaiono ottimistici, in ogni caso prematuri. Il Salvini di governo è niente rispetto al Salvini di lotta, che sarà dura e senza paura (già, era o non era un «comunista padano?»).

Governo, Salvini e Di Maio  e la solitudine dei numeri due. Pubblicato mercoledì, 21 agosto 2019 da Gian Antonio Stella su Corriere.it. Manca solo la «Regina di Bitinia». Tolti i tweet, i post e le dirette facebook, però, lo scontro fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio ricorda l’odio insanabile che divise Gaio Giulio Cesare e Marco Calpurnio Bibulo. I due consoli che, a dispetto del nome (consules: «coloro che decidono insieme») si spaccarono nel giro d’un anno su tutte ma proprio tutte le decisioni per governare Roma. Certo, dopo essersene dette di tutti i colori, i proconsoli decaduti ieri un accordo nella scia del voto 2018 pareva l’avessero trovato. E sottoscritto. Sul potere, però. Poca stima. Zero convergenze su troppi principi. Anche nei giorni del famoso murale in via del Collegio Capranica dove il maschio alfa milanese baciava l’imberbe pomiglianese. Murale subito rimosso da zelanti pittori al servizio dei nuovi podestà. E adesso? Eccoli là, sempre più distanti. Un’ultima telefonata: «Mi hai tradito». Non un incrocio di sguardi alla cerimonia per i morti di Genova. Broncio nero senza un’occhiata martedì al Senato. E per quanto possano strillare, come ha fatto il Capitano leghista, o starsene zitti come ha preferito fino a ieri il Capo grillino, i due di colpo si ritrovano, spiazzati dagli eventi, dentro una situazione simile. La solitudine dei numeri secondi. Vice uno, vice l’altro. Ma convinti tutti e due, uniti da un patto generazionale oltre che politico, d’essere in realtà ciascuno il «vero» Presidente del primo Governo vice-presidenziale (copyright Fabio Bordignon) della Repubblica. E tutti e due, in momenti diversi, pronti a rivendicare la propria supremazia. Nella prima fase l’ex venditore di bibite dello stadio San Paolo, che si picca d’avere scelto personalmente, posandogli sulla spalla la spada Gioiosa, «l’avvocato del popolo Giuseppe Conte» e declama: «Sul contratto sta andando tutto bene. Naturalmente stiamo scrivendo la storia per cui un po’ di tempo ci vuole». La storia... Poi l’ex comunista padano e neo-sovranista, che a ogni porto chiuso cresce nei sondaggi e vince elezioni locali a ripetizione e allaga il web invitando i suoi fedeli a inviare a lui personalmente, il Capitano, le foto dei loro «bambini felini» (geniale una risposta: «Molti mici, molto onore») finché comincia a battere e ribattere su un tema: chi comanda sui porti? Lui. Altro che il ministero dei Trasporti o quello della Difesa: «Siccome io sono l’autorità nazionale garante della pubblica sicurezza, la decisione su chi entra e chi esce è mia». «I ministri dei Cinque Stelle sono brave persone, oneste e con la voglia di cambiare il Paese. Ma se i porti si chiudono o si aprono lo decido io». «Se ho ricevuto telefonate per sbloccare il nuovo sbarco? Ho tanti difetti, ma decido con la testa mia». Sempre più anche su temi estranei al Viminale. Basti ricordare il brusco richiamo salviniano sui mini-bot, per bocca del fedelissimo Claudio Borghi, al ministro Giovanni Tria: «È giusto che un tecnico abbia le sue idee, ma la responsabilità politica è nostra: decidiamo noi». Non andò tanto diversamente, ricorda Luciano Canfora nel suo libro «Giulio Cesare. Il dittatore democratico», il consolato del 59 a.C., quando furono eletti da una parte l’autore del «De bello Gallico» e dall’altra appunto Marco Calpurnio Bibulo. Non si sopportavano. Andarono presto alla rottura. E questa, in un clima sempre più incandescente dove i nemici di Cesare rilanciarono anche una vecchia maldicenza allusiva sui suoi rapporti con Nicomede IV di Bitinia, fu «così irreparabile e drammatica che Bibulo si barricò in casa emanando durissimi quanto impotenti editti contro il collega» mentre Cesare prese a governare da solo e, scriverà Svetonio, «a suo pieno arbitrio». Tanto che il consolato che di solito era ricordato coi nomi dei due consoli, passò come quello «di Giulio e Cesare». Andrà così anche questo giro? Nella scia del voto alle Europee molti avrebbero scommesso fino a un paio di settimane fa sulle elezioni anticipate e su un nuovo consolato unico «a pieno arbitrio». Ma lo stesso leader della Lega, tra collaboratori perplessi, non è più così sicuro. E non c’è chi non abbia visto l’altro pomeriggio, dietro le mille smorfie fatte per mascherare la collera furibonda che lo possedeva mentre Giuseppe Conte lo infilzava con lo spadino del torero, un vistoso sbandamento. Magari non il «terrore di essersi infilato in un tunnel senza uscita» descritto dai nemici: quella è propaganda. Il dubbio d’aver sbagliato i tempi, però, ora ce l’ha. Il timore d’aver sottovalutato la risposta dei parlamentari che aveva invitato giorni fa ad «alzare il culo» per accorrere a farsi licenziare, ora ce l’ha. E così quello d’averla fatta grossa, forse rintronato dalla musica sparata del Papeete Beach, nell’invocazione dei «pieni poteri». Una fanfaronata dai ricordi sinistri che da giorni cerca, quello sì disperatamente, di sopire. E’ la solitudine, però, quella che pesa di più. Certo, una solitudine strapiena di leghisti, fedeli, ammiratori, camerati. Un grande zoccolo duro. Ma intorno? Sicuro che i famosi «moderati» siano disposti a seguirlo su percorsi sempre meno sereni e più avventurosi, come quello rilanciato ieri dell’uscita dall’euro? E sarebbe sul serio in grado, Salvini, di reggere ancora per mesi e mesi una campagna elettorale durissima e costosissima (sul groppo restano quei 49 milioni di debiti…) senza più gli enormi vantaggi degli aerei blu, delle auto blu, delle moto d’acqua blu? Magari senza quelle spintarelle quotidiane che gli vengono dalle tivù? Vale per lui, vale per Luigi Di Maio. Che dopo avere a lungo maramaldeggiato, forte dell’investitura di Beppe Grillo, dentro il suo stesso partito sempre più percorso da inquietudini, rischia oggi di pagare care la vanità di promettere «un nuovo boom economico come quello degli anni Sessanta» e gli appelli spericolati ai piazzaroli francesi («Gilet gialli, non mollate!») e le retromarce su antiche promesse («Se mi vedete in auto blu linciatemi») e le urla di giubilo sul balcone (il balcone!) di Palazzo Chigi al grido di «oggi è cambiata l’Italia! Abbiamo portato a casa la Manovra del Popolo che per la prima volta nella storia di questo Paese cancella la povertà!»Come andrà a finire non si sa. Probabilmente neppure Mattarella, nella sua saggezza, lo sa. Certo è difficile che, per come si son messe le cose negli ultimi giorni, possano avverarsi le tonanti sicurezze salviniane: «Si rassegnino i compagni: governeremo per i prossimi 30 anni…». È già sceso a dieci. Poi si vedrà…

Quando si evoca il fascismo è roba da vetusti comunisti. Matteo Salvini vuole "Pieni poteri". Come disse Benito Mussolini. Le parole del leader leghista nel comizio di Pescara sono curiosamente sovrapponibili a quelle pronunciate dal Duce 16 novembre 1922 nel celebre “discorso del bivacco”. L'Espresso il 09 agosto 2019. Il leader di estrema destra, a un passo al diventare ufficialmente presidente del Consiglio, ha le idee chiare. «Chiediamo i pieni poteri perché vogliamo assumere le piene responsabilità. Senza i pieni poteri voi sapete bene che non si farebbe una lira – dico una lira - di economia» chiosa davanti ai fan che applaudono in delirio. «Con ciò non intendiamo escludere la possibilità di valorose collaborazioni, partano esse da deputati, da senatori o da singoli cittadini competenti. Abbiamo ognuno di noi il senso religioso del nostro difficile compito, il Paese ci conforta e attende, e non gli daremo ulteriori parole, ma fatti». Chi parla non è Matteo Salvini, che a Pescara ha fatto un comizio durissimo che ha sancito la fine del governo gialloverde e l'inizio della sua campagna elettorale. Ma Benito Mussolini, che il 16 novembre 1922 tenne il celebre “discorso del bivacco”, il primo tenuto dal Duce da presidente del Consiglio incaricato. Sarà solo un caso fortuito, senza dubbio. È curioso, però, come le parole pronunciate ieri dal leghista sembrino, in molti passaggi, sovrapponibili quelle del fascista. Dopo essere sceso dal palco di Pescara, Matteo Salvini annuncia che si candiderà a premier nelle prossime elezioni politiche. "Abbiamo fatto una scelta di coraggio. Adesso chiedo agli italiani se hanno la voglia di darmi pieni potermi per poter fare quello che abbiamo promesso senza palle al piede. Chi sceglie Salvini sa cosa sceglie", ha detto il ministro dell'Interno, dopo aver terminato il comizio. «Chiedo agli italiani se vogliono darmi pieni poteri per fare le cose come vanno fatte» ha detto Salvini «Dobbiamo fare in maniera veloce, compatta, energica, coraggiosa quel che vogliamo fare. Non è più il momento dei no, dei forse, dei dubbi...E, beninteso, non mi interessa tornare al vecchio: se devo mettermi in gioco lo faccio da solo, e a testa alta. Poi potremo scegliere dei compagni di viaggio, certo...Gli italiani hanno bisogno di un governo che faccia». Sulle alleanze, sui fatti al posto delle parole, sui "pieni poteri" necessari al rilancio del Paese i due leader hanno utilizzato le stesse identiche frasi. Mussolini, concludendo il monologo con cui ottenne la fiducia dell'Aula, chiese l'intervento di «Iddio», che «mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica». Salvini ieri non l'ha fatto. Come è noto, lui preferisce appellarsi alla «Madonna» o «alla Beata Vergine Maria». 

Craxi, Walter e Matteo 1 (e 2?): la sindrome perdente dell’uomo solo al comando. Francesco Damato il 10 Agosto 2019 su Il Dubbio. Le tentazione di andare da solo ha attraversato la storia della Repubblica. Salvini ha rotto con i 5stelle perché è convinto di riuscire lì dove in molti hanno fallito. Ma le vocazioni maggioritarie non hanno portato fortuna a nessuno. Si è fatto prendere forse un po’ troppo la mano Matteo Salvini nel suo comizio a Pescara, per quanto comprensibilmente indispettito dalla decisione di Giuseppe Conte, che forse già conosceva, di rovesciargli addosso tutta intera la responsabilità della crisi con un monologo a Palazzo Chigi in cui avrebbe opposto la laboriosità del governo da lui presieduto alle “spiagge” preferite dal suo vice leghista e ministro dell’Interno. Eppure i grillini avevano da poco messo il presidente del Consiglio, non a caso tenutosi lontano dall’aula del Senato, in una situazione incredibile contestando di fatto con una mozione il suo sì alla Tav. Con gli occhi, la mente, il cuore e chissà cos’altro rivolti agli elettori da lui già immaginati alle urne in autunno, senza aspettare neppure per cortesia lo scioglimento delle Camere spettante solo al capo dello Stato Sergio Mattarella, prudente ma gelosissimo, come tutti i predecessori, di questa prerogativa conferitagli dall’articolo 88 della Costituzione, col solo vincolo di sentirne prima i presidenti, Salvini ha detto, fra l’altro: «Se devo mettermi in gioco, lo faccio sereno, da solo e a testa alta. Poi potremo scegliere i compagni di viaggio, purchè non mi si venga a parlare di un governo sostenuto da Scilipoti vari», cioè da transfughi e avventizi. Sfrattato Conte da Palazzo Chigi prima ancora di presentare al Senato la mozione che lo sfiducerà, Salvini sembra avere sfrattato, con quelle parole a Pescara, Silvio Berlusconi dalla postazione di alleato del centrodestra pur operante in tante amministrazioni locali. In teoria, se i sondaggi non gli suggeriranno altre scelte alla luce della legge elettorale in vigore, dovrebbe considerarsi sfrattata dalla postazione di alleata anche Giorgia Meloni con i suoi “fratelli d’Italia”, sovranisti come il “capitano” leghista. Salvini evidentemente sente il vento in poppa con quel 38 per cento attribuitogli dagli aruspici elettronici anche dopo le polemiche a dir poco fastidiose cavalcate dalle opposizioni politiche e mediatiche sui presunti finanziamenti cercati per la Lega in Russia da persone indagate a Milano. Mentre molti si sono confrontati e si confrontano sui personaggi della storia repubblicana italiana cui paragonare Conte, chi indicando Giulio Andreotti, chi Aldo Moro e chi Mario Monti, il leader leghista ha giocato davvero d’azzardo paragonandosi, forse senza neppure rendersene conto, addirittura ad Alcide De Gasperi. Che nelle storiche elezioni politiche del 18 aprile 1948, con un’affluenza alle urne del 92,19 per cento, impensabile nei giorni e anni nostri, portò da sola la Dc al 48,51 per cento dei voti. E ciò nonostante, peraltro, pur disponendo di 305 deputati e 131 senatori, grazie ai quali avrebbe potuto tentare la formazione di esecutivi monocolori democristiani, egli preferì fare governi di coalizione con i liberali, i repubblicani e i socialdemocratici. L’aggettivo “solo” terrorizzava quel pur coraggioso statista che fu l’artefice politico della ricostruzione dell’Italia e delle sue scelte internazionali. Esse furono così lungimiranti da indurre dopo tanti anni un segretario comunista come Enrico Berlinguer a sentire l’autonomia del suo Pci più sicura e protetta, rispetto ai condizionamenti di Mosca, sotto l’ombrello dell’alleanza atlantica. Fa una certa impressione, via, affiancare Salvini, e la sua Lega, a De Gasperi e alla sua Dc, anche se riconosco che la Lega di Umberto Bossi agli inizi degli anni Novanta decollò al Nord in zone di forte radicamento democristiano. Dove però non era stata gradita la meridionalizzazione dello scudo crociato avvenuta durante la lunga e vigorosa segreteria del partito di Ciriaco De Mita. Le vocazioni maggioritarie, chiamiamole così, per non chiamarle addirittura solitarie, non hanno del resto portato fortuna a nessuno che le abbia coltivate. Non la coltivò d’altronde neppure De Gasperi, che non avendo perseguito la maggioranza assoluta, per fare “da solo”, commentò i risultati delle elezioni del 1948 con la celebre battuta: «Credevo che piovesse, non che grandinasse». Bettino Craxi, che non scherzava certo per ambizioni e temperamento, volle sfidare nel 1991 tutti i partiti più radicati nella politica italiana, esclusa quindi la Lega fresca di esordio, contrastando con una campagna astensionistica –“andate al mare”- il referendum contro il sistema elettorale delle preferenze plurime. E perse rovinosamente. Nel 2016 l’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi volle affrontare da solo il referendum sulla sua riforma costituzionale, perdendolo altrettanto rovinosamente, sia pure col 40 per cento dei consensi, pari alla percentuale dei voti raggiunti nelle elezioni europee di due anni prima. Pertanto egli chiese a Mattarella un ricorso anticipato al rinnovo delle Camere che gli fu però negato. Berlusconi negli anni del suo centrodestra, quando cominciò ad avvertire difficoltà nella gestione degli alleati, prese l’abitudine di rimproverare e persino insultare gli elettori per non avergli dato i numeri per governare da solo. Ma quelli gli risposero non aumentando, bensì riducendogli progressivamente i voti, sino a farlo sorpassare da Salvini l’anno scorso e ora, nei sondaggi, persino dalla Meloni. Fu sfortunata la vocazione maggioritaria rivendicata alla nascita del Pd, nel 2007, dal suo fondatore e primo segretario Walter Veltroni, letteralmente sfibrato dai cespugli di sinistra e di destra, da Fausto Bertinotti a Clemente Mastella, che avevano strozzato quasi nella culla entrambi i governi di Romano Prodi. Consapevole dell’obiettivo troppo ambizioso che si era proposto nelle elezioni anticipate del 2008, dopo la caduta del secondo governo Prodi, il povero Veltroni chiese aiuto ad Antonio Di Pietro e alla sua Italia dei Valori, apparentandoli col Pd. Ma ciò non solo non gli consentì di evitare l’ultima vittoria elettorale del centrodestra di Berlusconi, e relativo governo, ma alla fine gli rese così problematica la gestione dell’opposizione, su posizioni anche di oltranzismo giustizialista, da fargli perdere la segreteria del partito. A questa storia poco fortunata, e parziale, dei solitari, dei quali potrei scrivere ancora più a lungo, appartiene anche il monito che una volta Aldo Moro rivolse al pur amico, molto amico Carlo Donat- Cattin, perplesso sul passaggio della “solidarietà nazionale” col Pci fra il 1976 e il 1978, l’anno peraltro della tragica morte del presidente della Dc, assassinato dalle brigate rosse. “E’ meglio sbagliare in compagnia che avere ragione da soli”, gli disse Moro.

La sinistra e gli insulti a Salvini. Artisti, scrittori, attori "di sinistra" impegnati nel nuovo sport nazionale: l'offesa al ministro dell'Interno. Anche a costo di incredibili figuracce. Domenico Alessandro Mascialino, Giovedì 08/11/2018, su Il Giornale. In Italia da qualche tempo non è più il calcio ad essere lo sport nazionale. La nuova disciplina che la fa da padrona è diventata l'offesa al ministro dell'Interno, Matteo Salvini. Specie ad opera di quella galassia di sedicenti artisti, musicisti, scrittori che si colloca nell'area più sinistra del nostro Paese. Tutti accomunati da grandi valori e buone intenzioni, per carità. Ma soprattutto dall'insulto facile.

Salvini, se muori facciamo una festa. Il primo caso da citare è quello del rapper Gemitaiz, che a giugno su Instagram postò la frase "Salvini ti auguro il peggio, se muori facciamo una festa" per protestare contro il respingimento della nave Aquarius. Evidentemente il buonismo vale solo per gli immigrati clandestini.

Asia Argento: #Salvinimerda. Poi c'è la ineffabile Asia Argento, che tra un'accusa di molestie da parte di qualche attore e un'offesa alla sua stessa madre, a luglio è riuscita anche a dare della "merda" al ministro dell'Interno su Twitter.

Saviano: "Ministro della malavita". La Argento con il suo insulto entrava a gamba tesa in una polemica social già avviata tra Salvini e Roberto Saviano, il quale a giugno lo definì "ministro della malavita" su Facebook per aver accennato a un possibile ritiro della scorta.

Le offese di Toscani. Come non citare, poi, quel finissimo intellettuale di Oliviero Toscani, che ha paragonato Salvini a "una scoreggia", ha definito il suo cane "più intelligente dei leghisti", e commentando la foto del vicepremier su Time ha detto "ha la faccia di uno stupratore".

Fornero: Salvini fascista. Tutto questo senza citare la politica, dove le offese non mancano anche a causa della "trance agonistica" tra i protagonisti in campo. Tra i politici che si sono distinti nell'offesa a Salvini c'è l'ex ministro Elsa Fornero, che lo ha definito "neofascista, rozzo e aggressivo".

Vip contro Salvini. A loro insaputa. Nell'epopea della lotta al ministro dell'Interno si sono poi messi in evidenza quelli di Rolling Stone, che l'estate scorsa hanno pubblicato una fantomatica lista di "Vip contro Salvini" da cui si sono ben presto dissociati, tra gli altri, Enrico Mentana, Fiorella Mannoia e Linus perché mai interpellati in merito all'iniziativa. Quando la "resistenza" ti recluta a tua insaputa.

L'ultimo delirio: il "fascistometro". Per concludere il bestiario non poteva mancare la delirante iniziativa de L'Espresso, col test ideato dalla scrittrice Michela Murgia per valutare il grado di "fascismo" del lettore in base a 65 quesiti. Uno strumento perfettamente in linea con questi tempi, in cui le sinistre accusano di fascismo chiunque non condivida le loro idee in materia di sicurezza e immigrazione. A questo non possiamo che preferire il Murgiometro de Il Giornale oppure il Zeccometro de Il Tempo. Decisamente più adatti ai nostri gusti.

·         Prove tecniche di ribaltone.

Conte racconta la crisi d'agosto: "Salvini era preoccupato". Il premier rivela alcuni retroscena della crisi di governo: "La Lega voleva espandersi, tutti leggevano i sondaggi..." Luca Sablone, Mercoledì 06/11/2019 su Il Giornale. Giuseppe Conte racconta la crisi di governo di questa estate. In uno stralcio del libro di Bruno Vespa "Perché l'Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare)" pubblicato sull'edizione odierna del Corriere della Sera, il premier ha svelato dettagli e retroscena della bufera d'agosto: "Il 7 agosto Salvini mi anticipò la volontà di interrompere l'esperienza di governo con il Movimento 5 Stelle". Il suo obiettivo era quello di "andare alle elezioni" ma non si trattava di una decisione definitiva, era solamente l'anticipazione del suo orientamento: "Fui io a suggerirgli di prendersi 24 ore di tempo e di rivederci all'indomani". Dopo aver lasciato Palazzo Chigi il leader della Lega si recò a Sabaudia per tenere un comizio e nell'occasione tuonò: "Negli ultimi 2 o 3 mesi qualcosa si è rotto. Abbiamo ricevuto troppi no. O riusciamo a fare le cose bene e velocemente o non sto a scaldare la poltrona".

La crisi. I due si incontrarono nuovamente il pomeriggio dell'8 agosto, il giorno del compleanno dell'avvocato: "Fu un colloquio tranquillo e cortese. Aprimmo uno spumante e offrimmo pasticcini". L'invito era quello di "riflettere sui tempi della crisi" perché avrebbe potuto avere "conseguenze gravi per il Paese", soprattutto con l'ombra della legge di Bilancio: "Ti rendi conto che dovresti affrontare da solo l'esercizio provvisorio di bilancio avendo sulle spalle 23 miliardi per non aumentare le aliquote Iva?". Il presidente del Consiglio ha raccontato che l'ex ministro dell'Interno "era visibilmente preoccupato. Gli dissi che metteva in difficoltà il Movimento e Di Maio, ma era esattamente quanto gli suggerivano i suoi calcoli politici". Si è provato a dare una spiegazione sull'apertura della crisi: "La Lega voleva espandersi, gli amministratori locali emergenti scalpitavano, tutti leggevano i sondaggi...". Crede che alla fine Salvini abbia pensato che "restare con il Movimento sarebbe stato meglio di un'alleanza con Fratelli d'Italia", come dimostra anche "il suo tergiversare fino all'ultimo momento, dovuto anche alla consapevolezza di assumersi una responsabilità enorme". Dopo l'annuncio del ritiro della fiducia, il premier si recò in Senato per esprimere la volontà di parlamentarizzare la crisi: "Le crisi di governo non si risolvono con una telefonata. Bisogna portarle alle Camere". Il giorno dopo rispose che non si sarebbe prestato "a giochi di palazzo e che era assolutamente fantasiosa l'ipotesi" che cercasse alle Camere maggioranze alternative: "Volevo, in realtà, semplicemente attenermi alle regole della democrazia parlamentare". All'uscita da Palazzo Chigi, Conte disse ai giornalisti: "Lasciamo stare questi giochetti da Prima Repubblica. Non togliamo alla politica la sua nobiltà".

Conte e la bufera d’agosto «Quando Matteo mi disse che voleva correre da solo». Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 da Corriere.it. Il “Corriere della sera” pubblica uno stralcio del libro di Bruno Vespa «Perché l' Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare)». «I l 7 agosto Salvini mi anticipò la volontà di interrompere l’esperienza di governo con il Movimento 5 Stelle» mi racconta Giuseppe Conte. «Voleva andare alle elezioni. Non aveva ancora preso una decisione definitiva, ma mi anticipò il suo orientamento. Fui io a suggerirgli di prendersi ventiquattr’ore di tempo e di rivederci l’indomani.» Lasciato Palazzo Chigi, Salvini andò a Sabaudia per un comizio. Rivendicò i risultati di un anno di governo, ma aggiunse: «Negli ultimi due o tre mesi qualcosa si è rotto. Abbiamo ricevuto troppi no. O riusciamo a fare le cose bene e velocemente o non sto a scaldare la poltrona». L’indomani Conte andò da Mattarella e poi rivide il suo inquieto vicepresidente del Consiglio. «Salvini venne nel tardo pomeriggio dell’8 agosto nel mio appartamento a Palazzo Chigi» mi racconta il premier. «Anche questo, come quello del giorno precedente, fu un colloquio tranquillo e cortese. Era il mio compleanno. Aprimmo una bottiglia di spumante e offrimmo pasticcini. Lo invitai a riflettere sui tempi della crisi. Una crisi di governo aperta in pieno agosto avrebbe avuto conseguenze gravi per l’intero Paese. Visto che forse non aveva valutato i diversi passaggi istituzionali, gli riassunsi il prevedibile cronoprogramma di una crisi. Calendario alla mano, andando a votare il prima possibile, il nuovo governo non sarebbe stato operativo se non all’inizio di dicembre. Approvare la legge di bilancio in pochi giorni sarebbe stato impossibile. Salvini mi fece capire che stava pensando di correre da solo e, in caso di vittoria, avrebbe guidato un governo monocolore. «Tu sai quanto ho sudato con la legge di Bilancio precedente per evitare il procedimento d’infrazione», gli dissi “ti rendi conto che dovresti affrontare da solo l’esercizio provvisorio di bilancio avendo sulle spalle 23 miliardi per non aumentare le aliquote Iva?”».

E lui? «Era visibilmente preoccupato. Gli dissi che metteva in forte difficoltà il Movimento e Di Maio, ma era esattamente quanto gli suggerivano i suoi calcoli politici». Eppure, obietto, Salvini fu l’ultimo nella Lega a volere la crisi. «Io mi sono spiegato la sua decisione in questo modo: la Lega voleva espandersi, gli amministratori locali emergenti scalpitavano, tutti leggevano i sondaggi… Eppure, lui sapeva che un leader politico non può essere un ministro dell’Interno che fa la campagna elettorale solo sull’immigrazione. E poi c’era il problema se andare da solo o no. Immagino che, alla fine, abbia pensato che restare con il Movimento sarebbe stato meglio di un’alleanza con Fratelli d’Italia. Il suo tergiversare fino all’ultimo momento era dovuto anche alla consapevolezza di assumersi una responsabilità enorme». Ho la sensazione che in quei giorni le cancellerie europee la incoraggiassero a cambiare cavallo. «Il fatto che io abbia sempre cercato di avere un buon rapporto con gli altri capi di Stato e di governo non vuol dire che non fossi molto duro nel difendere gli interessi nazionali. Con loro non si è mai parlato della possibilità che io facessi un governo diverso. Quel che è successo era inaspettato per tutti. Forse chi non ama Salvini auspicava una soluzione diversa, ma da qui a parlare di una benedizione ce ne corre.»

È tradizione che, quando un azionista decisivo della maggioranza di governo annuncia il ritiro della fiducia al presidente del Consiglio, questi vada a dimettersi. Conte non lo fece e mi spiega così la sua scelta: «Il 24 luglio dissi in Senato che, in caso di crisi politica, sarei sempre andato a riferire in Parlamento. Le crisi di governo non si risolvono con una telefonata. Bisogna portarle alle Camere. Salvini fraintese e disse che io andavo in Parlamento come a raccogliere funghetti in Trentino. L’indomani la mia risposta fu che non mi prestavo a giochi di palazzo e che era assolutamente fantasiosa l’ipotesi che io cercassi alle Camere maggioranze alternative o che io volessi addirittura fondare un partito. Volevo, in realtà, semplicemente attenermi alle regole della democrazia parlamentare». All’uscita da Palazzo Chigi, il premier disse ai giornalisti: «Lasciamo stare questi giochetti da Prima Repubblica. Non togliamo alla politica la sua nobiltà».

Vespa svela come Conte salvò il posto di premier. Così Di Maio ha ingannato Salvini. Libero Quotidiano il 7 Novembre 2019. Bruno Vespa nel suo ultimo libro, Perché l’Italia diventò fascista, racconta i giorni convulsi seguiti alla caduta del primo governo Conte. Dopo il blitz di Renzi, Salvini provò a ricucire l'alleanza con i 5 stelle. Intorno a Ferragosto accadde di tutto. Renzi, che all'inizio immaginava un governo senza Conte, lasciò cadere il veto. La Lega cominciò a temere la nascita di un governo giallorosso e rilanciò clamorosamente promettendo il taglio dei parlamentari. «Quando scoppiarono le polemiche sul si vota o non si vota» mi racconta il segretario della Lega, scrive Vespa, «gli dissi apertamente: nell'interesse del paese, se cambiate i ministri e rivediamo il contratto di governo, tu puoi fare il premier. Se accetti, lo dico ai miei, che non ho ancora sentito» E lui? «"Ci dormo su e ti dico". Non feci pressioni. Scelsero un'altra strada, che non gli porterà fortuna». Diversa la versione di Di Maio: «Non abbiamo mai parlato di ministri e di programmi. Mi ha fatto soltanto la proposta secca di fare il premier. Ma era tardi».

La crisi di governo come un reality show. Che sta devastando la realtà. Renzi, Salvini e Di Maio sono indifferenti a quanto hanno affermato pochi minuti prima. Tutti figli di Berlusconi e del berlusconismo. Uno spettacolo che appassiona gli ascoltatori, ma è devastante per le sue conseguenze democratiche. Marco Damilano il 23 agosto 2019 su L'Espresso. Tre anni fa, di fronte all'avvolgersi della crisi politica del suo paese in una spirale incomprensibile, l'ex premier spagnolo Felipe Gonzales sospirò : «Siamo di fronte a una italianizzazione (Italianización) della nostra politica. È stato eletto un Parlamento all'italiana, ma senza italiani che lo sappiano gestire». Questa mattina pensavo a questa battuta ragionando su quanto è avvenuto nella giornata di ieri al Quirinale. Trattative, trabocchetti, colpi bassi, formule recitate nell'aramaico del Palazzo, sconosciuto ai comuni mortali. Una crisi da Prima Repubblica, senza l'abilità e lo spessore degli uomini della Prima Repubblica, però. Con attori confusi e pasticciati: la differenza che c'è tra i protagonisti di un reality e una grande serie ben scritta e con interpreti all'altezza. Giusto quarant'anni fa, nel luglio 1979, il presidente della Repubblica Sandro Pertini affidò l'incarico di formare il nuovo governo a Bettino Craxi, il primo socialista a ricevere il mandato nella storia d'Italia. Il segretario del Psi avviò le consultazioni, poi fu costretto a rinunciare di fronte al veto della Dc. E sintetizzò la crisi con una specie di parabola: «In un paese lontano, si cercava di combinare un matrimonio tra un ricco possidente e una giovane di famiglia modesta. Il ricco possidente andò a fra visita alla famiglia della giovane di cui gli decantarono le virtù. Ma il possidente non si accontentò: chiese di vedere la ragazza nuda. Con le dovute cautele e in presenza della madre della ragazza, la candidata sposa fu denudata. Il possidente le guardò attentamente. Poi disse: “Non mi piace il naso”». L'apologo della trattativa impossibile, con condizioni messe sul tavolo per essere rifiutate, per poi tornare al punto di partenza. Così parlavano, e così spiegavano, i capi della Prima Repubblica. Paragonati all'avvilente e inconcludente spettacolo di questi giorni, alle lingue biforcute di piccoli leader, fanno una certa impressione. Prendiamo la dichiarazione che Luigi Di Maio ha letto di fronte ai giornalisti al Quirinale, dopo il colloquio con il presidente Mattarella. In quelle righe, all'insaputa del capo di M5S, nella sua inconsapevolezza, sono sfilate insieme la Prima, la Seconda e la Terza Repubblica. La rivendicazione del voto popolare, tipica del bipolarismo modello Seconda Repubblica: «Abbiamo la maggioranza relativa, un primato che ci hanno dato i cittadini». L'elenco dei dieci punti di cose da fare, roboanti e irrealizzabili, proclamate a uso e consumo dei fedeli sui social, un frutto avvelenato della Terza Repubblica: l'Italia «cento per cento rinnovabile», la Rai come la Bbc, la riforma della giustizia, un sempreverde, e della scuola, «basta con le classi pollaio», ci mancava solo lo sbarco su Marte. E nel finale il linguaggio criptico della Prima Repubblica: «Sono state avviate tutte le interlocuzioni per avere una maggioranza solida che voglia convergere sui punti indicati». Che voleva dire, Luigi Di Maio? Tutto e niente. Come tutto e niente è la sua identità politica. In quel momento, a quell'ora, Di Maio avrebbe dovuto semplicemente dire che con la Lega non avrebbe mai più governato e che l'interlocutore era il Pd, anzi, Nicola Zingaretti. Invece non è riuscito a dirlo. Così come, nell'intervista di oggi sul “Corriere della Sera”, fateci caso, la parola Pd non compare mai nel torrenziale bla bla di Di Maio. Mentre Salvini gioca come il gatto con il topo e fa annusare al capo di M5S l'offerta più clamorosa, la poltronissima di Palazzo Chigi, il sogno della vita di Giggino. Salvini, il Capitano, fa oplà dalla spiaggia al Palazzo. È feroce con i deboli, con i migranti, ma ieri al Quirinale si è visto fare le fusa a Di Maio come un gattone domestico, pur di rimediare all'errore della vita, essersi escluso da solo fuori dalla maggioranza senza ottenere il voto anticipato. È l'uomo che non arretra a bordo della Ruspa, che si è fatto un nome e una fama sulle spalle dei poveri, ma che non riesce a staccare quella parte nobile del corpo a lui tanto cara dalla poltrona ministeriale. Sul versante opposto, quello del Pd, Zingaretti ha chiesto al Movimento 5 Stelle una svolta radicale: l'accettazione di un'alleanza politica, termine ritenuto dai grillini fino a poco tempo fa una bestemmia. L'affermazione della centralità del Parlamento, ovvero sbugiardare sul piano ideologico le utopie direttiste della Casaleggio. La cancellazione dei decreti sicurezza uno e due (sia chiaro: varrebbe la pena di fare questo governo solo per ottenere questo risultato di civiltà). E una discontinuità di uomini nella squadra di governo, termine in politichese per dire che molti ministri di M5S dovranno lasciare gli uffici in cui si sono barricati. Matteo Renzi accusa Repubblica e Huffington Post di aver riportato un messaggio di Paolo Gentiloni con la richiesta di tre condizioni per la trattativa con i 5Stelle: una "triplice abiura", la definisce. Secondo l’ex premier, l'attuale presidente del Pd non avrebbe "aperto bocca" nelle consultazioni al Quirinale ma poi avrebbe fatto passare questo "spin" con l’obiettivo di "far saltare tutto". In particolare irrigidendo la posizione dem sul taglio dei parlamentari. Renzi avverte: "Se uno, contravvenendo alle regole interne, con un spin fa saltare tutto non è detto che il Pd arrivi tutto insieme alle elezioni". Su tutto questo si è abbattuta oggi la lezione di politica di Matteo Renzi alla scuola di formazione del Ciocco, l'audio con un attacco violento e personale a Paolo Gentiloni,accusato di aver tramato per far saltare la trattativa con M5S. Gentiloni, che è stato suo amico e vicino nell'ascesa del giovane sindaco di Firenze, ma che ha il difetto di pensare con la sua testa, una colpa evidentemente imperdonabile per Renzi. Curioso: l'ex premier è in questi giorni diventato la sentinella dell'Accordone, secondo lui bisognerebbe farlo e basta, senza se e senza ma. Una resa incondizionata del Pd in cambio della sopravvivenza della legislatura, obiettivo che sta molto a cuore a Renzi. Strana parabola per un leader che si è sempre identificato con il coraggio di affrontare il voto, con il no al qualsiasi forma di dialogo con M5S e che ancora qualche ora fa ha giurato di non voler parlare del Pd e delle sue correnti. Mentre ai ragazzi del Ciocco ha fornito un bel ritrattino dell'interno Nazareno, con Zingaretti, Gentiloni, Franceschini. Forse faceva prima a regalare agli studenti i cofanetti con la serie di House of Cards. Politica applicata, prima lezione, come ti stritolo il mio partito. Machiavelli no, per carità, lasciamolo stare. In questo clima, Pd e M5S si vedono a livello di gruppi parlamentari. E la trattativa comincia in questo clima di congiure e sospetti, va avanti ma piano, sottoposta a qualunque tipo di agguato. Se la Prima Repubblica era un'opera di recitazione e un capolavoro continuo di alchimie e intrighi, ma anche di senso del limite istituzionale e politico, questa crisi assomiglia sempre di più alla casa del Grande Fratello, dove ( Rocco Casalino docet) le alleanze si saldano e si spezzano in pochi minuti, un continuo rimescolamento di carte per evitare una cosa sola: l'eliminazione dalla Casa. Renzi, Salvini e Di Maio sono i campioni di questo modo di fare politica. Sono indifferenti a quanto hanno affermato pochi minuti prima. Sono tutti figli di Berlusconi e del berlusconismo. E se qualcuno, anche chi fa il nostro lavoro di informare, osa farlo notare, denuda la propaganda, finisce per essere indicato come un disturbatore della quiete, un nemico del popolo. Hanno cambiato tutte le parti in commedia. Ma alla fine la ragazza è denudata e non piace il naso. Il reality deve finire e lasciare il posto alla realtà. Lo spettacolo appassiona gli ascoltatori, ma è devastante per le sue conseguenze democratiche: la sfiducia, la mancanza di coerenza di fronte alle promesse, le parole che risuonano leggere e inafferabili, senza pesare più, la trasformazione degli elettori in pubblico e dei militanti in tifosi. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l'ha detto ieri una volta per tutte: se non c'è una accordo serio, meglio votare piuttosto che continuare con questa recita grottesca, con leader piccoli e inadeguati.

STUPIDARIO. Politici in crisi, ma di nervi: le peggiori sparate e retromarce di questi giorni. I selfie di Salvini, il ritorno di Scilipoti, i litigi social nel Pd, l'euforia di Renzi. Con la caduta del governo anche il livello delle dichiarazioni ha subito un collasso. Leggetele tutte e date il vostro voto. Wil Nonleggerlo il 21 agosto 2019 su L'Espresso. QUANTE STELLE DAI?

Luca Morisi. L'uomo che cura “La Bestia” social di Salvini, su Twitter, ad ogni intervento del vicepremier“‼ Avete ascoltato l’intervento del Capitano al #Senato??? Magistrale, unico, eclatante: un fuoriclasse assoluto! Questo è un leader!!!”; “State seguendo??? Discorso STRATOSFERICO del Capitano” 20-ago-19

Matteo Salvini. Ecco alcune delle rassicurazioni del vicepremier – ma negli ultimi mesi sono state tantissime – per poi brandire la crisi di governo dal Papeete Beach di Milano Marittima. 10 gennaio: "Ho tanti difetti, ma se prendo un impegno lo porto fino in fondo, non mi interessa dei sondaggi, c’è un programma da portare fino in fondo. Non lascio niente a metà e non voglio far saltare nessun governo". 9 febbraio: "Mi dicono: la Lega è il primo partito, tu sei il politico più importante, fai saltare tutto così puoi eleggere più deputati e più senatori. A queste persone dico: la mia parola vale più di qualsiasi sondaggio. Non faccio saltare un governo per dei sondaggi… no!". 9 marzo: "L’Italia ha bisogno di sviluppo, di riforme, di lavoro. Altro che crisi, regaleremo al Paese 5 anni di governo, non si gioca con il futuro degli italiani". 23 aprile: "La crisi di governo è solamente nelle teste di Repubblica e Corriere, noi andiamo avanti sereni". 29 maggio: "Dopo questo voto non cambia nulla: pensate che abbia convenienza ad andare all’incasso? Io no, non ho incassi personali, partitici o politici all’orizzonte. Il mio orizzonte dura quattro anni. Non ci sono problemi o lusinghe in vista che mi possano far cambiare idea. Questa alleanza ci permette di fare quello che sognavamo da anni" 20-ago-19

Maria Elena Boschi. La senatrice Pd, selfando in bikini dalla spiaggia, con le amiche di sempre (Twitter): “#CapitanFracassa Salvini dice che io sono una mummia: un saluto a tutti dal mio sarcofago” 18-ago-19

Tomaso Montanari. Lo storico dell'arte RT la senatrice Boschi, con un commento che scatenerà le polemiche: “L’uso politico del corpo delle #donne è inaccettabile anche se a farlo è una donna. Con questa foto la Boschi ha legittimato centinaia di vignette e frasi ignobili sul suo corpo. Come dice #Kant nessuno può usare la persona come un mezzo invece che un fine, nemmeno la persona stessa…” 19-ago-19

Matteo Salvini. In aula, nel giorno delle dimissioni del premier Conte: “Per il popolo Italiano chiederò la protezione del Cuore Immacolato della Vergine Maria finché campo! Ne sono ultimo e umile testimone, l'ultimo degli ultimi!... Voi citate Saviano, io cito Papa Giovanni Paolo II. Ognuno è libero di rifarsi alle parole, alle opere, ai miracoli di chi meglio crede. San Giovanni Paolo II diceva: la fiducia non si ottiene con le sole dichiarazioni o la forza, bisogna meritarsela con i gesti concreti” 20-ago-19

Matteo Renzi. L'esponente Pd, in aula: “Signor ministro Salvini, rispetto la sua fede religiosa, la condivido, ma le ricordo di dare un occhio, ogni tanto, al capitolo 25 del Vangelo, ovviamente SECONDO MATTEO... 'Avevo freddo, e mi avete accolto; avevo fame, e mi avete dato da mangiare...'” 20-ago-19

Denis Verdini. Il commento raccolto da Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera: “Matteo (Salvini, ndr) non è ancora mio genero, e poi mi ascoltavano di più Berlusconi e l'altro Matteo...” 21-ago-19

Matteo Renzi. Ancora Cazzullo: - Il Bomba è soddisfatto di essersi ripreso la scena, e un po' anche il partito: "Ho portato il pallone fin qui, cos'altro volete da me?" gigioneggia dietro le quinte. "È il nuovo D'Alema" dice di lui una senatrice Pd" - 21-ago-19

Giuseppe Conte. Al Senato, durante il durissimo discorso contro il ministro Salvini, elogiando i tanti risultati dell'esecutivo: “Abbiamo anche stabilito che il prossimo 26 ottobre sia la giornata nazionale dedicata alle tradizioni popolari e folkloristiche” 20-ago-19

Domenico Scilipoti. A Palazzo Madama spunta pure il mitologico responsabile (Corriere.it): “Dovrebbero fare tutti come me, anteporre l'interesse pubblico a quello personale...” 21-ago-19

Vittorio Feltri. Il direttore di Libero, su Twitter: “Saviano vuole che Salvini vada in galera. Esagerato. Noi saremmo già felici se lo scrittore andasse affanculo” 19-ago-19

Matteo Renzi. Il cinguettio del senatore Pd: “Salvini ha fatto un intervento di 10 minuti e mi ha citato 13 volte. Renzi, Renzi, Renzi... O è innamorato o è ossessionato. O tutti e due. #CapitanFracassa” 13-ago-19

Calenda vs. Scalfarotto. Pd, botte da orbi sui social. Calenda: "Scalfarotto 15 giorni fa: 'Costretto a ribadire che dove c’è il M5S, non ci sono io'". Scalfarotto: "Calenda qualche tempo prima, ad aprile: 'Serve un governo di transizione con Pd, M5S, Lega'. Ps: Carlo, te lo dice un amico. Smettila. Non stai facendo una gran figura" 14-gen-19

Gennaro Migliore. La poetica del parlamentare Pd (Twitter): “È un palazzo che brucia in città / Questa crisi è una lama sottile / È la scena per un Briatore / Questa crisi è una rumba al Papeete / Questa crisi è una gita on the beach / È una balla che esplode nel cielo / Questa crisi è un mojito al veleno - #CrisiDiGoverno” 15-ago-19

Sandro Gozi. L’ex sottosegretario Pd e attuale responsabile per gli Affari Europei del governo francese commenta così la foto rispolverata dal Primato Nazionale – giornale online vicino a Casa Pound – che lo ritrae, giovanissimo, accanto a Giorgio Almirante, storico leader Msi: “Avevo 16 anni, il mio migliore amico era il segretario locale del Fronte della Gioventù: un po’ per amicizia e un po’ per curiosità mi sono avvicinato e ho subito capito che non era roba per me. Venivo da una famiglia di centrosinistra, e in un certo qual modo è stato un atto di ribellione. D’altra parte mi pare che Salvini frequentasse il centro sociale Leoncavallo...”. Replica il Primato Nazionale: “Gozi fu tesserato almeno fino al 1990, quando aveva 22 anni e frequentava l’università. Dunque una militanza durata almeno 6 anni e ben oltre l’adolescenza” 20-ago-19

Daniela Santanchè. La parlamentare Fdi fa il punto politico dalla spiaggia del Twiga, con un video su Instagram. Ma tutti sono distratti dallo sfondo...Come scrive Corriere.it: “alle spalle di Daniela Santanchè si vede un uomo intento a farsi la doccia, sciacquandosi anche nelle zone intime...” 15-ago-19

Umberto La Morgia. Trent’anni, consigliere della Lega a Casalecchio di Reno, intervistato da La Verità: “Sono leghista e gay: macchè omofobia, bisogna farla finita con l’ideologia Lgbt” 9-ago-19

Lega – Salvini Premier. Il meme pubblicato sui profili social ufficiali del partito: “Non ditelo a Conte e alla Trenta... 😊: "Vladimir, quella è una nave Ong che ho fatto attraccare in Russia per umanità". "Sergej, ma io lì non vedo nessuna nave...". "Appunto..."” 16-gen-19

Matteo Salvini. Il ministro dell'Interno su Instagram, negli ultimi giorni 11 agosto, foto con fichi d’india: “Qui a Letojanni la domanda è: fico normale o fico d’India? ”. 11 agosto, foto con gatto vista mare: “Con un nuovo amico”. 15 agosto, foto con torta della Lega e ruspa in miniatura: “Grazie ai pasticceri di La Spezia che mi hanno dedicato questa torta spettacolare! Buona serata Amici”. 16 agosto, foto con grappolo d’uva: “Qualche ora di riposo in campagna. Buon pomeriggio Amici!”. 17 agosto, foto tra gli ortaggi del suocero Verdini: “Fiori di zucca” 11-gen-19

Luca Toni: Il calciatore campione del mondo a Germania 2006 intervistato da La Verità: “No all'inciucio, andiamo al voto!”. Salvini rilancia l'intervista sui social e commenta: “Grande bomber!” 14-ago-19

Mara Carfagna. La vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia su alcune “presunte rivelazioni”: “Non ho cenato con Matteo Renzi, né ho mai pregato Silvio Berlusconi di salvaguardare la mia posizione personale. Sono chiacchiere da comari, degli stessi che hanno ridotto Forza Italia al 6%” 20-ago-19

Alessandro Meluzzi. Lo psichiatra e “Primate Metropolita della Chiesa Ortodossa Italiana” posta un selfie con quello che dovrebbe essere lo stemma dell’aquila bicipite sul berretto e dei residuati bellici alle spalle, poi commenta: “Temo che tra poco ci spingeranno a questo, mia povera Patria!” 15-ago-19

Antonio Razzi. L’ex parlamentare forzista, star di Ballando con le stelle, intervistato dal Tempo: “Il 15 settembre partirò per la Corea del Nord, incontrerò tutti i grandi capi nordcoreani. Glielo consiglio io come fare con Trump. Poi ho una chicca in serbo, a settembre uscirò con un nuovo libro, "Te lo dico da Nobel". Lei si ricorda che io ho proposto Trump e Kim Jong-un per il Nobel? Il libro parla di quello, e non solo” 14-ago-19

Emanuele Filiberto Umberto Reza Ciro René Maria. AdnKronos, Emanuele Filiberto: "Italiani mi chiamano" (Facebook): "Lo faccio alla Salvini... Sto ricevendo milioni di messaggi di italiani stufi di questa Repubblica delle banane e del comportamento ridicolo dei suoi politici... Che facciamo????" 14-ago-19

Andrea Cassani. Il sindaco leghista di Gallarate, su Facebook (post poi rimosso): “...TUNISINO DÀ FUOCO AD AUTO PER PASSARE IL TEMPO. Succede anche questo in Italia, dove un sessantenne tunisino, siccome si annoiava, ha incendiato un’auto. In un mondo giusto questo signore dovrebbe ripagare l’auto e poi essere riaccompagnato a calcioni nel sedere nel suo paese d’origine…in Italia andrà a finire che non farà nemmeno un giorno di carcere e non caccerà nemmeno un euro per ripagare i danni”. Peccato che il “tunisino” citato dal sindaco leghista fosse la vittima dell’incendio, appiccato invece da un italiano di 60 anni con problemi psichici... 18-ago-19

Da Salvini a Di Maio fino a Zingaretti: le pagelle della crisi di Aldo Cazzullo. Pubblicato mercoledì, 21 agosto 2019 da Corriere.it. Matteo Salvini voto 4 ½. Il mito dell’invincibilità del Capitano vacilla. Ha sbagliato tutto, tempi e modi, a conferma che non padroneggia tecnica e tattica parlamentare; in Parlamento del resto non è quasi mai stato. Ma guai a darlo per finito: il suo consenso nel Paese è lì, intatto. In piena era populista essere sprovveduti a Palazzo può essere un vantaggio nelle piazze.

Giuseppe Conte, voto 6. Premier per caso, finalmente è arrivato il suo giorno di gloria. Ha usato un linguaggio meno involuto del solito per ergersi ad avversario di Salvini. Se ha ecceduto in qualcosa, è nella tintura dei capelli: corvina, quasi blu. Più che andare a perdere le elezioni con i 5 Stelle, punterà a fare il leader di un nuovo movimento, magari innervato dai cattolici antileghisti.

Matteo Renzi, voto 6+. È il più spregiudicato, il più sfacciato, il più incostante, il più aggressivo. Nonostante questo, o forse proprio per questo, è palesemente l’unico leader di cui disponga il centrosinistra; tranne i padri fondatori, che però hanno dovuto fare un passo indietro, anche a causa sua. Ora lavorerà per riprendersi il partito. Ma se dovesse cedere alla tentazione di farsene uno suo, commetterebbe l’ennesimo errore.

Beppe Grillo, voto 7. Diceva Giorgio Bocca che certi personaggi sono come «i cavalli di razza, il falco da preda». Nella sua apparente follia, l’ideatore è tornato il leader dei 5 Stelle. E ha imposto un cambio di rotta. Sa che andare al voto oggi sarebbe un dramma per il movimento. Sa anche di non potere allearsi con l’arci-nemico Renzi. Ma una stagione incentrata su lavoro, diritti, ambiente, insomma i suoi temi, significherebbe per lui tornare centrale.

Nicola Zingaretti, voto 6

È ancora in tempo, ma per ora stenta a decollare. Troppo prudente, troppo silente, dà l’impressione di giocare sempre di rimessa. Patisce Renzi. L’unico colpo l’ha battuto mandando avanti l’antico mentore Goffredo Bettini, a dire che se governo s’ha da fare che sia governo vero. Lui preferirebbe andare al voto. Ma davvero pensa di poter sopravvivere a una sconfitta netta contro Salvini, magari seguita dalla perdita dell’Emilia-Romagna?

Luigi Di Maio, voto 5. Si è fatto giocare dal Truce, è riuscito in parte a rintuzzarlo, ma non riesce a scrollarsi di dosso l’immagine di leaderino svelto, accorto, furbo, ma incapace di guardare oltre l’orizzonte e l’interesse personale. Altrimenti darebbe via libera al rivale interno Fico, che nella partita con il Pd ha in mano carte migliori delle sue.

Rocco Casalino, voto 7. Avrà commesso qualche errore di stile, ma il suo mestiere lo sa fare. Non a caso è riuscito a scuotere Conte dalla sua noia forense e a trasformarlo in comunicatore.

Giancarlo Giorgetti, voto 6. Si conferma a ogni occasione l’uomo migliore della Lega. Leale, senza rinunciare a dire la sua. Ieri ha anche svelato il mistero del tifo per il Southampton: una squadra costretta a cedere ogni anno i giocatori migliori ai club più forti, ricchi e prepotenti, e ripartire da capo. Un po’ come lui, eterno secondo l’altro ieri di Bossi, ieri di Maroni, oggi di Salvini.

Sergio Mattarella, voto 8. Che in un clima simile il presidente della Repubblica riesca a godere del consenso popolare e del rispetto di un po’ tutti i partiti, è quasi un miracolo. Destinato a non durare: perché comunque finisca la crisi, il capo dello Stato scontenterà qualcuno; il quale agiterà le piazze e il web contro di lui.

Domenico Scilipoti, voto 5. Non si vorrebbe infierire, ma questa maschera italiana, che ora invoca mille parlamentari «Responsabili» come lui pur di tirare a campare, più che ilarità suscita malinconia.

Lello Topo, voto 6. Come simbolo del peone preferiamo semmai l’on. Raffaele Topo detto Lello. Pare un personaggio dei cartoni animati, e forse lo è, incarnando come nessuno la resistenza silenziosa del parlamentare di seconda o terza fila che non vuole fare ritorno al «travaglio usato», fedele al motto: «Quando mi ricapita?»

Guido Crosetto, pagelle della crisi: "Ha vinto Renzi. Salvini, errore gravissimo: quando doveva agire". Libero Quotidiano il 21 Agosto 2019. Il derby tra i due Matteo non l'ha vinto Salvini, ma Renzi. E la sentenza, a sorpresa, arriva da un insospettabile uomo di centrodestra come Guido Crosetto. Intervistato da Affaritaliani.it, l'esponente di Fratelli d'Italia assegna addirittura un severissimo 4 al leader della Lega: "Negli ultimi due anni non ha sbagliato niente, stavolta ha fatto un gravissimo errore. Ha scelto il momento sbagliatoper aprire la crisi, doveva farlo dopo le elezioni europee". Addirittura un "10+" invece all'ex premier: "Chiunque capisca di politica non può che considerare Renzi il vero vincitore. Non ha il Pd e non ha il potere, ma ha ottenuto quello che voleva. Dal punto di vista politico è il più intelligente e se non avesse preso la palla al balzo dopo lo strappo di Salvini a quest'ora si parlerebbe già di elezioni anticipate". Talmente bravo da mettere in un angolo il segretario del suo partito Nicola Zingaretti, che si merita un voto sospeso tra il 5 e il 6: "Renzi cercherà di riprendersi il Pd e gli stanno dando il tempo di farlo, perché quando il gioco si fa duro allora i duri giocano. Zingaretti alla fine farà il governo con il M5s per tenere unito il Pd". Male Giuseppe Conte (5): "Mi ha deluso anche se lo faccio sempre una persona seria, ma gli manca totalmente l'esperienza politica". Luigi Di Maio per molti è stato completamente assente dalla partita, in grave imbarazzo. Ma Crosetto lo salva con un 6 di simpatia e sorprende: "Gli consiglio di fare il commissario europeo in un prossimo governo. Lui ha qualità, se avesse visione politica sarebbe una cosa giusta da fare". E ora, che governo ci attende? "Gialloviola", lo battezza Crosetto. Più che rosso, dunque, perché ci si aggiungerà LeU e nei 5 Stelle la linea la detterà l'ala sinistra del Movimento.

Andrea Marcenaro per “il Foglio” il 21 Agosto 2019. Solidarietà alla Repubblica italiana, e speriamo che alla fine se la cava. Solidarietà a Conte, che non la merita però ha mostrato la pochette. Solidarietà a Mattarella, uno dei democristiani più incapaci, assurto alla massima carica in un periodo nel quale si sarebbero trovati in difficoltà anche i più capaci. Solidarietà a Renzi, arrogantello ma sfigato, che apparve all’evidenza il più bravo esattamente nel momento in cui Pigi Battista e Ernesto Galli della Loggia, lasciamo perdere Mentana, s’erano presi la scuffia tipica degli ottimati per i nuovi leader promettenti spuntati al grido di vaffanculo. Solidarietà alla Bonino, che la merita come sempre. Solidarietà alla Casellati, la quale non sa mai un cazzo ma evitiamo di definirla meglio per rispetto all’istituzione. Solidarietà alla Bernini, perché anche brava sarà, ma temo sia la prima a soffrire delle sue proprie mise. Solidarietà a Salvini, abituato fino a ieri al pompino di quegli stessi giornalisti che già lo deridono. Ma solidarietà, soprattutto, al leghista Giorgetti che sarà pure sovranista, e pure populista, e magari razzista, ma avere come capo quel gorilla tutto minchia manco quelli dell’Espresso sotto Damilano.

COME HA FATTO UNO SCONOSCIUTO AVVOCATO A DIVENTARE DI COLPO RISERVA DELLA REPUBBLICA?  Francesco Grignetti per “la Stampa” il 26 agosto 2019. Esiste un silenzioso partito del Conte (nel senso di Giuseppe). L'anno trascorso a palazzo Chigi ha fatto conoscere agli italiani ma anche ai Palazzi questo forbito avvocato amministrativista, che è uscito lentamente ma sempre più decisamente dall' aura di riservatezza e dal suo ruolo di tecnico fino all' ultimo exploit di argine invalicabile contro il leghismo. Uno dopo l' altro, cadono i veti che i vertici del Pd avevano posto. Per primi i renziani hanno aperto a Conte, consapevoli che questo è l' ultimo scoglio, forse il più grosso, ma che se si supera la strada al governo giallorosso (che per primo Matteo Renzi ha intravisto) nulla s' oppone. Le parole a questo giornale del capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, sono state esplicite. E se il Quirinale attende inquieto lo svolgersi delle trattative e invita alla serietà innanzitutto sui contenuti del futuro programma, filtrano voci dalle diverse anime del Pd. Romano Prodi ha scritto un editoriale allarmato per avvertire che il mondo è alla vigilia di una guerra commerciale e l' Italia non può cincischiare. Il nome di Walter Veltroni è evocato spesso da chi è spaventato da un salto nel buio. A favore del professore con la pochette, gioca la simpatia che lo circonda in Europa e negli Usa. Trump gli ha concesso un colloquio-passerella di 10 minuti e non è poco, considerando che è un premier dimissionario. Oltreoceano non dimenticano la cotta di Salvini per Putin. Conte, poi, che si è posto a muro contro il sovranismo, gode di esplicite simpatie nelle cancellerie europee. Da Macron alla Merkel, al Partito popolare europeo, non sono mancati gli ammiccamenti. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, un polacco anche lui cristiano-popolare, è stato il più diretto: «Conte è uno dei migliori esempi di lealtà in Europa. Su di lui posso dire solo cose positive». D' altra parte, Conte è dietro la scelta del M5S di votare per la tedesca Ursula von Der Leyen (altra figura in vista del Ppe) a presidente della Commissione. Questa forte benevolenza parte da lontano, dagli studi di Giuseppe Conte a Roma, a Villa Nazareth, una scuola di eccellenza che dipende dalla Segreteria di Stato vaticana. Si racconta di un grande lavorio dietro le quinte da parte dell' arcivescovo Claudio Maria Celli, attuale direttore della scuola. Compagno di studi è stato l' attuale segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, che magari non si è espresso pubblicamente a favore dell' inquilino di palazzo Chigi, ma non ha mai fatto mancare le sue bordate contro Salvini nei momenti topici. E comunque bastano e avanzano le parole spese dal Pontefice appena qualche settimana fa: «E' un uomo intelligente - ha detto Papa Francesco, il 3 giugno scorso - un professore, sa di cosa parla». Ottimi poi i rapporti con la Comunità di Sant' Egidio, che più di tutto teme il ritorno alla «politica della paura». E' quasi luna di miele anche con i sindacati e le organizzazioni datoriali. Vincenzo Boccia, il presidente di Confindustria, non nasconde la sua preoccupazione sulla «stagnazione in agguato» e la necessità di fare al più presto un governo che imposti una nuova politica economica. Magari non sarà un grande appoggio, ma di sicuro non è neanche un freno. A sorpresa, un encomio è giunto invece da Maurizio Landini, che elogia l' uomo, dal «coraggio politico e un profilo istituzionale importante» Conte ha riaperto i tavoli con le parti sociali e considerando che Landini vede la disintermediazione, iniziata da Renzi, come la causa di quasi tutti i mali, meglio lui di tanti altri. Simile il ragionamento di Nichi Vendola, che mette l' accento sul pericolo di un gorgo autoritario e oscurantista, e quindi ogni sforzo va fatto per uscire dai veti. Discorso rivolto al popolo della sinistra-sinistra, ma soprattutto a Nicola Zingaretti, l' ultimo dei refrattari. Non per caso, qualche ora fa è arrivato il via libera di Sinistra italiana alle trattative con un lungo documento che mai, neanche per sbaglio, cita Conte e tantomeno pone questioni su una riconferma.

Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” il 26 agosto 2019. Nei giorni del grande rovello sul suo nome, il peso elettorale di Giuseppe Conte è un rebus nel rebus. A misurare la possibile «performance» del professore prestato alla politica è stato Antonio Noto, direttore dell' istituto Noto Sondaggi: «Un ipotetico partito guidato dal premier dimissionario si attestava a luglio attorno all' 11 per cento. Ma i partiti che non esistono, va detto, spesso raccolgono più consensi nei sondaggi che nelle urne, per le aspettative che l' elettorato vi ripone». Se però Conte si presentasse come candidato premier del M5s lo scenario sarebbe del tutto diverso: «Questo 11 per cento infatti è in alternativa al Movimento: quindi non significa che con la sua leadership quella cifra si aggiungerebbe al risultato dei Cinquestelle». Il motivo? «Una candidatura a premier del M5s trascinerebbe con sé anche tutte le negatività del Movimento, per cui non è detto che ci sia un valore aggiunto nell' avere Conte come premier». È qui che scatta il paradosso per il Pd: «Probabilmente il Partito democratico guadagnerebbe di più nell' allearsi con un ipotetico partito di Conte che con il M5s, perché Conte piace al suo elettorato: nonostante sia stato presidente del Consiglio con Matteo Salvini, viene percepito comunque come un soggetto di centrosinistra, più affine ai dem rispetto a Di Maio». Di certo il premier dimissionario ha scalato le classifiche della fiducia dei cittadini, con un salto in avanti deciso negli ultimi mesi, quando secondo una rilevazione Noto Sondaggi è passato dal 39 per cento % di aprile (contro il 46 per cento di Salvini) al 45 per cento di agosto, mese in cui il ministro dell' Interno è scivolato al 41 per cento. «Il sorpasso -spiega Noto - è avvenuto a luglio (43 per cento contro il 42 per cento). A trainare Conte in un certo senso è stato il suo stesso elemento di debolezza: se fino a quel momento era stato percepito come un soggetto terzo rispetto ai due vice presidenti di Lega e M5s, né carne né pesce, quando tra i due partner è esplosa una conflittualità elevata questa sua terzietà è diventata un valore mentre prima era percepita come subalternità. È stato visto come l' uomo che poteva sbrogliare la matassa». Un consenso elevato ma effimero: «Dura finché si è sulla scena». Gli italiani, conclude Noto, sono orientati a nuove elezioni: a voler tornare alle urne era il 55 per cento il 9 agosto, cifra che secondo un nuovo sondaggio si è ridotta al 41per cento: «La percentuale è diminuita, ma quasi uno su due vuole il voto. Più che un nome conta la modalità di scelta: l' elezione del premier non è prevista dalla Costituzione, ma i cittadini vogliono contare: e si conta quando si vota».

La doppia faccia di Giuseppe Conte. Il Corriere del Giorno il 26 Agosto 2019. Si arriva ad oggi, e si scopre che quello che è cambiato (grazie all’esperienza di governo) è proprio lui: Giuseppe Conte. Qualcuno potrebbe chiedergli cosa non rifarebbe di questi 14 mesi. Ma la vera domanda è: Conte che cosa ha fatto per 14 mesi? Conte era un illustre sconosciuto quando il primo giugno del 2018 venne nominato premier. Professore di diritto privato con più di qualche sospetto sulle cattedre ottenute e la conseguente accusa di essere un giovane “barone”. Un curriculum gonfiato (in perfetto stile M5S) a proposito dei suoi dichiarati studi alla New York University dove, giurano e smentiscono gli americani. In un Paese civile e rispettoso della legalità il premier dimissionario Giuseppe Conte non sarebbe mai arrivato alla guida del Governo. Ma in Italia, si sa tutto è possibile. Tutto ed il contrario di tutto. A partire dai conflitti d’interesse, dalla bionda e più giovane consorte Olivia Palladino che era stata “beccata” per aver trattenuto oltre due milioni di euro di tasse di soggiorno da pagare al Comune di Roma riscosse dai clienti del suo hotel il “Plaza” di Roma nella centralissima via del Corso, una volta quartier generale del compianto ministro socialista Gianni De Michelis. Per poi arrivare al suo curriculum vitae poco credibile e sbugiardato dal “fact-checking” dei colleghi dell’ Agenzia AGI. Senza dimenticare i presunti rapporti di Conte con il giurista e avvocato Guido Alpa, che per anni è stato consigliere di Banca Carige ed oggi è consulente di Raffaele Mincione, il finanziere e uomo d’affari entrato nella banca genovese un anno fa con il 5,4% e attualmente azionista dell’istituto. E poi ci sono i presunti rapporti tra il Presidente del Consiglio e lo stesso Mincione. Conflitti di cui adesso si sta occupando l’ Authority Antitrust. “Nessun conflitto di interessi, rinuncio alla cattedra esclusivamente per una sensibilità personale” aveva dichiarato il premier Giuseppe Conte in una diretta su Facebook, dopo una giornata piena di polemiche sul suo rinvio della prova di inglese per il suo trasferimento all’Università La Sapienza di Roma. “Si è detto addirittura che cercavo un dopolavoro non confidando sulla durata di questo governo: fatevene una ragione, lo dico a tutti gli oppositori, questo governo durerà 5 anni“, aveva poi aggiunto il presidente del Consiglio, smentito dai fatti, data la durata di appena un anno del suo governo ! Pochi ricordano che Giuseppe Conte non aveva rinunciato al concorso per la cattedra di diritto privato all’Università La Sapienza di Roma. Il presidente del Consiglio dei Ministri, ordinario a Firenze ma in aspettativa non retribuita dopo l’assunzione dell’incarico di governo, avrebbe infatti chiesto e ottenuto di rimandare il test di inglese legale a cui dovrà sottoporsi insieme agli altri candidati. Conte aveva fatto domanda per il concorso alla cattedra del primo ateneo romano nel febbraio 2018, pochi mesi prima di diventare il capo del governo di Lega e M5S. Una volta assunto l’incarico istituzionale, però, potrebbero sorgere questioni legittime di opportunità e conflitti di interessi. In quanto capo del governo, Conte avrebbe infatti dei poteri di gestione dei fondi di un’università pubblica, dalla cui commissione giudicante dovrebbe essere valutato. Il suo mentore Guido Alpa, l’uomo che ha lasciato la cattedra per cui ora concorre anche il premier, negava però queste ipotesi: “Non deve rinunciare, è preparatissimo e non sta infrangendo alcuna norma“. Resta da capire se la partecipazione di Conte al concorso fosse conforme a tutte le stringenti norme, nazionali e interne a La Sapienza, che mirano a evitare corruzione e conflitti di interessi. La candidatura di Conte era stata valutata il successivo primo agosto e il 4 settembre dalla commissione esaminatrice, che però, in maniera anomala e inusuale, non ne aveva dato conto sul sito dell’ateneo. Conte era un illustre sconosciuto quando il primo giugno del 2018venne nominato premier. Professore di diritto privato con più di qualche sospetto sulle cattedre ottenute e la conseguente accusa di essere un giovane “barone”. Un curriculum gonfiato (in perfetto stile M5S) a proposito dei suoi dichiarati studi alla New York University dove, giurano e smentiscono gli americani, non lo hanno mai visto. In realtà a Giuseppe Conte pesava più della scarsa popolarità , di dover stare sempre un passo indietro al premier di fatto, cioè Matteo Salvini. E di bocconi amari deve averne ingurgitati molti. Non è stata una nota di merito averli sputati fuori il 20 agosto al Senato, persino esagerando, nella consapevolezza che il suo Governo era arrivato al capolinea. L’Avvocato del “Popolo”…. professor Giuseppe Conte in cuor suo immagina un ritorno trionfale a Palazzo Chigi, riconfermato premier, anche perché il M5S non ha altre figure in grado di ricoprire quel ruolo. Ci ha preso gusto piano piano, questo lo abbiamo capito, ma in realtà l’unico cambiamento sicuro e realmente apportato dal precedente Governo sarà quello subito da Conte sfiduciato dal suo alleato e vicepremier Matteo Salvini. Giuseppe Conte si è scrollato di dosso la fastidiosa versione di rappresentare a stento l’ombra di un premier, fino al discorso in Senato contro Salvini. Mentre i giornali scrivevano che Conte era in buona sostanza al servizio del “Capitano” della Lega, più il premier indicato e voluto dal M5S covava una rabbia nascosta e più che profonda. Il difetto di Giuseppe Conte ? “È troppo ambizioso” parole queste pronunciate da suo padre Nicola, ex segretario del Comune di Volturara Appula, in provincia di Foggia, paese natale del premier uscente e quasi sicuramente rientrante. Insomma, uno che lo conosce bene come suo padre che sa qual è il suo punto debole. Un’ambizione però non esibita e manifesta, a volte apparentemente timida. “Dica la verità dottore — si è lasciato andare qualche settimana fa durante un colloquio telefonico con un giornalista — anche lei sta diventando contiano”. Diciamo la verità, Giuseppe Conte non è quello che è andato in Senato sei giorni fa a cantargliele in faccia a Salvini. Il vero Giuseppe Conte in realtà è quello che negli ultimi 14 mesi è stato sempre zitto davanti a tutte le iniziative dei suoi “vice” Di Maio e Salvini. E no, non conta il fatto che abbia “rimproverato” o “ripreso” Salvini in privato. In primo luogo perché nessuno se ne è accorto, in secondo luogo perché non è servito a nulla. Il suo tentativo di dare lezioni sulla religione emerso anche nel discorso al Senato quando ha bacchettato Salvini per i suoi bacetti al crocefisso. è risultato vano. E’ stato lo stesso Conte che ha mostrato il santino di Padre Pio a Bruno Vespa in televisione a “Porta a porta” . È davvero cambiato Giuseppe Conte, che da millantato “Avvocato del Popolo” in questi ultimi mesi non ha speso una sola parola sugli attacchi pretestuosi del M5S prima e della Lega poi al PD definito “il partito di Bibbiano”. Ma per capire bene quanto Conte sia dobbiamo tornare indietro a quel 5 giugno del 2018 quando il premier incaricato si presentò al Senato per chiedere la fiducia, ed in quella circostanza Conte rivendicò come le due forze di maggioranza (M5S e Lega) fossero orgogliosamente “populiste” ed “anti sistema”. Conte promise di promuovere una revisione (mai realizzata) del sistema delle sanzioni alla Russia, ed annunciò che il suo governo avrebbe “chiesto con forza il superamento del Regolamento di Dublino“. Ma anche in questo caso il Governo Conte non mosse un dito, anzi il premier presentò una multilevel strategy per l’immigrazione affatto innovativa. E finì poi per approvare non una ma due versioni del Decreto Sicurezza, diventati il fiore all’occhiello di Salvini.

Un Conte a due facce. Inizialmente figura di sfondo e contorno dei vicepremier Di Maio e Salvini occupavano senza scampo la scena, mentre lui era “ostaggio” delle esternazioni di Rocco Casalino, mentre adesso cerca di riciclarsi come “capo” dell’anti-sovranismo. Eppure era l’8 settembre del 2018 quando Conte in occasione di un incontro pubblico, parlando della vicenda sul sequestro dei fondi della Lega (quei 49 milioni di soldi pubblici che la Lega Nord di Umberto Bossi, Belsito e Roberto Maroni hanno fatto sparire, disse: “Vi confesso, se non avessi fatto il premier mi sarei offerto alla Lega per difenderli, per mettere al loro servizio la mia esperienza professionale. Per me sarebbe stato stimolante e non lo dico per offendere i legali che se ne occupano”. Non sono bastati 40 minuti, peraltro ben recitati da vero “attore” di aule di giustizia, per far cambiare idea su di lui e sul suo futuro. In politica non basta un discorso di attacco sfrontato, pronunciato in faccia all’interessato guardandolo negli occhi, per valutare una persona. Forse può servire nel territorio dei social e del movimentismo grillino probabilmente. Conte ha dimenticato di essere stato a modo suo, più “sovranista” (senza le dirette su Facebook che piacciono così tanto a Di Maio e Casalino) quando a luglio replicava ad Angela Merkel su Carola Rackete, la comandante della Sea Watch dicendole: “Se la Germania si lamenta per il trattamento ricevuto dalla capitana noi siamo in attesa dell’estradizione dei manager della ThyssenKrupp“. Qualcuno spieghi al “civilista-amministrativista” Conte che basta un mandato europeo di cattura per superare il problema estradizione. Conte ha sostenuto e firmato i decreti sicurezza 1 e 2 presentati dal ministro dell’ interno e vicepremier Matteo Salvini . Per il primo decreto si è speso mostrando un cartello a uso dei fotografi. E stava accanto a Salvini. Per il secondo, quello ancora più “rigido” su Ong e immigrazione, firmandolo senza alcun esitazione. Si è presentato in Senato per difendere il leader leghista sul “caso Moscopoli” che sta per sciogliersi come neve sotto al sole, per coprirlo come ha rinfacciato lui stesso in Senato il giorno delle sue dimissioni. E quindi ? Aveva ragione Emma Bonino quando gli ha detto che non avrebbe dimenticato i 14 mesi trascorsi a Palazzo Chigi cavalcando il “sovranismo”. Conte ha cercato modi giustificarsi sostenendo di aver provato a contenere Salvini tante volte . Senza dirlo, senza fare niente di concreto e senza ammettere di non esserci riuscito. Il problema non è che un avvocato voglia difendere la Lega, anzi sarebbe assolutamente normale e legittimo esercitare la propria professione. Il punto è che il Presidente del Consiglio abbia ritenuto necessario far sapere che lo avrebbe fatto. Ma in fondo si arriva ad oggi, e si scopre che quello che è cambiato (grazie all’esperienza di governo) è proprio lui: Giuseppe Conte. Qualcuno potrebbe chiedergli cosa non rifarebbe di questi 14 mesi. Ma la vera domanda è: Conte che cosa ha fatto per 14 mesi?

«Le sue imprese nei libri di storia»: così Conte ha conquistato Berlusconi. Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. Berlusconi si è sempre lamentato perché «nessuno ha mai voluto riconoscermi le cose importanti che ho fatto». Ma finalmente ci ha pensato Conte. L’attesa per il Cavaliere è terminata il 30 agosto, durante le consultazioni per la formazione del governo, quando il premier incaricato ha interrotto il leader di Forza Italia che lo stava riempiendo di consigli e citazioni sui suoi trascorsi a Palazzo Chigi: «Presidente Berlusconi, non c’è bisogno che lei mi ricordi quanto ha fatto. Le sue imprese sono scritte nei libri di storia». C’è mancato poco perché il più antico avversario di grillini e democrat gli concedesse la fiducia honoris causa. Fosse solo per il modo avvolgente e sinuoso che ha di porsi, Conte disporrebbe in Parlamento di una maggioranza che Renzi non potrebbe minacciare, frutto dell’oratoria che si trasforma in uno specchio in cui ogni interlocutore finisce vanitosamente per vedersi. Sarà «un furbo», come dice D’Alema in modo un po’ canzonatorio. Ma secondo Bersani, «nel vuoto d’aria e in assenza di partiti, se Conte continua a fare il conte può avere un futuro». Attorno a lui più che un partito si sta costituendo uno stato d’animo, e il conte Conte — a metà tra l’apparire e l’essere — ha conquistato la considerazione di chi in Vaticano l’ha visto come un argine al sovranismo di crocifissi esposti e rosari baciati. Nei giorni convulsi della crisi, monsignor Paglia spiegò al diccì Rotondi che «Conte è la linea del Piave e il suo governo deve nascere», aggiungendo che almeno su questo punto di là dal Tevere c’era «unità di vedute». Ancora oggi da lì arrivano sollecitazioni ai centristi di ogni dove: «Premono con insistenza — rivela l’udc De Poli — perché nasca un gruppo di responsabili, dato che con Renzi non si sa mai». E se con Berlusconi il miracolo stava per compiersi, con Gentiloni il miracolo è avvenuto. Già prima che i due si incrociassero sulla via di Bruxelles, Conte aveva cercato di ammaliare il dirigente del Pd che più di ogni altro era contrario alla nascita del governo giallorosso: «Nei rapporti di politica estera — gli aveva confidato — ti ho preso come modello». Chi li ha visti da vicino assicura che tra i due si è instaurato un clima di «grande cordialità». E forse Gentiloni ha raccontato a Conte certe sue esperienze, quando da premier fu ospite a pranzo nell’abitazione privata di Xi Jinping a Pechino: «Caro Paolo, mi spiace sapere che tra poco non sarai più alla guida del governo, mentre ti informo che a breve verrò eletto presidente a vita. I nostri programmi sono proiettati a cinquant’anni. E quello che impostiamo oggi fra trent’anni sarà stato fatto. Questo è il problema dell’Italia». A parte quel piccolo dettaglio chiamato «democrazia», Conte concorderà sui progetti a lungo termine: «Abbiamo bisogno di un paio di anni per realizzare quanto abbiamo programmato», ha spiegato alla festa di Articolo Uno. Dove si è presentato da uomo «di sinistra» che proviene dal mondo del «cattolicesimo democratico». Sarà perché i rapporti si sono ormai guastati se ieri Salvini ha messo sull’avviso la Meloni: «Siccome so che Conte verrà alla vostra festa di Atreju, occhio. Magari vi dirà di essere di destra». Di certo ad Avellino, il 14 ottobre, celebrerà «il centro» davanti a De Mita, Bianco e molti altri che furono discepoli di Sullo. L’agenda del presidente del Consiglio il prossimo mese sarà piena, perché oltre l’ Irpinia c’è da andare a ringraziare Trump dopo il suo endorsement. Sul partito di Conte non tramonta mai il sole, e pure Zingaretti — che pensava a quello dell’avvenire con le elezioni anticipate — ha ricevuto dal premier la sua dose di complimenti. Non senza una citazione per il fratello attore, «il famoso commissario Montalbano». Chissà se il leader del Pd in quella occasione avrà avuto tempo e voglia di raccontargli le questioni di famiglia, il disappunto dell’artista consanguineo che fa un botto di share ad ogni replica in televisione, ma che per via del contratto a suo tempo firmato non becca neanche un euro di royalties: e poi, dopo la scomparsa di Camilleri e del regista della fortunata serie, medita di accomiatarsi dal personaggio. Conte no, per quanto anche lui sia già in replica a Palazzo Chigi. Come Berlusconi a volte chiede gli vengano riconosciute le cose che sta facendo. Perché lavora, si applica, impara in fretta. E magari spera che fra venticinque anni un altro Conte gli faccia finalmente i complimenti.

Il Conteballe. Domenico Ferrara Il Giornale il 21 agosto 2019.

Da avvocato del popolo a inquisitore del vicepremier. Da sostenitore e garante del contratto a simbolo e artefice concreto della rottura del governo. Il premier Giuseppe Conte, nel suo discorso al Senato, ha duramente attaccato Matteo Salvini ricevendo ovazioni, complimenti e strette di mano con accanto un gongolante Di Maio che alzava il pugno chiuso per festeggiare non si sa quale vittoria.

Al netto del ghigno pentastellato, quello che sorprende, ripercorrendo le tappe e le dichiarazioni del capo del governo, è la capriola da Guinness dei primati. Perché per mesi Conte ha difeso, elogiato e sostenuto Salvini. Ecco qualche esempio nel caso in cui il diretto interessato volesse rileggere le sue parole.

Il 15 giugno 2018: “C’è sempre stata sul dossier migranti piena condivisione con il ministro dell’Interno Salvini e con quello dell’Infrastrutture”.

Il 29 giugno: “Con Salvini siamo sulla stessa lunghezza d’onda, anche io volevo vedere i fatti. Devo confessare un lieve disaccordo con Salvini. Lui valuta l’esito del vertice buono al 70%, io all’80%. Non il cento per cento perché avrei scritto quelle due cose in più ma era una negoziazione a 28 molto difficile”.

Il 7 luglio: “Immaginate un leader di un partito che da oggi in poi non può più disporre di un euro per poter svolgere attività politica. Non ha senso banalizzare il problema. Capisco lo scoramento di Salvini. Se non avessi fatto il premier mi sarei offerto per difendere la Lega, sarebbe stato stimolante e non lo dico per offendere i legali che se ne occupano”.

Il 3 luglio: “Non c’è nessuna ipersensibilità, i rapporti sono eccellenti”.

L’11 luglio: “L’incontro con Salvini è andato molto bene, ci siamo aggiornati. A breve assumeremo iniziative italiane per dare continuità alle conclusioni del vertice Ue di giugno”.

Il 30 luglio: “Non bisogna confondere determinazione con razzismo: chi pensa che Salvini sia razzista si sbaglia di grosso. Qui si tratta di cambiare le regole sulla migrazione, questo non è razzismo”.

Il 6 settembre: “Qui lavoriamo davvero tutti in grande accordo, è un continuo scambio. Salvini e Di Maio sono persone molto dialoganti e ragionevoli”.

Il 24 settembre difendendo il Dl Salvini: “In un quadro di assoluta garanzia dei diritti delle persone e dei Trattati, andiamo a operare una revisione per una disciplina più efficace. Ci sono norme contro la mafia e il terrorismo”.

Il 22 ottobre: “Con Salvini ci incontriamo spesso. Viene descritto come razzista e xenofobo, ma nei nostri dialoghi non ho mai raccolto elementi né di xenofobia né di razzismo. La verità è che c’è un cambiamento di politica anche sull’immigrazione. Alcune frasi o dichiarazioni possono sembrare molto veementi, ma le politiche del governo sono in linea con gli standard europei, con la Carta dei diritti firmata a Nizza, con i trattati europei e con i nostri principi costituzionali”.

Il 20 novembre in merito alle case sgomberate dei Casamonica a Roma: “Ringrazio Salvini per aver supportato questa iniziativa”. Il 1 dicembre: “Con i vicepremier c’è piena sintonia politica, economica e tecnica”.

L’8 gennaio 2019: “Salvini è ragionevole, lo accusano di essere razzista o xenofobo ma non ho mai notato questi elementi. Gli parlerò”.

Il 7 febbraio sul caso Diciotti: “Sento il dovere di precisare che le determinazioni assunte in quell’occasione dal ministro dell’Interno sono riconducibile a una linea politica sull’immigrazione che ho condiviso nella mia qualità di presidente nel Consiglio con i ministri competenti, in coerenza con il programma di governo”.

Il 31 marzo: “Bene le parole e le discussioni, rispettando ognuno le idee dell’altro, ma non perdiamo mai di vista la “ragione sociale” per cui siamo al governo: lavoriamo con la massima concentrazione per gli interessi degli italiani”.

Il 12 giugno: “Forse non sono stato creduto quando in alcune occasioni ho dichiarato come, a dispetto delle ricostruzioni dei giornali, noi quando ci riuniamo attorno a un tavolo, lavoriamo in modo costruttivo. Io non ricordo litigi, ci sono stati momenti in cui c’è stato un contrasto di opinioni, ma in modo sempre pacato e civile”.

Il 17 giugno: “C’è un clima di rinnovata fiducia e di dialogo, ho sentito anche il vice premier Salvini prima della sua partenza per gli Usa”.

L’11 luglio sul caso Savoini: “Salvini ha fatto dichiarazioni: ho fiducia nel ministro Salvini”.

Fino ad arrivare ai giorni della crisi, quando Conte insultando e attaccando Salvini in Aula non ha fatto altro che compiere un triplo salto carpiato smentendo se stesso. Davvero si è accorto solo adesso di avere al suo fianco il Diavolo, seppur col Rosario in mano?

Conte, l’epigono del divo Giulio. Paolo Armaroli il 22 Agosto 2019 su Il Dubbio. Il premier in parlamento ha picchiato duro ricordando lo stile di Andreotti che utilizzava parole di fuoco avvolte nella carta argentata dei baci perugina. Doveva essere un discorso di commiato, quello pronunciato ieri l’altro davanti all’assemblea di Palazzo Madama da Giuseppe Conte. E invece dopo aver parlato per buoni tre quarti d’ora accademici, noblesse oblige, ha dato l’impressione di leggere un discorso d’investitura. Di scuola smaccatamente democristiana. Non a caso è saltato fuori a mezza bocca quel “molto è stato fatto e molto resta da fare”. E giù l’elenco puntuale di quella strage degli innocenti legislativi qualora la legislatura andasse a gambe all’aria con lo scioglimento anticipato ( il più anticipato nella storia della Repubblica) delle Camere. Non si era messo forse Amintore Fanfani un pacco di giornali sotto i piedi per apparire più alto nel corso di un memorabile congresso della Dc? Ecco, man mano che procedeva la sua filippica contro un Matteo Salvini che gli stava accanto con una mimica facciale degna di un comico, il presidente del Consiglio appariva più alto del solito. Quasi che parlasse stando sulla punta dei piedi.

Conte, l’epigono del divo Giulio che ha dato anche lezioni di diritto. Più che Fanfani, è stato però l’immarcescibile Giulio Andreotti ( com’è saltato dal tormentone agostano promosso dal Dubbio) a venir fuori quando il j’accuse si faceva più duro, più intenso, più marcato. Solo Andreotti, si pensava fino a ieri l’altro, poteva esprimersi con parole di fuoco avvolte nella carta argentata dei Baci Perugina. Solo Andreotti, con quella bocca a salvadanaio dalle quali uscivano parole come nuvolette di fumo, sapeva picchiare duro con una faccia serafica come quella di Guido Gonella. Del quale si diceva che avesse l’unica faccia da monaca tra le tante facce da prete dei suoi colleghi democristiani. Fatto sta che il luciferino divo Giulio ha trovato nel professore di diritto civile dell’ateneo fiorentino un suo epigono di tutto rispetto. Ha picchiato duro, Conte. Quanto più forte poteva. Per una buona mezz’ora non ha fatto mai il nome e cognome di Matteo Salvini, ma si è rivolto all’impersonale ministro dell’Interno. Quasi che fosse un’altra persona. Per poi passare a un confidenziale “Matteo”. Mettendogli perfino una mano sulla spalla. E continuando a colpire a più non posso. Però mai alzando il tono della voce. Sempre con un accenno di sorriso sulle labbra. Un mattatore parlamentare in piena regola. Più che comica, la scena è apparsa surreale. Sì, perché Salvini e tutti quanti i ministri e i sottosegretari non stavano – almeno quelli che sono senatori – nei loro banchi di rappresentanti del popolo. Nossignori. Tutti ai banchi del governo, ai loro posti ministeriali. Quasi che l’opposizione e non la Lega in prima persona avesse presentato una mozione di sfiducia. E a un governo del quale fa tuttora parte, evaporata per far posto a comunicazioni del presidente del Consiglio che sono state un vero e proprio spettacolo pirotecnico. Si è permesso, Conte, d’impartire a un imbronciato Salvini lezioni di diritto costituzionale e di diritto parlamentare che devono aver mandato in sollucchero il Capo dello Stato. Si sarà leccato i baffi, Sergio Mattarella, ascoltando al Quirinale dallo schermo televisivo le accademiche dissertazioni istituzionali di una personalità dapprima considerata una rarità umana, ma con l’andare del tempo sempre più apprezzata per la sua professionalità, per il suo equilibrio, per la sua sobrietà. Per quella grammatica e quella sintassi che li accomuna e li distingue – e non solo sotto questo profilo – dai due vicepresidenti del Consiglio. Che parlano tutt’altra lingua. Al punto che non si stupirebbe, Mattarella, se Conte di qui a poco dismettesse i panni del navigato statista democristiano che ha guidato la bellezza di sette governi e indossasse la marsina di Agostino Depretis, il padre del trasformismo. Che per la sua parlantina e la sua ironia potrebbe essere paragonato a buon diritto ad Andreotti. E allora avremo un governo nuovo con il presidente del Consiglio vecchio? Chissà. Se Cinque stelle e Pd non si capiranno alla svelta, non è escluso un governo ponte guidato magari da un tecnico alla Cottarelli. Perché, per dirla con il grande Eduardo, ha da passa’ ‘a nuttata. Dopo di che potrebbe spuntare di nuovo Conte. Buona regola è mai dire mai.

IL COMPLOTTO PARTE DA LONTANO. Giuseppe Conte, Antonio Socci profetico: cosa scriveva del premier a gennaio, 7 mesi prima della crisi. Libero Quotidiano il 26 Agosto 2019. Ripubblichiamo l'articolo ("profetico") di Antonio Socci uscito su Libero in edicola lo scorso 13 gennaio, 7 mesi prima della crisi di governo.

La porta di Palazzo Chigi si aprì e non entrò nessuno: era Giuseppe Conte. Così - parafrasando Fortebraccio - si potrebbe sintetizzare la narrazione dei media sull' arrivo alla presidenza del Consiglio dell'attuale premier. È letteralmente balzato fuori dall' anonimato, da un giorno all'altro, come un coniglio dal cilindro del mago, senza aver fatto nulla che potesse caratterizzarlo in qualche modo (come docente universitario era poco conosciuto perfino a Firenze dove insegnava). Essendo stato scelto proprio per una neutra mediazione fra M5S e Lega, sembrava un uomo senza passato, senza idee e senza identità. Ma non senza qualità. Perché - bisogna riconoscerlo - nessuno aveva capito il personaggio e quello che avrebbe fatto. Era stato del tutto sottovalutato. Per alcuni mesi infatti è stato rappresentato (e pure spernacchiato) come il vaso di coccio fra i due vasi di ferro (Salvini e Di Maio), come l' incolore riempitivo dell' esecutivo gialloverde. Come lo zero che - nella previsione del deficit del Def, quella approvata dalla Ue - si è frapposto fra il 2 e il 4. Una specie di lubrificante, destinato solo a diminuire gli attriti. Era il perfetto "Conte Zio" dei "Promessi sposi", come aveva acutamente intuito Marcello Veneziani. E infatti si adattava perfettamente alla sua attività di premier, la descrizione manzoniana di quel personaggio: «Sopire, troncare, troncare, sopire» perché «quest' urti, queste picche, principiano talvolta da una bagatella, e vanno avanti, vanno avanti...». A confronto delle dichiarazioni dirompenti dei due vicepremier, il Conte Zio praticava - per riprendere il Manzoni - «un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d' occhi che esprimeva: non posso parlare». Nella compagine governativa gialloverde, dava l'impressione di essere - ricorro ancora ai Promessi sposi - «come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c' è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega». Si era autodefinito «Avvocato del popolo» ma questa bellicosa espressione di sapore rivoluzionario era immediatamente neutralizzata dalla sua antropologia forlaniana.

L'EREDE DI FORLANI. In effetti la sua bonomia democristiana, la mitezza, l' eleganza, la gentilezza dei modi sono parsi molto rassicuranti e lo hanno fatto crescere sempre più negli indici di popolarità. Quello che doveva essere l' Avvocato del popolo è diventato lo Zio degli italiani. Zio Peppino, l' affabile zio avvocato che fa sempre comodo in famiglia. Tuttavia, pian piano, si è creato uno spazio politico rilevantissimo perché il momento storico vede la contrapposizione fra il governo e le élite (l' establishment). Così la mediazione da metodo è diventata Conte-nuto ed è emersa la cifra democristiana del premier. O meglio (ribadisco): forlaniana. Il coniglio uscito dal cilindro è diventato un "coniglio mannaro". Fu appunto Arnaldo Forlani, valente leader dc, a vedersi affibbiata per primo, da Gianfranco Piazzesi, questa definizione bacchelliana - tratta dal «Mulino del Po» - che allude all' astuzia politica e alle capacità che possono celarsi dentro un carattere mite. La trasformazione di Conte, da Peppiniello nostro a statista forlaniano, si è appalesata nella drammatica trattativa con la Commissione europea sul Def che ha condotto in prima persona e che al tempo stesso gli ha permesso di conseguire un successo storico (dal momento che tutti prospettavano uno scontro dirompente fra Roma e Bruxelles) e di accreditarsi - presso la nomenklatura della Ue - come l' unico vero interlocutore del governo italiano. L' operazione gli ha permesso anche di guadagnarsi definitivamente la fiducia del presidente Mattarella. Conte - che si è costruita una sua tela di rapporti personali a livello internazionale, in particolare con Trump e la Merkel - si è fatto ricevere in udienza privata pure da Papa Francesco, il 15 dicembre, probabilmente esibendo non solo la sua fede cattolica (cosa che a Bergoglio interessa molto relativamente), ma soprattutto la sua provenienza giovanile da quella "Villa Nazareth" che è stata il punto d' incontro della potente corrente cattoprogressista vaticana e anche di "cattolici democratici" come Prodi, Scalfaro, Scoppola, Leopoldo Elia e lo stesso Mattarella (da lì viene anche l' attuale Segretario di Stato vaticano, Parolin).

IL RAPPORTO COL VATICANO. Cosa si siano detti Conte e Bergoglio in quel colloquio non è dato sapere. Fatto sta che a pochi giorni di distanza, il presidente del Consiglio - sul caso dei 49 migranti, che tanto interessava al papa - ha preso la clamorosa posizione che sappiamo, pubblicamente contrapposta a Matteo Salvini: «Se non li faremo sbarcare li vado a prendere io con l'aereo». Poi si è addirittura intestato la "soluzione" di questo caso (la ripartizione dei migranti), ancora una volta in accordo con la Ue. D' improvviso si è materializzato un Conte imprevisto, un vero "anti Salvini", capace di batterlo sul terreno dove il vicepremier da sempre trionfa (quello dell' emigrazione). Era inevitabile che in questa veste Conte raccogliesse simpatie a Sinistra. Di sicuro ha catalizzato l' interesse degli ambienti catto-vaticani in cerca di rappresentanza nella crociata migrazionista anti-Salvini. A questo punto d' improvviso tutti si sono accorti che Conte da comparsa era diventato un protagonista. Con quali prospettive? Il suo passato sembrava incolore. Ma lo era davvero? L'antica collaborazione col suo famoso maestro Guido Alpa non lo caratterizzava politicamente. Gli erano state attribuite, per il passato prossimo, vaghe simpatie renziane e un'amicizia con la Boschi, ma anche questo non sembrava una cosa significativa. Poi lui stesso ha rivelato di aver «votato per l' Ulivo di Prodi e Pd fino al 2013». E Renzi ha sarcasticamente fatto sapere: «Conte me lo ricordo, quando ci mandava i messaggini tutto contento e entusiasta delle riforme che facevamo, della Buona Scuola, del referendum».

VECCHIE SIMPATIE DEM. In sostanza, quel Conte che sembrava senza identità, si rivela invece il classico moderato, catto-progressista, di area Pd, che probabilmente non era proprio del tutto sconosciuto - anche al Quirinale - quando Mattarella gli ha dato l'incarico di formare il nuovo governo. Certo, il fatto che per la guida del loro primo governo i "rivoluzionari" grillini abbiano scelto un democristiano, di area Pd, strappa più di un sorriso. Ma la cosa non va letta con ironia. È un fatto emblematico che spiega molte cose. Renzi, dopo aver ricordato quei precedenti di Conte, lo ha polemicamente pizzicato aggiungendo: «A suo tempo, nel 2015, aveva tutta un' altra posizione sullo sforzo riformatore del Governo Renzi. È legittimo cambiare idea, specie se ti offrono incarichi importanti. Io penso che le idee valgano più delle poltrone». Ma siamo proprio sicuri che il Conte prodian-renziano abbia avuto un' improvvisa folgorazione grillina sulla via (non di Damasco, ma) di Palazzo Chigi? E se - diversamente da quanto pensa Renzi - Conte in realtà rappresentasse proprio una soluzione "istituzionale" per disinnescare e, alla fine, "normalizzare" il M5S? Fabio Martini, sulla Stampa, ha scritto che Mattarella «probabilmente avrebbe gradito che il Pd entrasse a far parte di una maggioranza incardinata sui Cinque Stelle con Conte premier». A quel tempo fu proprio Renzi a mettersi di traverso. Ma se con i nuovi assetti del Pd, ridimensionato Renzi, per una crisi dell' attuale governo si ripresentasse questo scenario, non sarebbe proprio Conte il più adatto ad assumere la guida di un nuovo esecutivo M5S-Pd, benedetto da Mattarella, da Bergoglio e dalla Ue? Non è detto che ciò accada. Ma le prospettive politiche che si aprono davanti a Conte sono anche altre. E lo potrebbero "consacrare" definitivamente come il vero anti-Salvini. Come il Prodi del XXI secolo. I conti in Italia non tornano mai, ma Conte sì, tornerà. Antonio Socci

Emiliano Fittipaldi. Articolo del 18 giugno 2018 su L'Espresso. Il presidente esecutore. Il premier fantasma. L’uomo invisibile. Un vaso di coccio. Pinocchio tra il Gatto Di Maio e la Volpe Salvini. Il primo presidente del Consiglio di cui non si conosce un’idea: Giuseppe Conte, il nuovo capo del governo italiano, è stato accolto come un oggetto misterioso da quasi tutti gli addetti ai lavori, che da qualche settimana stanno cercando di riempire i vestiti sartoriali del professore di contenuto politico e umano. Un compito difficile, perché è la prima volta nella storia della Repubblica che il Parlamento ha dato fiducia a un premier di cui non sapeva praticamente nulla. Issare l’inesperto Conte a Palazzo Chigi è certamente uno dei principali esperimenti del laboratorio politico grillo-leghista che sta forgiando gli inizi della Terza Repubblica. Per i più critici «l’avvocato del popolo» (claim inventato dalla macchina della comunicazione pentastellata guidata da Rocco Casalino) è solo un grigio notaio che dovrà attuare un contratto di governo stilato e firmato dai vicepresidenti del Consiglio che lo affiancavano come due badanti durante il discorso programmatico di martedì scorso, dall’opposta prospettiva il professor Conte viene invece descritto come la perfetta incarnazione del sogno americano in salsa grillina. Un premier che viene dalla Puglia, figlio di una famiglia semplice del Sud che grazie alla tenacia, alle capacità individuali e a una ferrea ambizione è riuscito a 54 anni a scalare tutta la piramide sociale, fino a sedersi sulla poltrona più importante della nazione. Come dicono alla Casaleggio, «un self made man che incarna tutti i valori del M5S», e che ha scritto da solo la sceneggiatura della sua vita. «Più che un film sembra un miracolo», ripetono oggi parenti e conoscenti, ancora attoniti nel vedere in televisione l’amico che ha passato le ultime vacanze di Natale nella casetta di mamma a San Giovanni Rotondo discutere i destini del mondo al G7, assiso insieme al presidente americano Trump, il francese Macron e la grande nemica dei populisti italiani, Angela Merkel. Il miracolo, in realtà, inizia quattro anni fa, quando Alfonso Bonafede, nuovo ministro della Giustizia e uomo ombra di Luigi Di Maio, s’innamora del cattedratico, che ha conosciuto come studente alla facoltà di giurisprudenza di Firenze. È lui a chiedere a Conte nel settembre del 2013 di entrare come componente laico nel Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa in quota M5S. «Non sono dei vostri, il mio cuore batte a sinistra», avrebbe chiarito il professore, che alla fine però accetta la corte e il posto da vicepresidente. Conte è così ambizioso («forse troppo», ha confessato il padre al Tg2) che, mentre flirta con i grillini, fa amicizia anche con pezzi del Pd. Mira in alto, come ha fatto fin da quand’era piccolo, e punta al Giglio magico di Renzi. Il primo link, spiega qualche buona fonte fiorentina, ha le sembianze di Francesca Degl’Innocenti, avvocato che ha insegnato Diritto civile con Conte alla Scuola di specializzazione per le professioni legali, e che risulta collaborare con lo studio Tombari: quello in cui lavorava Maria Elena Boschi. Il nuovo premier non solo allaccia rapporti con la ministra delle Riforme, ma riesce a conoscere anche Matteo Renzi in persona. L’incontro è avvenuto qualche tempo fa, in forma privata. Se qualcuno sorride affermando che Conte si offrì anche ai renziani, va però ricordato che lo stesso neopremier bocciò la candidatura della “vigilessa” Antonella Manzione, fedelissima di Matteo, a una poltrona al Consiglio di Stato per “mancanza di requisiti”. Le simpatie piddine, comunque, erano note in parte anche a Di Maio, tanto che nel M5S qualcuno racconta che il leader di Pomigliano d’Arco lo inserì nella lista dei possibili ministri grillini (Conte era stato designato alla Pubblica amministrazione) anche come eventuale pontiere di un’alleanza post voto con i dem. Sappiamo che quel ponte è crollato subito. Per provare a spiegare la genesi dell’incredibile scalata a Palazzo Chigi bisogna dunque percorrere altre strade. Quando a inizio maggio è ormai chiaro che Di Maio e Salvini, a causa dei veti incrociati, devono obbligatoriamente individuare un terzo nome per il premier, gradito ad entrambi ma appartenente all’entourage del partito più votato, Di Maio, Grillo e i maggiorenti della Casaleggio (su tutti Davide, Casalino e Pietro Dettori) individuano in lui il profilo migliore. Un avvocato ambizioso ma pacato, un tecnico con un viso pulito, sufficientemente incolore per non offuscare il leader politico. Dopo il sì di Salvini, propongono (ufficiosamente) il nome di Giuseppe Conte a Mattarella e al suo principale consigliere Ugo Zampetti. I due, che preferiscono un premier politico e di spessore, non l’hanno mai sentito in vita loro. Chiedono così informazioni ai loro fedelissimi. In primis al presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, legatissimo al presidente della Repubblica, che negli ultimi quattro anni ha visto Conte all’opera tra i corridoi di Palazzo Spada; poi al gruppo di professionisti e grand commis di Stato capeggiato da Giulio Napolitano, figlio del presidente emerito Giorgio, e dall’avvocato Andrea Zoppini, entrambi grandi amici del figlio di Mattarella, Bernardo Giorgio. I primi feedback sono positivi, così a Conte - seppur privo di qualsiasi esperienza amministrativa - viene dato l’ok. Il suo profilo viene preferito ad altri più prestigiosi (come quello dell’economista Giulio Sapelli) ipotizzati da Di Maio e Salvini: la speranza del Quirinale è che un premier alle prime armi e politicamente debole possa accettare qualche consiglio sugli alti burocrati da piazzare nei gabinetti, nelle segreterie di Palazzo Chigi e di altri ministeri. Non è detto che Conte colga i suggerimenti. Nessuno, in fondo, conosce davvero la sua indole, ne sa quale potrà essere il suo livello di autonomia rispetto ai diktat dei due firmatari del contratto di governo. Analizzando la sua biografia, parlando con civilisti e amici, l’enigma Conte può essere almeno in parte sciolto. Perché il presidente ha un passato interessante, e una rete relazionale sotterranea e trasversale. Con contatti nel Pd e qualcuno persino dentro Forza Italia. Conte, soprattutto, ha un “maestro” a cui deve moltissimo e su cui fa ancora affidamento per suggerimenti di ogni tipo, il professor Guido Alpa, e cura una carriera accademica a cui tiene forse più di ogni cosa: L’Espresso ha scoperto che ha fatto da poco domanda per un concorso “ex articolo 18” per essere chiamato alla Sapienza, e che all’ateneo qualcuno dei suoi concorrenti parla già - nel caso dovesse vincere proprio lui - di lampante conflitto d’interessi. Conte è nato a Volturara Appula, un paese di 416 anime in provincia di Foggia. I genitori, fedeli di Padre Pio, appartengono alla piccola borghesia impiegatizia del Sud: il padre Nicola è stato impiegato del minuscolo Comune per anni, la madre Lillina faceva la maestra elementare. Dopo pochi anni passati a Volturara, la famigliola si sposta a San Giovanni Rotondo. Giuseppe, ragazzo riservato e sgobbone, finisce le medie e il liceo classico con il massimo dei voti. È il 1982. Conte vuole laurearsi in legge e si trasferisce a Roma, alla Sapienza. I soldi della famiglia non bastano a vivere nella Capitale, così nel 1983 il neopremier partecipa al concorso del Collegio universitario “Villa Nazareth”, un ente ecclesiastico che accoglie gratuitamente nelle camerate gli studenti che hanno curriculum scolastici eccellenti e provenienti, spiegano dalla Santa Sede «da famiglie che, per condizione socio-economica o culturale, non siano in grado di sostenerli negli studi: è dal 1946 che al Nazareth aiutano i talenti a sbocciare». Anche se Conte non viene ufficialmente ammesso, al Nazareth diventa di casa. Nei giorni scorsi i giornali avevano raccontato delle entrature vaticane del presidente del Consiglio: se l’appartenenza all’Opus Dei è una bufala, il rapporto con il cardinale Achille Silvestrini è invece forte e radicato. La porpora, 95 anni a ottobre, è infatti dal 1986 il capo della fondazione che controlla Villa Nazareth: i rapporti cordiali con il giovane Conte iniziano allora, e nel corso del tempo si intensificano, fino a diventare strettissimi. Anche dopo la laurea il futuro premier continua a collaborare come volontario con l’istituto ecclesiastico. Diventa una sorta di consigliere giuridico di Silvestrini, e dal 1992 aiuta l’ente agevolando gli interscambi culturali tra i nuovi ospiti del collegio e alcune facoltà straniere. È Silvestrini, dunque, a nominarlo nel cda del trust intitolato al Cardinal Domenico Tardini (il fondatore del Nazareth) con sede a Pittsburgh, ed è sempre al Nazareth che Conte conosce l’attuale segretario di Stato Pietro Parolin. «In effetti si sono incontrati quando Sua Eminenza è stato direttore della scuola, alla fine degli anni Novanta. Al tempo si sono incrociati qualche volta, ma non si vedono da vent’anni», dicono Oltretevere. Di altri rapporti con le sfere ecclesiastiche non esistono evidenze. Con la laurea in tasca, Conte comincia a cercare lavoro. Sia nell’università sia negli studi legali della Capitale. Inizialmente i suoi referenti sono il relatore della sua tesi Giovan Battista Ferri, ordinario di diritto privato di cui diventa assistente, e l’avvocato Renato Scognamiglio, un pezzo da novanta che ha lavorato anche all’Iri, al ministero del Tesoro e all’Acquedotto pugliese. «Fino al 1998 Conte aveva questi due riferimenti. Nello studio di Scognamiglio gli avevano dato una stanza minuscola, strapiena di fascicoli: quando entravi a Giuseppe nemmeno riuscivi a vedergli il ciuffo. Lavorava dalla mattina alla sera, ogni tanto si concedeva una partita di calcetto in un circolo sul Tevere. Pensavamo tutti che sarebbe andato all’Università di Sassari, dove teneva lezioni, ma alla fine fece il concorso di ricercatore anche a Firenze, lo vinse e decise di andare in Toscana. Era il 1998. Da allora i rapporti con Ferri e Scognamiglio si sono via via diradati, e la sua guida è diventata Guido Alpa», ricorda chi lo conosce da sempre. Il professore ordinario, 70 anni, è la figura chiave della rete di relazioni del nuovo presidente del Consiglio. Genovese doc, “maestro” di una prestigiosa scuola giuridica, allievo di Stefano Rodotà, presidente per lustri del potente Consiglio nazionale forense, una lista di incarichi sterminati (l’ultimo è quello avuto nel 2014, quando è diventato membro del board di Leonardo-Finmeccanica anche grazie alla segnalazione, raccontano le cronache, dell’amico Denis Verdini), anche Alpa è uno che si è fatto da solo. È figlio di un ferroviere e nel giovane Conte il maestro, che non ha mai avuto figli, rivede se stesso. I due diventano inseparabili, e iniziano a lavorare insieme: prima al Cnr (nel 1999 il trentacinquenne Giuseppe cura parte di un progetto diretto da Alpa; in quell’anno il futuro premier riesce anche a comprare una bella casa a via Giulia da 450 milioni di lire, quella ipotecata da Equitalia nel 2009 per 52 mila euro di tasse non pagate), poi nell’avviatissimo studio del luminare, di cui Conte dal 2002 diventa il collaboratore preferito. A quarant’anni la sua carriera spicca il volo. Dinamico e intraprendente, stimato dalla categoria dei civilisti come un «buon giurista» (tra i tanti colleghi avvocati ed esperti di diritto intervistati da L’Espresso nemmeno i più sfavorevoli hanno usato parole negative su questo argomento), il neopremier diventa professore associato a Firenze nel 2001 (verrà chiamato come ordinario nel 2012) e comincia ad accumulare incarichi accademici importanti, spesso in progetti coordinati da Alpa in prima persona. Il mentore, che ancora oggi lo consiglia, è un appassionato lettore di Dostoevskij, non a caso citato da Conte nel suo primo discorso alle Camere. Dandy fissato con la moda inglese e le camicie su misura, appassionato di auto d’epoca (una Jaguar, pagata pochi soldi, è spesso in garage perché sempre rotta) e di vecchi orologi a corda di valore modesto, Conte viene chiamato nel Comitato scientifico della Scuola superiore dell’avvocatura del Consiglio nazionale forense (presieduto dal solito Alpa), poi alla Luiss e da Confindustria come membro della commissione Cultura. La partecipazione a conferenze e convegni è assidua, e la produzione di saggi e pubblicazioni a getto continuo. Proprio per aver voluto elencarli tutti Conte ha scritto il curriculum monstre da 12 pagine , che passerà alla storia, più che per i ritocchini e gli abbellimenti, come esempio plastico di chi venuto dalla provincia profonda vuole dimostrare al mondo - e, paradossalmente, all’establishment che i grillini aborrono - di avercela fatta davvero. Un curriculum che presto sarà letto con attenzione anche dai tre membri della commissione del dipartimento di scienze giuridiche della Sapienza, che presto dovrà sancire il vincitore della procedura selettiva voluta dall’ateneo romano per un posto da ordinario di diritto privato e civile. Il neopremier ha presentato domanda a fine 2017 (insieme a competitor di peso come il giovane ordinario Giovanni Perlingeri, figlio del giurista Pietro, e a Mauro Orlandi, considerato tra i migliori allievi di Natalino Irti, altro mammasantissima del diritto italiano) e risulta ancora tra i candidati. La cattedra è ambitissima, per un altro anno sarà ancora in mano al pensionando Alpa, ma per Conte metterci i gomiti sopra rappresenterebbe il coronamento della cavalcata accademica. Il rischio, ora, è che il sogno possa sfumare a causa della nuova avventura politica. Se la Sapienza scegliesse proprio lui, i rischi sono due: le polemiche sul possibile conflitto di interessi, definito dal professore «un tarlo che mina il nostro sistema economico-sociale fin nelle sue radici... noi rafforzeremo la normativa attuale in modo da estendere le ipotesi di conflitto fino a ricomprendervi qualsiasi utilità, anche indiretta»; e il fatto che Conte dovrebbe mettersi subito in aspettativa. I gravosi impegni didattici richiesti dalla procedura di chiamata non sarebbero certo compatibili con quelli istituzionali. Compulsando amici e colleghi, incrociando vecchi arbitrati e incarichi pubblici, si scoprono altri dettagli della vita privata e della rete relazionale del premier misterioso. Se è noto che è stato sposato con Valentina Fico, avvocato di Stato con cui ha avuto un figlio che ha oggi dieci anni («è legatissimo a lui, una volta lo portò pure a una cena annuale dei civilisti, cosa rara a un evento tanto formale», racconta chi era presente), se è un fatto che non esce quasi mai dalla sua casa di 80 metri quadri al centro di Roma se non per andare nello studio Alpa in piazza Cairoli o nel pied-à-terre di Firenze, in pochi sanno che Giuseppe è stato padrino di battesimo del figlio di Stanislao Chimenti. Chimenti è un avvocato molto affermato, partner di Delfino e Associati, e grande collezionatore di incarichi pubblici: oltre ad essere stato ex commissario straordinario della Tirrenia e della Siremar, fu al timone anche del fallimento Ittierre, la grande azienda tessile molisana che ha guidato fino al 2015. Quest’ultimo mandato è stato foriero di molte amarezze: Chimenti è stato infatti rinviato a giudizio a gennaio del 2016 perché accusato di aver affidato all’avvocato Donato Bruno (onorevole di Forza Italia scomparso tre anni fa, vicinissimo a Cesare Previti e a Berlusconi) consulenze per ben 3,7 milioni di euro, talvolta secondo l’accusa «superiori ai massimi tariffari». Il problema principale, però, è la presunta presenza di un interesse privato tra i due: i pm scrivono infatti che «con Donato Bruno Chimenti coltivava da anni rapporti di collaborazione professionale, in forza dei quali usufruiva gratuitamente» degli uffici e dei servizi «dello studio Bruno», oltre a percepire «periodicamente compensi dallo stesso studio». Ora, risulta a L’Espresso che Conte e Chimenti avrebbero legato proprio tramite l’avvocato forzista morto nel 2015: il neopremier ha in effetti bazzicato lo studio di Bruno quando quest’ultimo collaborava con quello di Alpa. Ma c’è un altro esponente di Forza Italia che può vantare un’amicizia di lunga data con Conte: si tratta di Maurizio D’Ettore, un ex socialista originario di Locri diventato, come il premier, ordinario di diritto privato a Firenze, che da qualche anno si è buttato tra le fila dei berluscones diventando coordinatore provinciale di Arezzo del partito. Se il professore pentastellato non ha mai preso un voto, alle ultime elezioni il collega è stato invece eletto alla Camera in pompa magna. I bene informati dicono che sia stato proprio D’Ettore a rassicurare il suo capo Berlusconi sulle capacità (e sulla moderazione) di Conte. Non ci sono controprove, ma un fatto è certo: il grillino e il berlusconiano vantano un rapporto d’amicizia decennale, e forse non sarà facile per D’Ettore fare opposizione dura e pura a chi stima da sempre. Altra vecchia conoscenza di Conte è il consigliere di Cassazione Fabrizio Di Marzio, che con il presidente del Consiglio dirige la rivista online “Giustizia Civile” (dove Alpa ha firmato molti articoli) e che siede dal 2016 nella delicata Commissione di garanzia per il controllo dei rendiconti dei partiti politici del Parlamento. Qualche giorno fa in un editoriale sul sito della rivista Di Marzio ha omaggiato il presidente del Consiglio con parole definitive («sono davvero contento, Giuseppe è una persona seria e perbene, questa scelta merita la fiducia di tutti»), e forse ora Pd, Forza Italia e gli altri partiti di opposizione (i cui conti Di Marzio deve radiografare annualmente) potrebbero sollevare contro di lui il tema, così caro al M5S e allo stesso premier, del conflitto di interessi. La ragnatela di Conte comprende anche Ugo Grassi, professore all’Università Parthenope di Napoli e neosenatore grillino («Quello di Sergio Mattarella è un attentato alla Costituzione. Dirò di più, è anche una forma di alto tradimento... Io non sono un costituzionalista, sono un collega di Conte, ma sto studiando il merito della questione», annunciò Grassi qualche ora prima della giravolta del suo capo Di Maio), e Giovanni Bruno, altro docente di diritto privato con cui il premier si è conosciuto alla Fondazione Tardini del cardinale Silvestrini, e con cui ha codifeso Francesco Bellavista Caltagirone in un difficile contenzioso con il Comune di Imperia per la vicenda del porto. Se con Chimenti, Bruno, Di Marzio e D’Ettore i rapporti sono ottimi, il suo amico più intimo, oltre ad Alpa, è Luca Di Donna. Anche lui giovane allievo del maestro, è riuscito a entrare alla Sapienza come ricercatore a soli 29 anni (il presidente della procedura comparativa era Stefano Rodotà). Di Donna due settimane fa è stato tra gli animatori di un appello pubblico in difesa di Giuseppe, massacrato - si legge - come «una vittima sacrificale» per la vicenda del curriculum da «un giornalismo che per la propria sopravvivenza è alla spasmodica ricerca di scoop». Il primo firmatario della lettera era Alpa, e oltre a quelli di Di Donna in calce si trovano altri nomi della rete di Conte: come i professori Raffaele Di Raimo e Claudio Rossano, e come Francesco Capriglione, esperto di arbitrati bancari ed ex potente condirettore centrale addetto alle consulenze legali della Banca d’Italia. Anche il premier ha ottenuto più di una consulenza da Via Nazionale: nel 2012 è stato infatti nominato tra i componenti del Collegio di Napoli dell’Abf (Arbitro bancario finanziario), l’ente che deve risolvere le controversie tra istituti e correntisti italiani. «Per fare quei lodi bisogna eccellere nell’arte della mediazione, e Giuseppe è uno dei più bravi in assoluto. Capriglione è un grande amico di Alpa, ma stima Conte innanzitutto perché è uno capace di suo», chiosa chi al premier vuole bene. Vedremo solo nei prossimi mesi se il premier marziano è stato assunto da Di Maio e Salvini solo per conciliare possibili crisi politiche tra i due leader, o se al contrario riuscirà a imporsi dimostrando autonomia di azione e di pensiero. Valori che la Costituzione italiana pretende da chi siede sulla poltrona più importante della presidenza del Consiglio.

Conte in un anno da «signor Nessuno» all’endorsement di Trump. Pubblicato martedì, 27 agosto 2019 da Marco Galluzzo su Corriere.it. In origine lo chiamavano signor Nessuno, preso in prestito da due partiti a cui non apparteneva. Eppure il tempo è galantuomo e con il passare dei mesi Giuseppe Conte non si è solo meritato il tweet di Donald Trump in cui lo definisce «molto talentuoso», un appoggio esplicito e diretto di Washington che appartiene certo al linguaggio del presidente americano ma che testimonia anche quanto ha seminato in quasi 15 mesi di mandato il presidente del Consiglio. La credibilità internazionale si costruisce a piccoli passi, momento dopo momento, vertice dopo vertice, e non c’è dubbio che Conte è passato in poco tempo da apprendista premier a disinvolto presidente del Consiglio capace di farsi apprezzare dalla quasi totalità delle Cancellerie europee, da ultimo per come ha gestito la partita delle nomine nei posti chiave della Ue, con l’appoggio, richiesto da Macron, alla nuova presidente della Commissione europea. Ma anche a Washington, nonostante le frizioni sugli accordi commerciali con la Cina, la sterzata successiva sul 5G, ha tessuto una rete in cui l’alleanza transatlantica fa comunque premio su tutto, anche sulle rivendicazioni di autonomia in politica estera.Nasce anche in questo contesto il messaggio che il presidente americano ha mandato ieri a Giuseppe Conte, un vero e proprio endorsement. In piena crisi di governo, il presidente americano ha scritto un tweet all’indomani della fine del G7 dicendo: «Le cose sembrano andare bene per il primo ministro della Repubblica italiana altamente rispettato, Giuseppi Conte» (il refuso nel nome è dello stesso Trump, che poi ha corretto). Ha rappresentato in modo potente l’Italia al G7. Ama tanto il suo Paese e lavora bene con gli Usa. Un uomo pieno di talento che si spera resti primo ministro». La risposta di Conte non si è fatta attendere. Il tweet del presidente americano Donald Trump, a quanto si apprende, è stato accolto con apprezzamento dal premier. A rendere particolarmente orgoglioso Conte, riferiscono le stesse fonti, «è stato il riconoscimento di agire sempre con la massima determinazione nel difendere l’interesse nazionale, pur essendo leale nei confronti di tutti i partner. Riconoscimento ribadito solo qualche giorno fa anche dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk».Insomma Conte di nuovo a Palazzo Chigi ha più di qualche spinta internazionale, è visto con favore a Washington, a Bruxelles, si è guadagnato il rispetto di Berlino e di Parigi, e non solo con uno stile e una sobrietà che alla fine hanno costruito l’apprezzamento per il personaggio, ma anche con una serie di decisioni che sono state decisive per un giudizio quasi unanime. L’aver portato il voto dei 5Stelle in dote all’elezione di Ursula von der Leyen, è solo un esempio. L’aver evitato ben due procedure di infrazione sui conti pubblici italiani è passata come un’operazione che a pochi sarebbe riuscita. L’aspetto umanitario pur nella chiusura dei porti, facendo sempre sbarcare i minori. E l’elenco potrebbe continuare, sino al discorso contro Salvini pronunciato in Senato e alla cronaca di questi giorni.

Giuseppe Conte, ecco chi è il presidente del consiglio del governo Lega-M5s. Nato in provincia di Foggia 54 anni fa, insegna diritto privato all'Università di Firenze e alla Luiss. Ha trascorso periodi di studio a Yale e la Sorbona, è stato borsista al Cnr. Ha ricoperto ruoli all'interno dell'Agenzia spaziale italiane e nel 2013 è stato eletto nel Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa. Di Maio lo ha indicato come ministro della Pa del suo governo ideale. Il Fatto Quotidiano il 31 maggio 2018. La prima volta che il Movimento 5 stelle ha scelto Giuseppe Conte è stato nel 2013. “Mi hanno telefonato e mi hanno chiesto la disponibilità a farmi nominare come membro dell’organo di autogoverno della Giustizia amministrativa. Io per onestà intellettuale dissi che non li avevo votati e che non ero un simpatizzante”. Il racconto lo ha fatto lui stesso il giorno in cui, a fine febbraio 2018, è stato presentato da Luigi Di Maio come ministro della Pubblica amministrazione di un eventuale governo 5 stelle. “Dobbiamo combattere l’ipertrofia normativa”, disse sempre quel giorno, “contrastare l’ignoranza coatta che avvantaggia i disonesti e puntare sulla meritocrazia”. E oggi che ha ricevuto l’incarico per guidare il primo governo Lega-M5s, le sue parole assumono ancora più significato. Lui, 54enne professore di diritto privato all’università di Firenze e alla Luiss, è il profilo che ha convinto Di Maio a proporlo come uno dei nomi su cui puntare: “un volto serio, anche se defilato”, che “al di là delle debolezze dà garanzie di serietà”. Insomma per alcuni il meno peggio che potrebbe piacere alla base M5s perché parla di “legalità” ed ha coordinato l’istruttoria che ha condotto alla destituzione del consigliere di Stato Francesco Bellomo, finito sotto accusa per i corsi per aspiranti magistrati in cui le borsiste venivano obbligate a indossare minigonne. Sul suo nome però i leghisti non hanno mai mostrato grandi entusiasmi e resta da vedere se effettivamente i due leader sono riusciti ad accordarsi oppure ci saranno sorprese.

Nato a Volturara Appula (Foggia) ma vive a Roma è il titolare di un grande studio legale, Conte dal 2010 al 2011 ha fatto parte del Cda dell’Agenzia Spaziale Italiana; nel triennio 2012-2015 è stato componente dell’Arbitro Bancario e Finanziario (sede di Napoli). Come si legge sul curriculum (qui la versione integrale) diffuso dal Movimento prima delle elezioni, è laureato in Giurisprudenza all’Università di Roma “La Sapienza” ed è stato borsista del Cnr. “Vanta”, si legge, “un’ampia esperienza di studio in Italia e all’estero (Yale University, New York University, Institute of Advanced Legal Studies, Université Sorbonne) e di insegnamento (Università di Sassari, Roma Tre, Luiss); è direttore di prestigiose riviste e collane scientifiche; è componente del Comitato scientifico della Fondazione Italiana del Notariato”. Il Parlamento lo ha designato, a partire dal 2013, componente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, di cui è diventato vicepresidente. E’ stato anche presidente della Commissione disciplinare e, tra gli altri incarichi, “ha coordinato l’istruttoria che, recentemente, ha condotto alla destituzione del consigliere di Stato Francesco Bellomo, per i suoi comportamenti inappropriati con le allieve dei corsi di preparazione alla magistratura”. Come riporta il Sole 24 Ore, nel 2009 è stato chiamato nella Sottocommissione di consulenti ed esperti giuridici a cui è stato chiesto di riformare la disciplina dell’Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. “Abbiamo scelto Giuseppe Conte per la sua grande capacità ed esperienza professionale”, aveva detto Di Maio il giorno della presentazione della squadra di ministri in campagna elettorale. Lui, sempre nel giorno della presentazione, aveva ribadito “da giurista”, il rispetto per il ruolo di Sergio Mattarella e riconosciuto che la sua nomina da ministro era solo “simbolica”. Quindi aveva spiegato le sue intenzioni: “Ho accettato di collaborare con Luigi Di Maio”, aveva detto, “nella logica dello spirito di servizio. Sono impegnato in particolare per obiettivi ambiziosi: semplificare i rapporti tra la pubblica amministrazione e i cittadini e diffondere la cultura della legalità. E rispettare l’articolo 54 della Costituzione, là dove recita che coloro a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno l’obbligo di adempierle con disciplina e onore”. Quindi il racconto del “primo contatto con Di Maio e il Movimento che “risale a 4 anni fa”: “Fui contattato e mi venne chieste la disponibilità di farmi nominare come membro dell’organo di autogoverno della Giustizia amministrativa. Per onestà intellettuale gli precisai: ‘Non vi ho votato e non sono un simpatizzante’. In questi 4 anni in cui ho svolto questo alto incarico non ho mai ricevuto una telefonata che volesse interferire con il delicato incarico che ho ricoperto. La promessa è stata mantenuta. Nel corso della telefonata mi venne subito detto: a noi non interessa, vogliamo un indipendente. Ecco allora io ho potuto verificare con mano che nel Dna di questi giovani amici c’è la cultura della legalità e il rispetto delle istituzioni e la difesa di un concetto di etica pubblica che era tanto caro a Rodotà. Si è avviato un dialogo più recentemente: la svolta è stata quando ho visto come sono state composte le liste”. Quindi aveva illustrato i suoi obiettivi come ipotetico ministro della Pa: “Dobbiamo combattere l’ipertrofia normativa. Dobbiamo fare in modo di contrastare l’ignoranza coatta che avvantaggia i disonesti. Serve un riassetto di interi settori. Bisogna abrogare le leggi inutili. Io penso che saranno più delle 500 già censite dal Movimento”. E ancora: “Bisogna semplificare al massimo tutti i passaggi burocratici; occorre un riassetto delle autorità indipendenti. Infine puntare sulla meritocrazia e da ultimo con il ministero dell’Istruzione rivedere pressoché integralmente la riforma della cattiva scuola“. Come riportato dall’agenzia Ansa, Conte nelle scorse settimane disse anche di avere un passato di elettore a sinistra: “In passato ho votato a sinistra”, aveva dichiarato. “Oggi penso che gli schemi ideologici del ‘900 non siano più adeguati. Credo sia più importante valutare l’operato di una forza politica in base a come si posiziona sul rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. E sulla sua capacità di elaborare programmi utili ai cittadini”.

LA STORIA SEGRETA DELL’IRRESISTIBILE ASCESA DEL CONTE ZELIG. Dago Spia il 29 Agosto 2019. DAL LIBRO “L’ESECUZIONE” DI JACOPO IACOBONI…Tra la fine del 2013 e l'inizio del 2014 Guido Alpa, avvocato e prestigioso giurista genovese, presidente per tanti anni del Consiglio nazionale forense, un elenco infinito di incarichi nel board di importanti società, è assai incuriosito dall'ascesa di un giovane politico fiorentino che ha appena vinto le primarie del Partito democratico, diventandone segretario, e che ormai punta chiaramente a Palazzo Chigi, imbracciando la narrativa della «rottamazione» spesso anche nei confronti del governo in carica presieduto da un altro democratico, Enrico Letta. In quel periodo, e già da alcuni anni, Alpa è il dominus di un avvocato di cinquant'anni di origini pugliesi, Giuseppe Conte, talmente lontano dal momento in cui sarà indicato come candidato premier da Luigi Di Maio (in pieno accordo con Matteo Salvini) da adoperarsi per favorire un incontro di conoscenza, di quelli che si usa fare nel mondo a cavallo tra politica, professioni, studi e imprese, tra l'anziano luminare del diritto e Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze in quei giorni appare a tutti — non occorre un particolare acume nella lettura della fase politica — sulla rampa di lancio verso Palazzo Chigi. E Alpa vorrebbe conoscerlo. Conte in quegli anni si è trovato in un contatto diretto, assiduo, col mondo renziano. E la via maestra è rappresentata da una delle figure chiave nel renzismo, Maria Elena Boschi, anche lei avvocato, di una generazione più giovane di Conte, la stessa di Alfonso Bonafede (che sarà ministro della Giustizia del governo M5S-Lega), pure lui avvocato a Firenze. La futura ministra delle Riforme, che sarà uno dei bersagli preferiti di una campagna d'odio violentissima della propaganda pro-M5S, è stata assieme a Conte e al futuro vicecapo di gabinetto del ministro Bonafede, Leonardo Pucci, in una commissione d'esame nella scuola delle professioni legali a Firenze. La conoscenza con Bonafede è anch'essa antica, e per nulla ostile alla futura ministra da parte di Bonafede; un contatto che risulterà utile nelle fasi in cui — ciclicamente — Movimento e Pd tenteranno abbozzi di dialogo su questioni politiche specifiche, dagli assetti nelle commissioni parlamentari a quelli fuori dal Parlamento. Quando, almeno a Firenze, comincia ad apparire evidente l'ascesa di Renzi, il giovane avvocato Boschi è una delle poche figure che mettono in piedi il network renziano e la convention della Leopolda; ed è proprio questo filo a distanza tra la Boschi e Conte che consente a quest'ultimo, a un certo punto, di facilitare l'incontro tra Alpa e Renzi. Dopo alcuni tentativi in cui Conte si adopera per questo colloquio, l'incontro avviene. Cordiale, una chiacchierata con conte-nuti contingenti e legati agli scenari del potere in quel momento. Alpa si presenta dinanzi al neosegretario del Pd accompagnato proprio da Conte, che nessuno onestamente immaginerebbe futuro premier. È un dialogo di conoscenza che fila via senza che lì per lì nessuno nei media se ne interessi particolarmente. I due, Alpa e Conte, appaiono assai ben disposti verso Renzi in quella stagione, in fondo non così lontana. In quell'occasione Conte resta rispettosamente taciturno. Assiste spettatore al dialogo del suo mentore giuridico con il capo del renzismo: ossia, di lì a poco, il nemico numero uno della Casaleggio e della campagna elettorale di Luigi Di Maio. Renzi racconterà a Gian Antonio Stella: «Ci ricordiamo i grandi complimenti che [Conte] ci faceva quando eravamo al governo noi». «Vuol dire che conoscevate già lo sconosciuto?», chiede Stella. «Sconosciuto? Conserviamo ancora i messaggini di lode per il nostro governo». L'Italia è un paese in cui reti di relazioni e incroci professionali possono risultare così sorprendenti che alla fine tutti se ne dimenticano e nessuno se ne sorprende. Il quotidiano «la Repubblica», nell'ottobre del 2018, ha sollevato la questione del potenziale conflitto d'interesse esistente tra Conte e Alpa: i due avevano da poco svolto un incarico professionale assieme nel 2002, quando Alpa fu il professore ordinario che giudicò Conte nel concorso universitario vinto dal premier all'Università Vanvitelli di Caserta. Secondo l'articolo 51 del codice di procedura civile, avere una collaborazione professionale con un esaminando è elemento che causa l'incompatibilità per chi esamina. Conte ha risposto con una lettera a «Repubblica» in cui lamentava «falsità e diffamazioni», ma non correggeva l'elemento di fatto, e cioè l'aver svolto — con Alpa, ma fatturando separatamente, sostiene — una difesa comune del garante della privacy, in una causa del 2001 contro la Rai: «Io e il prof. Alpa non abbiamo mai avuto uno studio professionale associato né mai abbiamo costituito un'associazione tra professionisti [...]. All'epoca dei fatti, Alpa aveva sì uno studio associato, ma a Genova, con altri professionisti. Mentre a Roma siamo stati "coinquilini" utilizzando una segreteria comune». La lettera a «Repubblica», inviata dal portavoce Rocco Casalino ma firmata direttamente da Conte, viene pubblicata l’8 ottobre 2018. Ma lo stesso giorno, nella pagina a fianco, viene dato ampio spazio a un particolare: nel curriculum ufficiale dell'avvocato Conte (alla voce «Tra i principali incarichi professionali svolti») sta scritto testualmente: «Dal 2002 ha aperto con il professor Alpa un nuovo studio legale, dedicandosi al diritto civile, al diritto societario e fallimentare». Il premier «avvocato del popolo», che firmerà la «manovra del popolo», ha tenuto a connotarsi fin da subito come uomo progressista: lo ha affermato spesso nei giorni cruciali in cui la sua nomination per Palazzo Chigi restava sospesa. Ha detto anche che, prima di diventare il premier dell'esecutivo Lega-Movimento, aveva «un cuore che batte a sinistra». Conte ha poi fatto sapere in giro che gli piacevano le posizioni di Gianni Cuperlo, lo sfidante di Renzi nelle primarie Pd del 2013. E «Il Fatto Quotidiano» — nel primo importante ritratto a tutta pagina del neopremier apparso su quel giornale — ha messo nero su bianco, a testimonianza di questa circostanza, che Conte aveva votato Cuperlo alle «ultime elezioni». Un'informazione che aveva l'effetto di bilanciare l'alleanza a destra che il Movimento stava invece costruendo con la Lega. Ma anche qui bastava incrociare queste affermazioni con la realtà per accorgersi facilmente che Cuperlo il 4 marzo non era neanche candidato, e dunque non poteva esser stato votato da Conte.

Conte aveva un rapporto amichevole con Maria Elena Boschi. Sappiamo che la sua posizione sul referendum costituzionale, quello che di fatto ha disarcionato Renzi e sancito la fine della sua parabola di governo, non era affatto contraria. Nulla di male, ma non sembrerebbero sulla carta i requisiti di chi diventerà premier del governo Movimento-Lega. Un governo populista e autoritario secondo molti, «populista e xenofobo» secondo importanti uomini di governo europei — la definizione in questo caso è del commissario europeo all'Economia, il francese Pierre Moscovici. Fino a che punto, conviene ora chiedersi, il governo Lega-Movimento è populista? O, addirittura, sovranista? E cosa ne pensa il suo premier-esecutore, questo avvocato semisconosciuto nella scena pubblica italiana, selezionato quasi con una nomination di stile televisivo, che si presenta alla Camera con «tre parole chiave», ascolto, esecuzione (del contratto) e controllo? E, se esecuzione è, di chi sono gli ordini? La realtà è che Conte si cala talmente nella parte da arrivare a teorizzare, persino giuridicamente, il sovranismo — non si vuol dire il semplice populismo, ma la sua versione più cara alla Lega e all'universo culturale di Casaleggio. Il 26 settembre 2018, parlando a New York in occasione dell'assemblea dell'Onu, Conte pronuncia due frasi, lievemente diverse nella forma ma molto nella sostanza. Nel discorso ufficiale all'assemblea generale dice: «Quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo sempre ricordare che sovranità e popolo sono richiamati dall'articolo 1 della Costituzione italiana, ed è esattamente in quella previsione che interpreto il concetto di sovranità e l'esercizio della stessa da parte del popolo». Un'affermazione discutibile, ma non tecnicamente oppugnabile, benché parziale (manca totalmente la seconda parte dell'articolo 1, quella in cui si specifica che la sovranità «appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»). Senonché la seconda frase, pronunciata in una chiacchierata più informale ma ripresa in numerosi filmati dei presenti davanti ai giornalisti, con l'East River sullo sfondo, è il manifesto teorico più impressionante della metamorfosi da pacato professore di diritto civile allievo di Alpa a premier del governo Lega-Movimento. Conte non evoca più solo la «sovranità», ma parla proprio di «sovranismo», pronunciando questa dichiarazione assai sorprendente per un giurista: «Il sovranismo è nella nostra Costituzione, la sovranità appartiene al popolo». In quel momento gli sfugge anche un'espressione surreale e curiosa: «mi interessa, come esponente del governo, incontrare gli investitori stranieri». Ma lui non è «un esponente» del governo — uno che cura l'esecuzione di un contratto giuridico o di un testamento (il testamento ideologico di Casaleggio: far convergere i due movimenti, Cinque stelle e Lega). No, Conte è il presidente del Consiglio e teoricamente è il capo di quel governo che sta eseguendo l'esperimento di Casaleggio, a così tanti anni di distanza da quando se ne fecero le prime prove. Più volte, del resto, abbiamo sentito Giuseppe Conte parlare di «populismo» e «sovranismo». Quello che negli ambienti istituzionali italiani, anche in alto loco, nel corso degli 88 lunghissimi giorni per formare il governo è stato considerato un personaggio utile a tentare un accettabile compromesso per provare a romanizzare i barbari, a digerire il Movimento, a metabolizzare il 4 marzo e incanalarlo e gestirlo dentro una dinamica tutto sommato accettabile istituzionalmente, si rivela in realtà in tante occasioni un nuovo portavoce dell'esperimento, del tutto permeabile e fungibile alla narrativa populista. Uno che la teorizza: per esempio in una sera di novembre 2018 va in tv da Giovanni Floris, in una delle trasmissioni predilette dal Movimento, e alla domanda su come definirebbe il popolo risponde, perso ormai ogni residuo freno inibitorio: «Il popolo è la somma degli azionisti che sostengono questo governo». Il portavoce, Rocco Casalino, seduto in studio, viene immortalato mentre si concede soddisfatte espressioni facciali. Tutto, frasi e comportamenti del premier, avviene in effetti sulla base di ragionamenti svolti dal suo team comunicativo, composto da uomini provenienti dalla Casaleggio o da uomini che devono il loro potere quasi assoluto al fatto di essere il trait d'union con Davide Casaleggio, come il portavoce Rocco Casalino (sul cui ruolo e sui cui metodi torneremo) o lo storico capo dei social media alla Casaleggio Associati, Pietro Dettori. In tante altre occasioni Conte è stato più che esplicito nello sposare e lodare il sovranismo. Per fare solo qualche esempio, il 14 ottobre 2018 afferma che «populismo e sovranismo sono concetti declinati con accezioni negative, usati come strumenti negativi: io personalmente non ne ho una concezione negativa». Il 5 giugno 2018, nel discorso per la fiducia alla Camera, aveva citato l'orazione di Fèdor Dostoevskij del 1880 su Aleksandr Pugkin come un discorso sul populismo nel senso contemporaneo. In realtà in quel testo il grande romanziere russo parla di «popolo russo», di «intelligenza del popolo», di «verità del popolo», e di Pugkin come grande poeta popolare, ma in maniera del tutto incompatibile con i populismi contemporanei. Peraltro, come ha notato dettagliatamente Anna Zafesova, il riferimento è anche maldestro sul piano lessicale, oltre che concettuale. Conte nell'aula di Montecitorio dice: «E qui traggo ispirazione dalle riflessioni di Dostoevskji tratte dalle pagine di Pugkin». Così riportano i video dell'aula e il testo che viene diffuso alle agenzie (ma nello stenografico l'errore è stato corretto: segno che è stato percepito come tale dalla comunicazione ufficiale M5S e vi è stata messa una "toppa"). Le riflessioni di Dostoevskij, infatti, non possono essere «tratte dalle pagine di Pugkin»: per l'ovvia ragione che Pugkin muore quando Dostoevskji è appena un adolescente. Questa piccola, inoffensiva curiosità è solo una delle tante che hanno acceso i riflettori sul curriculum e la biografia di questo pugliese di Volturara Appula, il papà impiegato del Comune, la mamma maestra, un uomo che merita l'attenzione da riservare a chi non proviene da famiglie potenti. Quando emerge la sua candidatura, il «New York Times» scopre che alcuni dati indicati nel curriculum dell'avvocato pugliese non tornano, non corrispondono esattamente a come li ha forniti lui. Nel curriculum presentato sul sito della Camera dei deputati nel 2013, quando Conte venne nominato nel Consiglio di giustizia amministrativa (il suo nome era gradito sia ad Alfonso Bonafede, poi guardasigilli grillino nel governo Lega-Movimento, sia a Maria Elena Boschi, cioè al cerchio più ristretto dei renziani), c'è scritto tra le altre cose che Conte «dall'anno 2008 all'anno 2012 ha soggiornato, ogni estate e per periodi non inferiori a un mese, presso la New York University, per perfezionare e aggiornare i suoi studi». Interpellata da Jason Horowitz del «New York Times», una portavoce dell'università, Michelle Tsai, ha dichiarato di non aver trovato presenza o traccia di Conte né come insegnante, né come ricercatore, né come studente. E ha poi spiegato al giornalista che nel caso in cui Conte avesse frequentato corsi molto brevi, della durata di giorni, l'università non conserva documentazione; ma in quel caso non lo si potrebbe definire un «perfezionamento». Problemi nel reperimento di conferme su altri «perfezionamenti» indicati nel curriculum di Conte ci sono stati anche con l'Università di Cambridge: una fonte interna all'agenzia Reuters ha dichiarato di non aver trovato tracce di studi di Conte. «Il Messaggero» e «Repubblica» hanno chiesto, e ricevuto smentite, sulla circostanza che Conte abbia seguito dei corsi a Pittsburgh e alla Sorbona. Il Movimento cinque stelle ha replicato ufficialmente sostenendo che «nel suo curriculum Giuseppe Conte ha scritto con chiarezza che alla New York University ha perfezionato e aggiornato i suoi studi. Non ha mai citato corsi o master frequentati presso quella università». «Il Fatto Quotidiano», in un articolo che riproponeva anche un tweet in cui si rilanciavano accuse assai velenose contro Horowitz, si schierava in difesa di Conte senza se e senza ma, minimizzando lo scoop del «New York Times»: «Diversi accademici confermano quanto sostenuto dal docente di diritto privato. E spiegano che le posizioni di visiting scholar e visiting professor — così si definiscono gli studiosi che svolgono attività di ricerca presso atenei di altri Paesi — prevedono solo l'accesso alla biblioteca dell'università e non sono formalizzate. È normale quindi che non vengano né registrate [sic] nelle banche dati dell'istituzione». A differenza di Ted Malloch, la polemica sulle esagerazioni contenute nel curriculum di Conte non frenerà la corsa del professore, in questo caso verso Palazzo Chigi. Ma certe cose che nel mondo anglosassone sono imperdonabili e provocano la fine immediata di qualunque ambizione politica, in Italia sono tollerate, se non addirittura difese, da falangi di propagandisti. In diverse circostanze, non solo perché lui stesso ha parlato di mera «esecuzione» del contratto, Conte è stato criticato per un atteggiamento troppo sbiadito nell'esercizio della funzione di presidente del Consiglio. Se Matteo Salvini ha conquistato la scena in modi così debordanti, a volte tallonato da uscite altrettanto rumorose — ma quasi sempre tecnicamente più improvvide — di Luigi Di Maio, di Conte si è registrata solo una modesta traccia. Alcuni episodi che lo hanno riguardato sono diventati iconici; e vale la pena provare a raccontarli, sia pure brevemente. Del resto, l'esecuzione non prevede una particolare autonomia di giudizio; anzi, forse può essere utile il contrario, un atteggiamento il più possibile notarile rispetto ai due contraenti del patto, Matteo Salvini e Davide Casaleggio. In un'altra vicenda, l'approvazione in Consiglio dei ministri del decreto sicurezza tanto caro alla Lega, il premier si fa immortalare, su richiesta di Salvini, mentre lui e il ministro dell'Interno innalzano due fogli bianchi con l'hashtag della riforma, #decretosicurezza. Il presidente del Consiglio appare discretamente imbarazzato, ma non si sottrae a quella scena, che certo non eleva lo standing della presidenza del Consiglio. Mi hanno raccontato che il 9 novembre 2018 Conte stava ricevendo nel suo studio a Palazzo Chigi i due capigruppo parlamentari di Fratelli d'Italia, forse prevedendo fasi turbolente nella maggioranza Lega-Movimento. Il portavoce Casalino avrebbe fatto irruzione senza bussare e, con un gesto che ai due ospiti sembrò autoritario, battendo il dito sull'orologio, avrebbe ricordato al premier che il tempo per l'incontro era scaduto. Conte, con una mitezza apparsa eccessiva ai due capigruppo, avrebbe detto che erano in ritardo per colpa sua, prolungando così l'incontro per altri dieci minuti. Eppure in altre circostanze Conte mostra una altissima, quasi smodata, considerazione di sé. Forse galvanizzato oltre ogni sensata misura da certi paragoni («Conte ha la stessa inesperienza politica che avevano Monti e Ciampi», ha dichiarato Marco Travaglio a Otto e mezzo, la trasmissione condotta da Lilli Gruber), il premier, offrendo ai giornalisti un piccolo brindisi 1'8 agosto 2018, giorno del suo compleanno, si è prodotto in un bizzarro elogio del giurista in politica che preludeva a un autoincensamento. «Alla fine del liceo ero incerto sul da farsi. Ad aprile avevo scelto Ingegneria, in estate ero pronto per Filosofia, a settembre mi sono deciso per Giurisprudenza. Certo, il diritto è faticoso, ma dopo anni e anni uno se ne appropria e diventa uno strumento utile. Perché il diritto innerva di sé l'intera vita politica e sociale. Chi è privo di cultura giuridica può afferrare concetti e obiettivi, ma deve affidarsi al tecnico e ne resta psicologicamente in balia». Stava per caso sopravvalutando il suo ruolo, rispetto a quello di Salvini e Di Maio? «In politica c'è quello che dice: quella cosa si deve fare! C'è un altro che obietta: si può fare o non si può fare? E nell'incertezza, senza un solido parere giuridico, si arriva al Consiglio di Stato, alla Corte Costituzionale».

Siamo nei giorni di mezza estate del 2018, quando il governo italiano vanta di aver ottenuto un grande successo in Europa nella ripartizione solidale dei migranti — successo che ovviamente non esiste, come poi dimostreranno altre gravi crisi umanitarie nella gestione di flussi migratori. Fabio Martini coglie quel dettaglio, che tanto dice su un uomo che si sente arrivato e si gonfia il petto, e lo racconta sulla «Stampa». Oppure, altro episodio rivelatore: il 15 dicembre 2018, dopo una normalissima udienza privata al cospetto di papa Francesco, il premier si autocelebra in un post su Facebook che racconta l'evento. Conte scrive: «Questa mattina ho incontrato Papa Francesco», ma si concede frasi fuori tono: «abbiamo richiamato il rispettivo impegno», «ciascuno nell'ambito delle proprie competenze», «ci siamo confrontati». Come se — forse con la benedizione di padre Pio, di cui è devotissimo, o dei suoi antichi professori cattolici a Villa Nazareth — il presidente del Consiglio si sentisse in fondo, ormai, un primus inter pares, o addirittura cominciasse a persuadersi di essere uno statista. Una sensazione che alcuni media pomperanno, per la verità, in maniera non innocente; contribuendo a costruire l'immagine di un Conte ormai sulla rampa di lancio politica anche dentro il Movimento, dopo l'accordo con l'Unione europea sulla manovra il 19 dicembre 2018. Ma è uno spin messo in giro abilmente dalla comunicazione ufficiale del Movimento: Conte come il vero, futuro strumento di Davide Casaleggio, mentre Di Battista sarebbe l'arma letale per la campagna elettorale euro-populista alle elezioni europee; con tanti saluti a Luigi Di Maio, la cui immagine viene giudicata ormai troppo appannata. In quell'occasione Conte, in un'intervista al «Corriere della Sera», mostra l'altra faccia del conflitto che incarna: non quella sovranista ma quella dell'uomo del presunto dialogo. Le domande gliene offrono comoda occasione, e lui è ben lieto di recitare la parte, dopo un accordo con l'Unione europea che è costato 4 miliardi di tagli agli investimenti nella manovra: «Questo [un'uscita dal sistema della moneta unica] non è né sarà mai un obiettivo politico di questo governo. Ma attraversare una procedura di infrazione che avrebbe messo sotto controllo i conti dell'Italia per sette anni, inutile negarlo, avrebbe avuto un costo politico molto elevato, e forse non del tutto prevedibile». Anche nel momento in cui in tanti sembrano volerlo far sembrare più un esecutore di Sergio Mattarella che di Salvini-Casaleggio, Conte invia un messaggio che non dispiace ai sovranisti, con quel «non del tutto prevedibile». Passa anche questo messaggio: oggi è andata così, ma domani non possiamo saperlo. Nell'ipotesi, che a Conte viene fatta balenare via via (non importa se reale o lunare), di poter diventare lui — non Salvini o altri — l'ago della bilancia della stagione populista. E infatti, di lì a poco, il Movimento tenterà l'alleanza europea con i gilet gialli: non proprio dei moderati istituzionali, ma una rivolta piena di elementi gruppettari, e segnata anche dal mito della Frexit, l'uscita della Francia dall'Unione europea. Insomma, Conte può, come Di Maio, essere interprete ed esecutore di spartiti anche opposti. È un Di Maio 2.0 nel momento in cui Di Maio non viene creduto più. Del resto ne ha fatta di strada, il devoto di padre Pio. Partito da Volturara Appula, a Roma ha costruito un network trasversale di relazioni che spazia tra il mondo dei giuristi-grand commis dello Stato e il Vaticano. Quando il suo nome viene ufficiosamente fatto pervenire sul tavolo di Sergio Mattarella da Di Maio e Salvini, a maggio del 2018, si avviano discreti sondaggi, non solo da parte del consigliere Ugo Zampetti, per avere qualche notizia in più su questo giurista, che il capo dello Stato non conosce personalmente. Si attiva un informale giro di pareri, nessuno dei quali si rivelerà negativo. Viene tenuto in considerazione Giacinto Della Cananea, un altro giurista (allievo di Sabino Cassese) che Di Maio aveva nominato capo di una strana entità, il Comitato per valutare la compatibilità del programma M5S con i programmi degli altri partiti. I commenti provenienti dal mondo di influenti giuristi romani pervengono a Bernardo Giorgio Mattarella, figlio del presidente della Repubblica e docente di Diritto amministrativo a Siena, oltre che condirettore del master in management della Pubblica amministrazione alla Luiss di Roma (dove anche Conte tiene corsi). I rapporti accademici di questo avvocato pugliese sono, insomma, ben coltivati. Chi ha ricevuto il biglietto d'invito alla «Conferenza annuale sul diritto dell'energia. La strategia energetica nazionale: governance e strumenti di attuazione», avrà visto questa lista di relatori: Giuseppe Conte, appunto, Luigi Carbone, consigliere di Stato, Giulio Napolitano, professore di Diritto amministrativo a Tor Vergata e, a presiedere la giornata (all'Auditorium di via Veneto), proprio Bernardo Giorgio Mattarella. Insomma, Conte ha un profilo pacato e ben inserito, che in quelle giornate resta in piedi e si fa preferire a quello del rumoroso Giulio Sapelli, così pronto a comunicare alle agenzie di stampa di essere in pista, e anzi, lì lì per spiccare il volo verso Palazzo Chigi. Quel che più conta in questi casi, Conte non attiva veti di nessuno sulla sua figura. E talmente poco noto e silente che non fa rumore, si muove abbastanza in sordina, non è osteggiato da influenti colleghi giuristi del Palazzo. Mario Calabresi, all'epoca direttore di «Repubblica», osserva che è singolarissima la circostanza di un uomo che arriva sulla soglia di Palazzo Chigi senza che nessuno abbia mai sentito il suo tono di voce, o sappia se è in grado di parlare in pubblico. Conte però sa eseguire. E non è uno con la cattiva fama di voler strafare. L'esecuzione potrebbe aver trovato il suo uomo. Una capacità che, forse, è stata affinata fin da ragazzo tra le felpate stanze di Villa Nazareth, il collegio cattolico che aiuta i giovani studenti di famiglie non abbienti a mantenersi (anche Conte ci ha studiato, ma da non residente all'interno della struttura; per essere residenti bisognava che in famiglia entrasse un solo stipendio). Villa Nazareth — fondata nel dopoguerra da monsignor Domenico Tardini, che dopo la morte darà il nome alla Fondazione che gestisce l'istituto — è un luogo simbolo del cattolicesimo democratico italiano. Dietro i suoi cancelli, andando a ritroso, sono transitati negli anni, come professori o come ospiti, Sergio Mattarella, Romano Prodi, Oscar Luigi Scalfaro, fino ad Aldo Moro. Il porporato di peso che tiene d'occhio nella sua prima formazione lo studente Conte è Achille Silvestrini, ma nel corso degli anni si fa sempre più stretto il rapporto di affetto di Conte verso monsignor Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano. Un uomo che in più di una occasione — a Roma come a Washington, e all'ambasciata presso la Santa Sede — Luigi Di Maio ha incontrato e consultato, spesso nella massima riservatezza, nel processo di avvicinamento del Movimento cinque stelle alle stanze vaticane, e al governo. In quella fase, a metà maggio 2018, non sono in pochi, anche nel mondo cattolico romano delle più diverse ispirazioni — non solo quindi nel cattolicesimo democratico di Villa Nazareth —, a interessarsi a quel Movimento così plasmabile, malleabile, apparentemente romanizzabile. Così potenzialmente utile per tramandare l'eterna struttura, immutata, del potere temporale e spirituale della romanità. Certo — lo vedremo in seguito — è assai diverso il cattolicesimo di Parolin da quello, poniamo, del cardinale Raymond Burke, l'ultraconservatore amico di Steve Bannon, l'ex strategist alla Casa Bianca anche lui di casa sia 0ltretevere che nella politica italiana post-4 marzo, e in particolare nel Movimento cinque stelle con cui, come sappiamo, Bannon ha dichiarato di aver avuto diversi incontri. Ecco, quale Vaticano sta vincendo con l'insediamento del governo guidato dal premier Giuseppe Conte? Il Vaticano di Parolin o quello di Burke? Chi prevale nel conflitto — che da allora diventerà endemico di questa stagione italiana —, il Conte teorico del sovranismo, allineato agli interessi di Salvini e Casaleggio, o il Conte apprezzato nell'ambiente dei giuristi romani, e nel Vaticano moderato e più «politico», il Conte che a dicembre del 2018 porta a casa — certamente incoraggiato e quasi guidato dalla presidenza della Repubblica — il negoziato con l'Europa per evitare la procedura d'infrazione, che a un certo punto il suo governo era sembrato quasi cercare? La figura del premier dell'esecuzione riassume, in sé, tutta l'ambiguità di questo biennio, le ombre e i poteri che si addensano e circondano l'esecuzione, e il fatto che molti — segmenti istituzionali, o pezzi di centrosinistra — siano ancora convinti, o a volte semplicemente fiduciosi, di poter disarticolare il Movimento, e usarlo, assimilarlo, ricondurlo nelle spire sempre avvolgenti della romanità. E tuttavia, di nuovo: l'esecuzione è esecuzione di cosa, e per conto di chi? Il fine ultimo, l'endgame di questo intreccio così appassionante di storie e relazioni, umane e politiche, resta controverso. Sebbene il governo Lega-Movimento, e la pulsione estremista-sovranista, appaiano resistenti e tenaci, nell'autunno-inverno del 2018-2019, degli spread, del degrado dei rapporti dell'Italia con l'Unione europea e degli editti dei Cinque stelle contro i giornali. Una cosa è certa: non tutto cambia, nel «governo del cambiamento». Molti poteri sono all'opera per resistere immutati, cambiare tutto per non cambiare nulla o, al limite, staccare il Movimento dalla Lega. Altri vogliono invece una sterzata brusca, sovranista e anti-euro, che ha vissuto uno dei suoi momenti fatali in una notte della Repubblica. 

"Non sono dei 5 Stelle", ma spunta un video ​che sbugiarda Conte. Le immagini mostrano il premier mentre esulta insieme a Luigi Di Maio, durante lo spoglio delle schede per le elezioni del 2018. Francesca Bernasconi, Lunedì 02/09/2019, su Il Giornale. "Definirmi dei Cinque Stelle mi sembra una formula inappropriata". A sottolinearlo era stato lo stesso Giuseppe Conte, accusato di essere parte del Movimento. "Non sono iscritto al Movimento 5 stelle, non partecipo alle riunioni del Gruppo dirigente politico, non ho mai incontrato i Gruppi parlamentari", aveva aggiunto il nuovo premier incaricato, ammettendo una vicinanza politica ai pensastellati, ma sottineando di non essere appartenente al partito. Dichiarazioni che stonano, se lette mettendole in relazione a un video, diventato virale sui social. Le immagini, infatti, ritraggono i festeggiamenti dei vertici del Movimento 5 Stelle, durante lo spoglio delle schede delle elezioni 2018. I grillini raggiunsero un ottimo risultato e i dirigenti del Movimento non si sono risparmiati nelle esultanze. Tra loro, in primo piano è ben visibile Luigi Di Maio, euforico. Ma tra i pentastellati felici del risultato della notte del 4 marzo 2018, spunta anche Giuseppe Conte. Nelle immagini, condivise dal giornalista Jacopo Iacoboni, si vede il premier incaricato esultare insieme ai 5 Stelle, alla seconda proiezione del voto. Una reazione che si scontra con la posizione espressa e ribadita da Conte negli ultimi giorni.

CONTE È IL NUOVO BADOGLIO? Maurizio Belpietro per “la Verità” il 31 agosto 2019. L' altra sera in tv ho incrociato le opinioni e la spada con Giuliano Cazzola, un vecchio amico da cui mi divide l' amore per Elsa Fornero e Mario Monti. L' innamorato dei due «tecnici» con il loden ovviamente non sono io ma lui, che da ex sindacalista della Cgil si è riscoperto estimatore di teorie liberiste e rigoriste. Non è però delle passioni senili di Giuliano che voglio scrivere, bensì di un paragone che Cazzola ha fatto durante la trasmissione. Parlando di Giuseppe Conte, a un certo punto gli è scappato di accostarlo a Pietro Badoglio, il Maresciallo d' Italia che dopo la destituzione di Mussolini divenne capo del governo. L' idea di un Conte-Badoglio mi è sembrata lì per lì bislacca e infatti a Cazzola ho ricordato che dopo l' 8 settembre il generale si rese protagonista di una vergognosa fuga verso Pescara, insieme con il re e la sua corte, lasciando Roma nelle mani dei tedeschi. Insomma, mettere il nuovo presidente del Consiglio sullo stesso piano di quello che 76 anni fa consegnò il Paese a Hitler, scappando di notte come uno Schettino qualsiasi, mentre la nave Italia affondava, non mi è parso lusinghiero per lo stesso Conte. Tuttavia più tardi ci ho ripensato e debbo riconoscere che il paragone non era affatto azzardato e che il mio amico Cazzola non aveva poi del tutto torto e ora vi spiego perché. Non so se lui, citando Badoglio, avesse in testa ciò che sto per dire o se, più semplicemente, volesse sostenere che con la caduta del governo gialloblù siamo un po' come nel 1943, cioè nel bel mezzo di una guerra e con un dittatore agli arresti (per settimane si è discusso dell' avvento antidemocratico di Salvini, per scoprire poi che l'uomo che chiedeva pieni poteri non aveva neppure quello di imporre l' antidemocratico rito delle elezioni). Sta di fatto che una qualche analogia fra Giuseppe Conte e Pietro Badoglio esiste ed entrambi incarnano un certo tipo di politica e, se volete, anche di storia italiana. È vero che Badoglio può vantare un curriculum che non ha eguali dal punto di vista dei disastri, basti dire che a lui si può addebitare in gran parte la disfatta di Caporetto, ma soprattutto porta sulle spalle le sconfitte accumulate dall' esercito italiano, su molti fronti, durante la seconda guerra mondiale. Ed è vero che anche Conte una sconfitta importante l' ha conseguita con il governo gialloblù, perché l' opera, come la Tav e il ponte di Genova, è rimasta incompiuta. Ma non è questo l' elemento che li avvicina fino a renderli interpreti di un uguale destino. No, l' accostamento possibile è dovuto al fatto che Badoglio fino al 25 luglio del 1943 fu mussoliniano, sostenitore della dittatura fascista, firmatario delle leggi razziali nel 1938, il Maresciallo d' Italia per 15 anni che consegnò al Duce le Forze armate, e poi, dopo che il Gran consiglio ebbe destituito Mussolini, divenne l' uomo che firmò l' armistizio, incarnando un' Italia che aveva cominciato la guerra al fianco dei nazisti e poi si schierava con le truppe che combattevano i nazisti. Sì, Badoglio è la rappresentazione stessa del trasformismo italico, di una tendenza a voltar gabbana. Badoglio è l' incarnazione fatta storia dell' uomo per tutte le stagioni e anche per tutte le guerre, pronto a combattere su un fronte ma, se serve, anche sull' altro. Ecco, si è detto e scritto in questi giorni che non si è mai visto un premier che senza soluzione di continuità passasse da un governo di destra a uno di sinistra, riuscendo a non spettinarsi i capelli e nemmeno a gualcire l' abito di sartoria. La lacuna è stata colmata: ora, dopo un doppio salto carpiato abbiamo anche il premier double face, che si può indossare sul completo gialloblù, ma se è necessario anche su un vestito giallorosso. È sufficiente rivoltare le idee, come per i tessuti bicolor, blu da un lato e rossi all' altro. Un presidente del Consiglio con la pochette intercambiabile, che nel primo tempo della partita indossa una maglia e nel secondo tempo quella della squadra avversaria, magari fingendo di fare l' arbitro e preparandosi a essere una riserva sulla panchina della Repubblica, per farsi carico, se serve, di una Caporetto o, se è necessario, anche un governo agli ordini di un nuovo Sciaboletta. Sì, aveva ragione Cazzola l' altra sera in tv. Conte ricorda un po' Badoglio, mussoliniano-grillino prima, savoiardo-piddino poi. Resta da vedere se, come Badoglio, un bel giorno fuggirà di notte consegnando il Paese ai tedeschi.

Mario Ajello per “il Messaggero" il 2 settembre 2019. Il CamaleConte, ormai così lo chiamano. E se non possedesse, con studiata naturalezza da pochette, la suprema arte del mutante, celebrata ieri dal suo nuovo popolo post-stellato a colpi di applausi versiliani, Giuseppi il CamaleConte non sarebbe mai riuscito a trasformarsi da «avvocato del popolo» a «professor futuro» (anzi, come egli stesso ha rettificato, a personaggio «proteso al futuro»); da Robespierre a Franceschini (il quale ormai cita più Grillo che Zaccagnini e don Milani) e a Gentiloni ma in versione perfino più soft di lui che non ha né porchette né polsini né Padre Pio nella tasca; da «orgogliosamente populista» a Pd corrente Bibbona e Sant'Ilario; da tifoso in seconda fila tendente alla prima la sera del 4 marzo 2018, abbracciato con Di Maio, con il suo allievo e poi mentore Bonafede e con gli altri davanti al video dei dati elettorali del trionfo M5S contro il Pd, al «mi sembra formula inappropriata definirmi uno dei Cinquestelle». Vabbè, Robespierre non c'è più. Ma almeno Bonafede, se non riesce a conservare il posto, potrebbe sbottare: ma Conte è davvero Conte o è un camaleonte anzi un CamaleConte? Il Giuseppi dem, anche detto Conte bis o Bisconte, dev'essere un lontano cugino di quello che non aveva previsto la discontinuità rispetto alla fase gialloverde ma poi ha saputo, per il momento, incarnarla alla perfezione. Anche se conviene lasciare perdere - allora era allora e la politica di quel tempo non era questa - il paragone con il Girella, soprannome che Giuseppe Giusti affibbiò a Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, principe di Benevento, il gran diplomatico che era passato indenne e da protagonista attraverso tutti i regimi politici in Francia, dalla Monarchia alla Repubblica giacobina, dal Direttorio al Consolato, dall'Impero napoleonico alla Restaurazione. Finendo in gloria i suoi giorni, in piena Monarchia di luglio. Il CamaleConte non è Girella perché a quel tempo - tra Sette e Ottocento - non ci si poteva iscrivere idealmente dopo la fine della Margherita alla Margherita. Ora invece il Conte reincarnato in Aldo Moro - così lo vedono i suoi nuovi fan - è l'avanguardia della mutazione politico-antropologia del grillismo dal Vaffa al Sistema e il simbolo di come la rivolta di ieri aspira a diventare una sorta di Democrazia cristiana post-moderna con buona pace di Rousseau, dell'algoritmo di Gianroberto inteso come Casaleggio padre (ma anche figlio) e di ciò che resta del disegno originario di M5S e della sua parte più sovversiva. La rivoluzione che si mangia i suoi figli stavolta non ha nulla di cannibalesco, ha viceversa il tratto moderato di uno che cerca di portare i suoi compagni di strada lì da dove lui proviene: «Io sono sempre stato di centrosinistra». Ed è stato anche vicino - ma non inner circle - ai renziani che ora ritrova ma in posizione non più subalterna. Insomma non è solo la difesa di una poltrona ciò che muove Di Maio ma è anche la consapevolezza che il CamaleConte post-5Stelle sta chiedendo una storia e non c'è nuovo umanesimo che tenga per rabbonire i vetero-grillini nei confronti di quello che, sull'onda della retorica combat, a loro si avvicinò e fu premiato e poi fallita la rivoluzione ne è diventato il primo critico e fustigatore. Tra gli applausi paradossali dei pasdaran del grillismo più hard di ieri, convertiti oggi al principio della governabilità e ormai entrati nel mainstream democratico e di sinistra di quelli che appena c'è un rospo baciare - e Conte sembra un tipo più piacevole di Dini - si precipitano a farlo e ad adottare il nemico rinsavito in un vicendevole scurdammoce o passato. Nel «ci sarà un programma condiviso e sarà difficile distinguere se un provvedimento è targato 5Stelle o Pd», c'è tutto il biscontismo ossia quella che il protagonista chiama la nuova «consonanza» in atto. E che rappresenta l'operazione Giuseppe: prendersi la leadership di un movimento che non ne ha più e proporsi allo steso tempo come elemento affidabile e «proteso al futuro» agli occhi di un partito, il Pd, che soffre di faide infinite e tutte legate a un passato che non passa e che mai passerà. E insomma: «Non sono iscritto a M5S, non partecipo alle riunioni del gruppo dirigente, non ho mai incontrato i gruppi parlamentari» e, appunto, guai a difinirlo un 5Stelle. Al massimo, concede il CamaleConte, «c'è una vicinanza, li conosco da tempo, lavoro molto bene con loro e, in particolare Di Maio, mi hanno designato come presidente». Ora, però, l'importante è guardare avanti. E se ha ragione chi dice che la coerenza in politica è un valore relativo, non ha torto chi sostiene che non bastano le acrobazie per creare un futuro vero.

Paul Frühstück per “Libero Quotidiano” l'8 novembre 2019. Conte è il nuovo camaleonte della politica italiana. Gli sono bastati venti giorni per cambiare pelle: da "avvocato del popolo" - e soprannome più "populista" non poteva esser trovato - a impeccabile gagà amato dai salotti della sinistra. Possiede quella «facoltà speciale» che già Plutarco attribuiva ad Alcibiade, di «saper assumere le abitudini e adattarsi al modo di vivere dei vari luoghi dove si recava, trasformandosi più rapidamente del camaleonte». Come Alcibiade ambizioso, spregiudicato. Ma ancor più della sua rapidità in politica, sorprende la rapidità della sua carriera. Quando divenne premier, scoppiò per qualche giorno la polemica sul suo curriculum un po' "ritoccato" con soggiorni di studio all' estero che, pare, non fossero proprio tali. Durò poco, e giustamente: peccati venali, che si perdonano facilmente. Nessuno però pare mai essersi stupito del fatto che il premier abbia avuto una carriera universitaria a dir poco sui generis: ha scalato tutta la gerarchia universitaria in soli quattro anni, dal 1998, anno in cui è divenuto ricercatore a Firenze, al 2002, quando ha vinto il concorso da ordinario. Il meno che si possa dire è che ha bruciato le tappe: professore associato a 37 anni (l' età media, in Italia, è 52 anni), abilitato ordinario nel 2001, chiamato nel 2005 (cioè a 41 anni, l' età media è di 59 anni). Niente da dire: il giovane "favoloso", lo studioso di eccezione, è giusto che sia premiato, che sia favorito, che possa fare una carriera veloce, senza i tempi morti, gli ostacoli, i vizi insomma di cui l' università italiana soffre da sempre. Pure c' è qualcosa che non va, almeno a leggere il suo curriculum. Per una carriera così brillante non occorre, infatti, avere molto scritto, aver contribuito in maniera non dico incisiva, ma eccezionale, al dibattito scientifico con le proprie pubblicazioni? Dei libri di Conte, poco risulta, a dire il vero. Certo, molti articoli e saggi, tante curatele. Ma libri? Per diventare ricercatore, nel 1998, sembra ne abbia due: ma sono due edizioni provvisorie ("Il volontariato: libertà dei privati e mediazione giuridica dello Stato"; "Matrimonio civile e teoria della simulazione"). Il che significa: non sono state pubblicate da un editore. Quale circolazione possono aver mai avuto? Quanto possono essere state lette dagli addetti ai lavori? Solo l' anno dopo, nel 1999, esce il suo primo libro: "La simulazione del matrimonio nella teoria del negozio giuridico". Dal titolo, sembrerebbe una ripresa di uno dei due lavori già presentati nella loro edizione provvisoria. E con quello, diventa associato. Lo stesso anno, nel 2011, scrive "Le regole della solidarietà: iniziative non profit dei privati e mediazione dei pubblici poteri": ma anche questa sembrerebbe essere una edizione ad uso "concorsuale", se viene stampata da una tipografia romana. Come gli altri testi "provvisori", non sembra avere diffusione, tanto che tutti risultano disponibili e consultabili solo presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Con questo, diventa ordinario. Insomma: in quattro anni, passa da ricercatore a professore ordinario con di fatto un solo libro, e tre edizioni "provvisorie". Oltre, certamente, agli articoli. Senonché, anche per quanto riguarda questi ultimi, stupisce che un professore diventi ordinario senza aver mai pubblicato un saggio sulla "Rivista di Diritto Civile", che è unanimemente considerata, la rivista per eccellenza del suo settore, dove hanno scritto, nel corso della loro carriera, tutti gli ordinari della materia. Infine, ci sono le curatele, quasi sempre insieme a Guido Alpa. Il suo socio di studio, ricordate? Il quale - almeno lo scrivevano i giornali già l' anno scorso - pare fosse anche nella commissione del concorso per ordinario vinto da Conte. Le cose cominciano ad essere più chiare. Certo, a noi non ce ne frega niente della carriera universitaria di Conte. Buon per lui, se la fortuna lo ha aiutato. Eppure, magari, l' interrogazione che è stata presentata nei suoi confronti farebbe bene a chiedergli, più che delle sue attività professionali, di mostrare i verbali delle commissioni dei suoi concorsi, per capire come - e da chi - siano stati valutati i suoi titoli. Conoscere più nei dettagli tutto questo - le commissioni di concorso, le sue pubblicazioni, i rapporti tra università ed affari che ha intrattenuto - non servirebbe forse a dirci qualcosa di più del "camaleontico" personaggio politico che è diventato? Lui che avrebbe dovuto lasciare la politica, come aveva dichiarato, subito dopo l' esperienza del governo giallo-verde? L' avvocato del popolo non è forse l' avvocato dell' establishment, perfettamente inserito nel mondo delle istituzioni, degli incarichi pubblici, degli affari? Perché non viene a dirci, finalmente, chi è davvero?

Da “Un giorno da Pecora - Radio 1” l'1 ottobre 2019. Giuseppe Conte versione studente? Bello, maturo, intelligente, non secchione e molto apprezzato dalle donne. Parola di Filomena De Nittis, professoressa di matematica del premier presso il Liceo Classico Pitero Giannone di San Marco in Lamis (Foggia), che oggi è stata ospite di Un Giorno da Pecora, la trasmissione di Rai Radio1 condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. Ieri Conte ha detto di non aver mai aperto un libro della sua materia. Lo sapeva? “No, a dire il vero no”. Che studente di matematica era il premier? “Valido, era maturo, aveva un'intelligenza fervida, me lo ricordo bene, era un ragazzo abbastanza brioso”. Era uno che studiava molto? “Non era un secchione ma era molto intelligente. Magari non studiava molto ma sapeva sempre districarsi nei problemi, rispondeva ai quesiti di matematica prendendo i discorsi un po' alla larga”. Com'era il rapporto con gli altri compagni? “Mi ricordo che in classe era benvoluto, sicuramente. E poi ricordo un aneddoto particolare”. Quale? “Per un certo periodo – ha spiegato la prof.ssa a Rai Radio1 - mi chiedeva sempre se poteva affacciarsi alla finestra. Io gli chiesi il motivo e mi spiegò che stava venendo a scuola con una moto, e quindi voleva controllare che non gliela rubassero”. E piaceva alle ragazze? “Si - ha detto la docente a "Un Giorno da Pecora" - era una bel ragazzo, piaceva molto alle compagne”. Si sarebbe mai immaginata il futuro politico di Conte? “Non avrei mai immaginato che diventasse premier ma nella stessa classe c'erano molti ragazzi validi, un compagno di Conte è diventato giudice, ad esempio”.

Prof. Giunti: «Giuseppe? Mi ricorda Prodi. E’ mite ma non manca di carattere». Claudio Rizza il 29 Agosto 2019 su Il Dubbio. Intervista alla professoressa Patrizia Giunti, docente all’Univesità di Firenze, Conte è stato un suo discepolo. «Non ama I social, preferisce le conferenze stampa. Rispetta regole e istituzioni. Prima competenza, confronto e riflessione. Si sono conosciuti quando arrivò a Firenze, agli inizi del terzo millennio, circa 18 anni fa. Patrizia Giunti, avvocato, docente di Storia del diritto romano e direttore del Dipartimento di scienze giuridiche all’Università di Firenze, ne ha avuti diversi di discepoli che nella sua squadra hanno fatto carriera politica. Giuseppe Conte è in testa, seguono il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e l’attuale sindaco renziano Dario Nardella. Con il premier Patrizia vanta una sintonia caratteriale, si sente una donna mite come lo è Giuseppe, un carattere «mai aggressivo, sempre pacato» ma «mai disgiunto dalla piena consapevolezza delle proprie idee». Allude, la Giunti, al Conte con gli attributi che è sbottato in Parlamento dando il ben servito a Salvini e all’Alleanza con la Lega. Mossa decisiva per il reincarico in vista. E confessa di non essersi affatto meravigliata della metamorfosi mediatica del professore che era a lungo sembrato uno sceso da Marte, sballottato e in balìa dei due vicepremier. Da quando quattro anni fa la signora ha cominciato a dirigere il Dipartimento, tra lei e Conte l’amicizia professionale si è fortemente cementata. «Giuseppe era uno dei componenti della Commissione di indirizzo». Hanno fatto squadra spalla a spalla e raggiunto un progetto di eccellenza riconosciuto anche finanziariamente.

Dunque Conte è uno che coltiva il lavoro di gruppo.

«La competenza professionale è il suo primo punto di forza. Da professore la gestione attenta dell’uditorio è una grande palestra; da avvocato l’attività professionale, la competenza, aiutano a mediare, a trovare la soluzione più giusta tra la ragionevolezza da una parte e il rispetto della regola dall’altro, la padronanza dello strumentario tecnico. Tutto questo è un punto di forza di Giuseppe Conte».

Ora il premier è contornato da un consenso largo, persino Donald Trump ha detto la sua per sponsorizzarlo e certo è stato d’aiuto.

«L’endorsement di ieri, il rapporto con l’Europa è negli occhi di tutti, sono aspetti che danno un segnale di riconoscimento e penso gli faccia grande piacere sul piano umano».

Aver rampognato Salvini coram populo ha rovesciato il silenzio mediatorio cui il premier è stato costretto, nella scomoda tenaglia tra Matteo e Giggino.

«L’atteggiamento cauto e silente è un dato caratteriale, la sua cifra – spiega la Giunti –. Lui non dilaga nella comunicazione. Ma al momento opportuno il carattere emerge. Lo conosco come persona di carattere, la cautela è una precisa scelta. Ha una grande disponibilità all’ascolto».

E non è certo uno che nevrotizzato dai social fa politica con frenetici tweet e selfie un tanto al chilo, pur di parlare di tutto e su tutto. Anche su questo un po’ Ufo è rimasto.

«Lui ha una dimensione altra, è un tratto della sua forza. Un nuovo modello di linguaggio politico. In questa fase di transizione, dunque problematica, non solo per i segnali evidentissimi di una crisi economico sociale– le crisi sono sempre esistite e la crisi diventa una narrativa che può diventare retorica – è radicalmente cambiato il modello della politica. E’ il modello di una politica che dalle socialdemocrazie è passata al modello delle democrazie social».

Sacrosanto.

«E questo sposta gli equilibri perchè crea un momento di totale interlocuzione diretta tra il leader politico e il cittadino. Anche la differenza tra militante e elettore ormai si sta slabbrando perché alla fine l’organigramma del partito non esiste più».

E’ quella che si chiama disintermediazione, ed è totale, dice la professoressa. Con il rapporto diretto si crea la personalizzazione della politica, e una fidelizzazione tra il singolo e il leader, dove costui non si rivolge più alle sezioni o alla base ma ad una platea mondiale.

«Si crea il rischio di una sovraesposizione comunicativa del leader politico che orienta anche le sue risposte».

C’è la dinamica degli algoritmi predittivi, e può qui venire un mal di testa, ma la colpa è della tecnologia che ha cambiato la nostra percezione della politica. Frenetica, contraddittoria, spesso arraffazzonata, tumultuosa.

«Su questo Conte ha assunto un atteggiamento molto cauto. Limita le esternazioni sui social, l’uso della conferenza stampa ne è la prova: riportare il giornalismo nel ruolo cardine di intermediario e di informazione da un lato e riflessione dall’altro è certamente una dimensione sacrificata…».

Ma riconduce ad un equilibrio lontano dall’isteria social. Infatti, stretto nella morsa, Conte convocò quella conferenza stampa serale l’ 8 di agosto per dare il suo penultimatum. La sorpresa creò preoccupazione, fibrillazioni, ma nessuno era abituato ad una mossa del genere. Che poi non gli abbiano dato retta, sottovalutando l’avvertimento nemmeno tanto pacato è un altro conto.

Ma il cercare di ristabilire le regole e di rispettare le istituzioni si è visto poi nella scelta rigida di parlamentarizzare la crisi.

«Portarla all’interno del dibattito parlamentare, in una democrazia rappresentativa come è la nostra, è un segnale forte. Dipinge un presidente del Consiglio che ha cercato di coniugare le nuove dinamiche con la conferma del ruolo fondamentale delle formazioni intermedie e della partecipazione rappresentativa. Anche questo ha aumentato il consenso per l’azione del premier».

Conte, ne è convinta la Giunti, preferirebbe, come ha scritto il costituzionalista Ainis, archiviare le contrapposizioni personali per dare spazio alle competenze, al confronto e alla riflessione. Certo Ainis avrebbe preferito un passo indietro dei big per dare spazio alle seconde file e annacquare così gli scontri.

Ma, con Di Maio che pensa a reclamare una poltrona che non gli spetta più, è difficile imboccare quella strada. Professoressa, Conte è l’erede di chi?

«Beh, Armaroli ha sollevato un dibattito guardando al ’ 900. In questa fase populistico è il modello più che il contenuto. La figura che lo può rievocare, un professore universitario che arriva al ruolo di presidente, che affronta la crisi portandola in Parlamento, che si costruisce un consenso forte in ambito internazionale ed europeo, l’atteggiamento non sempre amico degli alleati… mi suggerisce Prodi».

Silvia Truzzi per ''il Fatto Quotidiano'' il 30 agosto 2019. Se chiedi a Eva Cantarella - che ha a lungo insegnato il Diritto greco antico alla Statale di Milano - a quale tragedia può somigliare l' attuale fase politica, risponde con un sorriso. "A nessuna le tragedie non si occupavano - o meglio non si occupavano se non in via mediata - di questioni politiche. Della politica, quella concreta, quella del momento si occupava la commedia, che pur riferendosi ad alcuni millenni or sono, ha ancora molte cose da dirci"».

Un esempio per tutti?

«I Cavalieri, in cui Aristofane, nel 424 a.C. esorcizza nel riso la tragedia che vedeva profilarsi per la sua amatissima Atene, in quel momento sciaguratamente governata da Cleone, capo di un partito democratico che, sotto di lui, di democratico aveva ormai solamente il nome. Cleone (rappresentato sulla scena con il nome di Paflagone), era un demagogo di modi volgari, sfrontato, avido, di pochissima cultura, divorato da una sfrenata ambizione, capace di sollecitare gli istinti più bassi delle folle delle quali era l' idolo incontrastato. Vantandosi di un momentaneo, secondario, successo nella lotta contro Sparta era riuscito a esaltare i suoi concittadini, convincendoli a proseguire una guerra che, come ben noto, li avrebbe portati alla rovina. Cleone, questo bisogna dirlo, era un vero e proprio genio della propaganda».

Somiglianze con Salvini?

«Beh, direi che i possibili elementi di raffronto non mancano: anche a prescindere dalla parabola, il rischio di passare dalle stelle alle stalle. Chissà forse Salvini è meglio di come ha scelto di mettersi in scena, ma resta il fatto che ha deciso di farlo così. Il suo volto pubblico è quello del demagogo, che quando si crede al massimo della popolarità invoca i pieni poteri. E sollecita la paura del diverso, dell' altro. Però è democratico e religioso».

Proseguiamo con la trama.

«Paflagone è all'apice del suo successo, senonché, anche se non lo sa, su di lui incombe un rischio: un oracolo prevede che sarà detronizzato da un salsicciaio (sulla scena, Agoracrito). Sì, il macellaio che amalgama le carni in un insaccato. Non sfuggirà la valenza metaforica del mestiere: qualcuno che impasta e compatta diverse carni. Inizialmente però il salsicciaio si schermisce. Sono ignorante - dice - sono incompetente, cresciuto nella strada, non so di politica Ma è proprio questo che serve per vincere, gli dicono quei Cavalieri che danno il titolo alla commedia».

Chi sono?

«La classe dei moderati: sono democratici ma non massimalisti, sulla scena rappresentano Demostene e Nicia, appartenenti entrambi al partito della pace, e di conseguenza, contro Cleone, sostengono il Salsicciaio. Ma il padrone di tutto, in realtà, è Demo che - come dice il nome - rappresenta il popolo (al seguito di Paflagone, ma pronto ad abbandonarlo alla prima occasione). Demo ama solo sentirsi adulare e sentirsi fare promesse mirabolanti. Il populismo paga. Così tra il salsicciaio e il Paflagone inizia la gara a chi le spara più grosse e riesce meglio a procurarsi popolarità. Non c' è bisogno di mostrare rosari: Demo segue la sua capricciosa volontà, è volubile, viziato. E così accade che il nuovo capo, tra il giubilo popolare, sarà Agoracrito, che riesce a sconfiggere Paflagone perché è persino peggiore di lui. È questa la vera, sola, ragione della vittoria».

Di nuovo: non è che sta pensando a Conte, alle prese con maggioranze diverse da impastare?

«No, assolutamente no! Conte, per cominciare, è una persona colta, un "professorone". E, nella desolazione generale, questo è motivo di non poco conforto. Certo, dovrà gestire una fase difficile, presumibilmente - e auspicabilmente - dovendo "impastare" decisioni prese in un passato anche molto vicino alla luce dei nuovi obiettivi che oggi è chiamato a raggiungere. Ma la sua cultura mi sembra autorizzi a ben sperare».

Torniamo alla nostra commedia. Come finisce?

«Per liberarsi di Cleone, il popolo si affida al Salsicciaio, che lo condurrà al disastro».

Cosa voleva dire Aristofane con questo finale?

«Voleva mettere i suoi concittadini di fronte a quello che accadeva quando la democrazia, invece dei più valorosi e onesti, esprime i peggiori, che trovando solidarietà tra i loro simili degradano il livello sociale ed etico della convivenza civile. Dalla democrazia alla demagogia: mai, forse, ne è stata fatta una descrizione più amara. Quasi una premonizione».

Perché?

«Aristofane sembra presagire quello che di lì a pochi mesi accadrà. Pur avendo parteggiato per il Salsicciaio, i suoi concittadini, al di là degli inganni di Cleone, volevano la guerra, che accanto ai morti portava danaro Un ulteriore argomento del quale varrebbe la pena parlare anche oggi. E il partito della guerra era destinato a vincere: poche settimane dopo la rappresentazione de I Cavalieri, gli stessi Ateniesi che avevano visto sulla scena Cleone sbeffeggiato e svergognato, lo eleggono stratega».

Il linguaggio, la forza di Giuseppe. Alberto Castelvecchi il 31 Agosto 2019 su Il Dubbio. Il credo di Giuseppe Conte: ragionare e non gridare, abito sartoriale, niente narcisismi latinisti, adattabilità. Come ha scritto Jason Horowitz sul New York Times, in un anno Giuseppe Conte è passato “da irrilevante a insostituibile”. L’autorevole opinionista ha colto in pieno quella che ormai è la posizione di centralità dell’avvocato Premier sulla scena italiana e internazionale. Ora, lasciamo all’analisi politica le considerazioni sul “perché” questo sia avvenuto, e concentriamoci sulla comunicazione, cioè sul “come”. Volendo spiegare con una formula la crescita nei sondaggi di popolarità, che oggi per Conte supera il 50%, possiamo dire: “Nel medio- lungo periodo, ha successo chi non si conforma e fa il contrario di quello che fanno tutti gli altri”. Il presidente del Consiglio incaricato è cresciuto perché, a differenza degli altri, ragiona e non grida. Media tra le posizioni e non attacca rabbiosamente. Studia i dossier e non prende decisioni avventate. Vediamo i dettagli. Nell’immagine di un leader ci devono essere dei tratti costanti, che chiamiamo “invarianti”. Ma dobbiamo trovare anche delle dimostrazioni di flessibilità e adattabilità, cioè delle “mutazioni”. Le prime, proprio perché invarianti, devono essere semplici e riconoscibili da tutti. Le seconde devono stimolare l’attenzione e fare notizia. Altrimenti si incorre nell’assuefazione, e si rischia di diventare, invece che “il presidente Conte”, “il solito Conte”. Ma l’avvocato di Volturara Appula ha saputo dribblare in scioltezza queste prove. Ecco due delle principali invarianti: linguaggio e aspetto fisico. Il suo italiano è corretto – si sente che c’è stato negli anni lo sforzo di tenere a briglia le origini foggiane, anche con esercizi di dizione. Il professore sceglie le parole con cura, per farsi capire da tutti: le dimissioni vengono annunciate in Senato con un semplice “il Governo finisce qui”, e il Conte- bis viene proposto con “sarà un Governo di novità”. Non si lascia andare a “colloquialismi” bassi o a insulti – pensiamo al “vaffa” del M5S o alla “zingaraccia” di Salvini – e si capisce che qui non fa alcuno sforzo. Anni di studi ( incluso il Collegio di Villa Nazareth) hanno affinato il suo carattere di persona civile, e che non cede per narcisismo al latino giuridico ( non dice “de plano”, “per acta”, “in itinere” e simili). In secondo luogo, l’aspetto fisico. Gli analisti sono abituati da tempo a commentare le scarpe di Michelle Obama, gli abiti di Brigitte Macron, gli orologi di Renzi o le infradito di Salvini. Ma nel caso di Conte il messaggio è più profondo. Gli abiti sartoriali e le cravatte stirate, con buona pace dei sostenitori pentastellati, sono un inno alla democrazia rappresentativa, non a quella diretta. Si mostra in impeccabili completi formali in modo che tutti gli italiani, anche chi indossa abiti da lavoro, possano dire “si veste bene per rispetto delle Istituzioni, fa un mestiere importante e mi rappresenta nel mondo”. Al contrario, i politici che si vestono “smart casual” – o addirittura con sciatteria – provocano un senso “diretto” di identificazione con la vita di tutti: “si veste così perché è uguale a me, è uno di noi”. E in democrazia diretta, si sa, “uno vale uno”. Ma la cosa più interessante della comunicazione del professore sono state proprio le mutazioni, impercettibili e costanti, di comportamento e di linguaggio. Nelle riunioni internazionali lo si è visto all’inizio un po’ impacciato, poi sempre più sciolto e talvolta addirittura con la mano sulla spalla dei suoi colleghi stranieri, o seduto con Angela Merkel come vecchi amici nel famoso video fuori onda del “succo d’arancia”. Segno che sa creare leve di simpatia anche con personalità non facili e piene di pregiudizi verso gli italiani. Nel vocabolario contiano siamo passati dall’adesione alla cultura populista dei grillini (“l’avvocato del Popolo”), all’assunzione di valori nazionali generali ( sempre più spesso ha detto di agire “nell’interesse dell’Italia e degli italiani”), per poi toccare, nel suo discorso al Quirinale in occasione del secondo incarico, un tema più spiccatamente europeo, caro anche alla Chiesa cattolica, come quello della cittadinanza (“Governo per i Paese e per i cittadini”). E anche qui attenzione ai passaggi: nel suo precedente mandato, Conte fu l’unico presidente del Consiglio della Storia italiana a convocare una conferenza stampa ( giugno 2019) proprio per ricordare ai suoi Vice che il Presidente era lui. Ma anche questo evento del tutto inusuale gli servì per acquisire centralità e in qualche modo liberarsi dalla tutela troppo stringente dei due partner dell’esecutivo. Sono momenti importanti, che mostrano come il premier neo- incaricato ( l’unico che è apparso a suo agio anche con il cerimoniale e i comportamenti formali dello staff del Quirinale) si sia ormai “smarcato”, e abbia assunto una decisa posizione di “terzietà” tra i contraenti, anche in questo nuovo Governo in fieri. Zingaretti, Di Maio e soci prendano nota: l’Umanesimo di cui parla Giuseppe Conte non sarà una passeggiata nel passato, ma un percorso pieno di novità e sorprese. Come ha scritto Jason Horowitz sul New York Times, in un anno Giuseppe Conte è passato “da irrilevante a insostituibile”. L’autorevole opinionista ha colto in pieno quella che ormai è la posizione di centralità dell’avvocato Premier sulla scena italiana e internazionale. Ora, lasciamo all’analisi politica le considerazioni sul “perché” questo sia avvenuto, e concentriamoci sulla comunicazione, cioè sul “come”. Volendo spiegare con una formula la crescita nei sondaggi di popolarità, che oggi per Conte supera il 50%, possiamo dire: “Nel medio- lungo periodo, ha successo chi non si conforma e fa il contrario di quello che fanno tutti gli altri”. Il presidente del Consiglio incaricato è cresciuto perché, a differenza degli altri, ragiona e non grida. Media tra le posizioni e non attacca rabbiosamente. Studia i dossier e non prende decisioni avventate. Vediamo i dettagli. Nell’immagine di un leader ci devono essere dei tratti costanti, che chiamiamo “invarianti”. Ma dobbiamo trovare anche delle dimostrazioni di flessibilità e adattabilità, cioè delle “mutazioni”. Le prime, proprio perché invarianti, devono essere semplici e riconoscibili da tutti. Le seconde devono stimolare l’attenzione e fare notizia. Altrimenti si incorre nell’assuefazione, e si rischia di diventare, invece che “il presidente Conte”, “il solito Conte”. Ma l’avvocato di Volturara Appula ha saputo dribblare in scioltezza queste prove. Ecco due delle principali invarianti: linguaggio e aspetto fisico. Il suo italiano è corretto – si sente che c’è stato negli anni lo sforzo di tenere a briglia le origini foggiane, anche con esercizi di dizione. Il professore sceglie le parole con cura, per farsi capire da tutti: le dimissioni vengono annunciate in Senato con un semplice “il Governo finisce qui”, e il Conte- bis viene proposto con “sarà un Governo di novità”. Non si lascia andare a “colloquialismi” bassi o a insulti – pensiamo al “vaffa” del M5S o alla “zingaraccia” di Salvini – e si capisce che qui non fa alcuno sforzo. Anni di studi ( incluso il Collegio di Villa Nazareth) hanno affinato il suo carattere di persona civile, e che non cede per narcisismo al latino giuridico ( non dice “de plano”, “per acta”, “in itinere” e simili). In secondo luogo, l’aspetto fisico. Gli analisti sono abituati da tempo a commentare le scarpe di Michelle Obama, gli abiti di Brigitte Macron, gli orologi di Renzi o le infradito di Salvini. Ma nel caso di Conte il messaggio è più profondo. Gli abiti sartoriali e le cravatte stirate, con buona pace dei sostenitori pentastellati, sono un inno alla democrazia rappresentativa, non a quella diretta. Si mostra in impeccabili completi formali in modo che tutti gli italiani, anche chi indossa abiti da lavoro, possano dire “si veste bene per rispetto delle Istituzioni, fa un mestiere importante e mi rappresenta nel mondo”. Al contrario, i politici che si vestono “smart casual” – o addirittura con sciatteria – provocano un senso “diretto” di identificazione con la vita di tutti: “si veste così perché è uguale a me, è uno di noi”. E in democrazia diretta, si sa, “uno vale uno”. Ma la cosa più interessante della comunicazione del professore sono state proprio le mutazioni, impercettibili e costanti, di comportamento e di linguaggio. Nelle riunioni internazionali lo si è visto all’inizio un po’ impacciato, poi sempre più sciolto e talvolta addirittura con la mano sulla spalla dei suoi colleghi stranieri, o seduto con Angela Merkel come vecchi amici nel famoso video fuori onda del “succo d’arancia”. Segno che sa creare leve di simpatia anche con personalità non facili e piene di pregiudizi verso gli italiani. Nel vocabolario contiano siamo passati dall’adesione alla cultura populista dei grillini (“l’avvocato del Popolo”), all’assunzione di valori nazionali generali ( sempre più spesso ha detto di agire “nell’interesse dell’Italia e degli italiani”), per poi toccare, nel suo discorso al Quirinale in occasione del secondo incarico, un tema più spiccatamente europeo, caro anche alla Chiesa cattolica, come quello della cittadinanza (“Governo per i Paese e per i cittadini”). E anche qui attenzione ai passaggi: nel suo precedente mandato, Conte fu l’unico presidente del Consiglio della Storia italiana a convocare una conferenza stampa ( giugno 2019) proprio per ricordare ai suoi Vice che il Presidente era lui. Ma anche questo evento del tutto inusuale gli servì per acquisire centralità e in qualche modo liberarsi dalla tutela troppo stringente dei due partner dell’esecutivo. Sono momenti importanti, che mostrano come il premier neo- incaricato ( l’unico che è apparso a suo agio anche con il cerimoniale e i comportamenti formali dello staff del Quirinale) si sia ormai “smarcato”, e abbia assunto una decisa posizione di “terzietà” tra i contraenti, anche in questo nuovo Governo in fieri. Zingaretti, Di Maio e soci prendano nota: l’Umanesimo di cui parla Giuseppe Conte non sarà una passeggiata nel passato, ma un percorso pieno di novità e sorprese.

Chi è Valentina, l’ex moglie di Giuseppe Conte. Vi sveliamo tutto su Valentina, la misteriosa ex moglie di Giuseppe Conte, nuovo premier italiano. Di Lei.it 24 maggio 2018. Ormai è ufficiale: Giuseppe Conte è il nuovo Presidente del Consiglio. Fra i primi a commentare la sua elezione c’è stata l’ex moglie Valentina. Di lei si sa poco e niente, l’unica certezza è che la storia d’amore con Conte è durata anni e che i due ancora oggi sono in ottimi rapporti. Non a caso la donna sostiene l’ex marito nel suo nuovo percorso in politica e l’ha difeso dagli attacchi e dalle critiche riguardo il suo curriculum che, secondo molti, non sarebbe adatto ad un premier. Il nuovo Presidente del Consiglio scelto da Lega e Movimento Cinque Stelle per guidare il paese ha 54 anni ed è un avvocato. Insegna diritto privato all’Università di Firenze nel dipartimento di Scienze Giuridiche e nel suo curriculum vanta diverse esperienze all’estero e una laurea in Giurisprudenza ottenuta con la votazione di 110 e lode all’Università La Sapienza. L’uomo voluto da Salvini e Di Maio, ha girato il mondo insegnando diritto in atenei prestigiosi come quelli di Malta, Sassari e Roma. Il neo-premier inoltre è membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Conte ha anche una passione per l’editoria ed è co-direttore della collana Laterza “Maestri del diritto”. Il suo è un vero e proprio debutto in politica, appoggiato a tutti gli effetti dall’ex moglie Valentina. La donna è stata per anni accanto a Conte e insieme a lui ha girato il mondo, studiando presso la Bibliothèque Cujas della Sorbona, a Parigi. La coppia ha un figlio di 10 anni, Niccolò, che ha spinto gli ex coniugi a mantenere un rapporto cordiale e sereno, anche se l’amore è finito. Non è chiaro quale sia il lavoro di Valentina, né il suo cognome, anche se, secondo alcune fonti, sarebbe la figlia del direttore del Conservatorio di Santa Cecilia a Roma. “Sarà un buon premier – ha detto la donna all’Ansa, commentando l’elezione dell’ex marito -, quelle sul curriculum e su Stamina sono tutte stupidaggini”.

Chi è Olivia Paladino, la fidanzata di Giuseppe Conte. Vi sveliamo tutto su Olivia Paladino, la fidanzata del nuovo premier Giuseppe Conte. Di Lei.it 5 giugno 2018. Bionda, bella e di successo: Olivia Paladino è la fidanzata del nuovo premier Giuseppe Conte. Di lei si sa poco e niente se non che ha rubato il cuore dell’avvocato e giurista dopo il divorzio dalla moglie Valentina. Conte, che è anche un professore universitario, ha ben quindici anni di differenza con la fidanzata, ma questo non avrebbe impedito ai due di amarsi e di formare una delle coppie più riservate e poco conosciute nel mondo della politica. Se la moglie del Presidente del Consiglio, lavora come legale presso l’Avvocatura di Stato e ha lavorato per moltissimo tempo accanto all’ex marito, Olivia Paladino non ha niente a che fare con la giurisprudenza. La giovane è infatti la rampolla di una delle famiglie aristocratiche più famose di Roma. Suo padre è Cesare Paladino, il proprietario dell’hotel Plaza. Olivia è nata e cresciuta nella Capitale, ha frequentato le migliori scuole private e oggi è una manager di successo nel settore alberghiero.Le informazioni sul suo conto sono davvero poche, l’unica foto disponibile la ritrae in compagnia del padre, dopo un incontro di lavoro. Alta e con un fisico da modella, Olivia Paladino ha occhi castani e lunghi capelli biondi.

Non è chiaro da quanto tempo vada avanti la relazione fra i due, né quali siano i rapporti della manager con Nicolò, il figlio di 11 anni nato dal matrimonio con Valentina Fico. Dopo la scelta di Conte come Presidente del Consiglio da parte di Lega e Movimento Cinque Stelle, l’ex moglie era scesa in campo per difenderlo dalle critiche. “Sarà un buon premier – aveva detto all’Ansa – quelle sul curriculum e su Stamina sono tutte stupidaggini”. Olivia Paladino per ora non si è ancora pronunciata e non è chiaro se rivestirà il ruolo di First Lady, partecipando a meeting ed eventi pubblici accanto a Giuseppe Conte oppure se sceglierà di rimanere nell’ombra come ha fatto sino ad oggi.

Chi è Ewa Aulin, la suocera di Giuseppe Conte. Scopriamo chi è Ewa Aulin, diva degli anni Settanta scoperta da Tinto Brass e suocera di Giuseppe Conte. Di Lei.it 26 giugno 2018. Biondissima e sensuale, Ewa Aulin è stata una delle dive più amate degli anni Settanta. Scomparsa dal mondo del cinema, oggi è diventata la suocera di Giuseppe Conte. Della vita privata del premier si sa poco e niente. L’unica certezza è che ha una ex moglie, Valentina, che fa l’avvocato proprio come lui e che l’ha sempre difeso dalle critiche. La coppia ha un figlio, Niccolò, che ha 11 anni. Nel cuore di Giuseppe Conte però c’è spazio anche per Olivia Paladino, la fidanzata 38enne originaria di Roma, proveniente da una famiglia molto conosciuta nella Capitale. La giovane, alta, magra e biondissima, è la figlia di Cesare Paladino, proprietario dell’hotel Plaza a Roma, e di Ewa Aulin. Classe 1950, l’attrice è nata a Landskrona, in Svezia e sin dall’età di 15 anni ha iniziato a lavorare nella moda, partecipando a diversi concorsi di bellezza. L’esordio sul grande schermo arriva nel 1967, quando Alberto Lattuada la sceglie per recitare in Don Giovanni di Sicilia, accanto a Lando Buzzanca. Nello stesso anno viene diretta da Tinto Brass in Con il cuore in gola con il divo Jean-Louis Trintignant. Il successo di entrambi i film le apre le porte del cinema. In pochi anni Ewa Aulin si trova a recitare accanto a star del calibro di Marlon Brando e Richard Burton, ricevendo persino una nomination ai Golden Globe. Soprannominata “ninfetta bionda”, fra gli anni Sessanta e Settanta è stata una delle attrici più amate in Italia, protagonista di moltissime pellicole di successo. Nel 1974 però l’incontro con Cesare Paladino la porta a riconsiderare la sua carriera cinematografica. Ewa Aulin, insoddisfatta dei risultati raggiunti, dopo ben diciassette film, si trasferisce a Roma e lascia il mondo del cinema. Da quel momento scompare, sino ad oggi, quando il suo ruolo di suocera di Giuseppe Conte ha riportato il suo nome sulle prime pagine dei giornali. A parlare di lei anche Tinto Brass, il primo a credere nel suo talento e a farla conoscere in Italia. “Quando ho saputo che la suocera del premier è Ewa Aulin, una delle attrici che io ho lanciato, mi sono sorpreso – ha svelato il regista a Di Più-. Da tanto tempo non sentivo parlare di lei, Ewa era piena di sensualità. Aveva solo diciassette anni quando la conobbi e la diressi in un mio film”.

Giuseppe Conte nasconde una bellissima suocera: ecco chi è Ewa Aulin, attrice e cantante svedese. Filippo Facci su Libero Quotidiano l'8 Novembre 2019. Esauriamo le battute brutte, prima. In ordine sparso: Aulin, che il mal di testa te lo fa venire; le colpe dei generi non ricadano sulle cognate; meglio un lancio da Tinto Brass che uno da Rocco Casalino; infine un omaggio leghista: lei è nata a Landkrona (Svezia) e lui a Volturara Appula (Foggia): vengono entrambi dall' estero. E ora le battute belle, se ce ne fossero: ma non ci vengono, non servono, bastano le foto a testimonianza che la biografia di Giuseppe Conte, finalmente, lascia intravedere qualcosa di interessante. E questa se permettete è una notizia, benché non nuova. Comunque lei è Ewa Aulin, bella attrice svedese trapiantata a Roma negli anni Settanta quando fece girare la testa a Marlon Brando (pare) anche se finì per accontentarsi del costruttore edile Cesare Paladino, con cui andò a convivere nel 1974 e da cui ha avuto due figlie: una si chiama Olivia, ed è l' attuale compagna del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Ecco il link al quale ci aggrappiamo, ecco la scusa per scrivere questo articolo inutile: perché ciò che conta sono le foto. Che cos' hanno in comune, i due? A parte Olivia, hanno in comune l' effimero: entrambi, se in parità anagrafica, troneggerebbero sull' homepage di Dagospia. Entrambi - come Conte ha - avrebbero quella certa aria da imbucati che oggi equipara il jet-set politico allo status dei «famosi per essere famosi». Ma ora esauriamo anche qualche curiosità su di lei, che fu assai più «attrice» di tante che oggi osano definirsi tali. Nata in Svezia nel '50, andò a Stoccolma, vinse un concorso di bellezza e girò un cortometraggio; fece qualche comparsata televisiva sinché fece dei film col registi Alberto Lattuada e Tinto Brass: se avete presente solo quest' ultimo, avete dei problemi. Il film con Tinto Brass comunque non era un soft-porno, era un giallo all' italiana con Jean-Luis Trintigrant. Fece altri film dei quali il più conosciuto risulta "Candy e il suo pazzo mondo", una coproduzione internazionale che doveva lanciarla, ma che non ebbe granché successo: anche se fu nominata al Golden Globe come miglior attrice esordiente. In seguito, tuttavia, finì relegata in film italiani, o poco altro, tra i quali spiccavano vari «decamerotici» o altri lungometraggi non memorabili: tra questi spiccano "Rosina Fumo viene in città per farsi il corredo", "Le vergini cavalcano la morte" e il rinomato "Fiorina la vacca", dove recitava anche Ornella Muti. Non fosse chiaro, la sua bellezza fu decisamente preferita alle sue qualità di attrice, e lei ebbe l' intelligenza di accorgersene anche se la decisione di piantarla col cinema apparve a tutti incomprensibile; aveva una discreta fama, era giovanissima e soprattutto era molto bella, aveva raggiunto uno status che oggi molte «attrici» indicano come obiettivo. Lei, invece, anziché incolpare il sessismo nei giorni pari e denudarsi nei giorni dispari, decise si farla finita con il cinema, e basta: questo non sul viale del tramonto (fisico) ma a 23 anni. È l' età in cui andò a convivere con Cesare Paladino, che sposò nel 1974: la cosa fece rumore, e si riparlò un po' di lei. Poi basta. In seguito si iscrisser all' università (potere della noia: non aveva certo problemi economici) e poi ancora, nel 1979, a quasi trent' anni, improvvisò una carriera musicale incidendo il 45 giri «Arizona» per il programma Rai "Sceriffi e banditi" (l' abbiamo ascoltato, e non commenteremo) e persino un long playing titolato "Il valzer finì" (abbiamo ascoltato quattro canzoni, e qui commentiamo: fanno veramente schifo, è seriamente stonata, l'ammetterà anche lei) ma, in generale, l' intemerata musicale non era una cosa seria: e la piantò lì. Su internet e in particolare su youtube, comunque, è pieno di filmati che la celebrano, e ridondano gli ammiratori appassionati che si palesarono ben prima che suo genero inciampasse nella lotteria grillina della presidenza del consiglio. Quella di Ewa Aulin, in definitiva, non fu una carriera fallita: fu una carriera dignitosamente interrotta. Nel cinema italiano c' era troppo da spintonare e sgomitare tra clan e mafiette: e lei era svedese. Suo genero, come detto, è italiano. E devoto a Padre Pio. Filippo Facci

Il Conte Vecchio e il Conte Nuovo hanno una sola coerenza: lui. Avvocato del popolo e premier senza popolo, sovranista con Salvini, direttista con la Casaleggio, europeista con la Merkel, putiniano con Putin, trumpiano con Trump. Ora diventa ottimista, ecologista e vagamente socialista. Come da tradizione italiana. Marco Damilano il 30 agosto 2019 su L'Espresso. «Rispetto a prassi che prevedevano valutazioni scambiate nel chiuso di conciliaboli tra leader politici per lo più incentrate sulla ripartizione di ruoli personali e ben poco sui contenuti del programma, noi inauguriamo una stagione nuova...». Era la tarda mattinata del 5 giugno 2018, quindici mesi fa, non troppo tempo, quando nell'aula del Senato prese la parola il presidente del Consiglio per il voto di fiducia del nuovo governo. Il discorso più importante per un capo di governo, perché su quelle parole si chiede l'appoggio del Parlamento e si costruisce una maggioranza di sostegno. Si chiamava Giuseppe Conte. A vederlo in questi giorni, alle prese i conciliaboli al chiuso, lasciamo perdere lo streaming e la trasparenza, a discutere di come «ripartire» i ruoli personali, una gara ai posti di governo che non conosce paragone a memoria, con le trattative per la poltrona di vice-premier che è arrivata a lambire la fase delle consultazioni al Quirinale per l'incarico di formare il nuovo governo, viene da chiedersi: quante nuove stagioni ha già vissuto, nella sua ancor breve esperienza di politico, l'avvocato-professore Giuseppe Conte? Domanda non oziosa, perché serve a spiegare la natura politica del governo che si forma e del suo premier. Uscendo dal colloquio con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a incarico ricevuto, il presidente Conte ha pronunciato in meno di nove minuti sei volte l'aggettivo nuovo, attribuendo a se stesso missioni sempre più alte. Nuovo progetto, nuova stagione, nuova prospettiva, nuovo umanesismo, addirittura. Anche lui, appariva nuovo. Il Conte tutto nuovo, elegantissimo con il ricercato abito scuro, con i bottoni a sfumatura azzurrina illuminati dalle telecamere, il fazzoletto candido piegato con cura, il quadrante dell'orologio ben visibile fuori dal polsino, come in una rivista da sfogliare in sala d’attesa, ha esposto senza esitare il nuovo progetto per «una solida prospettiva crescita», una nuova stagione, «ampia e riformatrice», perché l'avvocato le parole le sa usare. Qualcuno ha scritto oggi che quel breve discorso è un manifesto politico, per «disintossicare l'Italia». Poteva fare di meglio, però. Quando si presentò al Senato, un anno fa, riuscì a pronunciare la parola cambiamento cinque volte nelle prime tre cartelle del suo intervento. Era, quello, il governo del Cambiamento. Quello con Matteo Salvini e Luigi Di Maio vice-premier. Erano stati loro, con i loro voti, a legittimare lo sconosciuto avvocato nella posizione di guida del governo. E lui, il Conte vecchio, aveva più volte citato la sua fonte di legittimazione, «formale e sostanziale». «I programmi elettorali presentati alle elezioni e votati dalla maggioranza degli italiani, le votazioni a cui le due forze politiche hanno chiamato i rispettivi iscritti e sostenitori». Il voto del 4 marzo 2018 e i voti della Lega e del Movimento 5 Stelle, via piattaforma Rousseau. Le «istanze reali di chi vive fuori da questi Palazzi». «Il vento nuovo che soffia da tempo nel Paese e che ha prodotto una geografia del consenso politico completamente inedita».

Il Conte nuovo uscito da Quirinale ha esposto la lista delle priorità che gli stanno più a cuore: tutela dell'ambiente, biodiversità, protezione dei mari, energie rinnovabili, beni comuni. Ha citato, tra i suoi obiettivi, «il benessere equosostenibile», qualunque cosa voglia dire. A chiudere oggi gli occhi sembrava di sentire Greta Thunberg. Deve essere una passione recente perché, il 5 giugno 2018, invece, in un discorso che nel resoconto del Senato arriva a ventuno pagine, la parola ambiente spunta una sola volta, a pagina 12: «In materia di ambiente, l'azione di Governo sarà costantemente incentrata sulla tutela dell'ambiente, sulla sicurezza idrogeologica del nostro territorio e sullo sviluppo dell'economia circolare». Le priorità che infervoravano Conte erano altre. Cosa cambia con questo governo?, si chiedeva. «I nuovi strumenti di democrazia diretta», per esempio. «Cambia che metteremo fine al business dell'immigrazione. Metteremo fine al business dell'immigrazione, che è cresciuto a dismisura sotto il mantello della finta solidarietà».

Il Conte Nuovo si è invece riferito ai mari in senso ecologico. E a un certo punto ha detto che l'Italia deve diventare «un paese attraente per tutti i giovani che vivono all'estero». Potrebbe allora, nell'attesa che si formi il suo governo, far sbarcare quei giovani che si trovano a bordo della nave Mar Jonio al largo di Lampedusa, bloccati per effetto di un decreto del governo che ancora presiede, il Conte vecchio, su ordine del ministro Matteo Salvini, il piffero di montagna che partì per suonare e finì suonato. La parola immigrazione è sparita dall'agenda di governo. Non ne parla M5S, non ne parla il Pd, si cerca per il Viminale un tecnico. Troppo divisiva, si dice. Da Salvini che punterà tutto sulla distanza dal nuovo governo dalle sue politiche, certamente. Ma anche troppo divisiva di Conte da se stesso.

Il Conte nuovo si è dilungato sulla necessità di rimuovere gli ostacoli che producono disuguaglianze, come prevede del resto la nostra Costituzione, ma - dispiace qui essere fin troppo pedanti - questa parola compariva una sola volta, di sfuggita, nel discorso con cui il Conte vecchio chiese la fiducia al Parlamento. Il Conte nuovo ha ribadito la fedeltà dell'Italia al quadro «euroatlantico» e all'integrazione europea, esercizio non inutile dato lo strombazzare di appoggi che arrivano da Bruxelles e da Washington. Ma il Conte vecchio, a dispetto di quanto rimproverato a Salvini, nel 2018 utilizzò argomenti decisamente diversi: «Ribadiamo la nostra convinta appartenenza all'Alleanza atlantica. Ma attenzione! Saremo fautori di una apertura verso la Russia. Una Russia che ha consolidato il suo ruolo internazionale in varie crisi geopolitiche. Ci faremo promotori di una revisione del sistema delle sanzioni, a partire da quelle che rischiano di mortificare la società civile russa». Gianluca Savoini si sarà spellato le mani, a sentirlo.

Volevate la discontinuità? Più discontinuo di così. La prima opera giuridica del professor Conte si intitola d'altra parte “Matrimonio civile e teoria della simulazione” (1995). È dunque un esperto di contratti apparenti, di nozze per finta. Quale sarà il Conte vero e il Conte simulato? Quesito irrisolvibile e forse irricevibile. C'è un solo elemento che unisce il Conte vecchio al Conte nuovo ed è Conte stesso. È lui la misura delle cose, il metro di giudizio della sua coerenza. Al Quirinale ha rivelato di avere a lungo discusso con il suo io interiore, se accettare il nuovo o no, e di aver concluso che il problema della coerenza non sussisteva: «Ho superato le perplessità, perché ho lavorato sempre nell'interesse dei cittadini guardando al bene comune e non agli interessi di parte o di singole forze politiche. I principi e i valori che so essere apprezzati e condivisi dagli italiani sono gli elementi di coerenza che mi porto e con cui intendo dare vita a questa nuova stagione e a guidare questo governo». Principi «non negoziabili», ha aggiunto, «senza colore politico». «Di mio», ha concluso, «aggiungerò tanta passione che sgorga naturale nel servire il paese che amo».

A lui sgorga naturale. Il Conte Nuovo punta a essere il nuovo Berlusconi, cui ha soffiato l'incipit del messaggio della discesa in campo? Oppure il nuovo Prodi, come ha scritto qualcuno (l'originale ieri ha benedetto il tentativo dalla festa del Pd di Ravenna)? O la versione italiana e del XXI secolo del francese Charles-Maurice de Tallyerand-Périgord, principe di Benevento: non sono cambiato io, sono cambiati i tempi, e quanto rapidamente. Chissà. Intanto, vuole costruire il primo governo senza nessuno contro, soltanto per. Per se stesso, naturalmente, ed è riuscito nell'impresa di essere avvocato del popolo e premier senza popolo, sovranista con Salvini, direttista con la Casaleggio, europeista con la Merkel, putiniano con Putin, trumpiano con Trump e ora ottimista, ecologista e vagamente socialista, tipica di ogni fase di transizione del nostro paese, la continuità nella discontinuità delle classi dirigenti, tutti fascisti e poi anti-fascisti. C'era una parte di establishment che si preparava a diventare salviniano, in nome del nuovo padrone, così come un anno fa fu Cinque Stelle. Ora, meraviglia, basterà essere semplicemente contiani, almeno per un po'. Un esercizio più agevole.

Giuliano Ferrara sul “Foglio” tira in ballo la svolta di Salerno di Togliatti, il realismo che conduce a fare il patto con il fronte avversario, ma Conte è un Badoglio senza 25 luglio, senza neppure quello strappo estremo a disfatta ormai compiuta che fu il rovesciamento del Duce dopo il Gran consiglio. Semmai è stato il Truce Salvini che ha sfiduciato lui, senza riuscirci, e che non è prigioniero al Gran Sasso ma è ancora un ministro del suo governo, comodamente seduto al Viminale. Non è tragedia, per fortuna, è commedia. «Conte ha mostrato stoffa, ma gli rimane l'ombra del collaborazionismo (legge Sicurezza ecc.), potrà eliminarla?», ha scritto ieri padre Bartolomeo Sorge. Si, potrà riuscirci: da tutto questo cambiamento e dal vento della novità emerge una figura flessibile, pieghevole, che considera i colori e le identità orpelli da superare, svuota le distinzioni e sterilizza la politica, la rende una schermaglia ideologica e inutile rispetto alla pratica nuda del potere. Un professionista della simulazione e della dissimulazione. Non è nuovo, lo conosciamo bene, è una maschera eternamente italiana.

Faccia da Conte. Da "burattino" a nuovo eroe nazionale. La storia e le mutazioni del Presidente del Consiglio Incaricato. Maurizio Belpietro il 30 agosto 2019 su Panorama. Accompagnato da un rigagnolo di saliva che minaccia di trasformarsi in un fiume in piena nei giorni a venire, Giuseppe Conte è salito al Colle per ricevere l'incarico di formare il nuovo governo. Se il presidente del Consiglio, fino a poche settimane fa, cioè prima di «matare» la Bestia leghista («Conte si è rivelato un torero gentile e feroce che ha domato il selvaggio Salvini», lo ha descritto Francesco Merlo su Repubblica dopo le dimissioni in Senato), godeva presso i giornalisti di minor considerazione di un usciere di Palazzo Chigi, da ieri «l'ectoplasma, il politico per procura, il professore con un quasi curriculum» (sempre Merlo su Repubblica, ma prima che infilzasse Salvini e si dicesse disponibile a guidare un governo con il Pd) è divenuto una specie di eroe moderno, un uomo esperto e rassicurante cui affidare senza esitazioni le sorti del Paese. «Abile, furbo, educato e mai divisivo» lo ha dipinto ieri Andrea Malaguti sulla Stampa, segnalando che presto colui che era ritenuto un (vis)Conte dimezzato potrebbe non solo essere un Conte raddoppiato, con un incarico bis, ma addirittura per lui si potrebbe immaginare una salita al Colle. «Non tanto per ricevere mandati, quanto per distribuirli». Evviva. Giorni fa scrivevamo: A star is born, è nata una stella, riecheggiando il famoso film con Lady Gaga (da non confondersi con gagà, il nomignolo che parte della stampa aveva affibbiato al presidente del Consiglio per via delle sue giacche impeccabili, la pochette da taschino e il baciamano alle signore). È bastato attaccare Salvini e contribuire a un ribaltone, perché tutto cambiasse e i severi giudizi su un premier chiamato marionetta improvvisamente mutassero. Aver fatto una giravolta, passando da un governo spostato verso destra a uno che pende verso sinistra, senza nemmeno cambiare pettinatura o tintura, gli ha consentito di ascendere nell'Olimpo degli statisti e dei padri della patria, cui tutto è perdonato, anche le capriole e le contraddizioni.

Le giravolte dei progressisti che adesso santificano Conte. Il premier Giuseppe Conte, grazie al governo giallorosso, non solo ha mantenuto la sua poltrona, ma improvvisamente è migliorata anche la sua immagine personale. Francesco Curridori, Venerdì 30/08/2019 su Il Giornale. Il governo giallorosso sembra aver giovato al premier Giuseppe Conte che, non solo ha mantenuto la sua poltrona, ma anche in termini di immagine personale. Da "burattino di Salvini e Di Maio", come lo definì l'eurodeputato liberale Guy Verhofstadt, Conte, soprattutto dopo il suo j'accuse a Matteo Salvini a Palazzo Madama, pare aver assunto il ruolo di grande statista. Basta vedere cosa scrivono le due principali firme de Il Foglio, il fondatore Giuliano Ferrara e il direttore Claudio Cersasa. Il primo, ricorda Daniele Capezzone su La Verità, twitta: "Conte, sempre Conte, supremamente Conte" e sul suo quotidiano lo loda per aver evitato "lo sforamento baldorioso del deficit" e "un paio di procedure d' infrazione contro l'Italia". Ferrara, poi, aveva gioito nel sentirlo parlare al Senato: "Se l' è cucinato a puntino, mettendo il limone nel posto giusto nella sublime porchetta", scrisse. Cerasa, invece, ha giudicato positivamente la svolta giallorossa dell' "Avvocato del popolo" che servirà come"laboratorio europeo dell' antisovranismo". Conte è stato premiato anche dalle pagelle Corriere della Sera con un bel 7:"Lascia al palo Di Maio e Salvini che hanno creduto di poterlo manipolare. Per riuscire non è detto che sia indispensabile non avere macchie di sugo sulla cravatta e non masticare con la bocca aperta, però aiuta", è la motivazione. Marco Galluzzo apprezza il suo "stile fatto di vari ingredienti: pazienza e spirito di sacrificio, competenza e autonomia" e "uno standing conquistato sul campo anche sui tanti complicati tavoli internazionali". Andrea Malaguti su La Stampa va ben oltre: "Impossibile odiarlo, più facile sottovalutarlo. Grave errore, perché l' avvocato del popolo difficilmente si fa distrarre dagli obiettivi, e quasi mai li manca". E ancora: "Abile, furbo, educato, innamorato del figlio e mai divisivo, è riuscito a costruirsi un universo di relazioni straordinariamente largo che riesce a coltivare e a non ostentare". Per Francesco Merlo di Repubblica, Conte è "il quasi premier che ha castigato gli spacconi" con la sua "aria tranquilla, serena, conversativa, amabile e indulgente".

CHE COLATA DI SALIVA PER “GIUSEPPI”. Daniele Capezzone per “la Verità” il 30 agosto 2019. «Contrordine, compagni» versione 2.0. Pochi mesi fa, i giornali italiani facevano eco - in estasi - al velenoso Guy Verhofstadt, che, a Strasburgo, aveva apostrofato Giuseppe Conte come «un burattino di Salvini e Di Maio». Essendo forse cambiati i burattinai, è mutato anche l' atteggiamento dei nostri grandi media, che ora descrivono l' avvocato del popolo come uno grande statista, un maestro di politica e pensiero. Dimenticate i sarcasmi sulla pochette o sul curriculum: adesso il premier è in una ideale teca, ha un altare tutto suo, una via di mezzo tra il Padre Pio di cui è devoto e un padre della patria giallorossa. Il più lirico, letteralmente fuori categoria, è Giuliano Ferrara, in preda a un' eccitazione incontenibile. Ecco due perle (rare, come Conte secondo Di Maio) su Twitter: «Conte, sempre Conte, supremamente Conte», «Aprite le porte a Gonde» (pronuncia pugliese, presumiamo). Ma è sul Foglio che Ferrara ha dato il meglio, descrivendo il suo nuovo eroe: «Ha evitato lo sforamento baldorioso del deficit (), ha evitato un paio di procedure d' infrazione contro l' Italia (), ha spiegato alla Merkel in un video fatale che il Truce era un rompicoglioni incontrollabile». Il Truce sarebbe Salvini. E Conte ha vinto il duello, barrisce l' elefantino: «Se l' è cucinato a puntino, mettendo il limone nel posto giusto nella sublime porchetta». Morale: «Il comportamento di Conte è stato la perfetta espressione del discrimine che () separa la coerenza dal masochismo. () La coerenza a volte è solo l' ultimo rifugio delle canaglie». Entusiasmo condiviso dall' attuale direttore del Foglio, Claudio Cerasa, esultante per il fatto che l' Italia abbia «un nuovo governo: l' Europa». Avete capito bene: «l' unica svolta possibile» è «fare del prossimo esecutivo il laboratorio europeo dell' antisovranismo». Eccitazione da pilota automatico o da guinzaglio, insomma. Nel sottotitolo dell' editoriale dell' altro ieri di Cerasa, compariva anche un significativo «Slurp!». Intanto, nelle pagelle assegnate ieri dal Corsera (a firma di Roberto Gressi), il premier si è preso un rotondo 7. Ecco le motivazioni: «Lascia al palo Di Maio e Salvini che hanno creduto di poterlo manipolare. Per riuscire non è detto che sia indispensabile non avere macchie di sugo sulla cravatta e non masticare con la bocca aperta, però aiuta». E il miniritratto accosta Conte al Mister Wolf di Pulp Fiction (quello di «Risolvo problemi»). Un trionfo. Due giorni prima, sempre il Corriere (a firma di Marco Galluzzo) si era superato: «solida credibilità politica e umana», «uno stile fatto di vari ingredienti: pazienza e spirito di sacrificio, competenza e autonomia», «uno standing conquistato sul campo anche sui tanti complicati tavoli internazionali», «doti di qualità, pazienza, temperanza». Su La Stampa, è Andrea Malaguti ad allestire l' altare dedicato a Conte, con tanto di foto (mini)napoleonica: «Impossibile odiarlo, più facile sottovalutarlo. Grave errore, perché l' avvocato del popolo difficilmente si fa distrarre dagli obiettivi, e quasi mai li manca». E ancora: «Abile, furbo, educato, innamorato del figlio e mai divisivo, è riuscito a costruirsi un universo di relazioni straordinariamente largo che riesce a coltivare e a non ostentare». Fino alla profezia delle profezie, quella di «una salita al Colle non tanto per ricevere mandati, quanto per distribuirne». Avete capito bene: già presidente della Repubblica in pectore, con tre anni di anticipo. Su Repubblica, è stato mobilitato Francesco Merlo, firma di punta addetta ai Grandi Lutti o ai Grandi Omaggi (e ieri non era giorno di lutti). Per Merlo, Conte è «il quasi premier che ha castigato gli spacconi», in un tripudio di «giacche di sartoria, colonia al limone, gemelli ai polsi». E ancora: «l' aria tranquilla, serena, conversativa, amabile e indulgente». Mancano solo le testimonianze delle guarigioni procurate, ma ci si sta lavorando.

L'Avvocato del declino. L'inclinazione italiana per i potenti dà gloria anche a una figura debole come Conte. Un governo partorito dall'Europa e con distratti sostegni d'oltre oceano. Pd e M5s partecipano per generosità, fragilità e governismo, ma pagando un alto prezzo. Salvini invece si è trasformato, nel giro di una notte, da Hulk a Calimero. Lucia Annunziata per Huffingtonpost il 29 Agosto 2019. Solo il senso degli Italiani per il potere può spiegare l’aura di gloria con cui Giuseppe Conte ha varcato stamattina il Quirinale per ricevere il suo incarico bis, nientemeno, come fosse un Andreotti qualunque. Grazie all’inclinazione del nostro paese per i potenti, questo sconosciuto Avvocato, che fino a qualche giorno fa era ancora definito come “scoperto” o “pescato” dai 5s, divenuto premier ben due volte, ma sempre nel giro di una notte, è diventato protagonista di una favola. Liberato per la seconda volta dalla sua umile natura di rospo da un bacio, sia pur non di una principessa, ma di un principe che gli ha detto sì e gli ha messo a disposizione un partito. Ebbene, sì. Nel primo minuto dell’anno zero del Governo Conte bis, scattato alle 9.30 di questo 29 agosto, il realismo è il vero senso perso in questa operazione di formazione del nuovo Governo. Una divisiva e difficile operazione, dal destino incredibilmente denso di difficoltà, presentato nei suoi ultimi metri come la formula che improvvisamente ridà dignità al paese, restituisce l’Italia al suo posto tra i grandi del mondo, e la fa tornare al suo patrio destino di frontiera contro il fascismo/nazismo. La narrativa con cui Giuseppe Conte viene trasformato dal suo vecchio ruolo di “guardiano del contratto”, “tecnico che prepara i dossier”, e “pacificatore di due alleati a volte riottosi” (definizioni da lui usate per descriversi) al piccolo Napoleone attuale è il racconto della voglia di illudersi che muove al momento la politica italiana. Come in tutti i mistery, è dal finale che si capisce la trama. In questo caso, il finale è il crescendo di endorsement, dichiarazioni pubbliche di favore, che hanno portato Conte direttamente al Quirinale. Quelle di Donald Trump, e di Bill Gates arrivate all’ultima ora, aggiuntesi a quelle più scontate europee di Angela Merkel e di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, hanno ampiamente contribuito a scrivere il finale glorioso del nuovo premier descritto come “uomo circondato dal rispetto internazionale”. Quanto valgono queste lodi? Un tweet che loda con un errore di spelling un Giuseppi Conte, la dice lunga sul grado di conoscenza fra i due leader, non è granché come riconoscimento. E’ uno strumento per altro su cui Trump si sfoga personalmente e spesso casualmente, contraddicendosi come capita, anche su temi serissimi, come la Corea del Nord e la guerra dei dazi con la Cina. Le lodi, sospettiamo, andrebbero in realtà alla bravura del nostro ambasciatore Varricchio a Washington e al diplomatico Eisenberg, che rappresenta gli Usa a Roma. Per quel che riguarda Bill Gates, viene fatto passare per endorsement un ringraziamento del signore del denaro al contributo europeo alla sua fondazione contro l’Aids. L’Italia e Conte vengono citate insieme a Germania e Commissione Ue. E anche qui lode ai comunicatori di Palazzo Chigi (e qui vorrei fare una lode al sempre bistrattato Rocco Casalino, che è in verità l’unico autore del Conte bis). Come si vede, si tratta di un vero e proprio make-up per il premier in pectore. Di che sorprendersi, tuttavia? La piccola Italia ha sempre usato in politica il “riconoscimento” dei leader stranieri, riflesso condizionato rimasto nel nostro dna di quel viaggio a Washington di De Gasperi, il 3  gennaio 1947, anno freddissimo in ogni senso (affrontato dal nostro primo ministro con un cappotto in prestito, come si ripete per raccontare di quanto eravamo allora semplici e umili). Riflesso condizionato, senso mai curato di nostra inferiorità nell’Occidente del dopoguerra, che ci accompagna dai comunisti dei tempi d’oro, che nonostante il riconoscimento berlingueriano dell’ombrello Nato in una intervista a Pansa nel 1976 dovette sudarsi il rapporto con Washington, passando per Andreotti, Craxi. Passione per i riconoscimenti condivisa da due arcinemici – Letta e Renzi - che non hanno mai smesso di lavorare a questo consenso. Quello intorno a Conte oggi non è dunque esattamente un abbraccio che ci impressiona.  Ma certo c’è in tutte queste lodi, una prova di un disegno politico, che parte dall’Europa. Nella nuova Europa post elezioni, Merkel e von der Leyen, eletta presidente con i voti di M5s e Pd, guidano un diverso approccio, una operazione a trazione tedesca, costruita a tavolino, per arginare il fronte sovranista; mirata a favorire l’affermazione in Italia di un Governo moderato, e a maggiore ispirazione sociale. Conte, col suo tiepido carisma, e la sua estrema adattabilità politica e psicologica, la sua mancanza di ideologia – tutte doti che lo hanno portato a navigare da garante dell’estremismo populista a democratico nell’ultima ora del discorso in Senato contro Salvini - è il perfetto strumento per il nuovo passaggio politico che l’Europa e le classi dirigenti euronazionali vogliono per l’Italia. La gloriosa salita al Quirinale di stamattina dell’ormai ex Avvocato, e il favore dello spread che l’ ha accompagnata, è solo la conclusione di questo percorso.  Come giudichiamo questa mossa: è stata una ingerenza, o è un esempio di politica europea? Ristabilita questa realistica versione del miracolo Conte, si deve ripartire da questo quesito per cercare ora di ristabilire anche una parte della verità sul significato del Conte-bis. Rileggendo gli effetti che questo incarico ha avuto su ogni partito, amico o nemico che sia del nuovo Governo. Partirei con Salvini, il leader che più ha subito questa crisi, e che parla infatti di “un complotto, in corso da tempo”. Ovviamente questo argomento, che riscalda quello in cui si rifugiò nel 2011 Berlusconi, sarà il centro della campagna elettorale sovranista. Ma è molto difficile che i leghisti possano davvero fino in fondo sostenere questa linea. Intanto, che complotto è mai una operazione che è stata condotta alla luce del sole? Salvini non ha visto, a differenza di tutti noi, le scelte che venivano fatte a Bruxelles, in Francia, a Berlino, la linea rossa di combattimento che veniva segnata dall’Ungheria, passando per l’Austria e arrivando in Italia? E di che si scandalizza Salvini? E’ sceso in campo con una proposta di guerra all’Europa, in cui proponeva di lasciare la Ue e l’Euro – e ora si meraviglia se in Europa e in Italia si risponda con identico spirito di guerra? Il vero errore di Salvini, nella sua caduta, è di aver sottovalutato questa risposta europea e italiana. Specie dopo l’affare Metropol, in cui, come abbiamo scritto su questa testata, erano visibili le manine dell’intelligence europea e quella tedesca, e un cambio di strategia politica. E, trattandosi di una sola Europa con un solo Governo, è difficile parlare di ingerenza. E se Conte è oggi Napoleone, Salvini si è trasformato, nel giro di una notte, dal magnifico Hulk nel piagnucoloso Calimero. L’operazione Conte bis tuttavia, proprio per i numerosi e potenti fili che la muovono, ha un profondo impatto anche per Pd e 5stelle, che attraverso l’accettazione di Conte lasciano a loro volta sul terreno parte della loro sovranità al loro stesso partito. I 5Stelle che pure hanno “inventato” il premier, stanno festeggiando. Ma anche loro non hanno del tutto guadagnato da questo incarico. Il Conte 2.0 come preferiscono chiamarlo, nel senso che è un organismo ormai modificato, davvero non è più una loro creazione, in quanto non risponde più a loro del tutto. Premier unico, come vuole essere, sarà in futuro il riconoscimento di questa nuova veste. E tuttavia i 5 stelle rimangono il suo esercito di manovra: quindi entrano in questo nuovo Governo con la responsabilità di un leader che è solo formalmente loro, e l’obbligo a doverlo sostenere perché è il loro unico strumento di lavoro. Con tutti i prezzi che ne conseguono – come già ben si vede nella parabola di Di Maio, che nell’ascesa di Conte misura la sua discesa di peso politico. E chissà che questa parabola non sia specchio e anticipazione di quello che succederà all’intero Movimento, che a questo appuntamento arriva avendo pagato il prezzo di una forte divisione. Il Pd anche paga pegno a una operazione che Zingaretti ha sicuramente subito. Il suo Pd è un partito che doveva andare al voto subito, e invece ha fatto il Governo. Doveva essere, certo, un Governo però in discontinuità, quindi senza Conte, ed è divenuto il piedistallo per la gloria di Conte. Doveva a questo punto almeno avere la certezza che M5s riconoscesse la democrazia rappresentativa come bussola, e invece deve accettare che si faccia una votazione extraistituzionale su Rousseau. E per quel che riguarda la discontinuità non è riuscito al momento ad assicurarsi nemmeno quella dei futuri ministri- né quelli del 5stelle, né quelli del Pd. Su questo vedremo presto cosa succederà. Si capisce il perché di questa ritirata. Le pressioni fatte per un nuovo Governo Conte sono arrivate anche al Pd – il Governo europeo, il Quirinale (nominiamolo, sì), e le classi dirigenti nazionali ed europee hanno fatto pressione sul Pd. Da ogni parte – Vaticano, sindacati, intellettuali di fede antisistema convertiti alla battaglia per salvare il sistema. D’altra parte il partito è esso stesso da anni “responsabile” per eccellenza, in quanto parte eurorganica delle classi dirigenti, ed ha detto sì, come fece per Monti. Sollecitato, in aggiunta, da quei famosi spiriti animali di un governismo spinto che, proprio in quanto parte di una classe dirigente, è la vera passione che tiene insieme un Pd spesso sconfitto, e oggi molto frammentato. Zingaretti, rimanendone fuori, ha tracciato la linea di una sua personale dignità. Ma, come per i 5S, il prezzo che pagano lui personalmente e il partito è alto: si tratta di una incredibile ritirata, che, per quanto addolcita dalla retorica del caso, “Nessuna staffetta, nessun testimone da raccogliere”, rimane una operazione in cui il Pd è il donatore di sangue principale di questa operazione antisovranista, e antipopulista. Le incognite, come si vede, e le ambizioni del nuovo Governo sono tantissime. Chi come me, e molti altri, ha tifato fin qui per il voto invece che per l’accordo, è ancora convinto che le urne sarebbero state un passaggio migliore per creare una svolta in Italia. I partiti avrebbero potuto contare le loro reali forze, e avrebbero soprattutto condiviso con i cittadini italiani il peso di una trasformazione di fase così incerta. E avremmo avuto un premier vero, invece di un Avvocato arrivato al bis senza mai essere stato votato. Certo avrebbe forse, o magari sicuramente, vinto Salvini. Ma volete davvero dirmi che con tutto lo schieramento alle spalle oggi del Conte bis, nel cambio di clima europeo, non sarebbe stato possibile fare una opposizione, nuova e più efficace che avrebbe sconfitto il sovranismo ad armi pari, e guardandolo negli occhi? Non credere alla propria vittoria in campo aperto, è la malattia degli eserciti nella fase declinante degli Imperi - ci insegna la storia. Lo stesso vale per la politica.

Giuseppe Conte, "il premier amico di Maria Elena Boschi". Quella voce maliziosa: così è nato l'inciucio col Pd. Libero Quotidiano il 29 Agosto 2019. Oggi è il giorno di Giuseppe Conte, che alle 9.30 al Quirinale riceverà dal presidente Sergio Mattarella l'incarico-bis da premier. Dopo 14 mesi alla guida di un esecutivo con Lega e M5s, l'ormai ex avvocato del popolo cambia con disinvoltura casacca e al verde sostituisce il rosso del Pd. E allora torna alla mente la vocina "maligna" che si era diffusa nella primavera 2018, quando il suo nome era iniziato a circolare a sorpresa come candidato a Palazzo Chigi. "Fanno premier Conte, quello amico della Boschi?". Era un virgolettato rubato a niente meno che Matteo Renzi e riportato da vari quotidiani, dal Giornale a La Stampa. L'ex ministro delle Riforme del governo Renzi ed ex sottosegretaria alla presidenza del Consiglio nel governo Gentiloni. avrebbe intrattenuto rapporti professionali con Conte, essendo entrambi  avvocati civilisti molto attivi a Firenze prima che la Boschi imboccasse con decisione la carriera politica. Allora era un'ombra, oggi quasi una certezza. Certi inciuci fanno giri immensi e poi ritornano: a Palazzo Chigi.

IL MONDO ALLA ROVESCIA: TRAVAGLIO BENEDICE IL GOVERNO VOLUTO DALLE CANCELLERIE STRANIERE, E ''REPUBBLICA'' FA LA GUERRA AL PD! Marco Travaglio per ''il Fatto Quotidiano'' il 29 Agosto 2019. Noi, che siamo gente semplice, ci orientiamo con quattro bussole molto collaudate, che non ci hanno mai tradito. La prima è B.: se non vuole una cosa, è quella giusta. La seconda è Repubblica: se indica una strada, è quella sbagliata. La terza è Salvini: se chiede qualcosa, va evitato; se lo teme, va fatto. La quarta è Giuliano Ferrara: se sposa un governo, disastro assicurato (infatti, dagli anni 70, li ha sposati tutti, tranne il Prodi-1 e il Conte-1). Ora, sul Conte-2 giallo-rosa, la situazione è la seguente. B. e i suoi house organ lo temono come la peste bubbonica, perché "di estrema sinistra, pauperista e giustizialista": quindi ottimo. Repubblica spara a palle incatenate, con titoli da Padania ("Voto subito, ma c' è chi dice no"), da Giornale ("Crisi di un governo mai nato") e da Libero ("Fumata nera, futuro grigio") e manda in tv volti imbronciati che non fecero una piega sui patti scellerati tra Pd e B., ma il putribondo Conte non lo digeriscono proprio: quindi il Conte-2 ha ottime chance. Il Pd, a furia di dar retta agli amorevoli consigli di Repubblica sull' appoggio a Monti, la rielezione di Napolitano, i governi con B. & Verdini, il Sì al Referenzum e il No al dialogo col M5S , s' è dissanguato: ora, smettendo di seguirli, potrebbe persino riaversi. Salvini si sbraccia per rimettersi con Di Maio o votare, ergo va deluso; e fa di tutto per evitare il governo giallo-rosa, che quindi diventa priorità assoluta. Poi purtroppo c' è Ferrara: estenuato da ben 14 mesi all' opposizione dopo 50 anni al governo, stravede per il Conte-2. Ma non si può avere tutto dalla vita. E le altre tre bussole parlano chiarissimo. E non si esclude l' eterogenesi dei fini. Persino B. e Salvini, nel 2016, salvarono la Costituzione a loro insaputa col No al Referenzum. E persino Renzi, nella crisi più pazza del mondo, s' è reso utile senza volerlo svegliando un Pd già rassegnato al voto e al trionfo salvinista. Naturalmente può darsi che il Conte-2 abbia vita anche più breve del Conte-1, che M5S e Pd passino il tempo a litigare, che la salsa aurora giallo-rosa improvvisata nei pochi giorni concessi dal Colle impazzisca al primo intoppo, che la cura emolliente di Conte non appiani le enormi differenze e diffidenze fra Di Maio e Zinga, che presto Renzi prenda le sue truppe e butti giù tutto (anche se sarà difficile che le truppe lo seguano nell' harakiri). Il rischio di resuscitare Salvini sarà sempre in agguato. Ma è, appunto, un rischio. La certezza è che basta il primo vagito del Conte-2 perché Salvini non conti più nulla e non se lo fili più nessuno. E, come diceva Bossi di B. ai tempi d' oro, "se lui piange, state allegri: vuol dire che non ha ancora trovato la chiave della cassaforte".

Michele Serra per ''la Repubblica'' il 29 Agosto 2019. Per merito quasi esclusivo di Matteo Salvini, probabilmente nascerà un governo giallo-rosso (il nome, più che dalle ideologie, discende dalle esigenze cromatiche della cartografia televisiva e giornalistica). Pure se legittimato, come il precedente, da una maggioranza politica in Parlamento, sarà un governo incongruo, illogico e fragile, però con una forte attenuante: che quello che lo ha preceduto, il giallo-verde (giallo-nero secondo una lettura più allarmata) era, se possibile, ancora più incongruo, illogico e fragile. Chiunque lamenti l' assurdità del connubio tra "grullini" e "pidioti", così come si chiamano sui social gli opposti ultras, non può omettere di menzionare la speculare assurdità di una maggioranza politica, quella che ha governato fino a ieri l' altro, che metteva insieme la critica dello sviluppo e il popolo dei capannoni e della cementificazione, il reddito di cittadinanza e la flat-tax, il giustizialismo e l' arte di farla franca, la destra estrema e la sinistra dell' acqua pubblica, eccetera. Le baggianate dietrologiche che accomunano, in parte, la narrazione grillina e quella leghista (il complotto demo-pluto-massonico, la sostituzione etnica pilotata da Soros, l'Europa longa manus degli avidi banchieri) dimostrano, piuttosto, che le baggianate non bastano a reggere un governo. E per fortuna. Ovviamente la piena legittimità politica e costituzionale di una nuova maggioranza, opposta alla precedente - anch' essa legittima - non cambia di una virgola il disorientamento, le paure, le perplessità di quella parte di italiani, circa i due terzi, che ancora guarda alla politica con interesse e spirito partecipativo. Tra di essi, gli elettori del Pd sono messi, in questo momento, a durissima prova. Nella peggiore delle ipotesi si sentono, loro malgrado, usati come stampella di un gruppo politico, i Cinquestelle, che dopo avere fallito clamorosamente un' esperienza di governo con la destra più becera, rimangono in sella grazie al supporto di un partito, il Pd, trattato per anni dai grillini come l' incarnazione perfetta del tradimento degli interessi popolari, la sentina dell' affarismo, la casta politicante per eccellenza. Dopo gli sputi, la stretta di mano. Nella migliore, tirano un sospiro di sollievo per la temporanea neutralizzazione della detestabile prepotenza di Salvini e dei suoi sicari online, del suo schietto antieuropeismo e della sua fellonia putiniana; ma il sollievo, per quanto reale, non basta a guardare con serenità, o con ottimismo, al futuro di un' alleanza di governo che appare, in nuce, destinata alla lite, ai sospetti reciproci, alle incomprensioni. Qui si vuole provare a dire, senza alcuna pretesa di avere ragione, che la cruna dell' ago, per quanto piccola, c' è. (Non esiste ago senza cruna). Se è vero che il Movimento è nato prima di tutto da una diaspora, generazionale prima che sociale, contro "i padri" dormienti, soprattutto la sinistra e la ex sinistra considerati perduti a ogni istanza sociale radicale, prime tra tutte la battaglia ambientale; allora l' occasione per provare (sotto la costrizione di una comune responsabilità) a parlarsi, o a riparlarsi, finalmente c' è. E se è vero che al Movimento mancano, platealmente, competenze, esperienza e misura politica, un lessico all' altezza dei problemi, magari qualcosa di utile e di spendibile, nella lunga esperienza amministrativa e di governo del Pd, la possono trovare anche i più sospettosi tra i debuttanti grillini, scoprendo che non tutto ciò che è "professionale", in politica, è malvagio e corrotto. Il problema, prima ancora che politico, è dunque culturale. Il solo additivo, il solo lievito che potrebbe davvero trasformare un' alleanza forzata tra nemici in un governo quasi vero, quasi utile, è l' umiltà. La capacità di ascolto, la disponibilità a imparare. Già scrivendo queste righe, e voi leggendole, mi rendo conto che la cruna si restringe. Raramente la politica concede ai suoi artefici apertura d' animo quanta ne servirebbe. La politica odierna, poi, è un vespaio di opposte assertività. E non è più l' ideologia, che comunque organizzava gli eserciti, a creare contrapposizione e odio: è il narcisismo, che divide e scompone senza tregua, inesorabilmente. La spocchia, a sinistra, è un vizio antico. Una presunta indispensabilità, ahimé smentita da molta storia recente, rende spesso le persone di sinistra "già imparate", e sprezzanti di fronte alle nuove forme, spesso poco eleganti eppure vivaci, della società che cambia. Viceversa, tra i grillini prospera l' ombrosa diffidenza del semplice e del mediocre che vede nel più abile e nel più meritevole solo l' inganno, mai il merito. In entrambe le tribù, dunque, forti elementi di identità, direi di carattere, lavorano contro il possibile miracolo, che è quello - semplice, eppure difficilissimo - che questi inediti partner di governo si parlino limando i rispettivi pregiudizi, e ascoltando con qualche interesse quello che dice l' altro. Vale poco (anche se qualcosa vale) dire che almeno alcuni punti di vista, specie nelle questioni ambientali, sociali, dei diritti sul lavoro, sono, se non simili, conciliabili. Varrebbe moltissimo approfittare della contingenza per guardarsi in faccia e imparare qualcosa l' uno dall' altro. I pidioti potrebbero aiutare i grullini a capire - per esempio - che destra e sinistra sono concetti tutt' ora utili per definire le intenzioni e i programmi di chi governa; che i modi autoritari e i modi democratici non sono la stessa cosa e non conducono alle stesse conseguenze politiche; che la complessità non è un impiccio da liquidare, ma un nodo da sciogliere con pazienza e intelligenza. I grullini potrebbero insegnare ai pidioti che la politica non si fa (solo) nei palazzi e nei consigli di amministrazione; che quando si dice che esistono alternative al modello di sviluppo, è possibile dirlo per davvero e non perché è una frase fatta; che il lavoro è stato, negli ultimi decenni, umiliato al punto da considerare "inevitabile" un declassamento dei diritti che di inevitabile non aveva proprio nulla. Ma tutto questo è la cruna. Il resto è tutto ago. Se fossi un bookmaker direi che le possibilità che questo governo serva a cambiare davvero qualcosa sono il 5 per cento. Il rimanente 95 per cento appartiene solo alle scelte obbligate (perché disperate), all' azzardo, al vicolo cieco dal quale provare a uscire arrampicandosi sui muri. Non biasimatemi se faccio il tifo per il 5 per cento.

''IL FATTO" DOUBLE - MENTRE TRAVAGLIO VA IN DELIQUIO PER IL BIS-CONTE, CI PENSANO I SUOI GIORNALISTI AD IMPALLINARLO. Marco Palombi per “il Fatto Quotidiano” il 29 Agosto 2019. L' inopinata mossa ferragostana di Matteo Salvini, e ci si riferisce alla crisi di governo, ha avuto se non altro il merito di fare chiarezza sul campo da gioco: l' intero establishment mondiale s' è mosso per benedire il governo grillo-pidino sotto la guida di Giuseppe Conte. Buon ultimo ieri è arrivato l' endorsement di Donald Trump, teoricamente un "filo-Salvini", anche per via della scelta del premier di firmare il memorandum sulla Via della Seta con la Cina: il presidente degli Stati Uniti aveva già fatto arrivare a Conte un messaggio privato di sostegno dopo l' annuncio della sfiducia, ma ieri ha saltato il fosso. Ovviamente su Twitter: "Inizia ad andare bene per Giuseppi (poi corretto, ndr) Conte, il molto rispettato presidente del Consiglio italiano. Ha rappresentato con forza l' Italia al G7 . Ama il suo Paese e lavora bene con gli Usa. Un uomo di talento che spero resterà primo ministro". Ovviamente Conte gongola, ma l' appoggio pubblico di Trump (e la citazione del premier italiano, insieme alla Merkel, addirittura in un tweet di Bill Gates) testimonia che l' avvocato - già del popolo - che guidava il "governo del cambiamento" ora farà un giro di giostra a Palazzo Chigi in quello della restaurazione nel senso delle élite euro-americane. In questo contesto è quasi scontato che la Bce di Mario Draghi e i grandi investitori nazionali e esteri "coprano" l' operazione mandando il rendimento dei Btp italiani decennali ai minimi da sempre (1,13% l' interesse alla chiusura di ieri). L' inquilino della Casa Bianca, pur inatteso, arriva comunque buon ultimo nel corteo di quanti, dalle capitali estere, si sono spesi - e assai più rispetto a un tweet - per la nascita del governo M5S-Pd con Giuseppe Conte alla guida. Gentili pressioni sul riottoso segretario democratico, Nicola Zingaretti, ad esempio, sarebbero arrivate persino dai socialdemocratici tedeschi, partner di governo di Angela Merkel, a nome di Berlino. Quanto al ruolo di Emmanuel Macron, il peggior nemico dell' Italia gialloverde (ma anche di altri colori), basti dire dei rapporti che intrattiene col mondo renziano, al punto che Sandro Gozi è finito nelle sue liste per le Europee e, oggi, nel suo governo. Passando al lato partitico delle pressioni, anche Frans Timmermans - ultimo spitzenkandidat dei socialisti europei - s' è fatto sentire col presidente della Regione Lazio per convincerlo a dare il via libera ad ogni costo al governo coi grillini. A dirlo un anno fa sarebbe sembrata una barzelletta, ma è il presidente del Consiglio il centro di questo lavorio (geo)politico. Conte, d' altra parte, ha lavorato bene nel costruirsi il profilo necessario al prossimo (eventuale) esecutivo: i suoi ottimi rapporti col Vaticano - e in particolare col segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin - sono antichi, noti e in queste settimane si sono rafforzati (anche da Oltretevere si sono spesi sui cattolici dem). Scontati pure i legami professionali e d' amicizia - attraverso il suo "maestro" Guido Alpa - con quel crocevia di relazioni col potere italiano che sono i grandi amministrativisti (Cassese e i suoi allievi, ad esempio, tra cui i figli di Napolitano e Mattarella, senza dimenticare Andrea Zoppini e il suo rinomato studio). Quel che Conte ha aggiunto in questi 14 mesi a Palazzo Chigi sono i rapporti internazionali. Trump, certo, ma soprattutto i leader europei, che - indisponibile o incapace Luigi Di Maio - lo hanno "adottato" in chiave anti-Salvini. La sua definitiva santificazione brussellese è avvenuta tra giugno e luglio: prima, come premier, ha dato il via libera al risiko di poltrone Ue seguito alle elezioni del 26 maggio (Ursula von der Leyen alla Commissione e Christine Lagarde alla Bce); poi a inizio luglio ha pure convinto il gruppo M5S - senza molta fatica, va detto - a votare a favore della ex ministra tedesca come successore di Jean Claude Juncker (14 voti poi rivelatisi decisivi per il via libera). Infine, Conte - insieme a Giovanni Tria - è stato il garante di una linea (quasi) rigorista sui conti pubblici e decisamente autolesionista sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) cara al duo Macron-Merkel, che l' Italia non sta bloccando nonostante lo imponga al governo un voto del Parlamento e dei contenuti palesemente provocatori (lì dentro ci siamo 60 miliardi italiani, ma se dovessimo aver bisogno di aiuto non potremmo in futuro accedere a quei fondi, se non con pesanti "condizionalità"). Sono benemerenze che l' establishment Ue tende a remunerare con la giusta dose di gratitudine.

E adesso ritorna anche il circo dei soliti intellettuali radical chic. Alessandro Gnocchi, Mercoledì 28/08/2019 su Il Giornale. Ieri abbiamo scoperto quali sono i consiglieri di Nicola Zingaretti, leader (?) del Partito democratico, impegnato in una dura trattativa con i 5 stelle guidati da Luigi Di Maio. Il segretario post comunista ha dichiarato: «Mezza Italia mi ha chiesto di fare questo governo con Conte premier. Mi hanno chiamato persino i cantanti, gli attori, gli scrittori» (la Repubblica). Roba da toccare ferro e appendere corone d'aglio alle pareti di casa. «Cantanti, attori e scrittori» erano tutti fascisti: Mussolini è finito a Piazzale Loreto. Poi sono diventati tutti comunisti: è crollato il Muro di Berlino. Quindi hanno attaccato per vent'anni Silvio Berlusconi: tre volte presidente del Consiglio. Infine hanno messo nel mirino Matteo Salvini: la Lega ha raggiunto il 37 per cento. A questo punto, si capisce perché Zingaretti dovrebbe lasciare che la trattativa fallisca. L'abbraccio con i 5 stelle, auspicato da «cantanti, attori e scrittori», sarà la fine del Partito democratico. Chi si è schierato per il governo MaZinga? Secondo Goffredo De Marchis di Repubblica ci sarebbero indizi che conducono a esperti del calibro di «Monica Guerritore, Fiorella Mannoia, Alessandro Gassmann, Maurizio De Giovanni, Tommaso Paradiso». Sulla Stampa, tirano un sospiro di sollievo «cantanti, attori e scrittori» che si erano schierati con i 5 stelle e poi se ne sono pentiti. Finalmente tornano a sinistra, tra i buoni. Fiorella Mannoia, Sabrina Ferilli, Claudio Santamaria, Dario Vergassola, interpellati da Michela Tamburrino, restano silenti. Tra i pochi che si espongono Jacopo Fo: «Pd e M5s devono cambiare il sistema altrimenti è tutto inutile». Giuseppe Conte incassa la fiducia di Marisa Laurito: «Ha avuto coraggio, autorità e fermezza». Ivano Marescotti spiega che il governo «lo devono fare a tutti i costi, per toglierci la Lega di torno». Sul Corriere della Sera, «cantanti, attori e scrittori» fanno appello al senso di responsabilità, al gesto necessario, all'economia, alla stabilità, all'Europa, all'euro, a qualunque cosa pur di non andare al voto. Silenzio di tomba sul fatto che i 5 stelle, deprecati e sbertucciati fino all'8 agosto, abbiano sottoscritto i provvedimenti di Salvini in materia di immigrazione e sicurezza. Il governo MaZinga è un fronte popolare (beh, mica tanto popolare) contro il sovranismo. Gli esperti di politica (editoriale) sono Antonio Scurati e Sandro Veronesi, hanno vinto entrambi lo Strega, un premio che richiede alle case editrici una certa capacità di creare alleanze per raccogliere voti. Secondo Scurati, il nuovo esecutivo sarà un'occasione per occuparsi «di lavoro». Secondo Veronesi, quello che si va formando è un «governo di emergenza nazionale». L'attrice, bravissima e bellissima, Laura Morante sottolinea l'importanza di «trovare un accordo, i compromessi sono necessari alla democrazia». Tutte opinioni più che legittime e sensate ma non diverse da quelle che è possibile ascoltare ogni mattina al bar sotto casa. Visto che siamo al bar, registriamo i dubbi che assalgono gli avventori all'ora dell'aperitivo. Sarà il caso di affidare il Paese al senso di responsabilità di Beppe Grillo, l'uomo del Vaffa? All'autorevolezza di Giuseppe Conte, l'uomo che aveva un curriculum lungo così? Alla sobrietà di Luigi Di Maio, l'uomo che sconfisse la povertà? Alla classe dirigente del Pd, sempre battuta dopo il successo delle Europee 2014? Alla coerenza di Matteo Renzi, l'uomo che promise di lasciare la politica? All'affidabilità di un Pd vicino alla ennesima scissione? Alla competenza dei 5 stelle in tema di lavoro e infrastrutture? «Cantanti, attori e scrittori», a voi la parola definitiva. Zingaretti vi darà retta.

ALLA FACCIA DEL BUONISTA. Chef Rubio, squallore contro Salvini: "Accasuccia, così potrai baciare il cuore della Madonna e di Cristo". Libero Quotidiano il 28 Agosto 2019. "Accasuccia, così puoi giocare di più coi pargoli e baciare quante volte te pare il cuore della Madonna e Cristo vostro signore. #FelpaPig". Chef Rubio commenta così i risultati del sondaggio Ipsos, pubblicato dal Corriere della Sera. I numeri riportano un brusco calo della fiducia degli italiani nei confronti di Matteo Salvini. Un fulmine a ciel sereno in quella che è la crisi di governo. Ma Rubio non è nuovo a queste invettive contro il leader leghista. Qualche tempo fa il buonista della cucina scriveva: "Chi sceglie Lega sceglie sicuramente la via più facile per continuare a fare ciò che di poco lecito. Non sono io che devo dire che la lega nasce per tutelare chi voleva evadere il fisco e fare del nero negli anni '80, quindi quelli che scelgono Lega sono dei potenziali problemi per gli onesti cittadini". Insomma, è il solito Rubio. 

Massimo Giannini per La Repubblica il 21 Agosto 2019. Finisce qui. Il "governo del cambiamento" doveva rivoltare l' Italia "come un calzino" e aprire il Parlamento "come una scatoletta di tonno", e invece va a casa così, in un pomeriggio d' agosto qualsiasi. Senza dignità e senza qualità. Nell' inutile spargimento di recriminazioni tardive e invocazioni blasfeme. Tra rosari e Marie Immacolate, miserie umane e furbate dorotee. Tra un altro trimestre di crescita zero e un' altra nave di disperati bloccata a un braccio di mare da Lampedusa. Finisce con il capolavoro al contrario di Salvini, l' infallibile Capitan Mitraglia, l' Uomo che non doveva chiedere mai e che invece ha sbagliato i tempi e i modi della crisi, e in un colpo solo è riuscito, nell' ordine, a uccidere il governo, a suicidare la Lega, a rianimare Di Maio e a resuscitare il Pd. "Parlamentarizzare" la crisi, come si è detto fin dall' inizio, era un atto dovuto. Sancire solennemente e pubblicamente, di fronte al Senato, la rottura del ridicolo contratto tra privati siglato un anno fa dagli azzeccarbugli lega-stellati era un passaggio necessario. Ma in Parlamento vagano ormai solo anime perse.

È un' anima persa Giuseppe Conte, dal quale ci si aspettava un discorso finalmente all' altezza del ruolo, che trasformasse il vacuo "avvocato del popolo" in un vero "uomo di Stato". E invece non è stato così, e per offrirsi senza un serio disegno politico a un bis purchessia il premier uscente ha pattinato sulle miserie di questo "anno bellissimo", raccontandolo per quello che non è stato. Momentaneamente ridisceso da Marte, Conte si è accorto quattordici mesi dopo che Salvini non è Churchill e forse neanche De Gaulle. Solo adesso ha trovato il coraggio di dirgli in faccia tutto quello che in 445 giorni di umiliante convivenza gli ha invece lasciato fare serenamente. Le norme anti-migranti e la scarsa "cultura delle regole", la "grancassa mediatica" e la "foga comunicativa", la fuga sulle vicende russe e persino l' abuso dei "simboli religiosi". Oggi il Matteo Furioso che "invoca le piazze e chiede pieni poteri" lo preoccupa: ma dov' era, l' ineffabile Sor Contento di Palazzo Chigi, mentre Salvini sulla Ruspa Illiberale spianava lui e Di Maio con le leggi del neo-sovranismo criminogeno, dalla circolare sui prefetti-sceriffi alla nuova legittima difesa, dalla direttiva sulle Ong ai due decreti sicurezza? È giusto chiedere al padre-padrone della Lega un' assunzione di responsabilità rispetto alla crisi. Ma è ancora più giusto che chi ha guidato il Paese insieme a lui per un anno, ed ora gli rimprovera in ritardo gli eccessi ideologici da ultradestra, compia un' analoga assunzione di responsabilità rispetto al governo. Tanto più se ora si immagina candidato a presiederne un altro, stavolta con un alleato di centrosinistra. Un' ipotesi che, a questo punto, sembra davvero marziana.

Ma è un' anima persa anche Salvini, che ha miseramente fallito proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto spiegare con parole forti e chiare le ragioni di un' eutanasia politica che era nelle cose, già all' atto di nascita di un governo insensato e innervato solo da una comune venatura sfascio-populista. Il beach-leader è stato penoso nei toni e nei contenuti, dimostrando una volta di più che il suo posto non è il Parlamento ma il Papeete. Tra madonne e fate turchine, ha riciclato agli eletti il solito ammuffito teorema dei troppi "signor no" (i ministri pentasellati che hanno fatto saltare il governo) e rifilato agli elettori una sua implicita Italexit (una manovra-monstre da 50 miliardi che farebbe saltare il bilancio). Nient' altro: solo bullismo a buon mercato, senza sbocco né costrutto. Salvini ora rischia tutto. Ha perso il Viminale, e questa è comunque una buona notizia per gli italiani, e può perdere anche le elezioni anticipate. Non è affatto scontato che le otterrà. Ed anche se le ottenesse, ci arriverebbe comunque ammaccato dal caos nel quale ha precipitato il Paese e braccato dalle inchieste giudiziarie dalle quali non riesce ad uscire.

Resta un' anima persa anche Di Maio, nonostante Salvini gli abbia regalato l' alibi del "tradimento". Non può essere una rimpatriata a Casa Grillo a rimettere insieme i cocci di un Movimento che in un solo anno ha perso tutto: la testa, il cuore e sei milioni di voti. Non può essere un' assemblea di condominio nella villa di un comico, a suggellare la "svolta" di una forza politica che chiude un' esperienza di governo con quello che solo oggi si rivela un "cuginetto di Orban" e pretende di aprirne un' altra con quello che solo ieri era il "partito di Bibbiano". Come se Lega e Pd fossero intercambiabili, esecrabili e/o riabilitabili secondo la convenienza del momento. Come se questa inversione di marcia non implicasse un ripensamento totale dell' identità e dei valori che devono giustificarla, e dunque un cambiamento radicale della missione politica e dei gruppi dirigenti che devono incarnarla. Queste non sono "semplificazioni organizzative": sono solo mistificazioni democratiche che un vero, grande partito di massa non si può più permettere.

Può sembrare un paradosso, ma in questa folle estate italiana l' unico che finora ha forse salvato la faccia, restando fermo mentre la giostra girava e impazziva, è Zingaretti. Ha subito l' incredibile sterzata movimentista di Renzi, ma ha sopportato anche a costo di apparire ancora una volta troppo arrendevole. Non si è precipitato al capezzale del Colosso Gialloverde morente e non ha benedetto Il Frankenstein Giallorosso nascente. E adesso può aspettare, senza bruciarsi, le mosse del Quirinale. L' unico porto sicuro, nello sciagurato Paese che li ha ormai chiusi tutti.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 21 Agosto 2019. Chi troppo vuole, nulla stringe: dedicato a Salvini. Come dire, in modo anche più brutale, che in certe condizioni ci si frega con le proprie mani. Ed è un vero guaio che "la Bestia" sovranista, così ricca di calorosi follower, sottovaluti i motti della saggezza popolare, per cui scatenare una crisi al buio in pieno agosto, e per giunta da una spiaggia, invocando i pieni poteri senza avere numeri né alleanze in Parlamento, era veramente troppo. Errore fatale e pugno di mosche: ché se il Capitano se ne stava tranquillo, senza errori da papà, ruspe ad personam, baci al crocifisso e mojiti al Papeete, ecco, magari restava ancora il leader incombente della politica italiana. Ma come ha fatto a sbagliare così facile? Nel disastro delle idealità e delle culture politiche i proverbi sono una tale risorsa da oscurare qualsiasi social. Vedi anche: tanto va la gatta al lardo (dei sondaggi, dei selfie, dei bagni di folla estiva) che ci lascia lo zampino (del Viminale, annessi e connessi: autonomia, flat tax, farsi bello con Putin, Trump e chissà chi altri). Si tratta di verità elementari tramandate per lo più in famiglia, ma se si sale anche un pochetto di livello non c'è testo sapienziale, dalle Sacre scritture alle tragedie greche, che non metta in guardia i reggitori dei popoli dal fidarsi eccessivamente di se stessi, o peggio della propria hybris, quell'insolente ubriacatura di dominio che irrita le divinità portandole regolarmente ad accecare coloro di cui si voglion sbarazzare. Poi ci si potrà credere o meno, però chi sta per far cascare un governo di cui è il massimo protagonista un pensierino può sempre farcelo, o no? Ecco: no. Per cui: "Sprofondano i popoli nella fossa che hanno scavato,/ nella rete che hanno teso s' impiglia il loro piede" (Salmo IX, da mandare a memoria, non bastando ad orientare la coscienza l' immaginetta della Madonna sul display del telefonino). Ora, la crisi è ancora ben confusa e tale approccio moraleggiante può senz' altro suonare abusivo rispetto ai possibili o anzi probabili accrocchi e/o alle maggioranze Ursule che nella capitale deserta e infuocata vanno senz' altro immaginandosi. Così, su di un piano meno astruso, si può perfino arrivare a comprendere come mai, dopo quello che ha combinato, ieri Salvini se ne sia uscito con la più ovvia scusa non richiesta e la più scontata messa di mani avanti: «Rifarei tutto». Sennonché, proprio dai passaggi cruciali dell' ultimo decennio ecco la conferma che giunti al culmine del loro successo (kairòs in greco e momentum in latino) ogni volta i leader se ne inebriano e regolarmente sbroccano per fare l' idiozia politica della vita loro. Una sequenza, una dinamica, un processo che al di là della presente congiuntura finisce per configurarsi come una di quelle "regolarità" studiate dagli scienziati della politica. Senza farla troppo lunga, è accaduto a Berlusconi nel 2009: maggioranza fortissima in Parlamento, vento in poppa dopo aver "risolto" la crisi della monnezza a Napoli e dell'Alitalia, risultati considerevoli anche sul fronte del terremoto dell' Aquila. Il 25 aprile il Cavaliere si presenta a Onna: con un drammatico scenario di rovine alle spalle e fazzoletto partigiano al collo pronuncia un discorso di apertura all' opposizione. Molti a sinistra abboccano pure: uno statista! Due giorni dopo si presenta con tanto di fotografo a Casoria per i 18 anni di Noemi Letizia: l'inizio della fine. Più o meno la stessa coazione autolesionistica prende possesso di Renzi nella primavera del 2014, dopo che il giovane Rottamatore, al grido "il meglio deve ancora avvenire", guadagna il 40 e rotti per cento, record assoluto alle Europee. Bene, che ti fa il premier? Neanche fosse Erdogan, un bel referendum sul Senato che è in realtà su se stesso. Cioè scava una buca e ci casca dentro. Da notare che in entrambi i casi il ruolo delle opposizioni è apparso del tutto secondario. Sia nell' uno che nell' altro frangente il centrosinistra e il centrodestra seguitavano a guardarsi l' ombelico e/o a litigare. Lanciati verso il futuro, conquistata la Rai e coccolati dalla massima parte dell' informazione e di quelli che con grossolana semplificazione sono detti "poteri forti", i due leader procedono verso l'auto-disastro talmente da soli che è impossibile non solo comprenderli, ma anche, volendo, compatirli. Ma siccome non c'è due senza tre, ecco dunque l' incredibile filastrocca di Salvini. Osservata a ritroso, sembra già un caso di scuola: il successo elettorale, anzichè consigliare misura e moderazione, ha alimentato retorica incendiaria, violenza verbale, formule scioccanti, volgarità, fughe e dinieghi dettati da pura arroganza. La droga dei sondaggi si combina con la frenesia dei social e le interminabili liturgie dei selfie a toso nudo, quindi strilli, brindisi, bacioni, monologhi a Unomattina, effusioni d' intimità con la giovane fidanzata, fino all' euforia della festa nazional-balneare e all'ideona di affondare il governo. Nessuno (forse solo l' ineffabile Giorgetti) che gli abbia detto: Matteo, Matteo, dove vuoi arrivare? Potrebbe chiederglielo adesso il presidente Mattarella. «La storia insegna che l' esercizio del potere può provocare il rischio di far inebriare, di perdere il senso di servizio e di far invece acquisire il senso del dominio ». Meglio di così non poteva dirlo, nell' ottobre scorso il Capo dello Stato a un gruppo di liceali, suggerendo anche due vie d' uscite. Una personale: senso del limite e dell' ironia; una pubblica: meccanismi di equilibrio che distribuiscono funzioni e compiti del potere tra più soggetti in modo che nessuno ne abbia troppo. Il troppo infatti stroppia, per restare ai proverbi.

“NON SONO IL CONSIGLIERE DI SALVINI”. Da Repubblica.it il 21 Agosto 2019. "Ho avuto un rapporto straordinario con Berlusconi e anche con Renzi. Con Salvini lo ha mia figlia, ma se mi volete attaccare, vorrà dire che mi fidanzerò con Salvini". Denis Verdini, ex-senatore e padre di Francesca, attuale compagna di Matteo Salvini, dice di "non fare pronostici né previsioni" su quanto accadrà nel giorno in cui il premier Giuseppe Conte parlerà al Senato perché si sente fuori dai giochi della politica. E, infatti, nega ogni indiscrezione su un suo possibile ruolo di consigliere di Salvini: "No, non lo sono. Sono disoccupato". Ma la voce di Verdini si fa quasi protettiva quando viene interpellato sul suo orto e sulla foto del leader leghista che pianta fiori di zucca: "Le zucche, nell'orto mio, le pianto io".

Caro Matteo, che pasticcio ci hai combinato. La bella notizia è che questo governo è ufficialmente finito. Alessandro Sallusti, Mercoledì 21/08/2019 su Il Giornale. La bella notizia è che questo governo è ufficialmente finito. Ma la giornata di ieri ce ne ha offerte altre due.

La prima: Conte, parlando al Senato, ha sbattuto con violenza la porta in faccia a Salvini («è mosso da interessi personali, irresponsabile, imprudente, opportunista, maldestro») decretando la fine dell'alleanza presente e futura con la Lega.

La seconda: Conte, nella sua «comunicazione» ha fecondato l'embrione di un nuovo governo tra Cinque Stelle e Pd e si è candidato, con un discorso programmatico più da premier entrante che uscente, a guidarlo con eccesso di ambizione - lui stesso. Dopo aver ascoltato la replica di Renzi, direi che la pratica è ben avviata. Le elezioni, quindi, si allontanano e si avvicina un governo di sinistra-sinistra (Cinque Stelle-Pd). Per ora, in attesa del lavoro di Mattarella, parliamo di «tendenze», ma se il buongiorno si vede dal mattino non siamo messi bene.

Diavolo di un Salvini. Da un anno le chiediamo di staccare la spina al governo con Di Maio, ma mai più immaginavamo che lo avrebbe fatto in questo modo e soprattutto con questi (probabili) esiti. Affidare il Paese a un partito, i 5 Stelle, che ha portato l'Italia in recessione (oltre che dimezzato i suoi consensi in dodici mesi) e al partito, il Pd, che ha clamorosamente perso le ultime elezioni, è un controsenso, oltre che cosa ingiusta e folle. Due debolezze non potranno mai fare una forza, se non quella di aggrapparsi alle poltrone per più tempo possibile. Non sappiamo quali siano i margini di manovra del presidente Mattarella per evitare di replicare il disastro del contratto gialloverde cambiando semplicemente il verde con il rosso. È vero che la politica si regge sui numeri, ma i numeri del Paese virtuale (il Parlamento, dove Pd e M5s sono maggioranza) non possono valere più di quelli del Paese reale che da anni premiano a ogni elezione, sempre più chiaramente e stabilmente, il centrodestra a trazione leghista. Io spero ancora che Mattarella non permetta a un leader fallito e commissariato dai suoi (Di Maio) e a un premier cacciato dagli italiani e dal suo partito (Renzi) di riprendere il potere attraverso giochi di palazzo. Un modo ci deve essere. A me vengono in mente le elezioni, ma se qualcuno ha idee migliori, si accomodi.

Da “Libero quotidiano” il 21 Agosto 2019. Non soltanto Salvini: adesso Roberto Saviano se la prende anche con il premier dimissionario Giuseppe Conte. Così, infatti, lo scrittore-giornalista lo attacca su Twitter, dopo aver ascoltato il discorso in Senato: «Un pericoloso ipocrita, così dovrebbe essere definito Conte, che viene osannato oggi quasi fosse un padre della patria. Presidente, il #MinistrodellaMalaVita Salvini sedeva al suo fianco e Lei non ha impedito quanto accaduto nell' ultimo anno. Sarà ricordato solo per questo».

Lucia Annunziata per “il Fatto quotidiano” il 21 Agosto 2019. Mi sembra che quello di Conte sia stato un discorso con poco pathos, ha fatto quel che mi aspettavo ma restando molto scolastico. Ha parlato di democrazia, di regole istituzionali. Tutto giusto, ma sempre molto da avvocato, più che da politico. Era una lezione tecnica by the book, un continuo "non ci si comporta così", persino d' antan come sul passaggio relativo all' utilizzo dei social network. L' unico vero affondo politico interessante verso Salvini lo ha fatto quando ha parlato del caso Savoini, ricordandogli che sarebbe stato opportuno riferire in aula sullo scandalo. Da sottolineare è anche la seconda parte del discorso del premier, quando ha parlato per un quarto d' ora di ecologia, di diritti civili, delle difficoltà del Sud e dei giovani. Sembrava quasi una piattaforma per un Conte bis con il Pd, per quanto difficile sia che vada in porto. Più probabile che alla fine resti come una sorta di testamento politico da parte del presidente.

Marco Travaglio insulta Salvini: "Il Cazzaro Verde è stato preso a sberle dall'alto al basso da Conte". Libero Quotidiano il 21 Agosto 2019. Marco Travaglio non si smentisce mai e come poteva perdere l'occasione di tessere le lodi di Giuseppe Conte. Il discorso del premier contro Matteo Salvini in Senato ha fatto godere il direttore del Fatto Quotidiano che, anzi, ha ben deciso di rincarare la dose. "Conte ha sottoposto Salvini al trattamento dell'asfaltatura completa, aiutato dall'ennesimo harakiri mediatico del Ca**aro Verde che si è piazzato al suo fianco sperando di spaventarlo e poi riducendosi a fargli le faccette: solo che era seduto sotto, in posizione di minorità rispetto al premier in piedi che lo prendeva a sberle dall'alto al basso". A Travaglio non par vero che "l'Avvocato degli italiani" si è svegliato dal sarcofago in cui è stato rinchiuso fino ad ora: "Conte, a dispetto della doppia propaganda leghista e sinistrista, non è uomo dell'establishment né del vecchio centrosinistra. È l'interprete più apprezzato di un populismo-sovranismo dal volto umano che ottiene risultati in Italia e in Europa, diversamente da quello parolaio, inconcludente e dannoso delle destre. Perciò perché dovrebbe dimettersi?". Ma al direttore non interessa tanto il premier uscente quanto più riempire di insulti l'acerrimo nemico Salvini: "Ora il Cazzaro è al punto più bassodella sua parabola politica. Solo il Pd può salvarlo. E pare che, ancora una volta, stia lavorando per lui". 

Dagospia: SLURP, SLURP! TRAVAGLIO STA A CONTE COME EMILIO FEDE A BERLUSCONI. Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 21 Agosto 2019. Rivedendo la nostra copertina sulla sfida all' Ok Corral e parafrasando Clint Eastwood, possiamo tranquillamente dire che quando un pistola incontra un uomo col fucile, il pistola è un uomo morto. Ieri Conte ha sottoposto Salvini al trattamento dell' asfaltatura completa, aiutato dall' ennesimo harakiri mediatico del Cazzaro Verde che si è piazzato al suo fianco sperando di spaventarlo e poi riducendosi a fargli le faccette: solo che era seduto sotto, in posizione di minorità rispetto al premier in piedi che lo prendeva a sberle dall' alto al basso, con una lezione di politica, democrazia, diritto parlamentare e costituzionale, ma anche di dignità e di stile allo scolaretto bullo e somaro. Il quale ha raddoppiato l'autogol parlando subito dopo e rendendo ancor più evidente l'abisso morale, intellettuale e dialettico che lo separa dal premier, con un discorso sgangherato, senza capo né coda: doveva almeno spiegare la crisi più pazza del mondo, invece se n' è scordato o non sapeva che dire. Meglio sbaciucchiare rosari e sacri cuori, fra gli applausi dei leghisti più pii, tipo Calderoli che si sposò col rito celtico davanti al druido. Il confronto ravvicinato fra quei due modelli politico-antropologici crea, agli occhi degl'italiani, un nuovo bipolarismo tutto nel campo "populista". Conte, a dispetto della doppia propaganda leghista e sinistrista, non è uomo dell'establishment né del vecchio centrosinistra. È l'interprete più apprezzato di un populismo-sovranismo dal volto umano che ottiene risultati in Italia e in Europa, diversamente da quello parolaio, inconcludente e dannoso delle destre. Perciò, oltreché per capitalizzare i sondaggi e liberarsi delle indagini, Salvini ha rovesciato il governo: Conte stava crescendo troppo per lasciargli altro campo libero da fiore all'occhiello del M5S. È lo stesso timore che anima Zingaretti e Renzi, divisi su tutto fuorché sull' ostilità a Conte, tanto comprensibile per ragioni di bottega quanto miope per gli interessi dell'Italia: se mai nascesse un governo M5S-Pd, l' unica speranza di renderlo popolare sarebbe di affidarlo all'"avvocato del popolo". Ieri è bastato sentirlo parlare, in un dibattito parlamentare di livello infimo, per instillare in tutti una domanda spontanea: ma perché uno così deve dimettersi? E perché non lo rincorrono tutti per affidargli il nuovo governo? Se non per convinzione, almeno per convenienza, essendo Conte da mesi l' unico leader che batte Salvini nei sondaggi. Figurarsi dopo ieri. Ora il Cazzaro è al punto più basso della sua parabola politica. Solo il Pd può salvarlo. E pare che, ancora una volta, stia lavorando per lui.

Saviano: "Conte? Pericoloso ipocrita". Poi insulta Salvini. "Il Presidente Conte? Oggi viene osannato come un padre della patria, ma in realtà è un pericoloso ipocrita: ha sottoscritto immonde porcate con il ministro della malavita Salvini". Lo scrive su Facebook Roberto Saviano. Gianni Carotenuto, Mercoledì 21/08/2019 su Il Giornale. Giuseppe Conte? "Un pericoloso ipocrita osannato quasi fosse un padre della patria, dopo avere sottoscritto immonde porcate, se non veri e propri crimini. Il ministro della malavita Salvini sedeva al suo fianco". È il duro attacco di Roberto Saviano contro l'ex premier e il segretario leghista. Su Facebook, lo scrittore e giornalista di Repubblica ha criticato gli "osanna" che gran parte degli elettori progressisti hanno rivolto a Conte dopo il discorso al Senato con cui ha annunciato le sue dimissioni. Un lungo intervento nel quale "l'avvocato degli italiani" - così si era presentato Conte all'inizio della sua esperienza di governo - ha accusato il suo ex ministro dell'Interno di essere, come scrive oggi Giuseppe Marino sul Giornale, "eversivo, autoritario, dotato di scarso senso delle istituzioni, assente sul fronte della legge di bilancio, prevaricatore, reticente sul Russiagate e inadeguato al ruolo di ministro". Un vasto repertorio di accuse che per Saviano, però, non bastano per ripulire la coscienza di Conte. Lo scrittore lo definisce "un pericoloso ipocrita, che viene oggi osannato quasi fosse un padre della patria, dopo aver invece sottoscritto immonde porcate", scrive Saviano, "se non veri e propri crimini - cosa è il caso Diciotti se non un sequestro di persona? - delle quali, nel proprio ruolo, è stato il primo responsabile". Ma il vero affondo dello scrittore di "Gomorra" è contro Matteo Salvini. "Presidente Conte, il #MinistrodellaMalaVita Salvini sedeva al suo fianco e lei non ha impedito quanto accaduto nell'ultimo anno: non lo ha forse fatto per quella stessa ambizione personale che addebita al suo collega di governo? Sarà ricordato per questo e per niente altro". Tra le "immonde porcate" a cui fa riferimento Saviano, oltre al "salvataggio" di Salvini sul caso della nave Diciotti da parte del Movimento 5 Stelle, ci sono soprattutto i due decreti sicurezza, contro i quali Saviano si è scagliato a più riprese ingaggiando uno scontro frontale con l'ex ministro dell'Interno, in una telenovela pressoché quotidiana di accuse e insulti reciproci. L'ultima puntata appena qualche giorno fa, quando lo scrittore campano ha chiesto addirittura il carcere per Salvini a causa dei suoi ostinati "no" allo sbarco dei migranti della Open Arms. Anche in quel caso, Saviano aveva ricevuto centinaia di commenti di apprezzamento. Ma il post contro Conte non è andato giù a molti suoi (ex) estimatori, che lo hanno accusato di avere preso un granchio. "Io lo ricorderò per altro... Sul piano culturale gli puoi pulire le... scarpe", gli scrive Paolo Rallo. "Per quanto ti stimi, trovo che questa sia una delle peggiori "uscite" tu abbia fatto. Ritengo che Conte sia stato l’unico Presidente del Consiglio a dare lustro alla Nostra Povera Italia", aggiunge Monica Mallardi. Ancora più severo il commento di Aurora Busulla: "Culturalmente parlando, tu e Conte siete lontani anni luce! Un gran signore, una persona che questo paese necessita. Tu hai solo che da imparare da uno come lui".

RITRATTONE ACIDO DI SAVIANO BY FACCI. Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 21 agosto 2019. Le opinioni su Matteo Salvini non c'entrano più, anche gli "amici" di Roberto Saviano sanno che Saviano sul tema è andato fuori di cotenna da tempo: ma fanno spallucce, lasciano che lo scrittore (va bene scrittore?) faccia i suoi sforzi per continuare a far parte del paesaggio pur senza un ruolo preciso, e tirano dritto. Fanno finta di niente. Ormai Saviano è un modo di dire: «Bastava Saviano», ha detto ieri Salvini riferito a Giuseppe Conte, «per raccogliere tutti questi insulti, non il presidente del Consiglio». Saviano. Un Saviano. Perché è vero, una persona sana di mente può anche stufarsi di passare a vita per quello di "Gomorra", e può anche tentare di reinventarsi socialmente e professionalmente come l' antagonista culturale (va bene culturale?) di Matteo Salvini: ma perdio, Saviano potrebbe sforzarsi di farlo un po' meglio. L' impressione che questo signore abbia sbroccato è ben precedente all' estate, e nei giorni scorsi è soltanto riuscito ad abbassare ancora di più l' asticella: «Il destino di Salvini è il carcere, e questo lo sta capendo anche lui; basterà che si spengano le luci». Ha stortato la bocca, a sinistra, anche qualche garantista residuale. Perché l' augurio sa tanto di auspicio massimo, di logica conclusione contro il male da parte del bene. Poco importa che il tremillesimo pretesto siano stati i 134 migranti della "Open Arms" ostaggio dei banditi libici, ma parimenti - ecco - secondo Saviano ostaggi «del bandito politico Matteo Salvini, il ministro della Malavita». Anche quest'espressione reiterata, «ministro della Malavita»: termine inaccettabile comunque lo si guardi, scorrettezza oltre ogni diritto di critica, tentativo di "mascariare" mafiosamente un nemico ripetendo all' infinito una sconcezza: sinché qualcosa resterà. È come se Saviano, nel perpetuo tentativo di riscattarsi e accreditarsi con qualcosa o con qualcuno, volesse far dimenticare quando giudicava una cosa per volta e sembrava, addirittura, una personcina equilibrata: farsi perdonare, per esempio, quando riconobbe i successi del governo Berlusconi nella lotta alla camorra e quando elogiò più volte il ministro Roberto Maroni, un leghista giudicato «uno dei migliori ministri degli Interni di sempre». Ai tempi aveva 31 anni e viveva da fuggiasco, superblindato, prigioniero e senza una vera vita privata. Oggi ha cinquant'anni e vive da fuggiasco, superblindato, prigioniero e senza una vera vita privata. Ma augura la galera a un vicepremier solo come passaggio di un'escalation, o, volendo vederla con dietrologia malata, come una previsione politica nel giorno in cui Salvini non avesse più la ribalta del Viminale e tornasse un semplice senatore, libero di essere accerchiato da una giustizia sovralimentata da un governo manettaro grillino-piddino. Dunque le esagerazioni di Saviano sanno sempre meno di opposizione politica e sempre più di disvelamento, di inciampo rivelatore, di smascheramento forcaiolo per l' uomo che diceva di amare Salamov e Solzenicyn ma ora ha virato su Travaglio e Davigo. È più comodo. C' è più gente da prendere al lazo sui social. Saviano rimane quello di "Gomorra" (con enormi, spaventose responsabilità circa la rilegittimazione mediatica di certa malavita) ma nel tempo ha cercato di trasformarsi in un' autorità morale che distribuisca pagelline su candidati ed eletti, sentenzi sui giornali e in tv e decida la presentabilità di tizio e caio. il salto Poi il grande salto, ma non sappiamo se di qualità: l' ossessione Salvini. Quello che chiude i porti alle Ong e dirotta le barche. Quello «inumano», «buffone», «incapace», «ministro della crudeltà» oltreché della citata malavita. Saviano è giunto a invocare la censura (una «forma disperata di opposizione all' orrore», «non dando notizia e non commentando le affermazioni più gravi di Matteo Salvini») e a giudicare il viceministro «un baro», uno che indossa le divise delle forze dell' ordine come «gesto autoritario» e «pericolosissimo per la democrazia». Salvini che «minaccia magistratura e oppositori di ritorsioni armate», uno che «tra la Lega di potere e Matteo Messina Denaro ci sono solo tre gradi di separazione», uno «ha Facebook, un Potere globale». Facebook appartiene a Salvini. Il quale, poco tempo fa, ha parlato contro la mafia nella speranza che in futuro possa valere come argomento difensivo in un processo per mafia contro di lui: parola di Roberto Saviano. Uno che col suo argomentare, col suo facile accostare un ministro alla malavita, potrebbe più facilmente definirsi come scrittore della malavita: nessuno pare più avere dubbi, ormai, sul fatto che l'effetto Gomorra abbia riqualificato l' immagine della Camorra stessa, e che a portarne la responsabilità, paradossalmente, sia stato chi l' aveva dapprima combattuta con un libro formidabile. Il libro è appunto "Gomorra", che poi si è fatto marchio e prodotto d' esportazione. Ed è patetico che a pensarla diversamente, ora, sia rimasto giusto Roberto Saviano e forse il quotidiano su cui scrive, nonché gli autori e attori del serial televisivo. Altri - politici, avvocati, magistrati, scrittori e attori - dicono tutti la stessa cosa, e non è quella che sostiene Saviano. È più simile a quella che ha raccontato l' attore Carlo Verdone: «Un mio amico insegnante ha fatto scrivere un tema ai bambini: "Il sogno della nostra vita". Un bambino vorrebbe diventare Genny Savastano, un altro il boss della banda della Magliana, una donna si ispira a donna Imma. Hanno indicato modelli malavitosi». Diffusi da scrittori malavitosi, direbbe Saviano.

Marco Travaglio, disgusto in prima pagina: "Salvini pagliaccio". Il direttore consiglia il suicidio al M5s? Libero Quotidiano il 23 Agosto 2019. Marco Travaglio non riesce ad accettare l'idea che il Movimento 5 Stelle sia pressoché agli sgoccioli. Al direttore del Fatto Quotidiano non basta vedere la smani dei grillini di tentar alleanze a destra e manca, così come sembra non leggere i sondaggi che danno i pentastellati al di sotto del 10 per cento. Assolutamente no. Travaglio continua nella sua battaglia anti-Salvini che vede il culmine nella prima pagina del quotidiano a ridosso le consultazioni al Quirinale. Nell'immagine il leader della Lega viene disegnato come un pagliaccio: "Che il Pd non fosse un partito, ma un manicomio, era noto, anche se dopo un anno passato a parlare di Salvini molti l'avevano dimenticato. Ora però è bastato che i riflettori tornassero a illuminarlo per rammentarlo anche ai più distratti. Basti pensare che per due anni nessuno in quel partito osava aprire il benché minimo spiraglio ai 5Stelle, per paura di essere fucilato sui social da Renzi&renzini: gli stessi che adesso fulminano chiunque rifiuti di spalancare le porte ai 5Stelle". Ma l'assurdo arriva verso la fine: "Se mai Di Maio e i Pd si incontreranno, si capirà se i veti sono roba seria o le solite fumisterie politichesi. Ma al posto di Di Maio ci muniremmo di mutande di ghisa e cammineremmo rasente ai muri. Se il M5S non vuol proprio suicidarsi, fra un governo modello Libia e il voto subito, ha molto meno da perdere dalla seconda opzione. L'occasione d'oro di sfidare un Salvini in stato così comatoso e confusionale (ora vuole un governo uguale a quello che ha appena affossato), magari con Conte candidato premier, non durerà in eterno". Secondo Travaglio i cinquestelle dovrebbero sfidare Salvini tanto "è in stato comatoso e confusionale". Peccato che il direttore abbia dimenticato, ancora una volta, i numeri: quel leader ha molti più consensi del M5s che finirebbe dritto dritto al suicidio. 

I giornali rossi portano Matteo a Piazzale Loreto. Un dettaglio dello spirito italiano non tramonta mai: il piazzaloretismo. Ora contro Salvini. Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 22/08/2019 su Il Giornale. C'è un dettaglio dello spirito italico che non tramonta mai: il piazzaloretismo. L'attitudine codarda a scagliarsi contro il nemico quando è caduto nella polvere, nel momento in cui è in difficoltà e non può reagire. Con la differenza, non da poco, che piazzale Loreto arriva dopo vent'anni di dittatura, mentre noi siamo di fronte a 14 innocui mesi di Salvini al Viminale. Un piccolo esempio di piazzaloretismo lo abbiamo visto negli ultimi due giorni. Matteo Salvini per più di un anno ha imperversato nelle piazze, in tv, sui giornali e sugli schermi dei telefonini. Sempre tagliente lui, sempre feroci le risposte dei suoi detrattori. Ma dal 20 agosto è caduta la diga. E l'ha fatta detonare il premier Giuseppe Conte. L'avvocato del popolo diventato giudice di Salvini. L'uomo che ha voluto accusare e sputtanare pubblicamente il leader della Lega. Smentendo prima di tutti se stesso, come se si fosse svegliato tra i banchi del governo dopo quattordici mesi di letargo. Il Salvini del 20 agosto, nel bene e nel male, sarà lo stesso di un mese prima. Cioè quando Conte era tutto uno sdilinquirsi di va bene tutto madama la marchesa. «Irresponsabile, ignorante, codardo, autoritario» ha infierito il presidente del Consiglio. E Salvini, per la prima volta, è sembrato in difficoltà. Quale momento migliore per gli sciacalli? Così sui social si è immediatamente scatenata la gara a menare il leghista ferito: festeggiamenti sguaiati, status trionfanti e liberatori che - se ci fosse stato Facebook - non si sarebbero visti nemmeno il 25 aprile del '45, meme umilianti per sottolineare - con la bava alla bocca -, che finalmente il Capitano ha smesso di maramaldeggiare. Una specie di carosello virtuale che manco se l'Italia avesse vinto i mondiali. Poi arrivano alla svelta i gazzettieri dell'antisalvinismo militante. In men che non si dica Conte è diventato un eroe nazionale. Dopo un anno trascorso a far da vice ai suoi due vice, sono bastati tre schiaffoni a Salvini per guadagnarsi i favori della stampa di sinistra. Saviano festeggia la fine delle «immonde porcate del ministro della Malavita». Il Fatto Quotidiano di Travaglio stappa Mathusalem di Champagne e vola altissimo: «Il confronto ravvicinato tra quei due modelli politico-antropologici crea - agli occhi degli italiani - un nuovo bipolarismo». Praticamente una sorta di razzismo antropologico per arginare il razzismo leghista. Per Francesco Merlo (Repubblica) Conte è stato anche troppo delicato: «Salvini selvaggio e domato e il suo torero feroce e gentile nell'ultimo duello». Gentile? E cosa doveva fare? Insultargli anche la famiglia? Più mesto Michele Serra, che confessa le tristezze del quotidiano: «Abbiamo però goduto almeno di un giorno di sollievo e di conforto, di questi tempi non è poco». Ah sì, dura e raminga la vita del radical chic, che ogni mattina spera di scorgere il cadavere di un nemico sul quale festeggiare. E, ora, senza Salvini al governo, come faranno a trovare sollievo nei loro giorni così tristi?

Giampiero Mughini per Dagospia il 22 agosto 2019. Caro Dago, Mi sento un po’ in colpa con te perché il mio mutismo nei confronti delle tue pagine sempre vive e vitali è stato abbastanza lungo. Non che io fossi in chissà quale spiaggia remota ad abbronzarmi; né che io fossi del tutto disattento alla tragedia italiana della Terza Repubblica. Solo che da cittadino repubblicano quale mi vanto di essere non sono così attento e desiderante di tutto ciò che vi accade nel comparto della politica politicante. Zero attento, zero desiderante, e a parte il fatto che reputo Matteo Renzi di tre gradini sopra agli altri. Invidio chi riesce a scrivere un articolo pro o contro Matteo Salvini, per me è pressoché impossibile. E dire che ne ho visti parecchi e parecchie in questi ultimi miei mesi di praticantato televisivo che smaniavano pur di farsi notare dal Matteo in canotta, glielo leggevi in volto che avevano già fatto il calcolo dell’Iva sulle fatture che speravano poter emettere in ragione della loro improvvisa empatia nei confronti del Matteo in canotta. Neppure sotto tortura farà i nomi e cognomi dei suddetti e suddette, e anche se quei nomi e cognomi ce li ho in punto alla lingua e ti potrei dare l’ora e il canale televisivo in cui me li sono trovati accanto. Uno a una. Dio, il mio disprezzo nei loro confronti. Dio che eroismo  non dirne i nomi e cognomi. Vedo che Giuseppe Conte il Latteo da spiaggia lo ha conciato per le feste, quando lo ha visto steso per terra, un morto che stava morendo. Lo avesse fatto sei mesi fa, allora sì che lo avrei apprezzato. Non riesco ad appassionarmi a questa storia politicante , in un momento in cui la vicenda generale dell’Europa tutta è in pericolo e in affanno. Non riesco ad appassionarmi se sarà un Conte bis o Fico a promettere agli italiani quali pani e quali pesci verranno moltiplicati. E laddove un governo leale e responsabile dovrà solo ammettere che non c’è scampo all’aumento dell’Iva, quei 23 miliardi di euro che batteranno sulle tasche degli italiani che lavorano e producono e consumano. A me, che sono un italiano che lavora le sue dieci ore al giorno e dichiara tutto quanto al fisco non cambierà nulla di nulla di nulla. So solo che sono affranto e disperato per il mio Paese, e mentre so che sono milioni e milioni gli italiani che si alzano presto la mattina e cominciano la loro opera, talvolta di gran qualità. Se Di Maio o Fico o chi altri al timone del comando? Ma vogliamo scherzare. Non cambierà nulla di nulla di nulla. A tutti noi. Fregatevene altamente. E mi dispiace così tanto che amici miei cari come Pigi Battista e Giuliano Ferrara si azzannino sull’una o sull’altra delle ipotesi politicanti. E’ il niente contro il niente, a nessuno di noi cambierà niente di niente. E’ solo e soltanto la tragedia della Terza Repubblica. Dio mio, come ci siamo ridotti. E fermo restando che quando Renzi farà il suo nuovo partito, subito lo voterò. Anche se non servirà a niente, purtroppo.

Pd-M5S, l'inciucio nato al telefono tra Casaleggio e Zingaretti. Secondo Repubblica il dialogo Pd-Movimento 5 Stelle sarebbe iniziato a Ferragosto con il messaggio che Davide Casaleggio ha lasciato nella segreteria telefonica del segretario Pd. Ecco i punti principali del pre-accordo. Gianni Carotenuto, Giovedì 22/08/2019 su Il Giornale. Con il passare delle ore, l'accordo Pd-M5S da tentazione si sta via via trasformando in qualcosa di più concreto. Da entrambe le parti si registra una chiara apertura, con il segretario dem Nicola Zingaretti che mercoledì, al termine della Direzione Pd, ha posto cinque condizioni per trattare con Luigi Di Maio. Eppure, il primo abboccamento non è arrivato dal capo politico dei pentastellati, bensì da Davide Casaleggio. A raccontarlo è Repubblica. Secondo il quotidiano di via Colombo, infatti, è stato il presidente della Casaleggio Associati a contattare per primo il segretario Pd. "Sono Davide Casaleggio. So che mi sta cercando e che dobbiamo parlarci", il messaggio lasciato a Ferragosto nella segreteria telefonica di Zingaretti. Da allora la corrispondenza telefonica si è fatta bollente. Numerosi e continui i contatti telefonici sull'asse Ivrea-Roma. È al telefono che si è trovata l'intesa sulla base dei cinque punti programmatici elencati da Zingaretti nel corso dell'ultima riunione della Direzione del Pd. Durante la trattativa, il segretario dem ha detto di essere contrario a governi di breve durata, prospettiva benedetta invece da Matteo Renzi. Casaleggio si è trovato d'accordo sulla necessità di cambiare registro rispetto all'esperienza di governo con la Lega. A una condizione, però: "Non bisogna umiliare Di Maio", sul quale non a caso Zingaretti, in un'intervista al Messaggero, ha assicurato di non porre veti. Tanto che l'ex vicepremier potrebbe essere uscito dalla porta per rientrare dalla finestra nel governo che verrà, anche se con un incarico meno importante. Insomma, tra Zingaretti e Casaleggio c'è già l'accordo. Rimane da convincere solo il presidente della Repubblica.

OCCHIO ALLE DATE. Zingaretti e Casaleggio, la telefonata che ha cambiato tutto. Sondaggi e poltrone, così hanno fregato Salvini. Libero Quotidiano il 22 Agosto 2019. Il momento di svolta nella crisi arriva a Ferragosto. Nicola Zingaretti, dopo aver assicurato a Matteo Salvini nei giorni precedenti di voler tornare al voto, telefona a Davide Casaleggio. Secondo Repubblica, è qui che Pd e M5s decidono di provarci e di fatto nasce il "governo dell'inciucio" o "governo di Bibbiano", come oggi lo chiama il leader della Lega rimasto spiazzato dalla clamorosa giravolta dei democratici. Non ci sono molti dettagli sul colloquio, spiega Repubblica. "Il nuovo esecutivo, se nasce, non deve umiliare Luigi Di Maio", è la richiesta di Casaleggio. "Io sicuramente non entrerò nel governo", ribatte Zingaretti. Il segretario Pd e il patron della Casaleggio Associati (figlio del fondatore del M5s Gianroberto e, di fatto, controllore politico del Movimento) hanno dato disponibilità reciproca alla trattativa. È un salto decisivo, che probabilmente spiega anche i toni durissimi di Giuseppe Conte che in Senato hanno chiuso a ogni possibilità di riconciliazione tra Salvini e Di Maio. Una accelerazione mostruosa spiegabile con un semplice dato. Nei sondaggi più pessimisti, i 5 Stelle sono dati addirittura intorno al 7%. Praticamente, un partito morto. Da qui non solo la preferenza per un governo alternativo, ma la pura necessità i tenere in vita la legislatura per tenere in vita se stessi. Il Pd in questo senso è spaccato in due: c'è chi come Zingaretti preferirebbe il voto per ridisegnare a propria immagine i gruppi parlamentari e chi, come Matteo Renzi, vorrebbe il governo a ogni costo per averne diritto di vita o di morte (controllando oggi quegli stessi gruppi parlamentari) e guadagnare al tempo stesso qualche mese per organizzare la scalata al Pd o eventualmente un proprio partito.

I grillini pronti alla svolta benedetta da Grillo-Casaleggio. Rocco Vazzana il 22 agosto 2019 su Il Dubbio. Il capo sotto scacco. I capigruppo assicurano la compattezza del M5s attorno al vice premier, ma I parlamentari vorrebbero un passo di lato per far nascere il governo giallo- rosso. Commissariato da Beppe Grillo e Davide Casaleggio, ma anche dai gruppi parlamentari che fremono per far nascere un esecutivo giallo- rosso. Luigi Di Maio è di fatto un capo politico dimezzato, finito sotto processo dopo l’abbraccio mortale con la Lega di Matteo Salvini. Sei milioni di voti persi in un anno e la sottomissione al Carroccio non possono del resto passare in cavalleria, e per il leader grillino è arrivato il momento di pagare pegno. «È impensabile che sia lui a guidare le trattative col Partitico democratico», confida una fonte pentastellata vicina all’area di sinistra del Movimento. Di Maio, che fino all’ultimo avrebbe preferito l’opzione urne anticipate, sa che senza accordo con i dem sarebbe costretto a lasciare anche la guida del partito e prova ad assecondare i desideri della base parlamentare ormai pronta a sfiduciarlo. Deputati e senatori chiedono un passo di lato al vice premier e “bisministro” della Repubblica, invocando una gestione collegiale della nuova fase: una sorta di cabina di regia aperta a esponenti finora esclusi dal cerchio magico. Niente più decisioni prese in caminetti ristrettissimi, ora i grillini vogliono partecipare. Di Maio, con le spalle al muro, è costretto ad accontentarli e convoca capigruppo e capi di Commissione 5S, ventotto persone in tutto, per stabilire la linea da seguire nelle prossime ore. Ma non basta. Oggi sarà necessario un altro passaggio con l’assemblea congiunta degli eletti dopo il colloquio al Quirinale. «Il MoVimento è unito e compatto intorno al capo politico Luigi Di Maio», sono costretti a precisare in mattinata i capigruppo di Camera e Senato, Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli. «Siamo un monolite. E adesso siamo concentrati sulle consultazioni». Ma la stessa necessità di una rassicurazione di questo tipo palesa in realtà la spaccatura del partito fondato da Grillo. Che i gruppi non seguano più i diktat del capo politico, infatti, lo sanno anche i muri in casa 5Stelle. In tanti, adesso, osservano più le mosse del Presidente della Camera, Roberto Fico, che quelle del giovane leader di Pomigliano D’Arco per seguire la nuova rotta. Al fianco di Di Maio rimane solo un pugno di amici fidati, che con lui ha condiviso la virata a destra del M5S: dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, al sottosegretario agli Affari regionali, Stefano Buffagni, fino al ministro per i Rapporti col Parlamento, Riccardo Fraccaro. Gli altri remano già verso nuovi lidi. Quello che oggi si presenterà da Sergio Mattarella per le consultazioni sarà dunque un capo debolissimo, controllato a vista dai due capigruppo, occhi e orecchie di Grillo e Casaleggio durante la visita al Colle. Perché se D’Uva può ancora essere arruolato tra i fedelissimi, Patuanelli non è certo un “dimaiano” doc. Anzi, il capo dei senatori grillini è uno dei più convinti sostenitori dell’alleanza con i dem, tanto da essere considerato uno dei possibili protagonisti della trattativa con Nicola Zingaretti per far nascere la nuova maggioranza: di fatto, potrebbe esautorare il capo politico in questa fase. L’epoca dei «taxi del mare» è finita, ora servono figure capaci di dialogare con la sinistra. E tra le condizioni poste dal segretario Pd per un’alleanza spicca la «discontinuità» col precedente esecutivo «riferita sia alle personalità che ai contenuti». Tradotto: no a un Conte- bis ma fuori anche Luigi Di Maio, volto e anima dell’appena conclusa esperienza “del cambiamento”. E se l’ormai ex premier potrebbe comunque riuscire a ritagliarsi un ruolo nel nuovo esecutivo, si vocifera di un possibile trasloco alla Farnesina, per il suo ex vice le porte di Palazzo Chigi sarebbero sbarrate. A garantire la nuova alleanza potrebbe essere un “tecnico” come Raffaele Cantone o un politico come Roberto Fico, ma è difficile immaginare che il leader ortodosso lasci lo scranno più alto di Montecitorio per lanciarsi in un’avventura dai contorni così incerti. Intanto, per evitare di rimanere con le casse vuote in caso di elezioni anticipate, Davide Casaleggio invia una lettera ai parlamentari morosi con l’Associazione Rousseau. «Ci risulta che non hai ancora completato le rendicontazioni fino a maggio 2019», recita l’email recapitata ieri mattina. «La scadenza per farlo era il 31 luglio 2019, ti preghiamo pertanto di provvedere al completamento dei mesi indicati entro il 2 settembre in vista di eventuali elezioni e dei relativi controlli da farsi per le candidature». A milioni di elettori si può pure rinunciare, ma agli introiti preventivati a inizio anno no.

Franco Bechis, la verità sul discorso di Conte contro Salvini: cosa succedeva davvero a Palazzo Chigi. Libero Quotidiano il 21 Agosto 2019. "Altro che armonia, Palazzo Chigi era un nido di vipere". Parola di Franco Bechis, che commenta così il discorso tenuto in Senato dall'uscente premier Giuseppe Conte. Più che un'orazione, quella del presidente del Consiglio, è sembrata a tutti un'invettiva contro Matteo Salvini. "Conte ha tirato fuori tutto il suo personale rancore nei confronti di Salvini, con accuse puntute, colpi sotto la cintura, umiliazioni subite in segreto e dispetto covato per lungo tempo. Non ha avuto tutti i torti il leader leghista nel replicare, usando giustamente il 'lei' a quel punto". Salvini, infatti, dopo aver accuratamente ascoltato il premier, gli ha rivolto la domanda che chiunque avrebbe voluto fare: "Perché dirlo solo dopo un anno?". In fondo ricordiamo che Conte con Salvini ha voluto dar vita a un governo. "Paradossalmente se fino alla vigilia delle comunicazioni del premier a palazzo Madama si faticava un po' a comprendere i motivi per cui Salvini aveva deciso di staccare la spina nel cuore di agosto, poche ore dopo avere ottenuto la fiducia sul suo decreto sicurezza bis, le parole di Conte nei suoi confronti hanno svelato l'arcano portando a chiedersi semmai come hanno fatto ad andare avanti essendo questi i rapporti personali per mesi e mesi tirando fino a questo agosto" commenta la firma del Tempo. E ancora: "Il premier è stato spietato con il suo vice e la sua svolta comunicativa ovviamente ha fatto impazzire di gioia i fan cinque stelle. La sua raffica di mitra verbale nei confronti del Matteo nero ha colpito al cuore anche molti esponenti del Partito democratico". Insomma, sembra proprio che il vaso di Pandora sia stato scoperchiato. 

Meloni: Altro che uno vale uno. Lega o Pd, per M5S uno vale l'altro.  (LaPresse il 21 Agosto 2019) - "Adesso abbiamo capito cosa intendevano i grillini con "uno vale uno". Era per dire "uno vale l’altro", Lega o PD, basta tenersi la poltrona. Altro che cambiamento" . Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni.

Migranti e Open Arms, lite Salvini-Trenta. «Inciuci» «Falso». Pubblicato mercoledì, 21 agosto 2019 da Erica Dellapasqua su Corriere.it. «Roba da matti. Non hanno perso tempo, i nuovi ordini della Difesa sono stati formalizzati ieri. Prime prove tecniche di inciucio Pd-5 Stelle sulla pelle degli italiani, riaprendo i porti e chiudendo un occhio sulle Ong?». È Matteo Salvini, ieri su Twitter, a riaprire la campagna elettorale sui migranti attaccando la collega di governo — almeno ancora formalmente — Elisabetta Trenta, responsabile della Difesa, che secondo questa notizia fatta circolare dal Viminale col suo ministero avrebbe «modificato unilateralmente i compiti affidati a coloro che intervengono nelle operazioni di pattugliamento». Subito sui social monta il caso. Salvini, per dimostrare l’inciucio con la sinistra, getta in Rete un fotomontaggio che accosta Trenta e Laura Boldrini, deputata di Leu apertamente ostile alla politica dei porti chiusi. Trenta gli risponde su Facebook, che già aveva utilizzato per replicare a chi le scriveva critiche sulla Open Arms: «Trentadue minori, due di nove mesi, onde di due metri e mezzo, da sedici giorni in mare: ma che uomo è lei?». A Salvini, invece, dice che «il tuo tentativo di screditare non solo me ma l’intera Difesa è inqualificabile. In una riunione in cui eri presente ho disposto di intensificare l’attività di polizia marittima. Le navi della Marina non hanno scortato la Open Arms per far sbarcare a Lampedusa i migranti; bensì come da sollecitazione del Tribunale dei minori di Palermo erano pronte a intervenire in favore dei minori. Sei stato bravo a piegare ogni cosa a tuo vantaggio ma questo metodo non funziona più. Impara a rispettare il ruolo delle istituzioni e a non appropriartene». Per il ministero dell’Interno le nuove indicazioni, formalizzate martedì, per gli assetti militari in azione nel Mediterraneo centrale, «denotano un chirurgico ma significativo arretramento rispetto a quanto concordato per il contrasto dell’immigrazione clandestina». Tutto falso, fanno invece filtrare dal ministero della Difesa, chiarendo che «nessun indebolimento è stato apportato al dispositivo Mare Sicuro». Semmai, continuano sempre dal ministero, il 17 luglio — quindi quando ancora la crisi era nell’aria ma non ufficialmente aperta — la ministra Trenta ha inviato al capo di Stato maggiore della difesa Enzo Vecchiarelli una lettera in cui tra l’altro «si dispone di intensificare le attività di polizia marittima». Lettera ribaltata, nel suo significato, dal Viminale, che a questo punto fa circolare anche la risposta del 19 luglio: «Corre l’obbligo di trasmetterti la preoccupazione — scriveva il capo di Gabinetto del Viminale al suo omologo della Difesa — che l’ipotizzato incremento del pattugliamento aeromarittimo in acque internazionali possa fungere da fattore di attrazione per le partenze dalle coste libiche». Così si arriva ad agosto. Per la Difesa le novità additate da Salvini sarebbero in realtà solo modifiche assolutamente non sostanziali, solo definizioni — contenimento, contrasto, dissuasione — che non implicherebbero cambiamenti numerici delle missioni, né di uomini né di mezzi. Ma la polemica è ormai accesa e investe anche l’Open Arms e la Spagna: «Nave spagnola, Ong spagnola — scrive il Viminale —: è corretta la decisione del governo Sanchez di inviare una nave militare verso l’Italia, la linea dura ha pagato nonostante i dubbi del premier e di alcuni ministri, ora Madrid si faccia carico anche degli sbarcati».

Da Ansa.it il 21 agosto 2019. "Caro Matteo, il tuo tentativo di screditare non solo me ma l'intera Difesa è inqualificabile". Comincia così il duro post del ministro Elisabetta Trenta nei confronti del vicepremier e ministro dell'Interno, Matteo Salvini, nel quale gli ricorda "che le istituzioni non sono le nostre e che noi diamo solo l'indirizzo". "Impara a rispettare il ruolo delle istituzioni e a non appropriartene", la conclusione. In una lettera - datata 19 luglio e di cui l'ANSA ha preso visione - del capo di Gabinetto del Viminale al suo omologo della Difesa si legge: "Mi corre l'obbligo di trasmetterti la preoccupazione, condivisa anche dalle Forze di polizia competenti, che l'ipotizzato incremento del pattugliamento aeromarittimo in acque internazionali possa fungere da fattore di attrazione, piuttosto che di deterrenza, per le partenze dalle coste libiche, qualora non risulti consolidata la possibilità di sbarchi in quel Paese". "Un conto è contestare l'utilizzo delle navi militari come veri e propri taxi del mare al servizio delle Ong (da qui l'esigenza di un approccio diverso, sollecitato dal ministero dell'Interno), un altro modificare il tipo di attività delle navi della Marina", sottolineano fonti del Viminale, spiegando che "il cambiamento voluto dalla Difesa non c'entra con le indicazioni del ministero dell'Interno. La Trenta ha addirittura fatto accompagnare la Open Arms verso l'Italia". Fonti dello Stato Maggiore della Difesa "rassicurano" sul fatto che "nulla cambia per quanto riguarda compiti e struttura dell'operazione Mare Sicuro rispetto a quanto disposto in sede di Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica ". Così le fonti dello Stato Maggiore - che coordina Mare Sicuro - replica a quanto sostenuto dal ministro dell'interno Matteo Salvini.

Tutti i fallimenti della Trenta: così ha messo a rischio la Difesa. Il ministro ha usato i militari per combattere la sua battaglia sui migranti e contro Salvini: ma l'Italia ora rischia grosso. Lorenzo Vita, Giovedì 22/08/2019 su Il Giornale. Mai come in queste ultime settimane il ministero della Difesa è stato al centro di uno dei più importanti scontri politici in seno a un governo. Da una parte Matteo Salvini, leader della Lega e ministro dell'Interno, che ha da subito individuato nel dicastero delle forze armate uno dei pilastri su cui costruire la sua strategia politica (in particolare sul tema migranti). Dall'altra parte il ministro, Elisabetta Trenta, che in questi 14 mesi di governo gialloverde - e in particolare negli ultimi - ha spesso suonato la carica trasformandosi nell'anti-Salvini. In colei che, da titolare della Difesa, avrebbe potuto frenare le velleità del capo del Viminale. Partendo proprio dal contrasto all'immigrazione clandestina e imponendo un'altra visione della gestione dei flussi che aveva nella rotta del Mediterraneo centrale un vero e proprio campo di battaglia tra Movimento 5 Stelle e Lega. Ma limitarsi all'immigrazione sarebbe un grave errore per comprendere gli errori compiuti in questi mesi dal ministro Trenta. Ed anzi, forse è proprio questo collegamento tra Difesa e flussi migratori che può essere preso come punto di partenza per comprendere dove ha il ministro ha fallito: ovvero cercare a qualsiasi costo di dare delle Forze armate non un'immagine di strumento dello Stato per difendere gli interessi nazionali dentro e fuori i nostri confini, ma come una sorta di protezione civile più o meno armata votata a fare altro rispetto a quanto la stessa Costituzione richiede. No, non è retorica: è una vera e propria linea strategica. Il ministro Trenta, al pari del suo predecessore Roberta Pinotti, ha ben chiaro il concetto di "dual use", che da qualche tempo viene agitato nei settori della Difesa come se fosse una sorta di bandiera del politicamente corretto. Un duplice uso delle Forze armate che però nel tempo, almeno nell'immagine che voleva dare la Trenta, sembrava dovesse essere rovesciato. Più protezione civile, meno forze di mare, aria e terra, la Difesa ha avviato quel processo di svilimento che l'ha portata ad avere quale ruolo primario quello di diventare non solo strumento di propaganda politica, ma anche quello di svolgere compiti del tutto diversi dai reali obiettivi. Un "tradimento" degli scopi delle Forze armate che però racchiude il vero grande problema di questo mandato: l'aver piegato esercito, marina e aeronautica al politicamente corretto evitando però di parlare degli scopi reali dei nostri uomini in armi. Mentre il ministro si è dedicato al tema dell'inclusione come bandiera del 2 giugno, alla politica migratoria, alle battaglie sui sindacati militari fino all'epico scontro con il Viminale, c'è dall'altro lato una Difesa che deve rispondere in maniera netta ai tanti punti interrogativi del nostro secolo. Che non sono banali e che di certo non riceveranno risposte con arcobaleni e post sui social network. C'è da capire cosa l'Italia farà dagli F-35. Un contratto che i Cinque Stelle sembra non vogliano rispettare, ma che di fatto sta incrinando i rapporti tra il nostro Paese e gli Stati Uniti e che rischia di vederci esclusi da importanti operazioni in ambito Nato. C'è un problema di missioni all'estero: cosa farne? Dalla Difesa tutto tace. Eppure dagli Stati Uniti hanno già reso palese il fatto di volere l'Italia in Siria, così come hanno chiesto un aumento delle spese militari in ambito Nato. I nostri militari sono a Misurata, in Libia, mentre le bombe cadono vicino all'ospedale da campo in cui operano. Ma la Trenta è apparsa sempre più impegnata a osservare quanto accadeva a al largo di Lampedusa, ma non sembra esserci stato lo stesso impegno mediatico nei confronti dei nostri uomini impegnati nei più remoti angoli del mondo a tutelare gli interessi nazionali. Ci sono diverse crisi in atto: dalla Libia al Medio Oriente, ma il ministro tace mentre parla di migranti e di Salvini. E ci sono tutta una serie di questioni aperte sui finanziamenti alla nostra difesa di cui al governo sembra che nessuno (in sede pentastellata) voglia realmente parlare. Ci sono i contratti, i fondi da destinare ai sistemi missilistici, dossier anche bollenti che riguardano l'intelligence così come la nostra partecipazione ad altrio programmi europei e atlantici. Ma i Cinque Stelle hanno sempre pensato ad altro. A una Difesa politicamente corretta e del politicamente corretto. Una concezione figlia di quel pacifismo che ha da sempre contraddistinto di 5 Stelle e che si è manifestato in tutta la sua assurdità con le parole del premier Giuseppe Conte, che il 17 maggio, spiegava a tutti di aver rinunciato all'acquisto di cinque nuovi fucili per finanziare una borsa di studio di "Leader for Peace". Un gesto pericoloso non tanto nel concreto, quanto nell'idea: perché quel facile non rappresenta un'arma in mano a un criminale, ma uno strumento che serve ai nostri soldati per tutelare la nostra comunità.

Pietro Senaldi va in controtendenza: "Perché Matteo Salvini si è salvato". Il suo nuovo punto di forza. Libero Quotidiano il 21 Agosto 2019. Alla fine Salvini si è salvato (almeno la faccia). Ha ritrovato orgoglio, coerenza e lucidità e ha vinto il duello dialettico con il premier in Senato. Il capo della Lega ha smesso il linguaggio politichese che lo aveva accompagnato nei giorni più difficili della crisi ed è tornato alla semplicità per spiegare perché si è imbarcato nell' avventura kamikaze di far cadere un esecutivo, di cui era socio forte, senza avere i numeri per restare in sella e dando anzi ai nemici del Pd la possibilità di tornare in gioco, alleandosi con i Cinquestelle. Matteo ha detto chiaro e tondo che non ne poteva più di governare con i grillini, e almeno su questo c' è da capirlo. Pensava di non avere più margini di crescita né di lavoro e ha cercato una via per andare al voto, chiedendo agli italiani di mandarlo a Palazzo Chigi. È stato un azzardo, che probabilmente non andrà in porto, ma anche un gesto di coraggio, dignità e coerenza politica. È legittimo, nessuno può obbligarti a governare con chi non ti aggrada più. Le polemiche sul fatto che il leghista avrebbe dovuto aprire la crisi due mesi fa sono acqua fresca: M5S e Pd avrebbero provato comunque a impapocchiare un esecutivo che consentisse loro di non andare a casa. La necessità di non votare in autunno inoltrato per fare prima la manovra è una scusa, smontata in Senato dal leghista, che si è detto disposto a un governo di scopo che vari la finanziaria prima di andare alle urne. Salvini vuole realizzare il suo programma, cambiare le regole dell' Europa, abbassare le tasse in deficit, come sta facendo Macron, e guidare un governo di destra, con «i bambini che hanno un papà e una mamma» e «gli immigrati che arrivano solo se hanno le carte in regola». Per farlo, ha bisogno di passare dalle elezioni anticipate, perché Conte e M5S non glielo consentono. Il primo gioca da tempo una partita personale tra l' Europa, Prodi, Mattarella e il Pd. Il secondo non è più un partito bensì un esercito allo sbando.

PRONTO A PERDERE TUTTO. Questo ha detto ieri in Senato il leader della Lega davanti a un Di Maio paralizzato dal terrore e a un Conte stizzito perché il ministro osava replicare alla sua requisitoria. Non ha aggiunto, ma è implicito, che, per andare a votare, contava sul fatto che Zingaretti controllasse il partito di cui è segretario e che Renzi gli ha sfilato senza che il fratello di Montalbano neppure provasse ad arrestarlo. Siccome è pronto ad andare a casa e perdere tutto, il ministro dell' Interno è apparso più credibile del premier, che si è dimesso ma già pensa a come tornare. Conte ha usato il proprio discorso per insultare in ogni modo Salvini, senza spiegare come mai, visto che gli sta così sul gozzo, voleva governarci ancora insieme, e per candidarsi a guidare un esecutivo di garanzia, del quale ha illustrato un vago programma: tanta Europa, altrettanti immigrati, molta retorica e si salvi chi può. Il premier si è smarcato anche dai grillini, che ormai non ritiene al suo livello, e si è messo nelle mani di Mattarella, in attesa della grazia. Arrivato a Palazzo Chigi per accordi di palazzo, il professore di Volturara Appula spera di restarci allo stesso modo, cambiando solo gli sponsor.

MACCHÉ DITTATORE. È possibile che il ministro dell' Interno dopo questo agosto di lavoro, volontario per lui e forzato per tutti gli altri, si ritrovi con un pugno di mosche in mano e la necessità di dover ripartire. Nel caso, avrà un punto di forza: molti suoi estimatori non hanno capito perché Matteo abbia ucciso il governo e non avrebbero fatto questa scelta. Però per tanti leghisti liberarsi dei grillini e restare soli equivale a togliersi una camicia sporca e infilarsene una pulita. Si avverte frescura, che è comunque un buon viatico. Questa crisi pirotecnica è servita almeno a far cadere il falso mito di un Salvini novello dittatore. Primo perché è il solo che, con la Meloni, vuole portare l' Italia al voto. Secondo perché, se non ci saranno le urne, avremo un governo Pd-M5S, certo costituzionale ma anche non eletto e per nulla popolare, visto che la maggioranza dei cittadini vorrebbe le elezioni. Anche l' esecutivo gialloverde non era stato eletto, ma almeno era figlio di un' alleanza tra il partito più votato e quello arrivato primo nella coalizione più votata. Sempre meglio della combinazione che ci si prospetta tra i grillini, i grandi sconfitti alle Europee, e i renziani, la componente battuta del partito più perdente del 4 marzo 2018. La beffa è che questi aspiranti ribaltonisti privi di specchi continuano a parlare di allarme democratico. Già si sentono accuse di sovversione a Salvini perché vuol scendere in piazza contro l'ammucchiata giallorossa. Per quelli che amano farsi chiamare democratici, solo la sinistra può protestare e fare cortei. Pietro Senaldi

Grazie Salvini, grazie… Alessandro Bertirotti il 17 agosto 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… contro effetti. Penso che il ministro Matteo Salvini abbia fatto qualche errore ultimamente, come presentare una mozione di sfiducia al proprio governo, in un momento che forse non era proprio il più adatto. Avrebbe dovuto ascoltare Giorgetti. Comunque, non è questa la riflessione che vorrei proporVi. Grazie a questa situazione, e per questo motivo ringrazio anche lo stesso ministro Salvini, ho l’impressione che la partecipazione alla vita democratica della nostra nazione da parte dei suoi cittadini sia decisamente aumentata. Io sono relativamente molto presente nei social, e noto una forte ed emotiva risposta alle situazioni politiche da parte delle persone che mi seguono, escluso gli amici con i quali sono in contatto quasi quotidiano. Ma interessante è constatare come molte persone, anonime e palesemente sprovvedute, puerili e decisamente ignoranti (per quanto riguarda la conoscenza e il “sapere”) si cimentino in giudizi sociologici e politici quasi in concorrenza con la creatività della nostra magistratura. Grazie a questo tipo di comunicazione politica (ad opera dei nostri stessi parlamentari), tutti si sentono in grado di poter discutere di tutto e su tutto, autorizzati quindi ad esprimere giudizi a dir poco ridicoli, senza la minima conoscenza, per esempio, delle procedure parlamentari della nostra nazione. Ora tutti si sentono italiani oppure antitaliani, quando nella loro vita quotidiana rimangono sostanzialmente anonime e silenziose persone, ai margini di qualsiasi considerazione civica, spesso senza aver mai parlato di politica nella loro vita. Bene, sono contento che si siano risvegliate. Certo, sarebbe meglio cercare anche di informarsi con maggior scrupolo e studiare qualche cosa di diritto costituzionale, prima di azzardarsi ad imitare De Gasperi. Ma queste sono le conseguenze del modo attuale di fare politica, che è diventato sinonimo di “continua propaganda”. Giuseppe Conte che scrive la lettera, indirizzata a Salvini, sul proprio profilo Facebook fa una mossa intelligente, dal punto di vista comunicazionale, ma che testimonia anche una debolezza cognitiva, di cui peraltro risente tutta la società italiana. Eppure, il premier ha avuto molti  lettori, like e commenti. Per quanto riguarda gli esponenti della cosiddetta opposizione democratica, leggo solo ciò che scrive Calenda, per riflettere e Renzi (assieme a Del Rio) per verificare lo stato della sceneggiata delle nuove comiche rosa nostrane. Non mi pronuncio sui cinque stelle: penso sia meglio, perché stanno facendo tutto loro, sia campagna elettorale (a perdere, ovviamente…) che la tragicommedia delle povere vittime. Ma tutto ciò ha una sua valenza positiva. Serve all’idea di farci credere che possiamo partecipare alla vita democratica e politica del nostro Paese, quando si tratta solo di strategia politica. Più o meno consapevole, e più o meno deleteria per tutti noi, praticamente una farsa. Ma lo vedremo presto, col sopraggiungere dell’autunno.

Elevata pressione fiscale e burocrazia stanno uccidendo le imprese italiane. Andrea Pasini il 21 Agosto 2019 su Il Giornale. Gli eroi della nostra quotidianità si chiamano imprenditori che tutti i giorni portano a termine missioni ben più impossibili di qualsiasi agente 007. I loro nemici sono molteplici: una burocrazia pachidermica, tasse che hanno ormai raggiunto livelli vessatori, leggi che invece che facilitare la creazione di un ambiente di lavoro sereno creano sempre più difficoltà. E gli imprenditori non possono nemmeno contare su qualcuno. Nel mondo reale non ci sono aiutanti come Robin Hood e lo Stato, che dovrebbe calzare la parte, rimane inerte e non è ancora riuscito concretamente ad incidere su un taglio netto delle tasse. La pressione fiscale per le imprese ha ormai superato il 60%. Una percentuale così alta che lo Stato si può definire socio di maggioranza di ogni azienda italiana. Un socio che gode degli utili fino a che l’azienda è sana e che l’abbandona non appena questa si trova in difficoltà. Un socio che per saziare le sue pretese utilizza l’Agenzia delle entrate con le sue cartelle esattoriali. Forse se nella nostra storia fatta da buoni e cattivi dovessimo identificare la nemesi del nostro eroe questo sarebbe proprio lo Stato, con parte della sua classe dirigente. E lo sta dicendo una persona che a parte tutto nutre molto rispetto verso le istituzioni e lo Stato. Credo però, sia doveroso visto il profondo rispetto che ripongo per lo Stato e le sue Istituzioni segnalare che la questione dell’attuale pressione fiscale e della burocrazia mantenute così come sono, stanno uccidendo giorno dopo giorno le imprese e l’economia del nostro Paese. Centinaia di aziende abbassano le serrande quotidianamente. Migliaia di posti di lavoro vengono persi. Negli ultimi anni nessuno e ribadisco nessuno sia che si parli di destra, sinistra o qualche movimento vario a parte Matteo Salvini, ha fatto la sua parte. Il Leader della lega ha proposto la Flat Tax e cioè una tassa fissa al 15%. Nessuno ha dato sostegno alle imprese. Nessuno ha ridato all’imprenditore quella dignità che si trova spesso a compromettere a causa di forze maggiori. Io Andrea Pasini sono un giovane imprenditore di Trezzano Sul Naviglio non per meriti personali, ma grazie ai molteplici sacrifici della mia famiglia che dopo decenni ha creato una azienda sana con 50 dipendenti e devo dire con molta trasparenza che viene sempre più difficile avere ancora fiducia in una classe dirigente che obbliga gli imprenditori a fare sacrifici e mai sacrifica se stessa per il bene altrui. Nessuno come un imprenditore sa cosa sia la rinuncia, la fatica e la voglia di riscatto. Chi rimane incollato alla sua poltrona non sente certo il bisogno di dare una scossa al Paese; non ne capisce l’importanza, la necessità. L’eroe non è qualcuno che siede nella sua gabbia dorata e osserva stancamente il mondo che crolla attorno a lui. L’eroe è colui che nonostante tutto cerca fino all’ultimo di rimanere in piedi. L’imprenditore lo fa tutti i giorni, in una lotta contro tutto e tutti perché crede nel cambiamento e comprende l’importanza del duro lavoro. Ma può farcela da solo? La risposta è no! No non può farcela, serve che lo Stato faccia la sua parte. Serve che la politica come correttamente ha proposto il leader della Lega Matteo Salvini faccia la sua parte e dia un taglio netto alle tasse. Solo cosi gli imprenditori potrebbero investire i soldi risparmiati nelle proprie aziende facendole crescere e creando occupazione. 

Alessandro Sallusti svergogna il Pd: "Quando parliamo di quel partito, non sappiamo a chi riferirci". Libero Quotidiano il 21 Agosto 2019. Alessandro Sallusti lancia l'ennesima bastonata al Partito Democratico. Ospite a In Onda, su La7, il direttore del Giornale ha commentato la situazione dopo la crisi di governo annunciata da Salvini: "Sergio Mattarella fa bene a rifiutarsi di rimanere invischiato nelle tattiche, ma c'è un problema di fondo: quando parliamo del Pd non sappiamo a chi riferirci". La frecciatina è palese, Sallusti fa riferimento ai due volti opposti del partito: da una parte Nicola Zingaretti, colui alla segreteria del partito, e Matteo Renzi, il piddino che detiene i gruppi parlamentari. Insomma, è un vero braccio di ferro. 

Vittorio Sgarbi demolisce Francesco Boccia: "Il Pd se si allea con i disperati, è condannato in eterno". Libero Quotidiano il 21 Agosto 2019. "L'iperbole dell'amico Boccia nel definire un partito che non esiste un grande partito. Un grande partito è un partito che ha una tradizione, un passato, una storia, una cultura e delle idee". Vittorio Sgarbi non lascia scampo ai Cinque Stelle. E ancora, a Stasera Italia: "Il partito di cui sta parlando lui ha soltanto un grosso numero di parlamentari che sono stati eletti un una fase di euforia contro Renzi e forse contro la destra, che li ha portati ad essere duecento. Il loro valore reale non supera i quaranta. Il dato delle Europee è un dato politico che li vede al 17 per cento come i sondaggi li vedono sotto al 10 per cento". "Ora che il Pd - che è un grande partito - voglia mettersi insieme a un gruppo di disperati che non faranno più nulla, lo trovo inquietante. È il tentativo di sopravvivere per la paura di perdere. È meglio perdere eliminando i Cinque Stelle per sempre che governare con loro per essere poi costretti alla dannazione eterna". 

Arresti, scandali, flop La sinistra miracolata che torna al potere. Il Pd è ai minimi storici e bersagliato dalle inchieste penali. E il M5s lo rimette in sella.  Fabrizio Boschi giovedì 22/08/2019 su Il Giornale. Era, quasi, ovvio che un governo innaturale e forzato producesse una crisi insolita e bizzarra come questa. È, quasi, ovvio anche che un Movimento indefinibile, in cui militano anche tanti ex comunisti (vedi Fico e Di Battista), lasciato dal suo subdolo amante verdognolo, si faccia sedurre dallo spasimante rosso, smanioso di tornare al potere con un Renzi sornione che tenta goffamente di riprendersi la scena. Risulta meno ovvio adesso, anzi è addirittura ai confini della realtà, che lo spasimante rosso, cacciato a pedate da Palazzo Chigi nel 2016, crivellato dai colpi di decine di inchieste giudiziarie, affossato da una sequela di brucianti sconfitte elettorali che lo hanno portato a perdere oltre 6 milioni di voti dal 2014 ad oggi, rischi perfino di rientrare dalla finestra. E tutto questo grazie al «capolavoro» agostano almanaccato da Salvini. Si sono scambiati insulti irripetibili per dieci lunghi anni, rimpallati colpe e responsabilità, giocando a scemo e più scemo, in una eterna lotta a suon di querele. Ma adesso che in palio ci sono le poltrone, non si farebbero scrupoli a mettersi insieme per governare almeno fino al 2022, cioè all'elezione del presidente della Repubblica. D'altronde questa è l'Italia. «Come si cambia per non morire», cantava Fiorella Mannoia. Eppure è lo stesso Pd dello scandalo sanità in Umbria che ha fatto saltare la testa del partito, e indagare la governatrice Catiuscia Marini, con la farsa delle dimissioni presentate, ritirate e poi ripresentante. Lo stesso Pd che ha subito una sconfitta storica in Basilicata, Regione che governava da 25 anni a seguito dell'arresto del governatore Marcello Pittella per una storiaccia di concorsi truccati, raccomandazioni e sanità usata per arricchire notabili locali del partito nonché loro amici e parenti. È sempre quel Pd che in Puglia ha visto finire sotto inchiesta Michele Emiliano per una vicenda legata al finanziamento delle primarie del Pd, quando il governatore sfidava Renzi e Orlando. È il Pd che in Calabria agonizza schiacciato sotto il peso dell'indagine al presidente Mario Oliverio su presunte irregolarità in due appalti gestiti dalla Regione, e dove in Campania il capo della segreteria del governatore Pd Vincenzo De Luca, Franco Alfieri, ex sindaco di Agropoli, viene indagato per voto di scambio politico mafioso. Senza contare lo tsunami che ha investito la magistratura con le intercettazioni tra Luca Palamara, Cosimo Ferri, Luca Lotti e i membri del Csm. Per arrivare fino al sindaco Pd di Bibbiano, Andrea Carletti, accusato di falso e abuso d'ufficio per la schifosa storia degli abusi sui minori. L'elenco degli indagati dem è sempre più lungo, circa 130, per reati gravi e meno. Ma cosa importa. Meglio loro che il traditore verdognolo. Il Pd ha perso tutte le ultime sei tornate elettorali: alle recenti Amministrative lascia 40 Comuni, tra i quali roccaforti come Ferrara, Forlì, Biella, Siena, Pisa e Massa. Battuto anche nelle Regionali in Sardegna, Molise, Abruzzo, Sicilia, Friuli Venezia Giulia e nelle Province di Bolzano e Trento. Perso il 28,8% dei voti in cinque anni (-2,486 milioni di consensi), il 49,1% (-5,932 milioni) in dieci. I dem hanno perso alle recenti Europee circa 121mila voti rispetto alle Politiche del 4 marzo 2018. Per non parlare del confronto con le Europee 2014: il Pd ottenne addirittura 6 milioni e 28mila voti in più rispetto al 26 maggio 2019. E questo sarebbe il partito e i dirigenti che si meriterebbero di tornare a governare il Paese. Qui sì che ci sarebbe da invocare il Sacro cuore di Maria.

Giulio Tremonti e il golpe finanziario, verità 8 anni dopo. La lettera, euro ricatto: "Vi facciamo fallire". Libero Quotidiano il 22 Agosto 2019. A 8 anni di distanza, Giulio Tremonti torna sulla "lettera della Bce" inviata il 5 agosto 2011 al governo italiano snodo cruciale del "golpe finanziario" che portò in autunno alla caduta di Silvio Berlusconi. Con una lettera a Italia Oggi, l'ex ministro dell'Economia puntualizza la questione delle clausole di salvaguardia e dell'aumento dell'Iva che sarebbe stato introdotto proprio da quell'esecutivo. "Quella clausola così introdotta era totalmente priva di valore giuridico non producendo effetti vincolanti e specifici (come è invece stato dopo per le altre e vere clausole) esaurendosi nella forma di un impegno politico-programmatico  - spiega il professore -. Impegno che tra l'altro era a sua volta subordinato all'ipotesi del non verificarsi degli effetti della manovra impostata dal Governo italiano". A svilupparla "scientificamente", con valore giuridico-vincolante, furono invece il governo di Mario Monti e quelli successivi. Ma il focus di Tremonti è sulla lettera speditagli da Francoforte, che l'ex ministro definisce un "ricatto": "Se non fate quello che vi consigliamo non compriamo titoli del debito pubblico italiano causandone il default". Da qui, conclude Tremonti, la necessità di varare il "decreto di Ferragosto" e quella clausola introdotta "solo a seguito della successiva e strumentale insistenza europea". 

LA VERITÀ DI TREMONTI. Lettera di Giulio Tremonti a Dagospia il 26 agosto 2019. Caro Dago: dato che in varie forme e termini la storia delle “clausole IVA” torna e ritorna più o meno alterata rispetto al drammatico contesto in cui ha avuto inizio – 8 anni fa – nell’estate del 2011- ti chiedo ospitalità per quanto segue:

a) nelle Considerazioni Finali della Banca d’Italia dette dal Governatore Draghi il 31 maggio del 2011 era scritto tra l’altro quanto segue: “La gestione del pubblico bilancio è stata prudente…le correzioni necessarie in Italia sono inferiori a quelle necessarie negli altri paesi dell’Unione europea”. Ancora più positivo fu il giudizio espresso in giugno dal Consiglio europeo;

b) dato che i conti pubblici di un grande paese non possono variare in negativo ed addirittura drammaticamente in pochi giorni, è ragionevole porsi qualche domanda su quanto è stato il 5 di agosto quando BCE/Banca d’Italia hanno inviato al Governo della Repubblica Italiana una lettera contenente la richiesta ultimativa di fortissime “correzioni” di bilancio pena – in caso di risposta non tempestiva (entro l’8 di agosto) – la minaccia di mandare in default il debito pubblico italiano. In uno scenario normale sono i Governi che non devono minacciare la Banca Centrale, nel caso era la Banca Centrale che violando ogni regola minacciava un Governo!

c) quale la ragione di tutto questo? Era una ragione che torna ad essere drammaticamente evidente in questi giorni: la strutturale risalente e permanente crisi delle grandi banche tedesche (e francesi). Allora la crisi era sui crediti verso la Grecia. L’avere iniettato allora 200 miliardi di “aiuti europei” per le perdite sulla Grecia non è stato evidentemente sufficiente (c’erano già anche a latere i derivati!);

d) nella primavera del 2011 fu ipotizzato l’utilizzo del “Fondo Salva Stati” (suggerito dall’Italia nel 2008) per salvare non solo gli stati ma anche le banche. Il Governo italiano pose la condizione che il contributo al Fondo in caso di utilizzo per salvataggi bancari non fosse calcolato in base al PIL (come giusto per la funzione Salva Stati) ma calcolato sul rischio bancario: Germania e Francia erano a rischio sulla Grecia per 200 miliardi, l’Italia per 20!

e) la soluzione proposta all’Italia determinò reazioni negative fortissime non solo perché aumentava esponenzialmente l’onere a carico dei pubblici bilanci tedesco e francese ma anche perché evidenziava l’effettiva origine della crisi che non era tanto connessa alle finanze pubbliche avendo piuttosto causa in una profonda crisi del sistema bancario, crisi che non si voleva assolutamente evidenziare (e che ancora a lungo e per le stesse ragioni ancora si tende a nascondere);

f) è in quanto sopra che si trova l’origine prima degli sberleffi recitati in televisione da una coppia di leader europei in conferenza stampa, quanto dal parallelo altrimenti ingiustificato scatenarsi degli spread contro l’Italia;

g) per evitare il default minacciato con la lettera del 5 agosto il Governo della Repubblica Italiana emanò il “Decreto di Ferragosto”. La stampa internazionale lo definì “perfect”. In realtà, dato tutto quanto sopra, il Decreto non fu comunque sufficiente per bloccare la pressione politica necessaria per forzare l’Italia verso l’ipotesi di un abnorme finanziamento del “Fondo Salva Banche”! La “clausola di salvaguardia” non è stata dunque un’invenzione italiana, ma una imposizione europea. Tuttavia con una specifica, una differenza tra quanto è stato nell’agosto del 2011 e quanto è poi avvenuto negli 8 anni successivi;

h) nella formulazione iniziale (agosto-settembre 2008) l’adempimento alla clausola-imposizione era assolutamente programmatico e generico e comunque subordinato all’ipotesi del non raggiungimento di altri e vasti obiettivi di bilancio. Alla larga nel testo si ipotizzava infatti nel caso denegato di un insufficiente raggiungimento di questi obiettivi una “possibile rimodulazione delle tax expenditures o delle aliquote delle imposte indirette incluse le accise o l’IVA”;

i) nell’ottobre-novembre del 2011 il Governo entrò in crisi interrompendo la sua azione di finanza pubblica. E’ solo con il primo Decreto del Governo Monti che appare la clausola IVA come è poi stata iterata nei lunghi 8 anni successivi. Una serie di clausole vincolanti e cifrate per importi e date. E’ del resto poi forse il caso di ricordare che oltre ad avere importato dall’Europa e montata in loco una clausola IVA di tipo imperativo, come da allora così ancora, uno dei primi atti del Governo Monti fu quello per cui il Governo italiano consentì il calcolo del contributo italiano al “Fondo Salva Banche” non in base al rischio, ma in base al PIL così che la crisi rispetto alla quale l’Italia era totalmente estranea (si rileggano le citate Considerazioni Finali) fu prima addebitata all’Italia come se si trattasse di una crisi della finanza pubblica italiana per poi essere – per beffa - messa sul conto dell’Italia gravandola – in aggiunta alle clausole - per un importo assolutamente spropositato.

Breve storia della crisi. Antonio Angelini il 25 agosto 2019 su Il Giornale. Voglio raccontare la mia interpretazione su come nasce la crisi di governo. Fissiamo dei paletti iniziali:

1) Questo governo nasce con 3 partiti che trovano una quadra . Il Movimento 5 stelle con il doppio dei voti della LEGA , la Lega che si stacca dalla alleanza elettorale con Forza Italia e FDI e il partito del Presidente della Repubblica che è il terzo convitato di pietra nel tavolo del Governo gialloverde. Il convitato di pietra inserisce almeno 2 ministri importantissimi , Tria al MEF e Moavero agli esteri oltre a vietare a Savona il MEF. La dimostrazione che sul MEF il Presidente della Repubblica non si fida nè della Lega nè dei 5 stelle è che le deleghe ai sottosegretari di Tria vengono date ad APRILE 2019 (RIPETO APRILE 2019), un anno dopo le elezioni (vi pare normale?).

2) Questo governo nasce come un governo di rottura e contestazione del sistema imperante , dominato dalla Unione Europea che impone agli stati non solo le regole generali (il 3% ad esempio) , ma anche delle ulteriori restrizioni in materia economica sempre più stringenti (3 % diventa 1.8% ad esempio). Quindi per essere un governo di rottura rispetto al passato , i due alleati Giallo e Verde dovranno essere molto coesi per non farsi limitare in maniera eccessiva dal terzo che è la garanzia UE (Tria – Mattarella-Moavero).

Cronologia:

A mano a mano che il governo va avanti , i 5 stelle perdono consenso a favore delle Lega. D’ altronde si sono presi anche i ministeri più complicati, soprattutto in un periodo di congiuntura economica non favorevole.

Fino a Gennaio tutto bene, il decreto dignità voluto da Di Maio e la finanziaria vengono varati. Flat tax per partite iva sino a 65.000 euro (LEGA) e Reddito di Cittadinanza (M5S) le novità più importanti che erano la realizzazione (parziale ) delle promesse elettorali. Cito Alberto Bagnai sul primo problema sorto tra Conte e LEGA : “sull’oro di Bankitalia lei da avvocato del popolo si è trasformato in avvocato di Bankitalia (proprietà verso gestione)”. La Lega tenta di ribadire che l’ Oro è del POPOLO Italiano e non di Bankitalia che lo custodisce . Conte non è d’ accordo (primo strappo).

A Maggio si arriva alle elezioni europee e durante la campagna elettorale , i 5 stelle iniziano a sparare ad alzo zero contro l’ alleato di governo. Salvini tenta di salvare la alleanza contro il parere di alcuni dei suoi che invece vorrebbero la crisi subito, visto l’ atteggiamento di Toninelli, Trenta e molti altri esponenti di spicco. Salvini salva il governo adducendo questi attacchi al bisogno assoluto del 5 stelle di diversificare la offerta elettorale rispetto alla LEGA per poter risalire nelle percentuali (non servirà). Su questo stesso blog , auspicavo un rimpasto di governo con Trenta , Costa e Toninelli sostituiti con ministri Lega oppure anche con altri 5 stelle ma più attenti a non pestare i calli a Salvini almeno sul tema principe , quello della immigrazione. Tutto questo non avviene. E inizio a sentire puzza di bruciato. Perchè Salvini con il doppio dei voti del 5 stelle , avendo vinto tutte le elezioni regionali , non vuole incassare almeno la testa di qualche nemico interno al governo? Dopo le elezioni le provocazioni continuano. Dobbiamo chiederci perchè. Se io fossi a capo del M5S e NON avessi un piano B , mi guarderei bene dal provocare Salvini , che avendo incassato il doppio dei miei voti alle elezioni europee non ha chiesto nessun ministro in più o altro. A meno che non ci sia già un piano B , Salvini lo subdori o lo sappia e per questo cerchi di non provocare l’ alleato per non far saltare il governo , ben sapendo che in caso di crisi di governo , il 5 Stelle troverà un’ altra sponda invece di andare ad elezioni dove incasserebbe una sconfitta terrificante. Ed ecco spiegato il motivo per il quale le provocazioni del 5 stelle non terminano con la campagna elettorale ma proseguono continue. (non dimentichiamo anche il video di Conte con la Merkel nel quale Conte di fatto molla Salvini.

15 giugno e successivi : Tria attacca la LEGA sui Minibot , iniziano le schermaglie Borghi-TRIA. Ricordiamo che i MINIBOT sono nel contratto di governo e che il PARLAMENTO ha votato all’ unanimità una mozione a favore dei MINIBOT. Avevo previsto in un articolo di molto tempo fa che i MINIBOT sarebbero stati il momento di massima tensione tra UE (Draghi-Tria – Mattarella) e la LEGA.

Il 15 luglio la Van Der Leyen (quella che Shauble accusava di essere una estremista nei confronti della GRECIA) e fedelissima della MERKEL, viene eletta Presidente della Commissione UE con voto segreto. Viene salvata dall’ impallinamento (dei franchi tiratori socialisti?) proprio dai 15 voti 5Stelle. Alla fine ce la farà per soli 9 voti. Alla faccia del partito di rottura!! Immaginate che stracci sarebbero volati in UE se la Van Der Leyen fosse stata impallinata dai franchi tiratori socialisti. Invece grazie ai voti 5 stelle che salvano dal tracollo le vecchie alleanze , in UE viene organizzato un “cordone sanitario” che impedisce alla LEGA qualunque accesso a qualunque presidenza o vicepresidenza, invece Castaldo 5 stelle viene confermato (contro ogni prassi) vicepresidente del Parlamento UE. Inizialmente i 5 stelle farfugliano che non si erano resi conto di poter essere decisivi ma la prova del tradimento dello spirito antisistema del governo gialloverde ce lo fornisce proprio Giuseppe Conte durante la crisi di governo :
Il 26 di luglio si arriva al redde rationem. Tria dichiara che rispetteranno gli ordini di Bruxelles e i limiti fissati dalla UE, e che la finanziaria sarà all’ 1.6% . Claudio Borghi attacca Tria e i 5 stelle subito lo difendono a spada tratta. Nella Lega ormai tutti hanno capito che il ” Governo del cambiamento” non è più tale. E’ un governo genuflesso ai diktat UE almeno per 2 terzi. E si apre la crisi di governo. Salvini aspetta solo alcuni giorni per non dare un vantaggio tattico alla nuova alleanza PD -5 stelle. Così facendo ed aprendo a crisi a metà Agosto , i 5 stelle e il PD dovranno trovare l’ accordo in pochi giorni e facendo una giravolta talmente veloce che si sputtaneranno davanti ai rispettivi elettorati. Se ce la faranno bene, Salvini dall’opposizione potrà sparare ad alzo zero contro un governo di poltrone e sopravvivenza. Se invece non ce la faranno, tanto meglio, si andrà ad elezioni oppure ad una riedizione del governo gialloverde depurato da Conte e Tria. Ma Salvini non era disposto ad intestarsi una manovra economica dettata dalla UE. Unici alleati di Salvini : Zingaretti e il tempo. Ultima finestra di voto il 3 novembre e quindi poco tempo per far digerire all’ elettorato 5 stelle la infame alleanza con il nemico di sempre PD e viceversa.

24 Agosto: Tusk loda Conte per la sua lealtà alla Unione Europea. Capito che razza di ” governo del cambiamento”? si fa già il nome di Conte per prossimo commissario UE in quota italiana in caso di accordo PD -5 stelle. Ecco perchè il governo con Conte premier non era più possibile per la LEGA.

Ipotesi incredibile di scenario finale.

E se La LEGA avesse saputo che una decina di Senatori gruppo misto e/o 5 stelle per non siano disposti a votare la fiducia al Senato ad un governo PD -5 stelle ? Non ne ho notizia ma ci spero. Ho fatto un po’ di conti e vi prego di correggermi se avessi sbagliato i conteggi . 5 stelle + autonomie + misto = totale 171 senatori (esclusi quelli a vita). Maggioranza 158 . Gianluigi Paragone (schiena dritta) ha già fatto sapere che non voterà la fiducia ad un governo PD – 5 stelle. Quindi siamo a 170 . Una maggioranza in un sistema di bicameralismo perfetto deve avere almeno 4-5 parlamentari di margine altrimenti rischia di andare sotto sempre. basterebbero 5 senatori per rendere un governo impossibile , con 12 addirittura farlo andare sotto matematicamente il giorno della fiducia. Sarebbe il trionfo e la apoteosi per Salvini. Tutta ITALIA a osannare le doti di stratega e a votarlo. So che è solo un sogno di fantapolitica , ma sognare non costa nulla. E se anche fossero solo 5 o 6 basterebbe che si facesse sapere in giro, e Mattarella non credo darebbe il mandato ai PD -5 stelle con maggioranza così risicata in uno dei due rami del parlamento (meno male che non è passata la riforma costituzionale Renzi ).

Congiura (europea) contro Salvini. Andrea Indini il 26 agosto 2019 su Il Giornale. C’è una data, il 16 luglio, che va tenuta bene a mente per capire la crisi di governo che ha portato alle dimissioni di Giuseppe Conte da Palazzo Chigi. Certo, a rompere è stato Matteo Salvini facendo presentare dai suoi uomini una mozione di sfiducia contro il presidente del Consiglio, ma il ministro dell’Interno si è di fatto trovato “stritolato” tra congiuranti che stavano già preparando l’inciucio giallorosso. Non stupisce, infatti, che Romano Prodi, massimo supporter italiano di un’Europa anti sovranista, si sia speso in prima persona per un’intesa tra il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico. Il tutto per arginare l’avanzata della Lega che, a fine luglio, era data dai sondaggisti a un passo dal 40%.

Ma proviamo a mettere in fila alcune date. E partiamo dal 16 luglio, quando Ursula von der Leyen viene eletta presidente della Commissione europea con 383 voti a favore, 327 voti contrari e 22 astensioni. Non si tratta di un nome qualunque, ma di una vera e propria propagazione di Angela Merkel. Iscritta alla Cdu dal 1990, è stata ministro per vari portafogli in tutti i governi presieduti dalla cancelliera tedesca. La sua elezione è lo scacco matto di Berlino al termine di una partita giocata al fianco di Emmanuel Macron per spaccare il blocco sovranista in Europa. Ovviamente, in quell’occasione, la Lega vota contro. Inaspettatamente, però, il Movimento 5 Stelle si schiera a sostegno della von der Leyen vantandosi addirittura di essere “ago della bilancia” per la sua elezione. Quell’appoggio viene letto da alcuni leghisti come un “complotto”. O meglio: una congiura per frenare l’avanzata sovranista in Italia. Col senno del poi, ci vedono giusto. Il Russiagate all’italiana risale, infatti, a una manciata di giorni prima. Il 10 luglio Buzzfeed, un sito americano già criticato per aver dato voce a fake news sui rapporti tra Donald Trump e Vladimir Putin, rilancia un audio “rubato” all’hotel Metropol di Moscain cui si mercanteggiano forniture energetiche in cambio di un sostegno (economico) alla Lega. Già in quell’occasione gli uomini di Nicola Zingaretti in Parlamento trovano nel presidente della Camera, Roberto Fico, il sostegno necessario per accelerare l’informativa di Salvini in Aula su questi presunti (e finora mai dimostrati) finanziamenti russi al Carroccio. E ancora: giocando di sponda con Bruxelles, il ministro dell’Economia Giovanni Tria osteggia ferocemente la riforma fiscale auspicata da Salvini. Un periodaccio per la tenuta dell’alleanza gialloverde. Che, infatti, non regge più. Il casus belli è la mozione contro la Tav votata dai Cinque Stelle il 7 agosto. Non appena Salvini fa saltare il banco, Prodi si fa portavoce del partito del non voto auspicando per il nuovo governo una coalizione “Ursula”, formata cioè da quelle forze politiche che hanno contribuito a far eleggere la von der Leyen. In un editoriale pubblicato ieri sul Messaggero ammette candidamente che le cancellerie europee “hanno espresso l’auspicio che si possa creare una nuova alleanza in grado di aprire un dialogo costruttivo con l’Unione europea“. Quello che chiedono a Bruxelles è, insomma, un esecutivo europeista che pieghi la testa ai diktat di Francia e Germania. Proprio come è stato fatto da Mario Monti in poi. In cambio, come rivela oggi il Financial Times, i funzionari europei stanno già lavorando a una riforma delle regole sul debito pubblico. Per il momento si tratta solo di un “brainstorming tecnico”, ma la coincidenza è piuttosto preoccupante. Tanto che molti analisti intravedono in questa mossa “un assist alla formazione di un governo M5s-Pd”. Dietro alle pressioni delle lobby europeiste, le segreterie dei singoli partiti stanno cercando di fare i conti con i sondaggi. Sanno tutti che un esecutivo giallorosso è una scommessa a perdere. Prima o poi gli italiani dovranno tornare a votare e allora il conto verrà presentato.

DAGONOTA il 26 agosto 2019. Non se ne sono accorti in molti, per lo meno da noi, ma l’altro ieri l’avvocato e banchiere Jerome Powell, governatore della Fed, la banca centrale Usa (uno degli uomini più potenti del mondo, temuto dallo stesso Trump: "Chi è il più grande nostro nemico, Powell o Xi"), nel suo attesissimo discorso a Jackson Hole, annuale vertice dei governatori delle banche centrali mondiali, ha citato sorprendentemente anche la crisi politica italiana tra le grandi cause di instabilità dell’economia mondiale. ‘’Abbiamo trovato ulteriori prove di un rallentamento globale, soprattutto in Germania e Cina. Eventi geopolitici hanno dominato le news, inclusa la possibilità di una hard Brexit, le crescenti tensioni a Hong Kong e la dissoluzione del governo italiano”. Il potere mondiale, quello vero, quello che non sempre si riesce a percepire immediatamente, guarda all’Italia e gioca le sue carte che pesano molto di più di una bella cenetta a casa di Vincenzo Spadafora, attovagliati Di Maio e Zingaretti. Del resto, il Gattosardo Cossiga ha sempre sottolineato che il Potere, con la P maiuscola, non è quello visibile sui giornali e in televisione ma è costituito da abili e spietati e riservatissimi burattinai che tirano le file delle marionette che impazzano nei talk, meri pupazzi che si agitano a comando. Ecco: per tentar di comprendere la scellerata situazione italiana, bisogna tentare di capire perché tra i tanti disfacimenti che stanno scombussolando il mondo, il governatore della Fed ha aggiunto la crisi de’ noantri, perfino più rilevante del Medio Oriente, Iran compresa. E sorge spontanea la domanda: quanto pesano e stanno pesando le pressioni internazionali sia di qua che di là dell‘oceano, sul tentativo di giubilazione di Salvini, dopo l’ancora imperscrutabile auto-esclusione dal suo governo “giallo-verde”? Quello che è certo è che negli ultimi tempi il Capitone le ha sbagliate tutte fuori dai confini: troppo amico di Putin pur volendo rimanere filo Trump (un errore già fatto da Berlusconi che ancora se ne pente), troppo amico della Marine Le Pen (inimicandosi Macron), troppo anti Ue (e il voto anti Ursula von der Leyen vale come un calcio nel sedere della Merkel, mentre Conte votava a favore), troppo amico della Curia romana che vede come un diavolo Bergoglio (e oggi su ‘’La Stampa’’, padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, autorevole braccio destro del Papa, attacca Salvini (“da verde è diventato nero”) e auspica un governo PD-M5S (“Stanno percorrendo la strada giusta”. Amen). Se in campo internazionale Salvini non ne ha azzeccata una, rendendosi inaffidabile sia per Putin sia per Trump e odioso per l’UE, in casa ha dovuto assaggiare le conseguenze dei poteri forti europei con la sportellata ricevuta in faccia al Senato, dove era convintissimo, dopo vari colloqui riservati con gli sherpa di Zingaretti, che il PD avrebbe votato la sfiducia al premier Conte, liberandosi così della zavorra renziana che controlla i gruppi parlamentari. Invece Salvini, pur armato di rosario, davanti alla rinculata del PD, ha fatto la figura di un ciuccio incapace di usare il pallottoliere. Tutto vero. Tutte scelte erronee o imperscrutabili: ma quanto hanno pesato le pressioni del Colle e del Deep State (e soprattutto dei potenti dell’UE), della comunità finanziaria internazionale sull’atteggiamento di Zinga di sbarrare la strada al Truce verso il trionfo attraverso le elezioni anticipate? Una presa di potere che avrebbe portato il leader leghista a decidere il successore di Mattarella (2022) e a gestire ad aprile 2020 le nomine delle uniche importanti aziende che sono rimaste in Italia, quelle di Stato (Eni, Enel, Poste, Terna, Fincantieri/Leonardo). Ma quello che non viene assolutamente perdonato all’improvvisato Dj del Papeete di Milano Marittima è il suo atteggiamento anti europeo, in un contesto di pesante conflitto internazionale tra Usa, Cina e Russia. Mentre sono scomparsi di colpo il Grillo del Vaffa e i DI Maio/Di Battista a braccetto con i Gilet Gialli in gita verso il parlamento di Bruxelles, con Giuseppe Conte subito arruolato nelle file di Merkel e Macron manco fosse un Mario Monti. E trasformato subito da “avvocato del popolo” in paladino della costituzione italiana e delle regole europee. Sentite un po’ che pigiamino di saliva ha confezionato il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, in una conferenza stampa a Biarritz, prima dell'apertura del G7: "Il presidente Giuseppe Conte è stato uno dei migliori esempi di lealtà in Europa. È sempre difficile difendere gli interessi nazionali e trovare soluzioni europee ma su di lui posso dire soltanto cose positive. E poi ha un gran senso dell'umorismo". Manca la devozione a Padre Pio, ma non si può avere tutto. Del resto, fin dalle prime mosse l’azzimato Avvocato del Popolo, capello neroasfaltato e pochette bianca, fece subito capire, tenendo per sé le deleghe dei Servizi Segreti, di avere alle spalle qualcuno che la sapeva lunga sulla gestione del Potere. E qui bisognerebbe aver tempo per indagare sull’influenza (eufemismo) della capitolina Link University di Vincenzo Scotti, crocevia di forze internazionali. O forse anche della rete forense che proteggeva il giovane ambizioso avvocato di Foggia (e anche qui’ bisognerebbe avere tempo di indagare sulla influenza (ulteriore eufemismo) dello studio dell’avvocato Alpa con fili sotterranei che portano in ogni stanza (finanche a quelle strettamente renziane). E così, al primo vero errore politico compiuto dal Truce, quello di fidarsi di Zinga, tutti i suoi nemici del Deep State internazionale gliela stanno facendo pagare. A questo punto al Capitone/Capitan Fracassa, per non rischiare di farsi del male (direbbe Riina), conviene immediatamente lasciare da parte l’idea di elezioni anticipate e tentare un disperato ritorno con le penne abbassate dai 5Stelle. Oppure starsene buono all’opposizione, trovarsi un buon diplomatico che rimetta subito in sesto i rapporti internazionali della Lega e ricostruire lentamente una nuova classe dirigente più credibile e più adeguata al governo di una nazione che ad un Bar Sport. Infine, Salvini deve capire bene che il Potere, quello vero, non sta tra Milano Marittima e le piazze più o meno piene di gente ma vive in altri ambienti e con altri rapporti, ambientini fini che non fanno prigionieri (chiedere delucidazioni a Silvio Berlusconi). Da un lato. Dall’altro, Di Maio e compagnucci sono pregati di non confondere la stanza dei bottoni con le cene in casa Spadafora.

Marco Antonellis per Dagospia il 29 Agosto 2019. Qualcuno lo aspettava da giorni, altri invece non ci credevano che sarebbe giunto, ma alla fine ha superato, nei toni e nei contenuti, persino le richieste di quelli che lo avevano sollecitato. Perché nulla nel deep state accade per caso. Si parla del tweet di Trump a sostegno di "Giuseppi" Conte. Mai nella storia della Repubblica Italiana da De Gasperi in poi, un Presidente USA era intervenuto così esplicitamente in una crisi di Governo a sostegno di un probabile Premier incaricato. Chi l’ha voluto e sollecitato? Chi era spaventato dalle elezioni anticipate? Chi era preoccupato da Salvini premier con i “pieni poteri”?

Perché un Presidente USA di destra sostiene la nascita di un Governo che avrà la fiducia anche dalla sinistra-sinistra?

Per provare a capire dobbiamo dapprima riavvolgere il nastro a partire dall’ 8 Agosto cioè da quando Salvini ha comunicato la sua intenzione di porre fine al Governo giallo-verde, con una  breve premessa. La premessa riguarda il contesto internazionale in cui la Lega ha aperto la crisi di Governo per provare a delineare le forze (il deep state) che si sono mosse inizialmente guardando con sconcerto a questa decisione improvvisa di Salvini, poi comprendendo che si era creata  un’opportunità per ridurre il rischio Italia sui mercati finanziari, sulle alleanze internazionali (Usa) sulla UE. Va altresì sottolineato che al momento oltre 12.000 miliardi di dollari di debito hanno rendimento inferiore a zero e sono pari a quasi il 25% dell’indice Bloomberg Barclays Global Aggregate Bond. Il 31 luglio  la Federal Reserve annuncia il taglio di un quarto di punto dei tassi per i rischi di una crescita globale debole e una politica commerciale incerta. Il segnale era chiaro, il capo della banca centrale più potente del Mondo, del Paese che da solo fa circa un quarto del PIL Mondiale, dice che ci sono nubi in arrivo e forse temporali. Ma nonostante questo chiaro segnale l’8 Agosto alle ore 20.00 Salvini annuncia la sfiducia a Conte chiedendo le elezioni, puntando a trasformare il consenso dei sondaggi in voti e quindi prendere la guida del Paese. Il 14 Agosto il giorno in cui la conferenza dei Capigruppo decide di mettere in agenda il 20 agosto il dibattito sulla sfiducia, dalla Germania arrivava la notizia che il PIL era tornato negativo che la produzione industriale cinese rallentava scendendo ai minimi dal 2002 e i titoli di Stato statunitensi davano segnali preoccupanti sullo stato di salute dell’economia USA, ma Salvini confermava ulteriormente la sfiducia a Conte preparandosi al dibattito parlamentare. Sempre il 14 Agosto il tasso pagato dai treasuries statunitensi a dieci anni scendeva al di sotto di quello dei titoli a due anni il che significa che la propensione al rischio degli investitori è crollata; l’ultima volta in cui si è verificata una simile inversione è stato nel giugno del 2007, quando la crisi dei mutui sub-prime si stava intensificando (la curva dei rendimenti Usa si è invertita prima di ogni recessione da 50 anni a questa parte e soltanto in un caso si è trattato di falso allarme). Intanto Dagospia, una tranquilla domenica mattina d'agosto, "avvertiva" il Capitano ("Francia e Germania in campo con un obiettivo comune: neutralizzare Matteo Salvini") e spiegava  i movimenti internazionali che si stavano verificando alle sue spalle (persino in Vaticano) scoperchiando cosi il vaso di pandora. Il leader leghista capiva al volo e la sera stessa dal palco della Versiliana lanciava per la prima volta il suo grido d'allarme sul fronte "internazionale" che si era coagulato contro di lui. Ma ormai per il Capitano è tardi. Il 20 Agosto Conte (che da quando è stato nominato da Grillo "elevato" è "de facto" il vero leader del Movimento 5 Stelle spodestando Luigi Di Maio) sceglieva di dimettersi comunque, nonostante la Lega avesse ritirato la mozione di sfiducia e mandato svariati segnali di voler fare retromarcia. Ma il dado ormai è tratto. Anche i grillini lo hanno ufficialmente abbandonato, scegliendo il "sistema", abbandonando per sempre il ribellismo e la fase rivoluzionaria. Per Salvini è l'inizio della fine. Il 23 Agosto  Jerome Hayden "Jay" Powel alla annuale riunone del Federal Open Market Commitee nella conferenza stampa finale afferma: “We have seen further evidence of a global slowdown, notably in Germany and China. Geopolitical events have been much in the news, including the growing possibility of a hard Brexit, rising tensions in Hong Kong, and the dissolution of the Italian government”. “Abbiamo rilevato ulteriori prove di un rallentamento globale, in particolare in Germania e Cina. Gli eventi geopolitici che pesano sono molti, tra cui la crescente possibilità di una forte Brexit, l'aumento delle tensioni a Hong Kong e lo scioglimento del Governo Italiano". Il presidente della Banca Centrale della più grande economia del Mondo è preoccupato della strada che sta prendendo l’Italia (per colpa di Salvini). Così oltre al deep state italiano si sono mossi tutti gli apparati finanziari, le cancellerie e quelli che hanno tante cartelline in archivio. Insomma, il deep state mondiale; ed in soli 4 giorni quello che pareva impossibile (defenestrare Salvini) si trasforma in progetto per il futuro e tutto cambia, anche sui media. Infine il 27 Agosto Trump twitta: “Starting to look good for the highly respected Prime Minister of the Italian Republic, Giuseppe Conte. Represented Italy powerfully at the G-7. Loves his Country greatly & works well with the USA. A very talented man who will hopefully remain Prime Minister!”. La Lega ed il suo segretario con la conquista del potere in Italia (e gli effetti destabilizzanti che ne sarebbero scaturiti dentro e fuori il Belpaese) avrebbero potuto mettere in forse anche la possibile (e per molti probabile) vittoria elettorale di Trump alle prossime presidenziali del 2020. Perché Trump se vincerà, vincerà sulla ripresa dell’economia interna ed ha ora la necessità di stabilizzare la crescita, riducendo le incertezze che agitano il mondo (Italia compresa); in questo senso vanno lette le dichiarazioni distensive verso l’Iran, la Cina e Hong Kong. Trump twittando il sostegno a Giuseppi, ha fatto una scelta sovranista: prima l'America non l'Italia (di Salvini). Dopotutto, sovranista grande mangia sovranista piccolo!

Antonio Signorini per ''il Giornale'' il 29 Agosto 2019. Il minimo storico significa che nemmeno andando a pescare i rendimenti dei Btp prima della crisi finanziaria dello scorso decennio si troveranno livelli così bassi come quello registrato ieri. È stata una giornata particolare per il principale titolo di Stato italiano. In discesa fin dalla mattina, per un po' è stato scambiato sotto l' 1%, a 0,98%, poi ha chiuso all' 1,03%.

Un livello poco più alto era stato raggiunto nel 2016. Non è un rendimento negativo, come quello della Germania, ma è comunque un record per l' obbligazione legata al quarto debito pubblico più alto del mondo, emesso da uno Stato finito nel mirino dei mercati più volte negli ultimi anni. Giù anche lo spread, cioè la differenza tra il rendimento del Btp e quello del Bund tedesco, che ieri si è attesto a 172 punti base. In questo caso è lo stesso livello del maggio 2018. E già questo è un indizio di cosa sia successo. E di che aria tiri «Good news from Italy!» ha scritto infatti su Twitter il ministro delle Finanze tedesco, Peter Altmaier, commentando l' annuncio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di conferire domani mattina l' incarico di presidente del Consiglio a Giuseppe Conte. Da una parte i mercati hanno «festeggiato» un evento tutto italiano, l' avvicinarsi dell' intesa su una maggioranza Pd/M5s che garantirà la permanenza del Paese nell' aerea Euro. Dall' altro, i Btp hanno beneficiato del rally mondiale che riguarda le obbligazioni, in particolare quelle pubbliche. Gli investitori a caccia di bond si sono orientati su quelli italiani che hanno un rendimento più alto della media e sono garantiti da un Paese che fa parte dell' Ue. Tra gli elementi che hanno favorito lo sprint finale, anche il tweet di martedì Donald Trump in sostegno del premier incaricato Giuseppe Conte. «Benedizione» che «molti hanno interpretato come una conferma ufficiosa della nascita del nuovo esecutivo», rimarca Giuseppe Sersale, Strategist di Anthilia Capital Partners Sgr.

Tra gli elementi esterni che hanno favorito i Btp italiani c' è anche il nuovo corso della Bce. Non solo una conferma delle scelte passate del presidente in uscita Mario Draghi, ma un rafforzamento della politica espansiva, con la prospettiva in settembre, quando sarà in carica Christine Lagarde, di un taglio dei tassi e un nuovo Quantitative easing. In sostanza, la Bce acquisterà ove necessario titoli di Stato. Poi le anticipazioni sulle scelte della nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. In primo luogo l' allentamento dei vincoli di bilancio. Sicuramente a beneficio della Germania, ma anche dell' Italia. Sarebbero comunque soldi spesi in deficit, ma la frenata dei rendimenti comporterà anche risparmi veri e propri grazie alla minore spesa per interessi. Ieri il Tesoro ha collocato Bot semestrali per sei miliardi. Per settembre e ottobre sono in programma altri collocamenti rilevanti. Una boccata di ossigeno per il Tesoro. Anticipata dall' ottimismo mostrato negli ultimi giorni dal ministro dell' Economia uscente Giovanni Tria. Un esordio con il vento in poppa per il nuovo governo, che non rinuncerà a cercare modo per spendere il nuovo tesoretto. Il programma dell' esecutivo gialloverde è fino ad ora solo abbozzato, ma già si parla di un taglio del cuneo fiscale e un allargamento degli 80 euro di Matteo Renzi. Trapela anche l' intenzione di fare deficit fino alla soglia del 3%. Un vecchio desiderio del vicepremier uscente e leader della Lega Matteo Salvini potrebbe diventare il marchio di fabbrica del governo giallo rosso. Difficile che la nuova Commissione, per quanto generosa, possa fare passare una concessione del genere. Facile, anche per un governo che nasce sotto una buona stella, perdere le simpatie degli esordi.

"MEZZO MONDO VUOLE CHE ANDIAMO AL GOVERNO CON IL PD: DAL VATICANO, AL QUIRINALE, A BRUXELLES": PAROLA DI 5STELLE.  Marco Antonellis per Dagospia il 25 agosto 2019. Nel corso del colloquio con Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio avrebbe proposto al segretario dem, per superare il veto su Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, di lasciare al Pd la maggior parte dei ministeri chiave di un eventuale esecutivo con M5s. E' quanto si apprende da qualificate fonti della segreteria del partito democratico. In questo modo, si realizzerebbe quella discontinuità chiesta dal segretario Zingaretti con quasi un monocolore Pd guidato però dal presidente del Consiglio dimissionario. Tutto a posto? Mica tanto. In realtà, secondo autorevolissime fonti pentastellate, si tratterebbe soltanto di un modo da parte del segretario Pd Nicola Zingaretti per preparare il terreno al suo "Si" a Conte Premier. "Di ministri non si è discusso affatto" spiegano "siamo il primo partito in Parlamento e non regaleremo di certo i ministeri chiave". Una cosa sola è sicura: "Mezzo mondo vuole che andiamo al governo con il Pd: dal Vaticano, al Quirinale, a Bruxelles". Non vorremmo essere nei panni di Zingaretti, spiegano le medesime fonti: le pressioni sul segretario Dem per "cedere" su Conte sono fortissime. E non certo da parte dei 5Stelle.

Il patto tra Macron, Merkel e Trump: il governo italiano deciso a Biarritz? Lorenzo Vita su it.insideover.com il 2 settembre 2019. Il presidente del Consiglio italiano è stato deciso a Biarritz? È questo il dubbio che può sorgere unendo tutti i puntini del percorso dell’ultima crisi di governo,m arrivata mentre il premier Giuseppe Conte era impegnato nella riunione del G7 in Francia. Riunito insieme ai grandi della Terra, il capo del governo italiano (dimissionario) ha ricevuto numerosi endorsement da parte dei leader arrivati nella cittadina francese. Ma è soprattutto su tre personalità che bisogna puntare gli occhi: Donald Trump, Emmanuel Macron e Angela Merkel.

La leader tedesca è da sempre interessata alla possibilità che in Italia vi sia un governo fedele alla linea di Bruxelles. L’Unione europea quale moltiplicatore di potenza di Germania (e Franca) è un tratto caratteristico dei governi di Berlino, che considerano da sempre l’Ue quale la struttura attraverso cui costruire la propria potenza regionale. La cancelliera, leader del Partito popolare europeo e soprattutto a capo della superpotenza europea per eccellenza, ha fatto capire in maniera netta di non volere un governo spostato eccessivamente verso l’Atlantico o verso la Russia o un esecutivo che non garantiva l’appartenenza cieca ai vincoli europei. E non è un caso che il retroscena di Repubblica di alcuni giorni fa abbia portato alla luce una telefonata della stessa Merkel a un esponente di alto livello del Partito democratico in cui si chiedeva a gran voce un governo di matrice progressista con l’esclusione dei sovranisti. E con Conte premier. Dello stesso avviso, il presidente francese Emmanuel Macron. Il capo dell’Eliseo, considerato un rivale strategico del governo giallo-verde, vede nella nascita di un esecutivo rosso-giallo uno strumento di tutela degli interessi francesi, dal momento che il Pd ha storicamente ottimi rapporti con l’establishment di Parigi e non ha mai negato la volontà di fermare l’innalzamento dei toni tra Palazzo Chigi e il governo francese. Durante l’esperienza di governo Lega-Movimentano Cinque Stelle, più volte Italia e Francia hanno avuto scontri molto accesi su diversi fronti. Dall’immigrazione agli interessi strategici in Libia fino agli affari industriali, Parigi e Roma si sono viste su fronti contrapposti. E l’asse di Matteo Salvini con Marine Le Pen così come la (ormai conclusa) alleanza tra M5S e gilet gialli avevano manifestato una vera e propria conflittualità tra i due Paesi. In mezzo, Quirinale e Patito democratico, che invece hanno sempre rappresentato i ponti tra i due lati delle Alpi. E l’idea che l’Italia potesse passare da un governo avverso a un governo fondamentalmente in linea con l’Europa a trazione franco-tedesca non può non piacere a Macron ,intenzionato da molto te po a ergersi quale guida dell’Europa in un momento di indebolimento dell’industria tedesca e di fisiologica perdita di leadership della cancelliera tedesca. Amica sì, ma non alleata a tal punto da non pensare a un cambio della guardia nella leadership dell’Unione europea. Infine, Donald Trump. Il tweet del presidente americano con cui è stato espresso l’augurio di vedere ancora Conte presidente del Consiglio è stato interpretato come un endorsement di Trump al governo composto da Movimento 5 Stelle e Pd. Ma la questione è fondamentalmente diversa. Trump, come suggerito anche da personalità vicine alla sua cerchia, non ha espresso un endorsement verso il governo con il Pd, ma, come spiegato su questa testata, un augurio personale nei confronti del premier Conte. Un premier amico che ha sempre fatto capire di avere interesse a mantenere un ottimo rapporto con gli Stati Uniti anche in chiave di apertura alla Russia nel G7, oltre che nel mostrare piena appartenenza all’asse atlantico e condivisione di certi obiettivi strategici americani. Obiettivi di cui fa parte anche l’Europa e il grande fronte del Mediterraneo allargato, dove gli Stati Uniti vogliono risolvere alcune crisi. la prima delle quali è proprio quella dell’Iran. L’Iran è stato al centro del dibattito di Biarritz. E Trump si gioca tutto sulla risoluzione dell’escalation del Golfo Persico. Ma per farlo gli serve l’Europa, e l’Europa significa Francia e Germania. Soprattutto la prima, visto che Macron ha già fatto capire di poter giocare un ruolo di primaria importanza nella definizione dello scontro tra Teheran e Washington. I due presidente hanno parlato a lungo (e da soli) a margine del G7 francese. E quel cinguettio di Trump nei confronti di Conte può essere letto anche come la conclusione, o meglio, la certificazione di un patto. L’amministrazione repubblicana, almeno per il momento, non si metterà contro un esecutivo guidato da un “amico”. E questo, probabilmente, è un conto da pagare per avere Francia e Germania dalla propria parte nelle trattative con l’Iran: il vero scoglio per il governo americano. Uno scoglio che, unito alla guerra dei dazi con la Cina, sarà il vero snodo strategico dei prossimi mesi del governo guidato da The Donald.

VI RACCONTO PERCHE’ SALVINI HA DECISO DI APRIRE LA CRISI. Pietro Senaldi per Libero Quotidiano il 2 settembre 2019. «Salvini non è diventato matto. Chi lo accusa di aver sbagliato, e per fortuna nella Lega sono pochi, non sa nulla della vera storia della crisi. Bisognerebbe avere rispetto e fidarsi di più di un leader che ha preso un partito al 3% e ne ha più che decuplicato i consensi. È stato un miracolo, una cosa mai vista, neppure ai tempi di Bossi. Io già non ci potevo credere l' anno scorso, quando abbiamo preso il 17% e superato Forza Italia. Non dico questo per ingraziarmi Matteo, non ne ho bisogno. Lo penso, il tempo è galantuomo e alla fine di questa storia si dimostrerà che abbiamo fatto bene a rompere con i grillini». L'infervorato discorso arriva da Lorenzo Fontana, ministro in uscita agli Affari europei, per anni quinta colonna di Salvini a Bruxelles, l'uomo che ha presentato al leader leghista Marine Le Pen e ha intrecciato la tela dei rapporti internazionali della Lega, incluso quello con Orbán. «Nel partito, dai ministri agli amministratori sul territorio, non ce n' è uno che fosse contrario a far cadere il governo. Lavorare era diventato impossibile, ci facevano i dispetti, ci attaccavano pubblicamente, erano più aggressivi del Pd».

Ministro, sarà vero, però ora M5S governerà con i Dem e a voi tocca stare alla finestra. Lo dica, siete pentiti?

«No, non era più possibile andare avanti. Tutto è cambiato con la campagna elettorale per le Europee. Il M5S veniva da una serie di sconfitte sul territorio, alle Amministrative. I Cinquestelle erano nervosi, perché sono sempre andati male nei sondaggi per le Europee, mentre noi volavamo. Così hanno iniziato ad attaccarci. Hanno fatto la campagna contro di noi anziché contro il Pd. Poi quando la Lega ha trionfato e loro hanno dimezzato il consenso, non hanno capito più nulla, hanno iniziato a farci i dispetti e a bloccare ogni lavoro. Per far passare il decreto sicurezza abbiamo dovuto mettere la fiducia».

La pensa come Giorgetti: l' unico errore della Lega è stato vincere troppo bene?

«Chi dice che i sovranisti alle Europee hanno perso non la conta del tutto giusta. È vero che la commissaria Ursula Von der Leyen rappresenta la continuità, il solito inciucio tra Germania e Francia, ma ha la maggioranza più fragile della storia Ue e ha avuto bisogno del voto dei grillini per essere eletta. Quello è stato il vero tradimento degli italiani, e l' hanno fatto i Cinquestelle, che fino al giorno prima volevano cambiare l' Europa. Salvini quando ha rotto con il governo non ha tradito, si è semplicemente staccato da chi si era venduto alla sinistra e all' Europa, tradendo i propri elettori».

Noi di Libero abbiamo titolato «Grillini da vergini a escort».

«Il plebiscito di maggio a favore del Carroccio ha spaventato il M5S, che ha avuto paura di sparire, e l' Europa.So come funziona, ai tempi ci provarono anche con me e la Lega. Gli euroburocrati ti telefonano, ti adulano, ti fanno proposte allettanti, e tu o tieni duro o salti sul loro carro. Io ho scelto la prima opzione, i grillini la seconda».

Mi racconti i giorni della crisi. Non si è capito nulla: Salvini prima ha rotto, poi voleva tornare indietro e rimettersi con Di Maio, ora grida al complotto.

«Io ho preparato gli scatoloni già la sera dell' 8 agosto, si sapeva che sarebbe finita così. E lo sapeva anche Matteo».

Davvero? Il capitano non le sembra un po' un pugile bastonato in questi giorni?

«No, è tranquillissimo, ha già voltato pagina. I giorni tesi sono stati quelli della decisione della rottura».

Ma allora perché tutto questo cinema?

«La Lega voleva il voto anticipato. All' inizio eravamo convinti di riuscire a ottenerlo. Avevamo annusato che l' accordo M5S-Pd era nell' aria ma non pensavamo fossero così avanti, abbiamo rotto per interromperlo e poi abbiamo sperato nella tenuta di Di Maio, nella speranza che l' intesa con i dem saltasse. Peraltro sarebbe anche suo interesse».

Allora è vero che avete sbagliato la tempistica?

«No, perché M5S e Pd avrebbero provato a mettersi d' accordo anche se avessimo fatto cadere il governo a maggio. La loro è un' alleanza di poltrone e potere, mica crederà alla balla di Renzi che fanno il governo per senso di responsabilità verso il Paese, per fare la manovra e scongiurare le clausole Iva? Se avessimo rotto tre mesi fa gli avremmo solo dato più tempo per mettersi d' accordo. Così invece devono far tutto in pochi giorni, e infatti stanno litigando come pazzi. Non osiamo sperarci, però».

Anche nei tempi del massimo idillio gialloverde, il veronese Fontana non ha mai amato particolarmente i colleghi di Cinquestelle. Non riusciva a metterli a fuoco, o forse lo ha fatto troppo bene.

«Guardi, io volevo querelarli per gli attacchi che mi hanno fatto in occasione del Congresso Internazionale della Famiglia a Verona, al quale da ministro ho dato il patrocinio. Hanno sparato una serie di calunnie su di me indegne. Non ho sporto denuncia solo perché eravamo al governo insieme e Matteo mi ha chiesto di non farlo, vedo invece che l' alleanza con M5S non impedisce al Pd di non ritirare le loro contro il Movimento su Banca Etruria».

Cattolico tradizionalista, era ministro della Famiglia fino a pochi mesi fa. C' è chi gli attribuisce la responsabilità, o il merito, di aver messo lui il rosario in mano a Matteo. Certamente rispetto a Di Maio e associati ha visioni antitetiche sui temi etici e sull' autonomia.

«Sull' autonomia di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, M5S ci ha preso in giro fin dal primo minuto. La ministra Stefani era fuori dalla grazia di Dio. Io in Veneto avevo molte difficoltà a giustificare il fatto che non si riuscisse ad arrivare all' obiettivo. A un certo punto ho detto a Salvini che avrei guidato una delegazione di tutti i parlamentari leghisti veneti davanti a Palazzo Chigi per protestare».

E Salvini cosa le ha risposto?

«Di portare pazienza che se fosse continuata la stagione dei no, il governo non sarebbe potuto andare avanti».

Non ha avuto il coraggio per non scontentare l' elettorato meridionale?

«Matteo ha un coraggio da leone. Per un anno gli hanno detto di tutto, l' hanno insultato, minacciato, indagato. Ci vogliono le spalle larghe per resistere a tutto questo senza farsi turbare. Ne so qualcosa, dopo le vagonate di letame che mi hanno scaricato addosso per il congresso sulla famiglia.La sinistra accusa Salvini di essere antidemocratico ma poi il loro modo di fare opposizione si basa sulla sistematica e incessante intimidazione, una denigrazione continua, null' altro».

Non mi ha ancora detto come è maturata davvero la decisione di rompere. «Con l' elezione in Europa della Von der Leyen grazie ai grillini abbiamo capito che la Ue aveva comprato politicamente M5S e Conte e Tria non ci avrebbero fatto fare la manovra in deficit che Salvini voleva per tagliare le tasse. Bruxelles ci avrebbe imposto i suoi diktat e condannato alla paralisi, con i conti economici in peggioramento per la congiuntura sfavorevole. Siamo alle porte di una nuova crisi e l' Europa, che come si è visto in Germania l' ha provocata con la sua austerità, voleva darne la colpa alla Lega, impedendole allo stesso tempo ogni politica di spesa e incentivazione dei consumi».

Per questo Salvini grida al complotto internazionale?

«Non può essere un caso che, con la Lega fuori dal governo, improvvisamente l' Europa si dimostri più flessibile con noi. Che cos' è cambiato nei conti? Nulla, sono solo decisioni politiche: Conte ha garantito a Bruxelles che l' Italia resterà sottomessa e dalla Ue arriva la mancia, come ai tempi di Renzi, premiato con l' allargamento dei cordoni della borsa per aver dato via libera all' immigrazione».

Quanto dura il governo M5S-Pd?

«Politicamente l' alleanza degli sconfitti non ha senso, ma la disperazione e la determinazione a non lasciare la poltrona sono un buon collante. Potrebbero durare, sempre che partano, mi auguro ancora che un senso di dignità ed orgoglio risvegli quella parte rivoluzionaria dei 5stelle che voleva veramente il cambiamento. A M5S converrebbe votare».

Ne è convinto?

«Se governano con il Pd i grillini sono morti. Guardi adesso, il loro capo, Di Maio, non conta già nulla, è costretto a mendicare poltrone ministeriali. Con il voto perdono forza in Parlamento, ma sopravvivono. Potrebbero anche arrivare al 20%».

E la Lega, cosa farà?

«Si riparte da Pontida, il 15 settembre, un momento sempre magico. Ci sono tre campagne elettorali fondamentali: Umbria, Emilia-Romagna e Toscana. Se torniamo a vincere, la vedo male per l' alleanza giallorossa».

Ma il centrodestra è unito o no?

«Sta certamente meglio di grillini e dem».

Da Libero Quotidiano l'1 settembre 2019. "Salvini non ne aveva sbagliata una. Aprendo la crisi ha fatto una mossa che reputava giusta, certo un po' azzardata visto che non decide lui se sciogliere le Camere. Ma evidentemente aveva avuto garanzie, voci dicono che avesse sentito Zingaretti e forse anche Renzi e volessero andare al voto: il suo errore è stato fidarsi". A dirlo l'ex segretario della Lega, Roberto Maroni, in un'intervista rilasciata al quotidiano La Stampa, facendo riferimento alla decisione di Matteo Salvini di aprire la crisi di governo. Secondo Maroni la crisi andava gestita diversamente: "Avrei scelto un'altra strada. Dopo le Europee - spiega l'ex leader - e il voto sulla Tav avrei chiesto un Conte bis con la stessa maggioranza ma con la Lega alle Infrastrutture, e magari anche al ministero dell'Economia, nominando Tria commissario Ue". Sull'ipotesi di un governo Pd-Cinquestelle, Maroni sottolinea che, se dovesse nascere, "sarebbe un governo nato casualmente, non per un progetto politico condiviso ma solo per evitare le elezioni, e quindi con una debolezza intrinseca. Paradossalmente - prosegue - rischierebbe di durare tutta la legislatura, proprio per evitare di consegnare l'Italia al nemico Salvini". 

“SALVINI HA COMMESSO UN’INGENUITÀ”. Sandro Neri per “Quotidiano Nazionale – il Giorno” il 6 settembre 2019. "Non è solo una questione numerica: nel nuovo governo il Nord è assente soprattutto dal punto di vista politico. Ma vedo la possibilità che la questione settentrionale, oggi forte come non mai, torni al centro del dibattito. Ci sono tutti gli spazi e le condizioni perché questo avvenga". Roberto Maroni, già segretario federale della Lega Nord e più volte ministro, lancia la palla in campo. E il primo assist è proprio per la squadra giallorossa. "Ho mandato un sms a Lorenzo Guerini, uno dei pochissimi lombardi nel nuovo esecutivo: ‘Mi raccomando, gioca all’attacco, non in difesa’. E parlavo della questione del Nord".

Ne parlava a un esponente del Pd. Cosa le ha risposto?

"Mi ha inviato una risata. Guerini nel nuovo esecutivo si occupa di Difesa, ma è stato sindaco e amministratore. Con l’esperienza che ha può davvero dire la sua sull’autonomia regionale. E credo che lo farà. Anche perché io, da grande sostenitore di questo tema e da promotore del referendum, tornerò a sollecitarlo. È il momento che il Nord faccia sentire la sua voce".

Come? Scendendo in piazza?

"No, io non sono per le barricate. E neppure per la nascita di un nuovo partito. La Lega, questa Lega, va benissimo. Salvini ha cancellato il Nord dal simbolo del movimento, ma non dalla partita politica. Direi che basta iniziare a giocarla. A interloquire".

Con un governo nato contro la Lega di Matteo Salvini?

"La tentazione di considerarlo un governo ostile c’è. Ma proprio perché gli equilibri si sono spostati occorre spingere per il dialogo, interloquire in parlamento. Il luogo più giusto per far valere le istanze dei cittadini".

Dove ha sbagliato Salvini?

"Ha commesso un’ingenuità, l’ha ammesso lui stesso".

Ne avete parlato?

"Ci siamo sentiti nei giorni della crisi. Mi tornava in mente la situazione vissuta alla fine del ‘94, con il ribaltone orchestrato da Umberto Bossi ai tempi del primo governo Berlusconi. Io non ero d’accordo con lui. "Se esci dal governo", gli dicevo, "non potrai ottenere il federalismo. Potrai solo fare la rivoluzione". E alle barricate io preferisco l’attività di governo".

Doveva farlo anche Salvini?

"Matteo, in termini di consenso, è arrivato dove io e Bossi non siamo mai riusciti ad arrivare; poteva fare tutto. Pensavo che, all’indomani della vittoria sulla Tav, avrebbe puntato a rafforzare la sua posizione all’interno del governo. Chiedendo, per cominciare, i ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture per la Lega. Ha fatto una scelta diversa e la situazione è precipitata. Da milanese, non ha considerato i bizantinismi del Rito romano della politica".

Il trionfo della ricetta Maroni su quella sovranista?

"Assolutamente no. Ognuno ha il suo stile e il mio è diverso da quello di Salvini. Il fatto che non si siano raggiunti i risultati sperati avrà conseguenze. Ma io non sono in cerca di rivincite. Mi appassiona la politica e oggi la seguo da osservatore".

La leadership del Capitano è in discussione?

"Lui ha tentato di far sposare due istanze: quella del Nord e quella del Sud. Ma non c’è riuscito. Perché – ormai lo ammette anche Francesco Boccia – ci sono due Italie e quella settentrionale continua a chiedere di essere ascoltata. Non vedo una crisi nella Lega. L’insofferenza non è nella base del movimento, ma nella classe imprenditoriale, nei ceti produttivi. Il mondo economico, per sua natura, non è pregiudizialmente avverso ad alcun governo. Quello che è mancato finora è stato il confronto. Questo esecutivo non può prescinderne. La flat tax può essere una risposta, l’autonomia delle Regioni pure".

È ottimista?

"Sono certo che qualcosa succederà. Con la Lega al governo bastava attendere con fiducia; oggi c’è un grande punto interrogativo. Sul fronte del governo c’è un’inversione di tendenza. Non tanto perché Francesco Boccia, ministro degli Affari Regionali, sia del Pd, quanto perché è pugliese. E quindi, per quanto capace, lontano dalle richieste del Nord. Però sento istanze di nordismo. E dalla Lega mi aspetto che, senza tornare al vecchio simbolo, si recuperino almeno le suggestioni nordiste".

Cosa resterà delle politiche leghiste sulla sicurezza e l’immigrazione?

"Conosco il nuovo ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, con cui ho avuto modo di collaborare quand’ero al Viminale e poi in Regione Lombardia. L’ho chiamata, mi è sembrata emozionata. Le faccio tanti auguri perché il suo è un compito difficile. Sono certo, da superprefetto quale è, che saprà gestire i problemi della sicurezza con saggezza, prudenza e determinazione".

VE LO DICO IO PERCHÉ SALVINI HA FATTO CADERE TUTTO. Alberto Bagnai per il suo blog l'8 settembre 2019. Pur essendo il primo partito della coalizione uscita vincente dalle elezioni politiche del 4 marzo 2018, la Lega non ha ricevuto l'incarico di tentare di formare un Governo. Questo diniego, indipendentemente dalle sue motivazioni e dal loro fondamento, ha dato luogo alla crisi più lunga nella storia della Repubblica: 88 giorni. Durante tutta questa crisi la Lega ha mantenuto un profilo costruttivo e leale, rinunciando a propri candidati alla presidenza delle Camere e attendendo un via libera dagli alleati di coalizione prima di intavolare discussioni con il M5S, uscito come maggiore singolo partito dalle elezioni. Queste discussioni hanno riguardato contenuti programmatici, non nomi, e sono durate quasi un mese, approdando a un documento formale, il Contratto per il Governo del cambiamento, sottoposto all'approvazione delle rispettive basi elettorali. È stato accettato un Presidente del Consiglio, presentatosi come "avvocato difensore del popolo italiano", che avrebbe dovuto essere di garanzia e mediazione fra i due partiti della maggioranza (e che certamente offriva sufficienti garanzie all'establishment), ed è stata inoltre recepita la raccomandazione del Presidente della Repubblica di avere un Ministro dell'economia che non desse "un messaggio immediato di allarme per gli operatori economici e finanziari". Pertanto il Ministro dell'Economia e delle Finanze che, stando agli accordi avrebbe dovuto essere proposto dalla Lega, è finito per essere un "tecnico" senza mandato elettorale. Credo di essere l'unico parlamentare che lo conoscesse. Va osservato che nel suo intervento del 27 maggio il Presidente della Repubblica dichiarava di aver nutrito "perplessità sulla circostanza che un governo politico fosse guidato da un presidente non eletto in Parlamento" e di averle poi superate. Si parva licet, perplessità simili potevano essere nutrite anche per un ministro di peso come quello dell'Economia e delle Finanze. Come argomenterò qui di seguito, con alcuni esempi (del contrario, purtroppo!), la natura "tecnica" e non "politica" del ministro Tria avrebbe raccomandato uno sforzo aggiuntivo di coordinamento e condivisione con la parte politica, per verificare che vi fosse sintonia nell'attuazione delle linee programmatiche. D'altra parte, le evidenti contraddizioni di questa ibridazione "tecno-politica" erano state sottolineate fin da subito anche dalla stampa più allineata. Il problema, tuttavia, era più grave di come veniva rappresentato, ed è lì che vanno ricercate le cause profonde della crisi. Per consentirvi di apprezzarle meglio, di capire quali margini di manovra avessimo, interrompo brevemente la mia cronologia per attirare la vostra attenzione su due elementi. Il primo è dato dalle conseguenze dell'accorpamento dei quattro ministeri economici (Finanze, Tesoro, Bilancio e programmazione economica, Partecipazioni statali), avvenuto in tre passi successivi nel corso degli anni '90 e culminato con il D. Lgs. 30 luglio 1999 sulla riforma del Governo. Il nobile intento suppongo fosse quello di risparmiare ed "efficientare". Il risultato è stato una compressione della politica. Dove prima avevamo quattro ministri, dotati di un mandato politico e soggetti a responsabilità politica (ovvero: se qualcosa non va, il Parlamento ti toglie la fiducia e te ne vai...), dopo abbiamo avuto tre funzionari a capo di tre ministeri formalmente declassati a "dipartimenti" (Tesoro, Finanze, Ragioneria dello Stato - corrispondente al vecchio ministero del bilancio), responsabili, in quanto funzionari, solo verso il loro superiore (il ministro del Tesoro) e non soggetti a responsabilità politica (ovvero: se qualcosa non va, resti comunque lì finché non scade il contratto, ferma restando la possibilità, se si insedia un nuovo Governo, di esercitare lo spoils system nei limiti della L. 15 luglio 2002, n. 145 sul riordino della dirigenza statale). Il secondo elemento è la struttura del negoziato in Europa. I non addetti ai lavori possono pensare che questo venga condotto dal Ministro per gli affari europei. Le cose però non stanno così. Il Ministro per gli affari europei è un ministro senza portafoglio a capo del Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei Ministri, un "ministero" che ha funzioni di monitoraggio (ad esempio, segue e trasmette agli organi parlamentari competenti le direttive e i regolamenti prodotti dall'Unione), di coordinamento (ad esempio, coordina nelle varie sedi parlamentari il recepimento delle direttive europee), e soprattutto di gestione del contenzioso (cioè segue le famose procedure di infrazione), ma non entra strettamente nel merito dei vari negoziati, salvo, marginalmente, in quelli aventi per oggetto le politiche del mercato interno. Tutta la "ciccia" del negoziato sui temi veramente rilevanti (in particolare, sull'Unione bancaria), resta di competenza del MEF.

Sintesi: con l'Unione Europea, che è un'espressione economica, negozia il Ministero dell'economia e delle finanze. In quali sedi? In teoria, in una sede formale, il Consiglio dell'Unione Europea, che in ambito economico si chiama Ecofin, e al quale partecipano i ministri competenti, quelli dell'economia. "Quindi - direte voi - su temi rilevanti come l'Unione bancaria o la riforma del Meccanismo europeo di stabilità (MES) il Governo del cambiamento si affidava a un tecnico, il ministro Tria?"

Ecco, le cose stanno peggio di così, per due motivi, uno dei quali vi è già noto: il vero negoziato avviene in una sede informale, l'Eurogruppo, con i problemi evidenziati qui (e in italiano qui). Voi direte: ma che ce ne frega se la sede è formale o informale, questi sono dettagli! Santa ingenuità! Immaginate di essere un parlamentare che sostiene un "governo politico con un ministro tecnico" (parafrasando il Capo dello Stato). Come fate, da parlamentari, a verificare che questo tecnico sia fedele al suo mandato politico se le decisioni vengono prese in riunioni in cui non c'è verbale - per cui non si sa chi ha detto cosa - e non ci sono votazioni formali - per cui non si sa chi è stato favorevole o contrario a cosa? Di fatto, l'Ecofin ratifica le decisioni prese nell'Eurogruppo, che, a loro volta, sono la sintesi dei lavori preparatori condotti nell'Eurogroup working group. Insomma, il lavoro vero, quello sulla zona euro, e più in generale sugli assetti economico-finanziari dell'Unione, si fa nel "gruppo di lavoro sull'Eurogruppo": mi sembra perfettamente logico! Ma c'è un problema: a questo gruppo di lavoro pressoché sconosciuto, che poi è quello che prende le decisioni vere, che definisce i contenuti tecnici degli accordi, chi ci va? Il ministro? No. Il direttore del Dipartimento del Tesoro (un funzionario).

Sintesi delle sintesi, prima di riprendere la cronaca della crisi: per il Governo del cambiamento le decisioni importanti in Europa venivano prese da un funzionario che rispondeva solo a un tecnico. Notate che questo non è un giudizio sulle persone. C'è però un enorme problema di metodo, che, peraltro, anche il Capo dello Stato aveva messo in evidenza, come vi ho sottolineato sopra: in caso di coesistenza di una parte politica e di una parte tecnica, la parte politica ha tutto il diritto di accertarsi che la parte tecnica e quella burocratica siano fedeli all'indirizzo politico che la parte politica esprime in virtù di un mandato ricevuto dal popolo sovrano.

In parole povere: in un ibrido tecno-politico bisognerebbe parlarsi di più, non di meno, e io so di aver dato il buon esempio. Di converso, in un simile contesto ibrido il buon senso dovrebbe suggerire che il ragionamento "queste decisioni incombono al ministro quindi faccio come mi pare", quand'anche sia formalmente corretto, è politicamente scorretto.

Riprendiamo la cronologia...

Tanto perché il buon giorno si vedesse dal mattino, a luglio venivano riconfermati a capo dei dipartimenti economici tre funzionari espressione di una passata stagione politica. Il ministro decideva quindi di non applicare lo spoils system, decisione che può anche avere avuto ottimi motivi (anche la continuità ha i suoi pregi...), ma che non mi risulta venisse particolarmente condivisa con la parte politica (per quel che mi riguarda, è una delle tante cose che ho appreso dai giornali, dopo che per un certo periodo di tempo fonti dei nostri alleati mi avevano indicato che sarebbe stata presa un'altra strada). Certamente non venne condivisa con nessuno, causando qualche problema politico e diplomatico, la successiva decisione del ministro di nominare Domenico Fanizza rappresentante dell'Italia presso il Fondo Monetario Internazionale. Nel breve giro di due mesi si insediavano in importanti sedi negoziali funzionari scelti da un tecnico con condivisione scarsa o nulla con la parte politica, che non aveva potuto in alcun modo verificare la loro consonanza con la rinnovata sensibilità per l'interesse nazionale espressa dal nuovo Parlamento (o almeno dal 17% di esso). Non stupisce quindi che con l'entrata in vigore della nuova legge di bilancio si evidenziassero tensioni con il Ministro dell'Economia, il quale sembrava restio a seguire il mandato delle forze di maggioranza (ad es. sui risarcimenti ai truffati delle banche, impegno comune dei due leader politici). In questo contesto in cui la Lega, ma più in generale la maggioranza, non trovava una collaborazione sufficientemente elastica nell'attuazione della propria agenda economica (per motivi magari anche validi, ma che si sarebbero dovuti condividere), i media, in seguito ai diversi successi nelle elezioni regionali, chiedevano ripetutamente a Matteo Salvini quando avrebbe pensato di "staccare la spina" al Governo per tornare ad elezioni, allo scopo di ottenere una maggioranza più omogenea. Salvini ha sempre risposto in modo pacato e costruttivo, negando di voler capitalizzare opportunisticamente il proprio consenso. I toni sono degenerati rapidamente con l'inizio della campagna elettorale per le elezioni europee. In un momento in cui il nostro principale avversario, il Partito Democratico, si trovava in oggettiva difficoltà a causa di uno scandalo rilevantissimo, quello sulla gestione della sanità in Umbria (l'altro scandalo devastante, quello sulle ingerenze nel Consiglio Superiore della Magistratura, sarebbe esploso subito dopo le elezioni), e in cui, a prescindere da queste considerazioni tattiche, si sarebbe dovuto parlare di Europa, il nostro alleato giocava tutta la sua campagna elettorale su un violento attacco denigratorio alla Lega e a Salvini, culminato in quella che personalmente percepii (e non fui il solo) come una indiscriminata dichiarazione di guerra. Salvini evitava di rispondere agli attacchi, evidenziando solo come in alcuni Ministeri in quota M5S vi fossero atteggiamenti ostruzionistici rispetto a politiche concordate nel contratto di governo. Tuttavia, all'interno dei gruppi parlamentari cresceva la preoccupazione verso certi atteggiamenti, e in particolare verso i riferimenti al lavoro dei magistrati. Questo lavoro, che andrebbe rispettato in primo luogo non strumentalizzandolo, veniva invece invocato esplicitamente come strumento per arginare una crescente perdita di consensi ("votateci perché gli altri non sono onestih..."). Diventava difficile credere che "dopo" sarebbe stato possibile ricominciare a collaborare, indipendentemente dai risultati delle elezioni: se queste fossero state un successo per la Lega, come i sondaggi indicavano, l'azione politica dei nostri alleati sarebbe stata volta a creare problemi a noi (magari per interposta magistratura), più che a risolvere i problemi del Paese...Le elezioni confermarono i sondaggi portando a un successo della Lega e una sconfitta della linea dell'alleato. Si determinava così una situazione, ampiamente discussa nel diritto costituzionale, in cui, in un contesto di democrazia rappresentativa, il Parlamento si trovava a non rappresentare più gli orientamenti politici del corpo elettorale. La situazione era incresciosa anche per un altro motivo. A detta di autorevoli commentatori, il Presidente del Consiglio aveva deciso, verso la fine della campagna elettorale, di deporre la sua terzietà, salendo sul carro dei futuri perdenti (dal quale forse non era mai sceso), e questo oggettivamente rendeva difficile ricomporre le fratture che parole avventate avevano creato. Tuttavia Salvini decideva di mantenere fedeltà all'alleato, nella speranza di ricucire gli strappi, nel frattempo incontrava tutte le parti sociali, trovandole unanimi nel richiedere un importante taglio delle tasse per lavoratori e produttori. Diventava così chiaro a tutti che per danneggiare politicamente Salvini, impedendogli di consolidare il suo consenso, si sarebbero dovuti frapporre ostacoli alla riforma fiscale, invocando in primo luogo il rispetto letterale dei vincoli europei. Nel frattempo, in coerenza con la linea euroscettica, e in dissenso verso il "cordone sanitario" al Parlamento Europeo la Lega non votava la candidata presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, espressione dell'accordo Merkel/Macron. I voti del M5S di rivelavano quindi decisivi a darle la fiducia, quando la Commissione avrebbe potuto subire una immediata e dura battuta d'arresto, che avrebbe potuto indurre un ripensamento serio di un certo approccio, più di tante dichiarazioni su eventuali pugni da sbattere su un tavolo.. che non c'è! Nel frattempo Salvini aumentava la pressione sui tecnici del Governo per ottenere una legge di bilancio espansiva per il 2020 con tanti investimenti e un corposo taglio di tasse, mentre al Presidente del Consiglio e al Ministro dell'Economia veniva dato più volte esplicito mandato formale per bloccare in Unione Europea qualunque riforma del MES che potesse danneggiare l'Italia (ricordiamo che, già all'epoca del governo Monti, l'Italia aveva dovuto sborsare oltre 50 miliardi per questo fondo europeo). In particolare, con la risoluzione del 19 giugno 2019 il Presidente del Consiglio aveva preso l'impegno, poi non onorato, a "render note alle Camere le proposte di modifica al trattato ESM, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato". Più in generale la Lega, sulla base della accresciuta responsabilità derivante dal 34% ottenuto alle europee, sollecitava ripetutamente Presidente del Consiglio e Ministro dell'Economia a condividere e concordare la strategia negoziale in UE e ad mostrare la volontà di impostare una legge di bilancio espansiva e coraggiosa. Nonostante i solleciti, il Presidente del Consiglio chiedeva di non disturbare le trattative e poi sottoscriveva, insieme con il Ministro dell'Economia un impegno con la UE a rinnovata austerità fatta di tagli e riduzione deficit. Parallelamente il Ministro dell'Economia non solo in intervista negava la possibilità a realizzare flat tax, minibot e deficit espansivo, ma nemmeno aggiornava il Parlamento sugli impegni assunti con l'Unione Europea. Il presidente della Commissione Bilancio della Camera e poi lo stesso Salvini criticavano il Ministro dell'Economia per l'opacità delle trattative in Europa e per la resistenza alle necessarie politiche di bilancio espansive, cercando il supporto dell'alleato, che invece chiedeva le coperture per la flat tax e dichiarava incondizionata fiducia nel Presidente del Consiglio e nel Ministro dell'Economia. Si arriva dunque alla crisi, dovuta, come dovrebbe essere ormai chiaro, all'arresto della spinta propulsiva, e anzi alle varie retromarce del Governo soprattutto in tema economico, retromarce che in sede di legge di bilancio avrebbero comunque portato a una rottura, o si sarebbero risolte in un tradimento del patto fra la Lega e i suoi elettori. Il 20 agosto il Presidente del Consiglio dichiara al Senato di dimettersi, rivolgendo a Salvini così tante accuse da chiedersi perché fino ad alcuni giorni prima avesse avallato tutte le proposte del Ministro dell'Interno. Il Presidente della Commissione Finanze del Senato in quelle circostanze sottolineava al Presidente del Consiglio la mancata trasparenza sul negoziato della riforma Meccanismo Europeo di Stabilità. Vista l'espressione della volontà di dimettersi del Presidente del Consiglio, la Lega ritirava la mozione di sfiducia nei suoi confronti, in quanto non più necessaria.

Il resto è storia recentissima: in due sole settimane, i tanto reciprocamente vituperati M5S e PD hanno trovato un accordo su un nuovo Governo che mantiene lo stesso Presidente del Consiglio ma con una diversa maggioranza (caso limite, nell'Italia repubblicana), senza produrre un chiaro e definito equivalente del contratto di Governo 2018, ma solo una ventina di generici punti formulati dai vertici del M5S e sottoposti al PD. Un Governo che si basa su un unico reale punto programmatico forte: impedire al partito di maggioranza relativa di governare il Paese, e, in particolare, blindare con una maggioranza parlamentare "progressista" l'elezione del prossimo Presidente della Repubblica, in un Paese che, in tutta evidenza, sta esprimendo un orientamento politico conservatore. Simili atteggiamenti sono espressione di un teppismo istituzionale che indebolisce importanti organi costituzionali dello Stato. Può benissimo darsi che nei prossimi tre anni l'attuale maggioranza riesca a far piacere agli italiani le politiche che finora non sono piaciute loro, a partire dall'eccessiva subalternità alle logiche europee. Purtroppo queste politiche non piacciono perché sono sbagliate, e nulla lascia presagire che perseverando nell'errore si ottengano risultati positivi. Mi è quindi difficile immaginare fra tre anni un'Italia tutta "bella ciao" e aumenti di imposte (ecologiche, naturalmente!), insomma, un'Italia maggioritariamente e convintamente progressista. Se invece diventasse prevalente l'orientamento politico favorevole alla Lega, la maggioranza degli italiani a quel punto saprebbe che nella partita delle istituzioni l'arbitro parteggia per una squadra: quella che ha perso la partita elettorale, ma vuole a tutti i costi vincere la partita del potere. Insomma: la figura del prossimo Presidente della Repubblica ne uscirebbe gravemente indebolita, con seri danni per tutti. La politica si svolge nel tempo storico e gli scenari controfattuali (cosa sarebbe successo se...) lasciano il tempo che trovano, in virtù del noto principio secondo cui la storia non si fa coi se.

Tuttavia, dal racconto qui svolto, e dai fatti che ho citato, emergono alcuni dati: la volontà di danneggiare Salvini ha spinto la componente "tecnica" del Governo (il cosiddetto "terzo partito") a cercare sponda in Bruxelles per una finanziaria che impedisse a Salvini di mantenere le sue promesse, anche a costo di rovinare il Paese; nelle partite relative alle nomine la componente "tecnica" si è mossa in totale autonomia, e tutto lascia supporre che avrebbe continuato a farlo, dato lo stato di litigiosità della parte politica; più in generale, le dinamiche politiche interne alla maggioranza avevano tolto alla Lega, forza critica e di rottura verso certi assetti costituiti, il necessario sostegno del movimento da molti ritenuto "antisistema" (ma che forse, se dobbiamo giudicare dai risultati, e fatto salvo il travaglio individuale dei tanti colleghi che conosco e apprezzo, oggettivamente non è poi stato così "anti"...). Fra i due litiganti, il terzo partito stava già godendo e avrebbe continuato a godere, e gli italiani a soffrire. Fare chiarezza è stato un passo rischioso ma necessario. Ora sappiamo di aver sostenuto un Governo ad personam, il cui obiettivo era contrastare Salvini. Obiettivo, intendiamoci, assolutamente lecito in democrazia se agito in modo esplicito e all'interno delle regole del dibattito democratico, ma un po' meno apprezzabile se perseguito surrettiziamente e sotto la regia di un primo ministro che a un certo punto aveva smesso di essere terzo, o forse non lo era mai stato: Il 3 giugno 2019 Conte ha sostenuto: “Non mi è stata chiesta alcuna attestazione di fedeltà dal M5S. Non mi sono mai iscritto, sono un indipendente”. Perché allora esulta sguaiatamente per il risultato, il 4 marzo 2018, nella stanza dei capi M5S?!? Valeva comunque la pena di provarci, ma di questo parleremo un'altra volta. Intanto, spero di avervi fatto comprendere meglio perché andare avanti così era, nei fatti e nelle cose, sostanzialmente impossibile.

Vittorio Feltri e la prova a Romeo: "Cari leghisti, non gli ho consigliato io di rompere". Libero Quotidiano il 6 Settembre 2019. Ieri a "L' aria che tira" è scoppiata una polemica a riguardo della caduta del governo giallo-verde. Secondo il capogruppo della Lega, Romeo, io avrei sollecitato Salvini, mediante i miei articoli, ad abbandonare l' alleanza con Di Maio allo scopo di fare chiarezza, visto che M5S si era impegnato a dire no a qualsiasi iniziativa del ministro dell' Interno. Libero non è una caserma ed è logico che vi ferva la discussione tra persone che talvolta la pensano diversamente. Io per esempio desideravo una revisione del contratto e speravo che i grillini fossero così indotti alla rottura. Ma non ho mai spinto Matteo a provocare la crisi. Ve lo dimostro con i fatti, riproponendo oggi un editoriale da me firmato il 10 aprile, quindi in tempi non sospetti, in cui rammentavo che in Parlamento esisteva, purtroppo, una maggioranza alternativa in grado di raccogliere la fiducia, e alludevo a un ipotetico accordo tra Pd e pentastellati. Cosa che poi si è verificata. Quale documento, offro ai lettori la copia del mio pezzo in cui adombro la pericolosità di un eventuale crollo dell' intesa tra Matteo e Gigino. Mi auguro che Myrta Merlino, conduttrice corretta, provveda a informare stamane i suoi ascoltatori e Romeo che non sono stato io a invogliare Alberto da Giussano a sfasciare la baracca.

Qui di seguito l'articolo di aprile citato dal direttore di Libero:

Aumentano coloro che sollecitano Salvini a rompere il sodalizio con 5 Stelle allo scopo - irraggiungibile - di rinnovare in anticipo il Parlamento. Premono adducendo un motivo valido in teoria: dicono che la Lega, soggiacendo alle pretese programmatiche dei grillini, sia destinata a perdere consensi soprattutto da parte di chi ha a cuore l'economia. È vero, i conti dell'Italia piangono e non promettono nulla di buono nel futuro prossimo. Ma c'è un particolare da non sottovalutare: mettiamo che il capo del Carroccio, stanco di soccombere a Di Maio, compia il gesto estremo, mandando al diavolo il governo in carica. Poi cosa accadrebbe? Due opzioni. La prima, auspicata in particolare dagli imprenditori e da molta gente, è che Mattarella decida di sciogliere le Camere e indica nuove elezioni onde verificare gli umori del Paese, secondo i sondaggi assai diversi rispetto a 13 mesi orsono. La seconda, meno ottimistica da un certo punto di vista, è che il Movimento - attualmente detentore a Montecitorio e a Palazzo Madama del 33 per cento - pur di non uscire di scena si aggrappi al Pd che, col proprio 20 per cento - sarebbe in grado di compensare numericamente la dipartita di Alberto da Giussano. Insomma, ragionando aritmeticamente, un ministero sostenuto da 5 Stelle e dai dem starebbe in piedi. Personalmente ritengo che il ministro dell'Interno abbia fatto i nostri stessi calcoli per cui resista a tenere in vita l'alleanza ora operativa al fine di evitare il rischio che i pentastellati e i democratici, per non mollare l'osso del potere, si consorzino sulla base di un contratto inedito e tirino a campare provocando altri e irreparabili danni alla nazione già abbastanza disastrata. Ecco perché non conviene affrettare i tempi e lasciare che la matassa si dipani: occorre comprendere le preoccupazioni del Matteo Lombardo, il quale benché sia con il suo partito in forte crescita, non ha in tasca la certezza di poter licenziare i grillini e di imbastire una maggioranza di centrodestra. Calma e gesso, se non vuoi fare la figura del fesso. Vittorio Feltri

SIAMO SICURI CHE LA LEGA SIA COMPATTA CON IL SUO CAPITANO? Alberto Mattioli per “la Stampa” l'1 settembre 2019. Il repertorio ormai è questo, e Matteo Salvini l'ha ripetuto ieri anche a Pinzolo: il Conte II, se mai si farà, «è una truffa», «nato in provetta a Bruxelles, Parigi e Berlino», e significa per il M5s «una fine triste», mentre per il Pd, ovviamente, gli improperi proprio non bastano. La novità è l' appello al Quirinale. «Presidente Mattarella, basta, metta fine a questo vergognoso mercato delle poltrone, convochi le elezioni e restituisca la parola gli italiani». Il solito ritornello: elezioni subito. Intanto il governatore del Veneto fa marcia indietro. Venerdì, davanti alla folla leghista a Conselve, nel padovano, Luca Zaia aveva evocato «la rivoluzione». Ieri ha rettificato: «Chi mi conosce sa che quando parlo di rivoluzione intendo la rivoluzione della democrazia», per fortuna. Fin qui le posizioni ufficiali. Ma la crisi qualche strascico dentro la Lega lo sta lasciando. La decisione di far cadere il governo non la contesta nessuno, a partire dai ministri che ne facevano parte, tutti molto più pro-crisi di Salvini e da più tempo. Modi e tempi danno però fiato a chi denuncia una gestione troppo verticistica del partito. Al ricco florilegio di neologismi leghisti si aggiunge così quello dei «sommergibilisti». Sono i dirigenti che, sott' acqua, contestano la gestione Salvini, pronti a emergere se, per miracolo, il governo giallorosé dovesse durare e costringere la Lega a una lunga traversata del deserto. Finora allo scoperto è venuto solo il capo dichiarato dell' opposizione interna, Gianni Fava (14% al congresso del '13), ma i sommergibilisti sono convinti di essere più numerosi. «Nessuno contesta la leadership di Salvini. Il cerchio magico che lo circonda, sì. Un gruppo di yesman che gli dicono sempre di sì e gli hanno fatto perdere il contatto con la realtà», accusa un parlamentare. Nessuno, si diceva, per ora ci mette la faccia ed è quindi difficile quantificare la fronda, e soprattutto qualificarla. L' ex segretario Maroni non ne fa parte, ma al Nord (al Sud il partito non è leghista, è salviniano) i frondisti sarebbero parecchi. C' è addirittura chi evoca una scissione prima delle urne, che tutti danno per scontate in primavera, dato che nessuno crede che il nuovo governo durerà. I sommergibilisti comunicano messagiandosi su Telegram. «Ironia della sorte, è un social ideato da un russo», ride uno dei partecipanti alle chat. Per il momento, il lavorio è tutto sotterraneo, anzi subacqueo. «Non ci credo. Non siamo alla fine di un' epoca, come negli ultimi anni di Bossi. Salvini ha preso il partito al 4% e l' ha portato al 34: ci possono essere dei critici, magari degli invidiosi, ma non si può mettere in discussione una leadership così - commenta un cacicco importante -. E poi se Matteo fosse davvero circondato di yesman, questa crisi non si sarebbe mai fatta. È stato lui a credere più di tutti all' alleanza con i grillini e a sforzarsi di farla funzionare. Il nuovo governo nasce malissimo. Adesso dobbiamo solo sederci sulla riva del fiume e aspettare di veder passare il suo cadavere». Chissà.

Il ritorno al potere di Renzi. Ecco i veri motivi per cui l'ex premier è tornato in campo e gestirà il Governo dell'Inciucio Pd-M5S. Questione di poltrone e potere. Maurizio Belpietro su Panorama il 26 agosto 2019. Quando Matteo Renzi decise di voler «cambiare passo», soffiando la poltrona di presidente del Consiglio a Enrico Letta dopo aver lanciato una settimana prima l’hashtag #enricostainsereno, la prima cosa che fece fu sostituire tutti i vertici delle aziende partecipate dallo Stato. In un colpo solo caddero i manager di Eni, Enel, Ferrovie, Poste, Terna, Rai, ecc. ecc. Si trattò della rottamazione di un’intera classe dirigente, di quelli che un tempo, in maniera un po’ sprezzante, venivano chiamati i «boiardi di Stato». Che avessero fatto bene o male, che fossero stati nominati da governi di destra o di sinistra, fu per Renzi irrilevante. Non essendo stato nessuno di loro nominato da lui e dunque non dovendo riportare a lui, preferì pagare liquidazioni milionarie pur di sostituirli. In tutto l’Espresso calcolò una buonuscita superiore ai 100 milioni di euro, soldi spesi per avere un controllo ferreo sulle società dello Stato e dunque per avere un pieno potere sui posti chiave dell’economia italiana. Il blitz di Renzi, poche settimane dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, fu certo inaspettato, anche perché alcuni dei «licenziati» di Stato potevano vantare performance aziendali da premio Oscar, ma faceva certamente parte di un piano che ha consentito all’ex segretario del Pd di esercitare la sua influenza sulla vita del Paese anche dopo aver lasciato la presidenza del Consiglio. Dagli alti incarichi alla guida delle agenzie di sicurezza del Paese fino ai vertici delle aziende pubbliche, tutto fu deciso in quel breve periodo e così, con una rapidità incredibile, Renzi conquistò l’Italia, estendendo il suo potere ben oltre rispetto a dove erano arrivati Romano Prodi o Silvio Berlusconi. Gli effetti delle nomine volute dall’ex segretario del Pd, nei servizi e nelle forze dell’ordine, così come nelle società controllate dal Tesoro e nelle istituzioni, si sono misurati anche dopo l’addio a Palazzo Chigi del fiorentino e forse si sentono anche adesso. Se abbiamo citato il blitz messo a segno da Renzi ormai cinque anni fa è perché Formiche.net, un sito di informazione molto addentro alle cose politiche, ha calcolato che nel prossimo anno ci saranno circa 500 nomine da attuare. Chi guiderà il Paese dovrà infatti decidere i prossimi vertici di Eni, Enel, Leonardo, Poste, Monte dei Paschi di Siena (dove il Tesoro è diventato nel frattempo, proprio grazie a Renzi, azionista di riferimento), ecc. ecc., per un totale di 40 consigli di amministrazione da rinnovare, in società che in Borsa hanno una capitalizzazione pari a 160 miliardi. Senza contare, poi, che presto ci saranno da sostituire i comandanti di diverse forze dell’ordine, a cominciare da quello dei carabinieri. Nel 2022, inoltre, il Parlamento sarà chiamato a decidere chi dovrà essere il prossimo presidente della Repubblica, visto che Sergio Mattarella, a differenza del predecessore, non pare interessato a fare il bis. Insomma, chi darà vita al prossimo governo avrà la possibilità di influire pesantemente sui destini di questo Paese. L’uomo forte della maggioranza che verrà, sia che spunti dalle attuali Camere o che arrivi da prossime elezioni, avrà dunque il potere di incidere in misura rilevante su chi dovrà fare che cosa. Nominare un «proprio» manager alla guida di una grande azienda o insediare uomini di fiducia nei gangli vitali delle istituzioni significa infatti avere in mano il Paese, anzi averne il controllo, che si stia o meno a Palazzo Chigi. È ciò che Renzi ha fatto anche dopo essere stato costretto alla dimissioni da presidente del Consiglio a seguito della batosta al referendum. E, molto probabilmente, è ciò che si prepara a fare con il possibile nuovo governo fra Cinque Stelle e Pd. Perché mentre sui giornali si discute di politica, dietro le quinte c’è chi esercita il potere. Qualcuno eviti il governo Landini-Macron. Francesco Maria Del Vigo, Lunedì 26/08/2019, su Il Giornale. In alcuni casi non è necessario avere particolari doti di preveggenza per capire come andrà a finire un governo. Basta vedere chi lo sostiene, chi si emoziona al sol pensiero che il mostro giallorosso prenda corpo. «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei» e in questo caso l'avvocato Conte e la sua troupe inciucista non sono certamente in buona compagnia. Al carrozzone Pd-M5s si sono già accodati tutti quelli che riescono sempre e inevitabilmente a stare dalla parte sbagliata. Che, per inciso, è la loro non certo quella degli italiani. Le cronache di questi giorni raccontano un grande fermento nel fronte unito anti Salvini, cioè un'accozzaglia eterogenea che mette insieme i vecchi arnesi della sinistra e i grillini, sempre più desiderosi di non mollare le comode sedute del Parlamento. Così, nel disperato tentativo di liberare l'Italia dal Capitano, nascono flirt fino a poco tempo fa inimmaginabili: occhiate compiaciute, ammiccamenti, effusioni e dichiarazioni esplicite. Sono i prodromi dell'ammucchiata. Un Conte dimezzato, e più che mai spettinato si è presentato al G7 di Biarritz dove, tra amenità varie come il nucleare iraniano, i dazi di Trump e i rapporti con la Russia, è stato accolto molto calorosamente. Infrangendo il rigidissimo protocollo istituzionale Macron e la Merkel l'avrebbero addirittura abbracciato, come segno di riconoscenza internazionale per avere messo all'angolo Salvini e salvato l'Europa dall'ecatombe. Fossimo in Conte, magari nascosti dietro una tenda, un gesto apotropaico lo avremmo fatto, ché la Merkel e Macron all'Italia e agli italiani non hanno mai portato bene. Ma il partito del non voto è ampio e trasversale. Il gran visir del pateracchio è ovviamente Romano Prodi che ha subito auspicato un governo «Ursula». Tutto va bene fuorché il voto. Dalle colonne del Corriere della Sera il mai tenero Maurizio Landini, segretario della Cgil, fa l'occhiolino al premier: «Elezioni? Noi preferiamo che ci sia un governo che cambi le politiche di questi anni, e non mi riferisco solo al governo Conte ma anche ai precedenti. Riconosco un ruolo a Conte, in Parlamento ha dimostrato coraggio politico e un profilo istituzionale importante e poi ha riaperto i tavoli con le parti sociali». Ecco un altro iscritto al mostro giallorosso. Alla sola idea di un inciucio risorge dal sepolcro anche Nichi Vendola, ovviamente per dare il suo imprescindibile beneplacito. «Tentare di fare un governo con i 5 Stelle non è una trama di palazzo, è legittima difesa della nostra Repubblica e della Costituzione. Va fermato Salvini. L'urgenza è fermare tutto ciò che incarna: l'onda del razzismo, della disumanità esibita come virtù, del fascismo come orizzonte, del sessismo come restaurazione del potere maschile, del familismo (anche di quello mafioso)». Praticamente l'Armageddon. Tuona così l'ex governatore novello partigiano - evidentemente turbato per la tenuta democratica dell'Italia - asserragliato su una spiaggia col compagno Eddy e il figlio Tobia. Ma il pateracchio è ben più vasto. L'inciucio è una calamita che attira tutti. Persino i vescovi si scomodano e da Oltretevere fanno sapere che pur di non avere Salvini tra i piedi va bene loro anche un governo di sinistra. «È il male minore - dicono tirando un sospiro di sollievo - non si può tollerare il clima di istigazione all'odio e al razzismo e anche di volgarità del calvinismo». Certo, molto meglio la sinistra della Cirinnà che vuole fare strame della famiglia tradizionale e del matrimonio. L'asse grillocattocomunista è pronto. E, ovviamente, al codazzo inciucista non poteva che mancare lei, Laura Boldrini: «Il governo con il Movimento 5 Stelle nasca in netta discontinuità coi danni provocati da Salvini & Co. Mettendo al centro i temi del lavoro, dell'ambiente e dei diritti». Il mostro sta per nascere. Peggio di Conte ci sono solo i neocontiani.

La parola d’ordine sarà tassare, tassare, tassare. Alessandro Gnocchi il 26 agosto 2019 su Nicola Porro.it. Qualunque imbecille può inventare e imporre nuove tasse: per questo i giallorossi le inventeranno e le imporranno, nel caso vada in porto la trattativa in corso. L’unico punto in comune tra i partiti in questione è questo: redistribuire, redistribuire, redistribuire. Ovvero: tassare, tassare, tassare. Maffeo Pantaleoni, economista liberale, ministro nella Fiume di Gabriele d’Annunzio scrisse la frase che abbiamo collocato in apertura: qualunque imbecille può inventare e imporre nuove tasse. Esistono studi, che ovviamente i grandi editori non pubblicano, ma sono pubblicati da “piccoli” editori, che dimostrano l’inutilità di alzare le tasse. L’effetto è uno solo: aumenta il debito pubblico senza che ci sia un parallelo miglioramento dei servizi. Tradotto: i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini non vanno a finanziare sanità, scuole, infrastrutture. Vanno a foraggiare le clientele dei partiti. Gli 80 euro di Renzi, il reddito di cittadinanza sono due esempi lampanti. Vediamo quale altra truffa inventerà la nuova maggioranza, nell’infausto caso che si materializzi.

Arriva il governo delle tasse e dei barconi! Mirko Giordani il 21 Agosto 2019 su Il Giornale. La situazione in Italia è sempre grave ma mai seria. Oggi il PD ha fatto l’ennesima direzione ed è venuto fuori che no, nessun governo di transizione: o governo politico e di legislatura (per eleggere anche il Capo dello Stato) oppure al voto. Il mandato è nelle mani di Zingaretti. Sono venuti fuori alcuni punti programmatici ad hoc, tra le quali una decisa svolta europeista, l’attenzione alla redistribuzione delle risorse e l’eliminazione delle politiche securitarie di Salvini. In parole povere il PD sta offrendo le esche perfette per catturare l’anima sinistra dei 5 Stelle: aumentare le tasse alla classe media e riaprire i rubinetti dell’immigrazione, con relativi portafogli gonfi per varie cooperative che hanno lucrato in passato sull’accoglienza. Come si dice in gergo, Zingaretti ha fatto ai 5 Stelle “un’offerta che non si può rifiutare”. Salvini ha detto cose precise, nette e che non danno spazio ad interpretazioni: un governo della Lega, con magari dentro FdI e Toti, vuole uno choc fiscale, infrastrutture e protezione dei confini, perchè solo un’immigrazione buona e controllata è benefica al paese. Sul mio profilo facebook ho addirittura detto che sono politiche quasi reaganiane, e molti liberal-prog mi hanno dato subito addosso. Si ragazzi, sono politiche reaganiane e lo ripeto di nuovo qua. Tutte le realtà economiche mondiali, quelle a cui non importa il colore politico ma la sostanza delle riforme, vedono di buon occhio un governo monocolore Lega (o di destra), perchè ci sono idee chiare e nette, e non un pout pourri di buone intenzioni a buon mercato. Comunque vada, allacciatevi le cinture, perchè sta per nascere il governo delle tasse e dei barconi.

Vittorio Feltri sul lavoro e i migranti: "Dai, andiamo avanti così, facciamoci del male da soli". Libero Quotidiano il 21 Agosto 2019. Lasciamo agli aruspici che abbondano nei giornali, grandi e piccoli, l'arduo compito di indovinare come si concluderà la crisi di governo in atto. Ci limitiamo ad osservare che il pasticcio era evitabile, sarebbe bastato poco per non cadere nel baratro, nel quale è sempre stato facile precipitare e da cui è molto difficile risalire senza rimetterci alcune ossa. Per puro sfizio, segnalo ai lettori una curiosità: i partiti che hanno provocato la rottura di una coalizione allo scopo di tornare al voto alla fine hanno perso le elezioni. Sfasciare porta iella forse perché il popolo è infastidito dai cambiamenti bruschi di cui non capisce le finalità. Non le comprendiamo nemmeno noi pur avendone viste e vissute di ogni colore in mezzo secolo. Non ci arrampichiamo sugli specchi delle ipotesi e delle congetture. Attendiamo i risultati della rissa per poi emettere giudizi, probabilmente negativi in quanto da un frutto rancido non si ricava di sicuro del nettare. Tuttavia, prima di archiviare le prodezze dei gialloverdi, ci preme analizzarle, per valutare se l'attività dell' esecutivo è stata un disastro, come si urla ai quattro venti, oppure se la realtà è diversa da come la si descrive gratuitamente. Ecco i dati. In dodici mesi l' occupazione non è affatto diminuita: poco, ma è aumentata di 92 mila unità, senza contare il dettaglio che nei settori artigianato e alberghiero si cerca e non si trova personale. O i giovani inattivi non hanno voglia di lavorare oppure non ne hanno di imparare un mestiere. Tanto riscuotono il reddito (un furto) di cittadinanza che consente loro di scegliere il bar sport anziché andare a sgobbare come facemmo noi di altre generazioni. Proseguo. Il deficit dei conti pubblici del 2019 è migliore rispetto a quello di qualsiasi governo di centrosinistra, da Letta a Renzi, fino a Gentiloni. Il risparmio degli italiani (i soldi dei depositi bancari) è cresciuto sensibilmente ed è superiore in confronto a quello di ogni altro Paese europeo. La commissione Ue non è intenzionata ad infliggerci la procedura di infrazione. L' 80 per cento dei connazionali abita in case di proprietà, altro record continentale, forse mondiale. Siccome i compatrioti poveri non muoiono di inedia, segno che tanto in miseria non sono o vengono aiutati a sopravvivere, c' è chi si impegna per aprire i porti onde agevolare l' immigrazione di sventurati africani buoni a nulla e capaci di tutto. Questa, vi piaccia o no, è la situazione. Si può comunque peggiorare con un esecutivo progressista. Procediamo. Assecondiamo la nostra vocazione a farci del male. Vittorio Feltri

·         Le Querele portano bene...al Governo.

Giovanna Stella per Il Giornale il 29 agosto 2019. Questa mattina è partito il nuovo giro di consultazioni fra il premier incaricato Giuseppe Conte e i capigruppo di Camera e Senato dei vari partiti. Dopo i colloqui con Elisabetta Casellati e Roberto Fico, è stata la volta del gruppo Misto. Domani, invece, si confronteranno con il premier FdI, Lega, FI, Pd e Movimento Cinque Stelle. Ma proprio in queste ore arriva un aggiornamento (forse) inaspettato. Ma neanche troppo. Matteo Salvini, infatti, ha deciso che non guiderà la delegazione leghista che domani entrerà a Montecitorio per le consultazioni con il premier incaricato. E dopo averne dato annuncio, arriva la notizia dell'ultima ora: neanche i capigruppo di Camera e Senato della Lega si recheranno alle 10.30 alle consultazioni con Conte. La delegazione della Lega, quindi, sarà composta da due sottosegretari uscenti: il deputato Claudio Durigon e la senatrice Lucia Borgonzoni. Uno sgarbo bello e buono quello di Salvini e del suo partito. Una presa di posizione netta. Il leader del Carroccio, infatti, non approva per niente il governo dell'inciucio, sono giorni ormai che lo dice. E di certo non darà mai il suo appoggio ai gialli e ai rossi. Così ha deciso di non presentarsi domani alle consultazioni. E in questo clima teso, continua a parlare con i suoi fedelissimi. Ieri sera, proprio a loro ha comunicato che non è assolutamente pentito di aver staccato la spina con i Cinque Stelle. "Non vi libererete di me con un giochino di palazzo - ha detto - Non mi conoscete, io non mollo. Secondo voi mi spaventa un Renzi qualunque? Mi spaventa stare all'opposizione per qualche mese? Si può scappare dal voto degli italiani per un pò ma prima o poi, si deve tornare. Stiamo assistendo ad uno squallido scambio di poltrone. Renzi e Di Maio non vanno d'accordo su niente. Su una cosa ho sentito accordo, l'odio per Salvini e la Lega". Salvini è sicuro che questo governo "deciso da quelli di Parigi, Berlino e Bruxelles" non possa durare a lungo: "Durerà tre mesi, sei mesi... prima o poi torneremo al voto e vinceremo". E dopo l'annuncio di Salvini, anche Giorgia Meloni fa sapere che non guiderà la delegazione di Fratelli d'Italia domani alle consultazioni con il premier incaricato Giuseppe Conte. Nella sala dei Busti, quindi, ci saranno il capogruppo al Senato, Luca Ciriani, e il vice alla Camera, Tommaso Foti. Ma non solo. Anche FI ci sta pensando. La presenza di Silvio Berlusconi sarebbe ancora incerta. Il Cav starebbe riflettendo sulla sua presenza al fianco di Anna Maria Bernini e Maria Stella Gelmini.

Governo, Salvini: “è fondato sull’odio contro di me, tutti in piazza a Roma il 19 Ottobre”. Il nuovo governo “non è ancora nato ed è già fondato sull’odio per Salvini”, ha affermato il segretario del Carroccio Matteo Salvini nel corso di una diretta su Facebook. Ilaria Calabrò su Strettoweb il 29 Agosto 2019. La Lega chiama in piazza i suoi sostenitori per manifestare contro il governo giallorosso. L’appuntamento è fissato per il 19 ottobre a Roma ed è stato ribattezzato la “giornata dell’orgoglio della maggioranza silenziosa“. Il nuovo governo “non è ancora nato ed è già fondato sull’odio per Salvini“, ha affermato il segretario del Carroccio Matteo Salvini nel corso di una diretta su Facebook. Nel ricordare che l’unico “collante” dell’esecutivo formato da M5s e Pd sono le “poltrone”, Salvini ha ribadito che il suo partito è già pronto a fare l’opposizione. “Ci prepariamo a esserci a metà ottobre a Roma. Il 19 ottobre penso a una grande giornata di orgoglio italiano“, ha precisato, dando appuntamento il 15 settembre a Pontida, mentre il 21 e 22 settembre la Lega sarà presente con i gazebo in tutta Italia. Nel corso del suo intervento, Salvini ha attaccato il premier incaricato Giuseppe Conte, che oggi darà il via alle consultazioni per la formazione del nuovo esecutivo. “Ho sentito che Conte ha parlato di nuovo umanesimo. Manca solo che risolva il problema della pace nel mondo e della ricrescita dei capelli per chi li sta perdendo e ha fatto tutto“, ha ironizzato. Quanto all’Unione Europea, invece, il leader della Lega ha ribadito che “questo governo non nasce in Italia ma a Bruxelles per far fuori quel rompipalle di Salvini“. Oggi, ha rimarcato, “guarda caso, parla l’ex commissario tedesco Oettinger e dice che Bruxelles è pronta a fare qualsiasi cosa per far nascere questo governo e ricompensarlo. Ricordo solo che sono quelli che ci hanno sempre richiamato all’ordine sulla legge Fornero e quant’altro. Avete capito bene: l’Unione europea oggi ha gettato la maschera“. Detto questo, Salvini è tornato a chiedere il voto. “Mattarella è ancora in tempo per restituire la parola agli elettori. La sovranità appartiene al popolo – ha auspicato -. Comunque, state tranquilli: non vi libererete di Salvini con un giochino di palazzo. Io non mollo. Non mi spaventa un Renzi qualunque o qualche mese di opposizione. E’ un momento di attesa e ci stiamo gia’ organizzando“. Infine, una stoccata al fondatore del M5s Beppe Grillo. “E’ passato dalla rivoluzione al governo dei saggi, degli “illuminati” come ha scritto sul blog, ai Monti e alle Fornero. Sono curioso di vedere se avranno il coraggio di chiedere ai loro elettori sul web cosa ne pensano del governo con il Pd“, ha concluso. Nel corso del suo intervento, Salvini ha attaccato il premier incaricato Giuseppe Conte, che oggi dara’ il via alle consultazioni per la formazione del nuovo esecutivo. “Ho sentito che Conte ha parlato di nuovo umanesimo. Manca solo che risolva il problema della pace nel mondo e della ricrescita dei capelli per chi li sta perdendo e ha fatto tutto“, ha ironizzato. Quanto all’Unione Europea, invece, il leader della Lega ha ribadito che “questo governo non nasce in Italia ma a Bruxelles per far fuori quel rompipalle di Salvini“. Oggi, ha rimarcato, “guarda caso, parla l’ex commissario tedesco Oettinger e dice che Bruxelles è pronta a fare qualsiasi cosa per far nascere questo governo e ricompensarlo. Ricordo solo che sono quelli che ci hanno sempre richiamato all’ordine sulla legge Fornero e quant’altro. Avete capito bene: l’Unione europea oggi ha gettato la maschera“. Detto questo, Salvini è tornato a chiedere il voto. “Mattarella è ancora in tempo per restituire la parola agli elettori. La sovranità appartiene al popolo – ha auspicato -. Comunque, state tranquilli: non vi libererete di Salvini con un giochino di palazzo. Io non mollo. Non mi spaventa un Renzi qualunque o qualche mese di opposizione. E’ un momento di attesa e ci stiamo già organizzando“. Infine, una stoccata al fondatore del M5s Beppe Grillo. “E’ passato dalla rivoluzione al governo dei saggi, degli ‘illuminati’ come ha scritto sul blog, ai Monti e alle Fornero. Sono curioso di vedere se avranno il coraggio di chiedere ai loro elettori sul web cosa ne pensano del governo con il Pd”, ha concluso.

Da “il Giornale” il 28 agosto 2019. Nicola Zingaretti tratta con Luigi Di Maio, ma non ha ritirato la querela contro il vicepremier e capo politico del Movimento 5 Stelle, presentata, come segretario del Pd, per le dichiarazioni del grillino sul caso Bibbiano e il Pd. La singolare circostanza è stata ricostruita dal sito FanPage. Nel luglio scorso il Pd ha presentato una querela per diffamazione contro le dichiarazioni di Di Maio e del M5s, appunto in relazione alle dichiarazioni sull'inchiesta di Bibbiano. Impensabile, allora, l'apertura della crisi di governo. E ancora più impensabile l'eventualità che Pd e Cinque stelle potessero costruire insieme il governo che salvo ulteriori stop probabilmente vedrà oggi la nascita. Del resto, sul «mai col partito di Bibbiano» i grillini si sono sgolati per settimane. Salvo poi ritrovarsi, appunto, allo stesso tavolo. La querela di Zingaretti contro Di Maio, comunque, e ancora in piedi. Lo ha confermato a Repubblica il responsabile organizzazione del Pd, Stefano Vaccari: «Devono chiederci scusa».

Da La Repubblica 11 febbraio 2019). Il ministro dell'Interno Matteo Salvini ha ritirato la querela e revocato la costituzione di parte civile nel processo per diffamazione a carico del sottosegretario del Movimento 5 Stelle Stefano Buffagni. Quest'ultimo nel 2016 - quindi prima che nascesse l'alleanza di governo Lega-M5S - aveva postato sul suo blog e su Facebook alcune frasi ritenute da Salvini diffamatorie, tanto da portarlo a querelare l'esponente grillino, all'epoca consigliere regionale in Lombardia. Fonti legali riferiscono di un accordo transattivo tra le due parti, i cui termini sono coperti da una clausola di riservatezza. Dopo una breve camera di consiglio il giudice monocratico Stefania Donadeo ha pronunciato una sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato dovuta al ritiro della querela. Buffagni, nel 2016 consigliere di opposizione alla giunta leghista di Roberto Maroni, aveva parlato di "Lombardia intrappolata nella ragnatela leghista, una fitta rete di contatti e uomini di fiducia agli ordini di Salvini e Maroni", di "una sorta di cupola" in riferimento al segretario leghista, "di sistema marcio che sta infettando le istituzioni", facendo un parallelo tra la situazione in Lombardia e quella di Roma con "il Pd e Mafia capitale". Al centro del processo c'era una presunta raccomandazione che la Lega avrebbe fatto per trovare lavoro in una azienda sanitaria locale a Luca Morisi, spin doctor di Salvini, che era parte civile del processo (ma ha ritirato la costituzione dopo la remissione della querela). Il legale di Buffagni aveva però  chiesto l'insindacabilità delle opinioni espresse dal suo assistito in quanto consigliere regionale, scatenando la reazione del ministro che aveva chiosato: "I 5 Stelle anti-casta invocano l'immunità". Tempi lontani, sembra. Perchè adesso, a processo in corso, Salvini - che in questi giorni dovrà affrontare in Parlamento la richiesta di autorizzazione a procedere per il caso Diciotti - ha cambiato idea. Adesso a Buffagni, difeso dall'avvocato Caterina Malavenda, toccherà soltanto pagare le spese processuali.

Governo, Maria Elena Boschi: «Non rinuncio alle cause con il M5S». Pubblicato giovedì, 29 agosto 2019 da Corriere.it. «Nessun risentimento personale, ma sui risarcimenti non torno indietro». A parlare dalle pagine de Il Messaggero è Maria Elena Boschi. L'ex ministra e sottosegretaria ha spiegato che voterà «a fatica» la fiducia al «Conte due» sostenuto da M5s e Pd, che non rinuncerà alle querele in sospeso con gli esponenti pentastellati accusati di averla diffamata nel corso degli ultimi anni: «Non rinuncio a nessuna causa». Nell'intervista Boschi ha poi tenuto le distanze dal nuovo alleato: «Mi sembra molto complicato», ha detto parlando delle possibile alleanze con i pentastellati alle prossime regionali. «Una cosa è un accordo di governo, altro un matrimonio politico. Non correrei troppo». Sui futuri ministri, Boschi ha chiarito che «non si commenta mai il totonomine», ma poi si lascia andare a un endorsement a Paolo Gentiloni come commissario Ue: «Ho lavorato per quattro anni con lui. Se sarà il prescelto penso che sarà una scelta di qualità per l’Italia. Ci sono varie persone capaci e competenti che possono avere il profilo adatto, vedremo». Poi ha assicurato: «Per noi già sarà una fatica votare la fiducia al Governo coi grillini, impossibile anche farne parte. Penso che Zingaretti designerà le donne e gli uomini più adatti». 

Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti, ma quante balle. Rinnegano loro stessi: ecco i video che li inchiodano. Libero Quotidiano il 29 Agosto 2019. Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio, ecco i due voltagabbana. "Lo dirò per sempre: mai con il Movimento 5 stelle", ripeteva il segretario del Pd. Che solo un mese fa giurava: "Se il governo cade si va al voto". Ma come sappiamo ha ingannato tutti, da Carlo Calenda a Matteo Salvini. Dall'altra parte anche il leader del Movimento 5 stelle, attaccava Zingaretti e il Partito democratico: "Il Pd è il male dell'Italia". E poco più di un mese fa aveva dichiarato: "Con il partito di Bibbiano che toglieva alle famiglie i bambini con l'elettroschok non voglio averci nulla a che fare". Accuse pesantissime che i due neo-alleati si sono lanciati durante le varie conferenze stampa e nei talk show alla tv. Ecco di seguito le prove delle loro balle.

Zingaretti: "Non intendo favorire alcuna alleanza con il Movimento 5 stelle"

Zingaretti: "Se il governo cade la via giusta è dare la parola agli elettori"

Zingaretti: "Non ci sarà nessun governo M5s-Pd"

Zingaretti: "Se ci sarà un altro governo non ci coinvolgerà"

Di Maio: "Mi fa sorridere un'alleanza col Pd, partito subdolo"

Di Maio: "Io con il partito di Bibbiano non voglio averci nulla a che fare"

Di Maio, le frasi riprese da Luca e Paolo: "il Pd è il male dell'Italia"

Di Maio nella sintesi di Tagadà: "Il Pd ha raggiunto il ridicolo"

Due pagine contro 58, il confronto tra accordo Pd-M5S e contratto Lega-M5S. Via la flat tax e Sicurezza da rivedere. Pubblicato giovedì, 29 agosto 2019 da Corriere.it. Due pagine contro 58. Anche il documento programmatico sottoscritto da Pd e M5S da consegnare a Giuseppe Conte segna un cambio di passo rispetto alla modalità con cui si formò nella primavera 2018 il governo a maggioranza Lega e M5S. Accordi politici quelli attuali, contro i vincoli notarili di allora. Nel maggio 2018, il contratto sottoscritto da Matteo Salvini e Luigi Di Maio conteneva infatti 30 punti spiegati in 58 pagine. In dettaglio, e con frasi che impegnavano le parti al rispetto dell’accordo, si entrava nel merito di temi come l’autonomia regionale, il reddito di cittadinanza, lo stop alla legge Fornero sulle pensioni, la sicurezza compresi interventi su campi nomadi e occupazioni abusive, tagli ai costi della politica e delle istituzioni incluso il numero dei parlamentari, il fisco con la flat tax e la semplificazione del sistema, la difesa personale sempre legittima, il conflitto d’interessi, le banche inclusa la tutela del risparmio, la sterilizzazione dell’Iva, l’immigrazione con rimpatri e stop al business dei salvataggi. Se in alcuni casi i temi erano stati trattati in modo generico, in altri c’era stata maggiore precisione: «Con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torino-Lione, ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». L’idea del contratto di governo veniva dall’esperienza tedesca, ma sull’interpretazione da dare ai vari punti del contratto e sulla rigidità dei vincoli, tra M5S e Carroccio erano sorte molte polemiche e scontri. Adesso, i Cinque Stelle hanno accettato un modello più stringato, pragmatico ma anche più generico, condiviso dai dem, come segnala il Sole 24 ore. In cima alle priorità di azione del nascente governo Conte bis, la maggioranza giallorossa ha collocato il taglio del cuneo fiscale (indicatore che indica il rapporto tra tutte le imposte sul lavoro e il costo del lavoro complessivo), lo stop all’aumento dell’Iva, la modifica dei decreti di Sicurezza (come indicato da Sergio Mattarella), una nuova legge sull’immigrazione, modifiche alla legge elettorale, taglio del numero di parlamentari, web tax, aumento degli investimenti 4.0, il salario minimo e l’acqua pubblica cari ai Cinque Stelle, riforma della giustizia e delle concessioni autostradali care ancora ai pentastellati. Il programma M5S-Pd prevede la richiesta di maggiore flessibilità con la Ue sul deficit, e numeri di manovra economica che, tra stop all’Iva e spese indifferibili, partirebbero da una base di 25-26 miliardi, senza più avere il compito di cercarne altri 10-15 per la flat tax. Se il deficit tendenziale si aggirerà sull’1,6%, si dovrebbe rimanere già a 10 miliardi sotto il 2,1% indicato per il 2020 dal Def.

A CHI SIAMO IN MANO. Marco Benedetto su Blitz Quotidiano il 29 Agosto 2019. Trump ora dà la linea alla stampa italiana? L’odio più snobistico che politicamente fondato nei confronti di Matteo Salvini ha portato la maggior parte dei giornali a accettare l’endorsement di Trump a favore di Giuseppe Conte come un fatto positivo e significativo. Repubblica, per quel poco che ho visto, ha timidamente avvisato: Conte ha promesso a Trump di sostenere la causa de rientro della Russia nel G7, dalla cui versione G8 era stata espulsa, su indirizzo americano, per l’invasione dell’Ucraina. Vale tenere presente che sono molto alte le possibilità che Trump sia sotto ricatto russo. Quella pipì sul letto dove aveva dormito Obama a Mosca, con coretto di bionde prostitute fornite dal Kgb, nessuno mi toglie dalla testa che sia stata immortalata dalle spie post sovietiche. La ricostruzione compiuta da un ex agente segreto inglese per conto del Partito Democratico americano mi parte altamente credibile. Per una roba simile all’impegno di Conte con Trump, Salvini è stato giustamente messo in croce. Conte invece…Conte è stato un mediocre primo ministro, capace solo di fare l’occhiolino ai veri poteri che comandano in Europa, incapace di contenere le sciocchezze di Salvini e ancor peggio dei grillini: reddito di cittadinanza, sgretolamento delle Forze Armate, soffocamento dei giornali. Conte ha avallato la più grande porcata anti democratica portata avanti dal Movimento 5 stelle contro giornali e giornalisti, forse perché Casaleggio vogliono che resti un solo mezzo di informazione, il blog di Beppe Grillo. Non una voce si è alzata contro questa manovra. Il suo discorso finale, prima di dimettersi, non è stato certo da primo ministro, piuttosto era al livello di una assemblea di condominio. I giornalisti non meritano molto e come si comportano in questa fase di crisi lo conferma. Nemmeno degni degli insulti di Rigoletto. Ma quale razza dannata, si sono presi i vaffa di Grillo e ancora fanno il tifo per un Governo a trazione grillina con il Pd, partito largamente maggioritario nelle redazioni ancor oggi, come ruota di scorta. Che fine farà il Pd nessuno se lo vuole chiedere, ma se questi durano più di un anno, alle prossime elezioni la Lega prenderà il 60 per cento dei voti e il Pd sarà sotto il 10, come Berlusconi oggi. Conservo la speranza che Zingaretti, modesto politico post comunista ma astuto e stagionato politicante, faccia la manfrina per non essere accusato da Renzi e dai suoi colonnelli di aver loro negato un posto al ministero. Se pensiamo a chi siamo in mano…Se pensiamo che decide le nostre sorti gente che non è riuscita nemmeno a farsi eleggere nella sua città…E Renzi, dopo i guai che ha combinato, dopo il patrimonio di fiducia che ha devastato come uno sciocco provinciale, non dovrebbe nemmeno avere la faccia di parlare. Se la sua missione intima era quella di obliterare la memoria del Pci, non c’è che dire, ci sta riuscendo in peno. Conservo anche la speranza che sul fronte 5 stelle, chi regge i fili, Casaleggio, la pensi come Zingaretti. Salvini è un bisonte, solo un po’ più bauscia di Renzi ma nemmeno troppo. Fascista è un’altra cosa, fascista è il Movimento 5 stelle, non nei richiami ma nella sostanza dell’ideologia. Sveglia, compagni. Avete ridotto la sinistra a partito dell’odio e dell’invidia (e in questo potete benissimo andare d’accordo con Grillo), avete tradito gli ideali di una sinistra che voleva la diffusione del benessere attraverso una crescita e li avete ridotti a un ecologismo anti industriale da sanculotti meridionali. Siete con un piede nella scarpata.  Non date retta ai giornali, sono le sirene che, inconsapevoli, vi vogliono spingere sugli scogli. Solo la catarsi delle elezioni può ridefinire la situazione in Italia. E forse anche aiutarvi a ridefinire la missione della Sinistra. 

STELLE CADENTI. Giuseppe Marino per ''il Giornale'' il 29 Agosto 2019. Dal matrimonio impossibile al «Sì» in poche ore. Com' è possibile che i promessi sposi dalla concordia miracolosa, Pd e M5s, litighino solo sul compare d' anello? Una possibile spiegazione sta nel potere reale accumulato dall' uomo della discordia, Luigi Di Maio: legami, nomine e, soprattutto, un conto in banca cointestato a lui in cui sono affluiti milioni. Il capo politico è ormai contestatissimo all'interno del Movimento, dopo un anno di sconfitte elettorali, dopo aver portato il consenso dei pentastellati dal 33 al 17%, dopo il collasso delle europee con tanto di tentato golpe di Alessandro Di Battista. All' inizio delle trattative, dice una fonte pentastellata di governo, il M5s era pronto a chiedere a Di Maio, che aveva legato troppo le sue fortune a Matteo Salvini, un passo di lato. I primi retroscena raccontavano infatti di un veto posto dal Pd sulla sua figura non contestato dal M5s. Si era perfino tenuta una riunione dei gruppi parlamentari grillini in assenza del capo politico, ufficialmente «perché potessero sentirsi più liberi di parlare». Poi, dice la fonte, si è capito che «Luigi poteva creare troppi problemi». Eppure Grillo e Casaleggio hanno chiaramente puntato tutto su Giuseppe Conte, con un' operazione di immagine che lo ha promosso a volto del Movimento e del governo, al posto del giovane vice premier. Di Maio poteva essere scartato, ma all' improvviso il M5s ha cominciato a fare muro. Ieri è arrivata una selva di dichiarazioni coordinate di parlamentari e sottosegretari, da Fantinati a Dall'Orco. Il Pd ha resistito fino all' ultimo, facendo sapere che non «c' erano veti su Di Maio al governo», purché non a Palazzo Chigi. E Luigi ha replicato stizzito: «Qualcuno sembra più concentrato a colpire il sottoscritto che a trovare soluzioni». Alla fine un posto nel governo giallorosso l' avrà. Luigi, leader fantasma eppure immortale. «Di Maio - spiega il deputato Davide Galantino, tra gli ultimi fuoriusciti da M5s - ha scelto molti candidati, regalando un posto in Parlamento a gente che non ha fatto un giorno di militanza e ora gli è fedele». Ma, soprattutto, è il capo del Comitato per le «restituzioni» che gestisce i 2mila euro al mese versati dai parlamentari. Soldi che, dopo lo scandalo rimborsopoli, non vanno più al Fondo per il microcredito, ma finiscono su un conto bancario intestato ai tre componenti del Comitato: Di Maio e i due capigruppo Francesco D' Uva e Stefano Patuanelli, in carica (vedi statuto firmato davanti al notaio Luca Romano il 7 agosto 2018) fino allo scioglimento delle Camere. «Oggi - dice Galantino - se non sono state fatte altre restituzioni, dovrebbero esserci 5 milioni di euro su quel conto». Lo statuto prevede che i tre membri del comitato possano essere estromessi da assemblea a consiglio direttivo. I cui membri sono sempre i due capigruppo e Di Maio l' intoccabile. Vuoi capire la crisi?

Dagospia. Dal profilo Twitter di Jacopo Iacoboni il 29 Agosto 2019. Vi potrebbe interessare un mio piccolo thread con alcuni dati sulla piattaforma Rousseau?

1. Ovviamente, tutti sanno che la piattaforma non è una piattaforma, è un semplice sito, molto insicuro e obsoleto, hackerato almeno due volte e sanzionato altrettante (50 mila euro di multa a Casaleggio) dall’Authority italiana su dati e privacy.

2. Piccolo spoiler: le cose interessanti arriveranno alla fine. All’inizio vi ricordo solo cose scontate e di background.

3. Le sanzioni, modeste nelle somme, sono molto gravi nei due profili di infrazione : 1 potenziale manipolabilità dei voti. 2 potenziale riconducibilità dei voti ai votanti.

3 bis. Dal punto di vista forense, Stefano Zanero vi spiegherebbe meglio cosa significa. Comunque io, per sbrigarci, vi riassumo che Rousseau è: insicura, non segreta, manipolabile.

4. Ma facciamo un gioco. Volete giocare?

5. Ok. Facciamo come se i punti fin qui esposti non esistessero. Significa che mi sdraio totalmente sulla prospettiva di Casaleggio. Faccio come se fossi in un talk show italiano. Prendo la piattaforma come se fosse trasparente e certificata da ente terzo. Ci state?

6. Mistero grosso su Rousseau è sempre stato: quanti sono gli iscritti che votano? Allora: gli iscritti sono passati dagli oltre 135 mila di ottobre 2016 ai 150 mila dichiarato ad agosto 2017. Ad agosto 2018 il numero dichiarato da Casaleggio era sceso a 100 mila. Che significa?

7. Beh, significa che in questi anni, poiché nessuno poteva controllare, hanno dato i numeri. Il 2 agosto 2017, Davide Casaleggio disse alla Stampa Estera che contava di arrivare in un anno a un milione di iscritti. L’anno dopo, dichiarava iscritti scesi a 100mila?

8. Veniamo alle cose succulente. Gli ultimi due voti davvero importanti sono stati: il via libera al governo M5S con la Lega. E il salvataggio di Salvini da un grave processo. Ricordate? Molto bene. Ma non credo ricordiate tutto.

9. Anche il voto per il governo M5S con la Lega, passò da Rousseau. Con una piccola decisiva differenza. La piattaforma di Casaleggio disse sì a Salvini 12 giorni prima dell’incarico a Conte. Voto su Rousseau il 18 maggio, incarico il 31. Qui sotto traduco?

10. Casaleggio e Di Maio non imposero allora al Quirinale di essere sotto-ordinato a Rousseau. Fecero il loro voto, è SOLO DOPO dissero a Mattarella che dicevano sì a Salvini. Salvini non rischiò di essere fottuto a sorpresa. E il Quirinale fu il luogo supremo, non scavalcato.

11. Ok dai, non vi vedo abbastanza preoccupati. Vediamo i risultati delle due ultime decisive consultazioni. Dei votanti su Rousseau (44.796 persone; di solito è questo l’ordine numerico di grandezza che vota) il 94% disse sì alla Lega (42.274 persone). Dissero di no solo 2.522.

12. Persino in un voto davvero contrario a tutto il giustizialismo grillini, quello sul processo a Salvini, Rousseau salvò Salvini, con buon margine: il 59% (30.948 iscritti) scelse di concedere l'immunità al ministro dell'Interno. Mentre 21.469 (40,95%) votarono no.

13. Erano due voti ALTAMENTE “POLITICI”. è questa è la “base elettorale attiva” (quei 50-60 mila che votano, dei 100mila iscritti) su Rousseau: gente che - se scordiamo i primi punti del mio thread - sopporta benissimo la Lega, semmai odia il Pd.

14. Non so come andrà a finire. So solo com’è andata fino ad oggi. Ah, mi sono appena ricordato che ci sono i punti da 1 a 3: è una piattaforma privata di un’associazione privata di Davide Casaleggio su server privati mai controllati da ente terzo

Che bella la crisi. Il Colle fortilizio del maestro Jedi: che la forza sia sempre con lui. Sergio Valzania il 29 Agosto 2019 su Il Dubbio. L’unico che sembra non avere nulla da imparare è il presidente Mattarella. Il suo sapere è frutto di decenni di pratica democristiana, e ora si è fatto etereo. Terminata la fase più cruenta della battaglia il polverone si dirada e diventa agevole riconoscere i tratti dei vincitori e degli sconfitti. Che abbiano vinto i Cinquestelle non ci sono dubbi. Macché vinto, stravinto. Dei loro avversari non rimane quasi nulla. E non si tratta qui della conferma di Conte a Palazzo Chigi, della poltrona comoda per Di Maio, di ministri e ministeri, di viceministri, sottosegretari e commissari europei. Quelle sono conseguenze, epifenomeni come dicono alcuni, onde sulla superficie di un mare dominato dalle correnti profonde. Quelle che hanno cancellato Salvini e Meloni, travolto Zingaretti e imposto la soluzione di governo rosso- gialla. Perché la politica è una cosa seria e alla fine vince sempre il più forte, quello che ha saputo riconoscere per primo da che parte tira il vento della storia e orientare di conseguenza le proprie vele. Quello che impone la propria egemonia culturale, per dirla con Gramsci. E non ci sono dubbi che Grillo e Di Maio abbiano interpretato in modo esemplare le pulsioni della nostra epoca. Renzi, che ha un buon naso, l’ha capito presto e subito e si è adattato. Gli conveniva, ma il merito è stato nel riconoscere che la corrente andava in quella direzione. Con buona pace di Salvini, improvvisamente apparso stanco e imbolsito, con quel suo insistere a twittare e parlare al telefonino per farsi ascoltare dai suoi, mentre il resto del mondo si accordava per abbandonarlo su di un’isola deserta, con un barilotto d’acqua e due scatole di gallette, e in una settimana perdeva nei sondaggi il 5 per cento dei voti. Scomparse le ideologie – sarebbe meglio dire ridicolizzate – in epoca di minimalismo individualista l’uno vale uno impazza. Trascende la dimensione di slogan che i suoi creatori gli avevano attribuito, nega la demenzialità tautologica che sembrava contraddistinguerlo per divenire massima comportamentale. Si affianca alla dichiarazione napoleonica per la quale nello zaino di ogni soldato c’è un bastone di maresciallo. Conte e Di Maio, persino Toninelli, stanno lì a dimostrare che è tutto vero. Trump lo conferma dagli Stati Uniti, insieme a Bill Gates. La società liquida è anche questo ricrearsi quotidiano di una realtà sempre cangiante, come nei romanzi di Philip Dick, nei quali i protagonisti cambiano personalità da un capitolo all’altro e anche i mezzi meccanici regrediscono perdendo via via tecnologia. È bastato sussurrare che l’accordo M5S- Pd era concepibile, almeno in via teorica, perché tutto procedesse da solo, travolgendo qualunque ostacolo, difficoltà o pudore, al modo della tragedia greca, con il fato che la fa da padrone e Marco Travaglio cieco Omero che si accompagna con la lira mentre canta le meraviglie del nuovo governo, al quale ci si deve riferire cromaticamente perché politicamente non avrebbe senso. Questo è il post moderno in politica, al quale tutti devono cominciare ad abituarsi, per primi i leader della destra, se vogliono davvero rientrare nella stanza dei bottoni. L’unico che sembra non avere nulla da imparare è il Presidente Mattarella. Il suo sapere non è fatto di tattica o di tecnicismi, proviene piuttosto da un sapere lontano e antico, distillato in decenni di pratica democristiana, fino a divenire etereo e quasi impersonale, libero dall’esperienza elettorale, della quale non sente più il bisogno, ma evidente nella forza fenomenologica che dimostra con evidenza lampante. Come quello di uno Jedi di Star Wars.

Che bella la crisi. Riecco i Caponi brothers: «Così o salta tutto» vale «ho detto tutto». Michele Fusco il 29 Agosto 2019 su Il Dubbio. Gli indimenticati protagonisti del film di Totò si sono reincarnati nei duellanti politici a colpi di “si fa così o basta”. E né si faceva né era mai basta davvero. Avete presente quelli che alla fine di una conversazione social piuttosto concitata, ti scrivono “punto”, come dire: Caro ciccio, le cose stanno come dico io e basta? Ecco, certi bellimbusti da tastiera sono i nipotini ( non voluti) di Peppino De Filippo, il grande Peppino, quando infilava un ragionamento così sgarrupato che per giustificarlo, riassumeva così: «E ho detto tutto!», sapendo perfettamente che non aveva detto proprio niente. Ecco, “i fratelli Caponi che siamo noi”, indimenticati protagonisti di Totò, Peppino e la malafemmina, si sono reincarnati nei duellanti di questo governo sbilenco, duellanti a colpi di ultimatum che poi erano sempre penultimatum; o a botte di “Si fa così o basta”: e né si faceva né era mai basta davvero. I vecchi del bosco, quei cronisti che hanno visto ben altro, sapevano già – giusto per restare nei pressi dell’inarrivabile principe De Curtis “dove volevano arrivare”. E al bar sport della politica, dopo due bicchierini, tutto richiamava la via machista alla felicità in un malinconico gioco scontato di battute, tra chi aveva più attributi e chi poteva vantare lunghezze indicibili e indecenti. Sempre che nel conclave della trattativa non compariva l’ombra di una donna, e allora tutti zitti e mosca. Ma se triste doveva essere il prodotto finale – e sfidiamo chiunque a considerarlo una robettina frizzante – era del tutto contronatura immaginare che il percorso sarebbe stato animato da eccessive profondità, dovendo ognuno marcare un territorio sia interno che esterno. E allora, quale migliore opzione, per mostrarsi straganzi e straforti, se non la via più muscolare, quella che o si fa così o pomí? E allora è così che il mantra del lessico politico newco si arricchisce di un nuovo lemma: o così o salta tutto, pur sapendo che novelli Pietro Micca in giro non ce n’è. Però , un attimo. Mentre noi ci si accapigliava a botte in testa col manganello di carnevale, qualcuno il suo “E ho detto tutto!” lo ha fatto sentire, eccome. Non pensiamo gli servisse un’esibizione muscolare ulteriore, essendo muscolare per definizione il suo mandato. Ma insomma, nel bel mezzo di un governo che si doveva ancora fare, da Washington è piovuto un tweet di @ realDonaldTrump in cui il Roscio augurava lunga vita al suo “Giuseppi”, inteso come Conte. E per un momento, un lunghissimo momento, tutti hanno pensato a uno scherzo planetario. Ma poi, piano piano, la dura realtà ( per qualcuno) ha fatto breccia. Era proprio Trump, il presidente degli Stati Uniti d’America, una iniziativa così inusuale che ha mosso Federico Rampini a scrivere su Repubblica: «Il gesto è clamoroso: un’interferenza così visibile non si usava neppure ai tempi della guerra fredda». E ho detto tutto.

Zingaretti: "La priorità è meno tasse a chi guadagna meno. E scuola gratis dal nido all'università". Zingaretti: "Il calo significativo dello spread, di cui siamo contenti, apre nuove prospettive per politiche espansive e di investimenti". Raffaello Binelli, Venerdì 30/08/2019, su Il Giornale. Al termine del faccia a faccia con il presidente del Consiglio incaricato il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ribadisce che l'intenzione è quella di dare vita a un "programma di svolta". Ovviamente al di là degli slogan e delle frasi a effetto bisogna vedere i contenuti, e Zingaretti nel colloquio con Giuseppe Conte ha snocciolato diversi punti su cui, a suo dire, il governo deve e può intervenire. "I dati negativi dell'Istat confermano la necessità di una svolta, l'esigenza di aprire, come ha detto ieri il presidente Conte, una nuova stagione politica nel nostro Paese. Abbiamo indicato le principali priorità per dare corpo a questa nuova stagione politica, in primo luogo il taglio delle tasse per i salari medio-bassi". "Notiamo che l’avvio di questa possibile nuova stagione politica è stata salutata dai mercati in modo positivo, con un calo significativo dello spread che apre anche nuove prospettive per politiche espansive di investimento". Una parte delle risorse da investire, quindi, per il leader del Pd possono arrivare dai risparmi per gli interessi sui titoli di Stato. "Abbiamo avanzato proposte per investimenti in infrastrutture green, industria 4.0, rilancio del tema della scuola e della formazione, formule per la formazione gratuita per i figli dall’asilo nido fino all’università contro i tassi di dispersione scolastica. C’è poi il tema della sanità pubblica, riaprire una discussione sulla qualità e sull’universalità delle cure. Abbiamo posto il tema di riaprire una stagione di vere politiche per la sicurezza urbana. Chiudere il contratto con le forze dell’ordine investire nei presidi dei quartieri, cultura, aggregazione e sport". "Abbiamo proposto al presidente incaricato Giuseppe Conte - prosegue il leader dem - che anche sui cosiddetti, così chiamati, decreti sicurezza, si proceda, nelle forme dovute, almeno al recepimento delle indicazioni che sono pervenute dal Presidente della Repubblica". Per quanto riguarda la sanità pubblica "a fronte dell'innalzamento dell'età media della popolazione, è fondamentale riaprire la discussione sulla qualità dei servizi e la capacità di coprire l'universalità del sistema di cura. Serve un investimento che abbiamo quantificato in almeno 10 miliardi nel prossimo triennio e l'apertura di una stagione di assunzioni".

Marco Antonellis per Dagospia il 30 agosto 2019. Si mormora che Giuseppe Conte non fosse all'apice della felicità dopo aver ascoltato poco fa le parole di Giggino Di Maio. Il grillino ha anche consegnato al Premier incaricato un programma di governo in 20 punti: un documento, che il capo politico del M5s Luigi Di Maio ha lasciato sul tavolo del presidente incaricato Giuseppe Conte in occasione delle consultazioni. Volete sapere qual è? Eccolo qui in anteprima su Dagospia...

1. Taglio del numero dei parlamentari. Manca un solo voto per completare la riforma, che deve essere un obiettivo di questa legislatura e tra le priorita del calendario in aula.

2. Una manovra equa: stop all’aumento Iva, salario minimo, taglio del cuneo fiscale, sburocratizzazione, famiglie, disabilita e emergenza abitativa.

3. Cambio di paradigma  sull’Ambiente . Un’Italia100%rinnovabile. Dobbiamo realizzare un Green New Deal che nei prossimi decenni porti l’Italia verso l’utilizzo di fonti rinnovabili di energia al 100 per cento. Tutti i piani di investimento pubblico dovranno avere al centro la tutela dell’ambiente, la questione dei cambiamenti climatici e la nascita di nuove imprese legate a questo settore. Basta con inceneritori e trivelle, si all’economia circolare e alla eco-innovazione. Norme contro l’obsolescenza programmata. Una legge su rifiuti zero ed investimenti pubblici sulla mobilita sostenibile.

4. Una seria legge sul conflitto di interessi e una riforma del sistema radiotelevisivo.

5. Dimezzare i tempi della giustizia e riformare il metodo di elezione del Consiglio superiore della Magistratura. I cittadini e le imprese hanno bisogno di una giustizia efficace e veloce: noi abbiamo pronta una riforma che porta al massimo a 4 anni i tempi per una sentenza definitiva.

6. Autonomia differenziata e riforma degli enti locali. Va completato il processo di autonomia differenziata richiesta dalle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, istituendo contemporaneamente i livelli essenziali di prestazione per tutte le altre regioni per garantire a tutti i cittadini gli stelli livelli di qualità dei servizi. Va anche avviato un serio piano di riorganizzazione degli enti locali abolendo gli enti inutili.

7. Legalità: carcere ai grandi evasori, lotta alle mafie e ai traffici illeciti. E necessario intervenire per tutelare i cittadini onesti, colpendo innanzitutto i grandi evasori con il carcere. Serve una maggiore tracciabilità dei flussi finanziari e un inasprimento delle pene per i reati finanziari, per contrastare i traffici illeciti delle mafie. Contrasto al fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta degli esseri umani, con politiche mirate dell’Unione Europea nei Paesi di provenienza e transito. Oltre alla modifica del Regolamento di Dublino.

8. Un piano straordinario di investimenti per il Sud, anche attraverso l’istituzione di una banca pubblica per gli investimenti che aiuti imprese in tutta Italia e che si dedichi a colmare il divario territoriale del nostro Paese.

9. Una riforma del sistema bancario. Serve separare le banche di investimenti da banche commerciali.

10.Tutela dei beni comuni. La scuola pubblica e un bene comune: serve prima di ogni altra cosa una legge contro le classi pollaio e valorizzare la funzione dei docenti. L’acqua e un bene comune: bisogna approvare subito la legge sull’acqua pubblica. La nostra sanita va difesa dalle dinamiche di partito spezzando il legame tra politica regionale e sanita valorizzando il merito. Le nostre infrastrutture sono beni pubblici ed e per questo che va avviata la revisione delle concessioni autostradali. La cittadinanza digitale va riconosciuta ad ogni cittadino italiano dalla nascita per favorire l’accesso alla partecipazione democratica, all’informazione e per favorire la trasformazione tecnologica.

11.Politiche di genere in attuazione dei diritti costituzionali della persona, in conformità ai principi dell’Unione europea; superamento della disparita retributiva, conciliazione vita- lavoro.

12.Tutela dei minori: revisione del sistema degli affidi e delle adozioni, lotta alla dispersione scolastica e al bullismo.

13.Porre fine alla vendita degli armamenti ai Paesi belligeranti, incentivando i processi di riconversione industriale e maggiore tutela e valorizzazione del personale della difesa, delle Forze dell’ordine e dei Vigili del fuoco.

14.Politiche espansive con una quota di investimenti in infrastrutture, in ambiente e in cultura da scomputare dai parametri di Maastricht.

15.Giovani e futuro: innovazione digitale, sviluppo delle imprese e promozione delle eccellenze del Made in Italy, crowdfunding, semplificazione apertura nuove attività, fondo previdenziale integrativo pubblico.

16.Ricerca, università ed alta formazione artistica e musicale: riforma dei sistemi di reclutamento e dell’accesso universitario con ingenti investimenti per garantire pari opportunità di diritto allo studio, di sviluppo e formazione su tutto il territorio nazionale.

17.Tutela del cittadino: del consumatore, del lavoratore, dell’utente dei servizi; il potenziamento della sicurezza sul lavoro e delle infrastrutture e della protezione dalle calamita naturali, con particolare riguardo ad un testo unico per le post emergenze e per la ricostruzione del tessuto infrastrutturale, economico e sociale. Provvedimenti volti alla tutela dei cittadini italiani all’estero e riforma dell’AIRE.

18.Riorganizzazione dei servizi sanitari e socio-sanitari territoriali e riforma del percorso formativo medico: integrazione ospedale-territorio, l'adeguamento del FSN e l’attuazione del Fascicolo Sanitario Elettronico Nazionale. Contrasto al gioco d’azzardo.

19.Tutela degli animali: misure per garantire il rispetto degli animali. Contrasto alle violenze e al maltrattamento, tutela della biodiversità e lotta al bracconaggio.

20.Sostegno ai piani di settore e alle filiere agricole e promozione di pratiche agronomiche e colturali sostenibili e a difesa del suolo.

La verità sul Governo Conte-Bis. I problemi del nuovo esecutivo, i retroscena che hanno portato alla sua nascita. Andrea Soglio il - 29 agosto 2019 su Panorama. Come previsto ad annunciato il Governo Conte-Bis è pronto a partire. Si tratta dell'ennesimo ribaltone alla faccia degli italiani ma è tutto "legale" perché siamo in una Repubblica Parlamentare, come ci hanno spiegato in tutte le salse. Perchè la gente arriva fino ad un certo punto, poi la parola passa alla politica con tutti i suoi giochini e giochetti. Dove il Pd, da sempre, sguazza dato che ormai non le contiamo nemmeno più le volte in cui è riuscito ad arrivare al Governo da sconfitto alle elezioni. Tanto basta un "piuttosto che Berlusconi" o un "piuttosto che Salvini" oppure il sempre buono "piuttosto che la destra" ed il gioco è fatto.

Da sottolineare il fatto che l'unica cosa che oggi spaventa i creatori dell'inciucio guarda caso è la consultazione popolare, cioè il voto sulla Piattaforma Rousseau del Movimento 5 Stelle che deve dire si o no all'accordo. Il si, in una maniera o nell'altra (ad ogni votazione il Pd ha gridato all'inaffidabilità del voto che sarebbe gestito a piacimento da Casaleggio) arriverà ma da quel momento la festa per aver salvato la poltrona, evitato il voto, cacciato Salvini, finirà e comincerà la vita vera e con questa i problemi. Perchè un Governo, anche quello fatto dalla peggiore coalizione di sempre visto l'odio reciproco, alla fine deve "fare".

Non vediamo l'ora di vedere cosa succederà quando la prima Ong arriverà a Lampedusa. Dare il via libera agli sbarchi significherà trovarci davanti alle nostre coste una nave dopo l'altra per la gioia degli scafisti e della Lega che si porterà a casa un paio di punti percentuali nei sondaggi (dove il crollo post crisi di governo è già finito).

Restiamo al Viminale. Il secondo problema sono i Decreti Sicurezza. Il Pd ne ha chiesto come condizione indiscutibile e come prima cosa da fare la loro cancellazione. Che farà Di Maio? Che faraà Conte? Rinnegheranno quello per cui hanno votato a favore un mese fa (con tutto quello che ne consegue n termini di credibilità)?

C'è poi la manovra ed un bivio: il Reddito di Cittadinanza. Un rospo che qualcuno per forza deve ingoiare. Il M5S non si può permettere una rinuncia simile, il Pd non può dire si ad una cosa che ha da sempre contestato con violenza. Anzi, si può anche rinnegare se stessi (e questo esecutivo ne è la riprova) ma l'elettorato non lo accetterebbe e le divisioni interne molto evidenti in queste ore, potrebbero anche esplodere. Quindi, chi berrà l'amaro calice?

Potremmo proseguire con il Tap, Quota 100, ed altri temi su cui i due alleati sono divisi come laziali e romanisti. Quindi il tema è fino a che punto riusciranno ad andare  contro i propri principi pur di restare al Governo. L'obiettivo vero è il 2021 quando comincerà il semestre bianco di Mattarella a fine mandato e l'elezione del prossimo Presidente della Repubblica (lo ha detto la Boschi).

Di sicuro, vada come vada, da ieri il Movimento 5 Stelle ha perso la maggior parte dei suoi valori fondamentali, li ricordate? Il Vaffa, la scatoletta di tonno, la ribellione, il rovesciamento del palazzo e la fine dei giochi della politica. Nella storia della Repubblica mai si era visto in Presidente del Consiglio restare al suo posto cambiando maggioranza in due settimane. Un grillino c'è riuscito. Complimenti. E la base sui social ribolle...

Da più parti si leggono le pagelle di questa crisi. Facile. C'è un uomo solo al comando: Matteo Renzi che ha creato questa alleanza, si è ripreso il partito, ha le chiavi del Governo e forse quando sarà il momento lo farà cadere creando, finalmente, un partito tutto suo. Tutti gli altri hanno perso. L'errore di Salvini, che stando ad alcune voci mai smentite, prima di far partire la crisi avrebbe chiesto a Zingaretti se fosse stato anche lui per il voto anticipato ricevendo un si, deciso, in risposta, è stato proprio sottovalutare il fiorentino. La palla ora è nelle mani del Governo del "piuttosto che". All'Italia servirebbe molto, ma molto di più.

MARCO BRESOLIN per la Stampa  il 30 agosto 2019. Con il nuovo incarico a Giuseppe Conte, Jean-Claude Juncker è sempre più convinto di aver vinto la propria scommessa. Parlando con i suoi collaboratori, nei mesi scorsi il presidente della Commissione Ue aveva detto di voler condurre una sorta di «operazione-Tsipras» con il premier. Trasformare il leader di un esecutivo populista in un capo di governo moderato e dialogante. Convertire il "burattino" di Matteo Salvini (copyright Guy Verhofstadt) in fedele alleato di una forza politica tradizionale come il Pd. Il paragone con il numero uno di Syriza è risuonato più volte nei colloqui privati di Juncker, che ieri si è complimentato con Conte. Il lussemburghese è certo di aver contribuito alla metamorfosi dell' avvocato del popolo. Con le trattative andate a buon fine per evitare le due procedure sul debito. E con i consigli politici, per spingere il M5S all' interno della nuova maggioranza a Strasburgo. Il voto dei grillini a Ursula von der Leyen - decisivo - è stato l' emblema di questo lavoro di smussatura. Tanto che ora sono già iniziate le manovre per favorire l' ingresso dei 14 eurodeputati del Movimento in uno dei gruppi tradizionali. Le opzioni sul tavolo sono due. Potrebbero entrare nei liberali (Renew Europe), operazione nella quale è pronto a spendersi Matteo Renzi, anche attraverso Sandro Gozi (eletto con il partito di Macron). Resta però aperta anche la strada che li porterebbe nei Verdi, al momento l'opzione preferita dalla maggioranza dei parlamentari M5S. Ma proprio ieri dagli ecologisti è arrivata una frenata. Fin qui il futuro del Movimento. Poi ci sono i rapporti tra l' Ue il futuro governo. Ieri hanno fatto scalpore (in Italia) le parole di Gunther Oettinger a un' emittente tedesca. Ha detto che Bruxelles "farà tutto il possibile per facilitare il lavoro del governo italiano" e per "ricompensarlo". Dichiarazioni subito interpretate come l' annuncio di un super-sconto in termini di flessibilità di bilancio. La realtà è un po' diversa, anche perché lo stesso Oettinger - che tra un mese non farà più parte dell' Ue - ha sottolineato l'importanza del «consolidamento di bilancio» e del rispetto delle regole. In ogni caso, a Bruxelles, la sua battuta viene liquidata come «l' ennesima gaffe» di un politico che vanta una vasta collezione. Qualche esempio? «I mercati insegneranno agli italiani come votare». «I cinesi si pettinano col lucido da scarpe». «La Vallonia? Una micro-regione in mano ai comunisti». Adesso la "ricompensa" ai giallorossi. Certo è che a Bruxelles si aspettano una fase in cui il dialogo prevarrà sulla conflittualità, dopo 14 mesi di tensioni continue. «Ci aspettiamo un governo stabile e progressista - ha fatto sapere ieri il ministro delle finanze tedesco, Olaf Scholz - e questa è una buona notizia per l' Europa». In questo clima, avviare un dialogo per ottenere margini di flessibilità sarà indubbiamente più facile. Ma al momento nulla è scontato e la trattativa d' autunno deve ancora cominciare.

·         Il Governo Calabrone.

Gerardo Greco: "Governo calabrone, non si sa se vola. Ma c'è una corsa di Beppe Grillo e Conte a dirsi del Pd". Libero Quotidiano il 2 Settembre 2019. "C'è una corsa di Beppe Grillo e Giuseppe Conte a dirsi sostanzialmente di sinistra, del Pd", dice il giornalista Gerardo Greco, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7. Insomma, continua, anche per Grillo "questo è un governo calabrone, non si sa se vola. Ma deve volare perché altrimenti si schianta". Il Movimento 5 stelle, sottolinea Greco, "ha perso la metà dei consensi". Quindi "non hanno alternative", Pd e Cinque stelle "devono stare insieme e per questo devono trovare dei punti di contatto". 

Annalisa Cuzzocrea per “la Repubblica” il 2 settembre 2019. Chi ha parlato col fondatore del Movimento 5 stelle in queste settimane, lo definisce non solo «convinto» della possibile intesa col Pd. Ma addirittura: «Entusiasta». Beppe Grillo scherza con gli amici. Ricorda i tempi in cui aveva preso la tessera del Partito democratico ad Arzachena, in Sardegna, per presentarsi alle primarie. Una provocazione ai tempi respinta con sdegno dai dirigenti del partito di centrosinistra. O quando, nel 2006, aveva portato all' allora premier Romano Prodi i risultati delle primarie del programma, per vederlo «addormentarsi » - questo il racconto fatto in seguito - davanti alle proposte che arrivavano dai cittadini sul blog. Era un anno prima del Vaffa day del 2007. Era prima della torsione autoritaria del Movimento, delle espulsioni, dei post sempre più violenti contro politici, stampa, istituzioni. E come se tutto questo non ci fosse stato, come se l' odio per il Pd, soprattutto per il Pd, non avesse nutrito negli ultimi anni tutti gli iscritti e gli attivisti 5 stelle, Grillo torna a quel punto - a quel momento della sua storia - col sollievo di chi sembra tornare a casa. Chiede entusiasmo, esuberanza, chiede - in una parola - di metterci l' anima, ai giovani democratici. Come se con i suoi avesse perso la speranza. Come se a sentir parlare di ministri, vicepremier, di dieci punti che diventano venti e continuano a non significare nulla, lo scoramento avesse superato il livello di guardia. Ma non si tratta solo dell' ennesima scomunica di Luigi Di Maio. Quel che fa Grillo con il video in cui si definisce "esausto", ma che fa dire a uno scrittore come Giuseppe Genna, condiviso da Sandro Veronesi, «è il discorso più politico, cristallino e rilevante degli ultimi anni», è riposizionare il Movimento in un terreno lontano anni luce dalla Lega. Con buona pace di Di Battista, di Paragone, dello stesso Di Maio. Che i 5 stelle li hanno incrociati molto dopo quegli anni. Che dei temi progressisti degli inizi - sui diritti civili, sul testamento biologico, ad esempio - non condividono nulla. O molto poco. Dice il presidente della commissione antimafia Nicola Morra: «Beppe è oltre. Sempre. Si rivolge ai giovani e sottolinea come il futuro sia costituito da flussi. E i flussi vengono impediti dalla costruzione di muri, come il sovranismo nazionalista e chiuso vorrebbe». Così sparisce il Grillo che voleva uscire dall' euro, tornare alla lira, a un' Italia autoreferenziale piccola e sovrana. Come fosse materiale di un vecchio spettacolo, il fondatore lo mette da parte e riprende il bandolo da un punto che sembrava dimenticato. Dopo gli accordi con Nigel Farage sanciti da una birra. Dopo il plauso all' impresa rivoluzionaria di Donald Trump. Dopo gli apprezzamenti fatti perfino a Vladimir Putin, il garante M5S - colui al quale lo Statuto lascia l' ultimo residuo potere di sfiduciare il capo politico - vira il timone in direzione ostinata e contraria a quella degli ultimi anni. «Di Maio l' ha presa malissimo », questo filtra dal quartier generale del vicepremier. E c' è da crederci. Chi l' ha presa bene, oltre a Giuseppe Conte, è invece il presidente della Camera Roberto Fico, per il cui impegno in questa fase quella del fondatore è una presa di posizione fondamentale. Racconta la capogruppo in regione Lazio Roberta Lombardi, la prima a lanciare apertamente l' idea di un accordo col Pd: «Ero capogruppo alla Camera quando Beppe disse a Bersani: "Votiamo insieme Stefano Rodotà alla presidenza della Repubblica e si apriranno praterie". Ci sono cose, come la rivoluzione verde, quella della mobilità, del lavoro, che possiamo fare solo con i progressisti». Così, chi crede nell' accordo - e teme il voto on line affidato a chi è stato nutrito per anni da post anti Pd, arrivati ad accusare il partito democratico, letteralmente, di vendere bambini - spera che il fondatore faccia un altro video come questo nelle prossime ore. Che la scelta di campo sia reale, se non definitiva, non un' altra maschera o una nuova provocazione. Dall' altra parte, tra i dirigenti M5S, restano a questo punto soltanto Di Maio e Di Battista. Le cui parole, se sconfessate dal garante, perdono di senso e di peso ogni giorno di più. Il comico "entusiasta" della possibile svolta ha rilanciato l' ala che fa capo a Fico Lombardi: "Ci sono temi su cui possiamo fare qualcosa solo con i progressisti".

Rousseau, il risultato del voto sulla piattaforma del Movimento 5 Stelle. Pubblicato martedì, 03 settembre 2019 da Corriere.it. Gli iscritti al Movimento 5 Stelle hanno dato il loro parere sulla piattaforma Rousseau sul governo guidato da Giuseppe Conte e basato sull’accordo fra il M5S e il Partito democratico: il 79 per cento dei 79.634 votanti ha detto sì alla formazione del nuovo esecutivo. Il risultato è arrivato un’ora e 26 minuti dopo la chiusura delle urne digitali. «Io credo che dobbiamo essere molto orgogliosi che tutto il mondo ha aspettato la pronuncia di questi 80 mila cittadini italiani su una piattaforma digitale che è unicum al mondo», ha commentato Luigi Di Maio in conferenza stampa alla Camera. Ora c’è da percorrere, ha ricordato il leader 5 Stelle, «l’ultimo miglio per la squadra di governo». Questa mattina, il Blog delle Stelle ha accompagnato l’avvio della consultazione online con una «bozza di lavoro» che il premier incaricato «sta integrando e definendo». La bozza, leggibile sul Blog 5 Stelle, è intitolata «Linee di indirizzo programmatico per la formazione del nuovo governo» ed elenca 26 punti. Tra questi, la «neutralizzazione dell’aumento dell’Iva», la «riduzione delle tasse sul lavoro», la «protezione dell’ambiente nel sistema costituzionale», «con la nuova Commissione Ue rilanciare investimenti e margini di flessibilità», la «riduzione del numero dei parlamentari», riformare il sistema giustizia e l’elezione del Csm, «combattere l’evasione fiscale», «completare il processo di autonomia differenziata giusta e cooperativa», tutelare i risparmiatori e il risparmio, «introdurre la web tax per le multinazionali che spostano i profitti», «rendere Roma una capitale sempre più attraente e vivibile». 

Liberoquotidiano.it il 3 settembre 2019. In attesa del risultato delle votazioni degli iscritti alla piattaforma Rousseau sul governo giallo-rosso, Ferruccio De Bortoli scrive in un lapidario post pubblicato sul suo profilo twitter che questo è "uno dei giorni più bui della nostra democrazia rappresentativa". Saranno infatti 115mila persone a determinare il futuro di questo Paese e non le elezioni politiche, come dovrebbe avvenire in una democrazia vera. I votanti grillini decideranno quindi se ci sarà un Conte bis e un esecutivo a guida Movimento 5 Stelle-Partito democratico.

Filippo Facci e i 26 punti del governo M5s-Pd: il programma a dir poco "raccapricciante". Libero Quotidiano il 4 Settembre 2019. Potete chiamarlo programma, potete anche chiamarlo Piero, o Giovanni, un nome qualsiasi: il neo governo l' ha chiamato «Bozza di lavoro che riassume le linee programmatiche che il presidente del Consiglio incaricato sta integrando e definendo», ma, va detto, è solo una lista di genericissime intenzioni che fa sembrare il precedente «contratto di governo» di una tecnicità incomparabile. I 56mila ectoplasmi della piattaforma Rousseau, tuttavia, hanno votato quello: 26 punti, che prima erano 20, che prima erano 10, che prima - per decenni - hanno riempito il libro dei sogni di ogni governo occidentale. Come stile, ricorda - più generico - il modus di Walter Veltroni, il famoso «ma anche» che vorrebbe per esempio «attuare una politica economica espansiva» ma anche «rispettare l' equilibrio di bilancio»: del resto basta scriverlo, senza indicare un come, i mezzi, i soldi, gli obiettivi a breve termine. Neppure di sfuggita. Abbiamo contato 16 «Occorre», un «Occorrerà», un «Occorrono, un «È essenziale», un «È indispensabile», due «È necessario» e un «Sono necessari»: è un programma di governo dove in pratica c' è scritto che serve un programma di governo. Non è un libro di ricette, è un menù. Volendo trovare qualcosa di notevole, potremmo citare il proposito di «tagliare le tasse ai lavoratori» e attuare un «Green new deal» che metta al centro degli investimenti la sostenibilità ambientale, ma anche il misterioso punto 26 che tira in ballo una Roma più «vivibile»: «Il governo dovrà collaborare per rendere Roma una capitale sempre più attraente per i visitatori e sempre più vivibile e sostenibile per i residenti»; anche qui, niente obiettivi o temi specifici, ma potrebbe celare una possibile ciambella di salvataggio al sindaco Virginia Raggi che da tempo reclama - per rifiuti, risanamento del debito, trasporti - poteri speciali.

Ma entriamo nello specifico dei 26 punti. Ci sono affermazioni di principio che sono state scritte centinaia di volte (punto 13, «occorre potenziare l' azione di contrasto delle mafie e combattere l' evasione fiscale», punto 12, «occorre ridurre drasticamente i tempi della giustizia civile, penale e tributaria», punto 16, «va lanciato un piano straordinario di investimenti per la crescita e il lavoro al Sud») e poi in teoria ci sarebbero i due punti che registravano un apparente attrito tra Pd e Cinque Stelle: l' immigrazione e il taglio dei numero dei parlamentari. Leggiamo, punto 15 sull' immigrazione: «È indispensabile promuovere una forte risposta europea al problema della gestione dei flussi migratori» (solite balle) e però la «disciplina in materia di sicurezza dovrà essere aggiornata seguendo le recenti osservazioni formulate dal presidente della Repubblica». Ossia? In concreto, con i suoi toni, Sergio Mattarella aveva predicato accoglienza, invitato a «costruire ponti» e detto che serve a poco «vietare l' ingresso» e insomma chiudere i porti: ma come possano essere sfruttate le sue parole resta un generico mistero che, del resto, riguarda altri punti del programma dove sarebbe bastato scrivere «fare il bene, non fare il male» per giustificare in futuro qualsiasi iniziativa, legittimata in quanto «c' è scritto nel programma». Al punto 10, però, si specifica che «è necessario inserire, nel primo calendario utile della Camera dei deputati, la riduzione del numero dei parlamentari, avviando contestualmente un percorso per incrementare le garanzie costituzionali, di rappresentanza democratica, assicurando il pluralismo politico e territoriale». In politichese: d' accordo, sì, abbassiamo pure il numero dei parlamentari, ma - come richiesto dal Pd - spazio anche a una nuova legge elettorale. E l' economia? Paroloni, e virgole messe a caso, al punto 5: «Occorre realizzare un Green New Deal, che comporti un radicale cambio di paradigma culturale e porti a inserire la protezione dell' ambiente tra i principi fondamentali». Occorre. Ma poi si torna ai punti 1 e 2, evidentemente fondamentali, ma anche qui non c' è niente che non scriverebbe chiunque: la legge di bilancio 2020 sarà imperniata su «una politica economica espansiva, senza compromettere l' equilibrio di finanza pubblica» attraverso misure quali neutralizzazione dell' aumento dell' Iva, sostegno alle famiglie e ai disabili, il perseguimento di politiche per l' emergenza abitativa, de-burocratizzazione e semplificazione amministrativa, maggiori risorse per scuola, università, ricerca e welfare. In particolare si vorrebbe puntare sulla riduzione delle tasse sul lavoro (ma a vantaggio dei lavoratori) e poi individuare una retribuzione giusta (un «salario minimo») e ovviamente garantire le tutele massime a beneficio dei lavoratori, oltre ad approvare - se ne sentiva il bisogno - una nuova legge sulla rappresentanza sindacale. Poi, sempre dal libro dei sogni: individuare il giusto compenso anche per i lavoratori non dipendenti, così da evitare abusi e sfruttamento dei giovani professionisti; un piano per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, un' altra legge sulla parità di genere negli stipendi, congedo di paternità obbligatorio (perché lo dice l' Europa) e altra roba così: un' elencazione di problemi notori con la specifica «bisogna risolverli». Grazie tante. Non dimentichiamo il sostegno ai disabili, l' emergenza abitativa e più soldi per scuola e ricerca e welfare: e infatti non lo dimenticano, cosicché nessuno possa dire che qualsiasi legge «non era nel programma». C' è persino un classico riferimento a una nuova legge sul conflitto d' interessi (presente in ogni programma da circa trent' anni) perché vedete, nello specifico «L' Italia ha bisogno di una seria legge sul conflitto di interessi, con una contestuale riforma del sistema radiotelevisivo improntato alla tutela dell' indipendenza e del pluralismo». Abbiamo visto, anche noi di Libero, quanto l' indipendenza e il pluralismo stessero a cuore al grillini. In sostanza, come molti sui social hanno fatto notare, manca l' eliminazione della fame nel mondo, la resurrezione dei morti, la fine di ogni guerra e altre cose (più volgari) per tutti. In chiave potenzialmente anti-salviniana c' è il citato riferimento all' immigrazione, la probabile pioggia di soldi su Roma, il «piano straordinario di investimenti per la crescita e il lavoro al Sud» (ci risiamo) e qualche presa in giro o bizzarrìa come il riconoscimento alla nascita del «diritto di accesso alla rete» tra i diritti della persona, una colossale bugia circa un «processo di autonomia differenziata giusta e cooperativa, che salvaguardi il principio di coesione nazionale e di solidarietà» e poi - immancabile - una valorizzazione del «nostro patrimonio naturale, storico e artistico», perdiana. Filippo Facci

Il voto su Rousseau: una violenza alla Costituzione. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 2 Settembre 2019. Tutti gli improvvisati giuristi e costituzionalisti grillini possono gentilmente spiegarci in quale passaggio della nostra legge elettorale, della legge istitutiva parlamentare, della nostra tanto richiamata Costituzione, che viene continuamente calpestata da un comico, ed un branco di ex-disoccupati privi di alcuna competenza specifica e tantomeno politica, si parla del voto su Rousseau? Soltanto in Italia si poteva consentire ad un’associazione privata come Rousseau che controlla di fatto la vita del Movimento 5 Stelle, non solo di finanziarsi con soldi pubblici donati/trattenuti obbligatoriamente dagli stipendi degli eletti del 5 Stelle, ma persino di voler condizionare la vita pubblica e politica, calpestando il dettato costituzionale, subordinandola ad un voto online privo di alcun controllo certificato, e che è stato già hackerato ripetutamente e per questo sanzionato ben due volte dal Garante della Privacy, per illecito trattamento dei personali. La storia dei voti sulla piattaforma Rousseau racconta che dei circa 115mila  iscritti alla piattaforma, che quindi rappresentano appena l’1 per cento dell’elettorato del M5S alle ultime Politiche, in realtà in media ne votano molto meno. Ad esempio al quesito sul mandato zero, il 25 e il 26 luglio scorsi, hanno risposto appena in 25 mila. Di poco più alta la partecipazione alle “Europarlamentarie” (primo turno, 31 marzo 2019: 37.256 votanti; secondo turno 4 aprile 2019: 32.240). Il massimo dei votanti sulla piattaforma “controllata” di fatto da Davide Casaleggio, si è raggiunto nella consultazione del 18 febbraio 2019 sul “caso Diciotti“, che coinvolgeva l’alleato di governo Matteo Salvini: a votare furono in 52.417. Per concludere il voto del 3 febbraio 2018 per le “Parlamentarie”  quando a votare furono in 39.991. Per  votare sull’alleanza fra M5s e Lega, il 18 maggio 2018, i votanti furono 44.769. Per Sabino Cassese “non si gioca con la democrazia”, per Cesare Mirabelli “così la democrazia rappresentativa va a mare”, per Giovanni Maria Flick “il voto su Rousseau è contro la Costituzione”. È un giudizio netto e molto critico quello di due presidenti emeriti della Corte Costituzionale e di un costituzionalista sul ricorso al voto online per gli iscritti al M5S per decidere se dar vita al governo con il Partito Democratico. Domani dalle 9 alle 18 i (presunti) 115.372 aventi diritto al voto sulla piattaforma Rousseau sono stati chiamati  a esprimere il proprio voto sull’alleanza con il Pd per un nuovo governo guidato da Giuseppe Conte. Il quesito a cui potranno rispondere gli iscritti è: “Sei d’accordo che il MoVimento 5 Stelle faccia partire un Governo, insieme al Partito Democratico, presieduto da Giuseppe Conte?“. La domanda questa volta è ben più esplicita e chiara di quanto era successo il 18 maggio 2018, quando il quesito che avrebbe portato al governo con Matteo Salvini, non veniva mai citava esplicitamente la Lega, bensì si chiedeva solo l’approvazione del “contratto del governo del cambiamento“. La domanda legittima da porsi è molto semplice e chiara : come si può affidare ai presunti circa 115 mila iscritti di decidere via internet e senza alcuna garanzia od organismo terzo di controllo qualificato, sul voto elettronico,  al posto di 10milioni e 700 mila elettori che nel 2018 hanno votato per il M5S ? E questa sarebbe democrazia ? Tutti gli improvvisati giuristi e costituzionalisti grillini possono gentilmente spiegarci in quale passaggio della nostra legge elettorale, della legge istitutiva parlamentare, della nostra tanto richiamata Costituzione, che viene continuamente calpestata da un comico, ed un branco di ex-disoccupati privi di alcuna competenza specifica e tantomeno politica? In un video odierno su Facebook  l’ex-venditore di bibite allo Stadio San Paolo, ha annunciato la sua rinuncia alla carica di vicepremier nel Conte Bis, facendo finta che tale decisione fosse la sua, quando invece la verità è che ormai è stato scaricato dai suoi “controllori-datori di lavoro”(leggasi: Casaleggio & Associati e Beppe Grillo). Come si fa a non ridere quando Di Maio dice ” Conte è un premier super-partes” quando invece è palesemente di parte schierato politicamente con il M5S. Saremmo curiosi di sapere dov’è finito il rito delle “graticole” dei meet-point di Grillo, dov’è finita la legenda (ormai una barzelletta) dell’ “uno vale uno”, come mai i grillini che si dichiaravano nemici del “sistema della politica” , delle auto blu, delle poltrone, che andavano a fare le consultazioni a Palazzo Chigi con Renzi e Bersani con i tablet collegati in streaming, adesso hanno perso usi, costumi, abitudini e principi di vita ? Da dove nasce, se non dal manuale Cencelli il concesso espresso (sempre da Di Maio n.d.a.) “se ci fosse stato un vicepremier Pd era giusto che ci fosse un vice M5S. Il Pd ci ha ripensato e ha rinunciato ad avere un suo vicepremier, per cui il problema ora non esiste più”. Di Maio ha mentito ben sapendo di mentire, quando ha detto  che “avevamo due strade, o tornare al voto o verificare se c’era un’altra maggioranza. Tornando al voto ci saremmo ritrovati nella stessa situazione di oggi, la destra ci diceva che eravamo di sinistra, e viceversa, ma noi siamo post-ideologici”. L’unica speranza è che qualunque Governo, sia capace di governare il Paese, insieme ad una serie di riforme fondamentali, come quella sul lavoro (che cancelli l’inutile reddito di cittadinanza), sull’economia, sulla giustizia, si sbrighi a fare una nuova legge elettorale che escluda i listini “bloccati” riservati ai nominati ( o meglio ai servi sciocchi) di questo o quel leader di partito o di corrente, e che riporti il voto del cittadino al centro delle elezioni. Il voto va meritato sulla base delle capacità, delle competenze, della moralità, della coerenza, e non pilotato come sinora accaduto. Da questo punto di vista, si stava molto meglio nella 1a Repubblica, quando la politica era riservata a persone capaci di farla, con un ‘esperienza maturata nei decenni, e sopratutto al servizio dei cittadini, che altrimenti non li votavano, eleggendolo o rieleggendoli in Parlamento. In nome del popolo “sovrano”. Non a caso l’articolo 1 della nostra Costituzione dice che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”. Dovrebbero rileggerla in molti, anzi in tanti. A partire da chi ci governa.

Rousseau, la vera ragione del ritardo? Soldi, altro che la "democrazia diretta" del M5s. Libero Quotidiano. 3 Settembre 2019. È il denaro, bellezza. Il risultato del voto sulla piattaforma Rousseau si è fatto attendere più del previsto. Molto più del previsto. Il M5s avrebbe dovuto rivelarlo poco dopo le 18, pochi minuti dopo la chiusura delle urne virtuali. E invece l'attesa si è protratta quasi fino alle 19. Poi la certificazione dell'inciucio col Pd, indicato da quasi l'80% degli aventi diritto sulla piattaforma digitale. Un "plebiscito", come ha detto Luigi Di Maio, il quale poi ha ancora sparato ad alzo zero contro Matteo Salvini. Immediata la risposta del leghista: "Mai col Pd. Non potrete scappare dal voto in eterno". Ma, si diceva: è il denaro, bellezza. Ci si riferisce al lungo ritardo nella comunicazione dei risultati. Nell'attesa, fiorivano le più disparate teorie: brogli, incursioni nel sistema, Enrico Mentana affacciava il sospetto di un attacco hacker all'ultimo respiro, problemi tecnici di varia natura, imbarazzo nel comunicare quel che era accaduto. E invece no. È il denaro, bellezza. Probabilmente il ritardo non era dovuto a nessuna delle ragioni elencate qui sopra. Ma al denaro, appunto. Perché mai? Perché il risultato, il M5s, voleva veicolarlo per la prima comunicazione sul Blog delle Stelle, il sito di riferimento dei grillini e della Casaleggio Associati. E così è stato. Soltanto dopo la pubblicazione del risultato sul blog hanno preso la parola prima Luigi Di Maio, dunque il notaio Tacchini, infine Davide Casaleggio. Il ritardo, insomma, con discreta approssimazione era dovuto al fatto che il blog, a causa dell'enorme numero di accessi simultanei, era andato in crash. Era irraggiungibile e non aggiornabile. E - crash o non crash - di accessi il Blog delle Stelle ne ha registrati tanti. Anzi, tantissimi. E gli accessi significano denaro, introiti pubblicitari. È il denaro bellezza. Insomma, un'ora e mezza di ritardo probabilmente per... ragioni pubblicitarie. Eccola, la "democrazia diretta" con cui si riempiono la bocca Di Maio, Casaleggio e compagnia cantante. Altro che democrazia diretta: business. Una vicenda grottesca, da barzelletta, con l'Italia in attesa per un'ora e mezza perché un blog era in crash, quando con assoluta probabilità il risultato nel M5s era già noto, ma non riuscivano a "caricarlo" sul sito perché, semplicemente, non funzionava più. Roba da barzelletta. Il perfetto prologo per un governo spaventoso, quello che si può considerare senza troppa paura di sbagliare il più a sinistra che la nostra Repubblica abbia mai avuto.

Francesco Storace smonta Rousseau: "Ho votato, ecco le password". Libero Quotidiano il 3 Settembre 2019. Uno sfotto alla pagliacciata grillina o la prova del fatto che la pagliacciata grillina è anche vulnerabile? Si parla del voto sulla fantomatica piattaforma Rousseau in corso oggi, martedì 3 settembre, con cui gli iscritti grillini sceglieranno se far nascere, o meno, il governo con il Pd. E Francesco Storace, su Twitter, comunica: "È stato facilissimo votare no al governo sulla piattaforma Rousseau", dunque allega uno screenshot (senza però il nome del votante) che mostra come il voto sarebbe stato registrato. A stretto giro di posta, sempre Storace svela la password per accedere alla piattaforma, e qu siamo sicuramente allo sfottò: sarebbe "B1BB14N0", ovvero Bibbiano.

MA QUALE ''CERTIFICAZIONE'' DI ROUSSEAU! Dagospia il 4 settembre 2019. Thread su Rousseau di Luciano Capone, giornalista del ''Foglio'', su Twitter il 3 settembre 2019. Il paese, i cittadini e le istituzioni sono in attesa del voto su Rousseau. È una cosa maledettamente seria soprattutto perché Rousseau non è affatto una cosa seria. Parliamo ad esempio del fatto che secondo Davide Casaleggio e il M5s il "voto è certificato". Che vuol dire? Partiamo dalla conclusione: è una balla, il voto su Rousseau non è certificato. Non c'è alcun controllo su correttezza e regolarità del processo da parte di un ente terzo. Anzi, gli accertamenti del Garante della Privacy confermano che il voto è manipolabile e non è segreto. Cosa intende Casaleggio quando dice che un notaio "certifica"? "Io certifico solo il numero di voti", dice il notaio Valerio Tacchini. Significa che il notaio assicura che i risultati finali che escono dai pc dell'associazione Rousseau sono gli stessi comunicati al pubblico. Ma il notaio Tacchini non ha alcuna competenza né gli strumenti tecnici per verificare che il processo elettorale è stato regolare, che la votazione non è stata manipolata dall'interno, che non ci sono state intrusioni dall'esterno, che il voto degli iscritti è riservato. È come se il notaio certificasse che il polpettone che esce dal forno del ristorante è lo stesso che viene servito a tavola, ma non dice nulla su come è stato cucinato: se c'è carne avariata o umana e se i cuochi ci hanno sputato o fatto pipì dentro, il notaio non ce lo dice. Ecco, tutto questo (carne avariata e pipì nel polpettone) con Rousseau può accadere. Lo dice il Garante per la Privacy: "L'assenza di adeguate procedure di auditing informatico... non consente di garantire l’integrità, l’autenticità e la segretezza delle espressioni di voto". E ancora: "La regolarità delle operazioni di voto è affidata alla correttezza personale e deontologica degli incaricati di queste funzioni tecniche... cui si aggiunge la certezza che le attività compiute non potranno essere oggetto di successiva verifica da parte di terzi". Il Garante parla pure del notaio: "Sussistono forti perplessità sul significato da attribuire al termine “certificazione” riferito all’intervento di un notaio o di altro soggetto di fiducia in una fase successiva alle operazioni di voto, con lo scopo di asseverarne gli esiti". Perché, come si diceva, "poco può aggiungere sulla genuinità dei risultati" visto che i dati su Rousseau "sono, per loro natura e modalità di trattamento, tecnicamente alterabili in pressoché ogni fase del procedimento di votazione e scrutinio antecedente la “certificazione”". Aggiungiamo qualche nota personale sul notaio. Valerio Tacchini non è per nulla "terzo" o super partes. È un amico personale di Casaleggio, già candidato non eletto del M5s al Senato e ora consulente del ministero dei Beni culturali, che segue tutte le faccende del movimento. Tacchini è pure il notaio davanti al quale il 20 dicembre 2017 Davide Casaleggio e Luigi Di Maio hanno costituito (per la terza volta) il M5s (ci sono altri due “Movimento 5 stelle”) riscrivendo la storia e diventando così fondatori di un partito già fondato. Quindi non solo Tacchini non ha alcuna competenza per "certificare" il voto, ma non può neppure essere considerato "terzo" per i suoi legami con il vertice del partito. Insomma, il voto su Rousseau è una boiata pazzesca ed è triste che l'Italia sia in attesa del suo responso.

«Salta tutto»: l’ultima notte di sms e tensioni, così è nato il governo Conte bis. Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Monica Guerzoni su Corriere.it. Partenza con suspense per il Conte bis. Se alle quattro del mattino le luci di Palazzo Chigi erano ancora accese è perché la notte della vigilia è stata lunga e agitata. Si tratta, si litiga, tra Pd e 5 Stelle e all’interno del Movimento. Poi, grazie al pressing del Quirinale, la quadra per dar vita all’esecutivo numero 66 della Repubblica si trova. Dieci ministri del M5S, nove del Pd, uno di Leu e un tecnico donna, Luciana Lamorgese, chiamata al Viminale per chiudere la stagione di Salvini. La borsa sale, lo spread scende, l’amministrazione Trump saluta con «fiducia» il nuovo esecutivo giallorosso. I vertici della Ue accolgono con grande favore la svolta europeista di Roma e l’arrivo dell’ex premier Paolo Gentiloni a Bruxelles come commissario con un portafoglio importante. Salvini ammette la sconfitta e si scaglia contro il governo «della casta». Ma Zingaretti volta pagina: «Ora basta odio». Alle 10 di oggi il giuramento dei ministri nel Salone delle Feste del Quirinale, quindi il premier avrà quattro giorni per limare il discorso per la fiducia, lunedì alla Camera e martedì al Senato. All’1.38 di ieri notte un messaggino rimbalza sugli smarthpone dei dirigenti del Pd: «È saltato tutto». La casella che mette a rischio la nascita del governo è quella strategica del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, lasciata libera dal potentissimo leghista Giorgetti. Il premier vuole metterci il segretario generale Roberto Chieppa, ma Luigi Di Maio si impunta su Riccardo Fraccaro, perché ha bisogno che un fedelissimo tenga gli occhi bene aperti su Conte. Il braccio di ferro è energico, col capo del M5S che minaccia di ridiscutere tutto: «Se non sarò vicepremier e Fraccaro non sarà a Chigi, al Viminale ci vado io». La notizia dello scontro spiazza il Quirinale, dove alle 10 tutto è pronto per la salita di Conte. Macché, il professore lascia palazzo Chigi solo alle due e mezzo del pomeriggio, dopo una faticosa mediazione. Fraccaro sarà sottosegretario alla presidenza. Ma non è una vittoria piena, perché l’idea di Conte è nominare anche Chieppa sottosegretario e affidargli «deleghe importanti in ambito legislativo». Una soluzione che presenta aspetti delicati anche dal punto di vista tecnico, perché si tratterebbe di spacchettare un incarico nevralgico, attraverso il quale passano tutti i provvedimenti. Se la decisione di avere due sottosegretari in una sorta di condominio sarà confermata, l’attuale capo di gabinetto — Alessandro Goracci — prenderà il posto di Chieppa come segretario generale. Trovato il compromesso che ha consentito la partenza del governo e conclusi gli ultimi due vertici, sul programma e sui ministri, alle tre del pomeriggio il giurista pugliese sale al Quirinale con la lista. Si ferma un’ora con il presidente Mattarella nello Studio alla Vetrata e scioglie la riserva con cui aveva accettato l’incarico di formare il nuovo governo. È emozionato e indugia sui nomi per non sbagliare: «Forti di un programma che guarda al futuro, dedicheremo le nostre migliori energie a rendere l’Italia migliore...». Dietro la formula che dà vita al «bis» restano enigmi e nodi politici. Il Pd soffre perché non ha un presidio a Palazzo Chigi: «Abbiamo lasciato che l’esecutivo decollasse, ma il problema andrà risolto. Faremo capire a Conte che è suo interesse essere affiancato da un vice del Pd». Sceso da colle alle cinque della sera, Conte è andato a Montecitorio dal presidente Roberto Fico. Incontro scandito da sorrisi e felicitazioni, mentre in un clima più formale sono corsi via i 40 minuti con Elisabetta Casellati a Palazzo Madama.

Federico Capurso e Ilario Lombardo per la Stampa l'11 settembre 2019. Ora dicono che a Palazzo Chigi regna la massima serenità, sottosegretario unico alla Presidenza del Consiglio sarà Riccardo Fraccaro ed eseguirà i suoi compiti all' insegna dell' equilibrio, non di parte, ma come uomo al servizio del Pd, del M5S e di Giuseppe Conte che, ormai è certo, terrà ancora una volta per sé le delega ai Servizi, con disappunto di una parte di 5 Stelle. Ma nelle ultime 72 ore è successo di tutto nelle stanze più vicine al premier. E si è arrivati a sfiorare di nuovo la rottura tra Conte e Luigi Di Maio. Il motivo è sempre lo stesso e si trascina dietro sospetti e tensioni da ormai un mese. Conte avrebbe voluto affiancare a Fraccaro Roberto Chieppa, attualmente segretario generale del capo del governo. Non solo. Avrebbe voluto dividere a metà le deleghe e consegnare al suo uomo di fiducia quello pesanti sul fronte legislativo. Di fatto sarebbe stato un modo per svuotare il ruolo di Fraccaro. O almeno così lo ha vissuto il diretto interessato che per due giorni ha meditato le dimissioni, confidandolo anche a Di Maio. «Sarei commissariato» è stato il ragionamento. Un sottosegretario dimezzato. Un ridimensionamento inaccettabile, anche per il capo politico. Per placare le ire dei vertici grillini si arriva a un confronto. Conte ha un buon rapporto con Fraccaro. I due si vedono. Il premier chiede rassicurazioni. «Non voglio più che succeda quello che è successo con la Lega, basta conflitti, liti, dispetti» spiega, ricordando lo strapotere di Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio fuori dal controllo del premier. Fraccaro garantisce che non giocherà solo di sponda con il suo partito, il M5S, che il suo ruolo sarà di sintesi dell' indirizzo politico e sarà con Conte garante del lavoro di coalizione. Una rassicurazione che il presidente si fa bastare. E così è lui alla fine a rinunciare al proprio uomo. In cambio però terrà la delega ai servizi segreti, come già aveva fatto con la Lega. Nel M5S c' era (tra gli altri Nicola Morra) chi chiedeva di darla a una figura più politica, espressione del voto popolare, anche per compensare la scelta di un tecnico, il prefetto Luciana Lamorgese, all' Interno. Qualcuno, una minoranza vicina ai vertici aveva suggerito il nome di Vito Crimi, scippato della delega all' editoria. Ma non se ne farà nulla. Nel Movimento però ci sono anche altre fratture a fare rumore. Per esempio tra Di Maio e il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, fino a ieri considerato tra i più ascoltati consiglieri del leader M5S. Qualcuno, molto vicino a Spadafora, sente di poter dire che la distanza è già diventata «incolmabile», per una somma di divergenze culminate pochi giorni fa nella richiesta dell' ex consigliere di essere nominato alla guida del dicastero per lo Sport e i Giovani. Lontano, insomma, dagli schemi di potere in cui affonda le mani Di Maio, e dalla casacca di sottosegretario alla presidenza del Consiglio che gli avevano già cucito addosso. Spadafora non è affatto scontento della sua destinazione. È stato lui a scegliere lo Sport. Sente, anzi, di avere su di sé una buona stella: alla sua prima uscita ufficiale da ministro, a Monza per il Gran premio di Formula 1, è tornata a vincere la Ferrari dopo 9 anni. «Hai una fortuna sfacciata», gli ha detto il suo predecessore, Giorgetti, che aveva anche la delega allo Sport. Ed è qui che si intrecciano i destini, in quella nomina di sottosegretario di Palazzo Chigi che per Spadafora doveva essere la logica conseguenza della trattativa portata avanti in prima persona con il Pd. Una nomina mai arrivata, perché a lui è stato preferito Fraccaro. Le prime crepe tra i due però si erano già aperte ad agosto, nel pieno della crisi. In quei giorni, Di Maio non ne vuole sapere di fare un governo con Nicola Zingaretti. L' uomo più desideroso di liberarsi dei leghisti e di abbracciare il Pd, invece, è proprio Spadafora, che non ha mai nascosto la sua anima di sinistra. Apre un canale con Dario Franceschini e il 23 agosto ospita il vertice tra Di Maio e Zingaretti nel suo salone di casa. Il resto è la storia di questo governo.

Pd, fuga di massa preventiva dei big dal governo. La prova provata: andranno a casa (molto presto). Libero Quotidiano il 4 Settembre 2019. Sono ventuno i ministri del governo Conte bis: nove sono del Pd. Nomi di rilievo? Nessuno. A parte Dario Franceschini, evidentemente molto interessato alla poltrona (guiderà i Beni culturali e Turismo), non se ne vedono. Parliamo infatti di questi dem nella squadra di governo: Francesco Boccia (agli Affari regionali), Giuseppe Provenzano (al Mezzogiorno), Elena Bonetti (alle Pari opportunità e Famiglia), Enzo Amendola (agli Affari europei), Lorenzo Guerini (alla Difesa), Roberto Gualtieri (all'Economia e Finanze), Teresa Bellanova (alle Politiche agricole alimentari e forestali) e Paola De Micheli (alle Infrastrutture e Trasporti), forse l'unica un pochino più di primo piano. Sorge quindi un sospetto a vedere questa grande fuga dei big del Partito democratico dalla formazione dell'esecutivo giallo-rosso. Il dubbio è che forse non vogliano esporsi troppo nella consapevolezza che questo governo con il Movimento 5 stelle non sarà un'esperienza facile e difficilmente durerà fino alla fine della legislatura. Lo stesso Matteo Renzi ha rivelato ad Augusto Minzolini sul Giornale che "nasce un governo tecnico, e neppure dei migliori. Anzi. C'erano in ballo personaggi come Cantone e Gabrielli e invece...". Invece niente. Nessun nome di rilievo.

CHI RIDE E CHI PIANGE CON IL CONTE BIS. Dagonews il 4 settembre 2019. Il Pd porta a casa 9 ministri. Zingaretti riesce a piazzare la fedelissima Paola De Micheli, già lettiana e poi bersaniana di ferro, e il pugliese Francesco Boccia, che dopo una lunga traversata tra Enrichetto Letta, D’Alema e Emiliano, oggi è vicino al segretario dem e da sempre spinge per l’alleanza con i grillini. Peppe Provenzano è in quota Orlando, Enzo Amendola è team Gentiloni (dopo l’esperienza da sottosegretario agli Esteri nel governo presieduto dal “Conte Paolo”), Franceschini è Franceschini e Roberto Gualtieri è ormai uomo di Bruxelles. E gli altri tre? Bellanova, Bonetti e Guerini hanno come comune denominatore Renzi (Guerini, in realtà, è con Lotti uno degli animatori di “Base riformista”). Matteuccio incassa anche un parlamentare Ue, Danti, che entra al posto di Gualtieri.

Ride Conte, certo, perché bisogna tornare indietro a quel fatidico novembre 2011 con l'arrivo del Loden dal volto umano, Mario Monti, per ritrovare una simile pioggia di… lodi (non vogliamo essere volgari) distribuita uniformemente da tutti i giornali e da tutti i governi stranieri, istituzioni internazionali, città-stato, tribù autoctone e isole del Pacifico. Macron lo ha chiamato il giorno dopo il discorso in Senato in cui ha legnato Salvini per fargli i complimenti e per dirgli una cosa fondamentale: ''Non ce l'ho con i 5 Stelle per quella sbandata coi gilet gialli, tanto sia la sbandata che i gilet gialli sono durati molto poco. Sono felice perché hai sconfitto il Cigno Nero'', come hanno soprannominato il Truce in certi circoli. Non a caso c'è chi lavora, a Strasburgo, per portare i grillini proprio nel gruppo di ''Manù''. E poi c'è Trump: è stato il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Pietro Benassi, a contattare l'ambasciatore americano a Roma, Lewis Eisenberg, per avere un cenno di sostegno dal presidente. Ma pensavano a una telefonata, a un ok per via diplomatica. E invece è arrivato il famoso e inaspettato tweet pro-''Giuseppi''. Il fatto è che Trump ha un rapporto molto amichevole con Eisenberg. Parlando in modo diretto, ha chiesto all'ambasciatore se il premier italiano avrebbe poi ricambiato il sostegno americano. La risposta? Fidiamoci: negli scorsi mesi è stato Conte ad annacquare il famigerato memorandum sulla Via della Seta che era stato preparato dall'ambasciatore Sequi e dal sottosegretario sinofilo Geraci per legare Roma e Pechino. Qual è l'origine del goodwill, della buona disposizione dei leader stranieri verso Conte? Sempre lui, Mattarella, quel Presidente della Repubblica che durando in carica sette anni è visto all'estero come unico punto fermo della politica italiana. È la mummia sicula ad aver accreditato Giuseppi, e ad aver garantito per lui, che da par suo si è impegnato a tenere sempre aperto il canale di comunicazione con l'Europa (fino a far votare i grillini per Ursula), avere i conti in regola e tenere a bada l'Uomo Nero Salvini. Non sarà mai un leader il devoto di Padre Pio, ma ha imparato a essere un uomo di potere, delegato da altri a svolgere un determinato lavoro. Sempre potere è. Infine Grillo: nei giorni più incasinati della crisi di governo è stata la sua telefonata al CamaleConte a sbloccare tutto. Il comico-Elevato ha promesso di sostenerlo, ha dato l'ok all'unione col Pd, ha pubblicato il video in cui elogia Conte e bastona Di Maio. Tanto attriti veri tra Giggino e Giuseppi non ci saranno: la caratteristica principale del premier è il suo essere di gomma, uno "rotondo" che assorbe tutto e va avanti. Non tutto è dorato e perfetto, ovviamente. Conte non ha gradito affatto l'arrivo dell'avatar dimaiano Fraccaro come sottosegretario della Presidenza del Consiglio. Lui puntava sul tecnico Chieppa, e invece - come con Giorgetti - si troverà un invadente badante alle calcagna. Da sottolineare pure l'umiliazione del Pd, che senza vicepremier e senza il sottosegretario non mette neppure un piedino a Palazzo Chigi, dove invece sventola da solo il vessillo a 5 Stelle. Non possono non piangere Zingaretti e ridere Renzi, che è nel pieno di un'operazione di makeover sulla sua immagine acciaccata dalle varie sconfitte elettorali. Il gioco di fumo e specchi è partito con lo spacchettamento del Giglio Magico in una serie di correnti, così da creare una finta ortodossia e una finta opposizione, in realtà tutte dipendenti da lui, e occupare tutti gli spazi con il suo debordante ego. Da una parte c'è la Boschi nel ruolo di ventriloqua sui giornali e il fido Marcucci; dall'altra, c'è la "Base Riformista" di Guerini e Lotti; c'è "Sempre Avanti" con Giachetti, Nobili e Ascani, ci sono i suoi comitati civici che sono ancora un'altra entità… il tutto con l'obiettivo di riprendersi il partito, più prima che poi. La scissione non è più nelle carte, ma la Leopolda del prossimo ottobre servirà per dare l'ennesima botta a quel poveretto di Zingaretti, da lui percepito come debole e inconsistente. Ma più di Zinga, con cui non è mai andato d'accordo, il suo nemico più intimo è ormai Gentiloni. Sostiene di averlo ''reinventato'' nominandolo prima ministro degli Esteri e poi facendogli fare il Presidente del Consiglio, senza che l'ingrato Paolo, da Palazzo Chigi, lo chiamasse mai per consigli, lui che era segretario del partito. Per di più, durante la campagna elettorale per le politiche del 2018, in cui Gentiloni correva per un collegio uninominale a Roma, non ha mai voluto fare un comizio a due con Renzi, percepito come repellente per le urne. Ma c'è una faccenda che brucia più di tutte al ducetto di Rignano, e cioè la nomina di Alessandro Profumo al vertice di Leonardo-Finmeccanica. Renzi non ama ''Arrogance'', e quella decisione arrivò con la spinta di Ermete Realacci, ambientalista e amico storico di Gentiloni e della famiglia Profumo. Ancora. Nel palazzo dell'Eni PIANGE Descalzi: l'amministratore delegato aveva incassato il pesante (pure troppo) abbraccio di Salvini, che di fatto gli aveva garantito la riconferma l'anno prossimo in barba a processi e indagini. RIDE, a questo punto, Starace. L'ad Enel, nominato da Renzi, mantiene buoni rapporti con gli ambientalisti grillini grazie alla controllata Green Power. E a questo punto diventa il candidato numero uno a sostituire proprio Descalzi al vertice del cane a sei zampe. Ride, e tira un sospiro di sollievo, Mattarella. È riuscito, con le unghie e con i denti, a portare a casa questo nuovo governo, di cui è padre e anche un po' padrone. È lui ad aver portato il prefetto Lamorgese sulla bollente scrivania (non) occupata finora da Salvini.

Governo: nasce il Conte bis. Ecco la squadra dei ministri. Il Corriere del Giorno il 4 Settembre 2019. Il premier: “Forti di un programma che guarda al futuro dedicheremo le nostre migliori energie e la nostra passione a rendere l’Italia migliore nell’interesse di tutti i cittadini’ Ci sono volute quasi tre ore di vertice a Palazzo Chigi per chiudere con M5s, Pd e Leu il programma di governo, poi nuova riunione ristretta a grillini e dem per i nomi, su cui si è raggiunta alla fine un’intesa. I ministri sono 21 più il sottosegretario alla presidenza. Sette le donne. Mattarella: “Governo nato in base alle indicazioni della maggioranza parlamentare”. E’ nato il Governo Conte bis o   “giallo-rosso” , il primo a maggioranza M5s-Pd con il supporto di Leu . Il presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, infatti dopo un’ultima mattinata di riunioni e scontri, è salito  al Colle alle 15.30  ed ha sciolto la riserva annunciando la lista dei ministri al capo dello Stato Sergio Mattarella . “Forti di un programma che guarda al futuro dedicheremo le nostre migliori energie, le nostre competenze la nostra passione a rendere l’Italia migliore nell’ interesse di tutti i cittadini“: ha detto il premier incaricato Conte.  Domani alle 10 ci sarà il giuramento.   Quanto alla fiducia, si partirà dalla Camera: probabilmente lunedì mattina. Soddisfatto il segretario del Pd, Luigi Zingaretti: “Bene questa svolta, ora è tempo di cambiare l’Italia. Il Governo nasce nel Parlamento come il Governo precedente, abbiamo fermato Salvini e il solo annuncio di questa fase sta facendo tornare l’Italia protagonista in Europa. Il calo incredibile dello spread che si è già determinato significa soldi in più nelle tasche degli italiani. Noi siamo stati uniti e responsabili. Ora c’è un programma unico, di tutti, chiaro, e una squadra nuova. Il Governo è di forte cambiamento anche generazionale”.

Le negoziazioni “politiche” sino all’ultimo minuto. Sono state ore non facili quelle trascorse per trovare prima un accordo sul programma, e quindi sulla composizione della lista dei ministri. La nomina su cui c’è stato un duro scontro nelle ultime ore è quella del sottosegretario a Palazzo Chigi: una “battaglia” vinta dal cinquestelle Riccardo Fraccaro, notoriamente molto “vicino” a Di Maio, nonostante la resistenza del premier Conte, che puntava su Roberto Chieppa, finora segretario generale di palazzo Chigi. Due i vertici nella mattinata: il primo sul programma con i capigruppi di M5s, Pd e Leu a Palazzo Chigi. Il secondo senza gli esponenti di Liberi e uguali per trovare l’accordo sulla lista dei ministri, punto sul quale c’è stata una lunga trattativa e sul quale il primo vertice si era incagliato. La riunione a tre sul programma di governo, iniziata poco dopo le nove, è stata in realtà il proseguimento del lavorìo serale e notturno che è andato avanti a Palazzo Chigi e al Nazareno (sede del Partito Democratico), dove le luci sono rimaste accese anche in piena notte, segno di una trattativa che è proseguita ad oltranza, coinvolgendo pontieri e leader di partito, oltre a Conte naturalmente. Alla riunione del mattino a Palazzo Chigi hanno partecipato i capigruppo alla Camera ed al Senato di M5S, Partito democratico e Leu. “Abbiamo fatto un ottimo incontro. Abbiamo messo a punto un programma molto serio e condiviso” ha spiegato il capogruppo Pd alla Camera Graziano Delrio al termine del tavolo: “Al centro del programma ci sono il lavoro e le famiglie e le persone fragili” e “nel programma è scritto nero su bianco che serve una nuova legge sull’immigrazione per affrontare il tema in maniera organica e non emergenziale“. Delrio ha quindi spiegato che non avrebbe fatto parte della squadra di governo: “Oggi ho terminato il mio lavoro e sono molto soddisfatto. Non sono mai stato né sarò incluso nella squadra di governo, perché abbiamo deciso di fare un grande rinnovamento“. Una squadra di 21 ministri affiancherà il presidente del Consiglio nel governo M5s-Pd. Al Movimento 5 Stelle vanno 10 ministri, al Partito Democratico 9, a Liberi e Uguali 1, Roberto Speranza. Sono sette le donne, dunque un terzo sul totale: tra le donne il solo profilo tecnico del governo, Luciana Lamorgese che va al Viminale. Al M5s va anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro.

Secondo quanto si apprende da ambienti parlamentari di maggioranza, Conte sarà alla Camera per chiedere la fiducia la mattina di lunedì 9 settembre. Ecco tutti i nomi della nuova squadra del Governo Conte bis:

Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: Riccardo Fraccaro

Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese

Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede

Ministro alla Difesa Lorenzo Guerini

Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri

Ministro per gli Affari Esteri Luigi Di Maio

Ministero per lo Sviluppo economico Stefano Patuanelli

Ministro per l’Agricoltura Teresa Bellanova

Ministro per l’Ambiente Sergio Costa

Ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia

Ministro per le Infrastrutture e Trasporti Paola De Micheli

Ministro per il Sud Giuseppe Provenzano

Ministro per l’Innovazione tecnologica Paola Pisano

Ministro per la Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone

Ministro per le Pari Opportunità Elena Bonetti

Ministro per i Rapporti con il Parlamento Vincenzo D’Incà

Ministro per gli Affari Europei Enzo Amendola

Ministro per il Lavoro Nunzia Catalfo

Ministro per l’Istruzione Lorenzo Fioramonti

Ministro per le Attività Culturali con delega al Turismo Dario Franceschini

Ministro per  la Salute Roberto Speranza

Ministro per i giovani e lo Sport Vincenzo Spadafora

In tutto 21 ministri più il sottosegretario alle presidenza del Consiglio: nove Pd, 10 Cinquestelle (più il sottosegretario Fraccaro), uno di Leu e un tecnico al Viminale. Le donne sono sette. E c’è una predominanza di ministri meridionali: oltre al premier pugliese, sono nati al sud 11 ministri su 21. Due i romani. Tra le novità, rispetto al totoministri delle ultime ore, c’è l’indicazione al Ministero del  Lavoro, di Nunzia Catalfo esponente dei 5Stelle che ha contribuito a scrivere il reddito di cittadinanza . Mentre il  capogruppo M5S al Senato, Stefano Patuanelli – tra i più attivi nelle trattative per la nascita del governo giallorosso  andrà a reggere il Ministero dello Sviluppo economico. Quindi nei ministeri che erano  stati sinora guidati da Luigi Di Maio , vanno due 5Stelle che, come noto da ore. Di Maio dopo il passo indietro rispetto alla casella di vicepremier, farà il ministro degli Esteri . Il ministro dell’Interno sarà invece l’ex prefetto di Milano Luciana Lamorgese,  quindi un “tecnico” come fortemente voluto dal Capo dello Stato. Dopo la stagione dei tecnici il ritorno di un politico al ministero dell’ Economia dove andrà il dem Roberto Gualtieri. Alla Difesa Lorenzo Guerini del Partito democratico (corrente renziana). Alla Giustizia confermato Alfonso Bonafede, autore della riforma del processo penale duramente contestata dalla Lega. Alle Politiche agricole un’altra “renziana”, la senatrice pugliese  Teresa Bellanova. Ai Beni culturali ritorna Dario Franceschini – con competenza anche sul turismo – il quale era già stato alla guida di questo ministero. L’ attuale vicesegretaria dem, Paola De Micheli, andrà al Ministero delle  Infrastrutture , al posto di Toninelli. Andrea Orlando resta dunque al Nazareno come vicesegretario unico. Roberto Speranza, di Leu, alla guida del Ministero della Salute.  Lorenzo Fioramonti, che era viceministro all’Istruzione nel governo gialloverde, diventa ministro nel governo giallorosso. Sergio Costa – in quota 5Stelle – è stato confermato all’Ambiente. Federico D’Incà – esponente vicino al Presidente della Camera Roberto Fico (M5S) – ai rapporti con il Parlamento. Paola Pisano già assessore all’Innovazione al Comune di Torino di venta ministro all’Innovazione. Fabiana Dadone alla Pubblica amministrazione. Francesco Boccia agli Affari regionali. Vincenzo Spadafora allo sport e politiche giovanili. Elena Bonetti, del Pd, alle Pari Oppurtunità. Enzo Amendola agli Affari europei. Il dem Giuseppe Provenzano sarà ministro per il Sud. Dopo la lettura dei ministri da parte del premier, è intervenuto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha rivolto un ringraziamento alla “libera stampa” e poi ha pronunciato un discorso significativo: “Una volta che, in base alle indicazioni di una maggioranza parlamentare, si è formato un governo – ha detto – la parola compete al Parlamento e al governo”, che “nei prossimi giorni si presenterà davanti alle Camere per chiedere la fiducia e presentare il suo programma”. Insomma, il nuovo esecutivo è frutto di una maggioranza emersa alle Camere, come previsto dalla Costituzione. Soddisfatto il segretario del Pd, Luigi Zingaretti: “Bene questa svolta, ora è tempo di cambiare l’Italia. Il Governo nasce nel Parlamento come il Governo precedente, abbiamo fermato Salvini e il solo annuncio di questa fase sta facendo tornare l’Italia protagonista in Europa. Il calo incredibile dello spread che si è già determinato significa soldi in più n    elle tasche degli italiani. Noi siamo stati uniti e responsabili. Ora c’è un programma unico, di tutti, chiaro, e una squadra nuova. Il Governo è di forte cambiamento anche generazionale”. Dopo la lettura dei ministri da parte del premier, è intervenuto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha rivolto un ringraziamento alla “libera stampa” e poi ha pronunciato un discorso significativo: “Una volta che, in base alle indicazioni di una maggioranza parlamentare, si è formato un governo – ha detto – la parola compete al Parlamento e al governo“, che “nei prossimi giorni si presenterà davanti alle Camere per chiedere la fiducia e presentare il suo programma”. Insomma, il nuovo esecutivo è frutto di una maggioranza emersa alle Camere, come previsto dalla Costituzione, e non grazie a qualche “clic” telepilotato e telecontrollato su una piattaforma internet. Il primo commento politico che arriva non a caso è quello di Matteo Salvini. Ed è molto duro: “Lavoriamo come e più di prima, non potranno scappare dal giudizio degli italiani troppo a lungo: siamo pronti, il tempo è galantuomo, alla fine vinceremo noi”. Mentre Giorgia Meloni conferma la manifestazione con lo slogan: “Elezioni subito” convocata in piazza per lunedì – quando il governo andrà alla Camera per la fiducia. In squadra ci sono anche due pugliesi, oltre allo stesso Conte che è della provincia di Foggia: sono Teresa Bellanova, che assume il ministero delle Politiche Agricole, e Francesco Boccia, ministro degli Affari Regionali. Entrambi sono esponenti del Pd. Al governo e ai due ministri pugliesi ha rivolto gli auguri di buon lavoro il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. “Auguri al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ed a tutti i nuovi Ministri del suo Governo“, ha scritto su Facebook il governatore. “Auguri speciali – ha aggiunto – ai tre pugliesi Conte, Boccia e Bellanova che fanno parte del nuovo Governo! Un abbraccio pieno di orgoglio per Francesco Boccia, nuovo Ministro degli affari regionali, compagno di lotta per la Puglia e per l’Italia sin dal 2004″. Infine, Emiliano ha rivolto “un ringraziamento a Barbara Lezzi (ministro per il Sud nel precedente governo, ndr) per il lavoro svolto sin qui“.

G.Grillo: Politicamente non mi sono sentita appoggiata da Di Maio. (LaPresse il 9 ottobre 2019) - "Sulla collettività delle decisioni nel Movimento 5 Stelle sicuramente c’è un dato importante, in un anno abbiamo perso molti voti, questo è innegabile ed è inutile nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Abbiamo perso alcune elezioni regionali che ci hanno visto impegnati tantissimo, a partire dall’Abruzzo. Una serie di passaggi delicati sono andati piuttosto male e con una gestione abbastanza verticistica, se non totalmente. Adesso è importante dire quale sarà il futuro del Movimento. Ritengo che questo sia il momento storico in cui il Movimento deve capire cosa deve fare da grande con una fase di maturazione importante. Tutti noi riteniamo fondamentale ristabilire un maggior principio di trasversalità, che nel tempo è diventato sempre più verticistico partendo da un Movimento che era totalmente diverso". Lo ha detto a Start, su Sky TG24 l’ex ministro della Salute e parlamentare del M5S Giulia Grillo. "In questo anno al Governo – ha continuato Giulia Grillo - ho visto tutta una serie di cose che non andavano e che ho fatto presente a chi di dovere. Purtroppo la cosa che più mi ha dato fastidio è che non sono stata totalmente ascoltata da chi pensavo dovesse raccogliere le osservazioni di chi è da dieci anni nel Movimento, di chi è stato capogruppo e capolista, non ero certamente l’ultima arrivata. Per me è stato un anno molto difficile. Politicamente non mi sono sentita veramente appoggiata dal mio capo politico, mentre quello che diciamo è il mio capo spirituale Beppe Grillo mi è sempre stato vicino".

Dagospia il 6 novembre 2019. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. Giulia Grillo, ex ministro della Salute e deputata M5S, balla i pezzi di Michael Jackson durante la diretta di Un Giorno da Pecora. E' accaduto oggi negli studi di Rai Radio1, quando la Grillo si è lasciata andare all'interpretazione danzante di due classici del Re del Pop, Thriller e Bille Jean. “Da piccola ero una fan malata per Michael Jackson, mi studiavo tutti i suoi video e imparavo i suoi movimenti. Lui è un mito”, ha spiegato l'ex ministro ai conduttori Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. "Luigi Di Maio? Non l'ho più sentito da quando mi ha comunicato che non ero più ministro. Sono stata molto arrabbiata qualche settimana. Mi hanno silurato e manco lo sapevo. Ora al mio posto c'è un ministro di un partito che ha il 2.5%, ma va bene così”. Così a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Giulia Grillo, deputato M5S ed ex ministro della Salute.

Come ha saputo di non esser stata riconfermata?

“Mi ha avvertito Di Maio tramite WhatsApp, forse gli sms costavano troppo. Mi ha scritto che non ero nella nuova squadra, spiegando che era dispiaciuto”.

Lei come ha risposto a questo messaggio?

“Non ho risposto, non amo le risposte poco sentite”.

Di lei si parlava molto anche quando veniva toccato il tema dei rimpasti.

“Esatto, non ho mai capito perché si parlasse sempre di me quando si paventavano dei rimpasti: io e Toninelli eravamo i preferiti da mettere sulla graticola”.

E' vero che il capo politico 5S non l'ha mai appoggiata quando era ministro?

“Si, confermo. Avevo fatto la richiesta di abolire il superticket, poi è arrivato Speranza e c'è riuscito”.

E come ci sarebbe riuscito secondo lei?

“Perché lui aveva un potere “ricattatorio", lo dico tra virgolette, una cosa che in politica funziona”.

Qual è stato il più grande errore di Luigi Di Maio?

“Ha subito il rapporto con Matteo Salvini. Di Maio ha fatto benissimo molte cose e ne ha sbagliate delle altre. Ma capita, anche io ho sbagliato tante cose: per esempio fidarmi di lui...”, ha detto l'ex ministro della Salute a Un Giorno da Pecora, che ha aggiunto “sto scherzando”.

Col Movimento si sta comportando meglio il Pd ora rispetto a quanto fatto dalla Lega nel precedente governo?

“Mi sembra di si. Noi ci stiamo comportando sempre allo stesso modo”.

Le piacerebbe fare di nuovo il ministro?

“No”.

Ha mai pensato di lasciare il M5S?

“Si, ho pensato di lasciarlo perché ci sono cose che non mi sono piaciute e non mi stanno piacendo. Ci pensavo già da ministro”.

E cosa ha deciso?

“Penso di non avere sbagliato, e quindi mi dico: perché dovrei esser io ad andarmene?”, ha concluso Giulia Grillo a Rai Radio1.

Da Trenta a Grillo, il fair play (amaro) dei ministri esclusi. Pubblicato mercoledì, 04 settembre 2019 da Lorenzo Salvia su Corriere.it. Maledetto fattore F. Anzi doppia F, come Riccardo Fraccaro e Dario Franceschini. Giocano tutti la carta del fair play gli esclusi, quelli che erano ministri nel governo Conte Uno e che non lo saranno nel governo Conte Due. I trombati, insomma. Barbara Lezzi, che lascia il ministero del Sud, augura «buon lavoro al nuovo governo». Giulia Grillo, mandata via a sorpresa da quello della Salute, scrive che «essere ministro è stato un privilegio». Fair play, appunto. Perché il nuovo governo è già fragile, almeno nei numeri al Senato. E non ha certo bisogno di qualche scossone prima ancora del via. Eppure dietro i post ufficiali un po’ di malumore c’è. A causarlo è proprio il fattore doppia F, che ha portato a gran parte delle esclusioni. La scelta di Fraccaro come sottosegretario alla presidenza del consiglio, di fatto un vice premier unico, ha creato un monopolio del Movimento 5 Stelle dentro Palazzo Chigi. Una decisione che ha portato alla richiesta del Pd di bilanciare i pesi con un paio di ministeri di fascia A, oltre all’Economia. Di qui l’addio di Elisabetta Trenta alla Difesa. Una sorpresa, visto che sull’immigrazione Trenta aveva lavorato bene come argine verso Matteo Salvini e poteva essere funzionale al nuovo corso del governo. Ma neanche troppo se si considera che il suo nome era già stato inserito alla voce sacrificabili quando sembrava che proprio alla Difesa dovesse andare Luigi Di Maio. Lei, comunque, ha chiuso il suo mandato deponendo una corona d’allora all’Altare della Patria. Dall’idea di bilanciare il monopolio M5S a Palazzo Chigi discende anche l’addio di Barbara Lezzi, che cede il ministero del Mezzogiorno al Pd Giuseppe Provenzano. Ma qui, nella partita degli esclusi, entra in gioco un altro fattore: non F ma L, come Leu. I voti dei quattro senatori usciti a suo tempo dal Pd di Matteo Renzi sono decisivi per tenere in piedi la maggioranza a Palazzo Madama. Per questo, in cambio del proprio sostegno, Leu ha ricevuto l’offerta di un ministero. All’inizio doveva essere proprio quello del Mezzogiorno, poi quello degli Affari regionali. Ma Leu ha puntato i piedi per avere una poltrona di peso, chiedendo l’Ambiente. A quel punto il M5S ha difeso Sergio Costa considerando invece scaricabile Giulia Grillo, che fino a ieri mattina sembrava confermata e invece si trova a lasciare il posto a Roberto Speranza. Poi c’è l’altro fattore F, come Franceschini. È stato lui il primo tessitore della nuova alleanza tra Pd e M5S. E ha chiesto di tornare al ministero dei Beni Culturali, mandando a casa Alberto Bonisoli. La lista degli esclusi, veri e potenziali, potrebbe andare avanti per pagine. Enzo Moavero sperava nella conferma, Giovanni Tria non vedeva l’ora di mollare. Laura Castelli era tentata dallo Sviluppo economico ma dovrebbe restare vice all’Economia per marcare a uomo il nuovo ministro del Pd. Anna Ascani era in corsa per i Beni culturali, ma anche lei è rimasta impigliata nel fattore F, Franceschini. Non le resta che aspettare il prossimo giro, con le nomine dei sottosegretari che arriveranno nei prossimi giorni. Non è l’unica a sperare in un premio di consolazione. Il fair play serve anche a questo.

Toninelli, Trenta e gli altri: il futuro dei ministri M5S silurati. Tra il Conte I e II, c'è una bella differenza. Non solo per le forze politiche che lo appoggiano, ma anche per i ministri M5S che ne fanno parte. Alcuni di loro sono stati confermati. Ad altri invece, come Toninelli e Trenta, è andata male. Roberto Bordi, Giovedì 05/09/2019, su Il Giornale. A Giuseppe Conte è stato concesso il bis. Onore negato a quei ministri in quota Movimento 5 Stelle, vittime del "rimpasto" nel passaggio dal governo giallo-verde a quello giallo-rosso. Nomi e volti che gli italiani hanno imparato a conoscere negli ultimi 14 mesi, costretti a tornare sulla terra. Chi al proprio lavoro al di fuori della politica e chi, invece, in Parlamento e/o nei quadri del partito. Barbara Lezzi, ex ministro per il Sud, ha ringraziato e salutato tutti su Facebook: "Continuerò sempre a credere che ci sia la possibilità del cambiamento. Lo devo a mio figlio, a voi e a me stessa. Buon lavoro al nuovo Governo che seguirò dal Senato". Lezzi, infatti, è alla sua seconda legislatura a Palazzo Madama. Chi ha sperato fino all'ultimo nella riconferma è stata Giulia Grillo. L'ex ministro della Salute è stata rimpiazzata dall'esponente di Leu Roberto Speranza. Anche lei ha dato il suo addio su Facebook: "Grazie a chi è stato con me in questi lunghi mesi spesso in salita, condividendo le ansie e gli entusiasmi. Essere ministro è stato un privilegio e un onore". Per lei rimane uno scranno a Montecitorio. Ma non c'è due senza tre. Solo che, nel caso di Elisabetta Trenta, l'addio al Ministero della Difesa è decisamente più polemico: "Non sono contenta, non meritavo tutto questo. Sono stata una delle persone che ha lottato più di tutti contro Salvini. Voglio stare zitta perché in questo momento potrei dire di tutto e contro tutti". Per lei si profila un ritorno all'insegnamento presso la Link University. Più rilassato - ma sbrodolato - l'arrivederci uno dei ministri più discussi del Conte I, Danilo Toninelli. L'ex ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, sostituito dalla dem Paola De Micheli, si è congedato con un lunghissimo post su Facebook in cui ha rivendicato tutti i risultati ottenuti al Mit: "Ho donato tutto me stesso, a volte anche sbagliando, come può capitare, ma comunque nella convinzione di aver agito per l'esclusivo interesse dei cittadini". Tornerà a fare il senatore. Più dimesso l'addio di Giovanni Tria al Mef. In pensione dall'insegnamento dalla fine del 2018, potrà riprendere a scrivere di economia per Il Foglio. Lo sostituisce l'eurodeputato dem Roberto Gualtieri. Chissà che smacco, invece, per Enzo Moavero Milanesi lasciare il posto alla Farnesina a Luigi Di Maio. Vedremo se gli darà dei consigli come Calenda provò a fare con Giggino prima che quest'ultimo ne prendesse il posto ai vertici dello Sviluppo Economico. Tra gli "esuberi" del Conte I anche Alberto Bonisoli, sostituito ai Beni Culturali da un cavallo di ritorno come Dario Franceschini.

Elisabetta Trenta, lo sfogo dopo essere stata silurata: "Non lo meritavo. Ho lottato contro Matteo Salvini". Libero Quotidiano il 5 Settembre 2019. "Non sono contenta, non meritavo tutto questo". Elisabetta Trenta, ex ministro della Difesa, grillina, si sfoga in una intervista con il Messaggero: "Sapevo che il Movimento non mi avrebbe lasciato al ministero" ma "sono stata una delle persone che ha lottato più di tutti contro Matteo Salvini. Voglio stare zitta perché in questo momento potrei dire di tutto e contro tutti". Attacca la Trenta: "Il ministro della Difesa è un ministero importante, il Viminale è un ministero altrettanto importante. È opportuno che ci siano due correnti politiche in entrambi i dicasteri? Siamo sicuri che i tecnici siano abbastanza tecnici?". Eppure Lorenzo Guerini, che ha preso il suo posto, è in quota Partito democratico, non è un tecnico. "Questo lo so bene, il mio successore è del Pd. Quindi devo pensare che Lamorgese lo sia. Non so cosa dire. Anzi, non mi va più di parlare. Ho da fare". Gli scatoloni, già. Con i Cinque stelle però non ha chiuso definitivamente. "Io credo nel Movimento", sottolinea, "perché è fatto di idee e di valori". "Con Luigi Di Maio nessun problema, ma...". Non chiude la frase. Sa cosa le aspetta adesso: "Tornerò alla Link University dove insegno", conclude, "e dove dicono che io abbia cose strane. Già stanno mettendo in giro cose strane sul mio ritorno".

QUANDO TRIA EVITAVA DI MAIO: ''PARLA DI COSE INSENSATE, CHE NON SI POSSONO FARE''. Anticipazione del libro “Questa non è l’Italia” (ed. Newton Compton) di Alan Friedman, pubblicata da “la Stampa” il 4 settembre 2019. L' ufficio del ministro del Tesoro in via xx Settembre è spazioso e decisamente formale, se non addirittura severo, con le sue pesanti tende di broccato e la celebre scrivania di Quintino Sella. Era qui che Giovanni Tria sedeva meditabondo, a mandar giù in silenzio la sua frustrazione. A parte qualche occasionale scoppio d' ira: di tanto in tanto diventava nervoso, molto nervoso. Persino esasperato. Come quando gli dicevano che Luigi Di Maio aveva appena varcato il portone del ministero. «Ho un certo terrore di lui, di Di Maio», ha confessato Tria a un amico un giorno nella primavera del 2019, abbassando la voce mentre chiudeva la porta. «Parla di cose insensate. Mi chiede di fare cose che io non posso fare!», si è sfogato l' inquilino del Mef. «Ha cercato di dimettersi in almeno due distinte occasioni», racconta l' interlocutore del ministro, «ma il presidente della Repubblica ha detto di no». E così è rimasto lì, il punching ball preferito di Di Maio e Salvini, il terminale delle loro pressanti brame in materia di finanza pubblica. Ma, tra i due, era il vicepremier grillino quello che temeva di più. O almeno così è stato fino alle elezioni di maggio. «Talvolta, se sente dire che Di Maio sta arrivando al ministero, cerca di nascondersi o di non farsi trovare in ufficio», ricorda l' amico di Tria con una piccola risata, aggiungendo che il ministro ha confidato il proprio scoramento a più di un visitatore, lamentandosi di quanto fosse difficile lavorare in quelle condizioni. Come se non bastasse, dopo la cospicua vittoria ottenuta alle europee, Salvini aveva iniziato a picchiare ancora più duro, terrorizzando il piccolo professore di economia che ormai scompariva dietro l' imponente scrivania di Quintino Sella. Povero Tria! Una vitaccia. Non c'è quindi da sorprendersi che il Quirinale abbia dovuto dissuaderlo almeno due volte dal rassegnare le dimissioni. Perché una notizia del genere avrebbe di certo spaventato gli investitori internazionali, e sia Salvini sia Di Maio lo sapevano bene. Non che questo avesse impedito ai due viceministri, da bravi demagoghi populisti, di cercare in tutti i modi di affibbiargli la colpa quando i conti non tornavano. Cioè, o a lui o alla Commissione europea. Tanto che cambiava? Di sicuro lo sventurato Tria si sentiva come a bordo del Titanic, mentre il transatlantico correva dritto contro l' iceberg. Tuttavia, nonostante talvolta sembrasse un po' disorientato, se non addirittura in preda alla nausea, il ministro non era un passeggero qualsiasi che se ne andava oziosamente in giro per il ponte: in teoria, era lui che doveva tenere ben saldo il timone (dei conti pubblici). Ma quando Di Maio o Salvini decidevano di raggiungerlo nella cabina di comando, la situazione si faceva piuttosto caotica, come se due o tre persone volessero manovrare il timone contemporaneamente. Mentre i tre cercavano di dare ognuno la propria direzione, la barca smarriva la rotta e veniva sballottata qua e là dalle onde del burrascoso oceano. E nel tumulto generale, l'iceberg se ne stava implacabile all' orizzonte, sempre più vicino, sempre più vicino. L' impatto pareva quasi inevitabile. Queste erano le condizioni in cui versava l' economia, con il capitano Giovanni Tria al timone della nave Italia. Un capitano di nome ma non sempre di fatto, pieno di lividi a furia di prendere botte dai membri dell' equipaggio, e che ogni volta che scorgeva Di Maio o Salvini correva a nascondersi - se non nella cabina di comando, di sicuro in qualche ufficio dalle parti di via xx Settembre. Non c'era da stupirsi che talvolta Tria avesse la faccia di uno in preda al mal di mare. Ma le cose non dovevano per forza andare in questo modo. La nave avrebbe potuto salvarsi. Certo, se l'economia italiana si trovava in una fase di stagnazione e vulnerabilità, in parte la colpa era dovuta anche al rallentamento dell' economia globale, soprattutto sotto la pressione delle aggressive guerre commerciali di Donald Trump. Ma c' era anche un' altra ragione che spiegava la folle corsa verso l' iceberg della nave Italia: l' errore umano. Nel caso specifico, l' adozione di politiche economiche errate e mal progettate, che non si sono dimostrate capaci di stimolare neanche un briciolo né la crescita né l'aumento dell' occupazione.

Danilo Toninelli lascia il ministero e spara: "I risultati dimostrano il mio grande lavoro". Libero Quotidiano il 5 Settembre 2019. «Sapevo che l'impegno sarebbe stato al tempo stesso gravoso ed entusiasmante, ma questi 15 mesi di governo sono andati oltre ogni mia immaginazione e previsione. È stata un' esperienza intensa come non mai». Lo ha scritto su Facebook l'ex ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Danilo Toninelli. «Ho dato il massimo per onorare il mio mandato al Mit, per interpretare quel cambiamento di cui il Paese ha bisogno. Ho donato tutto me stesso, a volte anche sbagliando, come può capitare, ma comunque nella convinzione di aver agito, giorno dopo giorno, per l'esclusivo interesse dei cittadini. E i risultati stanno lì a dimostrarlo», ha aggiunto. «Potrei citare», ha aggiunto, «i tanti dossier fermi da anni che abbiamo risolto o avviato a soluzione», ma «è su tre parole chiave che abbiamo incardinato una vera rivoluzione: manutenzione, controlli, autostrade».

Lorenzo Salvia per il ''Corriere della Sera'' il 5 Settembre 2019. «Ho la coscienza a posto. Certo, di errori ne avrò fatti, chi non ne fa. Ma credo di aver pagato oltre le mie responsabilità». Chi in questi giorni ha incontrato l’ormai ex ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli si è trovato davanti un uomo che amareggiato è dire poco. È vero che il totoministri è come il calciomercato, tutto sembra possibile, le candidature vanno e vengono. Ma nel turbinio dei nomi che abbiamo letto in questi giorni c’era una sola certezza, fin dall’inizio: lui non sarebbe stato ministro. Non sarebbe rimasto alla Infrastrutture dopo la disfatta della Tav. E non sarebbe nemmeno stato spostato verso un altro ministero, come pure è accaduto ad altri colleghi del Movimento. A pesare è la sua fama di «ministro delle gaffe», che anche ieri ha portato tutta l’opposizione a giocare facile con il sarcasmo. Matteo Salvini, per fare un tuffo nel passato, dice che al suo posto va una «imprenditrice di pomodori. Pensavo, peggio di Toninelli non si può fare. Mai dire mai». Anche nel Movimento c’era la consapevolezza di non poterlo confermare. Il Pd non ha dovuto neanche chiedere la sua esclusione, tanto era scontata. Perché la sua nomea di «ministro delle gaffe» si è ormai fatta quasi luogo comune. Ed è quindi impossibile da arginare. Toninelli non lo ammetterà mai pubblicamente, ma l’amarezza è tanta anche perché pensa che i vertici del Movimento non lo abbiano difeso abbastanza quando Salvini lo attaccava a testa bassa. E alla fine hanno scaricato addosso a lui tutto il peso di una sconfitta pesante come il via libera all’alta velocità. Anche lui, però, sceglie di fare buon viso a cattivo gioco. Perché la politica è una ruota che gira e infatti per lui o per Lezzi potrebbe arrivare il ruolo di capogruppo al Senato. Per questo pubblica un lungo post su Facebook in cui dice di aver «donato tutto me stesso, a volte anche sbagliando, come può capitare, ma comunque nella convinzione di aver agito per l’esclusivo interesse dei cittadini». Segue lista dei casi seguiti, a partire dal Ponte Morandi per chiudere con le concessioni autostradali, augurando al governo di «proseguire nel solco tracciato». Di Tav non parla, ovvio. L’onore delle armi.

Massimo Gramellini per il ''Corriere della Sera'' il 5 Settembre 2019. Ministro, o mio ministro, ho cercato e ricercato il suo nome tra i componenti del Conte alla rovescia. Non trovandolo, ho sperato in un errore. Trattandosi di Lei, caro Toninelli, converrà che non era una speranza mal riposta. Quel Patuanelli, ho pensato, non è che sarà lui, almeno per metà? Ma alla fine ho dovuto arrendermi alla dura prosa dei fatti. Quando dicevano che questo governo avrebbe abbassato i Toni, alludevano a Lei. Gli altri maggiorenti grillini che avevano preso una sbandata per l’Uomo Nero l’hanno sfangata: Conte è rimasto al suo posto, Bonafede pure, e Giggino International è stato addirittura catapultato sul pianeta delle feluche. Ha pagato quasi soltanto Lei, che in quel governo di dilettanti e di truci ha svolto al meglio il compito non facile di portare una ventata involontaria di buonumore. Mi mancheranno i suoi tunnel del Brennero, le sue profezie sulla rinascita di Genova in pochi mesi o al massimo anni, i suoi appelli a favore dell’auto elettrica pronunciati al volante di un Suv diesel. Mi mancherà Lei, signor ministro, con la sua specchiata incompetenza e il suo impegno genuino nell’esplorare l’ignoto e nello stupirsene ogni volta. Molti di noi, nella vita, hanno i loro momenti Toninelli, in cui ci sbattiamo e ci concentriamo senza cavare un ragno dal buco e nemmeno dal tunnel. Ora lei paga il conto per tutti e il prezzo che le vorrebbero imporre è l’oblio. Ma sa che cosa le dico? La rimpiangeremo. O addirittura la richiameremo. Anche se adesso sembra impossibile forse persino a Lei.

Matteo Salvini a Pietro Senaldi: "Ecco quale è stata la mia unica colpa". Crisi di governo, la confessione. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 4 Settembre 2019. «Vigliacchi, M5S e Pd si detestano ma si sono messi d' accordo per non far votare gli italiani. Fino a due settimane fa si insultavano furiosamente l' uno con l' altro. Il governo dell' odio è quello che sta per nascere. Sono orgoglioso di essere rimasto fuori da questo mercato delle vacche indegno». Matteo Salvini ha un tono calmo mentre pronuncia parole di fuoco.

È pentito di avere aperto la crisi?

«L' unica colpa che ho è di essere stato ingenuo, ritenevo di vivere in un Paese democratico. I miei genitori mi hanno educato con sani principi. Ho sottovalutato la voglia di poltrone dei grillini e la loro mancanza di dignità.

Del Pd lo sapevo, ma non mi aspettavo che i Cinquestelle fossero diventati peggio della casta che hanno sempre giurato di voler combattere. I grillini ormai sono il partito delle poltrone».

Ma se come prima mossa Di Maio ha detto che il nuovo governo taglierà i parlamentari.

«Tutti sanno che questo esecutivo nasce per far tornare i Dem al potere e per non mandare a casa cento parlamentari grillini, cosa che sarebbe avvenuta se avessero consentito agli italiani di votare».

Di Maio l' ha delusa?

«L' ho visto in tv, non mi sembrava avesse l' aspetto del vincitore. Di lui non dirò mai male, come di tutti i grillini con i quali ho lavorato bene. Certo, lo vedo in difficoltà».

Che ne sarà dei grillini dopo l' abbraccio con il Pd?

«Sono morti: diventeranno una costola di Leu e della Boldrini, neppure del Pd. Che brutta fine».

Non teme di perdere consensi per la sua mossa?

«Ricevo solo incoraggiamenti ad andare avanti. C' è perfino gente che mi scrive dicendo di non essere mai stata leghista ma che ora è con me e mi esorta a non mollare. La Lega è di gran lunga il primo partito in Italia, un elettore su tre è con me. Se fossi in crisi di consensi, ci farebbero votare. La realtà è opposta. L' ultimo sondaggio dice che il 90% degli elettori leghisti è a favore della rottura: la mossa ha compattato il nostro popolo».

La accusavano di voler instaurare un regime.

«E per difendere la democrazia impediscono il suo esercizio, ma non possono farlo per sempre. Prima o poi torneremo a votare. Conte ha governato con me e ora dice che sono un pericoloso fascista; ma allora lo era anche lui. I soli fascisti pericolosi per la democrazia sono quanti hanno paura del voto: cosa dovrei dire ora io di lui e della sua operazione?».

Non perdona al premier le accuse che le ha rivolto in Parlamento?

«Si è trasformato da avvocato degli italiani in avvocato della Merkel e di Macron. Che vergogna, ma non infierisco: si fa una brutta vita a piegare la schiena».

Cosa farà da domani?

«Già il prossimo mese si vota in Umbria, sempre che non decidano di sospendere la democrazia anche nelle Regioni, visto che dopo lo scandalo che ha travolto il Pd, la roccaforte rossa rischia di cadere. Il 15 settembre c'è Pontida, dopo di che girerò l'Umbria, perché i cittadini di quella Regione non si meritano di essere governati ancora dai democratici».

Dica la verità: perché ha rotto?

«Ho capito che non mi avrebbero fatto abbassare le tasse come avevo promesso agli italiani e che i grillini si erano accordati con l' Europa per una manovra anti-italiana».

Doveva staccare prima...

«Visto quel che è successo, non sarebbe cambiato nulla».

È stato tirato per la giacca?

«Non ho preso un' insolazione a Milano Marittima. Tutta la Lega mi chiedeva di rompere, e con lei gli imprenditori, le persone che incontravo, la società. I grillini sono ancora contro la Tav e la Gronda di Genova, non era possibile andare avanti».

Colpi di sole. Perché tutti ce l' hanno con lei per la sua estate in spiaggia a torso nudo?

«Scusi, lei in spiaggia va in smoking? La mia estate ha indignato i radical-chic. Il fatto che uno cantasse in spiaggia ha ferito la loro spocchia. È surreale, sono terrorizzati dal popolo, tant'è che scappano dal voto. Un politico che va in riviera sotto l' ombrellone fa paura perché la sinistra non sopporta le idee chiare e la semplicità».

È amareggiato?

«Non sono triste né depresso né deluso. È un momento positivo, stiamo gettando le basi per il ritorno della Lega al governo, stavolta con un esecutivo che possa fare qualcosa. Quello gialloverde, aveva esaurito la propria funzione, era bloccato da mesi. Tranne che su immigrazione e sicurezza, dove io bombardavo tutti i giorni».

Ora che ne sarà di quei fronti?

«Non avevo ancora lasciato il Viminale e già dieci navi incrociavano al largo di Lampedusa. I grillini dicono che terranno la mia linea dura, ma non ci riusciranno, non è nel loro dna e il Pd cercherà di tornare alle frontiere aperte. Io però mi batterò perché non venga smontato il mio lavoro».

Quanto la spaventa il governo del Pd con Cinquestelle...

«A M5S e Pd dico: spartitevi le poltrone, mettete da parte gli ultimi soldi, perché torneremo presto. Presto vinceremo, vinceremo e vinceremo».

È sorpreso dall' esito della votazione su Rousseau, un plebiscito a favore dell' alleanza M5S-Pd?

«Per nulla, era prevedibile: il ribaltone è stato ben organizzato. Mi ha rattristato un po' ascoltare i toni enfatici con i quali M5S ha celebrato il sì di 60mila persone su una piattaforma privata. Io volevo far votare il governo da sessanta milioni di italiani».

Quanto dura questo esecutivo?

«Non faccio il gufo. Mi limito a notare che M5S e Pd non sono d' accordo su nulla se non nell' odio verso di me, l' amore verso la Merkel e l' attaccamento al potere e alle poltrone. Non ci sono i presupposti politici perché questo governo vada lontano, è l' esecutivo che nasce con il minor sostegno popolare della storia. Perfino Monti ne aveva di più. Sono minoranza nel Paese e non hanno neppure l' appoggio di tutti i loro elettori».

È stato un errore chiedere pieni poteri, l' hanno attaccata tutti per quella frase e l' hanno sfruttata per far partire il governo M5S-Pd?

«È stata strumentalizzata, intendevo pieni poteri nel rispetto della Costituzione. Volevo un governo operativo, non bloccato dai veti, come ormai era quello M5S-Lega».

Perché ha provato a tornare indietro e rifare un'intesa con M5S?

«Non sono tornato indietro. Ho solo provato a vedere se una parte di M5S preferiva i Sì ai No ed era disposta a cambiare certi ministri che non funzionavano e bloccavano il Paese. Mi riferisco alle Infrastrutture, all'Economia, all' Ambiente e alla Giustizia, che mi allarma particolarmente».

Perché proprio la giustizia?

«Mi preoccupa il mix di giustizialismo grillino e sudditanza dem alla magistratura. Ho paura che diventeremo come l' URSS».

Lei ha aperto le porte ai grillini delusi: qualcuno ha già bussato?

«Sì, ma non è una priorità ora».

Quando si è rotto il rapporto con i grillini?

«Con la campagna elettorale per le Europee i grillini sono passati agli insulti personali verso me e i miei. Non si riusciva a distinguerli da Saviano».

Con la Lega all' opposizione il centrodestra si compatterà?

«Lavoro per allargare la coalizione. Alle Regionali ci presenteremo uniti. Ma mi lasci dire: visti gli ultimi accadimenti non ha più senso parlare di centrodestra. Ormai c' è un partito degli italiani e uno degli stranieri. M5S, votando in Europa con Merkel e Macron, si è iscritto al secondo. Il cosiddetto centrodestra che io guido si identifica con il primo».

Quando parla di allargare intende anche a Forza Italia?

«Certo, a patto che Forza Italia smetta di essere ambigua e attaccarmi. Una parte degli azzurri vuole seguire Renzi. Berlusconi faccia chiarezza nel suo partito: chi guarda a Renzi e Macron non può stare con me».

E la Meloni?

«Lei mi sembra faccia parte del partito degli italiani».

Lo ammetta, con il rosario ha esagerato...

«È una battaglia identitaria».

Sì, ma lei lo ha scoperto dopo 25 anni di politica...

«Il rosario è di tutti, non appartiene solo alla Chiesa. La gente mi chiede di portarlo per testimoniare l'orgoglio di appartenere alla civiltà cristiana». Pietro Senaldi

Marco Travaglio ossessionato da Matteo Salvini: la prima pagina del "Fatto" nel giorno del Conte-bis. Libero Quotidiano il 5 Settembre 2019. L'ossessione che nutre nei confronti di Matteo Salvini, per lui una sorta di nuovo Silvio Berlusconi, emerge con tutta la sua preoccupante prepotenza anche nel giorno in cui Salvini c'entra poco e niente, il primo giorno di vita del governo dell'inciucio giallorosso tra Pd e M5s, frutto di una manovra di palazzo che il soggetto di cui stiamo parlando - Marco Travaglio - da tempo caldeggiava sulle colonne ultra-grilline del suo Fatto Quotidiano, house-organ del M5s. Già, perché Marco Manetta dedica il titolo di apertura, beffardo e velenoso, proprio all'ormai ex ministro dell'Interno. Ecco un sapiente fotomontaggio in cui si vede Giuseppe Conte, il premier-bis, passare la campanella di Palazzo Chigi a se stesso. Sorride, l'avvocato del popolo o presunto tale, e in calce alla fotocomposizione modello-cartolina ecco campeggiare la scritta-pop: "Bacioni da Palazzo Chigi". Fin troppo evidente il riferimento ai "bacioni salviniani", ma per renderlo chiaro in tutto e per tutto, ecco far anche capolino un mezzobusto di un Salvini imbronciato. Le ossessioni di Travaglio sono dure a morire...

Giuliano Ferrara sferzante contro Matteo Salvini: "Dice che il governo è nato a Parigi e Berlino?" Libero Quotidiano il 5 Settembre 2019. Scatenatissimo su Twitter, Giuliano Ferrara, in queste ore in cui nasce il governo giallorosso e in cui tramonta - almeno per ora - la parabola salviniana, di quel Matteo Salvini di cui l'Elefantino è sempre stato fiero oppositore. Dopo aver, alla vigilia, celebrato il modo in cui l'ormai ex ministro dell'Interno è stato "fottuto" - testuali parole -, l'ex direttore de Il Foglio torna alla carica, commentando un passaggio del video-intervento del leader della Lega di mercoledì sera. "Dice il senatore Salvini che è un governo nato tra Parigi e Berlino - premette l'Elefantino -. Ma che cosa al mondo si può chiedere di più, stando a Roma?", conclude Ferrara aggiungendo l'hashtag #cinismo. Da sempre europeista, il direttore conferma la sua inclinazione con quest'ultimo, tagliente, cinguettio.

Governo Conte bis: ecco la lista completa dei ministri. È nato il governo Conte bis. Ventuno ministri, dieci del MoVimento Cinquestelle, nove del Partito democratico, uno di Leu. Più una ministra "tecnica", l'ex prefetta di Milano Lamorgese, che arriva al Viminale. Di seguito l'intera squadra.

MINISTRI CON PORTAFOGLIO

Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del governo Conte bis. Nuovo ruolo per il ministro dei Rapporti con il Parlamento del precedente governo giallo-verde. La Repubblica il 4 settembre 2019. Il cinquestelle Riccardo Fraccaro, testa d'ariete del Movimento nelle battaglie anti-vitalizi, passa dal ministero dei Rapporti con il Parlamento al ruolo di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dopo un braccio di ferro tra Conte e il M5s. Trentotto anni, è nato a Montebelluna, in provincia di Treviso. Ma è a Trento, sua città di adozione dove ha fatto l'università, che Fraccaro fonda nel 2010 il primo meet up del M5s, sposando soprattutto la battaglia contro l'inceneritore. Fedelissimo di Luigi Di Maio, il neo sottosegretario ha all'attivo nel suo curriculum un lavoro da pizzaiolo e una gaffe per un post contro il presidente emerito Giorgio Napolitano. Laureato in giurisprudenza, mette piede a Montecitorio per la prima volta nel 2013, unico deputato M5s eletto in Trentino. Per il Movimento diventa anche portavoce del gruppo e segretario dell'ufficio di presidenza. È in questo ruolo che fa sua la battaglia contro gli affitti d'oro degli organi costituzionali. Nel 2013 la gaffe anti Napolitano: nel giorno in cui il capo dello Stato di allora accetta di ricandidarsi, Fraccaro scrive sul suo blog: "Oggi è il 20 aprile, giorno in cui nacque Hitler. Sarà un caso, ma oggi muore la democrazia in Italia". Dopo alcune ore, il messaggio scompare. Altro scivolone con il "cercasi giornalista tuttofare", offrendo di pagarlo meno di 3 euro l'ora. Fraccaro ha sostenuto con forza la legge sul taglio dei parlamentari, cavallo di battaglia del M5s, approvata l'11 luglio al Senato ma rimasta in sospeso a causa dell'apertura della crisi di governo. Il provvedimento, infatti, attende l'ok della Camera ma sarà sicuramente oggetto di revisione da parte della nuova maggioranza. Il Pd, infatti, è favorevole a un intervento di taglio dei costi della politica ma in un quadro di riforma istituzionale più ampia. (mo.rub.)

Luciana Lamorgese ministra dell'Interno del governo Conte bis. Avvocata, è stata capo di gabinetto del ministro dell'Interno sia con Alfano che con Minniti e nel 2017 prefetta di Milano. La Repubblica il 4 settembre 2019. Per ricoprire nel 2017 la carica di prefetta di Milano al posto di Alessandro Maragoni, andato in pensione, Luciana Lamorgese è arrivata direttamente dal Viminale, dove ha ricoperto, dal 2013, il ruolo di capo di Gabinetto del ministro dell'Interno, prima con Angelino Alfano e poi con Marco Minniti. E al Viminale oggi fa ritorno nel nuovo esecutivo giallo-rosso, prendendo il posto che è stato per 14 mesi di Matteo Salvini. Nata a Potenza 66 anni fa (il suo compleanno è l'11 settembre), laureata in Giurisprudenza e abilitata alla professione di avvocato, Lamorgese lavora per il Viminale dal 1979, diventando viceprefetta ispettrice nel 1989 e viceprefetta nel 1994. Tra gli incarichi di questi anni: componente della commissione di disciplina per il personale dell'amministrazione civile dell'Interno e, poi, di diverse altre commissioni governative. Nel 2003 è stata nominata prefetto, andando a dirigere il settore delle risorse umane al dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali del ministero. Prima di arrivare a Milano, il primo caso di un prefetto donna nel capoluogo lombardo, Lamorgese ha guidato la prefettura di Venezia dal 2010 al 2012 e poi, come detto, è stata braccio destro del ministro Alfano e del suo successore. Prima di diventare ministro, Lamorgese era consigliera di Stato, essendo andata in pensione come prefetta nell'ottobre del 2018 (a Milano il suo posto è stato preso da Renato Saccone). Sin dagli inizi della trattativa fra M5s e Pd è stata individuata come "tecnico" di grande esperienza per rimettere in ordine il ministero dell'Interno e riaprire i rapporti con l'Europa in materia di immigrazione, dopo la politica di chiusura del leader leghista.  (mo.rub.)

Luciana Lamorgese prenderà il posto di Salvini: addio ai porti chiusi, cosa ci aspetterà ora. Libero Quotidiano il 4 Settembre 2019. Luciana Lamorgese prende il posto di Matteo Salvini al ministero dell'Interno. A dire addio con il nuovo governo non solo il leader leghista, ma anche le sue politiche migratorie. La Lamorgese, definita da alcuni "alfaniana di ferro", ha in passato gestito l'emergenza degli sbarchi e il piano-incentivi ai comuni che sceglievano di accogliere i richiedenti asilo. In un'intervista del 2017 l'avvocato nato a Potenza affermava che "il processo di integrazione è necessario per evitare fenomeni di radicalizzazione".  E ancora: "L'accoglienza deve essere equilibrata e sostenibile e se ognuno fa la sua parte non ci sono problemi". L'ex prefetto si è inoltre sempre impegnata in prima persona affinché le grandi manifestazioni pro-accoglienza per gli immigrati promosse dalla giunta Sala non fossero oggetto di contro-manifestazioni "xenofobe".

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 5 settembre 2019. Fuori il ciclone iper-politico Salvini, al ministero dell' Interno è il momento di un tecnico, anzi una tecnica. Si apre la stagione di Luciana Lamorgese, 66 anni, prefetto in pensione, sconosciuta ai più, laconica e proprio per questo motivo perfetta per tirare fuori il ministero dell' Interno dalle lotte di partito. Lamorgese ha il curriculum migliore allo scopo. Figlia prediletta del Viminale dove ha lavorato continuativamente per quasi quarant' anni, scalando tutte le posizioni fino a diventare capo di gabinetto del ministro Angelino Alfano nel 2013. Da quel momento, per i successivi quattro anni, fu lei l' anima del ministero, gestendo i momenti difficili degli sbarchi di massa. Di quel periodo si ricorda la freddezza, la lucidità, l' energia sia pure condita dai modi impeccabili. Il tipico pugno di ferro in guanto di velluto. Venne poi Marco Minniti, uno a cui piaceva fare tutto in prima persona, e nemmeno un mese dopo Lamorgese era già alla prefettura di Milano, dove si è confrontata con i problemi di una grande città, e a dire di tutti ha fatto benissimo. Non per caso, al saluto di commiato c' erano il sindaco Beppe Sala come il Governatore Attilio Fontana, Bobo Maroni e Matteo Salvini. Eppure era stata lei la prefetta che aveva imposto ai sindaci del Milanese, molti i leghisti, sempre con il sorriso sulle labbra e un tono super-istituzionale, di fare la loro parte nell' accoglienza dei richiedenti asilo. Una delle prime mosse fu un protocollo d' intesa con gli enti locali. «Se ognuno fa la sua parte - predicava - avremo un' accoglienza equilibrata e sostenibile». Dove già in queste parole si coglie l' aspirazione alla via di mezzo, pragmatica, senza forzature che siano la chiusura totale o l' aperturismo assoluto. Non l' attende una stagione facile, con Lega e FdI già sulle barricate. Toccherà infatti al ministro Lamorgese di emendare i decreti Sicurezza, scrivere una nuova legge sull' immigrazione, e gestire la quotidianità che verrà. A lei, l' onere di trovare una formula (legando i permessi di soggiorno a un lavoro, non regolare, ma certificato in qualche modo? ) che possa sanare la situazione di clandestinità in cui si trovano decine di migliaia di stranieri e allo stesso tempo tenere ferma la lotta all' immigrazione clandestina. A Milano, Lamorgese non s' è tirata indietro quando s' è trattato di sgomberare edifici occupati, ripristinare l' ordine alla stazione Centrale, usare le maniere forti con le interdittive antimafia. E' una donna di legge e ordine che non ha paura di esprimere le sue idee. «Oggi assistiamo a rigurgiti di antisemitismo e di razzismo, anche in relazione ai flussi migratori. Io dico che bisogna accogliere nelle regole e non respingere il diverso che può essere un arricchimento per il territorio», diceva a una cerimonia in prefettura. Ed erano i giorni in cui si insediava Salvini.

Gabrielli: "Salvini con le magliette della polizia... la gente non è idiota, ma non mi sono sentito offeso". Il capo della Polizia a Napoli: "La rabbia della famiglia del vigilantes? Come dargli torto". Antonio Di Costanzo il 10 settembre 2019 su La Repubblica. "Come dargli torto". Il capo della Polizia di Stato, Franco Gabrielli, risponde così a Napoli a chi gli chiede della rabbia della famiglia del vigilantes ucciso per il permesso dato ad uno dei killer. "Il problema è che questo Paese morirà di bulimia normativa - dice - si fanno leggi in continuazione che poi alla fine non producono gli effetti, c'è la necessità di una rivisitazione complessiva. Il tema è che gli interventi normativi spot a volte producono più danni del preesistente. C'è una parolina magica che però nel nostro paese ha sempre avuto poco successo ed è riforma". E Gabrielli risponde anche a chi gli chiede dell'abitudine dell'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, di indossare magliette delle forze dell'ordine: "Lui veramente lo utilizzava come una modalità per farsi sentire come parte. Ho sempre detto, ma signori miei un ministro dell'Interno che è l'unica autorità di pubblica sicurezza, vertice politico della Polizia di Stato ha bisogno di una t-shirt per riaffermare questa sua funzione? Perché così facendo si rischia di immaginare che i cittadini siano una banda di idioti, che hanno bisogno di una t-shirt, di un vessillo per riaffermare una cosa di questo genere. Se mi sono sentito offeso? No". In passato, Gabrielli aveva definito la scelta dell'allora ministro "un gesto di attenzione" e lo ribadisce oggi in una nota Ansa: "Non ho mai vissuto come una situazione negativa il fatto che il ministro dell'Interno Matteo Salvini indossasse polo o giacche della Polizia, bensì come un segno di vicinanza alla Polizia. Non mi sono mai sentito offeso. E, contrariamente a chi ha sostenuto che si trattava di una forma di intimidazione, ho sempre sostenuto che il ministro dell'Interno non ha certo bisogno di indossare una maglietta per affermare il suo status". Per quanto riguarda il nuovo ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, Gabrielli si è detto fiducioso sulla collaborazione: "Sarà semplice parlare perché è un collega che parla la mia stessa lingua". Al governo Gabrielli chiede "che metta mano quanto prima al nuovo contratto di lavoro. La gente ci deve vedere in strada soprattutto quando ha bisogno di sentirci vicini, vale a dire di notte, nei giorni festivi - ha detto - e tutto questo deve essere remunerato. Lo avevo detto a Salvini, lo dico al neo ministro dell'Interno che è anche una collega. Il tema del nuovo contratto di lavoro è importante non per arricchire le strutture ma per consentire a noi di fare il lavoro in nome dei cittadini che sono la nostra unica ragione di esistere. Non lo chiediamo per noi stessi ma per la missione che ci è stata affidata".

Roberto Gualtieri, ministro dell'Economia del governo Conte bis. Professore di Storia, ex dalemiano, europarlamentare del Pd dal 2009 sostituisce Giovanni Tria per affrontare la difficile partita della manovra. La Repubblica il 4 settembre 2019. Cinquantatrè anni, romano, professore di Storia contemporanea alla Sapienza, europarlamentare del Pd dal 2009 nonché presidente della commissione Problemi economici e monetari dell'Europarlamento. Questo in sintesi il ritratto del nuovo ministro all'Economia Roberto Gualtieri, un politico che prende il posto del tecnico Giovanni Tria. A lui spetterà districarsi nella difficile partita della manovra economica in autunno. Dopo una militanza giovanile nel Partito comunista (prese la tessera della Fgci nel 1985 firmata dall'allora segretario - e suo coetaneo - Nicola Zingaretti), Gualtieri compie la sua gavetta nella segreteria romana dei Democratici di sinistra, tra il 2001 e il 2006. Nel 2007 viene eletto all'Assemblea nazionale del Partito Democratico in quota D'Alema. Nel 2009 sbarca a Strasburgo, diventando uno degli eurodeputati più influenti e apprezzati, al punto che il sito Politico.eu lo ha inserito nella classifica dei tre europarlamentari più ascoltati della scorsa legislatura. Europeista convinto, ma anche fautore della riforma del patto di stabilità, è stato consigliere economico di Renzi e Gentiloni. (mo.rub.)

Chi è Roberto Gualtieri, l'erede di Tria all'Economia. 53 anni, eurodeputato Pd da tre legislature e professore di storia contemporanea, ha ricevuto la benedizione della presidente della Bce, Christine Lagarde. Roberto Bordi, Mercoledì 04/09/2019 su Il Giornale. "La nomina di Roberto Gualtieri a ministro dell'Economia sarebbe un bene per l'Europa e per l'Italia". La benedizione dell'erede di Tria al vertice del dicastero del Mef arriva addirittura da Christine Lagarde. L'ex direttore generale del Fmi e attuale presidente della Bce, parlando oggi agli eurodeputati della commissione Affari economici, ha speso parole al miele nei confronti di Gualtieri, che è stato ufficialmente scelto come nuovo ministro dell'Economia.

Il curriculum. Ma chi è Roberto Gualtieri? Romano, classe 1966, è professore di storia contemporanea all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Vicedirettore della Fondazione Istituto Gramsci, ha intrapreso la carriera politica nei primi anni 2000. Membro della segreteria romana dei Democratici di Sinistra tra il 2001 e il 2006, nell'ottobre 2006 è stato uno dei tre relatori del convegno di Orvieto che ha dato il via alla costruzione del nuovo partito e ha successivamente fatto parte della commissione di saggi nominata da Romano Prodi che ha redatto il "manifesto" per il Partito democratico. Autore di numerosi libri ed articoli sulla storia italiana e internazionale del XX secolo, grande esperto del processo di integrazione europea, è eurodeputato per il Pd da tre legislature. Entrato a Strasburgo nel 2009, è stato rieletto due volte. Presidente della Commissione per i problemi economici e monetari dell’Europarlamento (carica assunta al secondo mandato e confermata nel 2019), da luglio è anche vicepresidente del gruppo dei socialisti e democratici.

Apprezzato in Europa (e dal Pd). Tra i negoziatori per conto del Parlamento europeo del Fiscal Compact - il trattato che ha obbligato l'Italia a inserire in Costituzione l'obbligo di pareggio di bilancio - nel 2016 Gualtieri è stato inserito dal magazine Politico nella lista degli otto deputati europei più influenti. La sua nomina a ministro del Mef è un modo per avvicinare l'Italia all'Europa, dove Gualtieri è molto conosciuto e apprezzato. Il suo primo impegno sarà il negoziato con l'Unione europea sulla prossima manovra di bilancio, con la quale il Conte-bis sarà chiamato a evitare l'aumento dell'Iva e l'apertura di una procedura di infrazione per deficit eccessivo. L'eurodeputato spagnolo Luis Garicano, su Twitter, si è congratulato con Gualtieri ancora prima della presentazione della lista ufficiale dei ministri da parte del premier incaricato. "Oggi ci manchi all'audizione di Lagarde, caro Roberto. Congratulazioni per la tua nomina come ministro delle Finanze e buona fortuna per quello che temo sarà un compito molto difficile in Italia". Gualtieri, che era assente alle audizioni di Enrico Enria e Christine Lagarde alla commissione Economica dell'Europarlamento, di cui è presidente, ha incassato anche l'ok dell'ex segretario del Pd, Maurizio Martina: "L'ipotesi che Roberto Gualtieri guidi il Ministero dell'Economia è di grande valenza. Si tratta di un ottimo profilo, competente e di solide relazioni europee e internazionali così come dimostrato in questi anni. Gualtieri sa bene che equilibrio dei conti e politiche di equità e sviluppo possono coesistere".

Dall'articolo di Goffredo De Marchis per ''la Repubblica'' il 4 settembre 2019. C'era una volta uno storico che si divideva tra l'università, l'istituto Gramsci e la militanza nei giovani Democratici di sinistra. Era Roberto Gualtieri, salvo sorprese ministro in pectore dell'Economia ma a quel tempo, a cavallo del 2000, giovane sottoposto alla classica gavetta di sinistra. "Gli impartimmo la nostra educazione siberiana", ricorda Matteo Orfini, amico e allora capo di quel gruppo dirigente. Una specie di waterboarding comunista. Da ripescato al Parlamento europeo a ministro è un bel salto. Come lo è quello da esperto maniacale dei sistemi istituzionali al ruolo di controllore dei conti pubblici europei. Gualtieri, 53 anni, romano, sposato con un figlio, nasce professore universitario (di storia contemporanea), poi diventa "saggio" del Pd in quota D'Alema e guerreggia con i suoi i suoi colleghi sulla migliore riforma elettorale, poi sbarca a Strasburgo (…) Presidente della cruciale commissione Affari economici, riconfermato nello stesso incarico in questa legislatura dopo un'elezione in bilico decisa solo quando Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, opta per il seggio siciliano e lascia un posto libero nella circoscrizione centrale. (…) a lui si devono tutti gli accordi sulle nostre leggi di bilancio negli ultimi cinque anni. (…) ha preso la prima tessera della Fgci nel 1985, firmata dal segretario di allora Nicola Zingaretti. Storico di formazione legato all'istituto Gramsci. In una delle sue frequenti intemerate Cacciari lo liquidò così: "Non rispondo a chi porta la borsa di Beppe Vacca". Vista la devozione per il maestro Vacca (i due fanno ancora le vacanze insieme in Grecia) non fu vissuto come un insulto. (…)

(Ansa 4 settembre 2019.) Roberto Gualtieri, l'esponente del Pd che il premier Conte vorrebbe come ministro dell'Economia, suona "Bella Ciao" nel web talk "Alta fedeltà".

Roberto Gualtieri, il neo-ministro dell'Economia si raccontava suonando "Bella Ciao". Libero Quotidiano il 4 Settembre 2019. Siamo a posto: europarlamentare del Pd, vicinissimo ai poteri forti di Bruexelles, storico con profilo tecnico e... comunista. Si parla del neo-ministro dell'Economia del governo-bis di Giuseppe Conte, quello della maggioranza al sapor d'inciucio Pd-M5s. Si parla di Roberto Gualtieri. E perché mai? Presto detto. Dopo la sua nomina è diventato virale il video che potete vedere qui sopra. Nel corso della registrazione del talk Alta Fedeltà, nel corso del quale gli europarlamentari si raccontano attraverso una playlist, Gualtieri - all'epoca presidente della Commissione Economica del parlamento europeo - ha scelto, per raccontarsi, Bella Ciao, interpretata alla chitarra con perizia e accenno di bossanova. Siamo fritti...

Matteo Salvini: Il nuovo ministro dell’Economia: “Ci sono cose più importanti delle elezioni, anche Hitler le ha vinte. I cittadini sono ingannati dalla propaganda!”. Praticamente per lui l’opinione degli italiani non conta un cazzo! Roba da matti!!!

Matteo Salvini si infuria, ecco cosa diceva il neo ministro dell'Economia: "Anche Hitler ha vinto le elezioni". Libero Quotidiano il 4 Settembre 2019. Roberto Guarltieri, nuovo ministro dell'Economia offende gli italiani e la democrazia: "Ci sono cose più importanti delle elezioni, anche Hitler le ha vinte e poi si è capito come è andata. Quindi non mi sembra un criterio assoluto che va sopra il bene e il male. I cittadini possono essere ingannati dalla propaganda!". La frase è stata pronunciata lo scorso anno in diretta tv ad Omnibus su La7. A riportare allo scoperto il neo ministro giallorosso, Matteo Salvini che pubblica il video sulla sua pagina personale e commenta: "l nuovo ministro dell'Economia: 'Ci sono cose più importanti delle elezioni, anche Hitler le ha vinte. I cittadini sono ingannati dalla propaganda!'. Praticamente per lui l’opinione degli italiani non conta un ca..o! Roba da matti!!!".

Giovanna Stella per il Giornale il 4 settembre 2019. Roberto Gualtieri è il nuovo ministro dell'Economia. Ha preso il posto di Giovanni Tria e, anche se non ha ancora assunto "pieni poteri", le sue parole di qualche mese fa risuonano nelle orecchie di molti. Il ministro, infatti, ospite nella trasmissione Omnibus si era lasciato andare a considerazioni piuttosto discutibili. E a svelarle è stato proprio Matteo Salvini tramite il suo profilo Facebook. In giornata, prima della diffusione del video, il leader della Lega aveva già anticipato il delirio di Gualtieri. "Uno che arriva direttamente da Bruxelles, europarlamentare del Pd, tanto amato dalle cancellerie di Parigi e Berlino che adesso fa il ministro dell'Economia in Italia", diceva Salvini. E poi: "Gualtieri era uno che diceva, sostanzialmente, in tv che il voto italiani non conta un ca...". Qui la promessa di postare un video "che risale a tre mesi fa". Eccoci accontentati. Dopo l'esaltazione di Bella ciao "è una canzone stupenda, italiana, europea e mondiale", Roberto Gualtieri in diretta tv diceva: "Ci sono cose più importanti delle elezioni. Anche Hitler ha vinto le elezioni, poi però si è capito come andava. Non mi sembra un criterio assoluto che va sopra il bene e il male". In studio Angelo Ciocca gli fa notare che sta dicendo una cosa piuttosto bizzarra e qui Gualtieri diventa una furia. "I cittadini - dice - possono essere ingannati da propaganda. I cittadini li rispetto, non rispetto chi li inganna". Certo, potrà pur pensarla così, ma il parallelismo è piuttosto forte visto che si stava parlando delle elezioni del 4 marzo scorso. Inevitabile il commento di Matteo Salvini: "Il nuovo ministro dell’Economia: 'Ci sono cose più importanti delle elezioni, anche Hitler le ha vinte. I cittadini sono ingannati dalla propaganda!' Praticamente per lui l’opinione degli italiani non conta un ca..o! Roba da matti!!!"

Luigi Di Maio ministro degli Esteri del governo Conte bis. L'ex vicepremier e responsabile dello Sviluppo economico rientra da protagonista nel governo giallo-rosso con un dicastero di peso e il ruolo di capodelegazone dei ministri cinquestelle. La Repubblica il 4 settembre 2019. Dopo un lungo tira e molla nella trattativa con il Pd ha rinunciato alla carica di vicepremier grazie all'uscita del dem Dario Franceschini, che ha proposto di eliminare questa figura nel nuovo esecutivo giallo-rosso, sbloccando di fatto l'impasse. E di Franceschini, che ritorna ai Beni culturali, Di Maio sarà il contraltare. Al capo politico del M5s va infatti un ministero di peso, quello degli Esteri, unito al ruolo di capodelegazione dei ministri pentastellati. Nasce il 6 luglio 1986 ad Avellino e cresce in provincia di Napoli a Pomigliano D'Arco. Il papà, Antonio, è esponente locale del Msi e poi di An. La mamma, Paola Esposito, è prof di italiano e latino. Luigi prende la maturità classica nel 2004 e il tesserino di giornalista pubblicista nel 2007. Si iscrive prima a Ingegneria a Napoli, poi a Giurisprudenza ma non porta a termine gli studi per dedicarsi, a suo dire, a tempo pieno all'attività politica nel M5s. Dopo qualche lavoretto (webmaster per il sito "Laprovinciaonline.it", giornalista sportivo per il periodico "Il Punto", tecnico informatico, assistente alla regia, agente di commercio, cameriere, steward allo stadio San Paolo e manovale per l'azienda di famiglia Ardima srl, al centro di una inchiesta delle Iene su presunto lavoro nero) arriva il debutto in Parlamento nel 2013, dopo aver ottenuto 189 voti alle parlamentarie 5 Stelle. Il 21 marzo 2013, con 173 voti, viene eletto vicepresidente della Camera dei deputati, il più giovane della storia della Repubblica a ricoprire tale carica. Nel settembre 2017 si candida alle elezioni primarie per scegliere il candidato premier e capo politico del Movimento 5 Stelle: l'esito delle votazioni tra gli iscritti a Rousseau lo incorona vincitore con 30.936 voti, pari a circa l'82% dei votanti. Nel 2018, con la nascita del governo M5s-Lega guidato da Giuseppe Conte, Di Maio ricopre la carica di vicepremier assieme a Matteo Salvini e di ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro. (mo.rub.)

Di Maio, il gaffeur che non parla l'inglese e non sa la geografia. Celebri i suoi svarioni: la Russia bagnata dal Mediterraneo e Pinochet venezuelano. Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 05/09/2019, su Il Giornale. Non sappiamo se sia stato aiutato da un plotone di navigator, ma alla fine una poltrona la ha trovata anche lui. Luigi Di Maio, ex ministro dello Sviluppo Economico, ex ministro del Lavoro, ex vicepremier e, a questo punto, anche ex leader dei Cinque Stelle scalzato da Conte, un ministero se lo è accaparrato. E non di quelli di poco peso: la Farnesina. Luigi Di Maio è il nuovo ministro degli Esteri. L'uomo che rappresenterà l'Italia nelle più importanti cancellerie. Colui il quale stringerà la mano ai potenti della terra. Il nostro biglietto da visita nel mondo, insomma. E già si sprecano le facili ironie. Facilissime, perché il neoministro, con le sue numerose gaffe presta il fianco a qualunque speculazione. Partiamo dalla geografia, che per fare il ministro degli Esteri non è esattamente una materia opzionale. Giggino deve avere avuto, in tenera età, qualche problema con l'atlante solo che adesso ha in mano lo scacchiere internazionale e non è proprio la stessa cosa. «Siamo un Paese alleato degli Stati Uniti, ma interlocutore dell'Occidente con tanti Paesi del Mediterraneo come la Russia». La Russia è bagnata dal mar Baltico, dal mar Glaciale Artico, dall'oceano Pacifico, dal mar Nero e dal mar Caspio, ma dal Mediterraneo proprio no. Nemmeno uno schizzo d'acqua. Speriamo solo che, quando andrà in delegazione da Putin, non decida di raggiungere il Cremlino in traghetto o a nuoto.

Ma i guai non finiscono a Est. A cavallo tra storia e geografia c'è la celebre gaffe su Renzi: «È come Pinochet in Venezuela». Fuochino, il continente è giusto, ma il Paese è il Cile, non il Venezuela. Ma d'altronde, per non uscire dai confini italiani, il neoministro ha anche avuto occasione di chiedere al governatore pugliese Emiliano: «Con Matera che state facendo?». Presumibilmente non stavano facendo nulla, dato che Matera è in Basilicata. Ma lui, in questo caso, col sorriso ineffabile e beffardo, ci direbbe: «Faccio il ministro degli esteri mica degli interni». Dopo aver traslocato la Russia sulle coste del Mediterraneo, Di Maio, indomito, ha deciso di pestare i piedi a un'altra superpotenza mondiale: la Cina. «L'impressione sul discorso del presidente Ping... è sicuramente un discorso di apertura ai mercati», disse davanti a un platea internazionale. Ping chi? Il presidente cinese si chiama, in realtà, Xi Jinping. E Xi è il cognome, Jinping il nome. Per intenderci è come se lo avessero chiamato: il ministro Gigi. Scivolone storico anche con la Francia, definita in una lettera a Le Monde, «una democrazia millenaria». In realtà dalla Rivoluzione sono passati 230 anni. Una bazzeccola, certo, dal punto di vista diplomatico ha fatto molto peggio: ha incontrato quei gilet gialli che hanno messo a ferro e fuoco Parigi e provocato più di una decina di morti. Ma questa, purtroppo, non è una gaffe. Siamo certi che Macron non veda l'ora di ospitarlo all'Eliseo. Non ultimo il problema linguistico. Non siate maliziosi, non stiamo parlando dei suoi problemi con l'italiano e i congiuntivi. «Di Maio sarà l'unico ministro degli affari esteri a non conoscere la lingua inglese», attaccano politici e cittadini. In effetti c'è un celeberrimo video in cui, in un inglese più che zoppicante (inizia dicendo «first of us» invece che «first of all») parla agli increduli studenti di Harvard. Peccato veniale. Anzi, ci sorge un dubbio: siamo sicuri che il fatto che all'estero non capiscano quello che dice sia un male? Altro che problema, può essere il salvagente che ci mette al riparo da sciagure diplomatiche.

Gilet gialli, Pinochet, "Ping": tutte le gaffe "estere" di Di Maio. Quante gaffes "estere" per il nuovo inquilino della Farnesina. Dalla Russia "Paese del Mediterraneo" a Pinochet "dittatore del Venezuela", ecco una panoramica delle peggiori cantonate prese dal capo politico pentastellato. Gianni Carotenuto, Giovedì 05/09/2019, su Il giornale. Alla fine Luigi Di Maio ce l'ha fatta. Va bene, i tre incarichi in contemporanea nel governo Conte I - vicepremier, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico - sono un lontano ricordo. Ma il leader del M5S si consola con una delle poltrone più ambite, quella di ministro degli Esteri. Giggino voleva solo la Farnesina. E il Pd, a malincuore, lo ha accontentato. Gioia tra i pentastellati, meno tra gli italiani. Che in queste ore, su Twitter, sfogano la loro frustrazione per una scelta che appare del tutto illogica. Per una questione di curriculum, certo. E per le varie gaffes "estere" di cui Giggino è stato protagonista negli ultimi anni. La più recente risale al febbraio di quest'anno, quando in una lettera al quotidiano Le Monde il leader grillino confessava di ammirare il popolo francese, "punto di riferimento per la sua tradizione democratica millenaria". Alla faccia dell'Ancient Regime e della Rivoluzione del 1789. La Francia non porta bene a Di Maio. Un mese prima, a gennaio, il capo dei 5 Stelle aveva tentato un abboccamento con il movimento dei gilet gialli, mettendo loro a disposizione la piattaforma Rousseau e proponendo un'alleanza comune alle elezioni europee. Mossa bollata da Jacline Mouraud, leader dei gilets jaunes, come una "strumentalizzazione politica", a cui Di Maio aveva risposto smentendo di avere mai cercato un asse con loro. Un riposizionamento tanto rapido quanto ipocrita. La Francia di Napoleone, in Russia, ci lasciò le penne. A Di Maio, quantomeno dal punto di vista della reputazione, è successa una cosa simile. Qualcuno, su Twitter, si è divertito a pubblicare l'estratto di un intervento in cui il leader grillino mostrava le sue scarse conoscenze di geografia definendo la Russia "un Paese del Mediterraneo". Certo che l'oriente non porta bene al nuovo ministro degli Esteri che durante una visita a Shanghai, in Cina, nel novembre 2018, chiamò il presidente cinese Xi Jinping "Ping". Una gaffe enorme superata però dalla figuraccia su Pinochet, ex dittatore del Cile che però, secondo Di Maio, era venezuelano. In quel caso - era il 2016 - il capo dei 5 Stelle aveva detto: "Mi prendo tutte le responsabilità. Un lapsus, corretto dopo 10 minuti". In queste ore, su Twitter sta impazzando l'hashtag #DiMaioagliEsteri. Tra le critiche al leader grillino - a parte l'immancabile stroncatura firmata dall'eurodeputato del Pd, Carlo Calenda ("#DiMaioagliEsteri rappresenta bene la nostra rinuncia ai valori di serietà e competenza. Le caselle dei Ministeri diventano solo appagamento delle ambizioni individuali senza nessun collegamento con il bene del paese") - sono soprattutto i normali cittadini a sfogarsi. Scrive uno di loro: "Io, laureato con lode, master in critica giornalistica, esperienze lavorative pregresse importanti, stipendio 1000 euro al mese. Di Maio: senza laurea, senza master, vendeva bibite al San Paolo, stipendio €€€ Ahimè, povera Italia". Certo che se si fosse iscritto al meet-up di Pomigliano...

Selvaggia Lucarelli su Twitter il 5 settembre 2019. "Stringe la mano al leader dei gilet gialli, parla di democrazia millenaria in Francia, colloca Pinochet in Venezuela, chiama il presidente cinese Xi Jinping 'Ping', dice che gli americani dovrebbero lanciare soldi e non missili in Siria. Il ministero degli Esteri a Di Maio".

Francesco Maria Del Vigo per ilgiornale.it il 5 settembre 2019. Non sappiamo se sia stato aiutato da un plotone di navigator, ma alla fine una poltrona la ha trovata anche lui. Luigi Di Maio, ex ministro dello Sviluppo Economico, ex ministro del Lavoro, ex vicepremier e, a questo punto, anche ex leader dei Cinque Stelle scalzato da Conte, un ministero se lo è accaparrato. E non di quelli di poco peso: la Farnesina. Luigi Di Maio è il nuovo ministro degli Esteri. L'uomo che rappresenterà l'Italia nelle più importanti cancellerie. Colui il quale stringerà la mano ai potenti della terra. Il nostro biglietto da visita nel mondo, insomma. E già si sprecano le facili ironie. Facilissime, perché il neoministro, con le sue numerose gaffe presta il fianco a qualunque speculazione. Partiamo dalla geografia, che per fare il ministro degli Esteri non è esattamente una materia opzionale. Giggino deve avere avuto, in tenera età, qualche problema con l' atlante solo che adesso ha in mano lo scacchiere internazionale e non è proprio la stessa cosa. «Siamo un Paese alleato degli Stati Uniti, ma interlocutore dell' Occidente con tanti Paesi del Mediterraneo come la Russia». La Russia è bagnata dal mar Baltico, dal mar Glaciale Artico, dall' oceano Pacifico, dal mar Nero e dal mar Caspio, ma dal Mediterraneo proprio no. Nemmeno uno schizzo d'acqua. Speriamo solo che, quando andrà in delegazione da Putin, non decida di raggiungere il Cremlino in traghetto o a nuoto. Ma i guai non finiscono a Est. A cavallo tra storia e geografia c' è la celebre gaffe su Renzi: «È come Pinochet in Venezuela». Fuochino, il continente è giusto, ma il Paese è il Cile, non il Venezuela. Ma d' altronde, per non uscire dai confini italiani, il neoministro ha anche avuto occasione di chiedere al governatore pugliese Emiliano: «Con Matera che state facendo?». Presumibilmente non stavano facendo nulla, dato che Matera è in Basilicata. Ma lui, in questo caso, col sorriso ineffabile e beffardo, ci direbbe: «Faccio il ministro degli esteri mica degli interni». Dopo aver traslocato la Russia sulle coste del Mediterraneo, Di Maio, indomito, ha deciso di pestare i piedi a un' altra superpotenza mondiale: la Cina. «L' impressione sul discorso del presidente Ping... è sicuramente un discorso di apertura ai mercati», disse davanti a un platea internazionale. Ping chi? Il presidente cinese si chiama, in realtà, Xi Jinping. E Xi è il cognome, Jinping il nome. Per intenderci è come se lo avessero chiamato: il ministro Gigi. Scivolone storico anche con la Francia, definita in una lettera a Le Monde, «una democrazia millenaria». In realtà dalla Rivoluzione sono passati 230 anni. Una bazzeccola, certo, dal punto di vista diplomatico ha fatto molto peggio: ha incontrato quei gilet gialli che hanno messo a ferro e fuoco Parigi e provocato più di una decina di morti. Ma questa, purtroppo, non è una gaffe. Siamo certi che Macron non veda l' ora di ospitarlo all' Eliseo. Non ultimo il problema linguistico. Non siate maliziosi, non stiamo parlando dei suoi problemi con l' italiano e i congiuntivi. «Di Maio sarà l' unico ministro degli affari esteri a non conoscere la lingua inglese», attaccano politici e cittadini. In effetti c' è un celeberrimo video in cui, in un inglese più che zoppicante (inizia dicendo «first of us» invece che «first of all») parla agli increduli studenti di Harvard. Peccato veniale. Anzi, ci sorge un dubbio: siamo sicuri che il fatto che all' estero non capiscano quello che dice sia un male? Altro che problema, può essere il salvagente che ci mette al riparo da sciagure diplomatiche.

Di Maio si affida all’apparato: così la Farnesina media tra Usa e Cina. Andrea Muratore su it.insideover.com l'8 settembre 2019. Da nuovo ministro degli Esteri Luigi Di Maio dovrà affrontare una serie di dossier di primaria importanza. Il capo politico del Movimento cinque stelle assume, dopo l’impegnativa esperienza di vicepremier, ministro dello Sviluppo economico e ministro del Lavoro nel primo governo Conte, la strategia funzione di capo della Farnesina in una fase che vede un contesto internazionale in continua ebollizione: dai problemi più vicini alle sponde italiane, come la questione migratoria e le crisi di Libia e Algeria che mettono a repentaglio parte dell’import energetico italiano, alle questioni di portata globale concernenti la sfida tra potenze (Stati Uniti, Russia, Cina) passando per dossier scottanti come Iran e Venezuela Di Maio dovrà assieme al premier Giuseppe Conte gestire questioni che potrebbero condizionare il futuro di una media potenza come l’Italia. Sotto certi punti di vista la nomina di Di Maio alla Farnesina ha suscitato perplessità per la giovane età e la relativamente scarsa attenzione dimostrata dal capo politico pentastellato alle questioni di politica internazionale, non a caso passate in subordine nella stesura del programma di governo col Partito democratico. D’altro canto, la scelta del capo politico del primo partito rappresentato in Parlamento di assumere la guida degli Esteri porterà inevitabilmente l’agenda internazionale a risultare primaria nella definizione degli equilibri dell’esecutivo e, tema non secondario, potrebbe di conseguenza attrarre una quantità crescente di risorse economiche su una branca dell’esecutivo negli ultimi anni svuotata progressivamente di fondi e disponibilità.

Gli uomini chiave della Farnesina. E tale centralità politica rafforza il ruolo dell’apparato interno alla Farnesina, rodato sistema basato sul coordinamento delle centrali diplomatiche e informative sparse per il mondo che ha la sua figura apicale nel Segretario generale del ministero degli Esteri Elisabetta Belloni. Classe 1958, la Belloni occupa tale posizione dal 2016 ed è donna d’apparato dal lungo trascorso nella carriera diplomatica e amministrativa, tra cui spicca la direzione dell’Unità di crisi della Farnesina (2004-2008). Stimata e rispettata da Di Maio anche prima del fragoroso successo del Movimento alle elezioni politiche del 2018, tanto che girarono voci dell’interessamento del partito alla Belloni come ministro degli Esteri ideale di un governo pentastellato, la Belloni è stata la prima persona a incontrare il neo titolare del dicastero dopo il passaggio di consegne con Enzo Moavero Milanesi. Incontrandosi a cena nella serata del 5 settembre, la Belloni e Di Maio hanno iniziato a delineare la struttura futura della Farnesina. E in tal senso è da ritenere cruciale il consiglio dato dalla prima al secondo sulla nomina del capo di gabinetto del ministero, che Di Maio ha colto al volo scegliendo per la posizione l’ambasciatore italiano in Cina, Ettore Sequi. Sequi sarà dunque, assieme alla Belloni, l’uomo chiave della nuova Farnesina. La sua nomina è significativa, certificando la rilevanza data dalla Farnesina nel suo insieme alle relazioni con Pechino nel rispetto dell’ancoraggio europeo e atlantico del Paese che per il ministero è storicamente ritenuto prioritario. La Farnesina, in un certo senso, appoggia l’apertura di Di Maio alla Cina culminata nella firma al Memorandum per la Nuova Via della Seta da parte di Conte e Xi Jinping nel marzo scorso, ma reintegrando Sequi nei suoi ranghi a Roma mira a portarla avanti con la guida diplomatica esperta di un conoscitore diretto dell’Impero di Mezzo. E non a caso la mossa arriva a pochi giorni di distanza da una scelta di segno opposto nei confronti di Pechino, ovvero il rilancio del decreto sul Golden power nel settore tecnologico che inquieta Huawei e le aziende simili e che era in prima battuta decaduto pochi giorni prima della crisi del governo Conte I.

Due guide per Di Maio. La Belloni e Sequi appaiono dunque come i “pretoriani” di Luigi Di Maio, uomo che per esperienza internazionale e conoscenza geopolitica necessita senz’altro di consiglieri di primo livello per colmare oggettivi limiti personali ma d’altro canto è tra gli esponenti più istituzionalizzati del Movimento cinque stelle e tra i pochi suoi leader ad aver capito la necessità di affidarsi ad apparati politico-burocratici che sanno portare avanti scelte strategiche e procedure indipendentemente dall’avvicinarsi dei ministri. Rappresentando, nel caso della Farnesina, la continuità della nostra politica estera. Che ora necessita di chiare, precise scelte strategiche per vivacizzare l’interesse nazionale: come rapportarsi nella sfida politica ed economica Usa-Cina? Che politica energetica e diplomatica applicare nel Mediterraneo? Come vagliare l’apertura alla Cina in termini di investimenti e sicurezza? Che approccio avere nei confronti della crisi in Libia? Nodi gordiani che andranno sciolti per capire l’atteggiamento e la capacità d’azione dell’Italia e la cui risoluzione potrà avvenire solo rafforzando le capacità decisionali del ministero degli Esteri.

Dentro la Farnesina, dove non tutto è ciò che appare. Pubblicato venerdì, 13 settembre 2019 da Corriere.it. Per capire che cosa ha alle spalle il palazzo in cui si insedia Luigi Di Maio, ministro anti-élite del governo con l’età media più bassa della storia repubblicana, è utile un aneddoto in circolazione decenni fa alla Farnesina. Quando era in arrivo per la prima visita in Italia il presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, nel 1982, un alto dirigente della diplomazia chiamò un funzionario. Dì a Yasser Arafat che non deve entrare alla Camera con la pistola, fu la disposizione impartita. Non risulta che Arafat abbia rispettato il divieto. Ma l’alto dirigente rimase sorpreso di altro. «Gli ho detto di avvisare Arafat che doveva entrare senza pistola e quello, Santocielo, lo ha fatto», raccontava stupito il superiore ai collaboratori. Sorpreso, quasi indignato, che quel compito - potenziale scintilla di un incidente diplomatico, e dunque impartito soltanto per dovere d’ufficio - fosse stato scambiato per qualcosa da eseguire davvero. Ne è passato di tempo. Molto è cambiato al ministero degli Esteri. Tuttavia è bene ricordare che per una somma di ragioni, anche fondate, non è un mondo semplice e del tutto lineare quello nel quale muove adesso i suoi passi il capo politico di 5 stelle. Il navigato Silvio Berlusconi, per esempio, ebbe una certa difficoltà a districarsi fra i suoi usi e costumi che si prefiggeva di rivoluzionare. Delle pareti di tanti palazzi governativi si potrebbe dire: quante ne hanno viste. Di quelle della Farnesina ha fatto storia anche ciò che non hanno potuto vedere. Lo scatolone di marmo che ha dentro di sé il ministero deve il suo nome all’essere in una zona nella quale c’erano proprietà della famiglia Farnese. Dopo un bando del 1933, la sua forma venne ideata per una funzione mai avuta. Doveva essere sede di rappresentanza del Partito nazionale fascista. Non lo è mai stato. Nel 1940, mentre era ancora aperto il cantiere, l’edificio fu destinato al ministero degli Esteri e non al Pnf. La guerra allontanò operai e ingegneri. I diplomatici si insediarono nel 1959, per la Repubblica. Oggi nei sei chilometri e mezzo di corridoi della Farnesina– tanto sarebbero lunghi se fossero un unico rettilineo – si muovono alcune delle migliori intelligenze della pubblica amministrazione e retaggi del passato. Una categoria per sua natura di certo più adatta di altre alla globalizzazione. Allo stesso tempo non immune da pecche della burocrazia. Tra i diplomatici italiani attivi a Roma e all’estero le donne sono 225, i maschi 771. Allo scatolone bianco fanno capo 128 ambasciate, 80 uffici consolari. In marzo il sindacato dei diplomatici Sndmae faceva notare che nella nostra ambasciata a Pechino lavorano undici diplomatici, in quella francese 30 e nella tedesca 52. Sarà meglio concentrarsi su punti deboli del genere più che prendere di mira qualche abitudine un po’ desueta pur di innovare. Nel debuttare da ministro ad interim, nel 2002, Berlusconi davanti a 51 giovani diplomatici irrise l’allora segretario generale Giuseppe Baldocci indicandone gli abiti: «Lo vedete questo gilet? Non lo porta più nessuno». Era un messaggio per l’intera Farnesina. Non bastò a rafforzare l’Italia in campo internazionale.

Alfonso Bonafede confermato ministro della Giustizia nel Conte bis. Esponente vicino a Luigi Di Maio, è un grillino della prima ora. Resta nel dicastero che aveva guidato nell'esecutivo gialloverde. Liliana Milella su La Repubblica il 4 settembre 2019. Grillino della prima ora, è amico personale di Conte, di cui è stato assistente all'università di Firenze, ma è anche legatissimo a Di Maio, di cui ha sempre appoggiato linea politica e scelte strategiche. Avvocato civilista, Alfonso Bonafede ha 43 anni. Siciliano di nascita, a Mazara del vallo, ma fiorentino di adozione. È proprio lì che comincia la sua avventura politica, quando nel 2006 diventa uno dei primi fan di Grillo, poi si candida a sindaco di Firenze, poi entra in Parlamento da deputato dell'opposizione. È un parlamentare che non lascia la sua famiglia, al punto da fare il pendolare tra Roma e Firenze anche ogni giorno. Anche quando gli viene affidato il compito di seguire il lavoro della giunta di Roma durante la fase più difficile della sindaca Raggi. La sua opposizione è dura, di quelle che si fanno sentire, soprattutto da capo dei grillini in commissione giustizia. Lancia proposte come il divorzio breve, attacca spesso i deputati del Pd a cui contesta di non essere coerenti. Quando diventa ministro della Giustizia utilizza soprattutto le sue dirette su Facebook per rivolgersi direttamente ai cittadini, che diventano la sua ossessione, tant'è che anche quando viene intervistato in tv non fa che ripetere il legit motiv "bisogna che la gente capisca". Da ministro della Giustizia lancia la sua battaglia contro la corruzione. E battezza come legge "spazzacorrotti" il pacchetto di norme, a cominciare dal Daspo, in cui aumenta le pene contro la corruzione e lancia la norma per cui chi viene condannato non può più partecipare agli appalti pubblici. Nella legge c'è anche la riforma della prescrizione, bloccata definitivamente dopo il processo di primo grado, che porta Bonafede in rotta di collisione con Salvini e la Lega. Che blocca l'entrata in vigore della nuova prescrizione e la fa slittare al gennaio 2020. Comincia in quel momento una battaglia sotterranea che contribuirà alla crisi di governo. È sensibile anche ai problemi delle donne, tant'è che è sua l'idea dell'aumento delle pene anche per i casi di violenza, poi confluite nel cosiddetto Codice rosso, realizzato in congiunta con la ministra Giulia Bongiorno. Ma quello è l'ultimo momento di intesa con i partner leghisti, perché è sulla riforma della giustizia che Bonafede va definitivamente allo scontro. Il Guardasigilli presenta un testo che viene duramente contestato da Salvini, e dalla stessa Bongiorno, con pretesti ritenuti da Bonafede del tutto inaccettabili.

Lorenzo Guerini ministro della Difesa. Il deputato renziano, presidente del Copasir, guiderà il dicastero al posto di Elisabetta Trenta. La Repubblica il 4 settembre 2019. La foto del profilo Whatsapp è una veduta dalla tribuna del Giant Stadium e le lettere "S" e "F" intrecciate di colore arancio su fondo nero spiccano sulla cover del suo smartphone: quella di Lorenzo Guerini, neo ministro della Difesa, per il baseball e per i San Francisco Giants è una passione che ne fa una mosca bianca in Parlamento, dove la passione dominante è quella per il calcio. Questo però non ha impedito a Guerini, attuale presidente del Copasir, di conquistarsi la stima di compagni di partito e avversari politici. La sua dote migliore è il fiuto politico e la capacità di mediazione che gli è valsa più volte la definizione di "pontiere" o, anche, quella di "Gianni Letta renziano". All'ex presidente del Consiglio, Lorenzo Guerini si lega ai tempi dell'Anci, quando da sindaco di Lodi incontrava il suo omologo fiorentino Matteo Renzi durante le assemblee dell'associazione dei comuni e durante le riunioni della Conferenza Unificata. Tra i due si stabilirà un immediato feeling che, seppur fra alti e bassi, continua ancora oggi. Eppure i due non potrebbero essere più diversi, tanto è impulsivo e "fumantino" Renzi quanto cauto e riflessivo Guerini. Figlio di padre comunista, come lui stesso racconta, comincia l'attività politica da giovanissimo nella Democrazia Cristiana. Ricopre la carica di presidente della Provincia di Lodi dal 1995 al 2004 - per due mandati - e sindaco di Lodi dal 2005 al 2012. L'8 dicembre 2013 è al fianco di Renzi la notte delle primarie vinte contro Gianni Cuperlo e Peppe Civati e lo sarà anche durante le consultazioni portate avanti dal fiorentino per la formazione del governo febbraio 2014. Diviene poco più tardi portavoce della segreteria Pd guidata dall'ex premier. Non assume, però,incarichi di governo quando Renzi arriva a Palazzo Chigi, ma risulta particolarmente prezioso al premier nel cucire i rapporti all'interno del partito e, più spesso, all'esterno così da permettere al Pd e al governo di superare indenni prove del fuoco come la legge elettorale e il Jobs Act. Le politiche del 2018 lo vedono sconfitto assieme al Pd, ma la sconfitta gli offre l'opportunità di essere per l'appunto il candidato d'opposizione per la guida del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Dopo le dimissioni di Renzi, la guida del partito passa a Maurizio Martina che Guerini sosterrà alle primarie dopo il ritiro del candidato unico renziano, Marco Minniti. Si tratta di una sorta di "scissione" interna all'area Renzi, con i "duri e puri" della mozione Giachetti che si pongono nettamente in opposizione alla mozione Zingaretti e "Base Riformista", la corrente a cui Guerini da nel frattempo vita assieme a Luca Lotti, che comincia a portare avanti una opposizione "costruttiva".

GUERINI NON VUOL DIRE PACE. Il post su Facebook di Germano Dottori, analista di relazioni internazionali, docente di geopolitica alla Luiss e consigliere scientifico di Limes, dopo la fine del suo incarico di consigliere per gli affari delegati, del sottosegretario alla Difesa, Raffaele Volpi (Lega). Pubblicato da Startmag.it il 4 settembre 2019. Con il giuramento dei membri del nuovo Governo decado dal mio incarico di consigliere per gli affari delegati, che esercitavo a Palazzo Marina dal 2 luglio 2018 a favore del Sottosegretario Raffaele Volpi. Sono stati 14 mesi e 4 giorni fra i più interessanti e costruttivi della mia vita. Un’occasione unica per testare ipotesi e teorie sviluppate nel corso degli anni, ponendole a raffronto con la documentazione accessibile a chi operi al servizio dell’autorità politica all’interno dell’esecutivo. L’esperienza è stata tanto più bella in quanto mi ha messo a contatto con un mondo che amo ed ammiro intensamente sin dall’adolescenza, circondato da memorie storiche per me molto significative, incluso un pezzo del sommergibile Sciré con ciò che resta degli equipaggiamenti dei nostri incursori subacquei, proprio a poco più di dieci metri dalla scrivania da cui scrivo. Per l’ufficio di Raffaele Volpi sono passati ospiti internazionali d’alto livello e manager industriali. In molti incontri sono stato coinvolto. Ho avuto il privilegio di operare da civile “estraneo all’Amministrazione” con un team di militari che definire amici è ormai alquanto riduttivo. Parlo di persone con cui sono state messe in comune gioie e sofferenze della vita quotidiana, amarezze a soddisfazioni. Li ringrazio ad uno ad uno, indicandoli per discrezione soltanto con i soprannomi che il nostro Sottosegretario ha dato a ciascuno di noi: Eagle, Wave, Storm e Gun. Per la cronaca, io sono stato ribattezzato Kentucky e penso francamente di essermelo meritato. Abbiamo discusso di politica interna ed internazionale per ore e ore ogni giorno. Abbiamo scritto. Abbiamo pensato. Abbiamo parlato. Ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile quest’avventura, in particolare, ovviamente, proprio Raffaele, che mi ha voluto con sé, e Giancarlo Giorgetti, che mi ha permesso di raggiungerlo. Rimarrò in ogni caso molto legato ad entrambi. Voglio di quest’avventura anche ricordare alcuni momenti che sono stati per me particolarmente esaltanti. In primo luogo, la presentazione del mio libro “La visione di Trump”, avvenuta il 4 luglio scorso, nella Sala Biblioteca di Palazzo Marina. Un’idea bellissima di Volpi, affiorata quando era improvvisamente sfumata la possibilità di presentare il volume alla Farnesina per la concomitanza della sopraggiunta visita a Roma di Vladimir Putin. Un momento indimenticabile del quale sono debitore anche nei confronti del Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, che ieri ho avuto il piacere di salutare e ringraziare una volta di più personalmente. Il secondo fotogramma destinato a rimanere impresso per sempre nella mia mente è quello relativo al varo di nave Trieste a Castellammare di Stabia, cerimonia cui ho presenziato insieme a mia moglie proprio in rappresentanza del Sottosegretario Volpi. Altro sentitissimo grazie! E quindi, terzo flash, la cerimonia di avvicendamento ai vertici della Marina. Torno ovviamente arricchito alla mia precedente vita. Ero serenamente consapevole della precarietà dell’incarico, che ho vissuto giorno per giorno, come del resto sono abituato a fare, sapendo che sarebbe potuto terminare da un momento all’altro. Penso che chi mi legge possa essere interessato anche ad acquisire un mio punto di vista sulla crisi di Governo che ci ha portati al Conte 2. Ho certamente un’idea su ciò che è accaduto, ma mi serviranno del tempo ed alcune verifiche per cristallizzarla in un quadro più nitido di cui discutere pubblicamente. Ma una cosa posso dirla già ora: è vero che esisteva tra i “ministeriali” leghisti una forte insoddisfazione, legata alla difficoltà di far procedere l’agenda in ogni settore di attività che non fosse quello della politica interna, di sicurezza o connessa al controllo dei flussi migratori illegali. Di fatto, in molti rami dell’esecutivo l’azione governativa era ferma dal marzo scorso. Nel campo della Difesa, un fattore aggravante è stata l’inconciliabilità degli obiettivi che Lega e Ministro Trenta intendevano perseguire. Ora si ripartirà dal nuovo Ministro Guerini, che credo più vicino alla nostra idea del da farsi che non a quella del suo predecessore, a tratti in rotta anche con l’altro Sottosegretario, il pentastellato Angelo Tofalo, con il quale e con il cui staff ho stabilito a mia volta buoni rapporti. Auguro a tutti coloro che ho incontrato in questo anno speciale la miglior fortuna e i più grandi successi. Adesso si volta pagina. L’impegno per il paese e le sue Forze Armate per me continua in altra forma.

Dario Franceschini ministro dei Beni Culturali e del Turismo. Un ritorno al dicastero già guidato sotto Renzi e Gentiloni e il ruolo di "capodelegazione" dei ministri del Pd. La Repubblica il 4 settembre 2019. Il ministero dei Beni Culturali e del Turismo e il ruolo di "capodelegazione" dei ministri del Pd per Dario Franceschini. Un ruolo che farà da contraltare a Luigi Di Maio, a sua volta a capo della Farnesina e della delegazione dei ministri cinquestelle. Il deputato dem, che ha avuto un ruolo importante nel negoziato con il M5s, ritorna al dicastero già guidato sotto i governi Renzi e Gentiloni, realizzando quella la riforma dei musei che il suo successore, l'ex ministro Bonisoli, ha in parte smantellato. Nato a Ferrara nel 1958, rappresenta l'unica eccezione ammessa dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, che non ha voluto in squadra ex ministri, giustificata dalla necessità di avere un capodelegazione che coordini l'azione dei dem nel governo giallo-rosso. Figlio di Giorgio, partigiano cattolico e deputato per la Democrazia Cristiana tra il 1953 ed il 1958 (II Legislatura), Dario Franceschini sì è laureato in giurisprudenza a Ferrara e a partire dal 1985 ha esercitato la libera professione come avvocato civilista. Fin dagli anni del liceo si appassiona all'attività politica, fondando l'Associazione Studentesca Democratica, di ispirazione cattolica e centrista. Si iscrive alla Democrazia Cristiana e viene eletto nel 1980 consigliere comunale di Ferrara, mentre nel 1983 diventa capogruppo consiliare. Tra il 1997 ed il 1999 è stato vicesegretario nazionale del Partito Popolare Italiano. Entra nel secondo Governo D'Alema come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle riforme istituzionali, riconfermato poi dal successivo governo Amato. Nel 2001 viene eletto deputato con l'Ulivo. Nel 2006 viene rieletto a Montecitorio e diventa presidente del gruppo parlamentare dell'Ulivo alla Camera. Nel 2007 diventa vicesegretario del Partito Democratico sotto la segreteria di Walter Veltroni. Eletto nuovamente deputato nel 2008, rappresenta fino al 2012 il Parlamento italiano al Consiglio d'Europa. Nel 2009, corre alle primarie del Pd, ma viene superato da Pier Luigi Bersani che diventa il nuovo segretario. Divorziato e padre di due figlie, si è risposato con Michela Di Biase, capogruppo Pd all'assemblea capitolina, da cui ha avuto la piccola Irene. (mo.rub.)

Cercasi esperta di beni culturali. Trovata: la moglie di Franceschini. Pubblicato su Infosannio il 17 Novembre 2016. (Franco Bechis – limbeccata.it) – Nuovo lavoro e bel salto di carriera per Michela Di Biase, capogruppo del Pd nel consiglio comunale di Roma. Dopo più di un lustro all’azienda regionale dei trasporti, la Cotral, dove era specialista tecnico-amministrativo, la Di Biase è stata “catturata” dalla Fondazione Sorgente Group, dove è stata inquadrata alle relazioni esterne “con particolare riferimento alla promozione di eventi e mostre organizzate dalla Fondazione stessa”. Il Sorgente Group è uno dei principali gruppi immobiliari italiani, con un patrimonio gestito di circa 5 miliardi di euro di valore frazionato fra più di 30 fondi immobiliari specifici. Parte di quel patrimonio è negli Stati Uniti, dove fece clamore l’acquisto del Flatiron Building, l’antico grattacielo di New York così chiamato per la sua caratteristica forma da ferro da stiro. In Italia ha acquisito numerosi palazzi storici, e a Roma ha la proprietà fra l’altro della Galleria Alberto Sordi in piazza Colonna e del palazzo in via del Tritone dove ha sede il gruppo. La Fondazione è presieduta dallo stesso titolare del gruppo immobiliare, Valter Mainetti, e si occupa di arte e cultura, vantando una propria collezione artistica e archeologica costituita negli anni e oggi di notevole valore. Per sua natura lavora molto con il ministero dei Beni culturali, che associa in numerose iniziative nel settore (mostre, conferenze, pubblicazioni), e come altre fondazioni private gode delle agevolazioni fiscali sui finanziamenti ricevuti da privati. Il sistema Sorgente group-Fondazione è per altro circolare, perché tutte le entrate per il mecenatismo nell’arte derivano da lì. I vantaggi fiscali sono però stabiliti da legge dello Stato come aiuto alla promozione della cultura e ne beneficiano fondazioni pubbliche (come quella del Teatro alla Scala di Milano) che private (come appunto la Fondazione Sorgente o quella di Brunello Cucinelli). Per questo quei contributi privati sono determinati ed elencati ogni anno in una circolare del ministero dei Beni culturali. E i finanziamenti privati in agevolazione fiscale alla Fondazione Sorgente ammontano negli ultimi documenti ministeriali a circa 2 milioni di euro all’anno. La collaborazione dunque fra la Fondazione Sorgente Group e il ministero dei Beni culturali è molteplice e ha radici negli anni. Ottimi i rapporti con l’attuale ministro reggente, Dario Franceschini. Destinati ora a diventare ancora migliori grazie all’assunzione della Di Biase, che di Franceschini è la seconda ed attuale moglie. Forse per questa origine familiare non è stato facilissimo avere conferma del nuovo rapporto di lavoro della Di Biase.  Alla fondazione prima abbiamo telefonato chiedendo della nuova assunta alle relazioni esterne, e ci è stato risposto che “non lavorava in quella sede”, ma che lasciando numero di telefono e motivo della chiamata ci avrebbero fatto ricontattare. Poi a domanda ufficiale ci è stato riposto dalla Fondazione che effettivamente c’erano “rapporti” con la Di Biase, e infine ci è stato precisato l’inquadramento nelle relazioni esterne, con particolare attenzione alla promozione di eventi e mostre. Qui potrebbe esserci un conflitto di interessi con il ruolo istituzionale del ministro e pure una sorta di concorrenza familiare, visto che il ministero non ha a disposizione grandi fondi mentre oggi le fondazioni private possono avere più risorse da investire nella cultura. La Di Biase fino ad oggi aveva dichiarato e regolarmente depositato presso il comune di Roma secondo i termini di legge 37.800 euro nel 2015 e 55.577 euro nel 2016. Nel suo curriculum spiega di essere laureata in Lettere e filosofia, corso di laurea in storia e conservazione del patrimonio artistico. Che ha più attinenza con la sua nuova attività professionale rispetto all’impiego in precedenza avuto dalla azienda regionale di trasporto pubblico.

Il Ministero di Franceschini: “da noi nemmeno un euro”. “Si precisa che il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo non ha alcun rapporto né collaborazione in essere con la Fondazione Sorgente group. Quest’ultima risulta semplicemente beneficiaria di erogazioni liberali da parte di Sorgente group Spa, uno dei soggetti privati presenti nella circolare pubblicata ogni anno dal Mibact per monitorare l’applicazione del testo unico delle imposte sui redditi. Si sottolinea che la circolare del Mibact non ha alcun valore di determinazione ma di semplice ricognizione, ai sensi delle norme vigenti, delle erogazioni effettuate da privati”.  Ufficio stampa Mibact

La Fondazione: fatta una selezione, lei  la migliore. Precisiamo che la Fondazione Sorgente Group, Istituzione per l’Arte e la Cultura, è una fondazione privata ed autonoma, finanziata interamente da Sorgente SGR Spa, e che opera nell’ambito e nel rispetto delle normative fiscali previste dalla legge. La Fondazione è – dal punto di vista economico – interamente autonoma e non riceve nessun contributo dal Ministero dei Beni Culturali. Infine, la Dottoressa Michela Di Biase è stata selezionata dalla Fondazione Sorgente Group per il suo curriculum, la sua professionalità ed esperienza in ambito istituzionale al fine di promuovere le attività culturali della Fondazione stessa. Fondazione Sorgente Group

Che brava Michela a superare l’ostacolo del marito! Il contenuto della circolare dei Beni culturali è riportata nell’articolo negli esatti termini scritti sia dal ministero che dalla Fondazione Sorgente Group, quindi non comprendo cosa si precisi. Sulle collaborazioni fra ministero dei beni culturali e Fondazione Sorgente group, basta andare alle notizie e comunicati sia del ministero che della fondazione per trovarne ampia traccia storica. Quanto alla dottoressa Michela De Biase, come lei stessa ha tenuto a fare sapere in un messaggio da me tardivamente letto, è certamente laureata in storia dell’arte, con 108/110 nel 2010 (fuori corso, avendo conseguito la maturità classica nel 2009) e tesi sulla “vita di Pio VI nelle tempere della Galleria Clementina in Vaticano”. Credo che questo sia un requisito in possesso di qualche migliaio di laureati italiani, essendoci 35 corsi di laurea sulla materia tutti senza numero chiuso. Senza dubbio la De Biase sarà stata scelta per il curriculum professionale. Da cui risulta un anno come collaboratore di ufficio presso Cotral spa, azienda dei trasporti della Regione Lazio e sei anni da “specialista tecnico-amministrativo” presso la stessa Cotral, dove nell’area risorse umane- ufficio disciplina risulta che si occupasse della “istruttoria relativa alla predisposizione di contestazioni disciplinari e relativi provvedimenti”. Con un curriculum così adatto alla promozione delle attività culturali della Fondazione, non deve essersi rivelato ostacolo insormontabile essere pure la consorte del ministro dei Beni culturali.

Paola De Micheli ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti del governo Conte bis. La vicesegretaria del Pd prende il posto del cinquestelle Danilo Toninelli. Ha un passato come bersaniana e lettiana di ferro. Poi si è schierata con Zingaretti. La Repubblica il 4 settembre 2019. Piacentina, quarantacinque anni e un cursus honorum vecchio stile. Paola De Micheli, vicesegretaria del Pd, è la nuova ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti. La casella occupata, tra molte critiche, dal cinquestelle Danilo Toninelli nella precedente esperienza giallo-verde. Classificata per anni come bersaniana e lettiana di ferro, ha accettato però di fare parte del governo Renzi come sottosegretaria all'Economia. Per essere poi scelta da Paolo Gentiloni come commissaria per la ricostruzione nelle zone terremotate del Centro Italia. Infine si è schierata con Nicola Zingaretti, di cui ha curato la campagna per le primarie. Imprenditrice nel settore agro-alimentare, una laurea in Scienze politiche alla Cattolica di Milano, ha iniziato a fare politica fra i giovani della Dc, seguendo un percorso comune a molti ragazzi democristiani: i Popolari, poi la Margherita e infine il Pd. Viene eletta consigliere comunale a Pontenure, paese del piacentino. Nel 2007 è già assessore al Bilancio e al personale del comune di Piacenza e l'anno dopo mette piede per la prima volta in Parlamento. Appare sempre più spesso nei talk show, si becca anche un insulto sessista da Vittorio Feltri, e nel 2009 lavora nella segretaria Bersani con Stefano Fassina al dipartimento economia del Pd dove ricopre il ruolo di responsabile per le piccole e medie imprese. Al congresso del 2013 si schiera con Gianni Cuperlo e non risparmia critiche a Renzi. Lo accusa anche di avere architettato il famoso complotto dei 101 contro Romano Prodi. Quando Letta viene defenestrato dal governo dopo il famoso "Enrico stai sereno", si rattrista. Ma quando le viene offerto il ruolo di sottosegretario risponde alle critiche sulla coerenza spiegando che "la politica e le istituzioni hanno avuto la loro evoluzione e il rapporto con Bersani e Letta resta inalterato e positivo". Nel frattempo, trova il tempo di occuparsi di pallavolo e nel 2016 viene eletta presidente della Legavolley. Il mondo grillino non l'ama particolarmente, ma lei risponde sempre a muso duro. Nominata da Zingaretti vicesegretaria del partito assieme ad Andrea Orlando nell'aprile 2019, ha ricoperto un ruolo di primo piano nei tavoli sulla trattativa con il M5s per la nascita del governo giallo-rosso. (mo.rub.)

Da lettiana di ferro al governo Renzi. Chi è Paola De Micheli, ​nuovo ministro di Conte. Prima nella segreteria di Bersani, poi lettiana. Entra nel governo Renzi e ora entra nel governo Conte Bis. Luca Romano, Mercoledì 04/09/2019 su Il Giornale. Agli alunni di Scienze Politiche, i professori potrebbero far studiare il cursus honorum di Paola De Micheli. E anche la capacità di vestire la casacca giusta al momento giusto per non lasciarsi sfuggire le occasioni che contano. La piacentina di 45 anni è stata appena nominata da Giuseppe Conte come nuovo ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, casella importante dopo la gestione Toninelli (defenestrato). Non c'è più la battaglia Tav da gestire, ma sul suo tavolo arriveranno altri dossier che contano. A partire dalla revisione delle concessioni autostradali. La carriera, dicevamo. La De Micheli nel Pd ha attraversato tutte le stagioni politiche, ricoprendo spesso ruoli di primo piano. È stata bersaniana, lettiana, poi ha accettato un posto nel governo Renzi e non si è tirata indietro neppure con Gentiloni. Fino ad approdare a Zingaretti e al governo Conte. La sua militanza inizia nella Dc, poi entra nei Popolari, la Margherita e infine il Pd. A Piacenza è assessore alle Risorse Umane dal 2007 al 2010. Si impone sulla scena nazionale grazie alla segreteria di Bersani, che la vuole come responsabile nazionale delle Piccole e Medie Imprese nel dipartimento Economia dei dem. Nel 2008 viene eletta per la prima volta in Parlamento. Rieletta nel 2013, diventa vice capogruppo a Montecitorio. Durante le primarie del 2013 si schiera con Cuperlo, sfidando Renzi. La De Micheli arriva addirittura ad accusare l'ex sindaco di Firenze pubblicamente di aver boicottato l'elezione di Romano Prodi a Presidente della Repubblica. Durante la direzione del Pd in cui, di fatto, l'ex sindaco di Firenze ha "cacciato" il premier Letta, la De Micheli piange. All'ex premier è legata, visto che è stata anche membro del consiglio direttivo di TrecentoSessanta, l'associazione fondata nel 2007 da Letta. Poi però poco tempo dopo decide di accettare un ruolo da sottosegretario all'Economia nel governo Renzi. "Io sono una donna di fiume che costruisce ponti, sono una pontiera - disse - Lo sanno tutti che sono un'esponente della minoranza dem e da parte di Renzi, come anche da parte nostra, c'è la volontà di unità". Ma ad alcuni sembrò comunque strano il passaggio dalle lacrime al ruolo di governo. Finita l'era Renzi, alla De Micheli non crolla il terreno sotto i piedi. Il nuovo premier Gentiloni la nomina per la successione a Vasco Errani quale commissario straordinario alla ricostruzione delle aree colpite dal terremoto del Centro Italia del 2016. L'ultimo passaggio del cursus honorum arriva il 17 aprile del 2019, quando Nicola Zingaretti la nomina vicesegretario nazionale del Pd insieme a Andrea Orlando. La rampa di lancio per entrare nel Conte Bis.

Carlo Di Foggia per “il Fatto Quotidiano” il 5 settembre 2019. La nomina è propiziata dal fallimento dei 5Stelle sulle infrastrutture. E non è un caso che l' indicazione di Paola De Micheli al dicastero che fu di Danilo Toninelli venga salutata da una combo simbolica: il titolo di Atlantia, holding dei Benetton che controlla Autostrade, chiude a +6%, a livelli antecedenti al crollo del ponte Morandi, mentre i più lesti a congratularsi sono i vertici del Comité Transalpine Lyon-Turin, che racchiude i lobbisti francesi del Tav: "Siamo lieti, il suo impegno per l' opera è noto in Francia". Al dicastero di Porta Pia arriva per la prima volta una donna, un politico di lungo corso e, per così dire, ben visto dal mondo delle imprese. Piacentina, classe 1973, laurea in Scienze politiche, De Micheli entra in politica negli anni 90 tra gli ex Dc del Partito popolare, poi confluito nella Margherita. Dal 2007 al 2010 è assessore al bilancio a Piacenza, due anni dopo entra nella segreteria del piacentino Pier Luigi Bersani in quota Enrico Letta, di cui era una fedelissima. In quegli anni è una delle più vivaci animatrici di Vedrò, il think tank dell' ex premier che univa politica e un pezzo del capitalismo italiano. Tra i finanziatori, ad esempio, si contavano Enel ed Eni, Telecom e Sisal, Autostrade e Lottomatica. Nel 2013, in diretta tv attribuì all' allora sindaco di Firenze Matteo Renzi la responsabilità di aver "impallinato" Prodi nella corsa per il Quirinale. Due mesi dopo, piange alla direzione del Pd che caccia #enricostaisereno Letta da Palazzo Chigi. Poi la conversione: nel 2014 entra nel governo del "rottamatore" come sottosegretaria al Tesoro con delega ai giochi. Nel 2016 diviene commissario alla ricostruzione nei territori del centro Italia colpiti dal terremoto: non riuscirà ad aggirare i pesanti ritardi burocratici velocizzando i lavori. L' esperienza lavorativa è tutta nel settore delle conserve: dal 1998 al 2003 presiede la cooperativa Agridoro, specializzata nella trasformazione del pomodoro, finita nel 2004 in liquidazione coatta. Dopo un passaggio come consulente di un colosso cinese oggi è in aspettativa da una multinazionale delle conserve del Nord Italia. Nella battaglia con il Pd per cedere (oltre al Tesoro) un ministero economico di peso, i 5Stelle hanno deciso di tenersi lo Sviluppo, con lo staff di Luigi Di Maio (e il ricco portafoglio di sussidi e incentivi) e sacrificare le Infrastrutture. Scelto per imprimere una svolta sulle grandi opere - con l' introduzione dell' analisi costi-benefici - il ministero è stato fonte di cocenti sconfitte: dal Terzo Valico al Tav, bocciati dai tecnici, ma autorizzati lo stesso. L' arrivo della De Micheli, che ambiva allo Sviluppo, chiude il cerchio. Al netto delle gaffe, le buone intenzioni di Toninelli si sono infrante contro lo scarso peso politico che i 5Stelle hanno deciso di mettere sulle grandi opere, finendo peraltro per escluderne la gran parte dall' analisi costi-benefici. Si vedrà - anche in base alle scelte che farà, dal capo di gabinetto alle nomine chiave - se De Micheli riporterà le lancette alla stagione di Graziano Delrio, attento esecutore del partito delle autostrade, in un ministero dove regnano ancora i fedeli servitori dei grandi gruppi del cemento. Il primo banco di prova sarà il nuovo sistema tariffario voluto dall' Autorità dei Trasporti, odiato dai signori del casello e nato proprio grazie agli strumenti e alla copertura offerti da Toninelli. Nel programma di governo, l' analisi costi-benefici è sparita, così come la revoca della concessione ai Benetton.

Luca Pagni per “la Repubblica” il 5 settembre 2019. Dopo Mps e Telecom Italia, la formazione del nuovo governo che vede alleati Pd e Cinquestelle sembra aver favorito le quotazioni di un terzo titolo tra i più in vista di Piazza Affari. Nei primi tre giorni della settimana - da quando è apparso evidente il via libera al Conte bis e con la conferma degli iscritti alla piattaforma Rousseau - il titolo Atlantia ha compiuto un balzo di oltre 8 punti percentuali. La società controllata dalla famiglia Benetton (e guidata dall' ad Giovanni Castellucci) principale gestore autostradale in Italia e titolare dello scalo di Fiumicino, ha avuto il suo momento migliore proprio ieri, giorno in cui il premier incaricato ha consegnato la lista dei ministri al Quirinale: le azioni hanno guadagnato il 5,91%. Soltanto venerdì scorso, i prezzi erano tornati ai livelli di inizio di giugno. Ma il rialzo degli ultimi tre giorni ha riportato le azioni della società oltre la quota psicologica dei 24 euro. Nonché a ridosso dei valori a cui si trovavano il giorno precedente il crollo del Ponte Morandi, in un tratto gestito da Autostrade per l' Italia, società controllata proprio da Atlantia. Cosa ha determinato un'inversione di tendenza così decisa? Per gli analisti finanziari, l' elemento determinante è il punto del programma di governo - reso noto solo pochi giorni fa - in cui si dice con precisione che per le concessioni autostradali si passa da una possibile revoca a una revisione. Un percorso, tra l' altro, che non riguarderà solo Atlantia, ma tutte le concessionarie. Un punto che non solo dovrebbe mettere fine al lungo braccio di ferro che ha diviso la società e i ministri Cinquestelle, in particolare Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, favorevoli alla revoca, che avevano accusato Atlantia di non aver adeguatamente investito per la sicurezza, nonostante gli utili realizzati. Per il mercato, la "revisione" porterà a una trattativa con i concessionari per la revisioni delle tariffe, in cui Atlantia potrà dire la sua. Mentre la revoca è un atto unilaterale che da un lato avrebbe portato alla richiesta di penali da parte della società di Benetton, dall' altra però li avrebbe penalizzati con la perdita della concessione. Il secondo elemento è il cambio al governo: il ministero delle Infrastrutture passa dal Cinquestelle Toninelli a Paola De Micheli del Pd. In pratica, dalle minacce di revoca a una posizione più dialogante. E nella revisione delle concessioni, si dovrà tenere conto sia del parere dell' Autorità dei Trasporti, sia dell' armonizzazione delle regole sulle tariffe autostradali con il resto d' Europa, visto che esistono precise direttive in materia. In buona sostanza, il mercato premia una posizione più conciliante. La quale potrebbe favorire anche la (possibile) soluzione del nodo Alitalia. Le pressioni del governo precedente avevano portato Atlantia a far parte della cordata con Fs e ministero dell' Economia che sta trattando un piano di rilancio con Delta Airlines. Un piano che non decolla, perché secondo i soci italiani è a tutto vantaggio della compagnia Usa. Un miglior dialogo con il nuovo governo può aiutare a cambiare la strategia.

Sergio Rizzo per ''la Repubblica'' il 6 settembre 2019. Non voleva mollare, il professor Marco Ponti. Non mollava nemmeno dopo che perfino il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli sembrava rassegnato. «Fermare l' alta velocità Brescia-Padova sarebbe troppo costoso », faceva mestamente osservare il 3 luglio scorso una nota del suo ministero. Ma Ponti, tecnico di riconosciuta competenza ma critico su molte grandi opere, a cui i grillini avevano affidato il totem dell' analisi costi-benefici, insisteva. E venti giorni dopo, davanti ai microfoni di Agorà estate , si faceva sentire eccome: «Fare la Brescia-Padova? L' analisi costi-benefici dice un no grande come una casa. Costi superiori ai benefici. Costa 8 miliardi». Tanto era bastato perché il Pd chiedesse ancora una volta le dimissioni di Toninelli. Senza immaginare che il suddetto ministro sarebbe saltato, ma per ragioni del tutto indipendenti da quella richiesta. Né che appena quaranta giorni dopo su quella poltrona si sarebbe accomodata la vice segretaria dello stesso Partito democratico, Paola De Micheli. Così ora va in scena un altro spettacolo. Che prevede, per prima cosa, il pensionamento immediato della mitica analisi costi-benefici. Ossia quel calcolo con cui la commissione di sei membri presieduta da Ponti, e di cui facevano parte ben cinque esperti ostili alla ferrovia Torino- Lione, aveva bocciato la Tav. Innescando per paradosso l' incendio che avrebbe poi scatenato la crisi del governo grilloleghista e quindi la sua stessa fine. Una fine scontata. Per il Pd ora alleato di governo del M5S l' analisi costi benefici imposta nel contratto con la Lega di Matteo Salvini per tutti i progetti infrastrutturali era una foglia di fico per mascherare decisioni già prese. Un misero espediente che serviva a giustificare il blocco totale delle opere giudicate inutili dai grillini. Senza però riuscire, a ben vedere, nemmeno nell' intento di fermarle del tutto. Ma a rallentarle, quello sì. Si è visto con l' asse Campogalliano- Sassuolo, a cui il Movimento 5 stelle non aveva dato tregua: l' analisi costi-benefici voluta da Toninelli avrebbe poi dato esito positivo, ma intanto si erano perduti altri mesi. Basterebbe poi ricordare la battaglia sulla Torino-Lione, cassata in teoria da un calcolo clamorosamente sconfessato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il quale, dopo aver pubblicamente affermato che «costerebbe più fermarla che non farla», ha aggiunto che «soltanto il Parlamento potrebbe decidere di non farla». E in Parlamento sappiamo cosa è successo, con i grillini a sbattere contro un muro e il governo andare in pezzi. Ma se il passaggio del ministero delle Infrastrutture dai 5 Stelle al Pd può essere considerato il segno che la resistenza parlamentare grillina su questo fronte appare fortemente ridimensionata (ci sono da sbloccare 62 miliardi di opere secondo i calcoli Ance), c' è da aspettarsi che la forza del contrasto si trasferisca sui territori. I gruppi locali del M5S del Basso Garda non hanno mai smesso di contestare la Brescia-Padova, neppure dopo che il ministero di Toninelli sembrava aver ceduto alle pressioni leghiste. Così come gli attivisti No-Tav non si sono mostrati affatto demoralizzati nel momento in cui Conte ha fatto cadere il veto. La ragione è semplice, ed è ideologica: il no alle grandi opere è uno dei presupposti fondanti del M5S. Al punto che il Movimento si è sempre tassativamente opposto all' eventualità di sottoporre la questione a un referendum. I tamburi grillini continuano a rullare. Se nei giorni dell' intesa giallo- rossa la consigliera regionale piemontese e valsusina Francesca Frediani ammonisce «Stop alla Tav o niente alleanze», il capogruppo grillino al Comune di Firenze Roberto De Blasi spara a zero sull' aeroporto e sulla stazione dell' alta velocità ferroviaria. Ed è niente rispetto a quello che si profila su altre opere simbolo dell' intransigenza grillina come la Gronda di Genova, il raccordo autostradale che consentirebbe di aggirare la città duramente contestato dai meet up locali, bloccato non soltanto con i risultati dell' analisi costi- benefici ma anche con la scusa di perfezionare l' iter di revoca della concessione alla società Autostrade. E giusto qualche settimana prima della crisi di governo.

Ecco il clima che si prepara per il ministero ritornato a trazione dem. Dove avranno ben presto a che fare con altre belle rogne. Nel programma sottoscritto dai soci di governo c' è pur sempre la revisione delle concessioni autostradali: e se questa spada di Damocle di per sé non potrà bloccare la costruzione di nuovi tratti autostradali, non è detto che non riesca a complicare la vita a certi investimenti già previsti dai concessionari. Soprattutto, nell' agenda c' è la nomina dei commissari previsti dal cosiddetto decreto "sbloccacantieri". Un' ottantina di esperti e funzionari ai quali il precedente governo avrebbe voluto affidare il compito di far ripartire altrettante opere impantanate nella burocrazia. Varato dal governo il 18 aprile, è stato convertito in legge il 14 giugno ed è entrato in vigore il 18 successivo, senza partire come un razzo nonostante l' estrema urgenza. In più, le nomine vanno ratificate dalle commissioni parlamentari, e i tempi si allungheranno. Con il rischio che tutto si trasformi in una gigantesca beffa. E forse chi ha deciso di imbarcarsi in quest' avventura avrebbe fatto bene a fare uno sforzo di memoria. Ricordando che un decreto "sbloccacantieri", proprio così l' avevano chiamato anche allora, era stato partorito dal ministro dei Lavori pubblici Paolo Costa nel lontano 1997: primo governo Prodi. Quasi identico a questo, prevedeva la nomina di commissari ad acta per sbloccare i cantieri che anche 22 anni fa, come oggi, erano paralizzati. Un anno dopo la Corte dei conti scoprì che era stato un clamoroso flop. Quasi tutti i cantieri erano bloccati: la burocrazia si era dimostrata invincibile. Paola De Micheli è avvertita.

Roberto Speranza ministro della Salute del Governo Conte bis. Non viene riconfermata Giulia Grillo (M5S), il dicastero passa al deputato di Leu. La Repubblica il 4 settembre 2019. E' Roberto Speranza il nuovo ministro della Salute. Il dicastero che doveva rimanere nella mani del Movimento 5 Stelle con la conferma della ministra uscente, Giulia Grillo passa invece a LeU. Speranza, classe 1979, è nato a Potenza e si è laureato alla Luiss in Scienze Politiche. Già deputato. eletto nelle fila del Pd, nel febbraio 2017 abbandona il Partito Democratico insieme ad altri esponenti della minoranza, tra cui anche l'ex segretario Pier Luigi Bersani, per un acceso dibattito con la maggioranza per la linea attuata dal partito sotto la segreteria di Matteo Renzi. E fonda, pochi giorni dopo, il nuovo partito Articolo 1 - Movimento Democratico e Progressista, formato da parlamentari fuoriusciti dal Partito Democratico e da Sinistra Italiana.  Alle politiche del 4 marzo 2018 con Liberi e Uguali, è stato rieletto deputato nella circoscrizione Toscana.  Il 22 luglio è stato rieletto coordinatore nazionale di Articolo 1 - MDP e il 6 aprile 2019 ne è diventato il Segretario. La sua carriera politica inizia nel 2005 quando viene eletto nell'esecutivo della Sinistra Giovanile.  A Potenza diventa consigliere comunale nel 2004 e poi assessore all’urbanistica. Segretario regionale della Basilicata. Poi nel 2007 viene eletto nella costituente del Partito Democratico. E' Walter Veltroni a nominarlo al vertice dei Giovani democratici. Coordinatore della campagna nazionale di Pier Luigi Bersani per le Primarie del centrosinistra nel 2012. Nel 2013 viene eletto capogruppo del Pd alla Camera, ma nel 2015 ne annuncia le dimissioni: una scelta in segno di protesta con il Governo Renzi di porre la fiducia sull'Italicum, la nuova legge elettorale.

Roberto Speranza, il dettaglio passato inosservato: ultimo comunista, come si presenta il ministro al Colle. Libero Quotidiano il 5 Settembre 2019. Nel giorno del Giuramento la squadra dei ministri di Pd e M5s al Quirinale si presenta con un profilo molto basso, al di là degli occhiolini di Giuseppe Conte a Luigi Di Maio e il selfie "scomposto" di Dario Franceschini con i suoi amici. Uniche note di colore, il vestito frou-frou di Teresa Bellanova e la cravatta rigorosamente rossa di Roberto Speranza, ex capogruppo Pd alla Camera confluito poi in Mdp e in LeU. Di fatto sconfitto malamente alle elezioni del 2018, entrato in Parlamento per il rotto della cuffia, finito ai margini della sinistra e sparito dai radar per mesi, è riapparso prepotentemente grazie all'inciucio che ha chiesto, visti i numeri traballanti, anche il sostegno di LeU. E come festeggiare se non in rosso, in mancanza della canonica bandiera? È proprio vero, l'ultima a morire è la speranza. E così Speranza è l'ultimo dei comunisti al governo.

Lorenzo Fioramonti è il ministro dell'Istruzione del governo Conte bis. Era già viceministro con delega sull’accademia dell'ormai ex Marco Bussetti. Corrado Zunino su La Repubblica il 4 settembre 2019. Vuole un miliardo per l’università, ed è convinto si possa trovare con micro tasse sui grandi volumi delle bibite gassate e zuccherate, delle merendine da gettone, sugli inquinanti voli aerei. Lorenzo Fioramonti, 42 anni, ha provato a inserire l’imposta ambiental-educativa già con il ministro Marco Bussetti – Lorenzo Fioramonti, ora ministro di Istruzione, Università e Ricerca nel precedente governo era viceministro con delega sull’accademia -, ma a quel giro non gli entrava niente Il trio sovranista Bussetti-Valditara (capo Dipartimento)-Chinè (capo di gabinetto) non gli faceva toccar palla. Ha detto, di recente, Fioramonti, laurea in Filosofia all’Università di Siena, professore in aspettativa all’Università di Pretoria (Sudafrica): “O si trovano i soldi per gli atenei o a dicembre mi dimetto”. Il governo Salvini-Bussetti è caduto in agosto e ora è lui ad avere completi oneri (e possibili futuri onori) per trasformare in decreti ministeriali le molte idee sviluppate e rese pubbliche. E’ uno storico dell’economia sostenibile, un accarezzatore della decrescita felice che dopo aver accettato contro voglia il sottosegretariato del Miur nel giugno 2018 ora ha chiesto a premier Conte di poter portare avanti il lavoro fin qui avviato: “Nella scuola e nell’università ci sono le fondamenta di un Paese”. Restando nell’alta formazione, Fioramonti ha progettato un piano di assunzioni (draconiano, per la verità) per i ricercatori universitari: anche questo gli è stato stoppato dalla Lega. Lo riproporrà adesso, insieme a un nuovo percorso di arruolamento per i docenti e le figure intermedie. E da viceministro ha allestito in seno al Miur, alla bene e meglio, un ufficio per i concorsi falsi, atto meritorio ancora una volta per le intenzioni – l’accademia italiana è un riassunto di concorsi disegnati sui protetti -, solo che poi ha affidato l’ufficio alla Iena trombata (alle elezioni politiche) Dino Giarrusso. Si è distinto, il Giarrusso, per le assenze al ministero e le presenze nei talk show. Le associazioni sorte a tutele del concorso pubblico hanno respirato quando l’ex aiuto regista, questa volta eletto, è volato a Bruxelles. E’ certo che anche su questo versante - la Malauniversità – il neoministro Fioramonti interverrà, probabilmente con maggiori risultati di quando chiedeva il commissariamento dell’Ateneo di Catania azzerato dalla Digos e dalla magistratura. Sul fronte scolastico, che gli è meno affine e dove ha dovuto battere la concorrenza interna dell’altro sottosegretario uscente, Salvatore Giuliano, del deputato Luigi Gallo e del senatore Nicola Morra, Fioramonti ha già detto che bisogna combattere le classi pollaio: “I miei figli studiano in Germania e lì non si superano i ventun posti per aula”, ha detto. Sarà interessante capire perché preferisce l’istruzione tedesca a quella che ora dovrà dirigere. Crede nell’assorbimento del precariato docente e individua in due miliardi le necessità di bilancio aggiuntive della scuola italiana. Vuole, ancora, una forte virata al decreto sull’autonomia differenziata, cavallo di battaglia leghista: sistema scolastico e stipendi degli insegnanti devono restare nazionali. Se le Regioni vorranno aggiungere, a casa loro, benefit individuali e affitti calmierati per i docenti in trasferta, saranno applaudite. Si stanno chiudendo i tempi in cui Lorenzo Fioramonti girava a vuoto per convegni e assemblee precarie. E là, frustrato per l’inazione a cui era costretto dalla Lega – non voleva cacciare lo scienziato Battiston dall’Agenzia spaziale e l’hanno cacciato, per dire – diceva ad assegnisti e dottorandi: “Precari, alle Europee non votateci”.

Fioramonti: «No alla storia insegnata come  il “Trono di spade”». Pubblicato venerdì, 04 ottobre 2019 da Corriere.it. «Credo molto in un approccio alla storia che superi la superficialità del libro di testo. È come se raccontassimo una storia che è la versione libresca del «Trono di spade». Lo ha detto il ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, intervenendo all’evento Gilda «Quale futuro senza la storia?». Lo spunto gliel’ha dato il figlio: «Mio figlio mi chiede spesso: «Papà perché la storia è una sequenza di battaglie? Poi ci lamentiamo che la società di oggi incoraggia la violenza e il conflitto. Non sempre la storia è maestra di vita ma serve ad avere una lente con cui leggere futuro». Il ministro manifesta una vera passione per la storia: «Mi sta a cuore che gli studenti possano confrontarsi con la storia recente. È un problema che non so come risolvere perché il programma è lungo, forse varrebbe la pena introdurre un focus specifico sulla storia contemporanea». «La storia - ha aggiunto - è anche un modo per comprendere come le generazioni passate hanno immaginato un futuro per poi realizzarlo». Lecito quindi pensare che voglia intervenire anche sull’esame di maturità, da cui è stato eliminato, tra le polemiche, proprio il tema di storia. Ma Fioramonti chiarisce: «Ho da subito sottolineato che non ho voglia di cambiare l’esame di maturità per l’ennesima volta. Ogni volta che un ministro si insedia cambia l’esame di maturità: è come voler ammettere che non è in grado di cambiare nient’altro e volesse lasciare un segno». Ma uno spiraglio per reintrodurre la prova dedicata alla storia resta: «Sono però cosciente che c’è attenzione su questo tema della storia alla maturità e va avviata una riflessione - dice Fioramonti- Stiamo valutando interventi migliorativi senza però fare delle modifiche sostanziali, arriverebbero tardi e sarebbe una mancanza di rispetto per studenti e docenti, metterebbero agitazione. Alla mia maturità feci un compito proprio sull’importanza del passato».

Fioramonti, gli inciampi: dal Pil «lavatrice»,  alla Iena chiamata  a sorvegliare i concorsi. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 da Corriere.it. «Il Pil? Inutile. È solo una “lavatrice statistica”». «Il boicottaggio a Israele? È la chiave per aiutare la causa di una pace equa e sostenibile in Medio Oriente». «Controllare la trasparenza dei concorsi nelle Università? Chi può farlo meglio di una Iena come Dino Giarrusso...». Ed infine: «In Parlamento non si fa nulla tutto il giorno. Sto cominciando ad annoiarmi». Sono quattro imprudenze (che hanno innescato altrettante polemiche) commesse da Lorenzo Fioramonti (M5S), professore ordinario di Economia e politica all’Università di Pretoria, prima di diventare ministro dell’Istruzione, la nuova veste con la quale è finito nell’occhio del ciclone con gaffe e fughe in avanti con la tassa sulle merendine o il crocifisso da sostituire nelle aule con carte geografiche del mondo. Ma riavvolgiamo il nastro. Per il docente classe 1977, cresciuto nella periferia romana, prima di essere eletto parlamentare alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, Fioramonti diceva che il Pil era utilizzato come «strumento di dominio» da chi controlla le leve del comando mondiale. Insomma, una sorta di arma di «distrazione di massa» che Fioramonti ha cercato di smontare con un libro («Presi per il Pil. Tutta la verità sul più potente numero del mondo») e un documentario che avevano suscitato interesse in tutto il mondo, catturando l’attenzione di intellettuali alternativi come Vandana Shiva, Susan George e Raj Patel. Si levarono invece fortissime le polemiche della comunità ebraica, quando, poco prima delle ultime Politiche, il docente universitario è finito sotto accusa per alcune dichiarazioni passate su Israele. Attacco lanciato da Alessandro Litta Modignani, radicale e presidente dell’Unione della Associazioni pro Israele (Udai), che definì Fioramonti un «odiatore di Israele», perché «si è rifiutato di prendere parte a una conferenza sull’acqua, per il solo fatto che fosse presente nell’occasione l’ambasciatore di Israele Arthur Lenk». E perché «supporta da tempo il boicottaggio accademico contro Israele». Fioramonti smentì: «Non ho mai sostenuto il boicottaggio di Israele, è una strumentalizzazione senza precedenti». Luigi Di Maio parlò di «fake news» e sostenne che il M5S «non è contro Israele, è contro il boicottaggio e non ha un ministro contro Israele. Fioramonti ha già chiarito quella vicenda e telefonerà all’ambasciatore». Eppure, la fonte di tutto è un’intervista comparsa su The Daily Vox, giornale online del Sudafrica: «Il boicottaggio a Israele — dice — è la chiave per aiutare la causa di una pace equa e sostenibile in Medio Oriente». Mentre, intervistato dal Corriere nei primi giorni da deputato, Fioramonti rispose così: Si annoia già al suo primo giorno? «Guardi, fare il docente universitario non è un mestiere particolarmente dinamico, ma qui non si fa nulla tutto il giorno. Sto cominciando ad annoiarmi». E cosa fa per evitarlo? «Abbiamo cominciato a mandarci messaggini. Ci scambiamo foto». Non è stata dimenticata nemmeno la polemica della nomina dell’ex Iena Dino Giarrusso, candidato ma non eletto alle elezioni politiche, come controllore sulla trasparenza dei concorsi universitari. Fioramonti, ai tempi sottosegretario all’Istruzione, non raccolse il plauso che forse sperava di ottenere.

Merendine e crocefisso, le gaffe di Fioramonti candidato a diventare  il «nuovo Toninelli». Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 su Corriere.it da Tommaso Labate. Se Toninelli inseguiva il grillismo della prima ora, Fioramonti è come se seguisse una sua scia. Il fantomatico Stato Imperialista delle Merendine è pronto per fargli recapitare quel biglietto beffardo che si trovava all’interno delle zuccheratissime gomme da masticare degli anni Ottanta: «Ritenta, sarai più fortunato». Infatti, la tassa sugli snack amati dai ragazzini e odiati dai nutrizionisti — da lui caldeggiata già l’anno scorso e riproposta anche quest’anno — non entrerà nel bouquet della legge di Bilancio. E non ci sarà nemmeno la tassa sui voli aerei escogitata per cercare fondi da destinare alla ricerca. E visto che non c’è due senza tre, Lorenzo Fioramonti non avrà la ventura di vedere la concreta applicazione della suggestione di rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, proposta respinta persino dal più orgogliosamente veterocomunista della nuova maggioranza giallorossa, quell’Andrea Orlando pronto a sostenere «da laico a laico che non sono i crocifissi a mettere in discussione la laicità di scuola e Stato». Adesso sarebbe fin troppo semplicistico sostenere, come più d’uno anche a Palazzo Chigi già azzarda, che il neoministro dell’Istruzione si stia candidando a indossare quei galloni di «battitore libero», diciamo così, che nel passato governo erano appuntati sulle spalline di Danilo Toninelli. Certo, è vero, anche l’ex ministro dei Trasporti si era specializzato nella disciplina di fughe in avanti (dal ritiro delle concessioni ad Autostrade allo stop alla Tav) che venivano prontamente arrestate ora dal premier, ora dall’altro partner di maggioranza (che era la Lega). Ma stavolta è diverso. Mentre Toninelli inseguiva la stella polare del grillismo della prima ora, Fioramonti è come se seguisse una scia tutta sua, che lo sta portando a scavalcare a sinistra persino i componenti più di sinistra della maggioranza. Qualche malalingua del governo giallorosso giura di averlo sentito definire da Luigi di Maio in persona «il nostro Bertinotti» con esplicito riferimento al leader di Rifondazione che fu delizia ma soprattutto croce dei governi di centrosinistra di Prodi. Professore di Economia politica in Sudafrica, scovato dai 5 Stelle per riempire la casella di ministro dello Sviluppo economico di quel fantomatico governo tutto giallo annunciato prima delle elezioni del 2018 (che mai avrebbe visto la luce), Fioramonti è uno di quelli che unisce simpatizzanti e detrattori dietro l’unica formula che solitamente, gliene va dato atto, si applica ai puri, ai sinceri. «Dice quello che pensa e pensa quello che dice». Finora è stato un problema non da poco, visto che le sue proposte sono state stoppate in primis da quelli a lui più vicino. Lo ius culturae che «non è una priorità» (Di Maio), la tassa sulle merendine che «non ci sarà» (Conte) e che comunque è «totalmente sbagliata» (sempre Di Maio). Certo, al ministro dell’Istruzione rimarrà a imperitura memoria la casacca di recordman delle dimissioni differite annunciate. Un record difficilmente battibile visto che le sue, di dimissioni differite, Fioramonti le ha annunciate un giorno prima di giurare da ministro. Tre miliardi, due all’istruzione e uno alla ricerca, o mi dimetterò». Quando, nel caso? A Natale. Proprio così, durante il trionfo collettivo dei prodotti zuccherini. Come quella merendina consumata l’altro giorno dal ministro in diretta a Un giorno da pecora, epifenomeno di quella lunga scia di eventi iniziata col risotto cucinato da D’Alema davanti alle telecamere di Bruno Vespa. E che avrà vita lunga, anche più delle merendine.

Lorenzo Fioramonti, Filippo Facci: "Il ministro dell'Istruzione che pensa alle merendine e scorda le cattedre". Libero Quotidiano l'1 Ottobre 2019. Il nuovo Toninelli, inteso come il ministro dell' Istruzione Lorenzo Fioramonti, per ora si è messo in luce per aver invitato i presidi a giustificare le assenze degli studenti che venerdì hanno saltato la scuola perché avrebbero aderito al «Global Strike For Future», e poi ha pure parlato, il nuovo Toninelli, della «necessità improrogabile di un cambiamento rapido dei modelli socio-economici imperanti». Dei problemi della scuola dobbiamo dedurre che si occuperà il ministro dell' Ambiente o dell' Economia, visto che anche il Sole 24 Ore ha parlato di «Scuole nel caos» soprattutto perché al Nord è stato nominato solo il 43 per cento dei docenti. Per la precisione: su 66mila nomine da fare ne sono andate a buon fine solo 33mila (che poi sarebbero 32mila se togliamo i posti accantonati e quelli del concorso 2018, che facevano parte del vecchio contingente). Insomma cattedre scoperte, graduatorie sguarnite, altri meccanismi complessi ma perfettamente prevedibili: questo il primo bilancio fallimentare di Lorenzo Fioramonti (ovvio che cerchi di parlare d' altro) che è certo un fallimento in buona parte ereditato, ma che non sembra essere al centro della passione neo ambientalista dell' inquilino di viale Trastevere: anche perché il viceministro era sempre lui.

BUCHI DI ORGANICO. In pratica manca una nomina su due, ma certe regioni stanno peggio: Piemonte, Veneto, Sardegna e Lombardia si sono fermate al 43 per cento e per ognuna e ora servirà un supplente; ci sono poi da considerare quasi 10mila pensionamenti che l' Inps non ha ancora fatto in tempo a gestire e poi i 48mila docenti in deroga sul sostegno più altri ancora che farebbero salire il numero dei supplenti a 108mila, ma probabilmente sono di più. Il presidente dell' Associazione presidi ha definito lui stesso il quadro come «disastroso», perché mancano docenti ma anche direttori amministrativi e personale di segreteria: i dirigenti scolastici, insomma, non sono in grado di garantire il servizio, anche perché il sistema di reclutamento è gestito ancora dall' amministrazione centrale» senza che i dirigenti possano intervenire direttamente: ne pagano il prezzo essenzialmente gli studenti, oltreché lo Stato che butta soldi a palate. Viene da chiedersi che cosa sia stato fatto in precedenza. Il governo Conte 2 per ora ha pubblicato un bando da 17mila posti (concorso ordinario per infanzia e primaria) e ora dovrebbe varare un fantomatico decreto sulle emergenze scolastiche, cioè tutte. Il «disegno di legge precari» è stato approvato il 9 agosto scorso dal ministro precedente, Marco Bussetti. Da qui dovrebbe seguire un doppio concorso per medie e superiori (entro inizio 2020) e cioè uno da 24 mila posti riservato ai professori con 3 anni di servizio (l' obiettivo è averli in cattedra già a settembre 2020) e poi un concorso ordinario per altri 24mila. Anche così, comunque, non si capisce come si potrebbe garantire un minimo di continuità didattica e di stabilità dei docenti nelle scuole.

INTERVISTE SURREALI. Si capisce ancor meno, e resta un mistero, quella che Il Foglio ha definito la «lisergica intervista» fatta dal Corriere della Sera al neo ministro il 5 settembre scorso, un autentico cult per gli amanti del grillismo. All'inizio Fioramonti diceva di voler alzare di 100 euro al mese lo stipendio degli insegnanti, affinché «la società ne riconosca l' importanza e la centralità». Denaro come incentivo, quindi. Bene. «È necessario dare un riconoscimento agli insegnanti. Penso ad un aumento mensile a tre cifre, cento euro», parole testuali del ministro. Ma per tutti? E se l' aumento dovesse invece essere differenziato sul merito? «Non credo che funzioni», rispondeva il ministro. E perché? «La dedizione di un insegnante non si misura con le ore di lavoro Non credo che un aumento di stipendio come premio funzioni». Ma come? Ma allora perché vuole aumentargli lo stipendio di cento euro? Il nuovo Toninelli allora fa un esempio bislacco: «Quando si paga chi dona il sangue, diminuisce il numero dei donatori». Quindi? Per motivare gli insegnanti occorre tagliargli lo stipendio, cioè il contrario di quanto ha detto prima? Questo senza contare il discutibile paragone tra chi fa l' insegnante (una professione) e chi dona il sangue (un volontariato). Infine - classico grillino - il ministro Fioramonti-Toninelli sul tema degli insegnanti (ossia il caos) cita e critica politiche del «governo precedente». Dimenticando che nel governo precedente il viceministro dell' Istruzione era lui. Filippo Facci

Lorenzo Fioramonti, quando il ministro M5s insultava i carabinieri, Berlusconi e Santanchè. Libero Quotidiano il 3 Ottobre 2019. Suo malgrado, è l'uomo del momento. Si parla di Lorenzo Fioramonti, ministro grillino dell'Istruzione, il quale si è distinto per una serie di fesserie: dal giustificare gli alunni che non andavano a scuola per manifestare con Greta Thunberg, fino alla "rimozione" dei crocifissi dalle aule scolastiche, ideona poi parzialmente smentita. E su quello che viene ormai universalmente riconosciuto come "il nuovo Danilo Toninelli", ora si scopre anche quanto portato alla luce da Il Giornale, ovvero una serie di insulti osceni, irriferibili, vergognosi e patetici rivolti a politici e forze dell'ordine da Fioramonti sui social. Roba di sei anni fa, quando faceva il professore associato all'Università di Pretoria, in Sudafrica. Nel 2013, su Facebook, il grillno ha prodotto le porcherie di cui vi abbiamo dato conto in premessa. Odio puro per le forze dell'ordine. Dopo aver visto il film Diaz sul G8 di Genova, scriveva: "La polizia, allora come oggi, sembra più un corpo di guardia del potere, invece che una forza al servizio dei cittadini. I pochi poliziotti per bene hanno paura di far sentire la propria voce (e ovviamente sono pochi, perché altrimenti avrebbero già fatto mea culpa per il caso Aldrovandi, Cucchi e i tanti altri misteri che li circondano". Ma il peggio deve venire, e riguarda il commento su Luigi Preiti, l'uomo che sparò nel giorno dell'insediamento del governo Letta, ferendo in modo gravissimo Giuseppe Giangrande: "Ed ora tutti a prendersela con chi protesta, perché poi arrivano i pazzi che sparano. Ma io mi meraviglio che ce ne sia stato solo uno. Un demente, che ovviamente ha finito con il colpire altre vittime del potere, proprio come lui". Insomma, Fioramonti si meravigliava del fatto che avessero sparato solo a un carabiniere. Ma non è finita. Ne ha per tutti, il ministro grillino. Per Silvio Berlusconi il quale "porta sfiga" per i terremoti. Dunque delirava contro Daniela Santanchè, alla quale "sputerei". Sulla pitonessa diceva: "Una demente bugiarda e venduta... l'unica cosa che mi fa sorridere è ripensare alle immgini di Brunetta protetto dai Carabinieri mentre i manifestanti lo insultano... quella è una bella Italia". Testuali parole. Violenza inaudita, ignoranza crassa, odio puro. E oggi questo fa il minsitro dell'Istruzione. Una carica che, a un personaggio del genere, semplicemente non può essere data. In alcun mondo.

#FioramontiDimettiti. Per Fioramonti un curriculum da odiatore: su Fb decine di attacchi deliranti contro politici e forze dell'ordine. Alessandro Sallusti, Giovedì 03/10/2019 su Il Giornale. Lorenzo Fioramonti è il ministro dell' Istruzione, dell' università e della ricerca, dopo essere stato portaborse di Antonio Di Pietro. E che ministro, un vero esempio per i nostri giovani oltre che per i professori. Basta leggere cosa scriveva solo pochi anni fa quando era un oscuro professore di Economia politica: «Silvio Berlusconi? Un nano porta iella». «Giuliano Ferrara? Un pezzo di m... con i denti separati». «Daniela Santanchè? Tutta rifatta, le sputerei in faccia». E poi ancora riferimenti a Brunetta, che andrebbe manganellato e ai «pochi poliziotti per bene». Viene da chiedersi dove i Cinque Stelle abbiano pescato questo signore violento e sessista che appena insediato si è inventato la tassa sulle merendine e ha proposto di fare sparire i crocifissi dalle aule di tutte le scuole. Non siamo moralisti, però credo ci sia un limite. Ognuno è libero di pensarla come crede, ma per fare il ministro della Scuola non si può pensarla come Fioramonti perché serve rispetto verso chi ha idee diverse dalle tue, serve educazione, e senso del limite, tutte requisiti che a questo signore sono mancati e mancano perché invecchiando certo non si migliora. Del resto, per stare sul suo piano antropologico, basta guardarlo in faccia per capire di chi parliamo, tutta boria e arroganza. Giorni fa lo battezzammo «il nuovo Toninelli», ma oggi chiediamo scusa all' ex ministro no Tav per l' offesa. Se dal passato recente di un qualsiasi ministro di un governo di centrodestra fossero emersi simili giudizi sarebbe scoppiata la rivoluzione con richieste di dimissioni immediate. Dubitiamo che ciò accada, il vento della sinistra è sempre profumato a prescindere dai miasmi che trasporta. Ieri l' altro Stefano Fassina, ex viceministro e deputato della sinistra, è finito all' ospedale per le botte prese dai poliziotti durante un presidio sindacale a Roma. Siccome Salvini non è più ministro dell' Interno il fatto è passato quasi inosservato. Perché sotto un governo di sinistra si può picchiare un deputato di sinistra e la cosa finisce lì, sia in parlamento sia tra quegli intellettuali e giornalisti che urlarono al golpe fascista quando mesi fa la polizia rimosse alcuni striscioni anti Salvini affissi nelle vicinanze della piazza dove il leader della lega teneva un comizio. Due pesi e due misure, in ogni campo. Guai a dire che la ministra Teresa Bellanova veste kitsch ed è in carne, ma va bene - perché il sessismo inverso di genere e segno politico è solo satira - se si accusa in diretta tv Salvini di farsi fotografare in spiaggia in costume «che ha pure la pancia». Poveri studenti se diventiamo il paese dei Fioramonti.

Adesso Fioramonti deve dimettersi. Ora la politica si ribella al ministro che insulta: "Conte cacci Fioramonti". Coro di proteste dall'opposizione. Silenzio (imbarazzato) invece dalla maggioranza. Fabrizio De Feo, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. Il caso Fioramonti imbarazza il governo. Dopo gli insulti assortiti pubblicati sui social e rilanciati da Il Giornale con bersaglio le forze dell'ordine, Daniela Santanchè, Renato Brunetta, Giuliano Ferrara, il ministro dell'Istruzione finisce nel mirino dell'opposizione, suscitando perplessità anche nell'esecutivo e nella maggioranza. «Dimissioni immediate», chiede Fratelli d'Italia. Giorgia Meloni si rivolge direttamente a Giuseppe Conte: «Ci aspettiamo che il premier sempre attento a chiedere rispetto per le istituzioni, pretenda le dimissioni di una persona così palesemente indegna di rappresentare la nazione». E se Conte non interverrà, «facendo dimettere il proprio ministro, presenterò una mozione di sfiducia personale», sottolinea Luca Ciriani, capogruppo Fdi al Senato. Ignazio La Russa sottolinea che «gli insulti sessisti rivolti a Daniela Santanchè e la morte augurata agli uomini delle Forze dell'ordine avrebbero dovuto trovare una risposta forte del presidente del Consiglio Conte, di Luigi Maio, di Nicola Zingaretti e anche di tante donne di sinistra. E invece niente. Silenzio». «I colleghi del Pd non siano complici di questo scempio, aggiunge Licia Ronzulli, vicepresidente dei senatori di Forza Italia. Matteo Salvini parla del ministro in una diretta Facebook. «Sta superando Toninelli, leggiamo di insulti indegni di qualcuno che dovrebbe occuparsi di educazione». «Meno male che per M5S e Pd i sessisti eravamo noi della Lega», ironizza il capogruppo Riccardo Molinari. «Cosa ne pensa la collega Boldrini del suo nuovo compagno di avventura?». Ma contro le parole del ministro prende posizione anche la maggioranza. Il Pd, con la senatrice Valeria Fedeli, chiede a Fioramonti di «spiegare al più presto. Il suo silenzio non è sostenibile nel ruolo che ricopre». Da parte dei parlamentari azzurri parte anche l'hashtag #Fioramontidimettiti che entra in tendenza nella top ten italiana. Per Giorgio Mulè «Fioramonti sta alla scuola come Franti, nel libro Cuore, al rispetto per la madre». Laura Ravetto è netta: «Dopo l'inchiesta del Giornale mi chiedo chi ritenga ancora il ministro Fioramonti idoneo a occuparsi del futuro dei nostri giovani». Annagrazia Calabria sottolinea: «È inaccettabile che dopo le battaglie trasversali condotte in Parlamento contro violenza e abusi sul web, ci sia al governo chi sfrutta la rete come un ring». E Marco Marin attacca: «Prima la balzana idea della tassa sulle merendine, poi la proposta di togliere il crocifisso. Su questi temi la nostra è una contrarietà politica, ma offendere le forze dell'ordine e chi milita in Parlamento con frasi violente è inaccettabile. Chi si comporta così dovrebbe avere la dignità del gesto delle dimissioni, ma visto che non sarà così dovrebbe essere il governo a ritirare le sue deleghe». In serata Fioramonti abbozza un comunicato di scuse, spostando però l'attenzione su un altro episodio: le domande di un giornalista al figlio. «Oggi non si attacca il mio lavoro, ma le mie opinioni di anni fa, scritte sulla mia pagina privata, di getto, e con toni di cui ovviamente non vado fiero (e per cui ho già chiesto scusa alla diretta interessata in forma personale). A tutti può capitare di incorrere in errori, ma recarsi in una scuola elementare per mettere sotto le luci dei riflettori un bambino di 8 anni è un atto di violenza».

Fioramonti all'angolo attacca il tritacarne mediatico. Il ministro dell'Istruzione, dopo l'inchiesta del Giornale, prova a difendersi: "Opinioni scritte di getto sulla pagina privata". Domenico Ferrara, Giovedì, 03/10/2019 su Il Giornale. Nell'angolo. Il ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti non molla la poltrona. L'inchiesta del Giornale, che ha scovato tweet violenti e sessisti e frasi offensive nei confronti di politici e forze dell'ordine, per lui è solo tritacarne mediatico. Ma la verità è che il diretto interessato si trova all'angolo, stretto tra le opposizioni che chiedono a gran voce le sue dimissioni e gli alleati del Pd che malcelano il malumore nei suoi confronti e chiedono chiarimenti. Così, dopo una giornata intera di silenzio, lui prova a rispondere in serata, minimizzando, anzi, contrattaccando. "Oggi non si attacca il mio lavoro, fatto di intese coi sindacati per garantire la didattica, ridurre il precariato, rilanciare l'edilizia scolastica e battersi per maggiori risorse in un settore bistrattato da decenni, ma le mie opinioni di anni fa, scritte sulla mia pagina privata, di getto, e con toni di cui ovviamente non vado fiero (e per cui ho già chiesto scusa alla diretta interessata in forma personale)", scrive il ministro. Che quindi ammette di aver chiesto scusa soltanto a Daniela Santanché. Per Berlusconi, definito "un nano porta iella", niente scuse. Per Giuliano Ferrara, definito un "pezzo di m... con i denti separati", niente scuse. Per Brunetta, che "andrebbe manganellato", niente scuse. Per la polizia, definita "guardia del potere", niente scuse. Almeno stando a quanto scrive lo stesso ministro. Non contento, Fioramonti insiste: "A tutti può capitare di incorrere in errori, anche a me, come nel caso dei toni usati nelle affermazioni rilanciate dal tritacarne mediatico, pur vecchie di anni e fatte quando ero un semplice cittadino". Insomma, per il ministro il passato non conta. Di chiedere scusa non se ne parla, figuriamoci di scollarsi dalla poltrona del dicastero dell'Istruzione. Di Maio tace e Conte al momento è immobile. Intanto oggi abbiamo lanciato l'hashtag #FioramontiDimettiti, per chiedere con forza al governo di rimuovere dal suo posto un ministro col curriculum da odiatore.

Adesso Fioramonti deve dimettersi. Il ministro Fioramonti sceglie scuola inglese per il figlio. Scoppia il caso sul ministro dell’Istruzione del Movimento 5 Stelle, già nell'occhio del ciclone per le sue livorose sparate sui social. Pina Francone, Giovedì 03/10/2019, su Il Giornale. Il nuovo ministro dell'Istruzione del governo giallorosso, il grillino Lorenzo Fioramonti, ha scelto per suo figlio la scuola inglese e quando ha deciso se fargli fare o meno l'esame di italiano, ha scelto di evitare il test. La notizia rimbalza da giorni su alcune chat dei genitori e l'Adnkronos ha verificato la sua veridicità. Come? Contattando la vicepreside dell'istituto scolastico frequentato, fino all'anno scorso, dal figlioletto del ministro M5s, responsabile – come scoperto da ilGiornale – di decine e decine di durissimi attacchi social contro politici e forze dell'ordine. La dirigente scolastica riferisce così all'agenzia stampa: "La storia del test del figlio del ministro è la seguente: in prima e seconda elementare i bambini, il 30-40% dei quali sono stranieri, fanno il programma esclusivamente in inglese. L'ora di italiano scatta, solo per chi vuole, a partire dalla terza. Non facciamo gli esami di italiano in sede, ma in un'altra struttura e l'anno scorso Fioramonti, che non era ministro (era viceministro all'Istruzione, ndr) insieme alla moglie straniera ha scelto di non far fare il test in italiano al figlio perché preferiva si concentrasse sull'inglese. Il bimbo, venendo dal Sudafrica, non parla bene l'italiano". La vicepreside chiosa così: "Ha frequentato la lezione di italiano per un certo numero di ore con una maestra che è andata in pensione quest'anno. Poi, siccome aveva un po' di difficoltà, è stato scelto di non fargli fare l'esame, che del resto non è obbligatorio". Oggigiorno, il figlio del ministro Fioramonti – che non ha risposto nel merito all'Adnkronos, che ha appunto contattato il titolare del dicastero per avere la sua versione dei fatti – frequenta un'altra realtà scolastica.

La replica di Fioramonti. "Sono turbato da padre e da cittadino. Tra l'altro mi domando come sia possibile che dati sensibili rispetto alla presenza di un minore in una scuola siano reperibili. Formulerò un esposto al garante della privacy, da privato cittadino e non da Ministro, per tutelare non solo il diritto alla riservatezza di mio figlio ma quello di ogni genitore a poter crescere ed educare i propri figli senza che la loro vita venga gettata in pasto ai giornali", lo scrive su Facebook il ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti, in un lungo post a commento della vicenda.

Lorenzo Fioramonti. Dalla sua pagina Facebook il 3 ottobre 2019. "Non pensavo che vivere molti anni all'estero lavorando duro potesse essere usato contro di me. Oggi non si attacca il mio lavoro, fatto di intese coi sindacati per garantire la didattica, ridurre il precariato, rilanciare l'edilizia scolastica e battersi per maggiori risorse in un settore bistrattato da decenni, ma le mie opinioni di anni fa, scritte sulla mia pagina privata, di getto, e con toni di cui ovviamente non vado fiero (e per cui ho già chiesto scusa alla diretta interessata in forma personale). Essere oggetto di pressione mediatica fa parte del ruolo, e lo capisco. C’è però un limite da non valicare. Giorni fa alcuni giornalisti sono andati a scuola di mio figlio chiedendo informazioni sui suoi voti, sul suo comportamento e sugli esami. Difendo e difenderò sempre il diritto alla libera informazione, accetto in silenzio tutte le critiche, in taluni casi anche molto dure, che mi vengono rivolte. A tutti può capitare di incorrere in errori, anche a me, come nel caso dei toni usati nelle affermazioni rilanciate dal tritacarne mediatico, pur vecchie di anni e fatte quando ero un semplice cittadino. Ma recarsi in una scuola elementare per mettere sotto le luci dei riflettori un bambino di 8 anni è un atto di violenza. Mio figlio ha sempre frequentato scuole internazionali perché è nato e cresciuto all'estero. Queste scuole sono le uniche che garantiscono continuità curricolare ai bambini che cambiano spesso paese di residenza. Mio figlio, figlio di un italiano e di una donna tedesca, parla 4 lingue, tra cui l'italiano, ma al tempo dell’iscrizione aveva ancora difficoltà a scriverlo, ragion per cui – anche su suggerimento della scuola – abbiamo deciso di non registrarlo per l'esame facoltativo d'italiano. E comunque, queste sono questioni che attengono alla sua vita privata. Di questo, gli altri non dovrebbero interessarsi. Ha il diritto ad una vita serena al riparo dalle polemiche pubbliche che da Ministro sono chiamato ad affrontare. Tale ingerenza nei confronti della mia famiglia e della comunità scolastica è avvenuta in spregio di ogni tutela della privacy, nonché delle più elementari regole di deontologia professionale. Sono turbato da padre e da cittadino. Tra l'altro mi domando come sia possibile che dati sensibili rispetto alla presenza di un minore in una scuola siano reperibili. Formulerò un esposto al Garante della Privacy, da privato cittadino e non da Ministro, per tutelare non solo il diritto alla riservatezza di mio figlio ma quello di ogni genitore a poter crescere ed educare i propri figli senza che la loro vita venga gettata in pasto ai giornali. Se questi metodi sono pensati per spaventarmi, dico solo che io andrò avanti nel mio lavoro per trovare più risorse per la scuola e l'università e operare concretamente, come abbiamo fatto pochi giorni fa con l'accordo sugli insegnanti precari, per risolvere i problemi della scuola e della ricerca, che hanno radici antiche, affinché questo sia un Paese migliore".

Fioramonti, polemica sul figlio alla scuola inglese. Lui: «Violenza contro la sua privacy»». Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 su Corriere.iti da Antonella De Gregorio. Un articolo del Giornale fa scoppiare il caso. Meloni: «Post ripugnanti». Fedeli (Pd): «Deve chiarire». Per il figlio niente test d’Italiano. Al vespaio mediatico sul crocifisso in classe, alle contestazioni per certe proposte avanzate «di slancio» - dalla tassazione delle merendine, alla giustificazione delle assenze «per manifestazione» - sul ministro dell'istruzione, Lorenzo Fioramonti (M5S), si è abbattuto giovedì il polverone sollevato da un articolo del Giornale, che ha passato in rassegna vecchi post pubblicati sui social, con offese, tra gli altri, a Silvio Berlusconi, a Daniela Santanché e alle forze di polizia, che accusa di essere «un corpo di guardia del potere». Poi, a fine giornata, è spuntato un nuovo filone: l’accusa di «antinazionalismo» per aver scelto per il figlio una scuola inglese: «Un ministro che crede in maniera forte al sistema italiano e nell’Italia», ha commentato, ironico, il deputato capogruppo di FdI in commissione Cultura e responsabile Cultura del partito, Federico Mollicone. Che ha chiesto al premier Conte di «rimuovere» il ministro: «Chi disprezza la lingua italiana non può rappresentare l’istruzione italiana. Auspichiamo, se confermata la notizia, le sue dimissioni: Fioramonti go home». Il nodo sta in un test di italiano che il ministro (all’epoca era viceministro all’Istruzione) - insieme alla moglie straniera - avrebbe scelto di non far sostenere al ragazzo. La vicepreside, interpellata, ha spiegato: «Il bimbo, venendo dal Sudafrica, non parla bene l’italiano. Oggi quel bambino frequenta un’altra scuola». In ogni caso, aggiunge, il bambino «ha frequentato la lezione di italiano per un certo numero di ore con una maestra che è andata in pensione quest’anno. Poi, siccome aveva un po’ di difficoltà, è stato scelto di non fargli fare l’esame, che del resto non è obbligatorio». Agli attacchi il ministro ha risposto con un lungo post su Facebook, in cui si è detto «turbato, da padre e da cittadino. Non pensavo che vivere molti anni all'estero lavorando duro potesse essere usato contro di me». «Tra l'altro - scrive Fioramonti - mi chiedo come sia possibile che dati sensibili rispetto alla presenza di un minore in una scuola siano reperibili. Formulerò un esposto al garante della privacy, da privato cittadino e non da Ministro, per tutelare non solo il diritto alla riservatezza di mio figlio ma quello di ogni genitore a poter crescere ed educare i propri figli senza che la loro vita venga gettata in pasto ai giornali». Ma per tutto il giorno, intanto, è proseguita la mobilitazione dei deputati di Forza Italia sui social per chiedere le dimissioni del ministro, utilizzando l'hashtag #FioramontiDimettiti che è entrato in tendenza nella top ten italiana. Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia ha definito «deliranti e ripugnanti» i post pubblicati dal Giornale, «nei quali Fioramonti inneggia alla morte dei carabinieri, vomita insulti sessisti contro una donna impegnata in politica e ironizza sulla tragedia del terremoto dell’Aquila». «Arroganza, demagogia, atteggiamento inqualificabile», tuona Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia. E Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega al Senato condanna «senza se e senza ma» gli insulti e le offese e le parole cariche di odio. Anche Daniela Santanchè ha chiesto a Fioramonti «dimissioni immediate». È una violenza nei miei confronti inaudita e mi auguro che tutte le donne, non solo di destra ma soprattutto del Pd e del Movimento 5 Stelle facciano sentire forte e chiara la loro voce», ha detto la senatrice FdI, che all’epoca (gli insulti scritti suoi social risalgono al 2013) faceva parte del Popolo della Libertà. I fatti risalgono - ricostruisce Il Giornale, al maggio del 2013, quando, in occasione di una puntata di Servizio Pubblico di Michele Santoro dedicata al processo Ruby e alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi, Fioramonti prese di mira Daniela Santanché, ospite del talk show. Scrisse quella sera: «Questa signora, che straripa di chirurgia plastica dai pori della pelle, continua a dire che lei “da donna” non si sente offesa dal comportamento di Berlusconi e continua a sputare c....... Ma quale donna! Ma che donna! Un personaggio raccapricciante e disgustoso». E nel 2009, prosegue Il Giornale, Fioramonti condivideva un articolo dal titolo «Berlusconi Porta Sfiga», articolo che aveva come immagine al suo interno una foto del terremoto de L’Aquila con l’ex premier in sopralluogo tra le macerie». Anche nel Partito democratico, alleato di governo del M5s di cui Fioramonti fa parte, la dem Valeria Fedeli sostiene che il ministro dell’Istruzione «debba spiegare al più presto». «Il linguaggio d’odio, sessista, violento non è mai accettabile - sottolinea Fedeli - ma quando viene utilizzato da chi si è assunto responsabilità importanti nei confronti del Paese e in particolare dell’istruzione, educazione e formazione delle nostre ragazze e ragazzi, è ancora più grave». Fioramonti ha risposto nel lungo post: «Oggi non si attacca il mio lavoro, fatto di intese coi sindacati per garantire la didattica, eliminare il precariato, rilanciare l'edilizia scolastica e battersi per maggiori risorse in un settore bistrattato da decenni, ma le mie opinioni di anni fa, scritte sulla mia pagina privata, di getto, e con toni di cui ovviamente non vado fiero (e per cui ho già chiesto scusa alla diretta interessata in forma personale)». «Essere oggetto di pressione mediatica fa parte del ruolo, e lo capisco - conclude Fioramonti -. C'è però un limite da non valicare».

Estratto dell’articolo di Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 3 ottobre 2019. (…) Per comprendere nel suo complesso la personalità di Fioramonti bisogna tornare indietro al 2013. Visto con la retrospettiva di Facebook, il futuro ministro viene fuori come una «Doctor Jekyll e Mister Hide» che si mostra attraverso i commenti sulla politica italiana «sputati fuori» con la rabbia di un giovane docente expat. Fioramonti guardava in diretta i talk show italiani, come Servizio pubblico di Michele Santoro, ed esprimeva giudizi sferzanti, senza risparmiare gli insulti. Daniela Santanché diventava un bersaglio per la sua fedeltà di allora a Silvio Berlusconi e per il suo aspetto fisico. Stesso trattamento per Giuliano Ferrara, all' epoca direttore del Foglio. Al centro delle invettive del giovane Fioramonti anche le Forze dell' Ordine, il tutto dopo aver visto il film Diaz sui fatti del G8 di Genova. C' è un commento tranchant perfino sull' attentato davanti Palazzo Chigi del 28 aprile 2013 ad opera di Luigi Preiti il giorno dell' insediamento del governo Letta. Qualche anno prima, invece, nel 2009 Berlusconi veniva additato dal futuro ministro grillino come iettatore, responsabile involontario di tragedie immani come gli attentati dell' 11 Settembre 2001 a New York e il terremoto de L' Aquila del 6 Aprile del 2009. Ma nel 2013 c' è n' era anche per il vignettista di sinistra Vauro: «Anche Vauro ha rotto le palle». L' unico a salvarsi, già sei anni fa, era Beppe Grillo, leader di quel M5s appena entrato in Parlamento per aprirlo a mo' di scatoletta di tonno: «Almeno l' ovazione a Grillo in studio mi fa sperare bene», chiosava Fioramonti seguendo la trasmissione di Santoro. (…) Prima del voto del 2018 il capo politico Luigi Di Maio lo sceglie per la squadra dei 17 «fantaministri» di un ipotetico monocolore grillino. Per Fioramonti la delega è lo Sviluppo economico, poi finita nelle mani di Di Maio dopo le convulse trattative che portarono alla nascita del governo gialloverde. Fioramonti diventa viceministro all' Istruzione, e fa discutere per la nomina come consulente dell' ex Iena Dino Giarrusso, poi candidato dal Movimento alle ultime europee. (…)

Estratto dell’articolo di Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 3 ottobre 2019. (…)  Il 28 aprile del 2013, alle ore 23 e 17, Fioramonti ha appena finito di guardare il film Diaz sui fatti del G8 di Genova. «Bellissimo - scrive su Facebook - andrebbe fatto vedere in tutte le scuole il giorno della Liberazione, il 25 aprile». Poi prosegue: «A quel G8 c' ero anch' io. Avevo 24 anni. Ora ne ho 36 (è nato nel 1977) ed il paese è sempre lì. Incapace di fare i conti con il suo passato, tantomeno con il presente. Berlusconi era capo del governo e difese le forze dell' ordine a spada tratta. Il Parlamento, di cui molti membri siedono ancora lì, si è rifiutato sistematicamente di costituire una commissione d' inchiesta». E la stoccata alle Forze dell' Ordine: «La polizia, allora come oggi, sembra più un corpo di guardia del potere, invece che una forza al servizio dei cittadini. I pochi poliziotti per bene hanno paura di far sentire la propria voce (e ovviamente sono pochi, perché altrimenti avrebbero già fatto mea culpa per il caso Aldrovandi, Cucchi e i tanti altri misteri che li circondano». Poi c' è il passaggio su Luigi Preiti, anche se non viene nominato, il post viene scritto nello stesso giorno dell' attentato davanti a Palazzo Chigi che causò il ferimento grave del brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Giangrande: «Ed ora tutti a prendersela con chi protesta, perché poi arrivano i pazzi che sparano. Ma io mi meraviglio che ce ne sia stato solo uno. Un demente, che ovviamente ha finito con il colpire altre vittime del potere, proprio come lui».

Santanché, Berlusconi e Giuliano Ferrara.  È il 16 maggio del 2013, va in onda una puntata di Servizio Pubblico di Michele Santoro dedicata al processo Ruby e alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi. Fioramonti prende di mira Daniela Santanché, al tempo deputata del Popolo della Libertà, ospite del talk show. Scrive alle 22 e 46 di quella stessa sera: «Sto guardando Servizio Pubblico con Daniela Santanchè e mi sento la rabbia salire alla testa. Questa signora, che straripa di chirurgia plastica dai pori della pelle, continua a dire che lei da donna non si sente offesa dal comportamento di Berlusconi e continua a sputare cazzate. Ma quale donna! Ma che donna! Un personaggio raccapricciante e disgustoso. Se fossi una donna mi alzerei e le sputerei in faccia, con tutti gli zigomi rifatti». La dissertazione prosegue così nei commenti sotto al post: «La Santanchè multa le puttane per strada... e poi giustifica il suo capo che se le tromba...ma lo fa da donna... ovviamente... viva le donne». E ancora, in un altro commento: «Ha vinto la Santanchè... una demente bugiarda e venduta... l' unica cosa che mi fa sorridere è ripensare alle immagini di Brunetta protetto dai carabinieri mentre i manifestanti lo insultano... quella è una bella Italia». Quindi la conclusione: «Vedremo. Ma secondo me qui finisce a mazzate. Se dovesse essere così, mi dispiacerebbe solo di non esserci». Come detto, la rabbia ha bersagli bipartisan. In riferimento all' ovazione di Grillo in studio, un' altra utente scrive che è stata smorzata dal Costanzo de La7, ovvero Michele Santoro. Fioramonti, l' attuale ministro, non si meraviglia: «Ovviamente, ma la gente è stanca e qui finisce a mazzate». Allora si passa subito a un altro giornalista, Giuliano Ferrara, all' epoca dei fatti direttore del Foglio: «Giuliano Ferrara, un' altra merda con i denti separati, uno schifoso, che solo in Italia può passare come intellettuale. Giustifica Berlusconi se si scopa le minorenni e le paga, che fa le orge, che inventa cazzate al telefono con la polizia, che corrompe i giudici e rincoglionisce gli italiani». Il terremoto 2009 e il Cav iettatore Nel 2009, invece, sempre da Pretoria l' allora professore Fioramonti era molto attivo nella pubblicazione di post su un gruppo chiamato «BerlusconiPortaSfiga!!». L' attuale ministro il 2 dicembre del 2009 condivideva un articolo dal titolo «Berlusconi Porta Sfiga», articolo che aveva come immagine al suo interno una foto del terremoto de L' Aquila con l' ex premier in sopralluogo tra le macerie. Fioramonti commenta definendo Berlusconi «L' imperatore della sfiga». E scrive: «Guardate bene la foto... è proprio un segno di quanto sta facendo alle nostre istituzioni e al nostro paese».

Estratto dell’articolo di Tommaso Rodano per “il Fatto quotidiano” il 3 ottobre 2019. (…)  Galeotto fu Luigi Di Maio che una sera di dicembre nel 2017, a pochi mesi dal voto, gli presentò la fatidica proposta: "Vuoi fare il ministro?". Chi avrebbe risposto di no? Non Fioramonti. Il professore, per farla breve, si mette in aspettativa a Pretoria, torna in Italia, vince le elezioni nel suo collegio di Roma Est e diventa deputato, entra nel governo gialloverde da viceministro dell' Istruzione, sotto il leghista Marco Bussetti. Per un anno e mezzo la sua figura rimane tutto sommato sotto traccia. Poi, grazie al suicidio politico di Salvini, arriva il grande salto: nell' incontro promiscuo tra Pd e Cinque Stelle Fioramonti resta al Miur ma diventa ministro. Ci sarebbe da esultare e congratularsi, e invece è proprio qui che inizia il "paradosso Fioramonti": nel momento in cui quest' uomo con un curriculum oggettivamente impressionante raggiunge a rapide falcate una posizione apicale, l' intero sistema mediatico inizia a trattarlo come se fosse un cretino. Fioramonti parla di sugar tax (volgarmente: tassa sulle merendine) e lo attaccano. Fioramonti appoggia gli scioperi degli studenti per il clima e lo attaccano. Fioramonti dichiara di essere contrario ai crocifissi nelle scuole e lo attaccano. Su tutti i media più o meno antigrillini diventa "il nuovo Toninelli". Ovvero, come il compianto Danilo, un ministro-Malaussène, di professione capro espiatorio: quello che ogni volta che apre bocca fa riempire articoli ed editoriali di giudizi ironici, irridenti, vergati da giornalisti tanto arguti. Ma perché? Che colpa ha Fioramonti? Cosa c' è di sbagliato in lui? Nella sua biografia: nulla. (…) Il suo curriculum è un vorticoso elenco di riconoscimenti: borse di studio, premi, articoli, citazioni, l' assunzione a Pretoria, l' affidamento del Centre for the Study of Governance Innovation (grazie al quale assume altri ricercatori scappati dall' Italia), una cattedra assegnatagli dall' Unione europea, un' altra dall' Unesco, la collaborazione con Joseph Stiglitz, per il quale ha scritto il primo capitolo di un libro sulla "Qualità della crescita in Africa". A livello internazionale è noto per i suoi studi sui limiti del Pil come indicatore della crescita economica. In Italia invece viene trattato come uno scemo, senza nemmeno il tempo di darne prova. Perché? Sarà l' aria da alieno con cui è ricalato in un paese che lui stesso percepisce come provinciale, depresso, involuto. Sarà l' inflessione impeccabile ed enfatica con cui pronuncia anche la più semplice delle parole inglesi (provate a sentirgli dire "sugar tax"). Sarà l' aura da primo della classe che lo fa somigliare un po' al leggendario Stanis La Rochelle di Boris: bella l' Italia, peccato che "è molto, troppo italiana". Oppure sarà che è un giovane super qualificato in un mondo di steward, odontotecnici, ministri mai diplomati o laureati per miracolo.

Scuola, Fioramonti: Mettere sotto riflettori mio figlio atto violenza-. (LaPresse il 3 ottobre 2019) - "Giorni fa alcuni giornalisti sono andati a scuola di mio figlio chiedendo informazioni sui suoi voti, sul suo comportamento e sugli esami. Difendo e difenderò sempre il diritto alla libera informazione, accetto in silenzio tutte le critiche, in taluni casi anche molto dure, che mi vengono rivolte. A tutti può capitare di incorrere in errori, anche a me, come nel caso dei toni usati nelle affermazioni rilanciate dal tritacarne mediatico, pur vecchie di anni e fatte quando ero un semplice cittadino. Ma recarsi in una scuola elementare per mettere sotto le luci dei riflettori un bambino di 8 anni è un atto di violenza". Lo scrive su facebook il ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti.

Scuola, Fioramonti: Vogliono spaventarmi. Andrò avanti nel mio lavoro. (LaPresse il 3 ottobre 2019) - "Se questi metodi sono pensati per spaventarmi, dico solo che io andrò avanti nel mio lavoro per trovare più risorse per la scuola e l'università e operare concretamente, come abbiamo fatto pochi giorni fa con l'accordo sugli insegnanti precari, per risolvere i problemi della scuola e della ricerca, che hanno radici antiche, affinché questo sia un Paese migliore". Lo scrive su facebook il ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti.

Da La Repubblica il 3 ottobre 2019. Il ministro dell'Istruzione del governo italiano, Lorenzo Fioramonti,  per il figlio ha scelto la scuola inglese e quando si è trattato di decidere se fargli fare l'esame di italiano, ha detto di no: niente italiano. Lo rivela l'agenzia Adnkronos. La vicepreside ha confermato all'agenzia quanto sostenuto nel tam tam sulle chat dei genitori: "La storia del test del figlio del ministro è la seguente: in prima e seconda elementare i bambini, il 30-40% dei quali sono stranieri, fanno il programma esclusivamente in inglese. L'ora di italiano scatta, solo per chi vuole, a partire dalla terza. Non facciamo gli esami di italiano in sede, ma in un'altra struttura e l'anno scorso Fioramonti, che non era ministro (era viceministro all'Istruzione, ndr) - tiene a precisare la dirigente scolastica - insieme alla moglie straniera ha scelto di non far fare il test in italiano al figlio perché preferiva si concentrasse sull'inglese. Il bimbo, venendo dal Sudafrica, non parla infatti bene l'italiano. Oggi quel bambino frequenta un'altra scuola". In ogni caso, aggiunge la vicepreside, il bambino "ha frequentato la lezione di italiano per un certo numero di ore con una maestra che è andata in pensione quest'anno. Poi, siccome aveva un pò di difficoltà, è stato scelto di non fargli fare l'esame, che del resto non è obbligatorio". "Il ministro sceglie la sola scuola inglese per il figlio. Un ministro che crede in maniera forte al sistema italiano e nell'Italia. Giuseppe Conte rimuova il ministro dell'Istruzione dal suo ruolo, avendo già dimostrato in numerose occasioni totale incapacità di governo e una serie infinita di gaffe, dalle battute sessiste su Daniela Santanchè, alla tassa sulle merendine, a questa, ultima, vicenda antinazionale. Chi disprezza la lingua italiana non può rappresentare l'istruzione italiana. Auspichiamo, se confermata la notizia, le sue dimissioni: Fioramonti go home." ha dichiarato il deputato capogruppo di FdI in commissione Cultura e responsabile Cultura del partito, Federico Mollicone. Contattato dall'Adnkronos per un commento, il ministro Fioramonti ha preferito non replicare.

Il ministro indegno che ci prende per il Pil. Francesco Forte, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. Incuriosito dal fatto che giornali trendy come il Fatto Quotidiano hanno decantato il curricolo del ministro dell'Istruzione Fioramonti per giustificare il suo diritto a insultare esponenti politici a sostenere tesi grottesche come quella che al posto dei crocefissi nelle scuole bisognerebbe mettere cartine geografiche della terra, sono andato a guardar tale curricolo da lui medesimo redatto e pubblicato nel sito del Miur (il ministero di Istruzione Università e Ricerca). Oltre al fatto che ha ricoperto una cattedra all'Università di Pretoria, non c'è alcun elemento di rilievo, né indicazioni di saggi su riviste economiche qualificate. Scrive saggi e libri divulgativi, quello più noto Presi per il Pil. Fioramonti sostiene che poiché il Pil non misura bene la crescita economica e il benessere delle nazioni, bisogna buttar via questo suo misuratore imperfetto e aver la decrescita. Economisti famosi come Marshall e Pigou da più di 100 anni hanno analizzato i danni ai terzi, non misurati dal prodotto nazionale, fra cui quelli ambientali che hanno chiamato «diseconomie esterne» e hanno messo in luce che ci sono benefici ai terzi, come quelli ambientali, anche essi non calcolate nel Pil. Ma ciò non comporta che bisogna «buttar l'acqua sporca col bambino dentro», il Pil. Né ha senso la tesi di Fioramonti secondo la quale il misuratore Pil sarebbe frutto di una congiura del capitalismo di mercato, dato che tra i principali inquinatori emerge la Cina attuale. Come può esser un buon educatore un ministro dell'Istruzione che oltre ad aver scritto su di sé un curricolo accademico auto elogiativo, anziché puramente descrittivo, ha fatto un film per spiegare con esempi concreti come ognuno possa mette in pratica la teoria della decrescita? Un esempio sarebbe quello di due persone che si sono ritirate dalla città per allevare capre viver producendo il loro formaggio. A chi lo vendono il formaggio? Non a persone che lo comprano con i soldi misurati dal Pil, o ci vuole il baratto? Come fa a sostenere seriamente un ministro della istruzione e ricerca che la scienza economica main stream, cioè quella neo classica sia da buttare? È adatto un ministro che sposa queste tesi a promuovere una scuola per il terzo millennio, in cui si dovrebbero insegnare le scienze e le tecnologie più avanzate? E come fa a dar ragione al suo bambino nato in Sudafrica che protesta perché i libri di storia sono pieni di guerre? Non lo sa il ministro che l'Unione europea è stata pensata e fatta per porre fin alle guerre che ci hanno macellato e lacerato. E che anche le immigrazioni da Africa e Medio Oriente nascono dalle guerre? Per finire, con quale coerenza per sostenere la ricerca avanzata, che serve per salvare il pianeta, Fioramonti assume nella scuola 30mila precari? Ci sta prendendo lui per il Pil?

Le parole violente di Fioramonti ed il silenzio degli altri. Spuntano da fb frasi violente del neo Ministro dell'Istruzione. Ma per il Governo ed il codazzo di intellettuali d'appoggio va tutto bene. Panorama il 5 ottobre 2019. “Daniela Santanché è una demente, bugiarda e venduta. ma che donna! Un personaggio raccapricciante e disgustoso. Se fossi una donna mi alzerei e le sputerei in faccia!” “L’unica cosa che mi fa sorridere è ripensare alle immagini di Brunetta protetto dai carabinieri mentre i manifestanti lo insultano… quella è la bella Italia. Mi dispiace solo di non esserci”. «Ed ora tutti a prendersela con chi protesta, perché poi arrivano i pazzi che sparano ai Carabinieri. Ma io mi meraviglio che ce ne sia stato solo uno". "Giuliano Ferrara, me..a schifosa". Pensieri, anzi parole, scritte e pubblicate su Facebook da Lorenzo Fioramonti, l'attuale Ministro dell'Istruzione. Frasi che hanno scatenato polemiche politiche furiose; sono diversi infatti i partiti che hanno chiesto le dimissioni della persona che sta gestendo la scuola italiana, l'educazione dei nostri figli ma che usa in pubblico un linguaggio violento, minatorio, che nulla ha a che fare con il suo ruolo ed il suo compito. Ma la cosa ancora più strana sono i silenzi degli altri. Solo la senatrice del Pd, Valeria Fedeli ha chiesto chiarimenti, definendo "un linguaggio d'odio, sessista e violento inaccettabile per il ruolo". Gli altri? Muti. Dove sono quelli che per tutto agosto, e non hanno ancora finito, hanno attaccato Salvini per il Papeete, per le cubiste, perché (Lilly Gruber, tre giorni fa) "..un Ministro non può andare in spiaggia in costume", ma ci dovrebbe andare in giacca e cravatta. Ve lo ricordate poi il discorso di Conte al Senato contro Salvini. Un discorso in cui si parlava di "forma" della politica, di "rispetto istituzionale", di "linguaggio corretto". Concetti che il premier bis va ripetendo ogni volta che parla da buon professore qual è. Ecco: come tollera all'interno del suo esecutivo che un Ministro, anzi, il Ministro dell'Istruzione si sia espresso così? E pensi queste cose? Nessuna risposta è arrivata sul tema e nessuna arriverà. Perché da anni in Italia non conta quello che si dice, ma chi lo dice. Immaginatevi se fosse stato Salvini a dire e scrivere cose analoghe, che ne sappiamo, sulla Boldrini o sugli avversari politici, o contro le istituzioni... cosa sarebbe successo? Facile: tumulti in Parlamento, richiesta di dimissioni, interpellanze, spread a 500, manifestazioni di solidarietà contro la deriva fascista, sovranista, e giù articoli, editoriali dei soliti noti. Oggi invece solo silenzio. Va tutto bene. Non è successo nulla di grave. Bugiardi.

I grillini fanno i finti tonti per salvare la poltrona dell'odiatore Fioramonti. Di Maio, che difese Casalino per gli audio imbarazzanti, tace. Spera che passi la bufera. Domenico Di Sanzo, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. Esclusi gli insulti su Facebook rivelati dal Giornale, ci sono state le merendine, le bibite gasate, il crocifisso da togliere e ora la storia, che secondo il ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti, non va insegnata come se fosse il «Trono di Spade», epica saga televisiva statunitense fatta di lotte di potere, scontri sanguinosi, calamità naturali e creature fantastiche. E ieri Fratelli d'Italia ha predisposto la mozione di sfiducia in Senato contro Fioramonti per i suoi ormai noti trascorsi sui social, invitando tutto il centrodestra compatto a sostenere in Aula la sfiducia. Ma partiamo dall'ultima dichiarazione curiosa. Intervenendo a un evento organizzato dal sindacato degli insegnanti Gilda il ministro ha spiegato la sua visione su come dovrebbe essere impostato l'apprendimento della storia tra i ragazzi. «Credo molto in un approccio alla storia che superi la superficialità del libro di testo. È come se raccontassimo una storia che è la versione libresca del Trono di Spade». Al convegno intitolato «Quale futuro senza la storia?» Fioramonti è partito da un aneddoto familiare: «Mio figlio mi chiede spesso - ha detto l'esponente del governo giallorosso - Papà perché la storia è una sequenza di battaglie? Poi ci lamentiamo che la società di oggi incoraggia la violenza e il conflitto. Non sempre la storia è maestra di vita ma serve ad avere una lente con cui leggere il futuro». Intanto continua il silenzio del Movimento Cinque Stelle. Nessuna dichiarazione né dal capo politico Luigi Di Maio, né dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte che, invece, in altri casi simili avevano fatto quadrato per blindare i loro uomini. Avvenne per il portavoce del premier Rocco Casalino, incastrato mesi fa da due audio: uno in cui minacciava purghe contro i tecnici del Ministero dell'Economia in caso di maglie troppo strette della manovra del precedente governo gialloverde. L'altro in cui si lamentava con alcuni giornalisti per le ferie saltate dopo la caduta del Ponte Morandi di Genova. Accadde la stessa cosa con la vicenda del concorso di Conte all'Università La Sapienza, difesa d'ufficio da parte del M5s. Ora la strategia sembra un po' diversa. E la tattica stellata per difendere Fioramonti è stata tutta incentrata sullo sviare l'attenzione, giovedì sera, sulla polemica per le notizie sul figlio di Fioramonti che non ha sostenuto il test di italiano a scuola. Un approccio diverso nella «comunicazione di crisi», nonostante i passati attacchi sferrati dai Cinque Stelle ai parenti di altri personaggi politici: a partire dal polverone sulle inchieste contro i padri di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, per fare due esempi.Ma continuano gli strascichi politici dopo l'inchiesta del Giornale. Fratelli d'Italia ha depositato una mozione di sfiducia al Senato nei confronti del titolare dell'Istruzione. Per il partito di Giorgia Meloni è intervenuto il capogruppo a Palazzo Madama Luca Ciriani: «Le sue gravissime dichiarazioni contro le Forze dell'Ordine e gli insulti sessisti alla nostra collega Santanché sono incompatibili con l'importante ruolo che ricopre». La nota prosegue con un appello al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, rimasto in silenzio sulla vicenda: «Dal premier Conte è giunto soltanto un imbarazzante silenzio, oltremodo grave vista la volgarità delle affermazioni rilasciate dallo stesso ministro. Per tale ragione abbiamo preparato la mozione di sfiducia personale al ministro e ci rivolgiamo alle altre forze di opposizione del centrodestra affinché sostengano la nostra iniziativa».

Fioramonti, Ministro alla Pubblica Ricreazione. Dice di tassare le bibite, vuole rendere più divertenti le materie di studio e ridurre le ore di lezione per marciare a favore del clima...Marcello Veneziani il 29 novembre 2019 su Panorama. Da quando è diventato ministro, il grillino Lorenzo Fioramonti ha fatto una straordinaria rivoluzione virtuale: ha sostituito la Pubblica Istruzione con la Pubblica Ricreazione. Non lo dico perché è divenuto oggetto di ludibrio e di sollazzo al punto che lui stesso ha notato di essere divenuto «lo scemo del villaggio». Ma perché il vero core business del suo dicastero non è più il noioso, palloso corso di studi e di lezioni, ma il clima e quel che si fa prima e dopo le ore scolastiche e magari durante l’intervallo. La sua prima, significativa azione ha riguardato cosa bevono e cosa mangiano i ragazzi durante la ricreazione, e si è scagliato contro le bibite gassate e le merendine, chiedendo di tassarle. Ma essendo pindarico e volendo volare alto, Fioramonti ha puntato la sua tassa pure contro i voli, ingaggiando un’eroica battaglia aerea. Cosa c’entri il ministro dell’Istruzione con le tasse e l’aeronautica lo sa solo Dio, interpretato da Beppe Grillo. Di seguito il sullodato Fioramonti si è occupato di plastica, prodotta e smaltita all’intervallo con le bottigliette degli studenti e ha proposto di tassarle, allo scopo di scoraggiarne l’uso e trovare soldi per la scuola. Venite a scuola con la borraccia, o con il secchio se siete secchioni. In un momento di pausa ricreativa, il ministro climatico ha lasciato sovrapporre uno striscione verde sul ministero di viale Trastevere, dimenticando di essere il ministro e non un manifestante; nello striscione ministeriale la priorità per gli studenti non è andare a scuola ma scioperare per marciare nei cortei sul clima, con l’esenzione dalle lezioni firmata dal ministro in persona. Il ministero della Pubblica Ricreazione ha poi minacciato di togliere il crocifisso dalle aule, magari pure l’immagine di quel poverocristo di Mattarella affissa al muro, e ha suggerito di mettere al suo posto un’anonima mappa del pianeta, perché lui è uomo di mondo, è global ed è «gretoso» (non dirò «gretino»). E come gli islamici non vuol vedere figure o icone. Quel che aggrava l’espulsione di Cristo dalle aule è che il Fioramonti ha estromesso il crocifisso trattandolo alla stessa stregua delle lattine di Coca-Cola e delle bottigliette di plastica. Corpi estranei, non biodegradabili e inquinanti. Ha perciò ampiamente meritato il titolo di «ignoranza culturale di fondo» che gli ha rilasciato la Conferenza episcopale italiana. Non contento, il prode Ettore Fioramonti ha chiesto di prolungare l’ora d’intervallo a scapito delle ore scolastiche per inserire un’ora d’insegnamento dedicata all’ambiente. Trentatré all’anno per la precisione. Perché, come dice il cognome, Fioramonti si occupa di fiori e di monti, mica di cultura e istruzione. Compito della scuola, per il luminare grillino, è formare qualificati operatori ecologici, che un tempo si chiamavano spazzini o netturbini. Per stupirci con effetti speciali, il ministro della Pubblica Distruzione si è inventato di far studiare la matematica, la fisica e la geografia in una prospettiva legata «allo sviluppo sostenibile». Non riusciamo a capire il nesso tra la matematica e lo sviluppo sostenibile. Da Euclide a Greta. E da ministro della Ricreazione ha promesso che vuol rendere «divertenti» la matematica e le altre materie. Pitagora facce ride. Restando poi fedele all’idea che le cose migliori della scuola sono fuori della scuola, il ministro della Pubblica Distrazione vuole introdurre le nuove tecnologie a scuola, che notoriamente i ragazzi apprendono meglio fuori dalle aule; in classe ne capirebbero più loro che i loro docenti. Qualcuno si sarà chiesto da dove è spuntato questo fungo peloso dal volto umano, sotto quale pianta e in virtù di quale clima è cresciuto al punto da raggiungere la poltrona al vertice del Miur. Si conoscevano solo suoi violenti e volgari attacchi sui social. Ma Fioramonti brilla come un luminare non solo perché è un Cinque stelle: è un cattedratico, insegna nientemeno che in Sudafrica, a Pretoria, dopo essere stato in Italia assistente parlamentare di Tonino Di Pietro, docente al Cepu, che è notoriamente l’equivalente di Oxford e Cambridge in Italia. Da Tonino, Fioramonti avrà imparato la passione per la sintassi, l’istruzione e l’erudizione che ha poi coltivato con la frequentazione assidua di Giggino Di Maio, suo sponsor al governo. Fioramonti alla pubblica istruzione ci sta come il cavolo a merenda. Ma il cavolo a merenda è l’esatta sintesi del suo programma di ministro verde e antimerendine. Non avremmo avuto pace a pensare che laddove furono ministri della scuola Francesco De Sanctis, Ruggiero Bonghi, Quintino Sella, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Giuseppe Bottai, Aldo Moro, ora c’è Fioramonti Lorenzo. Per fortuna di mezzo c’è stata altra gente alla guida del ministero, come Valeria Fedeli, altra erudita venuta da sinistra, che ha preparato il terreno e il livello all’avvento del grillino Fioramonti. Non siamo dunque precipitati così in basso, ci siamo arrivati scivolando gradualmente. Il prossimo ministro sarà uno spacciatore, uno di quelli che già stanno fuori dalle scuole. Particolarmente edificante, anzi istruttiva, è apparsa infine la scelta del ministro dell’Istruzione Pubblica di iscrivere suo figlio a una scuola privata inglese. È un genitore responsabile e premuroso. Da buon padre, Fioramonti ha voluto salvare suo figlio da una scuola pubblica nelle mani di un ministro del genere.

Stefano Patuanelli ministro dello Sviluppo economico del governo Conte bis. Il capogruppo dei senatori cinquestelle entra nella squadra del governo giallo-rosso prendendo il posto lasciato da Luigi Di Maio. La Repubblica il 4 settembre 2019. Stefano Patuanelli è il nuovo ministro dello Sviluppo economico del governo Conte bis. Già capogruppo al Senato del M5s, prende il posto lasciato da Luigi Di Maio. Nato a Trieste nel 1974, è laureato in Ingegneria edile. Sposato, ha tre figli: Filippo, Viola e Agata. Ha iniziato il suo attivismo nel Movimento già nel 2005 con i primi gruppi "Amici di Beppe Grillo". Dal 2011 al 2016 è stato capogruppo dei 5S in consiglio comunale a Trieste. Tra i più fedeli sostenitori di Di Maio, Patuanelli si è distinto in queste ultime settimane nel ruolo di negoziatore. Ha condotto infatti in prima persona assieme al collega della Camera Francesco D'Uva le trattative che hanno portato all'intesa con il Pd. Grillino di prima generazione, giudicato come "preparato e competente", molto stimato anche da Davide Casaleggio, è stato, nei mesi scorsi, anche sul punto di sostituire Danilo Toninelli alle Infrastrutture. Ma poi la crisi di governo aperta da Matteo Salvini ha rimesso tutto in discussione. (mo.rub.)

Nunzia Catalfo nuovo ministro del Lavoro: prende il posto di Di Maio. È la madre della legge sul reddito di cittadinanza. Luca Pagni su La Repubblica il 4 settembre 2019. Nunzia Catalfo è il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali del secondo governo Conte. Siciliana, nata a Catania nel 1967, è considerata la madrina del Reddito di cittadinanza. La sua esperienza professionale è legata all’orientamento nel mondo del lavoro e selezione del personale. E’ entrata per la prima volta in Senato nel 2013 per il Movimento Cinque Stelle ed è da subito considerata un esponente dei “dialoganti” contrapposta all’ala più intransigente di Grillo e Casaleggio. Un ruolo che gli è stato riconosciuto persino da uno dei suoi “avversari” sui temi del lavoro, il senatore del Pd Pietro Ichino che ha scritto che è riuscita a distinguersi “nettamente da altri parlamentari della sua parte per i toni pacati, la ragionevolezza degli argomenti utilizzati e l’attenzione alle ragioni altrui”. Rieletta nel 2018 nel collegio uninominale di Catania al Senato, in queste legislatura, è stata nominata nominata presidente della Commissione permanente Lavoro e previdenza sociale. Ha fatto parte del gruppo che ha contribuito a scrivere già nel 2013 il provvedimento sul reddito di cittadinanza, per la cui approvazione si è battuta per cinque anni. E' stata anche la prima firmataria del disegno di legge sull'equo indennizzo e sul riconoscimento delle cause di servizio per la polizia locale. Come ministro del lavoro succede al suo collega di partito, Luigi Di Maio. Sulla sua scrivania negli uffici di via Vittorio Veneto troverà dossier corposi. Intanto dovrà occuparsi subito dello stentato avvio dei “navigator” che dovrebbero assistere nella ricerca di un lavoro i percettori del “suo” reddito di cittadinanza. Per non parlare del lungo elenco di crisi aziendali che attendono una soluzione: sono oltre 350 i casi che attendono una soluzione, a partire dalla Whirlpool di Napoli per arrivare alla richiesta di cassa integrazione all’Ilva, dai casi Auchan alla Mercatone Uno. Secondo stime de Il Sole 24 ore, è proprio il settore del commercio che presenta il picco dei lavoratori che rischiando di perdere il posto (oltre 36 mila), mentre 20 mila sono nell0industria siderurgica, 17 mila nei call center, 7 mila nell’edilizia e circa 5 mila nell’automotive.

Maria Giovanna Maglie smaschera Nunzia Catalfo: "Lei dietro al reddito di cittadinanza. Il Pd che dice?" Libero Quotidiano il 4 Settembre 2019. Nunzia Catalfo, grillina, madrina del reddito di cittadinanza è il nuovo ministro del Lavoro. Prende quindi il posto di Luigi Di Maio un'altra pentastellata. La Catalfo, di Catania, classe '67, è stata la prima firmataria della proposta di legge sul reddito di cittadinanza nel 2013 e sul salario minimo nella scorsa legislatura. Per quasi 30 anni si è occupata di formazione, dispersione scolastica e aiuto all'inserimento in collaborazione con i centri per l'impiego e i servizi per l'impiego in generale. Dal 2008 è attivista del Movimento 5 Stelle "per portare avanti una nuova visione del mercato del lavoro più aderente alle esigenze di imprese e cittadini", come si legge nel suo profilo sul blog delle stelle. Senatrice dal 2013, a gennaio scorso scriveva: "Per quasi 6 anni mi sono battuta in prima persona per il reddito. Oggi insieme a tutto il Movimento 5 Stelle vinciamo questa battaglia, introducendo una misura che dà dignità alle famiglie italiane e che investe sul lavoro, sulle politiche attive e sulla formazione. Il Decreto approvato dal Consiglio dei ministri ricalca quanto di buono ho inserito nel disegno di legge depositato in Senato nel 2013 a mia prima firma, dando inoltre il via al ricambio generazionale". Una nomina che lascia sgomenta Maria Giovanna Maglie che sul suo profilo Twitter commenta: "Al Lavoro diventa ministro la Catalfo, 5stelle, autrice del progetto del reddito di cittadinanza che fino a ieri il Pd indicava come causa principale della stagnazione economica. Tutto chiaro? Vi propongo un hashtag per i prossimi giorni #ilnordallopposizione". 

Marco Nepi per Tpi.it il 5 settembre 2019. Nunzia Catalfo è il nuovo ministro del Lavoro. Nel nuovo esecutivo M5S-PD guidato da Giuseppe Conte, è la senatrice e presidente della Commissione lavoro del Senato che prenderà il posto di Luigi Di Maio in questo complesso dicastero. Catalfo, tra le altre cose, è nota per essere stata la prima firmataria (nel 2013) di un disegno di legge sul reddito di cittadinanza. In questo senso, è una figura che garantirà continuità rispetto alle politiche messe in campo da Di Maio, passato al ministero degli Esteri. E tuttavia, in queste ore stanno emergendo alcune posizioni controverse della neo-ministra, in particolare per quanto riguarda l’eventuale uscita dell’Italia dall’euro. Nel 2014, il Movimento Cinque Stelle raccolse le firme per un referendum (di natura solo consultiva) sull’uscita dell’Italia dalla moneta unica. Come si comportò Nunzia Catalfo? Andando a ripescare i suoi post dell’epoca, emerge come la neo-ministra del Lavoro fosse un’accanita sostenitrice dell’Italiexit. Proprio così: Catalfo sosteneva che “uscire dall’euro si può, nonostante questi gufetti disinformati dicano il contrario”, e rivendicava con orgoglio il suo voto sovranista e anti-europeo. Catalfo, in altri post, elencava anche una serie di “paure infondate” sull’uscita dell’Italia dalla moneta unica. La neo-ministra sosteneva ad esempio che con l’Italiexit i cittadini avrebbero avuto benefici sul fronte dei mutui, il cui tasso sarebbe comunque rimasto stabile anche con un ritorno alla Lira. E ancora, il timore dell’inflazione sarebbe stato anch’esso infondato, perché “un  po’ di inflazione è necessaria per far girare l’economia”. Sebbene troppa inflazione sia dannosa, con il ritorno alla Lira “questo non succederà perché i prodotti italiani diventeranno più competitivi rispetto agli esteri”. Insomma, Nunzia Catalfo nel 2014 aveva le idee chiare, e le espresse in maniera altrettanto chiara con la sua firma per il referendum consultivo dei Cinque Stelle e le sue dichiarazioni pubbliche. Chissà se la pensa ancora così.

Da Libero Quotidiano il 5 settembre 2019. Nunzia Catalfo, grillina, madrina del reddito di cittadinanza è il nuovo ministro del Lavoro. Prende quindi il posto di Luigi Di Maio un'altra pentastellata. La Catalfo, di Catania, classe '67, è stata la prima firmataria della proposta di legge sul reddito di cittadinanza nel 2013 e sul salario minimo nella scorsa legislatura. Per quasi 30 anni si è occupata di formazione, dispersione scolastica e aiuto all'inserimento in collaborazione con i centri per l'impiego e i servizi per l'impiego in generale. Dal 2008 è attivista del Movimento 5 Stelle "per portare avanti una nuova visione del mercato del lavoro più aderente alle esigenze di imprese e cittadini", come si legge nel suo profilo sul blog delle stelle. Senatrice dal 2013, a gennaio scorso scriveva: "Per quasi 6 anni mi sono battuta in prima persona per il reddito. Oggi insieme a tutto il Movimento 5 Stelle vinciamo questa battaglia, introducendo una misura che dà dignità alle famiglie italiane e che investe sul lavoro, sulle politiche attive e sulla formazione. Il Decreto approvato dal Consiglio dei ministri ricalca quanto di buono ho inserito nel disegno di legge depositato in Senato nel 2013 a mia prima firma, dando inoltre il via al ricambio generazionale". Una nomina che lascia sgomenta Maria Giovanna Maglie che sul suo profilo Twitter commenta: "Al Lavoro diventa ministro la Catalfo, 5stelle, autrice del progetto del reddito di cittadinanza che fino a ieri il Pd indicava come causa principale della stagnazione economica. Tutto chiaro? Vi propongo un hashtag per i prossimi giorni #ilnordallopposizione". 

Nunzia Catalfo, la madrina del Reddito di cittadinanza che guadagna da nababbo: cifra da capogiro. Antonio Castro su Libero Quotidiano il 6 Settembre 2019. Fedelissima di Luigi Di Maio, attivista grillina catanese, orgogliosa "madrina" del reddito di Cittadinanza (è infatti sua la prima firma del disegno di legge nel 2013). Dal seggio di Palazzo Madama è stata catapultata, nel Conte 2, alla scrivania di via Flavia. E per prima cosa ringrazia, con uno sdolcinato post su Facebook, il leader grillino: «Fin da subito, voglio continuare l' ottimo lavoro svolto dal ministro Luigi Di Maio». L' ex formatrice (nel 2013 lavorava per l' Enaip di Catania, uno degli enti di formazione che fa capo all' Acli), ammette che «le sfide che mi aspettano sono tante e impegnative ma non mi spaventano». Per chi ama il gioco duro il ministero del Lavoro è sicuramente il ring adatto. Non solo perché i dati italiani sull' occupazione (stabile), non sono proprio così entusiasmanti, ma perché bisognerà attivare tutta la macchina regionale dei "navigator". E quindi trovare un posto di lavoro a centinaia di migliaia di persone che percepiscono da maggio il reddito di cittadinanza. Senza dimenticare gli oltre 300mila lavoratori, tra diretti e indotto, coinvolti dalle "crisi complesse" (oltre 160 tavoli aperti da anni al Mise), che attendono soluzione. Il triplo incarico del leader grillino (vicepresidente del Consiglio, ministro del Lavoro e titolare dello Sviluppo Economico), non sembra aver velocizzato la soluzione del problema atavico del nostro Paese: la disoccupazione. Salvo far lievitare il tiraggio della cassintegrazione soprattutto di quella straordinaria. Proprio a luglio ll numero di ore di cassa integrazione straordinaria autorizzate 2019 è stato pari a 10,0 milioni, di cui 3,7 milioni per solidarietà, registrando un incremento pari al 50,2% rispetto allo stesso mese dell' anno precedente. Importante anche la crescita delle richieste per la Cig ordinaria per la quale sono state autorizzate ben 8,8 milioni di ore. Nel luglio 2018 ne erano state autorizzate 7,6 milioni. E quindi ci troviamo dodici mesi dopo con una variazione tendenziale del 17%.

PIÙ CASSA INTEGRAZIONE PER TUTTI. Uno degli ultimi atti formali di Di Maio, prima di traslocare da Via Veneto a Via Flavia alla Farnesina, è stato di firmare il Decreto Crisi aziendali, atto che espande, tra l' altro, l' erogazione della cassintegrazione a quelle imprese e qui lavoratori che stavano per rimanere senza alcun paracadute. La Catalfo - che nella dichiarazione dei redditi del 2013 dichiarava 6.137,3 euro (nel 2018 lievitato a 106.857 euro lordi per gli emolumenti da parlamentare) - è al secondo mandato e stando alle regole grilline dovrebbe essere l' ultimo. Dovrà guidare la "fase 2" del Reddito che ha contribuito a normare e che ora dovrà trovare il modo di applicare. E forse per prima cosa dovrà impegnarsi per risolvere - grazie al matrimonio con il Pd - il pasticcio dei 471 (quasi) navigator campani, che nei mesi scorsi hanno sostenuto la selezione, sono risultati vincitori ma non sono stati ancora assunti. Una diatriba con il governatore campano, Vincenzo De Luca, che ha bloccato la formalizzazione dei contratti (unico caso in Italia). I 471 navigator campani sono stufi delle promesse. Ieri, esasperati, si sono incatenati sotto la sede della Regione Campania. Come a rappresentare la trappola di competenze tra governo centrale e Regione in cui sono precipitati. Adesso che il M5S è alleato di governo con il Partito democratico (da cui proviene proprio il vulcanico De Luca), magari la matassa dei veti incrociati si sbroglierà. Bel paradosso per una maggioranza giallorossa che si propone di trovare un lavoro a 200mila meridionali mentre non riesce a stabilizzare neppure quei pochi che dovrebbero trovare una occupazione ai tanti disoccupati. Antonio Castro

Teresa Bellanova ministro dell'Agricoltura del governo Conte bis. Luca Pagni su La Repubblica il 4 settembre 2019. Nata a Ceglie Messapica, provincia di Brindisi nel 1958, per quasi 30 anni ha lavorato nel sindacato. Prima seguendo le attività dei lavoratori del mondo agricolo in Puglia (fino a diventare coordinatrice regionale di Federbraccianti), sempre in prima fila nel contrastare il caporalato, per diventare passare nel 1996 alla Filtea, il sindacato della Cgil del settore tessile abbigliamento e calzaturiero e dal 2000 promossa alla segretaria nazionale della Filtea, con deleghe alle Politiche del mezzogiorno e politiche industriali. La carriera politica inizia nel 2005, con la chiamata nella consiglio nazionale dei Democratici di sinistra, mentre nel 2006 è eletta per la prima volta alla Camera e più volte rieletta. Nel 2014 è nominata sottosegretaria  al Lavoro del Governo Renzi, mentre dal 2016 è viceministro dello Sviluppo economico, Nel 2018 è eletta senatrice per il Pd nella circoscrizione Emilia-Romagna.

Da repubblica.it il 6 settembre 2019. Sui social si sprecano i commenti indignati di quanti considerano la terza media di Teresa Bellanova, neoministra per le Politiche Agricole, del Governo Conte Bis, inadeguata al ruolo per cui è stata nominata. Bellanova è stata bracciante agricola e si è battuta come sindacalista per difenderne i diritti. Ha maturato negli anni una profonda esperienza politica. Non è nuova, infatti, a ruoli di governo: è stata sottosegretario al Lavoro nel governo Renzi e viceministro dello Sviluppo economico con Gentiloni. Seguito dal vicesegretario Andrea Orlando: "Orgoglioso del Pd che porta al governo una ex bracciante al governo del Paese. Bellanova ha la terza media ma ha studiato all'università della lotta sociale. Ha spesso idee molto diverse dalle mie ma le ragioni per cui la state insultando sono quelle per cui la rispetto di più". "Giù le mani da @TeresaBellanova. La sua competenza, passione, serietà certa gente se la sogna. E proprio per questo la attacca in modo così meschino. Forza Teresa, non ti curar di loro, ma guarda e passa!", scrive su Twitter la deputata dem Anna Ascani.

Da tgcom24.mediaset.it il 6 settembre 2019. (…) Si schiera al fianco di Teresa Bellanova anche Matteo Renzi. "Chi insulta Teresa Bellanova per il suo abito, per il suo fisico, per la sua storia di bracciante agricola divenuta sindacalista e poi ministro non è degno di una polemica pubblica: e' semplicemente un poveretto. Gente che polemizza così va solo compatita, nemmeno criticata", scrive su Facebook il senatore dem ed ex segretario Pd. "Voglio però fare un augurio - aggiunge - a chi ironizza sulle caratteristiche fisiche (quasi sempre sulle donne, chissà perché): vi auguro di poter provare almeno una volta le emozioni di bellezza e stupore che le persone vivono quando ascoltano Teresa, la sua passione, la sua storia".

URCA. Teresa Bellanova, la piddina al giuramento con Mattarella si presenta vestita così. Libero Quotidiano il 5 Settembre 2019. Tra tutte le donne ministro - che si sono presentate con un look total black o in bianco a giuramento del Conte bis davanti a Sergio Mattarella - spiccava Teresa Bellanova. Il neo ministro dell'Agricoltura, in quota Partito democratico, si è presentata nel salone delle feste del Quirinale con un vestito a balze blu elettrico, con maniche a sbuffo e spacchi, lungo fin sotto il ginocchio. Forse un abito non esattamente adatto per un momento così formale come il giuramento davanti al presidente della Repubblica.

Il blu elettrico della Bellanova: applausi oltre alle web-critiche. Prima di lei soltanto Maria Elena Boschi aveva osato tanto. Marisa Ingrosso il 06 Settembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Qualcuno sul web l’ha presa in giro. Anche scherzosamente, come il sindaco di Locorotondo Tommaso Scatigna (FdI) che, per altro, è piuttosto in carne. Eppure la scelta dell’abito del neo-ministro delle Politiche Agricole, Teresa Bellanova, vale più di un trattato sul femminismo 2.0. Perché soltanto una persona magnificamente libera da tutte le paranoie anoressizzanti che avvelenano l’immaginario delle donne contemporanee può scegliere di arrivare al Quirinale, per giurare nelle mani del presidente Sergio Mattarella, in un multistrato plissé di scioccante colore blu elettrico. E questo per tre ottimi motivi. Il primo è che ogni donna sa che il plissé e il bouclé sono vezzi da concedersi col contagocce, giacché riempiono lo spazio e possono centuplicare la silhouette. Il secondo è che il blu elettrico è un colore pazzesco, è il bagliore dei fulmini, catalizza l’attenzione. Quindi, se non sei sicura al mille per mille del tuo fascino, magari fai scelte più misurate, più di basso profilo. A maggior ragione con quella «cornice», in quella occasione ufficiale in cui, in effetti, c’era l’ennesima schiacciante maggioranza di uomini vestiti delle mille, sobrie, nuance del blu. Infine, bisogna ricordare che la prima volta che il blu elettrico fece la sua comparsa nel, sempiternamente bigio-bon ton, salone delle Feste del Quirinale fu spalmato addosso niente meno che alla bella, giovane, longilinea e sarcofago-dotata, Maria Elena Boschi. Un confronto ad alto rischio per la Bellanova, e non solo per lei. Eppure, la ministra pugliese, che certamente sapeva tutte queste cose, ha scelto quell’abito-messaggio: sono curata, sono attenta, sono in gamba, vengo da lontano, ho lavorato sodo e, guardatemi, sono qui e sono radiosa, non mi nascondo, me ne frego. Applauso.

CRITICHI UN ABITO? FIOCCANO MINACCE DI MORTE. Daniele Capezzone per ''la Verità'' il 7 settembre 2019. Ecco a voi il reprobo, che poi sarei io. Ieri è morto Robert Mugabe, il tiranno dello Zimbabwe: ma la sensazione è che, in un ipotetico referendum su Twitter, sarebbe stato largamente plebiscitato dalle migliori risorse della sinistra italiana, a mie spese. Capo d' imputazione a mio carico? Il fatto che l' altro giorno, dopo il giuramento al Quirinale dei nuovi ministri, trovando un pochino vistoso e discutibile l' abito a balze blu elettrico indossato da Teresa Bellanova, io abbia pubblicato un tweet ironicamente critico verso il vestito («Carnevale? Halloween?»). Tutto qui: nulla di più e nulla di meno di un tweet su un vestito. Battuta naturalmente discutibilissima: a qualcuno può esser parsa simpatica, ad altri inopportuna e sgradevole. Totalmente legittima l'una e l' altra opinione: anzi, può benissimo darsi che il vestito fosse assai migliore del tweet. A prima vista, non mi sembrava materia da crociate o da guerre di religione. Quante volte avete letto o sentito battute feroci sulla mise dei reali britannici, sui cappellini della regina o della regina madre, scomparsa qualche anno fa? O - ben più vicino a noi, in questi giorni - battute sulla pochette di Giuseppe Conte, di cui ieri un quotidiano spiegava addirittura i dettagli delle quattro «cime» che spuntano dal taschino? E invece mi sbagliavo. Qualche ora dopo la pubblicazione del tweet, con ampia mobilitazione (deputati e senatori del Pd, l' immancabile catena di #facciamorete, molti utenti spontanei, e pure un vasto campionario di troll e account sospetti), sono stato lapidato. Per quello che ho scritto? No: per quello che non ho scritto. Sta qui il punto. Con uno slittamento dal vero al falso, mi è stato attribuito ciò che non ho mai né scritto né pensato: battute sulle donne, sul corpo di una signora, sui suoi titoli di studio. Un tweet su un abito è diventato l' anticamera per accuse che riassumo così: sessismo, misoginia, derisione degli altri, body shaming (detto in inglese, è ancora più minaccioso, pare). Così, in un crescendo che dall' altra notte mi ha accompagnato fino a ieri sera, sono stati chiamati in causa i miei genitori (uno dei quali non c' è più); il mio presunto fascismo (di andata o di ritorno, ontologico o acquisito); il tradimento del liberalismo (certificato dal presidente dei senatori del Pd, che evidentemente, nel tempo libero, rilascia e ritira patenti liberali). Ed è partita - a corredo - una raffica di minacce. Incluso un buon pacchetto di minacce di morte. Alcune, va detto, elaborate e artisticamente fantasiose, con spiegazione dettagliata del tipo e del grado di sofferenza adeguati per punirmi. Altri, invece, non hanno minacciato, ma hanno sfoggiato la loro sensibilità culturale. Uno per tutti, Alessandro Gassmann, che ha pubblicato una mia foto con il titolo «L' imbecille»: polemica elegante, civile, democratica. Al simpatico rodeo hanno anche partecipato firme del servizio pubblico della Rai, reiterando surreali accuse di razzismo nei miei confronti. Ma non bastava ancora. Con piglio da pubblico ministero, è arrivato Carlo Calenda a dire che «gli insulti di Capezzone sono vergognosi». E già qui, come gli hanno fatto notare decine di utenti, non si capiva bene quali fossero i miei insulti. Ma ormai Calenda aveva già preso la rincorsa: «In qualunque Paese normale uno che si esprime così non varcherebbe mai più la porta di uno studio televisivo». Per rafforzare il concetto, Calenda ha anche taggato (cioè messo a conoscenza su Twitter) uno degli account di Mediaset, in modo - intuisco - da segnalare bene chi debba e chi non debba essere invitato in tv. Circostanza interessante, dunque. Dopo neanche un giorno al governo, il Pd, senza perdere tempo, già chiede censura e bavaglio, già inizia a compilare l' elenco degli sgraditi, di quelli che non devono avere diritto di parola. Qui finisce il mio racconto, e devo scusarmi con i lettori per aver preso un po' del loro tempo, mentre ringrazio in modo speciale La Verità che mi consente di rimettere in fila un po' di fatti. E di fare un' annotazione. Sono stato criminalizzato per ciò che non ho detto (ho parlato di abiti, non di persone). Invece qualcun altro - per anni - ha effettivamente detto alcune cose, non limitandosi ai capi d' abbigliamento, ma andando al cuore delle (vere o presunte) caratteristiche fisiche e morali dei propri avversari. Contro esponenti di centrodestra, ricordo (da sinistra) accuse infamanti verso deputate (trattate senza tanti giri di parole come escort o peggio). Ricordo volgarità inenarrabili (e la chiamavano «satira») sulla statura dell' uno o le caratteristiche fisiche dell' altro avversario politico. Dunque, di là, si può offendere chiunque sul piano personale. Di qua, non si può fare una battuta su un vestito. Va dato atto a una persona, e cioè alla stessa Teresa Bellanova, di essere stata molto più spiritosa e sportiva dei bodyguard accorsi per difenderla. Ieri, con un tweet, ha riproposto la foto del suo vestito, chiosando: «La vera eleganza è rispettare il proprio stato d' animo: io mi sentivo entusiasta, blu elettrica e a balze e così mi sono presentata». Chapeau a lei. Non ai lanciatori di minacce e agli addetti «democratici» alla censura.

Mario Giordano difende Capezzone: "Non è libero un paese in cui non si può dire che un vestito è brutto". Libero Quotidiano il 7 Settembre 2019. "Daniele, piena solidarietà è un abbraccio. Non è libero un paese in cui non si può dire che un vestito è brutto. Te lo dissi già qualche mese fa, lo ripeto ancora oggi: non ci faremo intimidire". Mario Giordano difende così il collega e amico Daniele Capezzone che qualche giorno fa ha dato il via - inconsapevolmente - agli insulti rivolti a Teresa Bellanova e al suo look.  Oltre al commento di Giordano, su Twitter si era sfogato lo stesso Capezzone che aveva scritto: "Fare una battuta su un vestito (ripeto: su un vestito) e ricevere minacce, anche di morte, con ampia mobilitazione di troll. Più il tentativo di qualche furbetto di attribuirmi considerazioni (mai fatte) su donne e corpi. In tanti non ci faremo intimidire da questo squadrismo".

Insulti sessisti sui social  alla ministra Bellanova. Parole come pietre, è tempo  di cambiare vocabolario. Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Corriere.it. Ci risiamo. O meglio, non ci siamo proprio. Il nuovo governo non fa in tempo a giurare ed ecco che una donna, questa volta la ministra del Pd Teresa Bellanova, finisce nel mirino degli odiatori seriali. E giù battutacce che rimbalzano sul web, insulti sessisti, considerazioni squallide e triviali. Il pretesto per scatenare l’odio e i pregiudizi è l’abito, ma poteva essere il tacco, il trucco, l’eloquio o anche l’impegno in favore dei migranti o dei diritti, come sa bene Laura Boldrini. Troppo bella, o troppo brutta. Troppo magra, o troppo grassa. Possibile che siamo ancora a questo punto? Che un politico come Daniele Capezzone, che è stato portavoce di Forza Italia e del Popolo delle Libertà, non trovi contro l’avversario un argomento più forte che non sia la critica per l’abito in stile «Halloween»? Se Maria Elena Boschi fu fatta a pezzi anche perché troppo avvenente, alla ex bracciante agricola che si battè da sindacalista contro il caporalato nelle campagne pugliesi tocca il massacro sui social perché non è una silfide e al giuramento del governo Conte si è vestita da «balena blu». Renzi la difende, Zingaretti implora di fermare la spirale dell’odio, ma non può bastare, perché troppo spesso il virus della violenza verbale contro le donne nasce e si diffonde anche dalle aule di Camera e Senato e dai luoghi della politica. Per Beppe Grillo le cinque capoliste candidate da Renzi alle Europee 2014 erano «veline». Matteo Salvini sul palco di un comizio tirò fuori una bambola gonfiabile e la paragonò alla presidente Boldrini. Un’ingiuria che, negli archivi delle cronache parlamentari, compare accanto al celebre complimento che Silvio Berlusconi dedicò a Rosy Bindi, «più bella che intelligente». Un mese fa, non un decennio o un ventennio addietro, la lapidazione via social è toccata a Monica Cirinnà per aver riso in aula al Senato mentre il segretario della Lega parlava: «zoccola», «viscida bestia», «squallida invasata» e via così, una frustata via l’altra. È ora di cambiare registro. È tempo che la politica, i politici, si impegnino a confrontarsi con le avversarie alla pari, togliendo dal vocabolario tutte quelle parole che, scagliate sul web, sono destinate a diventare pietre.

La replica della ministra Bellanova agli insulti social: «L’eleganza è rispettare  il proprio stato d’animo». Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Corriere.it. «La vera eleganza è rispettare il proprio stato d’animo: io ieri mi sentivo entusiasta, blu elettrica e a balze e così mi sono presentata. Sincera come una donna #qualcosadiblu». Teresa Bellanova, ministro dell’Agricoltura, ribatte così via Twitter agli attacchi ricevuti sui social per l’abbigliamento scelto per il giuramento al Quirinale. Bellanova ritwitta il post del conduttore tv Enzo Miccio che promuove la tenuta della neoministra. A poche ore dalla cerimonia al Colle la titolare delle Politiche agricole aveva subito pesanti critiche e insulti sul web, sia per il suo aspetto fisico che per il diploma di terza media, considerato da alcuni inadeguato al suo ruolo. Immediata la reazione del Partito democratico che, a partire dal segretario Nicola Zingaretti, interviene per difendere la neoministra. «Con Teresa Bellanova. Senza se e senza ma. Io e tutto il Pd», scrive su Twitter il segretario dem. «Chi insulta Teresa Bellanova per il suo abito, per il suo fisico, per la sua storia di bracciante agricola divenuta sindacalista e poi ministro non è degno di una polemica pubblica», aggiunge Matteo Renzi. Il vicesegretario Andrea Orlando esprime orgoglio per il Pd «che porta una ex bracciante al governo del Paese». «Bellanova ha la terza media ma ha studiato all’università della lotta sociale. Ha spesso idee molto diverse dalle mie ma le ragioni per cui la state insultando sono quelle per cui la rispetto di più», continua l’ex Guardasigilli . «Sì, orgogliosa bracciante, con la scuola della lotta e dell'esperienza — scrive l'ex segretaria Cgil Susanna Camusso— . Voi che attaccate abiti e corpo, ignorate la storia delle persone e del Paese, avete solo una grande paura dell'autorevolezza e libertà delle donne». « Quelli che non hanno argomenti fanno così— commenta l'ex presidente della Camera Laura Boldrini —.Ti attaccano sul vestito, le scarpe, i capelli, il peso. Si accaniscono sul corpo pensando di farti soffrire ma forse non hanno idea di che persona sei e quale sia la tua tempra. Un abbraccio, Teresa». Anche Jole Santelli, vicepresidente della commissione Antimafia di Forza Italia, ha espresso solidarietà nei confronti della titolare del ministero dell'Agricoltura: «Ho conosciuto Teresa Bellanova il 2002, quando da sindacalista era impegnata sul tavolo della crisi Marlane, l'ex centro tessile calabrese. È una delle sindacaliste più preparate che abbia incrociato nella mia vita». Per Mara Carfagna «la ministra Teresa Bellanova ha dimostrato impegno e competenza fin dalla più giovane età». «Combatterò i suoi provvedimenti quando mi troveranno in disaccordo come la democrazia ci consente — continua la vicepresidente della Camera —. Si vergogni chi la insulta per l'abito, l'aspetto e il titolo di studio». «Il gruppo parlamentare del Pd alla Camera esprime solidarietà a Teresa Bellanova per i vergognosi insulti ricevuti. Siamo al suo fianco», si legge in una nota del gruppo pd di Montecitorio. «Teresa ha dedicato l'intera sua vita a combattere le ingiustizie ed è stata sempre al fianco degli ultimi, dei più indifesi — sottolineano i deputati dem — . Se in questo nostro nuovo secolo ci sono più donne e uomini che hanno potuto frequentare le aule dei licei e delle università lo devono anche a chi, come Teresa, non ha potuto raggiungere per sé quegli obiettivi, ma non per questo sono senza esperienza e capacità. Abbracciamo Teresa Bellanova e le rinnoviamo le congratulazioni per il meritato e prestigioso incarico e tutta la nostra stima che le è dovuta proprio per la sua storia personale». Abbandonare gli studi dopo la licenza di terza media, che ora in tanti le contestano, per la ministra Bellanova non si può dire che sia stata una scelta, dato che ha dovuto andare a lavorare sui campi come bracciante. Il suo impegno sindacale contro la piaga del caporalato inizia in quegli anni. Nel 1988 diventa segretaria provinciale della Flai Cgil (Federazione Lavoratori Agroindustria) e nel 1996 segretaria provinciale della Filtea Cgil (Federazione italiana Tessile Abbigliamento Calzaturiero). Nel 2008 entra per la prima volta alla Camera dei deputati nelle file del Pd. Renziana di ferro, nel 2016 diventa viceministro dello Sviluppo Economico. Ha approvato e difeso il Jobs act, entrando in contrasto proprio con il sindacato di cui per anni è stata rappresentante. «Nei giorni scorsi ho ribadito spesso come il da fare fosse enorme e non bisognasse sprecare tempo prezioso — ha dichiarato dopo il giuramento al Quirinale — Al lavoro da subito, dunque, per rafforzare la strategicità per il nostro Paese di un segmento come questo per un agroalimentare moderno e di qualità, capace di attrarre occupazione qualificata e occupazione femminile soprattutto».

Annalisa Chirico in difesa di Teresa Bellanova: "Sciocca ironia contro chi ha imparato il mestiere sul campo". Libero Quotidiano il 6 Settembre 2019. "Nell'epoca della incompetenza si fa sciocca ironia su una donna che i tavoli delle crisi sindacali li gestisce da una vita, e il mestiere lo ha imparato sul campo partendo dalla terra rossa del Salento. Teresa Bellanova ministro è l'apice di una carriera, non un colpo di fortuna". Annalisa Chirico prende così le difese della neo ministro all'Agricoltura, da ieri - giorno del giuramento a Mattarella del Conte bis - presa di mira per il look scelto (un abito blu elettrico con maniche trasparenti e borsetta in tinta) e per sfoggiare la terza media. Una sfilza di insulti a cui la stessa Bellanova ha risposto con grande ironia: "La vera eleganza è rispettare il proprio stato d'animo: io ieri mi sentivo entusiasta, blu elettrica e a balze e così mi sono presentata. Sincera come una donna". 

Meloni sugli insulti alla Bellanova: "Ci sono abituata, ma essendo donna di destra, non ricevo solidarietà". Libero Quotidiano il 6 Settembre 2019. "Insulti pesanti, minacce ne ho ricevuti tanti. Anche pesantissimi. Non considero giusti, quindi, quelli diretti al ministro Teresa Bellanova, né per il vestito che porta (solitamente riservati solo alle donne) né per il titolo di studi, perché magari non tutti hanno avuto le stesse occasioni". Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, ha tagliato corto - in una dichiarazione ad Adnkronos - sulle critiche rivolte al neo ministro per le Politiche agricole. "Quello che ho da contestare a lei e agli altri ministri che hanno giurato con questo governo - prosegue - è che non si preoccupano del fatto che occupano una poltrona che non avrebbero diritto a occupare. Questo governo è una truffa, un inganno, una cosa vergognosa ma non credo che i ministri vadano giudicati per come si vestono". E ancora: "Se Renzi mi mostrò solidarietà? - continua la Meloni - Assolutamente no, ma io sono abituata agli insulti: è lo stesso concetto per cui, essendo io una donna di destra, non ho diritto alla stessa solidarietà alla quale hanno diritto gli altri. Un po' come la logica negli anni Settanta per cui ammazzare fascista non è reato: loro sono rimasti di quella mentalità lì. Ciò non toglie che io, da persona normale, continuo a considerare che gli insulti non siano giusti e non ho alcun problema a esprimere solidarietà al ministro Bellanova".

DAGONOTA il 7 settembre 2019. Riproponiamo qui, per fare solo un esempio tra mille, alcuni tweet seguiti alla prima della Scala del 7 dicembre 2015, quando Daniela Santanchè si presentò con un vistoso abito verde (mica nuda e ricoperta di Nutella) e fu l'oggetto dello scherno di chiunque, da Crozza a ''DiMartedì'' alla Littizzetto sulla correttissima Rai1 del correttissimo Fazio. Con lei si poteva, perché è di destra. Addirittura aziende (Ceres) avevano fatto degli instant-meme ipotizzando che fosse ubriaca. Inutile stare qui a ricordare tutti i casi Adinolfi, Ferrara, Brunetta, Berlusconi (loro sì, bersagliati per le fattezze fisiche, e non per un banale vestito) né i calendari della Carfagna tirati fuori 15 anni dopo, i sottintesi sulle parlamentari di Forza Italia, o la pioggia di insulti sul corpo della Maglie e la vecchiaia di Feltri quando esprimono idee che non piacciono. Dagospia ovviamente ha sempre scherzato su tutti e su tutto, anche perché crediamo che chi fa il politico debba avere la pelle più dura del cittadino comune. E infatti, proprio come la Santanchè ha sempre giocato vestendosi da cowgirl o da montanara in moon-boot, la Bellanova, abituata a ben altre asperità, si è fatta una risata, ha spiegato il perché di quell'abito e il giorno dopo si è abbigliata più sgargiante di prima. Non aveva bisogno dell'esercito dei buoni accorso a difenderla, e che in realtà la trattava con una vomitevole condiscendenza. Come a dire: poverina, è donna e sovrappeso, proteggiamola dai cattivi usando il potere lenitivo dei nostri cuori su Twitter. Gesto che non è mai stato riservato a – per dirne uno – Giuliano Ferrara, perché lì il sottinteso è: è uomo e tosto, se la cava da solo. Quando capiranno che la vera uguaglianza sta tutta lì?

Alessia Morani attacca Daniela Santanchè, lei la inchioda: "Solo la Bellanova si può vestire come vuole?" Da Libero Quotidiano il il 10 settembre 2019. "Quindi, ricapitolando. Solo Teresa Bellanova si può vestire come vuole?". Daniela Santanchè asfalta Alessia Morani del Partito democratico che l'ha attaccata per essersi presentata così alla manifestazione di Fratelli d'Italia e Lega in piazza a Montecitorio contro il governo Conte bis. "I nuovi patrioti all'amatriciana", aveva commentato la piddina postando la foto della Pitonessa sul suo profilo Twitter, "la loro inconfondibile sobrietà che fa rima con credibilità". Ma fino a oggi le piddine avevano alzato gli scudi per difendere la Bellanova criticata per aver indossato un abito blu elettrico durante il giuramento al Quirinale. Evidentemente vale solo per loro. Non per tutte le altre.

Dopo Bellanova ancora un caso di sessismo. La ministra De Micheli: «Provo solo pena». Pubblicato domenica, 08 settembre 2019 da Maria Teresa Meli su Corriere.it. Non si è ancora placata la polemica sulla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova e il suo look quirinalizio e nel mirino degli odiatori che popolano la Rete finisce la collega Paola De Micheli. Un militante di CasaPound ha infatti ripubblicato una foto della ministra delle Infrastrutture durante la seduta della Camera con un vestito con una profonda scollatura. E accanto all’immagine il commento: «Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti... appena staccato dal turno sulla Salaria». Un chiaro riferimento alla consolare romana popolata dalle prostitute. Andrea Cpi, l’uomo che ha postato la foto, l’ha poi cancellata, ma oramai era troppo tardi. La ministra De Micheli non si lascia intimidire: «Abbiamo fatto questo governo anche per pacificare nel linguaggio e nei comportamenti questo Paese. Attacchi di questo tipo mi fanno dispiacere per chi li fa: denotano l’incapacità di comprendere le persone per quello che sono, il pregiudizio sulle donne al limite della paura. Come madre rabbrividisco al pensiero che un figlio possa concepire ed esprimere pensieri del genere. Per questo provo soltanto pena e non fastidio». Proprio come Bellanova che dice di essere «irritata, ma non ferita dagli attacchi». Mentre gli esponenti degli altri partiti tacciono, nel Pd è scoppiata la rivolta contro questo ennesimo atto di sessismo. «Solidarietà e un grande abbraccio a Paola De Micheli. Si torna a insultare una donna perché fa politica in modo autonomo. E questo si combatte schierandosi e isolando i vigliacchi. Sempre», twitta Nicola Zingaretti. Se per il renziano Davide Faraone «sono talmente maschilisti da non riuscire minimamente a valutare il lavoro di una donna. Non conta quello che hanno fatto o come potrebbero svolgere il ruolo di ministro, conta se hanno il décolleté, se hanno il vestito blu elettrico, se sono grasse o hanno le labbra rifatte», per Emanuele Fiano «al tipo di CasaPound passerà in tribunale la voglia di offendere ancora». Secondo la senatrice Valeria Valente «la solidarietà, per quanto doverosa, non basta più. Serve prevenire e sanzionare. Possiamo farlo approvando subito il ddl contro i linguaggi d’odio sul web». E Anna Rossomando aggiunge: «La povertà dell’utilizzo di certe parole, con la finalità di messaggi sessisti e discriminatori, si traduce in povertà dell’intelligenza», mentre Alessia Morani attacca «i leoni da tastiera non hanno argomenti e vorrebbero dirci come vestirci», ma «hanno sbagliato indirizzo!». La ministra per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, twitta: «La volgarità e l’ignoranza degli attacchi non scalfiranno il suo e nostro lavoro. Sconfiggere l’odio diffuso nella rete è una nostra priorità».

Maria Elena Boschi, la petizione grottesca: "Firma anche tu per Teresa Bellanova". Libero Quotidiano l'8 Settembre 2019. Come è arcinoto, la neo-ministra dell'Agricoltura Teresa Bellanova è stata attaccata e insultata per il vestito blu a coste che ha sfoggiato in occasione del Giuramento al Quirinale. Tra chi la ha difesa, anche Vittorio Feltri, con questo editoriale. Dunque al fianco del ministro si è schierata anche Maria Elena Boschi. Soltanto che lo ha fatto in modo grottesco, ovvero lanciando una petizione: "Basta giudicare le donne per come vestono". Che è un po' come lanciare una petizione per chiedere "la pace nel mondo": giustissimo in linea di principio, ma grottesco nella sostanza. E non solo perché impossibile, ma perché ci si chiede in che caso si possa "misurare" il giudizio su come si è vestita una donna: altrettanto in linea di principio, sarebbero da evitare anche i complimenti. Il punto è che un discorso è argomentare la difesa alla Bellanova, un altro è lanciare ridicole petizioni. Ma tant'è, per farlo, la fu sottosegretaria ha scritto sul sito dei Comitati azioni civile: "La ministra Bellanova ha mostrato negli anni le sue capacità. Quando smetteremo di giudicare le donne per come si vestono sarà sempre troppo tardi. Firma anche tu se pensi che sia l'ora di farla finita coi due pesi e due misure tra uomini e donne". E ancora: "La storia di Teresa Bellanova è una storia piena di passione e voglia di fare: una ragazza che si è fatta da sola, lasciando presto gli studi per lavorare. Oggi questa donna libera e indipendente è ministra dell'Agricoltura. Eppure delle donne si continua a far notare l'aspetto fisico, l'abito o le scarpe, ma di un uomo no o comunque molto meno". Si continua a non capire, però, che cosa ci sarebbe da firmare...

Vittorio Feltri a Teresa Bellanova: "Sto dalla tua parte. Altro che sfotterti, meriti solo applausi". Libero Quotidiano il 7 Settembre 2019. Questo nostro Libero se non altro è capace di sorprendere. In redazione non siamo tutti uguali, c'è chi la pensa in un modo e chi in un altro, e siamo capacissimi di tollerare ogni opinione, soprattutto quelle che personalmente non condivido. Ieri per esempio abbiamo pubblicato due articoli che mi hanno dato sui nervi, ma Pietro Senaldi, investito della responsabilità del prodotto finale, giustamente non li ha censurati. Riguardavano Teresa Bellanova, ministro delle politiche agricole, e l'abbigliamento delle signore entrate a far parte del gabinetto Conte. Nel primo pezzo, firmato da Attilio Barbieri, ottimo giornalista, si commentava il fatto che la citata Bellanova non sfoggi titoli accademici, essendosi fermata negli studi alla terza media, come se ciò fosse disdicevole. Non capisco dove sia il problema. Una donna che ha cominciato a impegnarsi quale bracciante a 14 anni suscita in me soltanto ammirazione. Non me la sento di criticarla perché non è andata oltre la scuola secondaria, dovendo sgobbare nei campi. Anzi. La apprezzo. Una che sale sull'ascensore sociale e passa dalla zolla alla più alta amministrazione dello Stato merita solo applausi, altro che prenderla per i fondelli e sfotterla a sangue. L'istruzione è importante tuttavia non decisiva ai fini della valutazione di una persona. Teresa Bellanova andrà giudicata per le sue opere, se le compierà, e non per i diplomini che si è assicurata. Guglielmo Marconi, le cui scoperte sensazionali hanno mutato in meglio il mondo, non era laureato però ciò non gli ha impedito di diventare lo scienziato più straordinario del Novecento. Grazia Deledda, Nobel per la letteratura, conseguì la licenza media e basta. Gabriele D' Annunzio e Benedetto Croce non frequentarono a lungo l'Università. E non mi pare abbiano demeritato. Per quale motivo dovremmo dileggiare Bellanova solamente per il fatto trascurabile che invece di ammazzarsi sui libri si è ammazzata nel lavoro? Trovo deplorevole attaccare una dama, o un uomo, poiché non può sbandierare una pergamena. Gesù, che non era un fesso, diceva che un albero si valuta dai frutti e che un essere umano va pesato dalle sue capacità. Pertanto mi scuso con la ministra per quanto gratuitamente abbiamo scritto di lei. A riguardo del suo abbigliamento, come a quello delle sue colleghe, poco apprezzato dai miei compagni di redazione, mi corre l'obbligo di precisare che ciascuno si veste nella maniera che preferisce senza doverne rispondere ad alcuno. Per altro, l'abito di Bellanova mi è sembrato perfettamente acconcio. Infine se un ministro è in carne oppure ossuto a me non frega un accidente. Ciascuno è libero di agghindarsi secondo il proprio gusto e secondo il proprio portafogli. Dimenticavo. Io da ragazzo, terminata la fatidica terza media, per tirare a campare pulivo le scale di un condominio, poi sono stato assunto nel ruolo di fattorino in un negozio di cristalceramiche, quindi in una bottega di confezioni in qualità di apprendista commesso. In seguito entrai nella categoria dei vetrinisti, dopo un regolare corso, dei quali oggi sono il presidente nazionale benché da oltre mezzo secolo svolga l'attività di giornalista e direttore. Ho una laurea in scienze politiche che non ricordo dove l'abbia deposta. Forza Bellanova cara, io sono dalla tua parte. Giacché so che le donne non hanno vita facile benché siano in genere più brave degli uomini, almeno più serie. Se tu sei comunista, pazienza, ce ne faremo una ragione e semmai ti manderemo al diavolo per la tua politica e non per il resto. Vedremo. Vittorio Feltri

Teresa Bellanova, quando la ministra veniva accusata di “estorsione” dai lavoratori di Almaviva. Il Secolo d'Italia venerdì 6 settembre 2019. In tanti la difendono, in tanti vantano i suoi meriti sindacali. Ma nel coro di solidarietà che ha investito la neoministra dell’Agricoltura, la renziana Teresa Bellanova, c’è una nota stonata. Sui social c’è chi ricorda il suo comportamento nella vertenza Almaviva, 1666 lavoratori messi per strada a Roma, quando lei era viceministro allo Sviluppo economico del governo Gentiloni. La vicenda viene raccontata dal Manifesto, giornale non certo orientato a destra, ai primi di giugno del 2017 e fa riferimento alle procedure di licenziamento collettivo aperte in meno di 10 mesi (18 dicembre 2015, 21 marzo 2016, 5 ottobre 2016) che videro penalizzati i lavoratori Almaviva della sede di Roma. Le rappresentanze sindacali romane (Rsu) di Almaviva puntarono l’indice, a conclusione della trattativa, proprio contro Teresa Bellanova. “Un ricorso al giudice del lavoro, presentato dallo studio legale Panici-Guglielmi su mandato di ben 250 lavoratori licenziati a Roma – scriveva il Manifesto – chiama in causa l’azienda e il governo accusando l’allora amministratore delegato (e oggi presidente di Almaviva Contact) Andrea Antonelli e la viceministra Teresa Bellanova di concorso in estorsione proprio per quello che accadde nella trattativa, specie in quell’ultima notte al ministero della Sviluppo economico alla scadenza della procedura di licenziamento collettivo”. “Per entrambi – aggiungeva il quotidiano – parallelamente al ricorso, è stata presentata una denuncia penale – da parte dell’avvocato Cesare Antetomaso e degli avvocati del lavoro Pier Luigi Panici e Carlo Guglielmi – alla Procura di Roma sottoscritta da una quindicina di Rsu Almaviva Roma per «tentata estorsione»”. “Le testimonianze dei rappresentanti romani gettano un’ombra sui comportamenti della viceministra Teresa Bellanova, lodata invece per la firma unitaria dell’accordo di maggio 2016 che aveva evitato 2.500 licenziamenti – spiegava il Manifesto – Dopo aver tenuto le Rsu in una sala mentre discuteva con i vertici sindacali nazionali e aver rifiutato di concedere tempo per le assemblee illustrative dell’intesa, sentito il diniego dei delegati romani a firmare, Bellanova li accusava di «aver abdicato al ruolo di sindacalisti» e di essere «irresponsabili nei confronti dei lavoratori rappresentati» cercando infine di convincere i lavoratori presenti sotto il ministero perché «si rivoltassero per far cambiare idea agli Rsu»”. “Quell’accordo non era firmabile – ha raccontato a Romatoday Barbara Sbardella, rappresentante sindacale Slc Cgil, che era tra quei sindacalisti che rifiutarono di firmare l’accordo sulla sede romana la notte del 21 dicembre 2016 – e sottendeva un vero e proprio ricatto per i lavoratori. Se ci avessero dato il tempo di riunire i colleghi e loro ci avessero detto di firmarlo l’avremmo fatto, non siamo autorappresentativi. Ma in quel momento avevamo un mandato assembleare a non affrontare né l’abbassamento del salario né l’aumento del controllo sul lavoratore. Quella notte abbiamo chiesto uno stop di 24 ore per ulteriori consultazioni ma non ci è stato concesso. Così abbiamo votato secondo quanto emerso dalle assemblee. Credo che con stipendi così bassi effettuare dei tagli non sia proprio possibile. Un esempio. Quella notte inviai a Teresa Bellanova una mail con la tredicesima di una collega: ammontava a poco più di 300 euro. Proprio lei, all’inizio di dicembre, nel corso di un’intervista aveva promesso che il Governo non avrebbe mai assecondato tagli agli stipendi dei lavoratori”.

Teresa Bellanova, il piano pro-immigrazione: porti aperti per avere più manodopera nei campi. Libero Quotidiano l'8 Settembre 2019. Su Libero di sabato 7 settembre, Vittorio Feltri ha difeso il neo-ministro dell'Agricoltura, la piddina Teresa Bellanova, per gli attacchi e le offese ricevute sia per il look sfoggiato al Quirinale, sia per il fatto di avere il diploma di terza media. Il direttore ricordava come, nel caso, gli attacchi saranno giustificati per le sue mosse politiche. E la Bellanova, a tempo record, offre validissimi motivi per essere criticata. Lo fa in un'intervista concessa a Repubblica, in cui premette di trovarsi al ministero "per le amiche braccianti che non hanno una vita". Già, perché la Bellanova la bracciante la ha fatta davvero, e ricorda: "Io ho perso amiche di 17, 18 anni che sonno morte negli incidenti dei pulmini dei caporali, nei campi. Non hanno avuto le opportunità che ho avuto io". Poi, quando le chiedono a quali provvedimenti pensa di attuare, spiega: "Dobbiamo semplificare la vita agli agricoltori e rafforzare le filiere made in Italy. Occorre contrastare l'illegalità del caporalato e dello sfruttamento degli immigrati. La legge contro i caporali funziona nella parte repressiva, ma è alla prevenzione che bisogna puntare", sottolinea. E fin qui, tutto bene. Peccato che poi aggiunge: "Poi c'è la regolamentazione dei flussi di migranti, essendoci fabbisogno per il lavoro agricolo". Ed è qui che casca l'asino: insomma, la Bellanova vuole riaprire i porti per permettere agli africani di arrivare in Italia per lavorare nei campi. Certo, pur "contrastando l'illegalità del caporalato". Ma quale sia il vero piano della Bellanova appare, sin dal principio, piuttosto evidente.

Bellanova: «Renzi fuori dal Pd? Quando ci saranno fatti, deciderò». Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Maria Teresa Meli su Corriere.it.

Ministra Teresa Bellanova com’è andato il passaggio delle consegne con Gianmarco Centinaio?

«La prima cosa che ho fatto dopo il giuramento è stata quella di cercare il mio predecessore. Una volta, due volte, tre volte. Non sono stata richiamata. Il ministro non ha voluto fare nessun passaggio di consegne. È accaduto anche per altri ministeri».

Prova imbarazzo a stare con i grillini?

«No, perché sono fermamente convinta che non avevamo alternativa rispetto alla scelta messa in campo da Salvini di andare al voto per avere una maggioranza tale da portare questo Paese fuori dall’Europa e dall’euro. È vero che con i 5 Stelle abbiamo differenze programmatiche: dobbiamo portarle a sintesi, questa è la fatica del governo. E vediamo soprattutto se riusciamo ad affrontare l’emergenza italiana che non si chiama immigrazione ma lavoro».

Questo non piacerà a Salvini.

Tante aziende mi chiamano perché se non c’è un flusso programmato dell’immigrazione e quindi anche della manodopera, è un problema. Ci sono terreni dove i prodotti rimangono non raccolti».

Intanto i braccianti immigrati continuano a morire.

«Non intendo indietreggiare di un millimetro sull’applicazione della legge sul caporalato. Che è repressione ma anche prevenzione. E il mio lavoro da domani è esattamente questo: ci sarà un tavolo di coordinamento con la ministra del Lavoro per definire le misure rispetto alla prevenzione, perché bisogna consentire alle aziende che lavorano nella legalità di andare su una piattaforma per trovare i lavoratori. Se non lo fai il caporale diventa l’ unico mezzo. Se non dai linee di trasporto che consentano alla gente di andare nei campi tu non ti liberi del caporale. Il caporalato è mafia e criminalità organizzata».

Lei è stata attaccata sui social.

«Io ho 61 anni, sono una donna fortunata perché faccio la ministra dell’Agricoltura. Potevo morire insieme alle mie colleghe a 15 anni in un pullmino dove erano stipate 40 persone invece di 9. Al contrario non solo ho avuto la possibilità di avere la mia vita, ma anche un figlio meraviglioso e l’opportunità di fare delle cose che incidono sulla vita degli altri. È evidente che ci sono delle cose che mi sono state negate: il diritto allo studio e il diritto all’infanzia e quindi al gioco. Ebbene, io adesso gioco con i colori, li amo perche amo la vita. E quando hai conosciuto la fatica nera tu hai il dovere, prima ancora che il diritto, di amare la vita perché devi rivalutare quello che ad altri non è stato dato».

Si è sentita ferita?

«Onestamente no. Non mi lascio ferire e dico con altrettanta sincerità che chi ha avuto la mia vita non può permettersi di stare lì a fare la vittima. Però mi hanno un po’ irritata perché questo Paese dovrebbe discutere di altro. Anche perché se una si iscrive a Miss Italia si mette in mostra e sa che deve essere giudicata anche per come veste, io sono stata chiamata a fare il ministro dell’Agricoltura, perciò magari se mi valutano per quello che faccio lì siamo tutti più contenti».

Lei è molto vicina a Renzi, si parla di una sua scissione: andrà con lui?

«È un tema che non è all’ordine del giorno in questo momento. Tutti votiamo il governo Conte. Renzi è quello che più ha lavorato perche questo Paese non cadesse in una pratica antidemocratica quindi oggi parliamo di questo. Poi, quando ci saranno fatti nuovi ne parleremo e io ancora una volta dirò con molta chiarezza da che parte sto».

Pietro Senaldi: "Teresa Bellanova veste meglio di come pensa". Libero Quotidiano il 21 Settembre 2019. Alla fine si scopre che la cosa migliore di lei è il vestito, quella tonaca blu elettrico a balze con la quale si è presentata al Quirinale per la cerimonia del giuramento e che ha suscitato critiche e ilarità. Già, perché la nuova ministra all'Agricoltura, Teresa Bellanova, veste meglio di come pensa. Libero la difese dagli attacchi per il suo look con un editoriale di Vittorio Feltri, il quale spiegava che non è da un particolare come l'abbigliamento che si giudica chi ha responsabilità di governo, bensì dalle idee che ha e dal lavoro che fa. Non abbiamo cambiato opinione, ma alle prime prove dei fatti c' è venuto il sospetto che quel vestito così stravagante non fosse stato scelto perché quel giorno la ministra si sentiva «elettrica», come ha dichiarato, ma per distogliere l'attenzione da chi lo portava. Sotto il vestito infatti, non si nasconde niente di buono, solo brutte sorprese. Bracciante agricola in Puglia dall' età di 14 anni, a 15 la Bellanova aveva già smesso di lavorare, per entrare nel sindacato come capolega della federazione dei braccianti della Cgil nella Camera del Lavoro della sua città, Ceglie Messapica. A 20, era già coordinatrice regionale. La ministra «Bellavita», già alla quarta legislatura, è una bracciante poltronara. Dove la conoscono bene, non la votano, infatti è arrivata in Senato grazie al listino bloccato del proporzionale, ripescata nella rossa Emilia-Romagna dopo essere stata battuta nel collegio nominale di casa sua. Donna Teresa deve tutto alla Cgil, e in particolare alla ex ministra Fedeli, la titolare dell' Istruzione con la terza media, anche lei ras della Cgil, la quale le ha spianato la strada tra i compagni lavoratori, forse per la simpatia dovuta al fatto che le due condividono il medesimo titolo di studio. Come la Fedeli, alla quale non mostra particolare riconoscenza, la Bellanova è una di quelle sindacaliste rosse delle quali Renzi finge di innamorarsi quando vuol dare l' impressione di essere un leader di sinistra.

ZERO FASCICOLI - Teoricamente l' Agricoltura è il suo campo, ma pare che per ora la ministra non abbia ancora aperto un fascicolo e, da buona cigiellina, si dedichi ad altro: gli intrallazzi. Giusto un paio di giorni fa avrebbe abbandonato un tavolo di lavoro con le associazioni agricole di categoria accampando come scusa un improvviso consiglio dei ministri, mentre invece doveva incontrare l' azzurra Polverini per tentare di convincerla a passare a Italia Viva. Tra ex sindacaliste, ci vuol poco a trovare un' intesa. In fondo, anche al ministero, la «Bellavita» continua a svolgere il proprio mestiere di sempre, che non è lavorare ma politicare. Lei è lì, stagna e piazzata, per fare la quinta colonna di Renzi nell' esecutivo. E chi se ne importa se il tavolo interrotto per correre dietro alla Polverini aveva come tema la Xylella, il batterio che uccide gli ulivi della sua Puglia? Quando lo presentò, la ministra dichiarò: «Basta proclami, non è più tempo di propaganda ma di fatti concreti». Dopo averlo aperto, ha deciso di finirla con le chiacchiere e ha abbandonato i suoi interlocutori per dedicarsi allo scouting tra i parlamentari azzurri.

IL PROGRAMMA - Il fatto che non lavori poi è forse il minore dei mali, visto come la pensa. Più che da Ceglie Messapica, per come ragiona la Bellanova potrebbe arrivare dalle praterie americane. È favorevole al Ceta, il trattato di libero scambio tra Ue e Canada che ha eliminato i dazi e fatto crollare le nostre esportazioni, ma è anche per il cibo ogm, quello alterato geneticamente che massacra i nostri prodotti doc e dop. Infine vorrebbe riempire i campi del Meridione di raccoglitori di pomodori africani, esattamente come i latifondisti e gli sfruttatori che, da ex bracciante e sindacalista, dovrebbe combattere. Nel Mezzogiorno dei disoccupati italiani e dei neri sfruttati come schiavi, la ministra pensa di risolvere il problema del lavoro importando manodopera a basso costo. Se non possiamo farla tornare a zappare, tappiamoci entrambi gli occhi davanti al suo guardaroba e facciamola subito presidente della Camera della moda: farà meno danni. di Pietro Senaldi

Quando l'ultrà renziana Bellanova difendeva D'Alema dal "sindaco di Firenze". Dai meandri del web è emersa una vecchia dichiarazione di Teresa Bellanova. Oggi il ministro è il più acceso sostenitore di Matteo Renzi, ma nel 2012 aveva definito "grotteschi" e "stantii" i suoi attacchi a... Massimo D'Alema. Gianni Carotenuto, Mercoledì 23/10/2019, su Il Giornale. Non solo Matteo Renzi. Italia Viva, la nuova creatura politica dell'ex premier, vanta alcune figure di spicco che partecipano quotidianamente al dibattito pubblico sui principali temi dell'attualità politica. Qualcuno penserà a Maria Elena Boschi, che durante l'ultima Leopolda ha definito il Pd il "partito delle tasse", ma all'interno di Iv c'è chi conta più di lei: Teresa Bellanova. Tornata in auge dopo un periodo di relativo silenzio grazie alla sua nomina a ministro dell'Agricoltura del Conte-bis, l'ex bracciante pugliese sbarcata in Parlamento dopo una lunga esperienza da sindacalista è stata tra i primi esponenti dem ad imbarcarsi sul piroscafo renziano. L'ex sindaco di Firenze lo sa e infatti l'ha scelta come capo delegazione di Italia Viva al governo. È stata lei, per conto di Renzi, a combattere in Cdm la battaglia con i 5 Stelle per la cancellazione totale di quota 100. Segno della grande fiducia di cui gode presso l'ex segretario del Pd. Tra Renzi e Bellanova si registra una perfetta intesa politica. Ma non è sempre stato così. Dai meandri del dark web, infatti, è emersa una vecchia dichiarazione del ministro sul conto del suo attuale leader. Era il 2012 e Renzi era ancora il sindaco di Firenze. Il suo primo tentativo di scalata al Pd, fallito per colpa di Pierluigi Bersani. A quel tempo, gli ex Ds dominavano il partito frutto della fusione a freddo con la Margherita di Francesco Rutelli. Con Bersani, a fare il bello e il cattivo tempo era Massimo D'Alema, il "rottamando" per eccellenza. Non visto di buon occhio dalla "compagna" Bellanova. "Gli attacchi del sindaco di Firenze (cioè Renzi, ndr) a Massimo D'Alema, utilizzati di continuo per far presa sui media, ormai assumono caratteri grotteschi", aveva dichiarato l'attuale ministro dell'Agricoltura. "È sorprendente che proprio chi ha inaugurato l'uso di toni e linguaggi così duri nei riguardi di tutti, soprattutto verso il suo partito, oggi si atteggi a vittima replicando ad affermazioni categoricamente già smentite", le parole di Bellanova, prima di bollare come "stantio" il modo "per cercare la ribalta" a cui Renzi "ricorre di continuo". Un modus operandi che assomiglia molto a quello adoperato di questi tempi da Bellanova, che ha parlato di "bande armate nel Pd" promettendo "battaglia politica" contro il governo di cui fa parte su quota 100. Un dietro-front, quello del ministro, sintomo di grande intelligenza politica. D'altronde solo gli stolti non cambiano mai opinione.

Teresa Bellanova "più pericolosa dei brigatisti". Travaglio, tasse e manette: "Perché deve dimettersi subito". Libero Quotidiano il 20 Ottobre 2019. Teresa Bellanova "più pericolosa dei brigatisti". Per questo, secondo Marco Travaglio, la ministra veneziana dell'Agricoltura "deve dimettersi seduta stante". L'editoriale del direttore del Fatto quotidiano tocca nuove, forse ineguagliabili vette manettare. La colpa della Bellanova, ex Pd oggi capodelegazione di Italia Viva nel governo, è quella di aver coniato alla Leopolda uno slogan ingenuotto e arruffone fin che si vuole ("Siamo il partito del No Tasse") ma in apparenza innocuo. Non per Travaglio, che lo giudica addirittura anti-costituzionale, rispolvera la massima dell'ex ministro prodiano all'Economia Padoa Schioppa ("Le tasse sono una cosa bellissima"), ricorda alla Bellanova che è con le tasse che le paghiamo "l'auto blu e la scuola per il figlio) e ripete il refrain abusato dei condoni. Per poi finire in gloria: "I No Tasse, se stanno al governo, sono più pericolosi dei brigatisti" e la ministra renziana deve lasciare "non per come veste o quanto pesa, ma per quello che pensa e quello che dice". Reato di opinione fiscale.

Teresa Bellanova, "magnifica ossessione" di Travaglio: "Chi è davvero", paginata di fiele contro la ministra. Libero Quotidiano il 2 Novembre 2019. Dopo aver definito Teresa Bellanova "più pericolosa delle Brigate rosse" in un indimenticabile, velenosissimo editoriale, Marco Travaglio dedica alla ministra renziana delle Politiche agricole in quota Italia Viva una intera paginata-ritrattone sul Fatto quotidiano, sempre all'insegna del fiele.  "Come la Bellanova sia arrivata a essere un personaggio centrale nella politica italiana è mistero profondo quanto gaudioso per chi ne ha seguito tutti passi", esordisce il pezzo. Viene il dubbio che sia una "magnifica ossessione" di Travaglio e della sua redazione, visto che della vulcanica ministra si è parlato un po' per via del vestito esibito al Quirinale e successivamente alla Leopolda, dov'era di casa. E basta. Tant'è, l'importante è picchiare duro. In mancanza di scandali evidenti, qualche tirata d'orecchie su alcune dichiarazioni pubbliche e soprattutto una rassegna sui suoi padrini politici.

Il primo? Sandro Frisullo, "pezzo grosso della filiera post-comunista in Salento, a lungo colonnello in Regione di Massimo D'Alema". Sorpresa, non può mancare un riferimento a Silvio Berlusconi: Frisullo, ricorda il Fatto, è "finito in galera in un filone dell'inchiesta su Gianpi Tarantini (quello delle escort per B.), la ministra sarà la prima ad andarlo a trovare ("gli credo: provo dolore puro")". Piccolo dettaglio: "Il nostro finirà poi assolto per quasi tutto". Certo, era talmente fedele a Frisullo e a D'Alema da prendersela anche con il suo attuale leader: "Gli attacchi del sindaco di Firenze a D'Alema ormai assumono caratteri grotteschi", o ancora "l'immagine che ritrae il camper di Renzi che asfalta D'Alema ci dice che è stato superato ogni limite: vergogna!". Era il 2012, oggi è cambiato il mondo. Da dalemiana la Bellanova diventò bersaniana, infine renziana. Travaglio, invece, resta sempre Travaglio.

Marco Palombi per “il Fatto Quotidiano” il 3 novembre 2019. Come Teresa Bellanova sia arrivata a essere un personaggio centrale nella politica italiana è mistero profondo quanto gaudioso per chi ne ha seguito tutti passi. Oggi, finita in un partito di schietta destra liberale, la sua resistibile ascesa si è conclusa con la più ovvia delle beatificazioni mediatiche: quella garantita dagli haters per le critiche becere ricevute sui social per il vestito, invero non azzeccatissimo, con cui si presentò a giurare da ministra dell' Agricoltura (in quota Renzi) al Quirinale. È l'epilogo perfetto dell' equivoco Bellanova: l' ex bracciante che alla Leopolda scandisce "il merito è di sinistra" come un bocconiano qualunque, la ministra che vuole proteggere i prodotti italiani rilanciando i trattati di libero scambio e fare "la lotta al cambiamento climatico" mandando in giro mercantili e aerei che inquinano come qualche milione di macchine a spostare merci dagli angoli più disparati del globo. La coerenza però, come vedremo, non è una sua preoccupazione. La leggenda di Teresa Bellanova si fonda sulle sue origini: classe 1958, pugliese di Ceglie Messapica (Brindisi), bracciante a 14 anni, più tardi operaia tessile, entra adolescente nella Cgil e nel Pci. Il sindacato, oltre che un lavoro, le darà anche l'amore: durante una missione in Marocco incontra l' uomo che diventerà suo marito ("era il mio traduttore") e da cui avrà un figlio. Il partito le regala invece una insperata carriera politica grazie al suo leader di riferimento: Sandro Frisullo, pezzo grosso della filiera post-comunista in Salento, a lungo colonnello in Regione di Massimo D'Alema. Fino ad anni recentissimi, infatti, Bellanova è la tipica quinta fila di quella che Pier Luigi Bersani chiamava la "Ditta": è grazie all' allora potente Frisullo che l' attuale ministra si ritrova deputata nel 2006, confermata nel 2008 e poi nel 2013, quando la rete salentina del cacicco locale - nonostante lui fosse già finito in disgrazia - le consente un bell' exploit alle "parlamentarie" del Pd. Bellanova, d' altronde, non ha mai nascosto la sua vicinanza a Frisullo: finito in galera in un filone dell' inchiesta su Gianpi Tarantini (quello delle escort per B.), la ministra sarà la prima ad andarlo a trovare ("gli credo: provo dolore puro"). Il nostro finirà poi assolto per quasi tutto: tra le molte accuse, ne resisterà una per turbativa d' asta in un appalto sanitario. Come che sia, quel che qui rileva è che Bellanova fosse così frisulliana, e in quanto tale dalemiana, da non sopportare critiche ai cari leader neanche in famiglia: "Non ti permetto di parlare così di Massimo", rintuzzò una volta un compagno di corrente che, in una riunione, s' era permesso una battuta. Pure Matteo Renzi incorse nelle sue ire: "Gli attacchi del sindaco di Firenze a D' Alema ormai assumono caratteri grotteschi"; "l' immagine che ritrae il camper di Renzi che asfalta D' Alema ci dice che è stato superato ogni limite: vergogna!". Era il 2012 e il giovine di Rignano non le era ancora apparso come il faro politico che diventerà poi: ancora nel 2013 la pasionaria di Italia Viva al Congresso sostenne Gianni Cuperlo contro il rottamatore. L' anno dopo - quando giura da sottosegretario al Lavoro su indicazione della "Ditta" - l' Ansa ce la descrive così: "Sul suo profilo Facebook campeggia la foto di lei che abbraccia Bersani () È una bersaniana di ferro". E lei: "Sono all' antica, sono per le passioni solide". Le passioni, si sa, pure quelle solide, a volte crollano all' improvviso. Simbolica, proprio in quel 2014, la gestione alle Camere del Jobs Act che diabolicamente Renzi affidò proprio a lei, sindacalista e bersaniana che, in corso d' opera, si fece renziana. L'escalation è memorabile. Il 27 giugno: "Il governo sta portando avanti una poderosa riforma del mercato del lavoro e non comprende l' articolo 18 o lo Statuto dei lavoratori, né altra revisione del contratto a tempo indeterminato". Già il 16 settembre non era più proprio così: "Non c' è l' idea di cancellare l' articolo 18, ma di lavorare per riscrivere parti dello Statuto dei lavoratori". Il giorno dopo: "Le tutele aumenteranno mano a mano che aumenterà l' anzianità di servizio". Il 22 settembre: "Non si può dire che nella delega sul lavoro ci sia la cancellazione dell' articolo 18". Poi si poté dire e lei dichiarò: "Il decreto toglie alibi a chi in questi anni si è mascherato dietro l' articolo 18 per non assumere" (27 dicembre). Giusto un anno dopo debutta alla Lepolda. Negli anni il cambiamento, anche linguistico, è totale: fino al 2014 Bellanova è pensioni, sicurezza sul lavoro e cassa integrazione, dopo inizia a discettare pure di cyber-sicurezza cara al circolo di Rignano. Nel 2010, ad esempio, altro che "il merito è di sinistra", parlava un po' come certi grillini al balcone: "Il compito della Ragioneria Generale è solo di verificare la disponibilità di fondi, non di esprimere valutazioni politiche () È ancora vigente la Costituzione o è stata ormai ridotta alla funzione di fermacarte sulle scrivanie delle stanze del potere?". Prendiamo la riforma Fornero delle pensioni. Ai renziani guai a chi gliela tocca, ma un tempo Bellanova non era una sostenitrice di quel genere di norme: "In Italia le donne che vogliono lavorare oltre i 60 anni possono farlo già: l' innalzamento dell' età pensionabile è una proposta demagogica, inaccettabile e iniqua" (2009); "Bene che il ministro Giovannini si sia impegnato a modificare la Fornero per renderla più graduale" (2013). Pure sulle scissioni pare che la sua sensibilità sia mutata. Se oggi è aggregata al partitino renziano, nel 2017 irrideva così i bersaniani: "Ma come si può pensare di mettere in discussione un grande progetto come il Pd per fare un Pci in miniatura?". Nemmeno il Lìder Massimo s' è salvato: "Ilva? D' Alema non sa di cosa parla" (19 gennaio 2018). Una settimana dopo, con quel sadismo che ce lo rende simpatico, Renzi la candidò proprio contro D' Alema in Salento: persero male entrambi. Ora, inopinatamente, Bellanova è ministra: "Non ce la meritiamo", hanno scritto i suoi fan su Twitter. Ma forse sì.

Bellanova piazza i compagni e assume cooperanti e dem. La ministra dà lavoro a renziani, trombati e meteore: tutti nello staff con stipendi d'oro e quasi tutti pugliesi. Pasquale Napolitano, Venerdì 29/11/2019 su Il Giornale. Il ministro dell'Agricoltura Teresa Bellanova (Iv) trasforma lo staff nella succursale della sinistra (trombata): ex dipendenti di coop rosse, renziani e politici del Pd. È il caso di dire: l'abito non fa il monaco. Se l'ex bracciante ha fatto discutere per il vestito, blu sgargiante, indossato nel giorno del giuramento al Quirinale, si è invece subito calata nella parte del ministro trova lavoro ai compagni. Sono quasi tutti ex colleghi di partito i collaboratori che, oggi, occupano le poltrone (ben retribuite) negli uffici del ministero dell'Agricoltura, dopo la formazione del Conte bis. E c'è un altro elemento che unisce i fedelissimi del ministro Bellanova: arrivano tutti (come il ministro) dalla Puglia. Al vertice del gabinetto del ministero c'è Stefano Toschei, un consigliere di Stato, che in passato è stato consulente dell'ex titolare della Salute (governo Renzi) Beatrice Lorenzin. Il suo vice è Andrea Battiston: contratto di 95mila euro l'anno. Battiston è stato per sette mesi (da gennaio 2019 a luglio 2019) vice direttore Associazione Generale delle Cooperative Italiane (uno dei più grandi consorzi italiani di cooperative legati all'universo della sinistra). Prima di accomodarsi al ministero dell'Agricoltura, il consulente della Bellanova ha lavorato nell'ufficio legislativo del gruppo Pd alla Camera dei Deputati. Dunque, sembra esserci una porta girevole tra Pd, coop rosse e poltrone nei ministeri. Un filo «rosso» che unisce terra, militanza politica, coop e poltrone. Tra i consiglieri del capo delegazione di Italia Viva in maggioranza c'è una vecchia conoscenza del giglio magico renziano: Alessio De Giorgi. Il ministro ha offerto all'ex social media del rottamatore un contratto di 80 mila euro. Il cinquantenne genovese vissuto a Pisa, ma con base a Roma, dal 2016 fino a un mese fa è stato il social media manager del «senatore semplice» Matteo Renzi. De Giorgi fu protagonista di una epica gaffe nel 2017, quando negò pubblicamente di essere l' amministratore della pagina Facebook «Matteo Renzi news», senza accorgersi però d'aver scritto quelle parole proprio attraverso il profilo social da cui intendeva prendere le distanze. De Giorgi ha guidato la struttura di propaganda del Comitato del Si, ai tempi del referendum (perso) sulla riforma Boschi, e successivamente la comunicazione digitale del Pd. Direttamente dalla Firenze renziana arriva al ministero, retto da Bellanova, Laura Schettini: contratto di 30 mila euro l'anno come consigliere del ministro. In passato è stata consulente nelle campagne elettorali di alcuni consiglieri comunali di Firenze. Da Lecce (e dal Pd) arriva Salvatore Capone; è un ex parlamentare dei dem e coordinatore provinciale del partito a Lecce. Contratto di 36 mila euro per «consigliare» (non si comprende su quali materie) il ministro. Vania Marchionna ha fatto parte dal 2014 al 2016 del dipartimento Immigrazione, Welfare e Sanità del Pd: ora è consulente del ministro Bellanova. Lo stipendio è identico a quello di Capone: 36 mila euro l'anno. E anche le mansioni. Tra i più stretti collaboratori del ministro Bellanova trova una poltrona anche Cosimo Durante, ex sindaco di Lecce e capogruppo Pd in Provincia. L'appartenenza territoriale si conferma un requisito vincente. Durante sarà il segretario particolare del ministro: l'ombra dell'ex bracciante. Pugliese, con esperienze alle spalle nel Pd, è Alessia Fragassi. Al ministero dell'Agricoltura curerà i rapporti internazionali. Da «vera» sindacalista, la Bellanova sta difendendo i posti di lavoro dei colleghi (conterranei) di partito. Insomma, le battaglie che piacciono (tantissimo) alla sinistra di governo.

Sergio Costa ministro dell'Ambiente: confermato il generale che si è opposto alle trivelle. La Repubblica il 4 settembre 2019. Tra i pochi nomi confermati nel governo Conte Bis c'è quello di Sergio Costa, ministro dell'ambiente anche del governo giallo-rosso. Classe 1959, il suo curriculum riporta una laurea in Scienze Agrarie e un master in Diritto dell'Ambiente. Ma il nome di Costa è legato a doppio filo con l'inchiesta sulla Terra dei fuochi, che dai primi anni Duemila ha permesso di far luce su una serie di attività illecite legate allo smaltimento di rifiuti tossici, nell'area tra le province di Caserta e Napoli. Da ministro si è occupato degli spinosi, per il Movimento 5 stelle, dossier sulla Tap (che ha ottenuto il via libera), su Taranto (dove l'emergenza ambientale e quella del lavoro, in mano a Di Maio, convivono) e sulle trivelle, contro le quali Costa minacciò le dimissioni. Il generale è stato anche uno dei sostenitori della Legge 68 sugli ecoreati. "Ha scoperto la più grande discarica di rifiuti pericolosi d'Europa seppellita nel territorio di Caserta - disse di Costa il leader M5s - e ha anche scoperto la discarica dei rifiuti nel territorio del Parco nazionale del Vesuvio". Lo stesso comandante ha sottolineato in più occasioni il ruolo centrale della forestale nel contrasto alle ecomafie e al clan dei Casalesi, reso possibile dall'alta specializzazione del corpo. Per questo motivo nel 2015, quando entrò in vigore la riforma della pubblica amministrazione voluta dall'allora ministro Marianna Madia, Costa fu molto critico nei confronti della scelta di accorpare la forestale alle altre Armi per "razionalizzare" le forze di polizia. Disperdendo quello che, a suo avviso, era un ventaglio di competenze esclusive della forestale. "Siamo l'unica forza di polizia specializzata nei settori di ambiente e natura - spiegò in un'intervista - e questo deriva dal fatto che veniamo preparati sin da giovani. Una peculiarità che perderemmo se finissimo nella polizia o nei carabinieri". Nonostante l'opposizione sua e di tanti altri colleghi, il corpo forestale fu comunque accorpato ai Carabinieri: "Il giorno dell'annuncio, personaggi vicini alle ecomafie operanti tra Napoli e Caserta hanno acquistato dolci e spumante per festeggiare la notizia. È un segnale, no?", raccontò Costa. Trivelle a parte, a proposito delle quali definì la moratoria di gennaio "un bel passaggio", il ministro Costa si è battuto con forza e con successo per il decreto "salvamare" quello che scioglie le regole per la plastica trovata in mare dai pescatori. Plastica che questi, prima del decreto, non potevano raccogliere portare a terra. Poi lo stanziamento di 85 milioni per i parchi nazionali e qualche passaggio contrassegnato da polemiche. Come quando a luglio disse alla sindaca di Roma Virginia Raggi che "10 giorni erano troppi per pulire la Capitale" sommersa in quei giorni dai rifiuti. E qualche settimana prima fu costretto ad abbozzare quando l'organizzazione della Cop26 del 2020, la conferenza annuale dell'Onu sul clima, con Italia e Gran Bretagna in lizza, venne assegnata agli inglesi. Lui negoziò una sorta di "organizzazione congiunta" (in Italia si terranno la pre-Cop, con i lavori preparatori, e la Youth Cop, una conferenza dei giovani impegnati nell'ambiente) che suonò come un contentino. Milano e la Lombardia non la presero bene.

MINISTRI SENZA PORTAFOGLIO

Federico D'Incà, ministro ai Rapporti con il Parlamento.  Al posto di Fraccaro, un altro Cinquestelle terrà i rapporti con Camera e Senato. D'Incà è al secondo mandato da parlamentare. La Repubblica il 4 settembre 2019. Veneto doc, 43 anni, Federico D'Incà è uno della "vecchia guardia" del Movimento 5 Stelle e ora va a occupare la casella di ministro per i rapporti con il Parlamento, succedendo al collega Riccardo Fraccaro. Carattere mite, ma molto deciso nel portare avanti le sue idee, fu uno dei primi a predire un futuro "nero" per il governo con la Lega. Durante un'assemblea congiunta, prima che il contratto con Matteo Salvini fosse firmato, prese la parola per avvisare i compagni di viaggio che quell'esperienza non sarebbe stata positiva per il M5S: "Noi del nord lo conosciamo bene". Laureato in economia e commercio, D'Incà è al secondo mandato come deputato, ma nella sua vita da 'civile' è stato analista di sistemi di gestione informatici in una società privata e prima ancora è stato impiegato come caposettore in una multinazionale della grande distribuzione. Rieletto nel 2018 nelle file del Cinquestelle, D'Incà viene nominato questore della Camera dei deputati, al posto di Riccardo Fraccaro, passato nella squadra di governo di Giuseppe Conte. A Montecitorio fa parte anche della commissione Bilancio. Inoltre, è promotore e fondatore di comitati per il rispetto della salute pubblica, attivista di progetti umanitari in Africa, collaboratore dal 2003 nella realizzazione di una palestra per la Pet Therapy a Mel di aiuto al miglioramento delle funzioni psico-motorie delle persone diversamente abili. Si definisce lettore appassionato di politica economica e di filosofia, interessato al mercato finanziario e all'economia reale. Nella vita di tutti i giorni è sposato con Laura e cura il suo orto, oltre ad essere appassionato di recupero dell'antiquariato rurale. Nel suo personale Pantheon c'è sicuramente Adriano Olivetti.

Renzi ottiene la fiducia alla Camera: “Abbiamo la chance giusta”. Estratto dall’articolo di Fanpage (25 febbraio 2014). Parla D'Incà, capogruppo del Movimento 5 Stelle: "Questo è un Letta bis,o un Napolitano ter e Renzi non è stato capace nemmeno di nominare un ministro della Giustizia onesto come Gratteri o di dare l'Economia a Delrio. Quella dei ministri è una galleria dell'orrore e lei è il Presidente del coniglio Pd". Poi il deputato grillino legge tutte le dichiarazioni di Renzi a sostegno di Letta e attacca: "Un deputato al giorno ha voltato le spalle a Letta, che è stato bastonato e umiliato, senza nemmeno l'onore delle armi". D'Incà chiude elencando le proposte del M5S: "Vergognatevi, questo Paese ha bisogno di risposte subito, gli italiani vogliono un futuro sostenibile e solo il M5S ha l'onestà, il coraggio e l'orgoglio di alzare la testa dopo anni di soprusi. Questo sarà l'ultimo Governo dei partiti, il prossimo sarà a 5 Stelle".

BIOGRAFIA DI FEDERICO D’INCÀ. Da “Wikipedia”. Federico D'Incà (Belluno, 10 febbraio 1976) è un politico italiano. Dal 4 settembre 2019 è Ministro per i Rapporti con il Parlamento del secondo Governo Conte. Residente a Trichiana, è laureato in economia e commercio presso l'Università di Trento. È stato analista di sistemi di gestione informatici in una società privata fino al 2013, e in precedenza è stato impiegato in una multinazionale della grande distribuzione. È consigliere della Fondazione Italia USA. Impegnato in diversi progetti umanitari in Italia e all'estero. Alle elezioni politiche del 2013 viene eletto deputato della XVII legislatura della Repubblica Italiana nella circoscrizione VIII Veneto 2 per il Movimento 5 Stelle. dal 17 dicembre 2013 è capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera dei deputati subentrando a Alessio Mattia Villarosa di cui era già vicecapogruppo vicario. L'on. Riccardo Nuti, precedentemente capogruppo, è tuttavia rimasto ufficialmente presidente del gruppo per motivi tecnico-burocratici dovuti all'organizzazione parlamentare fino al 4 settembre 2014 quando il predecessore Villarosa lo è diventato ufficialmente. Il 26 marzo 2015 è diventato ufficialmente presidente del gruppo parlamentare. Rieletto nel 2018 sempre con il Movimento 5 Stelle, viene nominato questore della Camera dei deputati. Fa parte della Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione, del Comitato per la Comunicazione e l'Informazione Esterna, del Comitato di Vigilanza sull'Attività di Documentazione, del Comitato per gli Affari del Personale, del Comitato per la Sicurezza.

Pisano e Dadone, due donne piemontesi nel Conte bis. All''attuale assessora di Appendino la delega all'Innovazione, l'esponente grillina si occuperà di pubblica amministrazione. Diego Longhin su La Repubblica il 4 settembre 2019. Due i ministri piemontesi per il Conte bis. Alla Pubblica amministrazione va la cuneese Fabiana Dadone e all'innovazione Paola Pisano, assessora della giunta Appendino di Torino. Due donne e due esponenti del Movimento 5 Stelle. Pisano era già stata scelta dal capo politico Di Maio per rappresentare il Movimento alle Europee come capolista nel collegio Nord Ovest. Possibilità poi sfumata perchè i Cinque Stelle di Torino l'hanno voluta tenere come assessora all'Innovazione a di Appendino. Ora la promozione.

Pisano, classe 1977, docente di Gestione dell’Innovazione all’Università degli Studi di Torino e direttore del Centro di Innovazione tecnologica multidisciplinare dell'Università, la donna che ha portato i droni a Torino e ha voluto la sperimentazione dell'auto a guida autonoma in città. Una delle mille donne più influenti d'Italia. Non organica ai pentastellati, aveva risposto nel 2016 al bando per diventare assessore lanciato dalla allora candidata sindaca Appendino.

Dadone, 35 anni, laurea in giurisprudenza, residente a Mondovì, avvocato e attiva nel volontariato, è nel Movimento dalle origini dei 5 Stelle in Provincia di Cuneo. "E' un onore ed un privilegio essere ministro della Pubblica amministrazione", scrive su Facebook. La prima reazione alla nomina di Pisano è della sindaca Appendino: "Una scelta di cui vado orgogliosa e che porterà una torinese a sedere al tavolo del Consiglio dei ministri. Paola in questi tre anni, in collaborazione con giunta e consiglio, ha portato a casa risultati importanti.

Torino è la prima città in Italia a sperimentare la guida autonoma in contesto urbano. Qui è stato dato il via a Torino City Lab, policy per facilitare lo sviluppo e l'insediamento di nuove aziende innovative. Ancora, a Torino è andato in scena il più grande drone show d'Europa, è stato dato il via alla digitalizzazione dei servizi e a nuove prospettive sull'innovazione sociale". Su Facebook il primo commento della neo ministra all'Innovazione Pisano che ringrazia il premier Conte: "È per me un onore poter dare il mio contributo al nostro Paese, un territorio ricco di potenzialità e competenze da sviluppare . Ringrazio prima di tutto la Sindaca della Città di Torino, Chiara Appendino , tutta la giunta e il Consiglio comunale che hanno da sempre supportato e creduto che l’innovazione possa trasformare e far crescere il nostro Paese". Ora la  sindaca Appendino, che "è certa che PIsano metterà la stessa competenza, la stessa passione e lo stesso impegno al servizio del Paese, si trova a gestire la sostituzione di due assessori. Oltre alla delega all'Urbanistica, vacante da quando è stato licenziato l'ex vicesindaco a luglio, dovrà assegnare anche quelle di Pisano: oltre all'Innovazione anche i Servizi Civici.

Fabiana Dadone, la neo-ministra M5s e quella gaffe in aula con Maria Elena Boschi. Libero Quotidiano il 5 Settembre 2019. Chi è Fabiana? Della squadra di governo è sicuramente una delle figure meno note. Quindi varrà la pena conoscerla meglio, la Dadone, nuova responsabile per la Pubblica Amministrazione. Di certo è giovane, ha 35 anni, e nonostante la tenera età può essere considerata una veterana del grillismo: è diventata deputata sei anni fa, nel 2013. Si sa inoltre che è laureata in Giurisprudenza e ha provato, senza successo, a superare l' esame da avvocato. Vabbè, capita. Più che per un provvedimento ha rubato la scena per una gaffe: nel corso di un dibattito in Aula ha bacchettato l'ex ministro per le Riforme e i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, colpevole di non prestare attenzione al discussione e di perdere tempo parlando al telefono con chissà chi. Peccato che la piddina di stretta osservanza renziana fosse a colloquio con Palazzo Chigi che le confermava la liberazione di Greta e Vanessa, le due volontarie italiane rapite in Siria. La Boschi aveva il compito di dare l' annuncio al Parlamento.

16 Gennaio 2015 - Clamorosa gaffe della deputata del Movimento 5 Stelle Fabiana Dadone, che nel corso del dibattito sulla nuova legge elettorale contesta vivamente Maria Elena Boschi, Ministro per le Riforme Costituzionali e i Rapporti con il Parlamento, rea di scarsa attenzione verso il suo intervento. "Boschi al telefono, una vergogna" lamenta la Dadone. Ma la polemica si ritorce contro la parlamentare grillina. La Boschi infatti stava in quel momento parlando con Palazzo Chigi, che le confermava la liberazione delle volontarie italiane rapite in Siria (Greta e Vanessa), invitandola a dare l'annuncio ufficiale in Aula.

Dal sito di Rousseau. Curriculum Vitae

2008 Laurea Triennale in Scienze Giuridiche conseguita presso l’università degli Studi di Torino.

2010 Laurea Specialistica in Giurisprudenza conseguita presso l’Università degli Studi di Torino.

2011 -2013 ho svolto la pratica professionale forense presso uno studio legale della provincia di Cuneo.

5 marzo 2013 proclamata Portavoce del M5S presso la Camera dei Deputati:

dal 7 maggio 2013 membro della Commissione Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni (dal 28 maggio 2013 al 22 luglio 2015 membro del comitato permanente per i pareri);

dal 7 maggio 2013 membro della Giunta delle Elezioni;

dall’11 ottobre 2013 membro della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno delle Mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere (dal 2015 Presidente del Comitato XII Mafie, Migranti e Tratta di esseri umani, nuove forme di schiavitù e relatrice del lavoro conclusivo di indagine del comitato, approvato dalla Commissione Antimafia il 14 dicembre 2017 Doc XXIII n.30);

dal 9 febbraio 2015 al 11 maggio 2015 Capogruppo del Gruppo Parlamentare M5S Camera.

14-15 Settembre 2017 European Parliamentarians Combatting Human Traffiking and Modern Slave, workshop cui ho partecipato in rappresentanza 

Il ministro Fabiana Dadone: «I furbetti? Vorrei dipendenti pubblici preparati e fieri». Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 su Corriere.it da Vittorio Zincone. Vicina a Fico, amica di Di Battista, leale con Di Maio, il neo ministro della PA si racconta: «Il mio volontariato con Don Benzi e perché sono contraria a riaprire le case chiuse». «Ministro, ministra... E’ indifferente. Mi chiami come vuole». Fabiana Dadone da circa un mese è a capo del dicastero della Pubblica Amministrazione. E’ una pentastellata in purezza. Ha trentacinque anni, un figlio di tre che si chiama Primo e un compagno albanese di nome Ergys. Al giuramento nei saloni quirinalizi erano presenti entrambi i suoi genitori, tutti e due ex dipendenti pubblici: il padre ferroviere, la madre insegnante. Racconta: «Durante il discorso d’insediamento alla Camera erano tutti in tribuna, tranne Primo. L’ho dovuto lasciare qualche ora nei locali del gruppo parlamentare. Quando il premier Conte ha parlato di asili nido, l’ho sentito particolarmente vicino».

Perché?

«Mio figlio vive con Ergys e con i nonni a Mondovì, perché io qui non riuscirei a dedicargli l’attenzione dovuta e non saprei a chi appoggiarmi. Lo vedo nei weekend, comunichiamo con videochiamate e ricevo costantemente aggiornamenti fotografici».

Dadone parla con una cadenza ibrida tra il cuneese e il tarantino, ha un piccolo piercing sulla narice sinistra e i polsi cerchiati da bracciali portafortuna: «Non li tolgo mai. Vede questo? Ha agganciata la fede nuziale di mio nonno Pasquale: settantaquattro anni di matrimonio. La custodisco come buon auspicio».

Buoni auspici. Lei vorrebbe uscire da questo ministero lasciando una Pubblica Amministrazione...

«... digitale e con dipendenti ben formati e fieri».

Fieri?

«Vorrei attrarre nella PA le risorse migliori che escono dalle Università. E vorrei che si uscisse dall’ottica tutta negativa e punitiva per cui parlare di dipendenti pubblici vuol dire solo occuparsi di fannulloni e di furbetti».

I fannulloni e i furbetti esistono.

«Chi sbaglia va punito. Ma chi lavora bene va valorizzato. Illudersi che sia sufficiente controllare gli ingressi dei dipendenti con cartellini e con impronte digitali per far funzionare la macchina dello Stato è folle. Se un dipendente una volta entrato in ufficio non è motivato, farà poco. Serve un approccio culturale diverso: vorrei che i ragazzi invece di andare all’estero desiderassero diventare il braccio appassionato di uno Stato efficiente».

Questo governo ha promesso il Green New Deal. Lei ha annunciato di voler rendere la PA ecosostenibile.

«La prima cosa che ho fatto qui al ministero è stata abolire la rassegna stampa cartacea. Un tomo quotidiano enorme. Ora arriva su WhatsApp».

Lei è green anche nella vita quotidiana?

«Credo gandhianamente che si debba essere il cambiamento che si vuole vedere nel mondo».

Traduciamo. Che automobile ha?

«Un’utilitaria a gas».

Segue il decalogo ambientalista di Al Gore?

«Mia madre mi ha insegnato a non sprecare l’acqua. Mi viene naturale».

Mangia molta carne?

«Poca. E uso quasi tutta frutta e verdura di stagione a chilometro zero. Per me è abbastanza semplice: sono cresciuta in campagna, i miei hanno l’orto, mio padre fa ancora il vino e l’aceto».

La sua infanzia in campagna.

«Ho vissuto molti anni a Gratteria, una frazione di Mondovì con cento anime».

Adolescenza politicizzata?

«Adolescenza da adolescente. Tanta musica. Molti concerti».

La band di riferimento?

«I Satanic Surfers, roba alternative metal. L’anno scorso sono stata a una loro reunion, a Milano».

Lei suona?

«Suonavo la batteria in un gruppo che non ha fatto in tempo a darsi un nome. Facevamo soprattutto pezzi dei Sex Pistols».

Letture di riferimento?

«Non amo i romanzi. Se devo dare un titolo è Il giusto uso della volontà di Ceanne DeRohan».

Sport?

«Poco. A ventisette anni un po’ di Savate, che è una specie di kick boxing».

È vero che ha fatto molto volontariato?

«Nella Giovanni XXIII, la comunità di don Benzi. Per due anni mi sono occupata della tratta di esseri umani».

Migranti?

«Soprattutto donne, costrette alla prostituzione: ho visto bambine portate qui col sogno di un lavoro e poi buttate per strada, sottomesse psicologicamente con riti Voodoo... le ho viste diventare aguzzine delle proprie amiche. È un’esperienza che consiglio a chi vorrebbe riaprire le case chiuse».

Lei è contraria?

«Certo. Uno Stato che non ti sa offrire altro se non la possibilità di vendere il tuo corpo, è uno Stato che ha fallito. Lo Stato non deve lasciare indietro nessuno. Questo è un principio fondamentale dei Cinque Stelle».

Lasciare indietro. Lei è stata nella maggioranza di un governo, quello giallo-verde, che ha chiuso i porti alle imbarcazioni cariche di disperati.

«Quello dei migranti è un discorso che non si può affrontare con slogan. Gli sbarchi vanno gestiti. La tratta delle ragazzine è aumentata con gli arrivi via mare. Servono controlli rigidi».

Fedele alla linea. Quando si è avvicinata al Movimento Cinque Stelle?

«Nel 2011. Un militante mi ha avvicinata durante un volantinaggio sotto i portici di Mondovì, abbiamo parlato e pochi giorni dopo ho cominciato a frequentare i meetup».

Prima di allora aveva fatto politica?

«No. Votavo Italia dei Valori. Ed ero stata a un paio di spettacoli di Beppe Grillo».

Che mestiere farebbe se non fosse ministro e parlamentare?

«Sono praticante in uno studio legale di Ceva, cittadina del cuneese».

Praticante?

«Mi manca l’esame per l’abilitazione da avvocato. Ci sono andata vicino, ma nel 2013 sono entrata in Parlamento e non ho avuto tempo di occuparmi di altro. Ho seguito dossier complessi: una proposta di legge elettorale proporzionale, i referendum propositivi...».

Si dice che nel Movimento lei sia vicina a Roberto Fico, presidente della Camera.

«Fichiana, amica di Alessandro Di Battista, ma non lontana da Luigi Di Maio. Se ne dicono tante. Sono del M5S».

Di Maio è ancora un solido capo politico?

«È stato riconfermato da poco in questo ruolo con l’80% dei voti dei nostri iscritti, dopodiché...”.

Dopodiché...?

«... il Movimento si deve dare una struttura. E ci stiamo lavorando».

La vita — Fabiana Dadone è nata a Cuneo il 12 febbraio del 1994. Laureata in giurisprudenza, residente a Carrù, ha svolto la pratica forense a Ceva, divenendo praticante abilitato, ma senza conseguire l’abilitazione di avvocato.

La politica — Prima delle Politiche del 2013 ha vinto le ““Parlamentarie”“ del Movimento 5 Stelle nella circoscrizione Piemonte 2 ed è stata eletta deputata della XVII legislatura della Repubblica Italiana in quella stessa circoscrizione. Componente della I Commissione (Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni), dove per oltre un anno è stata capogruppo, fa parte del Comitato permanente per i Pareri della Giunta per le Elezioni e della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno delle Mafie.

CHI È PAOLA PISANO? Il Movimento 5 Stelle presenta nel pomeriggio, a Roma, le cinque capolista per le elezioni europee del 26 maggio. "Presenteremo 5 eccellenze che in vari settori, tecnologie, amministrazione pubblica, università, competenze manageriali si sono distinte", si limita a dire il leader pentastellato Luigi Di Maio, a Torino per presentare la "casa delle tecnologie emergenti", un incubatore di startup e imprese innovative che avrà sede proprio nel capoluogo piemontese. "Non nascondo di averlo chiesto anche a Paola Pisano (assessora all'Innovazione del Comune di Torino, ndr), ma con la sua risposta ha dimostrato l'affetto e la voglia che ha di continuare a lavorare per Torino e per la sua crescita innovativa e tecnologica. Ha dimostrato di essere una persona seria, attaccata al lavoro che fa ogni giorno. Per me la richiesta era un riconoscimento al lavoro fatto con la sindaca Appendino e tutta la giunta sul tema dell'innovazione". .  .Video di Alessandro Contaldo

Chiara Caratto per Agi.it del 19 gennaio 2019. È stata eletta “donna più influente nel digitale" in Italia piazzandosi in classifica davanti a nomi come quelli di Clio Zammateo - famosa come ClioMake Up - Milena Gabanelli e Samatha Cristoforetti. È Paola Pisano assessore all’Innovazione del comune di Torino. Docente di gestione dell’innovazione all’università del capoluogo piemontese, 42 anni, tre figli, è un fiume in piena quando racconta i progetti che ha in mente per trasformare la città, consapevole delle tante difficoltà che ci sono, a partire dalla sfida della digitalizzazione della pubblica amministrazione, al posizionare il capoluogo piemontese come punto attrattivo per imprese che vogliono innovare, a fare conciliare il futuro con i trend che caratterizzano sempre di più la popolazione delle città. “A fine mandato – racconta – voglio lasciare Torino come la città italiana dove si vedrà il futuro con servizi digitali semplici, fruibili, utili per i cittadini”.

Questo è l’obiettivo futuro, ma quale è stato l’impatto al suo arrivo in questo nuovo ruolo?

"Quando sono arrivata è stato un impatto forte. Io vengo dall’università ma ho sempre lavorato come consulente su progetti per l’innovazione in aziende, sono sempre stata abituata ad essere  in posti dove si voleva fare un cambiamento innovativo e anche se non c’erano tutte le condizioni si sapeva che si voleva andare verso un obiettivo".

"Sono partita con un assessorato nuovo, dal momento che Torino non ha mai avuto un assessore all’innovazione e ci siamo mossi un po’ con un modello startup confrontandoci con una pubblica amministrazione che aveva sempre agito in un determinato modo. Per questo abbiamo dovuto e dobbiamo scardinare un po’ sia il modo di fare le cose, sia cosa bisogna fare, consapevoli sempre delle risorse che si hanno a disposizione".

"Spesso ci dicono che avremmo dovuto aspettare il momento migliore per fare certi progetti, ma noi non possiamo aspettare, bisognava partire subito. Abbiamo iniziato a pensare a quale doveva essere il nostro futuro, considerando che alcuni trend sono già sotto gli occhi di tutti: le città diventeranno più popolate, l’età media si alzerà e nello stesso vi è la necessità di sempre maggiore inclusione e rispetto dell’ambiente. Da lì ci siamo mossi".

In che modo?

"Lo abbiamo fatto agendo  su determinati filoni di innovazione come ad esempio l’auto autonoma, che permetterà una mobilità più semplice con zero impatto ambientale, per tutti i cittadini perché inclusiva: penso al trasporto di anziani, disabili e bambini, ma anche in condivisione". "Oppure I droni, un’altra nostra tecnologia di riferimento, perché facili da utilizzare nella manutenzione delle infrastrutture, perché le merci devono girare nelle città occupando poco spazio, perché possono esserci problematiche o incidenti in cui l’essere umano non può arrivare - attentati terroristici o incidenti gravi - in cui l’utilizzo di un robot permette di reperire immagini di cosa è accaduto e organizzare al meglio i soccorsi". "Ed ancora i robot collaborativi con l’essere umano, che consentono a chi non è occupato di fare dei lavori. Ci sono casi, che stiamo cercando di portare sul territorio, in cui a lavorare sono i robot, ma comandati a distanza da invalidi o persone che passano lungo tempo in ospedale. Queste persone avranno così la possibilità di lavorare anche se impossibilitati a muoversi. Ci sono già esempi per il mondo e qui a Torino siamo ancora in altissimo mare, ma stiamo cercando di arrivare a qualcosa del genere: dare la possibilità anche a  chi non lavora per impedimenti fisici di poter lavorare grazie ad un robot".

Anche la tecnologia 5G, in cui Torino ha assunto il ruolo di capofila, va in questa direzione?

"Sì: a Torino il numero di antenne è ancora superiore a quello delle altre città. Ma la partita non si gioca sull’ infrastruttura quanto sul servizio, sul riuscire ad attrarre da noi aziende che offrono queste tecnologie. Abbiamo creato una politica che si chiama “Torino city lab” in cui chiediamo alle aziende che hanno una innovazione di frontiera ad alto rischio, ancora allo stadio precommerciale, di sottopporla alla città per venire qui a fare i testing". "Noi quindi ci proponiamo come partner. Non una smart city, ma partner delle aziende che voglio rischiare e innovare. A queste noi diciamo: ‘Vieni qui, ti forniamo una città per i testing , il nostro ecosistema fatto di piccole e medie imprese molto forti su stream come automotive, aerospace, robotica e telecomunicazioni. Ti supportiamo sia per quanto riguarda la realizzazione del primo prototipo, sia nel modello di business’ per cui se servono finanziamenti troviamo altre aziende che le supportino. A questo proposito stiamo cercando di legare a questo modello i ventures e le forme di finanziamento. Torino potrebbe così diventare una buona piazza per tutti quei ventures che non si occupano di start up ma di scalare il business".

Ci sono già esempi pratici?

"A Torino nei mesi scorsi abbiamo testato il ‘bar robotico’, abbiamo dato le autorizzazioni per usarlo in un’area della città e coinvolto i cittadini nel testing per migliorare questa tecnologia. Per tre mesi il bar robotico ha preparato e servito cocktail ai cittadini, ha interagito con loro. Abbiamo avuto il feedback con cui è stata migliorato il robot, ora l’azienda ha assunto qualche persona qui a Torino e sta vendendo il robot migliorato".

In questo anno si è parlato tanto di droni, addirittura hanno sostituito i tradizionali fuochi artificiali di san giovanni facendo storcere un po’ il naso a qualcuno più tradizionalista.

"Abbiamo fatto uno spettacolo con 200 droni a guida autonoma in occasione della festa di San Giovanni, lo scorso anno, che ci ha permesso di fare vedere al mondo che Torino era pronta per questa tecnologia, che noi eravamo una piazza pronta per testarla. Da lì è partito il mondo: abbiamo fatto una partnership con Intel, sta arrivando DjI, definita la Apple dei droni, che farà una sperimentazione da noi. Abbiamo scoperto il tessuto di piccole e medie imprese che si occupano di droni e poi Leonardo  ci ha proposto un grosso progetto sui droni di cui ora non possono ancora svelare nulla. Insomma abbiamo così tanti progetti che abbiamo deciso di fare nel 2019 il ‘mese dei droni’, tra giugno e luglio prossimi e se ne vedranno delle belle".

E la città come risponde?

"Da parte delle imprese e del mondo universitario c’è voglia di fare e il nostro ruolo è proprio supportare gli attori del territorio nel crescere ed attrarne di nuovi. Ci siamo posizionati non come modello di smart city: non stiamo acquistando tecnologia per risolvere i problemi, ma siamo città partner di innovazione per aziende che vogliono innovare  per aprire loro il mercato".

Ma il cittadino comune come vive questa voglia di innovazione?

"Questa è una politica economica sulla città, di attrattività e di posizionamento. C’è però un aspetto che riguarda la digitalizzazione dei servizi e questo certamente interessa più da vicino il cittadino". "Abbiamo un grosso progetto di digitalizzazione sull’anagrafe, puntando a servizi a comando vocale, sul modello di Alexa o dell’assistente Google che risponderà  direttamente al cittadino. E poi il 22 gennaio presenteremo il portale “TorinoFacile” che si basa proprio su un cambio di paradigma che è avvenuto e di cui bisogna prendere piena consapevolezza". "Ossia fino a oggi la pubblica amministrazione è stata monopolista nella fornitura dei servizi ma il cittadino si è evoluto, si è abituato ad Amazon e quindi non accetta più se i servizi non vengono erogati in un certo modo, è abituato ad accessi facili. Allora abbiamo studiato come lavoravano le banche, come lavorava Fineco e da qui è nato questo portale che sarà l’e-banking del cittadino che avrà a disposizione tutti i dati e informazioni sulla sua situazione". "È un processo circolare con la tecnologia che deve essere integrata con il capitale umano. Mi rivolgo al cittadino totalmente digitalizzato ma devo anche creare un servizio per il cittadino che sarà sempre ‘off line’, che allo stesso modo deve essere facilmente orientato. E poi c’è il cittadino misto che è quello che va a fare la spesa, ma poi usa la cassa automatica e io devo aiutare anche lui. Tecnologia, dunque, ma anche capitale umano". “Noi stiamo lavorando notte e giorno” conclude Paola Pisano e tornando a parlare del riconoscimento ricevuto “inaspettato considerando anche gli altri grandi nomi con cui competevamo”, riflette. “Forse sì, ce lo siamo davvero meritato questo riconoscimento” dice e promette: “A Torino si vedrà davvero il futuro”. 

Paola Pisano, la ministra dell'Innovazione che faceva festa coi droni (e ha detto no a Di Maio). Libero Quotidiano il 5 Settembre 2019. L' idea è originale: istituire un ministero (seppur senza portafoglio) per l'Innovazione. Così come la persona scelta per dargli sostanza: Paola Pisano, 42enne docente di gestione dell' Innovazione all'Università, e assessora (ormai ex) che a Torino svolgeva lo stesso compito per Chiara Appendino. Poi però vai a vedere è scopri che Paola, pare sia molto stimata dai vertici del Movimento, non è proprio un esempio di coerenza. Tanto che solo qualche settimana fa aveva rifiutato le avance di Di Maio che la voleva capolista alle Europee. Motivi? Ma come... neanche a dirlo, doveva terminare il suo lavoro sotto la Mole. Salvo poi ripensarci quando l'offerta è diventata molto più allettante e soprattutto non prevedeva la battaglia elettorale: entrare nel neonato governo giallorosso. Si dirà, però nel suo campo ci sa fare. Insomma. Pare che a Torino la ricordino più per i droni di San Giovanni, si festeggia con gli aerei senza pilota al posto dei fuochi d'artificio, che per altro.

La ministra Pisano pensa solo all’Innovazione: «Non sono il braccio di Casaleggio». Rocco Vazzana il 7 Settembre 2019 su Il Dubbio. La nuova ministra Paola Pisano è docente universitaria, direttrice del laboratorio Smart city dell’università di Torino, nel 2018 eletta donna più influente nel digitale in Italia dai lettori della rivista Digitalic Mag. «Io braccio operativo di Rousseau? Addirittura? Sono così potente?». Paola Pisano, la neoministra all’Innovazione del Conte 2 ci ride su, quando qualche cronista prova a stuzzicarla sui possibili occhi puntati da Davide Casaleggio sul suo dicastero. La domanda è maliziosa ma non gratuita, visto che non è un mistero che innovazione, digitalizzazione, intelligenza artificiale – temi che Piasano mastica da tempo e con i quali dovrà ancora cimentarsi – facciano rima con Casaleggio e associati, l’azienda milanese fondata da Gianroberto nel 2004. La nuova ministra ha un curriculum di tutto rispetto: docente universitaria, direttrice del laboratorio Smart city dell’università di Torino, nel 2018 eletta donna più influente nel digitale in Italia dai lettori della rivista Digitalic Mag. Più di 70 pubblicazioni in ambito internazionale all’attivo su tematiche relative al settore della digitalizzazione e ai modelli di business, autrice di un libro sulla gestione dell’innovazione e nel corso del suo mandato di assessora al Comune di Torino, ha avviato la sperimentazione delle auto a guida autonoma e dei bar gestiti da robot. Il suo ministero, insieme a quello dello Sviluppo economico, affidato a Stefano Patuanelli, sono considerati quelli più attraenti per Davide Casaleggio. Il Mise, infatti, gestisce un fondo ad hoc, inserito nella scorsa legge di Bilancio ( dotazione: di 15 milioni di euro per ciascuno degli anni 2019, 2020 e 202) destinato alle nuove tecnologie, applicazioni di Intelligenza artificiale, Blockchain e Internet of Things. Tutti temi molto cari al figlio del fondatore e alla sua azienda che, tra i servizi offerti alle imprese, sviluppa ad esempio, una «solida strategia blockchain in funzione degli obiettivi aziendali», si legge sul sito della società. Nulla di illecito o sospetto, sia chiaro, solo stesse sensibilità su alcune materie. Con la tecnologia blockchain è stato anche sviluppato un aggiornamento della piattaforma Rousseau. E di blockchain si è occupata a lungo anche la ministra Pisano, durante il suo mandato torniese. «La blockchain è un database distribuito, una sorta di grande libro mastro su cui sono registrati tutti i dati, un registro accessibile a tutti e in grado di memorizzare dati o transazioni tra due parti, in modo pubblico, permanente ( non modificabile), verificabile, senza mediazione», spiegava la ministra per l’Innovazione in articolo pubblicato su Agenda digitale lo scorso anno. «Nata come infrastruttura per gli scambi in criptovalute, solo in un secondo momento il suo utilizzo è stato allargato come impianto su cui eseguire altri tipi di applicazione», per esempio alla pubblica amministrazione. A Torino, Pisano si era data un obiettivo: «inserire compiutamente la blockchain nella propria strategia di innovazione». Da oggi può mettere la sua visione al servizio del paese.

Da “Un Giorno da Pecora - Radio1” l'8 ottobre 2019. “Si, sono il primo ministro col piercing”. A parlare è il Ministro dell'Innovazione Paola Pisano, che oggi è stata ospite della trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. Lei ha un piercing sul sopracciglio destro. Come mai questa scelta? “L'ho fatto perché mi piace”. Quando l'ha fatto? “Due estati fa, in Croazia. In realtà avrei sempre voluto farlo, poi due anni fa sono passata dalle parole ai fatti”. E perché proprio sul sopracciglio? “Mi piaceva proprio in quel punto”. Ha altri piercing? “No, ma ho 7 buchi all'orecchio”. Com'è stato accolto questo suo vezzo in Consiglio dei Ministri? “Bene, perché sono tutti senza piercing...” E il premier cosa le ha detto? “E'soddisfatto della scelta”, ha detto ridendo il Ministro a Rai Radio1.

Giuseppe Provenzano è il nuovo ministro del Sud del governo Conte bis. Siciliano, 37 anni, ha condotto diverse ricerche sul Meridione ed è vicedirettore dello Svimez. Da sempre è legato da una forte amicizia con l'ex esponente del Pci Macaluso, Nisseno come lui: "Il Mezzogiorno è la mia vocazione, ringrazio Zingaretti, Orlando e Conte per questo incarico". Antonio Fraschilla su La Repubblica il 04 settembre 2019. Tra i suo migliori amici c'è il novantenne Emanuele Macaluso. Un riferimento da sempre per il trentenne Giuseppe Provenzano, appena nominato ministro del Sud nel governo Conte-bis che sigla l'intesa tra il Movimento 5 stelle e il Partito democratico. Provenzano, 37 anni, laureato in Giurisprudenza a Pisa e specializzato alla scuola di eccellenza superiore Sant'Anna, ha sempre condotto ricerche sul Mezzogiorno arrivando a ricoprire il ruolo di vicedirettore dello Svimez. Ma parallelamente alla ricerca ha svolto attività politica, seguendo i consigli del "maestro" Macaluso, per lui un riferimento fin da ragazzino: entrambi provengono dalla provincia di Caltanissetta. A Macaluso ha appena dedicato il suo ultimo libro, "La sinistra e la scintilla", una narrazione molto critica del renzismo e della perdita di alcuni valori sociali della sinistra in anni recenti. "Il segretario Zingaretti con cui ho attraversato questo agosto travagliato, mi ha chiesto di far parte della squadra di un governo che dev’essere di svolta - le prime parole di Provenzano da ministro -  lo ringrazio per questo, ma non solo. Ho sentito in queste ore tutto il peso dei dubbi e delle responsabilità. Tornerò più avanti sulle ragioni politiche della scelta del Pd. Il pensiero va a molte persone, in questo momento. Non posso citarle tutte, ma una sì:Andrea Orlando compagno e punto di riferimento in questi anni di battaglie, che ieri ci ha regalato una grande lezione umana e politica. Ho accettato la proposta del Presidente Giuseppe Conte perché il Sud è il cuore della questione italiana ed europea, ma può essere anche la soluzione. Il Mezzogiorno è stata la mia professione, sarà per sempre la mia vocazione. L’impegno è ora di svolgere questa alta funzione con disciplina e onore". Un altro suo grande amico è Gianni Cuperlo, che lo aveva proposto anche per il ruolo di sottosegretario nel governo Renzi, nomina poi sfumata. Da componente della direzione nazionale del partito nel 2018 rifiuta la candidatura alle Politiche in polemica con la scelta dell'allora segretario Renzi di candidare in Sicilia la figlia dell'ex ministro Salvatore Cardinale: "No grazie", disse in una infuocata riunione. Il nuovo segretario dei dem, Nicola Zingaretti, lo vuole invece nella sua squadra con la delega del Lavoro: non a caso il suo nome è stato in bilico fino all'ultimo anche per ricoprire il ruolo del dopo Di Maio al ministero del Lavoro. Provenzano, che nel partito è considerato uno che le cose le dice in maniera schietta, a volte fin troppo procurandosi anche qualche inimicizia,  è stato componente dell'assemblea dem in Sicilia nel 2010, criticando la scelta del partito di sostenere l'allora governo di Raffaele Lombardo. Con il governo Crocetta ha lavorato nello staff dell'assessore all'Economia Luca Bianchi, direttore dello Svimez  con il quale Provenzano ha firmato diverse pubblicazioni, tra i quali lavori sulla condizione del lavoro femminile al Sud. E' stato anche consulente di Andrea Orlando nel 2013 al ministero dell'Ambiente e di Giovanni Legnini quanto era sottosegretario alle Finanze nel 2014. Insomma, giovane ma con una lunga esperienza di ricerca, sul Sud, e politica dentro il Partito democratico in Sicilia e a Roma.

Da Il Sole 24 ore il 04 settembre 2019. Il ministero del Sud è stato affidato a Giuseppe “Peppe” Provenzano, attuale direttore della Associazione per lo Sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno (Svimez). Laureato e addottorato in economia all'Università di Pisa, come allievo della Scuola Sant'Anna, collabora con diverse testate (dall'Unità a Il Riformista) e si dedica alla politica fra le file del Pd. Dopo le primarie del 2019 entra nella direzione nazionale del Partito, diventando Segreteria Nazionale come responsabile delle politiche del lavoro.

Da “Wikipedia”. Giuseppe Provenzano, detto Peppe (San Cataldo, 23 luglio 1982), è un economista e politico italiano. Laureato e dottorato alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, è vice direttore della Svimez. Si occupa di Mezzogiorno, e in particolare di politiche di coesione. Ha scritto su Le Ragioni del Socialismo, l'Unità, Il Riformista e HuffPost. È membro del Comitato di redazione della Rivista economica del Mezzogiorno. Con Luca Bianchi ha pubblicato “Ma il cielo è sempre più su? L'emigrazione meridionale ai tempi di Termini Imerese. Proposte per il riscatto di una generazione sotto sequestro" (Castelvecchi 2010). Il suo ultimo libro è "La sinistra e la scintilla. Idee per un riscatto" (Donzelli 2018).

Attività politica. È stato capo della segreteria dell’Assessore per l’Economia della Regione Siciliana (2012- 2014) nella giunta Crocetta e consulente del Ministro dell’Ambiente Andrea Orlando (2013-2014). Membro della Direzione Nazionale del Partito Democratico, nel gennaio del 2018 rifiuta la candidatura nelle liste del PD in polemica contro il metodo scelto, e perché messo in lista dopo Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro e deputato Salvatore Cardinale. In seguito alle primarie del 2019, entra a far parte della Direzione Nazionale del Partito Democratico.[3] Dal giugno 2019 è membro della Segreteria Nazionale come responsabile delle politiche del lavoro. Dal 4 settembre 2019 è Ministro per il Sud del secondo Governo Conte.

Francesco Boccia è il ministro agli Affari regionali. Economista, autore della web tax ed esperto del salario di inserimento. Una passione per il mondo digitale, l'esponente dem è stato anche candidato alle primarie nel 2019. La Repubblica il 04 settembre 2019. Ha sempre avuto una passione per il Mezzogiorno, Francesco Boccia, pugliese di Bisceglie, 51 anni. Il neoministro per gli Affari regionali - ala sinistra dei dem, da tempo aperto al dialogo con i 5Stelle - fin da bambino ha avuto una predilezione per la Matematica. Economista, nella scorsa legislatura si è fatto conoscere soprattutto come presidente della commissione Bilancio della Camera. Nel suo curriculum la laurea in Scienze Politiche con indirizzo economico internazionale, Master of Business Administration alla Bocconi. Poi la carriera accademica:  ricercatore prima alla London School of Economics, poi visiting professor alla University of Illinois di Chicago. Infine professore associato di discipline economiche all'università Cattaneo di Castellanza. È stato consigliere economico accanto all'allora ministro dell'Industria Enrico Letta, ma la sua carriera politica comincia a Bari nel 2004 dove è stato assessore all'Economia (con Emiliano sindaco). Tra le sue iniziative, tasse sulla casa differenziate a seconda delle fasce di reddito e l'accordo con alcune aziende per sperimentare il salario di inserimento per i giovani. Poi diventa capo del dipartimento economico a Palazzo Chigi con Romano Prodi presidente del Consiglio nel 2006. Nel 2007 l'approdo nel Pd, in cui sostiene Enrico Letta e in cui si ritaglia il ruolo di esperto di questioni finanziarie ed economiche. È tra i firmatari della riforma della legge di bilancio e 'inventore' della web tax. Boccia è infatti anche grande esperto di digitale e tra i promotori, nella sua Bisceglie, di Digithon, appuntamento per la promozione delle start-up digitali. È stato candidato alla segreteria nelle ultime primarie. Il 13 luglio 2019, durante l'assemblea nazionale, il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, lo ha nominato responsabile per l'Economia e la società digitale. Dal 2011 è sposato con l'ex deputata forzista Nunzia De Girolamo, con cui ha una figlia Gea (due invece i figli nati dal precedente matrimonio). Attaccante della nazionale di calcio Parlamentari, tifoso della Juventus (è presidente del Club Giovanni Agnelli di Camera e Senato).

Elena Bonetti ministra delle Pari opportunità e della Famiglia. Matematica, nel 2014 firmò un appello per riconoscere le unioni gay.  Professoressa, 43 anni, ha un ruolo nell'organizzazione della scuola politica di Matteo Renzi. La Repubblica il 04 settembre 2019. Nel governo giallo-rosso torna il ministero delle Pari opportunità che nell'esecutivo gialloverde era solo un dipartimento. E viene unito alla Famiglia. Alla guida arriva l'esponente dem Elena Bonetti, 43 anni, di Mantova, un passato da capo scout nell'Agesci. È professoressa associata di Analisi matematica dell'Università di Milano. Ha studiato Matematica all'Università di Pavia e ha conseguito il dottorato di ricerca a Milano nel 2002. Renziana della prima ora, è nell'organizzazione della scuola di politica dell'ex segretario del Pd al resort 'Il Ciocco' di Barga, in provincia di Lucca. nel 2014 firmò un appello, insieme a don Gallo, per chiedere allo Stato di riconoscere le unioni gay e alla Chiesa di rivedere le proprie posizioni "perché tutti abbiamo il diritto di amare e di essere amati". Una svolta rispetto alle posizioni del precedente ministro per la Famiglia Lorenzo Fontana e dell'altra leghista Alessandra Locatelli. Di lei scrive: "Nella ricerca ho imparato che si cresce se si gioca in squadra". Collabora con ricercatori di diverse università italiane e del CNR, lavorando spesso anche all'estero. Nel 2017 la volle nella segreteria nazionale del Pd. Una scelta che destò più di una sorpresa, considerato che Bonetti, oggi 45enne, era una docente universitaria e non una politica in senso stretto. Iscritta da poco nel Pd, ammise che la scelta colpì anche lei: "Mi è sembrata una proposta sproporzionata, ma ha prevalso la voglia di provare", commentò la nomina attribuendola ai suoi contatti col mondo giovanile.

Il post dell'onorevole leghista su Pd-Bibbiano scatena la bufera. Nell'accostare il Pd ai fatti di Bibbiano, in un post pubblicato su Facebook, l'onorevole Flavio Di Muro ha scatenato una bufera politica, ma a difenderlo è il commissario provinciale della Lega, Alessandro Piana. Fabrizio Tenerelli, Giovedì 05/09/2019, su Il Giornale. "Ministro per la famiglia al Pd, saranno contenti a Bibbiano". È un post che ha scatenato un caso politico, quello pubblicato sulla propria bacheca Facebook dal deputato leghista, Flavio Di Muro, di Ventimiglia, in provincia di Imperia. Molti gli attacchi allegati come commento allo stesso post, col Pd che naturalmente non ha gradito l'accostamento ai fatti di Bibbiano. "È vergognosa questa vostra strumentalizzazione di gravi fatti di cronaca, che non c'entrano nulla con il Pd - afferma Annalisa - per screditare gli avversari politici. Evidentemente non siete in grado di contestarli nel merito". A bilanciare i commenti contrari, c'è quello di Concetta, che scrive: "Ma scusate, quando Di Maio dice che non vuole fare un partito con quelli di Bibbiano e si sa, che si riferisce ai pidioti nessuno dice niente e solo perché un deputato, per adesso, è diventato di opposizione, bisogna contestarlo e metterlo a palo per una frase? Andate a cagher". A tenere le parti di Di Muro è il commissario provinciale imperiese della Lega (nonché consigliere regionale ligure), Alessandro Piana: "Il post pubblicato dal nostro deputato ligure Flavio Di Muro non è senz'altro lesivo della reputazione del Pd e e quindi non appare diffamatorio - afferma -. Riguardo i gravissimi fatti di Bibbiano e le persone su cui indaga la Procura, invece, aspettiamo l'esito del procedimento giudiziario. In ogni caso, i 'democratici' non possono mettere il bavaglio alle opinioni. La libertà di espressione è un diritto inviolabile ed è sacra". E aggiunge: "A questo punto, ci aspettiamo che i dirigenti del Pd querelino ministri, viceministri e parlamentari del M5s, che in particolare sui fatti di Bibbiano hanno rilasciato dichiarazioni gravi nei confronti dei loro nuovi amici di Governo. Ovviamente, credo che questo non succederà. Perché metterebbe a repentaglio la vita già breve dell'alleanza giallo-rossa e vanificherebbe la vergognosa spartizione delle poltrone, avvenuta senza nessun rispetto della volontà popolare dei liguri e degli italiani".

"Il M5S dà il Ministero della famiglia al "partito di Bibbiano"?". È questa la domanda che circola all'interno del centrodestra e nel mondo cattolico tradizionalista, preoccupato per la nomina dell'esponente Pd, Elena Bonetti, come ministro della Famiglia del Conte-bis. Francesco Curridori, Venerdì 06/09/2019, su Il Giornale. "Il M5S regala il Ministero della famiglia al Pd. Ma non erano il 'partito di Bibbiano'?". A chiederselo non è solo il leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ma anche una parte del mondo cattolico, preoccupato e perplesso per la nomina di Elena Bonetti a Ministro della Famiglia.

Gli Lgbt festeggiano la nomina di Elena Bonetti. "La lobby LGBT festeggia la nomina di Elena Bonetti al ministero della famiglia, rievocandola tra gli autori della "carta del coraggio" che nel 2014 consegnò una parte significativa dello scoutismo cattolico italiano alle posizioni LGBT friendly di Renzi e delle sue unioni civili", ha tuonato dal suo profilo Facebook il senatore leghista Simone Pillon, vicino alle istanze degli organizzatori del Family Day e allarmato al pensiero che gli attivisti Lgbt possano chiedere subito l'approvazione della "per chiudere definitivamente la bocca a chi vorrebbe fermare la dittatura gender". Il primo a gioire per l'arrivo della Bonetti è, infatti, Franco Grillini, fondatore e leader storico di Arcigay, che commenta: "I nomi non sono semplici 'poltrone', ma l'indicazione esatta del profilo programmatico della nuova maggioranza che deve segnare una netta discontinuità con l'esecutivo precedente, soprattutto in materia di diritti civili così dileggiati da Salvini e dal ministro tradizionalista e anti modernista Fontana, che si è esercitato persino nella negazione delle nuove famiglie".

La preoccupazione per il "caso Bibbiano". Ma la più grande preoccupazione per le opposizioni e per una buona parte di cattolici è che l'inchiesta sul “caso Bibbiano” venga affossata. "Per salvare la poltrona il Movimento 5 Stelle è arrivato fino al punto di accettare che a gestire le politiche per la famiglia siano i teorici del gender del Partito democratico. Sono gli stessi che, per contestare l'idea persino banale che una famiglia sia basata su un padre e una madre, nello scandalo Bibbiano come in quello toscano del Forteto hanno contribuito pesantemente a rovinare la vita di tanti minori", commenta a ilgiornale.it il deputato di Fratelli d'Italia, Giovanni Donzelli. Stesso timore viene espresso da Jacopo Coghe, vicepresidente del Congresso Mondiale delle Famiglie, che, intercettato telefonicamente, avverte:​"Ci aspettiamo poi che sul caso di Bibbiano si faccia piena chiarezza e non si ceda il passo nonostante il Pd oggi governi. Qualora qualcuno voglia fermare il caso insabbiando quanto emerso, ci troverà pronti a scendere in campo perché il male ai bambini va condannato e perseguito senza se e senza ma". Coghe, inoltre, contesta l'assenza della dizione "Disabilità", sostituita con Pari Opportunità evidentemente per dare "già un taglio preciso al nuovo indirizzo del Ministero".

Le reazioni dei politici cattolici. Mario Adinolfi, leader del Popolo della Famiglia, invece, punta il dito sui Cinquestelle: "Questo è un governo pericoloso rispetto al quale noi stiamo all’opposizione, ma sono altri i pericolosi: la lobby gay interna al M5S e ministri come Speranza alla Salute. Viste -dice riferendosi al ministro Bonetti - le sfide che ci attendono sono convinto che una cattolica non approverà mai matrimonio gay e utero in affitto, voglio sperarlo". Una difesa in piena regola del neo-ministro arriva dal deputato del Pd, Stefano Ceccanti che snobba le critiche provenienti "un’area minoritaria del cattolicesimo che, oltretutto, è contraria alla linea dell’attuale pontificato". Il costituzionalista dem ci spiega che "almeno su questo aspetto specifico, non c’è nulla di innaturale nell’alleanza tra Pd e M5S dato che sulla famiglia hanno posizioni più vicine rispetto ai ‘gialloverdi’. Salvini, invece, aveva una visione quasi opposta a quella dei pentastellati”.

Enzo Amendola, ministro degli Affari europei nel nuovo governo Conte. Una vita per gli affari internazionali, da segretario dei giovani socialisti europei al ministero degli Esteri. In mezzo, la segreteria regionale in Campania per Ds e Pd. Roberto Fuccillo su La Repubblica il 04 settembre 2019. E' stato a lungo l'enfant prodige del Pd partenopeo, ora diventa anche l'unico volto nuovo della pattuglia partenopea nel governo. Enzo Amendola, napoletano, 46 anni, viene chiamato a occuparsi degli Affari europei. Un pallino, quello delle politiche oltre confine,  che ne ha segnato l'intera vita politica. Sin da quando, sul finire degli anni '90, dopo un lungo soggiorno nella amata Vienna, diventa segretario generale e vicepresidente della International Union of Socialist Youth, la Internazionale dei giovane socialisti, che ha sede proprio nella capitale austriaca. La Iusy è la sua casa, tanto che ancora oggi Amendola la cita come sua principale esperienza  lavorativa sulla sua pagina Facebook. E' in questo ambiente internazionale che si fa le ossa, dopo aver iniziato giovanissimo a occuparsi di politica, con una elezione a 16 anni come consigliere Ds presso la circoscrizione di Napoli centro del Comune, prima ancora di diplomarsi presso un liceo scientifico della città. Diventa responsabile esteri dei  giovani Ds, poi responsabile per il mezzogiorno del partito. Finchè Piero Fassino, allora segretario Ds, lo propone a Antonio Bassolino, nel frattempo diventato presidente della Regione Campania. Dal patto fra i due nasce la proposta che riporta Amendola a Napoli, come segretario regionale del partito. E' il 2006. Tre anni dopo la consacrazione, stavolta sotto le insegne del neonato Pd, tramite le primarie: Amendola le vince, legandosi alla maggioranza che a Roma elegge Pierluigi Bersani. Si entra nel decennio in corso e Amendola, chiusa l'esperienza regionale, torna a Roma. Diventa responsabile nazionale degli Esteri nella seconda segreteria Renzi, lo resta con Zingaretti. Nel frattempo diventa deputato nel 2013, fa anche da capogruppo pd nella III commissione (affari esteri) della Camera e da membro della delegazione parlamentare dell'Assemblea Osce. Quando Renzi cede la campanella a Gentiloni, suona l'ora della sua prima esperienza di governo, da sottosegretario agli Esteri. In tutti questi anni si occupa di Iraq e terrorismo, di corridoi umanitari, della svolta a destra del governo austriaco, anche delle vicende inglese fino alla Brexit. Il governo gialloverde è una parentesi. Il Conte 2 dà continuità alla sua carriera politica, che ormai lo vede regolarmente al fianco di Gentiloni, e scatta la promozione sullo scranno principale, quello di ministro. Senza portafoglio è vero. Ma l'incarico agli affari europei, lo stesso a cui Mattarella un anno fa aveva relegato Paolo Savona, è comunque strategico: una posizione dalla quale  Amendola potrà "sorvegliare" le politiche comunitarie e quindi il flusso dei fondi Ue. Nel 2006 entra nella segreteria nazionale dei Democratici di Sinistra, per poi trasferirsi a Napoli a novembre dello stesso anno dove ha guidato la segreteria regionale dei DS campani. Nell'ottobre del 2009 vince le primarie e diventa segretario regionale del Partito Democratico della Campania fino al febbraio del 2014. Sempre nel 2009 entra in segreteria nazionale PD come coordinatore della Conferenza dei segretari regionali del PD. Il 5 giugno 2013 viene scelto come Coordinatore dei segretari regionali nella Segreteria nazionale del PD dal Segretario "reggente" Guglielmo Epifani, carica che ricopre fino a dicembre 2013. Il 16 settembre 2014 viene nominato Responsabile nazionale del PD con delega agli Esteri nella 2º Segreteria "unitaria" del Segretario Matteo Renzi. Il 29 gennaio 2016 è stato nominato sottosegretario agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale nel Governo Gentiloni.  Il 15 giugno 2019 viene scelto come responsabile nazionale agli Esteri del PD dal Segretario Nicola Zingaretti.

Vincenzo Spadafora, nuovo ministro ai Giovani e allo Sport. Dagli esordi politici con l'Udeur e con i Verdi alla presidenza dell'Unicef. La biografia del ministro 5 Stelle. La Repubblica il 04 settembre 2019. Il nuovo ministro ai Giovani e allo Sport è stato il primo garante per l'infanzia d'Italia e il più giovane presidente dell'Unicef. E' già un curriculum ricco nonostante i 44 anni quello di Vincenzo Spadafora da tempo in politica e impegnato nel terzo settore a cui ha dedicato anche un libro, La terza Italia. Nato ad Afragola, provincia di Napoli, conterraneo e amico di Luigi Di Maio, Spadafora debutta nella politica nel 1998 come segretario particolare dell'allora presidente della Regione Campania Andrea Losco, dell'Udeur. Poi si avvicina ai Verdi lavorando nella segreteria di Alfonso Pecoraro Scanio. Ma il salto avviene nel 2006 quando col governo Prodi diventa capo segreteria di Francesco Rutelli, ministro dei Beni Culturali. Due anni dopo diventa presidente di Unicef Italia. Ma già ventenne, finito il liceo, Spadafora aveva operato per l'Unicef come missionario laico: viaggia in Sierra Leone, Guinea Bissau e Ruanda. E in questi anni nascono anche i rapporti col Vaticano. In particolare con don Ottavio de Bertolis, "il mio padre spirituale", dice in più di un'intervista. Finita l'esperienza con Rutelli prosegue la sua ascesa politica. Contribuisce a far nascere il movimento giovanile della Margherita, ha tempo di avvicinarsi a Italia Futura, il movimento ideato da Luca Cordero di Montezemolo. Nel 2011 è istituita la figura in Italia del Garante per l'Infanzia, ruolo che ricopre grazie anche alla stima che si guadagna da parte di Mara Carfagna, allora ministra alle Pari Opportunità del governo Berlusconi. Nel 2016 conclusa l'esperienza nell'Authority la sua storia politica incrocia M5S  e diventa stretto collaboratore di Luigi Di Maio, di cui diventa responsabile delle relazioni istituzionali: lo accompagna in alcuni appuntamenti all'estero come  all'Università di Harvard, a Londra nell'aprile 2016 nel "pranzo con i vertici della Trilateral" e in Israele. Alle elezioni politiche del 2018 viene candidato dal Movimento 5 Stelle nel collegio uninominale di Casoria che vince con il 59,4%, venendo quindi eletto deputato. Il 12 giugno diventa sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega alle pari opportunità e ai giovani nel Governo Conte di 5 Stelle e Lega. Le sue posizioni a favore delle adozioni per le coppie gay lo hanno portato più di una volta in conflitto con la Lega durante la stagione del governo giallo-verde.

MA CHI E’ ‘STO SPADAFORA?  Maurizio Blondet  9 Luglio 2019. S’è  fatto interVistare su Repubblica il sottosegretario M5s Vincenzo Spadafora  per accusare  il vicepremier Matteo Salvini di essere “sessista” e  “maschilista” per gli insulti rivolti alla capitana della Seawatch Carola Rackete. L’Italia vive una pericolosa deriva sessista. Come facciamo a contrastare la violenza sulle donne, se gli insulti alle donne arrivano proprio dalla politica, anzi dai suoi esponenti più importanti?”. Un lettore  scrive: Ma chi  è ‘sto  Spadafora, oggi  sottosegretario alle pari opportunità del movimento 5 stelle che attacca Salvini per avere maltrattato la capitana, ciò che mi stupisce sono le parole usate: “L’ha definita criminale, pirata, sbruffoncella. Parole che hanno aperto la scia dell’odio maschilista”. Si tratta dello stile di comunicazione lgbt&co, vado quindi a vedere chi è. Dunque. Dopo il diploma al liceo classico ha diverse collaborazioni con delle ONG ,  poi presidente Unicef Italia. Intanto fa politica prima nella Udeur, poi alla segreteria dei Verdi con Pecoraro Scanio. Spadafora da fine 2011 al 2016 diventa garante dell’infanzia.  Dichiara …guarda guarda …di essere favorevole alle adozioni da parte di copie dello stesso sesso. Ora, mi domando, di Bibbiano e della marea di soldi concessi dallo Stato alla Forteto proprio negli anni in cui lui era garante, e malgrado la condanna di Fiesoli per abusi sessuali, ne sa niente? Dormiva? Certo, quante casualità capitano nella vita … (Una breve ricerca sul web dà i seguenti risultati:

Di Maio, Spadafora e Pecoraro Scanio. L’M5S apre le porte agli amici degli amici? …Secondo Bisignani  a dettare legge nel M5S di lì a poco sarebbe stata una fantomatica “lobby gay” composta da alcuni nomi già vicini a Luigi Di Maio. Tra questi, Vincenzo Spadafora. Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega alle pari opportunità e ai giovani, l’incarico è stato molto chiacchierato nel Transatlantico di Montecitorio. E dopo le rivelazioni di Vittorio Sgarbi sul legame omosessuale tra lui e Luigi Di Maio, non poteva essere altrimenti. Il  curriculum del “funambolo del trasformismo” è di tutto rispetto. Politicamente sboccia nel 1999 in qualità di segretario particolare di Andrea Losco, eletto presidente della Regione Campania sotto l’egida di Clemente Mastella. Lo ritroviamo a capo della segreteria di Francesco Rutelli quando Ministro dei Beni Culturali (2006). Nel 2008 Spadafora è Presidente Unicef: riesce così a farsi apprezzare anche da Mara Carfagna quando Ministro delle Pari opportunità. Nel 2010 il Pd lo indica come presidente delle Terme di Agnano e rientra nella sua terra d’origine. Si avvicina per caso – da quel che ci è dato sapere – al Movimento 5 Stelle, senza grandi slanci d’entusiasmo. Infatti, pare abbia bazzicato Italia Futura, il contenitore di Montezemolo miseramente fallito. Nel 2013 Scelta Civica gli propone la candidatura ma declina. Nel 2016 perciò diventa responsabile delle relazioni istituzionali di Luigi Di Maio. Spadafora balzò agli onori della cronaca per le intercettazioni – di nessuna rilevanza penale (Spadafora non è mai stato indagato) – con Angelo Balducci, “gentiluomo” di Sua Santità. Balducci, ex presidente del consiglio dei lavori pubblici condannato in primo grado a 6 anni e mezzo per lo scandalo degli appalti della Cricca romana, era molto amico di Spadafora.

Sgarbi in Rai: "Luigi Di Maio è omosessuale. Vi dico io con chi è fidanzato". Dopo la profezia di Bisignani sulla lobby gay del M5S, Sgarbi lancia la bomba in Rai. "Recentemente ho scoperto che Di Maio ha un fidanzato, Vincenzo Spadafora". Sergio Rame, Venerdì 16/03/2018, su Il Giornale. La bomba è stata sganciata. Ci ha pensato Vittorio Sgarbi proprio mentre si intraprende il difficile cammino verso il nuovo governo.

Chi vuole gestire il potere ha bisogno della lobby gay. Durante il programma Quelli dopo il Tg, condotto da Luca e Paolo e Mia Ceran, il critico d'arte ha parlato della vita privata di Luigi Di Maio. "Recentemente ho scoperto che ha un fidanzato, Vincenzo Spadafora - ha detto su Rai2 - sono felice finalmente di avere un premier gay, così sereno e affettuoso e sorridente". Tutto nasce qualche giorno fa. Sul Tempo Luigi Bisignani, già lobbista nella prima Repubblica e fedelissimo di Giulio Andreotti, aveva ventilato l'esistenza di una lobby gay, potentissima e rissosa, all'interno del Movimento 5 Stelle. Una insinuazione che, come scriveva nei giorni scorsi ilGiornale, aveva già "colpito" il capo della comunicazione parlamentare grillina, Rocco Casalino. Adesso a finire nel mirino è Vincenzo Spadafora, il responsabile delle relazioni istituzionali di Di Maio. Secondo Sgarbi sarebbe, infatti, "il fidanzato" del candidato premier del Movimento 5 Stelle. Durante il programma Quelli dopo il Tg, Sgarbi si è scusato per i durissimi scontri (verbali) avuti con Di Maio in campagna elettorale. "In realtà - ha detto - mi dispiace aver aggredito questo giovane, che tra l’altro è anche tenero e ha dei sentimenti così nobili". Quindi, ha continuato: "Recentemente ho scoperto che ha un fidanzato, Vincenzo Spadafora. Sono felice finalmente di avere un premier gay, così sereno e affettuoso e sorridente". Quando in studio hanno provato a fermarlo, il critico d'arte h fatto notare che che quanto stava dicendo era "elogiativo". "Io credo che essere omosessuale sia un elemento in più - ha continuato - non mi pare che ci sia da vergognarsi di nulla. Abbiamo leggi che tutelano le coppie gay". Come ricorda Affaritaliani, Spadafora proviene da esperienze politiche con Alfonso Pecoraro Scanio e Francesco Rutelli. Quando fu Garante per l'Infanzia, appoggiò le unioni civili ricevendo forti forti critiche dai partiti di centrodestra.

Governo m5s, Sgarbi shock: "Di Maio è gay e fidanzato con Vincenzo Spadafora". Affari italiani Venerdì, 16 marzo 2018.  Mentre Di Maio cerca maggioranze, arrivano le parole sconvolgenti di Vittorio Sgarbi, dopo quelle di Luigi Bisignani sulla potente lobby gay nel m5s.  La formazione del nuovo governo crea non pochi grattacapi a Luigi Di Maio, vittorioso ma senza i numeri per formare una maggioranza senza rivolgersi alle altre forze politiche, e ci si mette pure Vittorio Sgarbi che, sconfitto dal giovane leader del m5s a Pomigliano D'Arco, gli lancia continue frecciate. L'ultima in ordine di tempo sembra ricollegarsi alla profezia di Luigi Bisignani di qualche giorno fa, quella secondo cui il Movimento sarebbe destinato a soccombere per via di una forte e litigiosa lobby gay al suo interno. Nel programma Quelli dopo il Tg, condotto da Luca e Paolo e Mia Ceran, Sgarbi si è prodotto in una dissertazione scioccante su Di Maio: "In realtà mi dispiace aver aggredito questo giovane, che tra l’altro è anche tenero e ha dei sentimenti così nobili. Recentemente ho scoperto che ha un fidanzato, Vincenzo Spadafora. Sono felice finalmente di avere un premier gay, così sereno e affettuoso e sorridente". Per Sgarbi, eletto con Forza Italia, il fatto di additare Di Maio come gay: "È elogiativo, io credo che essere omosessuale sia un elemento in più. Non mi pare che ci sia da vergognarsi di nulla. Abbiamo leggi che tutelano le coppie gay". Vincenzo Spadafora è il responsabile delle relazioni istituzionali di Luigi Di Maio, e proviene da esperienze politiche con Alfonso Pecoraro Scanio, Francesco Rutelli, è stato Garante per l'Infanzia - esponendosi a forti critiche dal centrodestra quando aprì alle adozioni gay, elemento riesumato dal Presidente del Movimento per la Vita Italiano Gian Luigi Gigli qualche settimana fa - e Presidente Unicef Italia. Nel m5s, esiste la figura di Rocco Casalino, gay dichiarato e potentissimo capo della comunicazione, e si era pensato che Bisignani con "lobby gay" intendesse soprattutto lui. Ma le parole di Sgarbi - che almeno per il momento non appaiono come una semplice provocazione - aprono nuovi scenari inaspettati.

Su Angelo Balducci: I festini di Angelo Balducci: le intercettazioni. Viviana Morreale 14 giugno 2013 su Michelesantoro.it. Gentiluomo di Sua Santità ed è stato il Presidente Generale del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici per lo Stato italiano. Parla al telefono con Lorenzo Renzi, attore di fiction tv, e con Chinedu Ehiem, corista di San Pietro: “Ho qui un amico mio, le sette meraviglie…”.

Chinedu Ehiem: “Ciao, stavo facendo le prove qui a San Pietro. Riesci a trovare un attimo di tempo?

AB: “Quando però?”

CE: “Dimmi tu. Alle 10,30-11.  Angelo non ti dico altro: è alto due metri per 97 chili, 33 anni, completamente attivo”.

Sul caso dei festini gay di Angelo Balducci il Corriere della Sera (Fiorenza Sarzanini il 10 marzo 2003, una talpa nei servizi segreti) riporta: In un capitolo dell’informativa i carabinieri evidenziano come «l’ingegner Balducci, per organizzare incontri occasionali di tipo sessuale, si avvale dell’intermediazioni di due soggetti che si ritiene possano far parte di una rete organizzata, operante soprattutto nella capitale, di sfruttatori o comunque favoreggiatori della prostituzione maschile». Su questo è stata avviata un’indagine parallela che si concentra sull’attività di Thomas Ehiem, un giovane nigeriano che nelle telefonate afferma di far parte del coro di San Pietro «e all’anagrafe di Roma è indicato come “religioso”». È lui ad offrire le prestazioni dei ragazzi, soprattutto stranieri, in cambio di soldi e piccoli favori. …..

Che scuola han fatto i ministri del governo giallorosso? Che scuola hanno fatto i neo ministri del governo giallo-rosso? Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Corriere.it. La maturità classica di Conte (60/60), il liceo scientifico di Franceschini, la laurea in filosofia dell’«economista» Fioramonti, la terza media di Teresa Bellanova, che non ha potuto proseguire gli studi perché dopo il diploma è andata a lavorare nei campi.

Giuseppe Conte. Nato a Volturara Appula l’8 agosto 1964, il premier Giuseppe Conte ha studiato al liceo classico Pietro Giannone a San Marco in Lamis agli inizi degli anni Ottanta. Voto da secchione: 60/60. Laureato con lode in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, è professore ordinario di diritto privato a Firenze (in aspettativa da quando è Palazzo Chigi). Nel settembre del 2018, in seguito alle polemiche suscitate dalla sua candidatura al concorso per la cattedra di diritto privato alla Sapienza di Roma, ha deciso di ritirarsi dalla corsa per il posto che era già stato del suo maestro Guido Alpa. «Non c’è alcun conflitto di interesse - ha dichiarato - ma rinuncio per ragioni di personale sensibilità». Il presidente del Consiglio Conte è devoto a Padre Pio.

Roberto Gualtieri. Professore associato (in aspettativa) di Storia contemporanea alla Sapienza (dove si è laureato nel 1992) e vice presidente della Fondazione Gramsci, il neo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, 53 anni, romano, ha conseguito la maturità classica al liceo Visconti della capitale. Ha iniziato la sua carriera politica nella Fgci, nel 2008 è entrato nella direzione del Pd, nel 2009 è stato eletto a Bruxelles e da oltre 5 anni è presidente della Commissione parlamentare per gli Affari economici e monetari. Di lui, ieri, Christine Lagarde, prossima presidente della Banca centrale europea, ha detto: «Gualtieri ministro dell’Economia? E’ un bene per l’Italia e per l’Europa».

Dario Franceschini. Ferrarese, 60 anni, è già stato ministro della Cultura nei governi Renzi e Gentiloni. E in precedenza ministro per i rapporti con il Parlamento nel governo Letta e sottosegretario alla presidenza del Consiglio nei governi D’Alema II e Amato II. Maturità scientifica al liceo Antonio Roiti di Ferrara (dove ha mosso i suoi primi passi in politica, fondando nel 1974 l’Associazione Studentessa Democratica di ispirazione cattolica e centrista), laureato in Giurisprudenza, è avvocato civilista cassazionista. E’ autore di diversi romanzi per Bompiani e la Nave di Teseo (l’ultimo si intitola «Disadorna e altre storie»).

Vincenzo Spadafora. «Sono privo di laurea da esibire e non ho un lavoro stabile» dichiarava il neo ministro dello Sport Vincenzo Spadafora nel suo libro «La terza Italia», dedicato al volontariato. Nato e cresciuto nella terra dei fuochi tra Afragola, Cardito e Frattamaggiore, a 10 anni avrebbe voluto entrare in seminario, ma poi cambia idea e a 19 si diploma al liceo classico per poi partire come missionario laico dell’Unicef, di cui sarà presidente della sezione italiana alla fine del 2008.

Luigi Di Maio. Dopo la maturità classica al Liceo Vittorio Imbriani di Pomigliano con il massimo dei voti (100/100), l’ex vice premier e neo ministro degli Esteri Luigi Di Maio si iscrive all’Università Federico II di Napoli: prima a Ingegneria per poi passare, dopo pochi mesi, a Giurisprudenza. A 33 anni, non risulta ancora laureato. Nel 2014 ha dichiarato di essere alle prese con la scrittura della tesi, per poi precisare più tardi: «Non mi sono laureato perché come vice presidente alla Camera non avrei mai approfittato del ruolo per andare a far gli esami». Prima di approdare alla Farnesina, il nuovo capo della diplomazia italiana è stato protagonista di alcune memorabili gaffe: dallo svarione sul Venezuela di Pinochet al presidente cinese ribattezzato Mister Ping passando per l’incidente diplomatico con la Francia a seguito del suo incontro con alcuni rappresentanti dell’ala più estremista del movimento anti-sistema dei «gilet jaunes».

Paola De Micheli. Piacentina, 46 anni, ha conseguito la maturità classica al liceo Gioia della sua città nel 1992. In seguito si è laureata in Scienze Politiche alla Cattolica di Milano. Il suo ingresso in politica risale ai primi anni Novanta con l’Ulivo di Romano Prodi. Tra il 1998 e il 2003 è stata presidente e amministratore delegato di Agridoro, società cooperativa di trasformazione del pomodoro in sughi finita poi in liquidazione coatta amministrativa per insolvenza. E’ stata eletta la prima volta alla Camera dei deputati nel 2008, rieletta nel 2013 e una terza volta nel 2018. Già sottosegretaria dell’Economia nel governo Renzi, ad aprile è stata nominata vice segretaria del Pd da Zingaretti. Bersaniana prima, lettiana poi, più tardi sottosegretaria all’Economia nel governo Renzi, la neo ministra delle Infrastrutture e dei trasporti da tre anni è anche presidente della Lega Pallavolo Serie A.

Stefano Patuanelli. Il neo ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, 45 anni, ha conseguito la maturità scientifica presso il liceo Oberdan di Trieste (voto: 54/60) e una laurea in Ingegneria edile presso l’Università del capoluogo giuliano con il massimo dei voti (110/100 e lode). Dal 2011 al 2016 è stato consigliere comunale del Movimento 5 Stelle a Trieste, nel 2018 è stato eletto al Senato diventando capogruppo M5S.

Lorenzo Fioramonti. Docente in aspettativa di economia politica all’Università di Pretoria , in Sudafrica, il neo ministro dell’Istruzione grillino Lorenzo Fioramonti non è un economista: classe 1977, si è laureato in Storia Economica e Politica a Tor Vergata nel 2001 (Facoltà di Filosofia, voto 110/110 e lode) e quattro anni dopo ha conseguito un dottorato in Scienze Politiche a Siena, in collaborazione con l’istituto universitario Europeo. Titolo della tesi: Un caso di studio di Micro-Assistenza alla Democrazia: l’Unione Europea in Supporto delle Organizzazioni Comunitarie in Sud Africa. Nemico del Pil (fra i suoi numerosi saggi, in Italia è ricordato soprattutto per un titolo Presi per il Pil. Tutta la verità sul numero più potente del mondo), sostenitore appassionato della decrescita felice, il 42enne neo ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ha già pronta la lettera di dimissioni qualora non riuscisse a far mettere un miliardo in più per l’università nella manovra di dicembre. Quanto alla scuola, l’ex vice ministro di Bussetti (la sua è l’unica promozione sul campo del Conte bis) vuole altri due miliardi. Come conta di racimolare questi soldi? Grazie a mini-tasse di scopo su merendine, bevande zuccherate e sigarette ma anche sui voli aerei che inquinano (una scelta, quest’ultima, che piacerà agli amici di Greta, meno ai tanti «commuter» e più in generale viaggiatori low cost).

Enzo Amendola. Napoletano, 45 anni, il neo ministro agli Affari Europei Vincenzo Amendola ha conseguito la maturità scientifica. La sua militanza politica risale ai tempi del liceo: a 18 anni viene eletto capogruppo per i Ds per la circoscrizione del centro storico di Napoli. Nel 1998 diventa responsabile Esteri della Sinistra Giovanile e vicepresidente IUSY (International Union of Socialist Youth). Nel 2006 entra nella segreteria nazionale dei Democratici di Sinistra. Nel 2009 diventa segretario regionale del Partito Democratico della Campania. Nel marzo 2013 viene eletto alla Camera dei deputati, dove diventa capogruppo Pd della Commissione affari esteri e comunitari. E’ stato sottosegretario per gli Affari Esteri con Alfano e poi con Gentiloni. Non è laureato.

Nunzia Catalfo. Prima firmataria del ddl sul reddito di cittadinanza, la neo ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, 52 anni, è nata a Catania dove ha conseguito la maturità scientifica. Prima di entrare in politica, ha detto, «mi sono occupata di formazione, dispersione scolastica e aiuto all’inserimento in collaborazione con i centri per l’impiego e i servizi per l’impiego in generale». Nel suo curriculum parlamentare alla voce «Professione» è scritto: Orientatore e selezionatore del personale. Attivista della prima ora del Movimento 5 stelle, già nel 2008 - un anno prima cioè della fondazione ufficiale dei Cinquestelle - militava nel gruppo «Grilli dell’Etna», gli amici catanesi di Beppe Grillo. Non è laureata.

Giuseppe Provenzano. Vice presidente della Svimez (l’associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno), il neo ministro del Mezzogiorno Giuseppe Provenzano (Pd) è nato a San Cataldo, provincia di Caltanissetta, nel 1982. Ha conseguito la maturità scientifica presso il liceo Volta di Caltanissetta nel 2001 (voto 100/100), si è laureato in Giurisprudenza a Pisa nel 2006 (voto 110/100 e lode) e nel 2012 ha conseguito il dottorato di ricerca alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa (voto: 110/100 e lode).

Elena Bonetti. Elena Bonetti è nata ad Asola, in provincia di Mantova, il 12 aprile 1974. Dopo la maturità scientifica conseguita presso il liceo Belfiore di Mantova, ha studiato al collegio Ghislieri di Pavia dove si è laureata in matematica nel 1997. Nel 2002 ha conseguito il dottorato di ricerca a Milano, dove è professoressa associata di analisi matematica dal 2016. Collaboratrice del Cnr, ha un passato da scout (come Matteo Renzi che nel 2017 l’ha fatta entrare nella segreteria del Pd) ed è stata dirigente dell’Agesci (l’Associazione Guide e Scout Cattolici italiani). E’ il nuovo ministro delle Pari opportunità e della famiglia.

Teresa Bellanova. Nata a Ceglie Messapica nel 1958, la neo ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova ha abbandonato gli studi dopo la licenza di terza media per andare a lavorare nei campi. Giovanissima, entra nelle organizzazioni sindacali dei braccianti e si impegna contro la piaga del caporalato. Nel 1988 diventa segretaria provinciale della Flai Cgil (Federazione Lavoratori Agroindustria) e nel 1996 segretaria provinciale della Filtea Cgil (Federazione italiana Tessile Abbigliamento Calzaturiero). Nel 2008 entra per la prima volta alla Camera dei deputati nelle file del Pd, nel 2016 diventa viceministro dello Sviluppo Economico nel governo Renzi e poi Gentiloni.

Riccardo Fraccaro. Già ministro per i rapporti con il Parlamento, il grillino Riccardo Fraccaro, fedelissimo di Di Maio, sostituisce il leghista Giancarlo Giorgetti nel ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio del nuovo governo giallo-rosso. Nato a Montebelluna (Treviso) 38 anni fa, Fraccaro si è diplomato al liceo scientifico Giorgione di Castelfranco Veneto (voto 100/100) e laureato in Giurisprudenza a Trento nel 2011 (nel curriculum non è precisato il voto). Durante il suo lungo percorso accademico (è stato iscritto all’Università per 11 anni dal 2000 al 2011 appunto), ha preso parte a un progetto Erasmus di un anno presso l’Università basca di San Sebastian.

Paola Pisano. Docente di Gestione dell’Innovazione all’Università degli Studi di Torino e visiting professor della Westminster Business School, assessore per l’Innovazione e per il Progetto Smart City della giunta Appendino, Paola Pisano, 42 anni, ha conseguito la maturità scientifica presso il liceo Cattaneo del capoluogo piemontese e laurea, master e Phd in Economia Aziendale presso l’Università di Torino. Nella sua città è nota anche come la «signora dei droni» per aver sostituto i tradizionali fuochi d’artificio della festa di San Giovanni con uno spettacolo fatto da 200 droni a guida autonoma.

Lorenzo Guerini. Nato a Lodi il 21 novembre 1966, dopo il diploma tecnico conseguito presso l’Istituto A. Bassi della sua città, Lorenzo Guerini si è iscritto alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dove si è laureato in Storia delle Dottrine Politiche. Di professione agente assicurativo, si è avvicinato alla politica fin da giovane, iscrivendosi ventenne alla Democrazia Cristiana, nelle cui liste è stato eletto per la prima volta nel Consiglio Comunale della città di Lodi nel 1990, assumendo l’incarico di assessore ai servizi sociali. Due volte presidente della provincia di Lodi, dopo aver aderito prima al Partito Popolare Italiano, poi alla Margherita, nel 2005 è stato eletto sindaco di Lodi e, dopo essere entrato nell Pd nel 2007, è stato confermato nell’incarico alle elezioni del 2010. Eletto deputato nel 2013, il neo ministro della Difesa da luglio 2018 era presidente del Copasir, l’organo parlamentare che controlla l’operato dei servizi segreti italiani.

Luciana Lamorgese. Unico «tecnico» del nuovo esecutivo giallo-rosso, la nuova ministra dell’Interno Luciana Lamorgese conosce molto bene la macchina del Viminale per avervi lavorato a lungo ricoprendo vari incarichi fino a quello di capo gabinetto che ha svolto fra il 2013 e il 2017 (ministri Alfano e Minniti), quando è diventata prefetto di Milano. Nata a Potenza nel 1953, ha frequentato il liceo classico Pietro Colletta di Avellino e si è laureata in Giurisprudenza (con lode).

Fabiana Dadone. Originaria di Cuneo, classe 1978, la neo ministra della Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone ha conseguito il diploma di maturità scientifica presso il Liceo G. Vasco di Mondovì e la laurea specialistica in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Torino. E’ stata praticante avvocato e, prima di intraprendere la carriera politica, è stata molto attiva nel campo del volontariato. Dopo aver vinto le parlamentarie grilline, è stata eletta alla Camera dei deputati una prima volta nel 2013 e la seconda nel 2018.

Federico D’Incà. Bellunese, 43 anni, Federico D’Incà si è diplomato all’Itis «G. Segato» come perito elettronico nel 1995 e laureato in Economia e Commercio a Trento nel 2000. Di professione impiegato, ha lavorato come analista di sistemi gestionali informatici. Attivista di progetti umanitari in Africa, ha collaborato alla realizzazione di una palestra per la Pet Therapy delle persone diversamente abili a Mel, in provincia di Belluno. Al suo secondo mandato da deputato grillino, è stato capogruppo del Movimento 5 Stelle e dal 2018 è questore della Camera dei deputati.

Francesco Boccia. Il 51enne Francesco Boccia ha frequentato il liceo nella sua città Bisceglie, in Puglia, e si è poi laureato in Scienze politiche con indirizzo economico-internazionale presso l’Università di Bari. Nel 1994 ha completato un MBA presso l’Università Luigi Bocconi di Milano. Dal 1994 al 1998 è stato ricercatore presso l’European Institute, Economic and Social Cohesion Laboratory della London School of Economics. Dal 1998 al 2005 è stato direttore del CERST, Centro di Ricerca per lo Sviluppo del Territorio dell’Università Carlo Cattaneo di Castellanza.

Alfonso Bonafede. Siciliano di Mazara Del Vallo, ha conseguito la maturità scientifica presso il liceo Ballatore. All’epoca - così ha raccontato un suo compagno di gioventù - si divideva fra lo studio e l’attività di vocalist nelle discoteche «in» della sua città: l’Ecstasy e lo Shakabrà. Dopo il diploma, si è trasferito a Firenze dove si è laureato in Giurisprudenza . Ha poi ha conseguito il dottorato di ricerca in Diritto privato presso l’Università di Pisa.

Roberto Speranza. Nato a Potenza, studia al Liceo scientifico Galileo Galilei del capoluogo lucano, per poi laurearsi in scienze politiche alla Luiss.

Sergio Costa. Il ministro dell’Ambiente è generale di brigata. Napoletano, nel 1983 ha conseguito la laurea magistrale in Scienze Agrarie presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II» e ha poi proseguito con un master in diritto dell’Ambiente.

Governo, Correnti e il Manuale Cercelli. CI SONO UN FICHIANO, UN DIMAIANO E UN RENZIANO… – ANCHE A QUESTO GIRO, IL MANUALE CENCELLI È STATO APPLICATO ALLA PERFEZIONE E OGNI CORRENTE DI PD E 5 STELLE È STATA ACCONTENTATA PER AVERE IL PROPRIO SPAZIETTO DENTRO IL GOVERNO - RENZI GUARDA DA LONTANO (E HA TRE MINISTRI), MA I GUAI MAGGIORI SONO PER DI MAIO, VISTO CHE L’ALA SINISTRA DEL MOVIMENTO SI È INGROSSATA…Federico Capurso per “la Stampa” il 6 settembre 2019. C' è una cosa che accomuna Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio: nessuno dei due, almeno in principio, voleva governare con l' altro. Ed è forse per questo - per rinforzare una leadership offuscata dalle incertezze iniziali - che i due hanno cercato fino all' ultimo di posizionare loro uomini di fiducia nei ruoli chiave della nuova squadra di ministri. È Di Maio ad avere i problemi maggiori e, di conseguenza, ad aver fatto più fatica. La disputa avuta con Giuseppe Conte per nominare il fedelissimo Riccardo Fraccaro come sottosegretario di palazzo Chigi ne è la prova lampante. Tenere l'altro suo fedelissimo, Alfonso Bonafede, come Guardasigilli è stata un'ulteriore vittoria. E potrà contare su Stefano Patuanelli (Mise) e sui consigli di Vincenzo Spadafora, premiato con il ministero dello Sport per aver intessuto la trattativa con il Pd.

Dall'altra parte del tavolo, Spadafora aveva Dario Franceschini, che tornerà ai Beni culturali. Zingaretti lo avrà al suo fianco, anche se non si può dire che Franceschini abbia un'anima zingarettiana. Piuttosto, è un autonomo, con le sue truppe in Parlamento, rivelatosi però uno su cui il leader Pd ha potuto riporre fiducia. Ci sono meno sfumature, invece, nel posizionamento di Roberto Gualtieri (Economia), con un passato nei Ds e oggi allineato al pensiero del nuovo segretario. Così come Paola De Micheli (Trasporti), nonostante il suo percorso politico sia stato ben più tortuoso. Tra Bersani, Letta, Renzi e infine, dopo averlo conosciuto nelle vesti di governatore del Lazio quando lei era commissario per il terremoto del Centro Italia, folgorata anche da Zingaretti. Fedele, ma prima di tutto al partito. Amendola (Affari europei), Boccia (Regioni) e Provenzano (Sud), fanno capo a correnti varie, ma tutti lontani da Renzi e dunque preziosi per Zingaretti.

Le divisioni Né il Pd, né il M5S possono dirsi monoliti. Zingaretti dovrà guardarsi da Renzi e dalle due ministre cresciute all' ombra della Leopolda: Teresa Bellanova (Agricoltura) e Elena Bonetti (Pari opportunità). C' è anche Lorenzo Guerini, alla Difesa, cresciuto politicamente al suo fianco, che però lo stesso Renzi non considera più un suo uomo.

Di Maio dovrà invece fare i conti con l' anima di sinistra del Movimento, che si è ingrossata anche nella squadra di governo. C' è Federico D' Incà ai Rapporti con il Parlamento, che qualcuno teme possa fare tandem con il presidente della Camera Roberto Fico. Fabiana Dadone (Pubblica amministrazione) è stata critica nei confronti di Di Maio ed è considerata vicina ad Alessandro Di Battista.

Al contrario, il rapporto del leader con Nunzia Catalfo è diventato più sereno nell' ultimo anno, tanto che sarà lei a succedergli al Lavoro. Fioramonti (Istruzione) e Costa (Ambiente) sono anche loro di sinistra, ben visti da Beppe Grillo, ma soprattutto "tecnici", anche se non puri come Luciana Lamorgese (Interno). Mentre Paola Pisano (Innovazione) sarebbe una nomina scelta da Davide Casaleggio, sempre meno amico di Di Maio. Un bazar di correnti. Dove si insinuano, storicamente, le fragilità dei governi.

L’incompetente. Scusate, ma dove lo vedete il rosso nel governo giallo-rosso? Il nuovo esecutivo e non solo: le recensioni senza inutili millanterie.  Luca Bottura il 6 settembre 2019 su L'Espresso. ROSSO, colore primario. Utile in diversi contesti, tra i quali la maglia del Bologna, i semafori, le corride – nelle quali è comunque consigliabile schierarsi sempre per il toro – il rosso fa parte dei colori primari additivi. Miscelato al blu, determina il viola mentre, unendolo al giallo, crea l’arancione. Molto efficace a livello figurativo (rosso è il Natale, rosso è il calore, rosse sono le luci che inspiegabilmente pubblicizzano alcune patatine) è utilizzato nel campo sociale per definire forze afferenti alla tradizione del socialismo e/o del comunismo, movimenti del secolo passato a cui si richiamano diverse forze politiche perloppiù radicali, o almeno così vengono definite nel nostro Paese, dove è radicale anche non parcheggiare in doppia fila. Il Partito Democratico, nato nel 2007 in Italia dalla fusione tra una forza socialdemocratica – i Democratici per la Sinistra – e una moderata di ispirazione cattolica (la Margherita) sta a quella tradizione come la Coca Cola Zero al Brunello di Montalcino e definire “rossi” i suoi esponenti può essere conseguenza solo dell’assunzione di sostanze lisergiche o di un qualunque salario da parte di entità editoriali della cosiddetta Destra Cattivista. Ne consegue che definire giallorosso l’esecutivo formato da Giuseppe Conte rappresenta una corposa forzatura o, per utilizzare una modalità espressiva più vicina alle entità editoriali di cui sopra, una epocale stronzata.

GIUDIZIO: semaforo rosso.

ULTRA'. Stato mentale. Nel saggio che prima o poi mi piacerebbe dare alle stampe per Micromega, “Prolegomeni del paraculismo: il caso italiano” è previsto un capitolo piuttosto diffuso sui tifosi degli stadi, e su come la mentalità passivo/aggressiva delle curve abbia esondato in ogni anfratto pubblico e privato, cercando sempre e comunque di ammantare anche le peggiori ribalderie con una qualche motivazione razionale, oggettiva, pro domo propria. Ringrazio perciò gli ultras dell’Inter, società che probabilmente vincerà il campionato, i cui proprietari hanno appena investito nella campagna acquisti una cifra che equivale al Pil del Gambia o al denaro necessario per far avere una licenza media a Tony Nelli (a proposito: ciao Tony, ci mancherai, o quasi), i quali hanno ritenuto di scrivere una lettera aperta per “spiegare” a Romelu Lukaku, il centravanti nerazzurro di origini congolesi, che i loro “colleghi” di Cagliari, bersagliandolo con cori scimmieschi, non intendevano affatto essere razzisti. Se vi capita (si trova sul web) apprezzate con me il minuetto lessicale con cui al povero centravanti viene raccontato che da noi il razzismo non c’è, che è normale tifare contro, che – anzi – se gli fanno gu-gu è un segno di rispetto perché ne temono il talento. Tutto questo per un malinteso senso di appartenenza (erano ultrà anche quelli del Cagliari, che peraltro invece si è scusato per i propri tifosi: viva) che tratterò nel successivo saggio per Micromega: “Mentalità mafiosa e difesa oltranzista della propria appartenenza, meglio se dedita a una qualunque causa del menga”. ’sti peracottari.

GIUDIZIO: Grazie ragazzi (tata tatà ta). Grazie ragazzi (tata tatà ta)

Pd-M5S: "un governo fondato sulla convenienza, non sugli ideali". Capriole opportuniste, assenza di etica, bramosia di potere: così la sinistra cancella la sua storia. Il popolo non lo dimenticherà. Serve una nuova forza popolare e democratica. Parla l’ex sindaco di Roma. Ignazio Marino su L’Espresso l'8 Settembre 2019. Qualche sera fa un uomo d’affari e noto filantropo americano mi ha chiesto un’opinione sulla situazione politica e sociale in Italia. Ero appena usci­to dalla mia Università, a Philadelphia, e mi sono lasciato coinvolgere volentieri. Conosco la profonda cultura internazionale del mio amico e ci lega una condivisa passione per l’arte e l’archeologia: mi è sembrata un’ottima occasione per esporre le mie riflessioni, quasi sempre eretiche rispetto ai dogmi della politica. Il mio pensiero si è proiettato oltre le valutazioni sul presidente del Consiglio, sul M5S, sul Pd e sulle altre formazioni politiche. Ho raccontato del Comune di Riace perché il mio interlocutore ne conosce e ne ammira i bronzi. Un ottimo spunto per raccontargli che anni fa avevo visitato l’antico borgo ripopolato da persone fuggite dai loro Paesi e che lì avevano iniziato una nuova vita grazie alle loro attività artigianali: chi soffiava il vetro, chi intrecciava tessuti, chi modellava ceramiche. Era stata riaperta anche la scuola elementare per i bambini che finalmente erano tornati a far rivivere l’antico borgo. Uno di loro mi aveva dato una lezione che non dimenticherò. Quando gli avevo chiesto come mai fosse a Riace e perché da solo, mi aveva risposto così: “Tre anni fa, quando avevo 5 anni, la mia mamma, in Afghanistan, mi consegnò a degli sconosciuti e piangendo mi disse, figlio mio oggi non puoi capirmi ma io desidero che tu vada via perché spero che tu possa crescere in un paese dove potrai studiare, dove non rischierai di essere ucciso da una mina, e dove, se ti ammalerai, potrai essere curato”. In quelle parole, pronunciate da un bimbo straniero in perfetto italiano, erano condensati tre principi fondamentali sanciti dagli articoli 11, 32 e 34 della nostra Costituzione: il ripudio della guerra, il diritto all’istruzione e l’accesso alle cure. Ma c’era anche la speranza. Quella di cui l’Italia attualmente scarseggia ma per la quale vale la pena continuare a impegnarsi. Ed è di questo che voglio scrivere oggi. La formazione di questo governo nell’estate 2019 ha un significato molto più profondo dell’unione di due forze politiche che fino a pochi giorni fa affermavano di non avere nulla in comune. Con questa decisione chi rappresenta la sinistra in Italia cancella le ideologie e i valori della propria storia. Non si dica, per favore, che anche ai tempi di statisti come Aldo Moro ed Enrico Berlinguer si trovarono percorsi comuni, perché quei percorsi erano stati costruiti con profondo e severo lavoro intellettuale e culturale, raggiungendo risultati tangibili e duraturi. Penso al drammatico 1978, l’anno dell’assassinio di Aldo Moro. Allora la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista approvarono insieme la legge 194 per cancellare il dramma degli aborti clandestini, la legge 180 per la chiusura dei manicomi e la legge 833 per attuare l’articolo 32 della Costituzione e istituire il Servizio Sanitario Nazionale. Votarono insieme tre leggi che incidono tuttora profondamente sulla società Italiana. Oggi i partiti che affermano di rappresentare la sinistra si siedono al governo con una forza politica che solo tre settimane fa ha votato il decreto sicurezza bis che prevede l’arresto per chi salva una donna incinta o un bambino in mare e li conduce in porto contro il parere del ministro dell’Interno. Preferisco essere minoranza per sempre se la maggioranza la pensa così. Eppure non rinuncio a sperare che valori come la scuola pubblica, la sanità pubblica, l’accoglienza, i diritti civili, la dignità di un lavoro, la laicità dello Stato, possano tornare a essere condivisi dalla maggioranza degli Italiani e al centro dell’azione del governo e del Parlamento. Lo sono stati quando grandi uomini e donne in quel palazzo di piazza di Montecitorio, lo stesso che ha ospitato gli incontri di questi giorni, scrissero la nostra carta costituzionale: quella che tre anni fa alcuni politici avrebbero voluto stravolgere. Ho cercato di comprendere se il mio sconcerto non fosse un mio limite. Se fossi io a non percepire quel serio lavoro di approfondimento che in pochi giorni può aver portato a condivisioni programmatiche forze politiche così differenti, come è accaduto negli anni ’70. Non sono riuscito a individuare nulla di simile e la memoria è tornata a tempi più recenti quando, nel 2009, corsi per la segreteria nazionale del Pd. Anche Beppe Grillo all’epoca voleva partecipare alle primarie del Pd ma tutta la nomenclatura del partito si schierò contro e gli annullarono la tessera che aveva sottoscritto. Io fui l’unico ad affermare che aveva il diritto di candidarsi, perché credo nelle competizioni trasparenti e nel confronto delle idee. Gli stessi che oggi auspicano di sedersi nel governo a maggioranza grillina allora non solo lo cacciarono, dopo che si era regolarmente iscritto, ma gli suggerirono di fondare un partito per vedere dove sarebbe andato. E, come sappiamo, Grillo seguì il suggerimento del Pd. Non si può vivere nel passato e il futuro si costruisce cambiando sé stessi e mutando opinione. Tuttavia, non proverei a debellare la poliomielite o il morbillo scegliendo come compagno di viaggio chi crede che i vaccini siano un pericolo per l’umanità. Posso anche accettare le critiche più violente senza risentimento, ma se dovessi costruire una squadra per affrontare una sfida importante cercherei omogeneità di valori. Cosa ben diversa dall’omogeneità di pensiero. Alcuni hanno sottolineato l’urgenza di incombenti decisioni economiche, in particolare per evitare l’aumento dell’Iva. È un tema centrale ma rappresenta un obiettivo, non un valore. Il valore è la visione economica del Paese. L’economia non può essere il fine ma lo strumento. Il fine è il benessere dei cittadini, le loro opportunità, la possibilità di avere un lavoro stabile e non rischiare di essere licenziati perché a un imprenditore conviene nonostante l’azienda sia in attivo. La storia recente ha dimostrato cosa è stato fatto e soprattutto cosa non è stato fatto dal M5S nei confronti delle aziende che hanno chiuso o che rischiano di chiudere in Italia. Inoltre, si è preferito offrire un reddito di cittadinanza (assolutamente auspicabile in alcune specifiche situazioni) piuttosto che promuovere decisioni che producano lavoro e incentivino investimenti stranieri. Penso allo stadio della Roma. Il M5S ha rinunciato a un progetto che avrebbe portato nella capitale 1,5 miliardi di euro in investimenti stranieri e circa 5mila posti di lavoro, oltre a un segno architettonico unico come le torri dell’architetto Daniel Libeskind. Gli imprenditori privati avrebbero dovuto spendere trecento milioni di euro in opere pubbliche per la ferrovia, la metropolitana, due ponti e un parco. Qual è stata la risposta alla decisione del M5S da parte del Pd, allora al governo? Il Pd ha assecondato la visione del M5S trovando accettabile che le opere pubbliche non pesassero sui privati (permettendo loro profitti maggiori). Le faremo con il denaro pubblico, con i soldi dei cittadini, promise il ministro Lotti, nonostante la legge finanziaria del 2013, firmata dal presidente del Consiglio Enrico Letta, vincolasse la costruzione di uno stadio privato a investimenti pubblici realizzati dallo stesso privato. È questa la coerenza, sono questi i valori con cui la sinistra vuole rilanciare l’economia italiana? Cosa è cambiato negli ultimi giorni per garantire che invece gli investimenti stranieri si cercheranno per creare posti di lavoro e condizioni strutturali migliori per l’Italia? Mi chiedo ancora, come si può giustificare un Pd che accetta di governare con quello stesso M5S che solo poco tempo fa strizzava l’occhio ai partiti nazionalisti dell’ultradestra europea? Certo, esiste il tema della deriva a cui potrebbe condurre l’ambizione autoritaria di Matteo Salvini. Si possono fare molti esempi ma quando il ministro dell’Interno di un Paese del G7 parla in difesa del capotreno che dall’altoparlante dei vagoni urla: “…zingari: scendete alla prossima fermata, perché avete rotto i coglioni”, si genera in molti una reazione chiara: se il ministro dell’Interno difende chi usa questo linguaggio, potrò usarlo anche io. E qui, per non drammatizzare, anche se il dramma io lo percepisco fortemente, mi affiderei alle parole di Michela Murgia nel suo “Manuale per diventare fascista” (Einaudi, 2018): “Manipolando gli strumenti democratici si può rendere fascista un intero paese senza nemmeno pronunciare mai la parola “fascismo”, che comunque un po’ di ostilità potrebbe sollevarla anche in una democrazia scolorita, ma facendo in modo che il linguaggio fascista sia accettato socialmente in tutti i discorsi…“. Ho fatto l’esempio del capotreno perché un linguaggio razzista diviene facilmente condivisibile da chi stenta ad arrivare alla fine del mese e si convince che la colpa è di chi è diverso da lui. Oggi la comunicazione ha sottratto quasi tutto lo spazio alla riflessione e i cosiddetti “leader” (in tedesco “führer” come sottolinea sempre Michela Murgia) sembrano più preparati a seguire gli umori e i sondaggi che a dare l’esempio e a rispettare quanto affermato nella Costituzione: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Sono consapevole che il percorso che descrivo è molto più lungo e impegnativo ma populismo e fascismo non si contrastano divenendo tutti un po’ populisti, bensì sostenendo e rafforzando una cultura diversa, solidificando e testimoniando i valori in cui il popolo di sinistra crede. Non ci sono scorciatoie efficaci. Come sempre, però, vedo il bicchiere mezzo pieno. Esiste una solida ideologia di destra, con i suoi valori, opposti ai miei e a quelli di chi vorrebbe una democrazia liberale e di sinistra. In questa opposizione scorgo la possibilità per la sinistra di ritrovare la propria identità. Questo momento storico può rappresentare una opportunità imprevista per la nascita di una forza popolare e democratica, con il ritorno alla possibilità per gli elettori di determinare una alternanza tra conservatori e progressisti, tra visioni geopolitiche profondamente differenti. Insomma, il ritorno a una democrazia fondata sul potere sovrano del popolo e del Parlamento. Gli italiani sono scoraggiati, impauriti e arrabbiati ma coltivano la passione per la res publica, anche se il comportamento degli attuali leader politici invita a coltivare il cinismo più che la speranza e a preoccuparsi del qui e ora senza riflettere sul futuro, perché guardare avanti implica sforzo intellettuale, analisi, capacità di riflessione. E anche generosità. Quanto è attuale l’aforisma di Winston Churchill: “Il politico diventa uomo di Stato quando inizia a pensare alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni”. Questa è un’occasione per cancellare un partito, il Pd, che purtroppo ha dimostrato di non essere in grado di tenere fede alle idee e di sostenere i valori della sinistra democratica, né di saper costruire una rappresentanza degna di tutti quei cittadini che in quelle idee e in quei valori credono fermamente. Serve ora un catalizzatore credibile che, se emergerà, solleverà il Paese con un’onda di speranza. Credo davvero che sia sempre meglio tentare di fare la cosa giusta rispetto a quella che conviene. Dal 1987 ovunque ho lavorato ho appeso questo stralcio del discorso che Theodore Roosevelt tenne nel 1910 alla Sorbona di Parigi, dal titolo emblematico: “Cittadini in una Repubblica”. Eccolo: “L’onore spetta all’uomo che realmente sta nell’arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perché non c’è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l’obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta“. In diversi momenti della storia recente d’Italia quelle anime timide, ma bramose, hanno occupato posizioni ogni volta che è stato loro possibile farlo senza confronto pubblico e consenso popolare. Non è solo mancanza di etica personale: rinunciando alla competizione, hanno trasmesso alla società valori negativi. Ma il popolo sa distinguere tra le scelte fondate sugli ideali rispetto a quelle fatte per convenienza. E non dimentica.

La bomba di Fontana: "Quanti omosessuali in questo governo". L'ex ministro: "In Europa una lobby molto organizzata sui propri interessi e diritti". Sabrina Cottone, Domenica 08/09/2019, su Il Giornale. Era giugno 2018, Lorenzo Fontana aveva appena giurato da ministro della Famiglia e subito scatenò una feroce polemica con un'improvvida dichiarazione: «Le famiglie gay? Non esistono». Allora, considerato lo status, la tribuna era il Corriere della Sera e l'eco fu considerevole. Oggi, in una delle sue prime uscite da non più ministro, colloquiando con Klaus Davi per Klaus Condicio è tornato a parlare di persone con tendenze omosessuali. Questa volta per sostenere pubblicamente sul Conte 2 ciò che altri nei quattordici mesi del primo governo Conte avevano detto più o meno ad alta voce nei corridoi su personalità politiche che frequentavano con regolarità Palazzo Chigi: «Penso (che gli omosessuali, ndr) siano rappresentati anche all'interno di questo governo e anche se non conosco le storie di ognuno, presumo ce ne siano diversi». In passato Vittorio Sgarbi aveva dichiarato cose simili in modo molto più colorito parlando del primo governo Conte e facendo nome e cognome di colui a cui si riferiva. Gossip elevato a dibattito politico o desiderio di mettere a parte i cittadini di quel che avrebbero il diritto di sapere? Siamo di fronte alla consueta questione di dove finisca la privacy dei personaggi pubblici, tanto più se ricoprono incarichi istituzionali e possono essere, se non addirittura ricattati, almeno messi in grave difficoltà quando nascondono qualcosa. Fontana (che era poi diventato ministro degli Affari europei) con Davi ha parlato anche di «lobby gay», lasciando intendere che possa avere avuto un qualche ruolo. La lobby ha pesato sulle sorti del governo?, la domanda. E la risposta, per quanto ricca di perifrasi, sembra orientata al sì: «Sono più che altro persone di sinistra con una visione diversa dalla mia. A livello europeo esiste una lobby molto organizzata sui propri interessi e sui propri diritti. Ma anche in Italia tutti quelli che mi hanno osteggiato sono contenti, perché questo è un governo molto di sinistra che sulle politiche della famiglia ha visioni completamente diverse dalle mie e che farà cose che io non avrei mai fatto». A questo punto Fontana ha aggiunto che ci sarebbero anche diverse persone omosessuali nell'esecutivo. A Davi che gli chiedeva se fosse corretto non dichiararlo, Fontana ha risposto con inatteso fair play, considerato che si tratta della medesima persona che ha dato il proprio sostegno a manifestazioni di riparazione per la blasfemia del Gay Pride: «Per me conta molto poco (l'orientamento sessuale di una persona, ndr), conta la bravura. Certamente ho amici omosessuali». Le accuse di omofobia sono respinte: «Non sono assolutamente omofobo, né Salvini lo è. Anzi, le racconto una curiosità: ho molti amici fraterni a Bruxelles che mi hanno detto che sono anche abbastanza apprezzato dal punto di vista fisico. Chiaramente non è che la cosa mi interessasse». Il 30 agosto scorso, quando il Conte 2 era ancora nella turbolenza delle trattative, alla Berghem Fest di Alzano Lombardo Fontana aveva previsto alle Pari opportunità Monica Cirinnà (prima firmataria della legge 76/2016 sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso) e azzardato: «Sarà un governo pride, che liberalizzerà le adozioni gay e tutte le droghe». Almeno sul primo punto ha profetizzato male.

Intervista di KLAUS DAVI l'8 settembre 2019. - KLAUS CONDICIO

L. FONTANA: ENTUSIASMO UE PER GOVERNO DOVREBBE PREOCCUPARE ITALIANI  

"Abbiamo visto come in questi giorni l'UE, sempre a trazione franco-tedesca, sia molto entusiasta di questo governo. Questo dovrebbe fare riflettere, perché se i paesi stranieri sono entusiasti di questo governo i cittadini si chiederanno  "ma sono entusiasti perché faranno gli interessi degli italiani o di altri paesi"?" Lo ha dichiarato l'ex Ministro della Famiglia Lorenzo Fontana (Lega), intervistato da Klaus Davi per il programma KlausCondicio, online su YouTube.

L.FONTANA: È STATO il PPE A CHIUDERCI LA PORTA IN FACCIA

"Abbiamo parlato con esponenti del Ppe in Europa, tentando di aprire un dialogo. Ma questi ci hanno chiuso la porta in faccia, preferendo parlare con i socialisti, con i Verdi e con i Liberali. Hanno in mente un progetto europeo, probabilmente molto più vasto del livello europeo stesso, completamente diverso dal nostro".

L.FONTANA: UNA PARTE DI FI POTREBBE SOSTENERE CONTE 

"Problemi sorgeranno in Forza Italia, a mio avviso, poiché una parte di loro si rispecchia nei nostri valori mentre un'altra parte di loro è più appoggiata alla sinistra. Sta nei fatti che un pezzo di FI sosterrà probabilmente il Governo Conte. La cosiddetta "maggioranza Ursula" è una cosa che a livello di UE si sta vedendo da molti anni. Manca solo la parte del Pd. Io non mi meraviglierei se una parte di loro dovesse appoggiare il governo Conte. Una parte di FI insieme col Pd potrebbe creare qualcosa di nuovo".

L. FONTANA : L'ITALIA NON È PIU UN PAESE CATTOLICO

"Penso che l'Italia non sia più un paese cattolico, come anche l'Europa tutta. La componente cattolica in Italia penso sia minoritaria, così come in Europa, di conseguenza chi come me ha tentato di portare avanti politiche per la famiglia trova serie difficoltà e ostacoli. Le politiche della famiglia e della natalità saranno centrali per il futuro del paese".

L.FONTANA: È UN GOVERNO CON DIVERSI GAY

"Di gay penso che ce ne fossero diversi anche nel governo precedente. Non ho mai approfondito la questione, ma, insomma, si capisce se una persona ha gusti diversi dai tuoi. È comunque una componente ben rappresentata in questo governo , adesso non conosco le storie di ognuno ma presumo ce ne siano diversi".

L. FONTANA: GAY DI SINISTRA MI HANNO OSTACOLATO

"Penso che abbia pesato quella componente del mondo gay più orientata a sinistra, che nel precedente governo mi ha osteggiato e che sicuramente è contenta di essere in un governo come questo che, per le politiche sulla famiglia, adotterà sicuramente dei provvedimenti che io non adotterei, avendo io una visione e opinioni diverse sul tema".  

L.FONTANA: NON SONO OMOFOBO

"Non sono assolutamente omofobo, né Salvini lo è. Anzi, le racconto una curiosità: ho molti amici fraterni qui a Bruxelles che mi hanno detto che sono anche abbastanza apprezzato dal punto di vista fisico. Chiaramente  non è che la cosa  mi interessasse ".

L.FONTANA: CONTE? NON ME LO ASPETTAVO COSÌ SPREGIUDICATO

"Cosi spregiudicato non me lo aspettavo, lo vedevo come una persona che sicuramente non aveva valori saldi da difendere, perché quando hai valori saldi da difendere o pensi di averli prima di passare da una parte all'altra ti fai anche un esame di coscienza. Passare da nemici ad amici tutto d'un colpo sa di strano".

L.FONTANA: MATTARELLA HA RISPETTATO LA COSITITUZIONE  

"Mattarella ha fatto fondamentalmente quello che doveva fare, è chiaro che noi avremmo preferito andare al voto. Essendoci tre partiti che alleandosi hanno la maggioranza in parlamento, il Presidente non poteva fare altro che prenderne atto. Sento delle critiche sul presidente Mattarella, ma a mio avviso non ha fatto altro che prendere atto della situazione. Che lui magari si augurasse di fare un altro governo piuttosto  che andare alle elezioni può anche essere, ma poi poco c'entra su come sono andati i fatti".

L.FONTANA: GRANDE AFFINITÀ TRA MELONI E SALVINI 

"Mi sembra che ci sia grossa affinità politica tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini, poi non lo so se non si parlano. Mi auguro che si parlino perché penso che siamo alleati abbastanza naturali". Lo ha dichiarato Lorenzo Fontana rispondendo a Klaus Davi, che gli ha domandato se fosse vero che Salvini avesse litigato con Giorgia Meloni.

L.FONTANA: BOSCHI? PREFERISCO LE MORE

"Io preferisco le more, le donne mediterranee,  infatti mia moglie è di Napoli. Più la Boschi parla e più la gente vota per noi. Più la Boschi si espone e più il consenso per la Lega aumenta. Questo penso produrrà anche un effetto presso l'elettorato dei grillini, che potrebbero scegliere la Lega".

L.FONTANA: PAPEETE? SONO ANNI CHE CI ANDIAMO 

"Sono tantissimi anni che andiamo al Papeete. Sei anni, forse anche di più. Solo che quest'anno è stato strumentalizzato politicamente. Tanto è vero che per screditare Salvini sono state postate anche delle foto di qualche anno fa".

Guerrini Difesa, Costa Ambiente e... I ministri scelti in base al cognome. Affari Italiani Giovedì, 5 settembre 2019. La squadra del governo Conte Bis è ormai operativa dopo la cerimonia dei giuramenti svoltasi al  Quirinale, ma fin da subito non mancano le ironie sul web. La squadra del governo Conte Bis è ormai operativa dopo la cerimonia dei giuramenti svoltasi al  Quirinale, ma fin da subito non mancano le ironie sul web. Al centro dell'ilarità social i ministeri che, a detta dei più simpatici, sembrano essere stati assegnati in base al cognome dei politici. Ecco l'elenco dei nomi che hanno scatenato il divertimento sul web.

Ministro della salute: Speranza

Ministro della giustizia: Bonafede

Ministro della Difesa: Guerini

Ministro del Territorio e Mare: Costa

Ministro del Sud: Provenzano

Ministro dello Sport: Spadafora

Machiavelli, il bullo e Camaleo. Per un anno e passa il Bullo ha detto e ridetto: mai con i Cinquestelle. Paolo Armaroli il 6 Settembre 2019 su Il Dubbio. L’uno,il Bullo fiorentino, al secolo Matteo Renzi, ha “aperto” ai Cinquestelle e scongiurato lo scioglimento anticipato delle Camere dopo appena un anno e mezzo di legislatura. L’altro, Camaleo, perrubare il titolo di un famoso libro di Curzio Malaparte, al secolo Giuseppe Conte, ha chiuso la partita – manco a dirlo – a proprio vantaggio. Diversissimi, hanno in comune il culto di Nicolò Machiavelli. Di continuo pensano e ripensano alla famosa frase contenuta nel III capitolo del “Principe”: «Li uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere; perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi non possono: sì che l’offesa che si fa all’uomo debbe essere in modo che non la teme la vendetta». E’ inutiledire che entrambi in questa crisi ministeriale più pazza del mondo, ne hanno fatto tesoro.Da politico consumato, in tutti i sensi, il Bullo, con il superego che si ritrova, ha ripensato a Talleyrand e al meritato posto nel “Dizionario delle banderuole” pubblicato a Parigi nel 1815.: «Non sono cambiato io, sono cambiati i tempi». Proprio così. Per un anno e passa il Bullo ha detto e ridetto: mai con i Cinquestelle. E ha accusato Nicola Zingaretti di fare l’occhio di triglia a Luigi Di Maio e compagnia cantante. Ha cambiato idea per seppellire un Matteo Salvini già tramortito da Camaleo il 20 agosto al Senato. E per scongiurare un ricorso alle urne, non a caso gradito a Zingaretti, che avrebbe ridotto al lumicino il numero dei parlamentari a lui fedeli. D’altra parte l’intelligenza politica del Senatore è fuori discussione. Luciano Violante, che non ha peli sulla lingua, ha detto che è pari alla sua disinvoltura. Ama a tal punto il segretario della Repubblica fiorentina che al “Ciocco” – dove ha riunito tanti giovani che confidano più che nel Pd nel Pdr, il Partito di Renzi del passato e forse del futuro gli ha dedicato una lezione. E, a quanto pare, è calato a tal punto nei suoi panni da parlare più di sé che di lui. Che Renzi sia uno dei vincitori della partita agostana non ci piove. A condurre le danze è stato più lui che il segretario del Pd. Gran brava persona, però mai così ondivago come adesso. Ogni volta che lui starnutiva, Zingaretti puntualmente si soffiava il naso. D’altra parte, non sembra che il Bullo abbia una particolare simpatia per il presidente del Consiglio. Ma ha capito che se non si puntava su di lui, tutto sarebbeandato a carte quarantotto. L’altro vincitore è Camaleo, un camaleonte gigante che si adegua mirabilmente alle circostanze. Si presenta una prima volta come avvocato del popolo. Con questa espressione, banale all’apparenza, intende sottolineare una netta contrapposizione alla Casta. Che ai Cinque stelle dà l’orticaria, a dispetto del fatto che ad essa sono riconducibili a pieno titolo. Una seconda volta, compiuta la metamorfosi del Conte 2 la Vendetta, si presenta come futurologo, portatore di un programma per il futuro: quasi che ne fossero concepibili per il passato. Anche qui non ci troviamo di fronte a una banalità. Perché Camaleo vuole significare che bisogna scordarsi del passato: come cantano a Napoli. Insomma, diavolo d’un uomo, è riuscito a cambiare maggioranza restando presidente del Consiglio. Com’è riuscito soltanto a Pietro Badoglio, ad Alcide De Gasperi e, sempre lui, a Giulio Andreotti. Lo ha ricordato Beniamino Caravita in un eccellente saggio dedicato ai due Conte.Sì, Camaleo ora ha vezzeggiato e ora ha spento. Ha spento il leader leghista, che per il vero ci ha messo del suo. Ha vezzeggiato Zingaretti quando gli ha detto che lui è di sinistra. Ha vezzeggiato pure il capo grillino quando gli ha sussurrato di non essere organico ai Cinquestelle, questono, ma di essere sempre stato vicino a lui e al partito. Concavo e convesso, a seconda delle circostanze.

Ha condotto le trattative con perizia, ormai convinto del fatto che perfino la casalinga di Voghera stravede per lui. Ha dato la carota degli Esteri a Di Maio. Un ministero prestigioso ma un guscio vuoto. Perché l’esperienza ci dice che la politica estera e comunitaria la fanno il capo dello Stato e il presidente del Consiglio. E poi con l’incontro a Parigi con i gilet gialli, non propriamente degli angioletti, il leader pentastellato non ha fatto un figurone. Il Bullo e Camaleo, oggi alleati. Ma due galli nel pollaio della politica sono troppi.E uno dei due ci lascerà le penne. Mattarella non ha mosso obiezioni perché considera Di Maio un buon figliolo che ogni tanto sbrocca, come quando minacciò di metterlo in stato d’accusa salvo innestare una repentina retromarcia. Come quando annunciò dal balcone di Palazzo Chigi di aver debellato la povertà grazie a una manovra in deficit, prontamente riveduta e corretta. Quando ha detto l’altro giorno, provocando ilarità, che tutto il mondo era in attesa del responso di Rousseau. Nonostante tutto, per ora la navicella ministeriale va. Nessuno può dire fino a quando.

“GLI ITALIANI HANNO FAME, E VOI GLI AVETE TOLTO IL PANE”. Alessandro Di Battista e Roberto Speranza, quando litigavano in sala stampa. Da Libero Quotidiano il 9 settembre 2019. A ridosso del discorso di Giuseppe Conte per la fiducia al nuovo esecutivo giallorosso, ri-spunta un vecchio video che dimostra - ammesso che ve ne fosse bisogno -come i rapporti tra Pd e M5s non siano mai stati proprio di natura amichevole. Nel filmato si vede un Alessandro Di Battista adirato contro il neo ministro della Salute Roberto Speranza. Uno scontro verbale con scambio di accuse, parole pesanti e poi una vera e propria lite avvenuta in sala stampa alla Camera nel 2014. "Non ti vergogni di fare delle leggi elettorali con dei condannati?" chiede il grillino a Speranza. E ancora: "Perché blocchi la democrazia?". Il ministro di Liberi e Uguali replica: "Voglio cambiare l'Italia, voi invece siete dei fascisti". Una risposta che non è piaciuta a Dibba: "L'Italia ha fame e voi avete tolto il pane agli italiani" ha replicato tra le urla. E questi ora vogliono governare assieme...

I GEMELLI CONTE, DUE FIGLI UNICI. Dal profilo Twitter di Jacopo Iacoboni il 9 settembre 2019: Sintesi del discorso: quell’altro era Conte mio fratello, ma abbiamo litigato. Provo imbarazzo per lui, per noi che assistiamo a questa farsa, per chi l’ha sostenuta. Almeno con un altro premier ci sarebbe stata una parvenza di credibilità, così è tutto ridicolo, lunare, clownesco. È comunque, gli va riconosciuto, un personaggio al livello di Boris Johnson. In Italia e Uk sono in corso due tragedie ridicole, speculari, benché - va detto - simmetriche. In Italia anche il “ritorno alla serietà” non è una cosa seria. Anche l’antipopulismo è una barzelletta. Va anche detto che, stavolta, gli viene dettato un posizionamento assai meno pericoloso per l’Italia in politica estera: Usa, Nato, Ue (patto di stabilità solo “da migliorare”). Lui non è credibile, ma dubito avrà margini di manovra per fare grossi danni su questi temi.

La domanda resta: questo mediocre spettacolo, con dosi per molti indigeribili di trasformismo, servirà alla fine a sgonfiare il nazionalismo populista in Italia? O invece servirà a infiammarlo, rendendolo ancora più virulento ideologicamente? Non lo so. Vedremo. Per fare la metà delle cose che lo Statista ha elencato chiedendo la fiducia (“Green New Deal” ) ci vorrebbero (compresi i soldi per disinnescare l’aumento dell’Iva) come minimo 50 miliardi. Sto facendo stime generose. Non si vede dove e come egli possa reperirli.

TUTTE LE DIFFERENZE TRA GIUSEPPE CONTE E GIUSEPPI CONTE. I DISCORSI A CONFRONTO DI CONTE 1 E CONTE 2. Michele Arnese e Andrea Mainardi per Startmag.it il 9 settembre 2019. 

Pochette a tre punte. Cravatta pastello per inaugurare il governo che definisce della sobrietà, del rigore, della mitezza. Giuseppe Conte si presenta così alla Camera. L’avvocato del popolo del giugno 2018 oggi rimarca l’intenzione di avviare una stagione riformatrice. Punta a durare tutta la legislatura. Vanno in soffitta i cavalli di battaglia della Lega come la flat tax – che nel 2018 definiva obiettivo. E fa capolino un accenno non esplicito allo ius soli. La critica all’Europa è un ricordo. Anzi, rileva “punti di convergenza decisamente promettenti con la neo-presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen”.

Un’ora e mezza di allocuzione. Il premier batte il suo precedente record, con il discorso più lungo di presentazione di un nuovo esecutivo della storia repubblicana. Le 5860 parole di un anno e mezzo fa sono lievitate a 7334.

Quindici mesi fa replicava a chi storceva il naso per un governo nascente accusato di “netta cesura con le prassi istituzionali”. “Tutto vero – rivendicava in gialloverde – Dirò di più: non credo si tratti di una semplice novità. La verità è che abbiamo apportato un cambiamento radicale del quale siamo orgogliosi”. In giallorosso, adesso il premier intende aprire una “nuova e risolutrice stagione riformatrice”. “Equilibrio e misura, sobrietà e rigore affinché i cittadini possa guardarci con rinnovata fiducia”. Detta: “Vogliamo lasciarci alle spalle le dichiarazioni roboanti. Prendiamo l’impegno a curare le parole e a utilizzare un lessico più consono e rispettoso”.  E Salvini è bell’e sistemato.

Così vanno in soffitta i riferimenti al populismo. Diceva in giugno: “Le forze politiche che integrano la maggioranza di governo sono state accusate di essere populiste, antisistema. Bene, sono formule linguistiche che ciascuno è libero di declinare. Se populismo è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente, e qui traggo ispirazione dalle riflessioni di Dostoevskij, se antisistema significa mirare a introdurre un nuovo sistema che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere, ebbene, queste forze politiche meritano entrambe queste qualificazioni”. Oggi l’esecutivo socialdemocratico (come lo aveva definito giorni fa Start Magazine) cita il socialdemocratico Giuseppe Saragat: “Fate che il volto di questa Repubblica sia un volto umano”. Stessa citazione ripresa qualche mese fa da Sergio Mattarella nel trentennale della morte di Saragat.

Il colpo d’occhio è evidente. A Montecitorio il presidente del Consiglio parla con alla sua destra il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, alla sinistra quello degli Esteri, Luigi Di Maio. Nel 2018 occupava lo stesso posto il pentastellato, Matteo Salvini non c’è più. E su sicurezza e immigrazione si cambia registro. Diceva all’epoca: “Metteremo fine al business dell’immigrazione, che è cresciuto a dismisura sotto il mantello della finta solidarietà”. Adesso si sfuma nel perseguire “una politica modulata su più livelli, basata su un approccio non più emergenziale, bensì strutturale, che affronti la questione nel suo complesso, anche attraverso la definizione di un’organica normativa che persegua la lotta al traffico illegale di persone, ma che si dimostri capace di affrontare più efficacemente i temi dell’integrazione, per coloro che hanno diritto a rimanere e dei rimpatri, per coloro che non lo hanno”. Aggiunge in un altro passaggio: “Promuoveremo una più efficace protezione dei diritti della persona, anche di nuova generazione”. Apertura allo Ius soli, a cui il premier si era detto favorevole ad aprire una discussione nel marzo scorso? Intanto si rivedranno i decreti sicurezza “alla luce delle osservazioni critiche formulate dal presidente della Repubblica”. E prevede l’istituzione di “corridori umanitari europei”. New entry gradita alla Comunità di Sant’Egidio.

Fraseggio nuovo anche in politica estera. Nel discorso 2018, ribadiva “la convinta appartenenza del nostro Paese all’Alleanza atlantica con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato”; ma pure annunciava: “Saremo fautori di una apertura verso la Russia. Ci faremo promotori di una revisione del sistema delle sanzioni”. Cenno assenti questa volta, confermando il collocamento dell’Italia nell’asse europeo e atlantico, con un’attenzione particolare al Mediterraneo, in particolare per la stabilizzazione della Libia, e ai Balcani. I rapporti con Russia, India e Cina proseguono, ma “dovranno essere declinati sempre e comunque con modalità compatibili con la nostra vocazione euro-atlantica”.

Sul fisco, si conferma: scompare la flat tax. Definita obiettivo nel 2018, non ce n’è traccia nel lungo discorso giallorosso, dove compaiono espressioni come “progressività”, “riduzione tasse sul lavoro”. Obiettivo scongiurare “l’aumento automatico dell’Iva e avviare un alleggerimento del cuneo fiscale”. Non taglio, ma alleggerimento, dunque.

Si mostra preoccupato per i conti. “Le risorse saranno reperite con una strategia organica e articolata, che includerà un controllo rigoroso della qualità della spesa corrente”. A questo riguardo aggiunge: “Vanno completate e rese efficaci le attività di spending review” e “un attento riordino del sistema di tax expenditures, che salvaguardi l’importante funzione sociale e redistributiva di questo strumento, nonché un’efficace strategia di contrasto all’evasione”.

Cade la linea dura dell’ex ministro 5s Toninelli quando il programma di governo giallo-rosso parla di revisione – quindi: non revoca, come annunciato da un anno ogni giorno dai Pentastellati – delle concessioni autostradali. Ma oggi il premier ha scandito: “Quanto al procedimento in tema di concessioni autostradali avviato a seguito del crollo del ponte Morandi, voglio chiarire che questo Governo porterà a completamento il procedimento senza nessuno sconto per gli interessi privati”. Parlando dunque di procedimento – termine asettico – dunque di revoca? Boh.

A Pentastellati comunque concede il “no a nuove concessioni per le trivellazioni” trangugiato dal Pd (ma gli effetti in corso sono già rilevanti per le concessioni in corso, come approfondito da Start in questo articolo) e ricorda l’obiettivo della riduzione del numero dei parlamentari.

Molto peso alla parità di genere, gradito a sinistra. E poi un impegno a curare le parole, a utilizzare un lessico più consono, più rispettoso delle persone, della diversità delle idee: “La lingua del governo sarà una lingua mite; perché siamo consapevoli che la forza della nostra azione non si misurerà con l’arroganza”.

Morale: Salvini, tiè.

RUTELLI VERSIONE PACIFICATORE. Monica Guerzoni per il ''Corriere della Sera'' il 9 settembre 2019.

Gentiloni in Europa, Franceschini alla Cultura, Renzi sponsor della nuova alleanza... E lei, Francesco Rutelli?

«Non ho mai avuto gelosie e ho cercato di promuovere persone preparate, competenti e diverse per cultura politica — risponde il presidente dell’Anica, che è stato sindaco di Roma, ministro, vicepremier e fondatore della Margherita —. Sono contento e osservo che molti oggi preferiscono gli obbedienti, meglio se incompetenti».

Non approva le nozze di convenienza tra il M5S e Pd?

«La mia critica sulle competenze è generale e vale per tante esperienze. Di questa nuova maggioranza penso che sia nata ribaltando il motto popolare, il miglior attacco è la difesa».

Durerà l’esecutivo della «pacificazione nazionale»?

«Compito del nuovo governo è tirare fuori il Paese da una fase di polarizzazione e scontro quotidiano. C’è del buono nei nemici di ieri che si alleano, come era accaduto tra Lega e M5S. Si impara a non denigrare l’altro come l’origine di tutti gli orrori e le cospirazioni. Quanto alla durata, il governo è alla prova del governare bene».

Gli italiani non brindano. Rimpiangono Salvini?

«Simon Peres anni fa mi disse “i sondaggi sono come le previsioni del tempo, non conosco nessuno che li collezioni”. Non credo che Salvini sia fascista e ricordo che molti leghisti nei territori sono stati buoni amministratori. Prima o poi dovrà avere un approccio meno partigiano, se vuole candidarsi a guidare il Paese».

Le piace l’idea di una legge elettorale proporzionale per ridimensionare la Lega?

«Sul Vocabolario Treccani trova un neologismo che ho creato nel 2010, post-bipolarismo. Quindi sì, sono d’accordo. In tutta Europa il bipolarismo destra—sinistra è esaurito e, svanito il dominio dei partiti tradizionali, tutti devono formare coalizioni. Qualche volta funzionano, altre falliscono».

Ha apprezzato le scelte di Mattarella sulla crisi?

«Il Quirinale con la sua eccezionale tenuta spicca, brilla grazie al presidente Mattarella, che non aveva esitato dopo il voto a dare il governo a Lega e 5 Stelle».

Anche Renzi si è formato nella Margherita ed è uno dei «Rutelli Boys». Staccherà lui la spina al governo?

«Renzi ha un grande talento e lo ha confermato in queste settimane aprendo ai 5 Stelle, anche se ha troppo ego. In questa epoca è difficile che un cammello passi nella cruna dell’ego».

Zingaretti era contrario, poi ha compattato il partito.

«Doveva dare un governo ordinato al Pd e lo ha fatto. Adesso il primo problema che ha davanti e che spero riuscirà a risolvere è garantire il pluralismo. Io uscii dal partito dopo averlo fondato perché si era tornati troppo rapidamente alla fisionomia dei Ds. Il Pd è ancora un punto interrogativo e Zingaretti, non essendo entrato al governo, può e deve lavorare su identità e contenuti».

Franceschini alla Cultura?

«Il suo ruolo dimostra quanto siano preziosi la professionalità e una esperienza solida e di qualità. Ai Beni Culturali ha fatto molto bene nel passato e, lo dico da presidente dell’industria del cinema, non potrà che fare bene di nuovo».

Lei è un po’ il «king maker» anche del ministro Spadafora, suo capo segreteria ai Beni culturali nel 2006.

«Vincenzo ha equilibrio politico e buon senso ed è rimasto fedele alle sue battaglie sui diritti civili, senza rinnegarle».

Gentiloni in Europa può fare la differenza?

«Sono felice per la qualità della presenza italiana in Europa grazie a Paolo. Faccio notare che nella foto con Ursula von der Leyen lo sfondo è la firma del Trattato di Roma. A Bruxelles, in questa Commissione, Paolo è l’unico che può dire di essere stato di casa in quella sala del Campidoglio, dove nel ‘57 è nata l’Europa».

Lei fondò i Verdi Arcobaleno: perché il centrosinistra ha lasciato il tema ecologista al M5S?

«La vera rivoluzione verde da fare non è la sfilata dei no, né la litania di obiettivi troppo alti e remoti per il clima. È un piano di investimenti imponente in cura e manutenzione del territorio e delle città, che crea professioni e posti di lavoro. Quante decine di miliardi sono bloccati per burocrazia e inefficienza?».

Lei e sua moglie Barbara avete adottato tre figli su quattro. La linea sugli sbarchi deve cambiare?

«La mia famiglia ha fatto dell’accoglienza una ragione di vita. In fondo le adozioni sono integrazioni toste e so quindi quanto sia difficile, ma non si può parlare solo di sbarchi. Di questo dossier deve occuparsi personalmente il premier Conte, perché è una partita strategica. Il contrasto del traffico di esseri umani non è una materia della destra, ma della Repubblica».

CARLO DE BENEDETTI SCATENATO DALLA GRUBER: "NON VOTEREI LA FIDUCIA AL GOVERNO M5s-PD".

Carlo De Benedetti, voterebbe la fiducia al governo M5S-Pd?

"No. Abbiamo visto di tutto, ricchi premi e cotillon. Il premio del trasformismo, a Conte. Della falsità a Renzi. Salvini ha confuso il Viminale col Quirinale. Premio assoluto, alla maggiore incompetenza: Di Maio"

Da Il Fatto Quotidiano il 9 settembre 2019. Per Carlo De Benedetti “le elezioni sarebbero state meglio“. L’imprenditore ospite di Lilli Gruber a Otto e Mezzo su La7 spara sul nuovo governo: “Io non voterei la fiducia“, spiega, per poi aggiungere che “il Pd rischia di più da questa alleanza, ma è destinato a restare. Invece i Cinquestelle sono destinati a scomparire“. La posizione di Carlo De Benedetti, favorevole al ritorno alle urne, è anche quella tenuta del quotidiano La Repubblica del quale è stato editore fino a due anni fa, quando ha lasciato al figlio Marco, giocando comunque un ruolo decisivo nel passaggio dalla direzione di Mario Calabresi a quella di Carlo Verdelli: “Leggo La Repubblica con grande entusiasmo tutte le mattine e talvolta anche le sere. Verdelli ha restituito un’anima al giornale che è ora un giornale dove si discute, una cosa che si era persa anche per nostra incapacità“, risponde infatti De Benedetti alla Gruber. Proprio ospite della trasmissione Otto e Mezzo in passato aveva criticato il quotidiano. “Per fortuna”, ha detto rispondendo alla domanda sul cambio di direzione, sostenendo poi di non avere influenza sulla linea editoriale di La Repubblica. “Non è ispirata da me – ha detto – ma certo non faccio mistero delle mie idee”. L’imprenditore è convinto che con le elezioni “gli italiani avrebbero scelto tra chi vuole rimanere con l’Europa e chi vuole stare con la Russia. Gli europeisti avrebbero vinto e ci saremmo tolti di torno Salvini“. Per De Benedetti “Conte è un manager della politica con marionette intorno” e il suo governo durerà “finché lo vorrà Renzi“. Infatti prevede che l’ex premier e segretario Pd “farà un partito tra 2-3 mesi che fiancheggerà il governo con la scusa di un riequilibrio al centro”. De Benedetti che in passato era stato fan di Renzi ora si dice “deluso” e spiega: “Mi aveva affascinato molto la sua intelligenza. È una spugna”. “I padri di questo governo si chiamano Renzi e Grillo, non mi sembra un grande albero genealogico”, prosegue. “Ho trovato bellissimo il discorso di Conte al Senato lo scorso 20 agosto – aggiunge – Ma poi ho ritenuto inadeguato sedersi con il Pd dopo aver firmato tutti i decreti sicurezza, la Diciotti. Gestisce la politica come se dovesse rispondere agli azionisti, che per lui sono il popolo“. Quindi De Benedetti ribadisce che non voterebbe la fiducia la governo perché “ad agosto è successo di tutto, l’unico che si è comportato in maniera impeccabile, cioè secondo quanto previsto dalla Costituzione, è stato il Presidente Mattarella“. Per l’imprenditore “il premio del trasformismo va a Conte, quello della falsità a Renzi. Salvini ha confuso il Viminale con il Quirinale, pensava che tutto dipendesse da lui ma per fortuna non è così”. “Ma il premio assoluto per maggiore incompetenza spetta a Di Maio, che è riuscito a far richiamare il proprio ambasciatore dalla Francia, un paese che ci è sempre stato amico, e adesso fa il ministro degli Esteri“, afferma De Benedetti. Per poi chiudere con la profezia: “Il Pd rischia di più da questa alleanza, ma è destinato a restare. Invece i 5 Stelle sono destinati a scomparire. Non credo nei partiti che non hanno un forte radicamento culturale“.

Il bacio della vita. Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano del 11 settembre 2019 – Gli endorsement al Conte-2 cominciavano a farsi preoccupanti: veri e propri baci della morte. Poi è arrivato provvidenziale il voto di sfiducia di Carlo De Benedetti. Un voto tutt’altro che sorprendente: bastava leggere Repubblica e l’Espresso, pro-elezioni e anti Conte proprio come Salvini. Ma decisamente beneaugurante per il nuovo governo, vista la miseranda fine di quelli sposati in passato dall’Ingegnere e dai giornali sottostanti. Più che un finanziere e un editore, CdB è una bussola: se un governo gli piace, sarà un disastro; se non gli piace, il successo è garantito. Veltroni? Un genio, infatti fondò il Pd, Prodi affondò e tornò B. Monti? Un toccasana, infatti il Pd aveva le elezioni in tasca, poi appoggiò i tecnici e finì pari col M5S. Rodotà al Quirinale? Pussa via, molto meglio Napolitano a 88 anni e poi il governo Letta con B., quello che gli aveva scippato la Mondadori comprando giudici e sentenze. Renzi? “Un fuoriclasse” col contorno di Verdini, Alfano e referenzum. Prima del 4 marzo 2018 CdB riabilitò pure il Caimano contro “Di Maio peggiore di tutti i mali”. Poi si capì perché Renzi era un fuoriclasse: fu lo stesso CdB a svelare nel 2015 al suo broker che Matteo suo gli aveva spifferato in anteprima il decreto Banche popolari, facendogli guadagnare in Borsa 600 mila euro. Quelli sì che erano governi. Come quello di Ciampi, che nel ‘94, in articulo mortis, regalò le frequenze telefoniche alla sua Omnitel. O come quelli della Prima Repubblica che gli compravano le telescriventi obsolete dell’Olivetti in cambio di mazzette. Renzi poi scriveva le leggi a gentile richiesta di CdB, che lo raccontò alla Consob: “Io gli dicevo che doveva toccare per primo il problema lavoro e il Jobs Act è stato… – qui lo dico senza vanto, anche perché non mi date una medaglia – ma il Jobs Act gliel’ho suggerito io… e lui poi è stato sempre molto grato perché è l’unica cosa che gli è stata poi riconosciuta”. L’Ingegnere dettava e il Fuoriclasse scriveva, come Totò e Peppino. Fuoriclasse, poi, si fa per dire. Matteo – verbalizzò CdB alla Consob – è “un cazzone” e “capisce poco di economia”: il suo non era un governo, ma una combriccola di “quattro ministri” pilotati da lui in pranzi e cene a Palazzo Chigi o a casa sua, in veste di “advisor gratuito e saltuario” di Renzi, Boschi e Padoan. Ecco, purtroppo pare che Conte e Di Maio non abbiano queste belle usanze. Dunque l’uno è un “trasformista” (non come il Pd che governava con B.) e l’altro “il più incompetente di tutti”. Sono complimenti che tutti sognano, ma pochi si meritano. Con tutti i guai che hanno Conte e Di Maio, gli mancava pure un elogio dell’Ingegnere.

''LA NOSTRA LINGUA SARÀ MITE''. Da Ansa il 9 settembre 2019. Il premier, Giuseppe Conte, presenta alla Camera il programma del nuovo governo giallorosso. Al centro, la legge di bilancio e le politiche migratorie, ambiente, diritti e riforme, in cerca di un rapporto più forte con l'Europa e con più voce in capitolo. "Sono molte le sfide che ci attendono - ha detto parlando della manovra - a partire dalla prossima sessione di bilancio, che dovrà indirizzare il Paese verso una solida prospettiva di crescita e di sviluppo sostenibile, pur in un quadro macroeconomico internazionale caratterizzato da profonda incertezza". "Siamo consapevoli che questa manovra sarà impegnativa. La sfida più rilevante, per quest'anno, sarà evitare l'aumento automatico dell'Iva e avviare un alleggerimento del cuneo fiscale". "Scarsa formazione, carente dotazione di conoscenze e di competenze, difficoltà di conciliare vita familiare e vita lavorativa" saranno al centro dell'azione di governo. "Scuole e università di qualità, asili nido e servizi alle famiglie, specialmente quelle con figli, saranno dunque le prime leve sulle quali agire. Il primo, immediato intervento sarà sugli asili nido. Non possiamo indugiare oltre". Conte ha anche garantito che il taglio dei parlamentari sarà inserito nel primo calendario utile in Aula. E che verrà avviato un sistema di riforma del sistema di voto.

Durante l'intervento dai banchi della Lega e di FdI si sono alzati cori: "Bibbiano, Bibbiano". Un passaggio dell'intervento di Conte è stato dedicato alla questione concessioni autostradali. "Renderemo più efficiente e razionale - ha detto il premier -  il sistema delle concessioni operando una progressiva e inesorabile revisione di tutto il sistema. Quanto al tema di concessioni autostradali avviato a seguito del crollo del ponte Morandi, porteremo a completamento il procedimento senza nessuno sconto per gli interessi privati, avendo quale obiettivo esclusivo la tutela dell'interesse pubblico e la memoria delle 43 vittime, una tragedia che rimarrà una pagina indelebile della nostra storia patria". "Prima di avviare le mie comunicazioni in quest'Aula - ha esordito - concedetemi innanzitutto di rivolgere un saluto e un ringraziamento al presidente della Repubblica il quale anche in queste ultime fasi determinanti per la vita della Repubblica esercitando con scrupolo le sue prerogative istituzionali ha guidato con equilibrio e saggezza ed è stato riferimento imprescindibile per tutti". "Questo progetto politico - ha detto il premier - segna l'inizio di una nuova, che confidiamo risolutiva, stagione riformatrice". "E' necessario - ha detto Conte - recuperare "sobrietà e rigore affinché i nostri cittadini possano vedere con rinnovata fiducia nelle istituzioni". "Come dimostra la sensibile riduzione dei tassi rispetto ai livelli dello scorso ottobre, i mercati finanziari stanno investendo con fiducia sulla nuova fase che l'Italia sta attraversando. La diminuzione della spesa per interessi pagati sul nostro debito pubblico - ha detto - è una vera e propria "riforma strutturale", perché ci permette di allentare quello che è stato il maggior freno alla crescita del nostro Paese negli ultimi decenni". "Io e tutti i miei ministri - ha promesso - prendiamo il solenne impegno, oggi davanti a voi, a curare le parole, ad adoperare un lessico più consono e più rispettoso delle persone, della diversità delle idee. "Come ha detto Saragat - ha citato Conte - fate che il volto di questa Repubblica sia un volto umano". "Ho sempre inteso - ha puntualizzato Conte - il mio ruolo come servizio al Paese e nell'esercitare il mio servizio ho cercato di guardare sempre al bene comune senza lasciare che prevaricassero interessi di parte", ha aggiunto il presidente del Consiglio.  "Il programma che mi accingo a illustrare - ha spiegato Conte - non è un mero elenco di proposte eterogenee, nè una sommatoria dei programmi delle diverse forze politiche della maggioranza. al contrario è sintesi programmatica, un progetto del Paese a favore dei cittadini.  È un programma che ha l'ambizione di costruire la società in cui vogliamo vivere noi stessi che abbiamo un po' di anni sulle spalle ma che vogliamo consegnare ai nostri figli e nipoti nella consapevolezza che il patto politico e sociale che proponiamo si prospetta necessariamente per essere sostenibile in una dimensione intergenerazionale". "All'interno di questi valori, in questa cornice di riferimento costituzionalmente caratterizzata, si ascrive la nostra azione riformatrice, racchiusa in un programma, del quale sarò il garante e il primo responsabile e che cercherò di tratteggiare - nelle sue linee essenziali - in questo mio intervento". "Ci prefiggiamo di introdurre una legge sulla parità di genere nelle retribuzioni: è una battaglia che vogliamo portare a termine al più presto in omaggio a tutte le donne", ha promesso il premier.

Governo, la Camera vota la fiducia con 343 sì al Conte bis. Proteste della Lega. Hanno votato contro 263 deputati, 3 gli astenuti. ll governo rivedrà i decreti sicurezza.  Il premier promette: "Useremo un lessico più consono e rispettoso". "Legge sulla parità di genere negli stipendi". "Completeremo l'autonomia regionale ma no a Italia a due velocità". Nella replica attacca Salvini: "In Europa bisogna andarci e studiare". In piazza Montecitorio la protesta di Lega e Fratelli d'Italia. Silvio Buzzanca e Monica Rubino il 9 settembre 2019 su La Repubblica. La Camera ha votato la fiducia al governo Conte. I sì sono stati 343 i no 263, gli astenuti 3. I deputati hanno concesso il via libera al nuovo governo dopo avere discusso tutto il pomeriggio e ascoltato la replica del presidente del Consiglio. Un discorso a singhiozzo, interrotto continuamente dai banchi del centrodestra. Alcuni deputati seduti nella parte alta dell'emiciclo sono arrivati anche a sollevare una poltrona, gridando "cadrega", poltrona in veneto, e intonando il coro "poltrona, poltrona". Alla fine hanno votato a favore  del nuovo esecutivo, come previsto, il Movimento Cinque Stelle, il Pd e Liberi e Uguali. Contro, invece, la Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia. Lega e  Fratelli d'Italia, oltre a dire no alla fiducia al governo, hanno espresso la loro contrarietà al nuovo esecutivo con una manifestazione in piazza Montecitorio alla quale però non ha partecipato Forza Italia. In mattinata Silvio Berlusconi ha riunito i gruppi parlamentari azzurri a Montecitorio per indicare la prossima linea politica."Prima di avviare le mie comunicazioni concedetemi di rivolgere un saluto e un ringraziamento al presidente della Repubblica, un riferimento imprescindibile". Il pallottoliere dunque sorride al nuovo governo. Alla Camera i numeri non prevedevano problemi problemi e problemi non ce ne sono stati. E anche al Senato, dove la fiducia sarà votata domani, la conta non preoccupa, almeno per il momento: l'asticella dovrebbe fermarsi al massimo a quota 172, anche se sono possibili defezioni dell'ultima ora. Nel dettaglio: Movimento e Pd hanno 155 voti (non si contano i due dissidenti interni, il 5S Gianluigi Paragone e il dem Matteo Richetti, più un'altra senatrice assente da tempo), ai quali vanno sommati undici senatori del Misto - quattro sono di LeU, quattro ex grillini, due del Maie e Riccardo Nencini - tre del gruppo delle Autonomie, tre senatori a vita (Liliana Segre, Elena Cattaneo e, probabilmente, Mario Monti). Altri tre senatori, quelli dell'Svp, si asterranno, ma poi sosterranno l'esecutivo nel corso della navigazione. Restano le polemiche e gli scontri registrati durante la replica. Il premier ha risposto alle molte obiezioni sollevate durante il dibattito e non ha rinunciato ad alcune frecciate polemiche verso gli ex alleati. Ha detto, per esempio "che una forza politica, e un leader politico, possa decidere ogni anno di poter portare il paese e elezioni è irresponsabile". Un attacco a Matteo Salvini. Come quando, sempre senza nominarlo, ma alzando il tono della voce ha replicato sulla tutela degli interessi degli italiani. "Mi sembrava che per 14 mesi avessimo una concezione coincidente, adesso scopro che non è così", dice. Per me, continua il premier tutela degli interessi "significa ottenere un portfolio di primaria importanza, prendere parte a tutti i Consigli europei, a tutti, ci siamo intesi, e non a nessuno. Arrivare preparati, studiare i dossier, negoziare e cercare di orientare le discussione a tutela dell'interesse degli italiani", conclude. Un altro affondo Conte lo ha portato sulla sicurezza.  "State tranquilli: pensavate di avere ipotecato la rappresentanza e il presidio del comparto della sicurezza, ma non è così", ha detto il premier rivolgendosi ai banchi della Lega.  "E' inaccettabile per il governo che chi presta il proprio servizio per proteggere i cittadini sia costretto a operare in condizioni di carenza dei mezzi e personale. Tuteleremo anche centri urbani e delle periferie", ha affermato il presidente del Consiglio. Il premier ha anche risposto a chi lo ha accusato di volere smantellare il welfare. "Sul reddito di cittadinanza, qualcuno si è interrogato: cosa farete? Il reddito di cittadinanza è una misura di protezione sociale che rimarrà assolutamente in piedi". - ha detto.  - "Non intendiamo affatto smantellare le misure di protezione sociale e welfare ma anzi nei ventinove punti del programma le misure di welfare a favore dei redditi più svantaggiati e dei disabili sono al centro della nostra azione. State tranquilli". Il presidente del Consiglio aveva aperto la giornata dedicata alla fiducia cominciando il suo discorso in aula ringraziando il Capo dello Stato per la sua guida. "Il programma che mi accingo a presentare è una sintesi che guarda al futuro", ha proseguito,  "questo progetto politico segna l'inizio di una nuova stagione riformatrice". Del programma "sarò il garante e il primo responsabile", ha affermato Conte, così come nel 2018 fu garante del "contratto" giallo-verde. Un discorso durato questa volta un'ora e 30 minuti - battendo di un quarto d'ora il record di più lungo della storia della Repubblica già segnato quattordici mesi fa -  e interrotto per cinquanta volte sia dagli applausi della nuova maggioranza sia dalle proteste delle opposizioni. Conte ha citato Saragat ("Fate che il volto di questa Repubblica sia un volto umano") per sottolineare il cambiamento dei toni rispetto all'esperienza precedente a trazione salviniana: "Io e tutti i miei ministri - ha afferma- prendiamo il solenne impegno, oggi davanti a voi, a curare le parole, ad adoperare un lessico più consotono e più rispettoso delle persone, della diversità delle idee. La lingua del governo sarà mite, l'azione non si misura con l'arroganza delle parole". Il primo banco di prova sarà la manovra. Ma il presidente del Consiglio ha annunciato riforme nel campo del fisco e della giustizia, il taglio dei parlamentari e una nuova legge elettorale, l'autonomia regionale e la revisione del decreto sicurezza, opere pubbliche e più lavoro, un'Italia più verde e più "smart". Ha concluso con un elogio alle forze politiche - Pd, M5s e Leu -  che comporranno la nuova maggioranza: "Hanno dato prova di coraggio. Hanno messo da parte i "pre-giudizi", che come riconosceva Hanna Arendt, esistono in politica, sono in parte ineliminabili e sono un pezzo del nostro passato. Oggi hanno accettato di affidarsi ai giudizi e si impegnano a sollecitare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni". E ha stigmatizzato infine gli "ignobili attacchi" rivolti a due ministre del suo goveno, ovvero Teresa Bellanova e Paola De Micheli, invitando anche a una maggiore sobrietà nell'uso dei social network.

La manovra. Conte è partito dai temi economici, la legge di bilancio innanzitutto. "Sono molte le sfide che ci attendono - ha affermato - a partire dalla prossima sessione di bilancio, che dovrà indirizzare il Paese verso una solida prospettiva di crescita e di sviluppo sostenibile, pur in un quadro macroeconomico internazionale caratterizzato da profonda incertezza". Lo scopo principale è "evitare l'aumento dell'Iva e avviare un alleggerimento del cuneo fiscale".

Lavoro e Sud. La sfida sul piano interno "è quella di ampliare la partecipazione alla vita lavorativa delle fasce di popolazione finora escluse. Esse si concentrano soprattutto tra i giovani e le donne - ha continuato Conte -  particolarmente nel Mezzogiorno. Vogliamo offrire loro, come a tutti gli altri lavoratori, opportunità di lavoro, salari adeguati e condizioni di vita degne di un Paese civile".

Scuola e famiglia al centro: intervento su asili nido. "Scarsa formazione, carente dotazione di conoscenze e di competenze, difficoltà di conciliare vita familiare e vita lavorativa" saranno al centro dell'azione di governo, ha sottolineato ancora il premier. "Scuole e università di qualità, asili nido e servizi alle famiglie, specialmente quelle con figli, saranno dunque le prime leve sulle quali agire. Il primo, immediato intervento sarà sugli asili nido. Questo governo si adopererà per la cancellazione totale della retta degli asili nido a partire dal 2020-2021" per i redditi più bassi.

Italia "smart nation". "La nostra forza che ci viene universalmente riconosciuta - ha aggiunto poi il presidente del Consiglio -  è un sistema industriale che fa incontrare la produzione di massa con la qualità del prodotto. Per questo abbiamo creato un ministero dedicato all'Innovazione tecnologica e alla digitalizzazione che aiuti le imprese, oltrechè la pubblica amministrazione, a trasformare l'Italia in una vera e propria smart nation". Per Conte di qui a un anno l'obiettivo è "una unica identità digitale", oltre a più investimenti sulla banda larga.

Infrastrutture, Ponte Morandi tragedia indelebile. Conte ha ricordato la "memoria delle 43 vittime" del crollo del Ponte Morandi, "una tragedia che rimarrà una pagina indelebile nella nostra storia patria". E promette la revisione della concessioni autostradali "senza sconti". Poi aggiunge: "La rivoluzione dell'innovazione non può realizzarsi senza un'adeguata rete di infrastrutture tradizionali dei trasporti, delle reti dei servizi pubblici essenziali, senza un'attenta politica di difesa del territorio e dell'ambiente".

Ambiente. Proprio l'ambiente è al centro di un nuovo corso dello sviluppo economico del Paese: "Nella prospettiva di un'azione riformatrice coraggiosa e innovativa, obiettivo primario del governo sarà la realizzazione di un 'green new deal', che promuova la rigenerazione urbana, la riconversione energetica verso un progressivo e sempre più diffuso ricorso alle fonti rinnovabili, la protezione della biodiversità e dei mari, il contrasto ai cambiamenti climatici".

Ricostruzione zone terremotate. Conte ha chiarito anche che "la ricostruzione sarà una questione prioritaria di questo governo. Il mio primo impegno pubblico in Italia sarà proprio la visita ad alcuni Comuni colpiti dal sisma: incontrerò sindaci, rappresentanti delle istituzioni locali, semplici cittadini".

Valorizzare turismo e patrimonio culturale. "Una visione coerente e integrata dell'internazionalizzazione del Paese non può trascurare il ruolo di traino del turismo - ha aggiuntoil presidente del Consiglio -  è un settore chiave che contribuisce per più del 10% al nostro Pil. Dobbiamo potenziarlo anche attraverso una seria revisione della sua governance pubblica".

Riforma fiscale. Conte ha annunciato poi una riforma fiscale chiara e trasparente, affinché "le tasse le paghino tutti ma meno". Accenna anche alla riduzione del cuneo fiscale, al salario minimo, a una legge sulla rappresentanza sindacale. E a una norma sulla parità di genere negli stipendi.

Taglio dei parlamentari. Applausi fragorosi dai banchi del M5s quando il premier ha affrontato il tema del taglio dei parlamentari: "Per quanto riguarda il tema delle riforme costituzionali, è nostra intenzione chiedere l'inserimento, nel primo calendario utile della camera dei deputati, del disegno di legge costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari". Ma ha puntualizzato: "Questa riforma dovrà essere accompagnata da un percorso di garanzia costituzionale, per consentire a tutte le forze politiche di essere rappresentate in Parlamento".

Riforma elettorale. In questo quadro rientra anche una nuova legge elettorale: "Occorrerà avviare un percorso di riforma, quanto più possibile condiviso in sede parlamentare, del sistema elettorale".

Autonomia differenziata. Conte ha  assicurato che il "processo di autonomia differenziata" sarà portato a termine, a patto che sia "giusta e cooperativa", ossia con l'obiettivo di garantire ai cittadini di tutte le regioni "la medesima qualità dei servizi", in modo da non creare "un Paese e due velocità".

Sanità. Difesa della sanità pubblica e nuove assunzioni. Conte infatti ha affermato: "Il governo si impegnerà a difendere la Sanità pubblica e universale, valorizzando il merito e predisponendo un piano di assunzioni straordinarie di medici e infermieri, potenziandone i percorsi formativi".

Rapporto con l'Europa. Conte ha sottolineato la necessità di "migliorare il patto di stabilità e di crescita e la sua applicazione, per semplificarne le regole, evitare effetti pro-ciclici e sostenere gli investimenti a partire da quelli legati alla sostenibilità ambientale e sociale". Poi ha rimarcato: "Difendere l'interesse nazionale non significa abbandonarsi a sterili ripiegamenti isolazionistici, ma mettere la propria Patria al di sopra di tutto e non farsi mai condizionare da pressioni di poteri economici e da indebite influenze esterne".

Riforma della giustizia. Il premier ha annunciato poi una riforma della giustizia civile, penale e tributaria "anche attraverso una drastica riduzione dei tempi, e una riforma del metodo di elezione dei membri del Consiglio superiore della Magistratura. Questo piano riformatore dovrà salvaguardare il fondamentale principio di indipendenza della magistratura dalla politica".

Acqua pubblica. Un richiamo anche a un cavallo di battaglia del M5s: "La tutela dei beni comuni, infine, è un valore essenziale, che dobbiamo adoperarci per presidiare a tutti i livelli. Intendiamo approvare in tempi celeri una legge sull'acqua pubblica, completando l'iter legislativo in corso".

Difesa del pluralismo nell'informazione. Un ringraziamento rivolto anche alla stampa: "Questo governo sarà anche particolarmente sensibile nella promozione del pluralismo dell'informazione. Ringrazio, in proposito, la stampa, per il suo insostituibile ruolo di 'termometro' della democrazia: la garanzia di un'informazione libera, imparziale e indipendente è uno dei nodi nevralgici che definiscono l'affidabilità e la tenuta del nostro Paese e delle sue istituzioni", ha affermato il presidente del Consiglio.

Migranti, rivedere il decreto sicurezza bis. Quanto al delicato tema migranti, Conte ha sottolineato la necessità di un approccio strutturale  e non più emergenziale, "anche attraverso una normativa che persegua la lotta al traffico di persone e all'immigrazione clandestina, ma che affronti più efficacemente i temi dell'integrazione per coloro che hanno diritto a rimanere e dei rimpatri. Rivedremo la disciplina relativa alla sicurezza alla luce delle osservazioni formulate dal presidente della Repubblica. Non si può più prescindere da un'effettiva solidarietà con gli altri paesi europei".

Collocamento euroatlantico dell'Italia. A differenza del discorso fatto nel precedente governo, in cui Conte annunciava un'apertura alla Russia, questa volta il presidente del Consiglio ha confermato il collocamento dell'Italia nell'asse europeo e atlantico, ribadendo l'appartenenza alla Nato. Con un'attenzione particolare al Mediterraneo, in particolare per la stabilizzazione della Libia, e ai Balcani. "Questo è lo spirito con cui intendiamo continuare a sviluppare i rapporti con i grandi attori globali, come India, Russia e Cina - ha sottolineato il premier - e con le aree di maggiore interesse per il nostro sistema produttivo. Tali rapporti che, anche in prospettiva, riteniamo di fondamentale importanza, dovranno essere declinati sempre e comunque, come ho appena detto, con modalità compatibili con la nostra vocazione euro-atlantica".

Federica Meta per corrierecomunicazioni.it il 10 settembre 2019. Fare dell’Italia una smart nation. È questo uno degli obiettivi del governo 5Stelle-Pd: ad annunciarlo il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, parlando alla Camera. “La nostra forza che ci viene universalmente riconosciuta è un sistema industriale che fa incontrare la produzione di massa con la qualità del prodotto; questa spiccata potenzialità deve essere adeguatamente sfruttata – ha sottolineato Conte – L’azione pubblica deve definire le regole del gioco e una visione di politica industriale aumentando gli investimenti pubblici. Per questo abbiamo creato un ministero dedicato all’Innovazione tecnologica (la ministra è Paola Pisano, ex assessora all’Innovazione della Città di Torino ndr) e alla digitalizzazione che aiuti le imprese oltreché la pubblica amministrazione per trasformare l’Italia in una vera e propria smart nation”. “Dobbiamo perseguire una strategia di azione che porti l’Italia a primeggiare, a livello mondiale, in tutte le principali sfide che caratterizzano la quarta rivoluzione industriale – ha spiegato – Una efficiente e razionale politica di investimenti ci consentirà di crescere nella digitalizzazione, nella robotizzazione, nell’intelligenza artificiale. Questo impegno non riguarda solo l’industria. L’innovazione deve essere il motore che imprime una nuova spinta a tutti i settori dell’economia e della società. La Pubblica Amministrazione dovrà essere alla testa di questo processo realizzando le infrastrutture materiali e immateriali necessarie”. “In questa direzione occorrono impegni concreti. Dobbiamo lavorare perché i cittadini abbiano un’unica, riassuntiva identità digitale di qui a un anno – ha proseguito – Dobbiamo dotare il Paese di una infrastruttura di comunicazione a banda larga nei prossimi anni. Dobbiamo rafforzare gli investimenti per il fondo di venture capital e sollecitare anche gli investimenti privati nel campo della innovazione tecnologica”.

Governo, deputati Lega interrompono Conte: Venduto! Elezioni! (LaPresse il 9 settembre 2019. ) - "Dignità, dignità". "Elezioni, elezioni". Sono questi i coro che i deputati leghisti hanno a lungo scandito nell'aula alla Camera nel corso della replica del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. "Venduto", è un'altra accusa dei parlamentari del Carroccio.

Alessandro Sala per Corriere.it il 9 settembre 2019. Revisione del decreto sicurezza, un ruolo nuovo in Europa, una nuova legge elettorale. Una manovra economica che proverà a conciliare sviluppo sostenibile, riduzione delle tasse e controllo del debito pubblico. L’avvio di un «green new deal» per puntare sull’economia circolare e sulla salvaguardia del territorio. E la trasformazione dell’Italia in una «smart nation», con una grande opera di digitalizzazione e di apertura all’innovazione tecnologica. Il capo del governo, Giuseppe Conte, ha presentato alla Camera le linee programmatiche del suo nuovo esecutivo e ora attende la prima fiducia. Un voto che non dovrebbe riservare sorprese, essendo la nuova maggioranza M5S-Pd-Leu piuttosto solida, almeno in questo ramo del Parlamento. Ma che viene accompagnato dalle tensioni scatenate dalla Lega e da Fratelli d’Italia prima nella manifestazione all’esterno di Montecitorio, tra slogan e qualche saluto romano, e poi in Aula con la dura contestazione allo stesso Conte, apostrofato con un «Venduto, venduto!» durante la replica del pomeriggio. Il premier ha risposto ai contestatori spiegando che l’Italia è una democrazia parlamentare e ha accusato i deputati della destra di avere fatto carta straccia della Costituzione e di avere sbagliato giuramento («perché i ministri che hanno giurato letteralmente hanno giurato di tutelare l’interesse esclusivo della nazione non del proprio partito»). Conte ha ricordato che andare al voto sarebbe stato irresponsabile perché non si può chiamare il Paese alle urne solo perché lo decidono una forza politica o il suo leader. E, senza citarlo direttamente, ha punzecchiato più volte Matteo Salvini ricordando che dopo la mozione di sfiducia i ministri leghisti non si sono dimessi e che «ai Consigli europei ci si deve andare sempre e bisogna andarci preparati ed è quello che noi faremo», riferimento neppure troppo velato alle assenze dell’ex ministro dell’Interno sulla scena Ue. Il leader della Lega, dal canto suo, aveva preso parte alla mobilitazione in piazza e aveva annunciato di voler fare «una opposizione in modo serio in Parlamento e in mezzo alla gente, da nord a sud, città per città». «Se per far dispetto a me si dovesse tornare indietro su quota 100 e tornare alla Fornero, o sul decreto sicurezza — aveva aggiunto —, non li lasceremo uscire da quel Palazzo, ci staranno giorno e notte, Natale e Ferragosto». A seguire i passaggi fondamentali delle dichiarazioni programmatiche illustrate dal capo del governo.

«Mattarella saggio e equilibrato». Alle 11.11 inizia l’intervento del premier Conte con un ringraziamento al presidente della Repubblica «che anche in queste ultime fasi determinanti per la vita della nostra Repubblica ha guidato il Paese con equilibrio e saggezza ed è stato riferimento imprescindibile per tutti». Conte esordisce parlando di un progetto politico «per una nuova fase riformatrice» e di un programma «che è una sintesi per l’Italia del futuro». Insiste sull’aggettivo «nuovo», che ripete più volte, parlando di un diverso metodo e di una correzione di quanto non ha funzionato nella precedente esperienza. Un’evoluzione ci sarà, assicura, e sarà anche e soprattutto di tipo «culturale».

Un nuovo linguaggio. Il primo sentito applauso arriva quando Conte dichiara di volere lasciare alle spalle «il frastuono dei proclami inutili e le dichiarazioni roboanti» a favore di «un nuovo lessico» e di una «lingua mite» perché «siamo consapevoli che la forza della nostra azione non si misurerà con l’arroganza delle nostre parole» (un appello in tal senso era stato lanciato nei giorni scorsi sul Corriere da un gruppo professori e ricercatori universitari). Precisa poi che la squadra, accomunata dall’obiettivo di un «nuovo umanesimo», sarà unita per il resto della legislatura. L’appello alla sobrietà è esteso anche alla comunicazione in Rete: «Mi auguro che la sobrietà» della maggioranza «possa essere contagiosa e orientare positivamente i comportamenti dei cittadini, a iniziare dall’uso responsabile dei social-network, che non di rado diventano ricettacoli di espressioni ingiuriose e di aggressioni verbali. Non posso non stigmatizzare, ancora una volta, gli ignobili attacchi indirizzati, nei giorni scorsi, a due mie ministre, la senatrice Teresa Bellanova e l’onorevole Paola De Micheli, alle quali rinnovo la mia partecipe vicinanza».

«Si parte dagli asili nido». Le prime misure che il nuovo governo si appresta ad adottare, spiega il premier, sono però nel campo della famiglia e dell’educazione. «Partiremo dagli asili nido — dice —. Non possiamo indugiare oltre. Bisogna lavorare per una integrazione sempre maggiore delle donne nella vita sociale e produttiva». Conte, che ricorda come la crescita dell’Italia non sia sufficiente a garantire sviluppo, parla poi della necessità di insistere sul tema della formazione e della preparazione dei giovani e annuncia un innalzamento dell’obbligo scolastico con un sempre maggiore sostegno alle famiglie a basso reddito.

«L’Italia sarà una smart nation». Conte ricorda che «questo è il governo più giovane della storia della Repubblica, e non per merito di chi parla che alza la media anagrafica». E per questo dovrà lavorare soprattutto per i giovani, «soprattutto quelli del Sud, costretti ad espatriare con conseguente declino della nazione». Primo obiettivo, in questo campo, la lotta al precariato, con un coordinamento tra azione pubblica e privata. Il governo dovrà dettare le regole del gioco e elaborare una politica industriale: «Rilanceremo gli investimenti — dice — e opereremo per trasformare l’Italia in una smart nation». Per questo, ricorda, è stato fortemente voluto il nuovo ministero dedicato all’innovazione tecnologica e alla digitalizzazione.

Autostrade e ponte Morandi. Conte poi sgombra il campo sulla posizione del governo nel campo delle concessioni autostradali: la linea non cambia, in particolare in relazione alla tragedia del ponte Morandi di Genova. Non cita mai Atlantia o i Benetton, ma spiega che non ci sarà nessun cedimento agli interessi privati, anche per rispetto alla memoria delle vittime del crollo. «Renderemo più efficiente e razionale il sistema delle concessioni — annuncia — operando una progressiva e inesorabile revisione di tutto il sistema». Applausi calorosi dai banchi del M5S, più tiepidi da quelli del Pd (in passato i pentastellati avevano accusato i dem di fare melina sulla condanna di quanto accaduto proprio per una vicinanza politica alla famiglia Benetton).

Il «green new deal». Il premier, evocando Roosevelt, anticipa poi l’avvio di un «green new deal per la rigenerazione urbana», un’azione articolata per lo sviluppo sostenibile che parta dalla salvaguardia dell’ambiente. Per esempio con lo stop a nuove concessioni per trivellazioni legate all'estrazione di idrocarburi, con conseguente riconversione energetica verso le fonti rinnovabili. Tra gli altri obiettivi «verdi» indicati come prioritari, la «protezione della biodiversità e dei mari», «il contrasto ai cambiamenti climatici» e l’avvio di una politica di economia circolare «che favorisca la cultura del riciclo e dismetta definitivamente la cultura del rifiuto».

Evasione fiscale e salario minimo. Conte rilancia anche il tema della lotta all’evasione fiscale: «Tutti devono pagare le tasse, ma proprio tutti, affinché poi tutti ne paghino di meno». Non si parla più di flat tax ma di riduzione del cuneo fiscale, ovvero gli oneri sul costo del lavoro, a favore dei lavoratori. E annuncia una legge sulle relazioni sindacali e una «applicazione erga omnes dei contratti collettivi», sostanzialmente il salario minimo. «Occorre anche contrastare le odiose forme di sfruttamento dei lavoratori che finiscono col creare quelle che una volta avremmo chiamato condizioni di schiavitù — spiega il premier — e realizzare un piano strategico di prevenzione degli infortuni sul lavoro: il numero ancora troppo elevato di decessi e di gravi infortuni non può essere tollerato, non possiamo accettare che in Italia si possa morire nello svolgimento della propria attività legislativa».

I vincoli di bilancio. I tanti propositi dovranno però confrontarsi con la situazione del bilancio pubblico. Conte conferma di volere neutralizzare le clausole di aumento automatico dell'Iva e ammette che «sarà una manovra impegnativa». «Realizzeremo questa visione tenendo conto dei vincoli di finanza pubblica e della sostenibilità del debito — puntualizza — che avvieremo lungo un percorso di riduzione. In questo modo potremo arrivare a liberare nuove risorse da reinvestire». E quanto ai vincoli europei, «occorre migliorare il Patto di stabilità e di crescita e la sua applicazione, per semplificarne le regole, evitare effetti pro-ciclici, e sostenere gli investimenti a partire da quelli legati alla sostenibilità ambientale e sociale».

La riduzione dei parlamentari. Capitolo riforme: «Intendiamo introdurre il disegno costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari — fa presente Conte —. E questo prevedendo un percorso volto a garantire le garanzie costituzionali». L’aula rumoreggia: applausi dalla maggioranza, critiche e insulti dall’opposizione, con riferimenti al caso Bibbiano. Il premier parla espressamente di agevolare l’accesso al Parlamento delle forze politiche minori evocando dunque l’approvazione di una nuova legge elettorale. Un passaggio delicato, questo, perché presuppone che — salvo incidenti di percorso — la legislatura avrà tempi lunghi per evitare un ritorno alle urne con le attuali regole, più favorevoli a Salvini e al centrodestra. Non dice, Conte, a quale modello si ispirerà la riforma, che dovrà uscire da un percorso «quanto più possibile condiviso in sede parlamentare», ma ipotizza «una riforma dei requisiti di elettorato attivo e passivo per l’elezione del Senato e della Camera» (per esempio la riduzione dei requisiti di età per eleggere ed essere eletti al Senato).

L’Italia e l’Europa. Molta enfasi è dedicata all’adesione al progetto europeo, uno dei punti di svolta rispetto alla precedente alleanza. «È dentro il perimetro dell’Unione europea e non fuori da esso che si deve operare per il benessere degli italiani — spiega Conte —, rilanciando un progetto che per decenni ha assicurato pace e prosperità». Avanza poi l’idea di una conferenza sul futuro dell’Europa per rilanciare «un nuovo protagonismo del nostro continente». Ribadisce poi la fedeltà all’alleanza atlantica e auspica «una stabilizzazione e uno sviluppo del Mediterraneo allargato» pur non rinunciando a «continuare a sviluppare i rapporti con i grandi attori globali, come India, Russia e Cina, e con le aree di maggiore interesse per il nostro sistema produttivo».

«Rivediamo il decreto sicurezza». Altro tema di svolta è l’immigrazione: «Non possiamo più prescindere da un’effettiva solidarietà tra gli Stati dell’Unione europea — dice Conte —. Solidarietà che è stata più volte annunciata ma mai realizzata concretamente». Il capo del governo parla della necessità di affrontare «l’epocale fenomeno migratorio» con una vera integrazione «per chi ha il diritto di rimanere» e il rimpatrio «per coloro che non lo hanno». E qui si arriva inevitabilmente al Decreto Sicurezza bis, ultimo atto del precedente esecutivo a trazione leghista: «Rivedremo la disciplina in materia di sicurezza alla luce delle osservazioni critiche formulate dal Presidente della Repubblica — annuncia Conte — , il che significa recuperare, nella sostanza, la formulazione originaria del più recente decreto legge, prima che intervenissero le integrazioni che, in sede di conversione, ne hanno compromesso l’equilibrio complessivo».

«È il tempo del coraggio». Infine una considerazione sul nuovo esecutivo: «Le forze politiche che hanno dichiarato la propria disponibilità a sostenere questo governo hanno dato prova di coraggio. Hanno messo da parte i pregiudizi», che come riconosceva Hanna Arendt, esistono in politica, sono in parte ineliminabili e sono un pezzo del nostro passato». E ancora: «Una squadra di ministri competenti, provenienti da forze politiche differenti, avrà l’onore e la responsabilità di offrire al Paese un governo stabile e autorevole. Dovremo mostrare coesione di spirito e unità di azione, nel segno della collaborazione e della lealtà». Le parole conclusive di Conte scatenano però la protesta della Lega dai cui banchi parte un coro «elezioni elezioni» (poco prima lo slogan era «poltrona, poltrona») che non si interrompe fino a quando il presidente dell’Aula, Roberto Fico, chiude la seduta.

I prossimi passi. Le dichiarazioni programmatiche di Conte sono state trasmesse al Senato, dove non sarà ripetuto l’intervento. Al termine degli interventi dei gruppi la Camera si esprimerà sulla fiducia con votazione nominale. Un procedimento piuttosto lungo: tutti i 630 deputati vengono chiamati al banco della presidenza per esprimere il voto. La prima chiama dovrebbe essere attorno alle 19,30, la procedura prevede che l’appello venga ripetuto per due volte. L’esito della votazione è atteso per le 21. Non ci dovrebbero però essere sorprese: la maggioranza a Montecitorio è di 316 deputati e M5S, Pd e Leu ne contano complessivamente 341, a cui si aggiungerà buona parte di quelli del gruppo misto in cui siedono tra gli altri +Europa, le minoranze linguistiche, il Psi e gli eletti nei collegi esteri.

Vittorio Sgarbi e il figlio di Grillo indagato per stupro, la bomba in aula: "Perché Di Maio è ministro". Libero Quotidiano il 10 Settembre 2019. C'è spazio anche per le insinuazioni, pesantissime e privatissime, di Vittorio Sgarbi nel giorno della fiducia alla Camera. Durante le dichiarazioni di voti, il deputato eletto con Forza Italia, oggi nel Gruppo Misto, attacca frontalmente Luigi Di Maio: "È stato fatto ministro (degli Esteri, ndr) per proteggere il figlio di Grillo". Secondo Sgarbi, non appena il figlio di Grillo, Ciro Grillo, è risultato indagato per violenza sessuale di gruppo insieme ad altri 3 amici ai danni di una 19enne italo-svedese nella villa sarda del comico, Grillo si sarebbe adoperato per piazzare nel governo il leader del Movimento 5 Stelle per "trovare l'appoggio del Pd che controlla i giudici, vedi il caso Palamara".

Da repubblica.it il 10 settembre 2019. Il capogruppo del Movimento 5 Stelle alla Camera Francesco D’Uva, nel corso delle dichiarazioni di voto alla fiducia al governo Conte bis, si è lanciato in un riuscito gioco di parole. "Potevate aprire la crisi a gennaio, e invece… - ha detto D'Uva -. Ancora non si capiscono i mojiti della crisi, cioè, i motivi…". Evidente il riferimento alle immagini estive dell'ex vicepremier Matteo Salvini impegnato in aperitivi e feste sullla spiaggia. Poco prima, anche dai banchi del Pd non è mancata l'ironia. Dopo l'intervento del capogruppo della Lega Riccardo Molinari la dem Alessia Morani ha alzato un cartello con su scritto: "Tornate al Papeete".

Da Corriere.it il 10 settembre 2019. «Volevate aprire il palazzo come una scatoletta di tonno e siete diventati il tonno dentro la scatoletta. Volevate liberare il parlamento dai voltagabbana, ma in quanto a trasformismo, Scilipoti può allacciare le scarpe a Di Maio»: così la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni durante il suo intervento alla Camera.

La Repubblica, prima pagina da brividi: "La rabbia nera contro il Conte bis". Libero Quotidiano il 10 Settembre 2019. "La rabbia nera contro il Conte bis". E' il titolone di prima pagina de La Repubblica: "Duello alla Camera tra il premier e la Lega. Fuori dall'Aula i saluti fascisti. Salvini guida la protesta davanti a Montecitorio". Il quotidiano diretto da Carlo Verdelli attacca Matteo Salvini e ritira fuori il "pericolo fascismo". In piazza però, alla manifestazione organizzata da Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia, c'erano migliaia di persone che hanno protestato pacificamente contro il governo giallo-rosso e che nulla hanno a che fare con i saluti romani e quant'altro. 

Fascisti in piazza contro il governo? Giorgia Meloni: "Questa foto è del 20 luglio". Libero Quotidiano il 10 Settembre 2019. I sinistri hanno sollevato un polverone di polemiche per questa foto di neofascisti che fanno il saluto romano in piazza durante la manifestazione organizzata da Fratelli d'Italia, ieri 9 settembre, contro il governo giallo-rosso. Una protesta alla quale hanno partecipato anche la Lega di Matteo Salvini e Giovanni Toti, oltre a migliaia di persone scese in strada con il tricolore. Peccato che questo scatto, spiega Giorgia Meloni, in un post pubblicato sul suo profilo Twitter, sia "di luglio scorso e non della nostra manifestazione".  

MONTECITORIO? IN FONDO A DESTRA. Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 10 settembre 2019. La piazza è nera, urla "elezioni" e fischia rabbiosa. Matteo Salvini, il grande sconfitto della giornata, descamisado, impugna il microfono e la fa sua. Le braccia tese partono da via del Corso e arrivano fin sotto il palco. Bastano le prime note dell'Inno nazionale ed è subito saluto romano. Teste rasate e tatuaggi celtici a brandire il tricolore come un drappo da battaglia. Niente bandiere di partito. Ma i caratteri dello striscione «ladri di sovranità» sono in gotico neo fascista, assai caro alla destra romana. Arrivano in migliaia, gente comune, pensionati, 30 mila sparano gli organizzatori di Fratelli d' Italia, si fa presto a riempire la piazzetta transennata. Facce da festa di Atreju, catapultate un lunedì mattina a far massa per i vicoli del centro. Non c' è posto che per pochi davanti Montecitorio. Ma l' effetto assedio sulla Camera dei deputati è perfettamente riuscito, nelle ore in cui si discute la fiducia al Conte bis. Finte cabine elettorali ai piedi del palco, una poltrona issata dalla folla sopra la scritta "le hanno occupate tutte". Fischi roboanti quando si nomina Giuseppe Conte. Salvini si presenta in piazza in jeans e camicia bianca, arrivato in treno dalla Toscana con la fidanzata Francesca. Non mostra alcun entusiasmo, lui qui non voleva esserci, si è deciso in extremis, al traino di Giorgia Meloni, mai successo. sarà per questo che è una maschera cupa, lontano dai riflettori. Poi sale sul palco, sotto i caratteri cubitali "No al patto della poltrona - Nel nome del popolo sovrano", e la folla rumorosa va in tripudio. Il leghista bacia Meloni, l' alleata mai amata che lo saluta con un sarcastico «bentornato all' amico Matteo», e si impossessa così della piazza più a destra che ci sia. Sotto, ad applaudire, c' è di tutto. Dirigenti di Casa Pound, Forza Nuova, il deputato pd Furfaro denuncia "svastiche". C' è Paolo Mantovani, ex assessore regionale alla sanità lombarda, reduce da un via vai tra carcere e domiciliari. Mentre un finto sacerdote - al secolo Davide Fabbri, sedicente nipote di Benito Mussolini, con guai giudiziari per apologia del fascismo, e concorrente dell' Isola dei famosi - agita un crocifisso: «Di Maio in nome di Gesù non farlo, sono massoni». Elisabetta Gardini fischia con le dita in bocca. Raffaele Fitto unico in cravatta. E la sola Daniela Santanché a strappare un sorriso, con cappello da cow boy tricolore. Giovanni Toti, fresco di scissione, si immortala in sequenze di selfie, perfettamente a suo agio: «Ci dovranno essere tante piazze». Per l' ormai ex ministro dell' Interno comincia da qui la sua traversata nel deserto. Sa che tasti suonare per accendere la folla. Come in tutti i suoi comizi, come rifarà domenica a Pontida. «Lì dentro c' è il regime che sa che sta per cadere e che fa come Maria Antonietta in Francia. Un saluto ai poltronari chiusi nel palazzo, l' Italia vera è in piazza», dice alludendo al portone di Montecitorio chiuso in effetti (per lavori) alle sue spalle. Promette: «Con Giorgia lavoreremo per allargare», ma resta sul vago, non si capisce se il centrodestra per quel che è oggi o se si riferisce già a un nuovo soggetto sovranista. «Bisogna allargare includendo milioni di italiani». Ed è subito barricadero, altro che "resto ministro in pectore, uomo della sicurezza e della tranquillità", come aveva promesso nei giorni scorsi: «Se i signori là dentro proveranno a cambiare quota 100 e tornare alla legge Fornero non li lasceremo uscire da quel Palazzo, ci staranno giorno e notte. Se provano a riaprire i porti, li chiudiamo noi, perché in Italia non si entra senza permesso». È quel che la folla di destra vuole sentire, standing ovation, "Mat-te-o, Mat-te-o". Chiama all' adunata, quella ben più consistente, la sua: «Vi aspetto di nuovo in piazza il 19 ottobre qui a Roma». E quando gli chiedono se pensa alla storica e immensa San Giovanni, ammette: «Ci proveremo». Poi saluta con un classicissimo: il bacio del rosario. Oggi lo show si sposterà al Senato, dove l' ex vicepremier prenderà la parola contro Conte. Sotto il palco si fa appena vedere Giancarlo Giorgetti. Poi il numero due della Lega, dentro Montecitorio, quasi sbeffeggia il capo: «Ce l' hanno tutti con Salvini, povero Cristo. Matteo era l'unico che voleva andare avanti, mentre tutti noi gli dicevamo di rompere.. In aula? È tutto così surreale». Quando poi il cronista gli chiede se la nuova maggioranza andrà avanti, allarga le braccia: «Andranno avanti sì, per inerzia». Il discorso di Conte? «Poco pathos, poca sostanza». Berlusconi dirà di peggio, arringando i forzisti alla Camera: «In altri tempi si sarebbe detto che Salvini e Meloni sono fuori dall' arco costituzionale, andrebbero messi fuori dalla porta, quello non lavora per una nuova maggioranza di centrodestra». La traversata per le due destre comincia così.

Da Libero Quotidiano il 10 settembre 2019. Questa volta, probabilmente, Ferruccio De Bortoli la spara un po' troppo grossa. Ospite di Stasera Italia su Rete 4, nel giorno della fiducia alla Camera al governo di Giuseppe Conte in versione-bis, l'ex direttore del Corriere della Sera punta il dito contro il sit-in organizzato da Fratelli d'Italia davanti a Montecitorio. E De Bortoli picchia durissimo, parlando di "oltraggio alla democrazia rappresentativa". Quindi, aggiunge che "c'è nei toni una violenza che forse è preoccupante". Frasi come detto probabilmente esagerate, e che stupiscono un po' poiché arrivano da De Bortoli, uno con cui si può essere o meno d'accordo ma che, di solito, non si presta a questo tipo di analisi "boldriniane".

Chef Rubio attacca così la piazza anti-Conte: "Perché la polizia non li ha pestati come l’uva?". Il noto cuoco e conduttore tivù Chef Rubio spara a zero sulle forze dell'ordine che, a suo dire, avrebbero dovuto caricare i manifestanti che sono scesi in piazza ieri a Monte Citorio per protestare contro il Conte-bis. Francesco Curridori, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. Chef Rubio anche stavolta ha fatto un'ennesima uscita decisamente fuori luogo. "Perché nessuno è stato pistato (pestato ndr) come l’uva? Perché nessun manifestante è stato perquisito, schedato e/o gonfiato di botte? Semplice: perché non c’erano Forze dell’ordine avvelenate o schierate", ha twittato ieri Gabriele Rubini commentando una foto della manifestazione del centrodestra in piazza Monte Citorio mentre alla Camera era in corso il voto di fiducia sul Conte-bis. "Evidente disparità di trattamento in base all’ideologia politica", ha aggiunto il noto cuoco e presentatore tv che ha concluso il suo ragionamento con l'hasthag #dittatura. Un tweet al veleno che ha mandato (giustamente) su tutte le furie i sindacati delle forze dell'ordine. Valter Mazzetti, segretario generale dell’Fsp Polizia di Stato, ha parlato di "incredibile, irresponsabile, diffamatoria uscita di chef Rubio che, andando al di là di ogni limite della sfrontatezza, accusa donne e uomini in divisa di non aver picchiato i manifestanti presenti ieri a Roma". Mazzetti critica chi, come Rubio, "si mette a sentenziare sulla bontà dell’operato delle Forze dell’ordine, sulla legittimità del loro ruolo, sulla professionalità della loro azione, sulla indiscussa lealtà dei loro appartenenti, oltre tutto senza la pur minima competenza in materia". Il segretario dell’Fsp conclude senza aggiungere altri commenti ma sottolineando che "un tale atteggiamento non deve passare inosservato, come fosse assolutamente normale poter gettare fango e discredito sugli appartenenti alle Forze dell’ordine". Rubio risponde con un nuovo cinguettìo: "Caro #ValterMazzetti, qui la spiegazione che ho dato agli analfabeti funzionali presenti in rete pe’ faje comprende ‘r senso dell’italiano utilizzato nel mio tweet: il mio non era un invito a manganellare ma una sorpresa che si possano fare dimostrazioni di piazza senza cariche". Sul caso è intervenuto anche Stefano Paoloni, Segretario Generale del Sindacato Autonomo di Polizia (Sap), che, in una nota, ha voluto ricordare allo chef"che la Polizia, le Forze dell’Ordine e le Istituzioni, non hanno colore politico ma servono il Paese". E ancora:"Il diritto a manifestare è sacro e garantito dalla Costituzione purché avvenga in maniera pacifica e senza armi. Avvelenati e schierati, per dirla alla Rubio sono quei manifestanti che scendono in piazza con volto travisato, spranghe, sassi e molotov, distruggendo auto e vetrine di locali commerciali, minando la convivenza civile". In caso di disordini, spiega Paoloni, le Forze dell'Ordine "sono obbligate all’uso della forza per comprimere la violenza e garantire la sicurezza e la libertà di chi la pensa diversamente o utilizza strumenti pacifici per manifestare il proprio pensiero". Anche in questo caso Chef Rubio replica con un tweet parlando del G8 di Genova del 2001 quando, secondo lui, è stato negato il diritto di manifestare a "inermi e pacifici cittadini" che "sono stati brutalmente caricati".

Il post choc contro la polizia: ira degli agenti su Chef Rubio. Il cuoco dopo la manifestazione di Lega e FdI: "Perché nessuno è stato pistato?". Il sindacato: "Irresponsabile". Giuseppe De Lorenzo, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. Il tweet choc è targato Chef Rubio. E tira in ballo la polizia, facendo infuriare gli agenti che si mostrano indignati per quelle parole "irresponsabili" e "diffamatorie". Partiamo dal principio. Ieri Lega, Fratelli d'Italia e molti cittadini sono scesi in piazza durante il voto alla Camera sulla fiducia al premier Conte del nuovo governo giallorosso. Di fronte a Montecitorio migliaia di persone hanno chiesto il voto. Al vedere la foto con lo striscione "ladri di sovranità", Chef Rubio decide allora di vergare un tweet che suona così: "Perché nessuno è stato pistato come l'uva? Perché nessun manifestate è stato perquisito, schedato e/o gonfiato di botte?". La domanda del cuoco avrebbe una risposta logica: perché nessuno, evidentemente, ha cercato di forzare il blocco degli agenti, zone rosse e via dicendo. Nessuno ha urlato 10-100-1000 Nassirya, gridato "merde" di fronte alle telecamere o lanciato sassi contro le divise in tenuta antisommossa. E, soprattutto, nessuno ha cercato lo scontro fisico, come (quasi) sempre accade quando in piazza scendono centri sociali, antagonisti e via dicendo. Per Rubio però la logica è un'altra. Se non ci sono stati manifestati "gonfiati di botte" o uva "pistata", è perché "non c'erano forze dell'ordine avvelenate o schierate". Insomma, sarebbe "evidente la disparità di trattamento in base all'ideologia politica". Il ragionamento è curioso, per carità. Sebbene paradossale. Se non ci sono molotov, sassi, tafferugli, cariche, mazze, scudi sbattuti in testa ai poliziotti, per Rubio lo si deve al fatto che agli agenti stanno più simpatici i leghisti dei centri sociali. Chiaro, no? Non sarà invece il fatto che i manifestanti di ieri non hanno portato in strada mazze, sassi, bastoni, caschi, molotov, fumogeni come hanno dimostrato di saper fare altri? Ricordate i No Tav a Milano nel 2015? Io sì, mi ero infiltrato lì in mezzo. E vi assicuro che gli scontri non li hanno provocati i poliziotti. Ma sono stati ricercati, scientificamente, dagli incappucciati armati fino ai denti. E capaci pure di sparare razzi alzo zero contro gli uomini in divisa. In un secondo tweet, Rubio ha tenuto a precisare il suo pensiero facendo "notare " la presunta "disparità di trattamento" in Italia per i manifestanti. "Se la pensi come le forze dell'ordine - dice - nessuno ti sfiora, se la pensi come un cittadino che richiede il giusto, a casa ce vai rotto". I tweet dello chef hanno scatenato l'ira della polizia. Il vicepresidente dell'Fsp, Franco Maccari, lo ha sbeffeggiato affermando che "questa volta chef Rubio ha bruciato tutte le pietanze con una uscita illogica, irresponsabile e ignorante rispetto ai temi della sicurezza". Il segretario generale Valter Mazzetti ci mette il carico da undici contro l'uscita "incredibile" e "diffamatoria" di Rubio che va "al di là di ogni limite della sfrontatezza". Gli agenti dicono "basta" alle "troppe spudorate manifestazioni di dileggio e di rancore" contro di loro. "Invece che dare lezioni di gestione dell’ordine pubblico - attacca Mazzetti - Rubio dovrebbe concentrarsi su pietanze e fornelli, dovrebbe pensare a spargere condimenti invece che odio verso migliaia di persone che servono lo Stato e i cittadini onestamente".

Baci, abbracci e grigiore: debutta alla Camera con Conte il governo del coraggio e del disagio. «Sobrietà», «misura» e un lessico nuovo, sono le parole d'ordine con le quali il premier si presenta all'Aula. Raggiante Di Maio. Franceschini meno. Vaghissimo il programma. Il Pd applaude, i Cinque stelle gli arrancano dietro. Obiettivo: agguantare la normalità. Susanna Turco il 9 settembre 2019 su l'Espresso. Abbracci, carezzine, pacche sulle spalle, e baci, tantissimi baci sulle guance. Prima ancora di combattere lungo la linea classica del tradimento, tirandosi reciprocamente addosso l'accusa (la Lega contro i Cinque stelle prima, Conte contro la Lega poi), la maggioranza del «coraggio» e del disagio debutta alla Camera stravolta dopo la crisi d'agosto, e si tiene su un po' come a una festa di marinai scampati al naufragio. Issa parole da brivido: «Equilibrio», «misura», soprattutto «sobrietà», quelle preferite da Giuseppe Conte, presidente consecutivo di due governi opposti , l'unico forse a sentirsi comodo, nello scivolare come una saponetta con la pochette, tra un'Era e l'altra, tra una maggioranza e l'altra, tra impossibili elenchi della spesa per misure che non si realizzeranno mai – se non altro perché non ci sono i soldi. Comodo al punto di dire, senza ironie, che siamo all'inizio di una «nuova, risolutiva, stagione riformatrice» e che il progetto di governo «disegna l'Italia del futuro». Arguto, addirittura, nella replica, quando si muove nell'aula di Montecitorio come fosse in piena arringa in Tribunale. Lapalissiano, il più delle volte: «Tutti devono pagare le tasse. Ma proprio tutti». Nessuno escluso, si badi.  

Il punto focale del giorno: costruire la narrazione di nascita del nuovo esecutivo. Quella contro la quale la piazza fuori, quella di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, batte dalla mattina presto. «Questo governo non è nato di notte, è trasparente, si presenta a voi in modo lineare», rivendica Conte, che alla fine del dibattito si cala nella ressa d'Aula, restituendo a Salvini e agli ex alleati del Carroccio tutte le cortesie della giornata: «Perché un ministro che presenta la mozione di sfiducia poi non si dimette?», domanda. Tra i banchi del governo si muovono i primi passi. Riverita Teresa Bellanova, ministra dell'Agricoltura appena linciata su web. Baciatissimo Vincenzo Spadafora, ministro dello Sport. Pacche sulle spalle al titolare dell'Economia, il dem Roberto Gualtieri. Meno felice Dario Franceschini, che pare carico come una renna a Natale. Quasi si fosse a una festa in cui non ci si conosce, o ci si conosce poco, tutti si danno la mano e il bacetto sulla guancia a stabilire una maggiore familiarità, o almeno recitarla. Sono cambiate tutte le distanze relative, del resto. La parte centrale dell'emiciclo, quella occupata dai Cinque stelle, è diventata un blocco compatto con il Pd, allontanandosi dalla Lega che siede sulla destra. Nel governo, ci si dispone sui banchi come a scuola una classe che si deve amalgamare: uno dei cinque stelle, uno del Pd. Alternati: Di Maio e Franceschini, Guerini e Bonafede, Amendola e Fioramonti. È tutto nuovo, nelle parole di Conte. Nuova «l'impostazione», nuovo «l'impianto progettuale», nuova «l'elaborazione», nuovo lo «sforzo», insomma un fiorire di novità anche se il primo applauso dall'Aula il premier lo prende sull'impegno a curare le parole, «adoperare un lessico più consono e rispettoso». Ecco, basterebbe questo a fare la Stagione Nuova. Sono del resto abbastanza ridotti ai minimi, i livelli complessivi. Non solo il racconto del programma di governo, che naturalmente come sempre «non è una mera elencazione di proposte eterogenee», ma anche i buuu dell'opposizione, la nuova opposizione che si compone di Lega, Fratelli d'Italia e qualche pezzo di Forza Italia, per scandire slogan come «e-le-zio-ni, e-le-zio-ni», oppure «pol-tro-ne, pol-tro-ne», o ancora «in-ciu-cio, in-ciu-cio». E infine gli affaticati sforzi del presidente della camera Roberto Fico per tenere la disciplina dell'Aula. Un livello da asilo nido: aumentarne i posti è, peraltro, il primo provvedimento promesso da Conte. Moltissimi i momenti di disagio. Primo fra tutti, quando Conte spiega che i decreti sicurezza saranno rivisti, ma precisa che in effetti il bis quando è uscito dal Consiglio dei ministri andava bene, si è guastato dopo: eppure fu proprio lui, nemmeno due mesi fa, a porre la fiducia sulla versione finale del testo, che evidentemente all'epoca gli andavano bene. Vaghi, i capitoli più delicati: Conte dice sì al taglio dei parlamentari, ma con imprecisati «contrappesi»; parla vaghissimo della necessità di «affrontare più efficacemente i temi dell'integrazione» e di una specie di ius soli preso dal verso opposto («bisogna rivedere la legge di cittadinanza degli italiani che risiedono all'estero»); conferma la revisione delle concessioni autostradali, e invita a un «uso responsabile del social network». Curioso fenomeno: nella contrapposizione fra le parti, il Pd – pur a disagio - finisce per applaudire assai più dei Cinque stelle. Che evidentemente lo sono ancora di più.

Gian Antonio Stella per corriere.it il 10 settembre 2019. «Deputato Vinci!» «Deputato Zoffili!» «Deputato Borghi per favore!» «Colleghi!» «Deputato Sasso!» «Deputato Trancassini!» «Deputato, la richiamo all’ordine!» «Deputata Morani!» «Deputato Invernizzi!» «Deputato Scalfarotto!» «Colleghi!». Potremmo andare avanti per ore. A un certo momento, tra le urla in piazza e le urla in Aula, pareva mancasse solo Nicola Bombacci che un secolo fa al congresso di Livorno, piombò pistola alla mano su un avversario gridando «Me a t’amazz!». Forse, almeno nella fascia protetta, i minori si saranno salvati dallo spettacolo davvero sconveniente, a dire poco, andato in onda ieri da Montecitorio. Ma certo chi aveva qualche diffidenza nei confronti della cattiva politica (poi c’è senz’altro anche quella buona, ma ieri era in netta minoranza…) ha trovato la conferma di quale punto di degrado sia stato raggiunto da troppi parlamentari dell’una e dell’altra banda. Degrado politico, degrado assembleare, degrado umano. E meno male che all’esordio Giuseppe Conte aveva tirato in ballo un altro Giuseppe, Saragat, che alla seduta inaugurale dell’Assemblea costituente aveva ammonito «Fate che il volto di questa Repubblica sia un volto umano» ricordando che «la democrazia non è soltanto un rapporto fra maggioranza e minoranza» ma anche «di rapporti fra uomo e uomo. Dove questi rapporti sono umani, la democrazia esiste; dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide». Se è così, andiamo bene…Il presidente del Consiglio, par di capire, aveva fatto una scommessa: contrapporre alle urla della probabile baraonda in piazza della destra una relazione dai toni il più possibile garbati, soffici, sussurrati («Ma gli hanno abbassato il microfono?» «Deve avere un problema alle tonsille») con qualche spennellata di miele. Al punto che appena ha fatto cenno al suo proposito di fare dell’Italia «una vera e propria smart nation» c’era chi si dava di gomito: «Ha detto smart?» «Me pare d’ave’ capito smorta…». Certo, tra tutti i punti elencati in un’ora e mezza buona di un programma ricchissimo, dalla precedenza agli asili nido dove «azzerare totalmente le rette per la frequenza» (voce fuori campo: «In Lombardia sono già azzerate») alla riduzione del numero dei parlamentari «nel primo calendario utile» ma «affiancata da un percorso volto a incrementare le garanzie costituzionali», da una maggiore attenzione per la disabilità fino «al rafforzamento delle regole europee per l’etichettatura e la tracciabilità degli alimenti», qualcosa ha dimenticato. Vuoti di memoria non marginali. Mai le parole burocrati, burocrazia e burocratico. Mai sbarco, sbarchi o barconi. Mai porti, mai chiusura porti. Mai sovranismo o sovranisti. Mai costi o mai tagli. Come se si trattasse di temi da avvolgere in cartocci di parole più morbide: «Nel quadro delle riforme istituzionali è intenzione del governo completare il processo che possa condurre a un’autonomia differenziata, che abbiamo definito giusta e cooperativa. È un progetto di autonomia che deve salvaguardare il principio di coesione nazionale e di solidarietà…». Da scolpire nel marmo la promessa più spericolata: «Io e tutti i miei ministri prendiamo il solenne impegno, oggi, davanti a voi, a curare le parole, ad adoperare un lessico più consono, più rispettoso». Fulminea la reazione dei banchi a destra: «Ma se ti hanno messo lì quelli del Vaffaday!». Fatto sta che più il premier tentava d’esser persuasivo, moderato, conciliante («Vogliamo volgerci alle spalle il frastuono dei proclami inutili, delle dichiarazioni bellicose e roboanti») più la piazza davanti alla Camera ribolliva di esasperazione, disprezzo e odio di quanti urlavano contro «lo scippo del voto». E mentre Daniela Santanchè girava fra i più arrabbiati («La porta di Montecitorio è chiusa, la piazza è piena, questa è la differenza fra chi sta chiuso nel palazzo e chi sta fuori!») raccogliendo consensi col suo stupefacente cappello da O.K. Corral bianco-rosso-verde e un gruppo di fascisti testimoniava la propria estraneità partitica facendo il saluto romano, Giorgia Meloni tuonava: «La cosa scandalosa è che questi qua sanno benissimo che stanno facendo una cosa che gli italiani non vogliono, e siccome sanno di non poter vincere le elezioni, le rubano». E pure lei: «È il nostro vaffa day al M5S». Ma Salvini? Dov’è Salvini? Eccolo. Stanco ma bellicoso. Gli si fionda addosso una bionda vistosa: selfie! Una rossa: selfie! Un energumeno rapato: selfie! Lui sorride e si presta. Luca Morisi, il cervello della «Bestia» (il copyright è suo), lancia nel firmamento social un tweet guerresco: «Vita vera, Italia autentica contro l’Italietta del Pd asserragliata nei palazzi! #gosalvinigo». Lui, il Truce, ridacchia di Di Maio: «Passare nell’arco d’una settimana dal ministero del Lavoro al ministero degli Esteri, o sei un genio o... Però non giudico, vedremo i fatti. Io non ce l’avrei mai fatta». Ma se gli aveva offerto dieci giorni fa Palazzo Chigi! Roba vecchia. Passata. Il democratico Michele Anzaldi, quello che si lagnava del Tg3 troppo poco renziano, denuncia un servizio del Tg2: «Il giornalista apre il servizio parlando di una protesta “contro il governo della poltrona, degli inciuci e dei potentati europei” come se fossero parole sue e non di Lega e Fdi. Questa è informazione?». I camerati di Forza Nuova, CasaPound e altri gruppi dell’estrema destra denunciano Facebook perché, uno dopo l’altro, avrebbe chiuso i loro siti perché pieni di odio. Coincidenza: proprio il giorno della manifestazione a Roma! Chissà da chi l’han saputo… «La polizia politica di Zuckerberg vuole impedire che ci sia opposizione al governo di estrema sinistra e Bruxelles!». Fatto è che l’odio che spacca l’Aula si rovescia in piazza e quello che sgorga nella piazza si rovescia in Aula. Allagando i banchi della destra («Vergogna! Vergogna! Vergogna!» «Poltrone! Poltrone! Poltrone!» «Elezioni! Elezioni! Elezioni!») per dilagare verso quelli grillini e sinistrorsi. «Il professor Di Maio…», maramaldeggia Francesco Lollobrigida di Fratelli d’Italia… «Ministro! Ministro Di Maio!», lo corregge in veste di presidente dell’assemblea Ettore Rosato. E l’altro, cerimonioso: «Il Ministro Professor Di Maio…» L’ultimo petardo però, che fa saltar la Santabarbara, lo getta nell’Aula già incandescente lo stesso Giuseppe Conte. Il quale, dopo esser stato tempestato di insulti («Venduto! Venduto!») rende a Salvini e ai suoi pan per focaccia, tirando in ballo il giuramento del governo gialloverde: «Mentre il M5s è stato coerente al proprio programma voi dimostrate di essere coerenti alle vostre convenienze elettorali. Avete sbagliato giuramento perché i ministri giurarono di tutelare l’interesse esclusivo della nazione, non del partito». E ripartono i fuochi artificiali. Con Giorgia Meloni che spara a zero contro il premier chiedendogli «come può stare con Salvini e il giorno dopo con la Boldrini» e il leghista Riccardo Molinari che irride: «La prendevano in giro come un piccolo avvocato di provincia e ridevano del suo curriculum e improvvisamente, oplà, grazie all’Europa che diceva di voler cambiare, diventa uno statista europeo!». E via così. Fino a ora tarda. Quando termina finalmente la conta: 343 sì, 263 no. Fiducia approvata. Tregua. Almeno fino alla nuova disfida in Senato. Ma il difficile, probabilmente, comincia ora.

IL SENATO APPROVA LA FIDUCIA AL GOVERNO GIALLO-ROSÉ CON 169 FAVOREVOLI E 133 CONTRARI. PER IL PRIMO ESECUTIVO CONTE I SÌ ERANO STATI 171, MA CON PIÙ ASTENUTI (25) E 117 NO

La triste fiducia del Governo Conte-bis. I numeri, le facce, i sondaggi, la manovra ed i migranti. Al Senato tanti problemi e poche feste per l'esecutivo giallorosso. Panorama l'11 settembre 2019. E alla fine il Governo Conte-bis ha ottenuto la fiducia al Senato con 169 voti a favore e già questo numero merita alcune riflessioni. Il primo esecutivo dell’avvocato del Popolo, quello con la Lega, aveva ottenuto 171 preferenze, due in più dell’attuale. Secondo: tra i 169 si ci sono stati anche quelli di due senatori a vita (Segre e Cattaneo) che invece un anno fa non appoggiarono l’alleanza giallo verde; quindi i senatori diciamo di partito che oggi hanno dato il via libera all’esecutivo sono stati 167. Meno, e non di poco, del previsto; sono 9 i senatori dei partiti che compongono il nuovo Governo che per un motivo o per l’altro non hanno dato il loro voto: due gli astenuti, numerosi gli assenti (giustificati e non). Una maggioranza quindi tutt’altro che solida e forte, e non solo nei numeri. Perché questa due giorni parlamentare nelle camere ci ha raccontato molto altro. Con le facce dei protagonisti. Conte è apparso meno sciolto e convincente delle settimane scorse. Di Maio non ha parlato, commentato, nemmeno una smorfia, anzi. La faccia era quella di uno che avrebbe voluto trovarsi da qualsiasi altra parte del mondo tranne che vicino al Presidente del Consiglio. E poi pochi applausi dai banchi di senatori ed onorevoli e pochi festeggiamenti anche tra i componenti dell’esecutivo ala proclamazione dei risultati. Nel Movimento 5 Stelle si sa che a parte l’astensione dichiarata apertamente da Paragone sono numerosi quelli con il “mal di pancia” per l’alleanza con il nemico giurato, il Partito Democratico di Matteo Renzi. Insomma, poca voglia di fare festa perché anche a chi oggi, formalmente, ha vinto è chiara la natura a dir poco anomala di questa nuova fase politica. A peggiorare il clima anche gli ultimi sondaggi che hanno confermato ancora una volta (il dato è stabile, da due settimane) come i favorevoli a questo governo tra gli elettori sono meno del 30% mentre il 55% è contrario. Anzi, l’ultima rivelazione (Eumetra per Mediaset) ci racconta che il 54% degli italiani pensa che questo Governo addirittura sia stato creato dai “poteri forti”. Se questo è l’inizio c’è poco da stare allegri anche perché sulla riforma della giustizia e le concessioni autostradali i due alleati hanno cominciato a litigare ancor prima di cominciare.

Peggio è andata alla prima riunione di maggioranza, indetta per oggi alle 18.30 e dedicata a quella che è (alla faccia dei problemi dell’Italia) la vera priorità del Governo: la nuova legge elettorale, quel ritorno al proporzionale voluto giusto per creare ingovernabilità ed impedire il largo successo della Lega. E’ infatti bastato che nel suo intervento a Palazzo Madama Salvini facesse sapere in diretta tv di questa riunione, smascherando le vere priorità dell’esecutivo giallorosso, che la riunione è stata rinviata. Il tempo dei giochini però adesso è finito e per Conte comincia il difficile, cioè il lavoro vero. All’orizzonte una manovra di cui, a parte belle parole, non ci sono numeri e dettagli, c’è da evitare l’aumento dell’iva, da risolvere le questioni Alitalia ed Ilva, da gestire Quota 100, il Reddito di Cittadinanza, modificare o rinnegare il decreto sicurezza bis. All’orizzonte soprattutto ci sono le prime due navi Ong cariche di migranti: che si fa? Porti chiusi o porti aperti? Giù la maschera…

Marco Travaglio per ''il Fatto Quotidiano'' il 10 settembre 2019. Il volto pietrificato di Luigi Di Maio, accanto a Giuseppe Conte, la dice lunga su quello che Padellaro chiama il Governo dei Malavoglia. Non ce la fa proprio a sorridere, il capo 5Stelle, nemmeno dopo gli inviti di Grillo. Parliamo di un giovane di 33 anni che ha bruciato tutte le tappe: deputato e vicepresidente della Camera a 27 anni, leader del primo partito a 31, vicepremier e bi-ministro del Lavoro e Sviluppo a 32, ora ministro degli Esteri. Costretto a imparare in fretta mestieri diversi e delicati, deriso come "bibitaro" mai laureato dagli stessi che ora s' indignano (giustamente) per gli attacchi alla Bellanova, ex bracciante con la terza media. Al suo posto, molti sorriderebbero a 32 denti: nessun ragazzo del Sud con quei trascorsi ha mai fatto tanta strada. Perché non sorride? Un anno fa poteva essere premier con una stretta di mano o una telefonata a B.. Invece rifiutò. E Salvini, per conto terzi, gli impose un premier terzo. Così Giggino e Grillo scelsero Conte: un bel jolly, col senno di poi. Un mese fa, dopo l' harakiri salviniano, Di Maio s' è visto offrire Palazzo Chigi sia dal Pd sia da Salvini: il Pd preferiva un leader azzoppato dalle Europee e dal naufragio giallo-verde al più popolare e ingombrante Conte; e il Cazzaro, sfumato il voto, era pronto a tutto pur di liberarsi di Conte e restare al potere. Di Maio ha respinto entrambe le sirene e si è giocato l' ultima occasione del salto più alto: per non perdere Conte; per ricompattare il M5S , passato dal lutto del 26 maggio al nuovo entusiasmo del Grillo ritrovato; e per non diventare il parafulmine delle tensioni fra e nei partiti della nuova maggioranza. Ma l' anno scorso aveva costruito il Contratto con la Lega sul rapporto personale con Salvini, dopo 7 anni di comune opposizione ai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni (tutti col Pd dentro e la Lega fuori). Perciò è rimasto bruciato dal tradimento dell' 8 agosto. Ora un' analoga sintonia con qualcuno del Pd è impossibile: capi e capetti parlano lingue giurassiche; non si sa bene chi comandi; e il programma giallo-rosa è nato troppo vago e frettoloso, tant' è che andrebbe precisato meglio dopo il giro di boa della legge di Bilancio. Non è detto che la partenza fredda e guardinga sia di malaugurio per il Conte-2, visto l' esito degli entusiasmi che accompagnarono il Conte-1. Ma la maschera di Di Maio riassume il vero enigma del nuovo governo: riusciranno i nostri eroi a mescolare e contaminare le proprie diversità, assorbendo le poche virtù dei rispettivi alleati per migliorarsi? Ci accontenteremmo che non si facessero contagiare dai vizi altrui. Fra due litiganti, c' è sempre un terzo che gode. E sappiamo chi è.

Luigi Di Maio, il suo unico sorriso al Senato quando gridano "pagliaccio" a Giuseppe Conte. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano l'11 Settembre 2019. Luigi il freddo. Da quell' 8 agosto lì - quando si è consumato lo strappo di Matteo Salvini, il contraente del «cambiamento» - nemmeno Maurizio Crozza riesce a strappargli un sorriso: Di Maio è una statua di ghiaccio. Se sembrava comprensibilmente sperduto quando Giuseppe Conte si è messo a martellare di insulti l' ex vicepremier del Carroccio il 20 agosto, il giorno delle dimissioni-farsa al Senato, di vera e propria freddezza si è trattato durante l' intervento dell' ex avvocato del popolo alla Camera, per il primo voto della fiducia ai giallorossi. Il volto del capo politico dei grillini non lanciava segnali: inespressivo, con un' aria da risentito. Addirittura, come hanno mostrato le telecamere di Quarta Repubblica, è uscito per ultimo lunedì da Montecitorio, a luci quasi spente: per non incrociare nessuno e non rilasciare dichiarazioni. Non ride più, si dice. A meno che... dai banchi della Lega non inizino a partire i «buffone» a raffica rivolti proprio al premier Conte, come è avvenuto ieri. E allora sì che a Luigi Di Maio scappa finalmente un segnale di vita, un cenno. Un sorriso. Rivelatore. Certo, sulla carta - è l' augurio della fidanzata Virginia Saba affidato, in stile Bergoglio, a ben quattro quotidiani - il Conte bis dovrà conformarsi come il «governo del garbo»: versione riveduta e corretta della sobrietà montiana. Peccato, però, che a spezzare l' incantesimo di una luna di miele che mai nata (i sondaggi danno il gradimento dei giallorossi a un misero 39%) sembra destinato proprio il neoministro degli Esteri e suo compagno. Colui al quale questo «governo di svolta» non va proprio a genio perché a "svoltare", finora, sono stati gli altri. A partire dal premier a cui - questa è la versione di Luigi - avrebbe ceduto per ben due volte lo scettro di palazzo Chigi. E cosa fa allora quello stesso che, "intercettato" dal microfono acceso pochi istanti prima di uno dei discorsi d' esordio in Aula, chiedeva proprio a Di Maio l' autorizzazione per pronunciare alcuni passaggi? Si è messo a "capo" della corrente con cui triangola amabilmente con Grillo e Fico. Insomma, i retroscena sui dolori del giovane Luigi nei confronti del premier in pochette abbondano. Partiamo però dalla scena. Dalla squadra di governo vengono "tagliati" i vicepremier (per tagliare proprio Di Maio), la cassa (il Mef) finisce al Pd insieme all' indicazione del Commissario Ue? Frutto, tutto questo, di una trattativa conclusa personalmente da Conte? E Gigino qualche ora dopo sposta palazzo Chigi alla Farnesina, portando tutti i ministri 5 Stelle a discutere del cronoprogramma: non esattamente quel «metodo di condotta politica» tra «equilibrio e misura» con cui Conte intende correggere la grammatica istituzionale rispetto all' anarchia - di stampo salviniano - dell' esecutivo gialloverde. E ancora: Conte nel suo intervento a Montecitorio promette un «procedimento senza sconti per gli interessi privati» sul caso del ponte Morandi ma non pronuncia apertamente il termine "revoca"? Ci pensa Di Maio a completare il testo, twittando senza giri di parole la «revoca delle concessioni autostradali». Stesso discorso sul taglio dei parlamentari: per il premier va affiancato a un percorso di «garanzie costituzionali»; per Di Maio anche su questo «è il momento di correre». Se sui temi, per non schiodarsi dal governo, è chiaro che troveranno la formula per accontentare tutti, saranno ancora le poltrone il metro di valutazione degli equilibri di questo nuovo canto e controcanto tra Conte e Di Maio. E a proposito di poltrone, in verità, l' unico Di Maio ridens è stato quando al Colle giurava per la sua di poltrona con annesso occhiolino del premier (che però in quell' occasione non parlava). Poi è sceso il buio. Si capirà dall' attribuzione del sottogoverno adesso - ossia dai viceministri e dai sottosegretari - l' ennesimo round della sfida tra il premier e il ministro per il posto da "titolare" pentastellato. Ecco perché Gigino è teso: non c' entra il disagio di sedersi accanto al Pd. E per questo ieri si è lasciato andare a un primo sorriso rivelatore. Perché «buffone» allo Stadio San Paolo era sempre l' arbitro... Antonio Rapisarda

Governo, dopo la fiducia tocca ai sottosegretari. E Conte vuole la lista "prima possibile". Oggi con ogni probabilità il vertice di maggioranza. Ai 5S ne andrebbero tra i 22 e i 23, al Pd tra i 17 e i 18, a Leu 1 o forse 2. L'obiettivo è farli giurare giovedì, giorno in cui è convocato il Consiglio dei ministri. La Repubblica l'11 settembre 2019. Dopo la fiducia ottenuta alla Camera e al Senato, si stringono i tempi per la definizione della squadra di governo. Movimento Cinque Stelle, Partito democratico e Leu sono impegnati nelle ultime trattative per stilare la lista di sottosegretari e vice-ministri. Un vertice di maggioranza definitivo potrebbe andare in scena già oggi. L'obiettivo, per il premier Giuseppe Conte, è fare "il prima possibile", per permettere al governo di "governare": solo dopo aver completato la squadra con i 42 sottosegretari si potrà andare a regime. Ai 5S ne andrebbero tra i 22 e i 23, al Pd tra i 17 e i 18, a Leu 1 o forse 2. L'obiettivo è farli giurare giovedì, quand'è convocato il Consiglio dei ministri.

Il fronte dei 5 Stelle. Tutte le commissioni del M5S hanno concluso il lavoro per l'indicazione dei nomi dei sottosegretari. E oggi i capigruppo del partito di maggioranza dovrebbero portare le loro proposte al capo politico, Luigi Di Maio. Fonti parlamentari riferiscono della conferma di Vittorio Ferraresi alla Giustizia e di Luca Carabetta al Mise.Tra le probabili riconferme anche quella di Stefano Buffagni e di Laura Castelli. Mentre l'ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, potrebbe ottenere il ruolo di sottosegretario agli Interni. La delega ai Servizi potrebbe andare allo stesso presidente del Consiglio Conte.

Nei dem. Nel Pd alcune caselle sono definite ma la squadra è ancora soggetta a modifiche. Spirito unitario ed equilibrio territoriale, sono i criteri del Nazareno. Ma la discussione è accesa anche all'interno delle singole correnti: i nomi renziani, per dire, non sono ancora definiti. Dario Franceschini, che ha anche avuto un colloquio con Matteo Renzi, punterebbe a una stretta sulla lista già oggi. Al Pd dovrebbe andare la delega all'editoria e probabilmente anche quella agli enti locali, compresa quella su Roma Capitale. Tra i dem dati come "sicuri": Antonio Misiani all'Economia, Marina Sereni agli Interni.

Il discorso integrale di Riccardo Molinari, tratto dallo Stenografico della Camera dei Deputati:

RICCARDO MOLINARI (LEGA). Grazie, Presidente. Primo Ministro Conte, noi abbiamo ascoltato con grande interesse il suo discorso programmatico, abbiamo ascoltato le sue repliche, ma abbiamo ascoltato anche con grande interesse la discussione del 20 agosto al Senato, in cui lei doveva spiegare quali erano le ragioni della crisi e doveva rendere edotti il Parlamento e il Paese su quanto stava succedendo. Io credo che sia importante, per quanto lei dica che questo è il passato, tornare su questi argomenti, che gli italiani e tutti noi dobbiamo capire, da una parte, perché la crisi c’è stata e, quindi, perché non c’è più il Governo giallo-verde e, dall’altra, perché nasce questa nuova maggioranza, questo nuovo Governo giallo-rosso o giallo-fucsia, francotedesco, chiamatelo come volete (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier). Io ritengo che la spiegazione sul perché nasce il nuovo Governo non necessiti di tante analisi e di tante parole, fuori da qua è chiaro a tutti: questo è un Governo che nasce perché i partiti che hanno perso tutte le elezioni nell’ultimo anno e mezzo hanno una paura tremenda di confrontarsi con gli elettori e di dare la parola al popolo (Applausi dei deputati del gruppo Lega- Salvini Premier), perché sanno perfettamente che il risultato delle urne ridimensionerebbe la composizione dei gruppi parlamentari e ridimensionerebbe, quindi, la composizione del Governo, cambiandola, probabilmente. Ma credo sia necessario invece spendere qualche parola sul perché la Lega ha aperto la crisi. Presidente, lei ha parlato di convenienze elettorali, io potrei dirle che la ragione sono stati numerosi insulti nella campagna elettorale delle europee che abbiamo subito dal MoVimento 5 Stelle, potrei dirle che sono i tanti “no” che avevano portato l’azione del Governo su un binario morto: il no sulla giustizia, il no sulla riforma dell’autonomia, il no sulla flat tax, il no sulle grandi opere, il no sulla TAV, che ha smentito lei, Presidente Conte, perché è il MoVimento 5 Stelle che ha fatto una mozione al Senato per sfiduciarla, prendendo una posizione diversa dalla sua e da quella del Governo, tanto per ricordare alcune cose (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier). Ma non direi la verità, se dicessi che questo è il motivo, perché il motivo vero è un altro, Presidente. Lei ha detto che non vuole sentir parlare della parola “tradimento”, mi sforzerò di usarne un’altra, ma quando lei è venuto in quest’Aula a chiedere la fiducia, un anno e qualche mese fa, tra i punti cardine del contratto di Governo e del suo impegno presso il Parlamento c’era l’ambizione di guidare un Governo sovranista, che, per la prima volta, essendo un Governo sovranista di uno Stato fondatore dell’Europa, di un grande Paese, della seconda potenza industriale avesse la forza rivoluzionaria propulsiva e dirompente di cambiare gli equilibri europei. E noi ci abbiamo creduto (Applausi dei deputati del gruppo Lega- Salvini Premier), Presidente Conte, e l’abbiamo sostenuta per questo, quindi oggi lei non può sarcasticamente venire qua e dirci: cari amici della Lega, non ci avete aiutato con le alleanze. Ma lei lo sapeva che andava a fare il Premier di un Governo sovranista! Lei lo sapeva chi erano i nostri alleati in Europa! Lei lo sapeva che anche i Cinquestelle avevano l’ambizione di cambiarla l’Europa, non l’ha scoperto dopo (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier, che si levano in piedi). Anche lei, Presidente, sapeva - abbiamo votato risoluzioni, abbiamo votato documenti, abbiamo votato la fiducia - che noi volevamo un’Europa che uscisse dal paradigma ordoliberista, che volevamo un’Europa attenta alle politiche sociali, attenta agli ultimi, attenta ai lavoratori, un’Europa che preferisce salvare i bambini greci che non hanno più gli ospedali rispetto alle banche tedesche che hanno investito e speculato in Grecia (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier). Un’Europa dei popoli e non della finanza, per sintetizzare il concetto. Le abbiamo dato mandato più volte, a lei e al Governo, di prendere delle azioni concrete in Europa per portare avanti questa linea. Le abbiamo chiesto di dire “no” al nuovo Fondo salva-Stati: non c’è una riga nei verbali dell’Eurogruppo in cui lei o il Ministro dell’economia abbiate detto qualcosa sul Fondo salva-Stati (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier). Le abbiamo chiesto di permetterci di avere una manovra espansiva, e lei ci ha portato…

PRESIDENTE. Deputato Borghi! ALESSIA MORANI SVENTOLA IL CARTELLO TORNATE AL PAPEETE QUANDO PARLA MOLINARI.

RICCARDO MOLINARI (LEGA). …un DEF che prevedeva, per la prossima manovra di bilancio, un rapporto deficit PIL all’1,6 per cento, che tanto per intenderci significa non solo non fare la flat tax e non abbassare le tasse, significa anche non finanziare più la “quota 100” e il reddito di cittadinanza, che era il cardine del MoVimento 5 Stelle (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier)! Questi sono fatti (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier)! Allora, Presidente, io non so come lo vuole chiamare questo: tradimento, incoerenza, cambio di idea. Mi chiederei anche come chiamare il fatto che il MoVimento 5 Stelle, grazie alla sua opera, è stato fondamentale per votare Ursula von der Leyen Presidente della Commissione europea (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier). Volevamo fare la rivoluzione, le elezioni europee avevano portato l’Europa a un passo da un cambio di linea, perché il Partito socialista europeo, il Partito popolare europeo e i Liberali non avevano i numeri per eleggere la von der Leyen, ma grazie all’intervento suo e del MoVimento 5 Stelle abbiamo scelto la continuità (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier)! Quindi qua voi ci avete raccontato delle balle per quattordici mesi, quando dicevate che volevate cambiare (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier)! È qua che nasce la crisi di Governo, Presidente! Lei è venuto qui a dirci che sarebbe stato l’avvocato del popolo, lei ha fatto l’avvocato di se stesso nei salotti buoni europei (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier)! Lei si è accreditato con i potenti d’Europa! Lei si è crogiolato del fatto che oggi le Cancellerie internazionali la venerano come uno statista. Pensi un po’, Presidente, ma non le fa venire in mente qualcosa che, fino a qualche mese fa, quando era appoggiato dalla Lega e dai Cinquestelle e basta, lei veniva preso in giro come avvocato di provincia, dicevano che lei era uno che era capitato qua per caso, facevano ironia sul suo curriculum, e magicamente, nel momento in cui ha abbassato la testa rispetto alla Merkel e si è alleato con il Partito Democratico è diventato un novello padre costituente, è diventato il salvatore della patria, è diventato l’uomo della provvidenza (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier), le stesse parole che venivano usate per un tal Mario Monti, altro Governo nato esattamente come il suo, non a Roma, non a Milano, non a Napoli, ma a Francoforte, Berlino e Bruxelles, e Governo, anche quello come il suo, che ha un solo scopo, che è quello di mantenere lo status quo e impedire che quella che è la maggioranza nel Paese diventi anche maggioranza nel palazzo? Anche questo vi accomuna, oltre ai commenti entusiasti della critica, signor Presidente del Consiglio. A fronte di questo, ovviamente, il Partito Democratico si è subito prestato, del resto è il partito più europeista di tutti. E poi, del resto, il Partito Democratico ci ha abituato più volte al concetto che la “ditta” viene prima del popolo, quindi abbiamo già visto tanti Governi che non avevano la maggioranza politica fuori dal Parlamento che, grazie al PD, sono andati avanti (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier – Commenti dei deputati del gruppo Partito Democratico). Ma questo è coerente, a me non sorprende la posizione del PD, il PD nasce per gestire il potere. Avrete un sacco di nomine delle società di Stato da fare, e soprattutto, a breve, potrete eleggere un Presidente della Repubblica gradito al Partito Democratico, quindi il PD ha fatto il suo gioco. Il problema è un altro, Presidente: il problema è che tutte le contraddizioni di questi quattordici mesi sono sparite di botto. Il PD ha votato contro tutti i provvedimenti di questo Governo: il PD ha votato contro la “quota 100”, ha votato contro la “riforma Bonafede” della giustizia, ha votato contro la pace fiscale, ha votato contro i rimborsi ai truffati dalle banche, è il partito che non vuole togliere le concessioni ai Benetton. Ci avete detto che noi eravamo amici dei concessionari perché ci eravamo permessi di dire che le concessioni si tolgono con un procedimento amministrativo, non con un comizio o una conferenza stampa, ora siete alleati di chi, invece, di togliere le concessioni non ne parla più, parla eventualmente di rivederle (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier). Ma tutto questo passa in secondo piano, perché questa crisi ha fatto un grande elemento di chiarezza al Paese: ha svelato - e questo mi dispiace, perché in questi mesi noi abbiamo collaborato con tanti ragazzi del MoVimento 5 Stelle, e crediamo di aver fatto un buon lavoro…Ah, ve lo diciamo subito: risolvete le vostre incoerenze come volete su tutti questi argomenti, ma su “quota 100”, sui diritti dei lavoratori e sulla sicurezza, sul blocco dell’immigrazione clandestina, che abbiamo ottenuto grazie alla determinazione della Lega e Matteo Salvini, voi non passerete, nonostante le vostre contraddizioni (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier, che si levano in piedi). “Quota 100” non si tocca, e l’Italia non tornerà il campo profughi in Europa (Applausi dei deputati del gruppo Lega- Salvini Premier)! E soprattutto, non ripartirà il business dell’immigrazione e delle cooperative: quei 5 miliardi di euro degli italiani che venivano mangiati nel nome della solidarietà non li potete più spendere in quel modo, perché ci sarà la Lega a impedirvelo (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier)! Ma indipendentemente da come risolverete tutto questo, vi dicevo che è stato disvelato - e mi dispiace - il grande bluff del MoVimento 5 Stelle. Il MoVimento 5 Stelle è il partito che appunto voleva fare la rivoluzione, è il partito che però aveva un messaggio: uno vale uno. Dietro questo messaggio si può nascondere un ideale nobile (l’uguaglianza, la democrazia, la partecipazione), ma oggi abbiamo capito cosa vuol dire, invece, uno vale uno: uno vale uno vuol dire che tutti sono sostituibili, indipendentemente da quello che pensano, dai valori che portano, dalle proprie esperienze. Uno vale uno vuol dire che nessuno vale niente. Uno vale uno vuol dire che non si prende parte ma che si è indifferenti agli eventi. Ebbene, l’ha citato prima il collega Garavaglia, Gramsci, lo voglio citare anch’io: noi odiamo gli indifferenti, chi non prende parte e garantisce che il sistema venga perseguito senza nessun ostacolo. E oggi il MoVimento 5 Stelle è diventato per le élite internazionali il garante della stabilità (Applausi dei deputati dei gruppi Lega-Salvini Premier e Forza Italia- Berlusconi Presidente). Parole di Luigi Di Maio, che l’altro giorno ha detto il MoVimento 5 Stelle è il garante della stabilità in questo Paese, e giù applausi, perché grazie a questo Governo abbiamo fermato la speculazione dei mercati finanziari! Ma veramente, ragazzi, siete voi quelli del “Vaffa day”? Siete voi quelli che adesso vi nascondete dietro lo spread per giustificare questa porcata? Veramente, ragazzi del MoVimento 5 Stelle (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier, che si levano in piedi – Commenti dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle)? Voi potete festeggiare per un po’, oggi qualcuno l’ha detto: Salvini ha perso, la Lega voleva chiamare le elezioni univocamente, voleva superare le prerogative parlamentari. Ma una cosa, Presidente Conte: io l’apprezzo molto come accademico, non fosse altro che lei è allievo del professor Alpa, quindi per ragioni campanilistiche non posso che apprezzarlo, però, quando lei parla qui, non parla con i suoi studenti: noi siamo eletti, lei no. (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier, che si levano in piedi). Quindi, quando lei è qui, si ricordi di rivolgersi con rispetto anche a chi non la pensa come lei. E le dico un’altra cosa: io non accetto lezioni di galateo istituzionale da chi è stato messo lì dal partito del “Vaffa day”! Io non accetto lezioni di galateo istituzionale dal partito che ha portato il degrado nel dibattito politico più di chiunque altro, del partito che ha fatto dell’insulto, del dileggio, della calunnia, dello squadrismo sui social network la principale arma di azione politica (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier – Commenti dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle)! Le faccia ai suoi amici le elezioni di galateo, non a noi, Presidente Conte (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier)! Ebbene, mi avvio a concludere, Presidente, voi potrete festeggiare per un po’, perché avete scampato le elezioni, ma, vede, quando i popoli annusano il dolce odore della libertà, prima o poi la rivoluzione democratica arriva. Mi ricordate molto i nobili in Francia, durante la Rivoluzione, quando si chiedeva il pane, offrivano brioche. Magari non è oggi, magari non è domani, ma prima o poi la Bastiglia cade e quel giorno sarà il giorno delle elezioni, il giorno in cui questa terribile esperienza della storia repubblicana sarà dimenticata e quella che è la maggioranza vera del Paese sarà maggioranza anche su quei banchi. Per questo, Presidente, la Lega non voterà la fiducia a questo Governo (Applausi dei deputati del gruppo Lega-Salvini Premier – Congratulazioni – Deputati del gruppo Lega-Salvini Premier scandiscono: Elezioni, elezioni! – La deputata Morani espone un cartello).

PRESIDENTE. Colleghi, colleghi… Deputata Morani, deputata Morani, prego…La richiamo all’ordine! Colleghi, colleghi…

L'imbarazzo dei 5 Stelle Di Maio fugge dall'Aula quando parla Matteo. Sorrisi di circostanza del capo politico. Che poi ammette: «Sono rimasto stupito dal Pd» Domenico Di Sanzo, Mercoledì 11/09/2019, su Il Giornale. Nello stadio di Palazzo Madama, il ministro Luigi Di Maio appare come quello spettatore illustre, ansioso di essere inquadrato dalle telecamere del circuito internazionale. Quella del capo politico del M5s è una partita nella partita, a margine dei tackle che si sono sferrati il leader della Lega Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte nell'aula del Senato. Quando Salvini parla, lui scompare. Si manifesta magicamente di nuovo durante gli interventi di Conte. Di Maio aggrotta le sopracciglia, oppure rimane bloccato in un ghigno apatico, e ancora ride sotto i baffi a ogni stoccata del premier nei confronti dell'ex alleato. A volte sembra rimuginare sull'eventualità che sulla seggiola di capo del governo poteva esserci seduto lui, altre sembra essere mentalmente altrove. L'altrove, in questo caso, sono le sfide che si muovono parallelamente all'ennesima corrida d'Aula. Come le nomine di sottogoverno, i cui esiti sono legati a doppio filo alla tenuta interna di un M5s alla prova con alchimie politiche differenti rispetto all'esperimento gialloverde. Insomma, per Di Maio i problemi non sono pochi. Forse è per questo che dopo che il Senato ha votato la fiducia al Conte bis, il capo del M5s si è concesso una pausa dai tavoli ristretti dove si litiga e ha accettato l'invito di Giovanni Floris. E nello studio di Di Martedì, in onda ieri sera su La7, si è affidato, per cercare di spiegare gli ultimi mesi della convivenza M5s-Lega, a un'astrusa metafora automobilistica. «Dopo le Europee ho detto alla Lega: prendete il commissario e andate a cambiare l'Europa. Secondo: visto che avete a cuore la flat tax prendete il ministero dell'Economia. Sapete che è successo? Mi sono sentito come quello fermo al semaforo rosso che viene tamponato da uno che poi scende e dice: è colpa tua perché hai frenato di colpo. Ma se ero fermo. Allora non ti funzionavano gli stop». Poi un'apertura di credito al Pd: «Ero scettico, ma poi mi hanno stupito». Ma già da oggi Di Maio dovrà tornare a gestire la patata bollente dei grillini con il mal di pancia. Il pallottoliere degli scontenti si aggira su una decina di parlamentari alla Camera e altrettanti al Senato. A Palazzo Madama, oltre a Gianluigi Paragone, ha espresso perplessità il senatore Michele Giarrusso, ma la fronda sarebbe più ampia. Alla fine Paragone si è astenuto ma ha attaccato il «governo dell'assurdo». A Montecitorio, tra i nuovi critici per ora si fanno i nomi di Andrea Colletti, Emanuela Corda, Alvise Maniero, Marialuisa Faro. Pacificati i grillini «di sinistra», alcuni in lizza per un posto da sottosegretario, come i «fichiani» Doriana Sarli e Vincenzo Presutto. Ieri negli uffici del M5s al Senato c'è stato un confronto acceso tra alcuni parlamentari per quanto riguarda la scelta dei sottosegretari. Il nodo, in particolare, sarebbe sull'Economia. Per il Mef si parla di riconfermare Laura Castelli e di Buffagni, in corsa per la delega sulle partecipate, annoverato tra gli scettici sul governo. Nel governo dei separati in casa, non bisogna dimenticare il Pd. Al Nazareno, però, al momento prevale la realpolitik. Nel fortino del segretario Nicola Zingaretti si ragiona su come l'accordo di governo abbia accontentato sia i renziani, sia la nuova maggioranza interna. I mal di pancia, esclusa l'astensione di ieri di Matteo Richetti, sono stati espressi al di fuori dal partito.

"Vecchia mummia", "Arrogante". Bordate in Aula tra Salvini e Conte. Il leghista attacca Pd e M5s: "Siete passati dalla rivoluzione ai voti di Casini, Monti e Renzi. Ora siete minoranza nel Paese". Poi a Conte: "La tua poltrona è figlia della slealtà". Andrea Indini, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. "Non la invidio, presidente Conte...". Nel giorno della fiducia a Palazzo Madama, Matteo Salvini attacca frontalmente gli ex alleati (video). "Siete passati dalla rivoluzione al voto di Casini, Monti e Renzi", dice invitandoli a essere coerenti e non fare retromarcia su misure come quota 100 e i decreti Sicurezza solo per fare dispetto a lui. "Io stasera, quando chiamerò i miei figli, gli parlerò a testa alta, con una poltrona in meno ma tanta dignità in più". E, poi, puntando il dito contro il posto del presidente del Consiglio tuona: "Quella poltrona è figlia di slealtà". La tensione, al Senato, è violentissima. E Giuseppe Conte non fa nulla per stemperarla: "Non vedo alcuna dignità nei suoi voltafaccia". Bordate violentissime tra quelli che meno di due mesi fa erano alleati e che oggi sono a tutti gli effetti avversari. O meglio: nemici. "Conte aveva detto che sarebbe tornato alla sua professione e invece è lì, inchiodato alla poltrona come le vecchie mummie della prima repubblica". Durante l'intervento al Senato, acclamato dai colleghi leghisti che a più riprese scandiscono slogano come "Dignità, dignità", Salvini non fa sconti a nessuno: rinfaccia al premier di aver formato un governo solo sulla base delle "convenienze" di due partiti diametralmente opposti, accusa Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti di essersi messi insieme per vincere la "paura di tornare a casa" e biasima la nuova maggioranza giallorossa di essere "minoranza in tutto il Paese". "Potete scappare per qualche mese ma non potete scappare all'infinito", li avverte ricordando loro che fra poche settimane ci saranno le elezioni regionali. "A meno che non vi inventiate qualcosa - incalza - la liberazione dal Pd potrà diventare realtà nei prossimi mesi". E quel "qualcosa" potrebbe essere proprio il nuovo sodalizio tra Cinque Stelle e democratici che sta prendendo piede anche a livello locale. Le amministrative saranno sicuramente la cartina di tornasole per intravedire l'orientamento di voto degli italiani anche a livello nazionale e carpire un primo giudizio sul nuovo governo. Un governo che, durante il suo intervento in Aula, il leader leghista definisce "legittimo formalmente ma abusivo sostanzialmente", anche perché la sua esistenza viene affidata a senatori a vita "che vengono qui (a Palazzo Madama, ndr) ogni tanto". Salvini conta di "tornare presto al Viminale" ma, finché la maggioranza giallorossa terrà e non si travederanno all'orizzonte nuove elezioni, è ben determinato a portare avanti una opposizione senza esclusione di colpi. Non farà alcuno sconto alla nuova maggioranza quando proverà a ripristinare la legge Fornero o a cancellare i decreti Sicurezza per riaprire i porti agli sbarchi e far ripartire il business dell'accoglienza (video), come non tacerà quando Conte tornerà a inchinarsi all'Unione europea come ha fatto con la cancelliera Angela Merkel quando le ha chiesto qualche consiglio su come farlo fuori (video). "Noi vogliamo un'Italia a testa alta - spiega - l'immagine dell'uomo che sussurrava alla Merkel non fa bene al Paese...". D'altra parte, conclude, "lo stile è sostanza" e "non dipende solo dalla cravatta, dalla pochette e dal capello ben pettinato...". Tra tutti, nel governo, è Conte quello che maggiormente incassa i colpi del leader leghista. E dopo averne presi una caterva replica con altrettanta durezza, non tanto nel merito quanto nei toni. Lo accusa di essersi dimostrato "arrogante", di essere arrivato "unilateralmente" alla crisi di governo e di aver cercato di "prendere i pieni poteri". Questo li ha portati ad essere non tanto avversari quanto veri e propri "nemici". "Non nemici - gli urla Salvini da suo scranno - ma poltronari". È la resa dei conti, la fine di un'alleanza mai del tutto digerita. E ora la guerra (politica) non può che avere inizio. In parlamento e nelle piazze di tutto il Paese.

Da Ansa il 10 settembre 2019.  Incassata la fiducia alla Camera, il governo Conte è oggi al giudizio del Senato. Dopo il dibattito è in corso la prima chiama. Il premier nel suo intervento ha replicato alle parole di Matteo Salvini che lo aveva attaccato parlando di lui come di un "nuovo Monti". "Poi con calma - ha attaccato Conte - nelle prossime settimane spiegherete al Paese cosa ci sia di dignitoso in tutti i repentini voltafaccia che ci sono stati in poche settimane".  "Senza onore!". Così alcuni senatori leghisti hanno urlato interrompendo piu' volte la replica del presidente del Consiglio, che aveva parlato della decisione presa dalla Lega "unilateralmente" l'8 agosto di 'avviare' la crisi di governo. Sono seguiti cori: Dignità, dignità!", scanditi battendo le mani sui banchi. "Evocate spesso il concetto di dignità: è molto importante anche sul piano giuridico, diritto fondamentale della persona. Ma la dignità per quanto riguarda il ruolo e le funzioni del presidente del Consiglio non possono essere riconosciute o meno a seconda che lavori al vostro fianco o meno. Ero l'alfiere degli interessi nazionali fino a ieri e oggi scopro che non lo sono mai stato. La dignità mi può derivare solo dal fatto di servire con disciplina, onore, massimo sforzo e determinazione gli interessi del mio Paese". "Quando ragioniamo di un taglio del cuneo fiscale a totale vantaggio dei lavoratori - ha detto ancora il premier - è perché non vogliamo prendere in giro gli italiani e siamo consapevoli che le risorse in manovra, puntando noi a bloccare l'aumento dell'Iva, scarseggeranno, ma in prospettiva ci auguriamo di avere maggiori risorse anche a favore delle imprese". "Non la invidio - aveva detto Matteo Salvini parlando a nome della Lega - presidente Conte-Monti. Si vede uno quando ha il discorso che gli viene da dentro e quando uno deve eleggere un compitino a cui non crede neanche lui. Siete passati dalla rivoluzione al voto di Casini, Renzi, Monti". "Torno a casa con una poltrona di meno, ma con tanta dignità in più. Lascio voi - aggiunge - a giudicare se questa operazione è di verità, e di coscienza: milioni di italiani non la pensano così". "Siamo pubblici dipendenti - ha detto Salvini - dovremmo essere contenti di essere giudicati dai nostri datori di lavoro: chi non vuole passare dal voto vuol dire che non ha la coscienza a posto". "Noi antidemocratici abbiamo messo sul tavolo sette ministeri per andare a votare. Abbiamo sottovalutato la fame di poltrone", ha detto. "Mi accingo a esprimere fiduciosa un voto favorevole a questo governo", ha dettola senatrice a vita Liliana Segre interviene in Aula al Senato nel corso del dibattito sulla fiducia al nuovo Esecutivo. "Se dovessi essere coerente con me stesso dovrei votare la fiducia" e "oggi ho deciso di pretendere maggiore coerenza da me stesso - ha detto anche l'ex premier e senatore a vita Mario Monti - che da altri e quindi di mettere alla prova una posizione di sostegno alla fiducia ma sottolineo molto che è indispensabile un vero mutamento di indirizzo". "Sono dispiaciuto che le mie attuali condizioni di salute non mi consentano oggi di prendere parte alla seduta del Senato sulla fiducia. Intendo però rendere noto il mio orientamento, come Senatore di Diritto e a Vita, favorevole alla nascita del nuovo governo, pur di fronte a oggettive difficoltà e alla necessità di meglio definire convergenze politiche e programmatiche e la loro tenuta nel tempo". Lo afferma il presidente emerito della Repubblica e senatore a vita Giorgio Napolitano.

Conte all’ex alleato: «La crisi? Gesto arrogante di chi voleva pieni poteri». Il presidente del Consiglio incassa la fiducia anche di Palazzo Madama. I leghisti lo accolgono in Aula al grido di “traditore”. Rocco Vazzana l'11 Settembre 2019 su Il Dubbio. «Non abbiate paura delle parole». Giuseppe Conte si appella al buonsenso dei senatori leghisti per poter proseguire il suo discorso a Palazzo Madama ripetutamente interrotto. È il giorno della seconda fiducia, dopo quella alla Camera, e il presidente del Consiglio aspetta pazientemente il momento della sua replica agli interventi che per tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio si sono succeduti in Aula. Ore di urla, insulti e colpi di scena. Come quando la senatrice leghista, Lucia Borgonzoni, sottosegretaria ai Beni culturali ai tempi del Conte uno, sveste la giacca per sfoggiare una maglietta con su scritto «parliamo di Bibbiano». È dunque inevitabile che l’inquilino di Palazzo Chigi spenda buona parte del tempo a sua disposizione per ribattere al tutte le accuse leghiste. Si concede una piccola premessa per rivendicare la nomina di Paolo Gentiloni a commissario degli Affari economici Ue. «La neo presidente Ursula von der Leyen riconosce all’Italia il portafoglio più forte che c’è», dice il premier, che proprio sul voto a Bruxelles separò il suo destino politico da quello di Matteo Salvini. «Vi invito a considerare il commissario come colui che rappresenterà l’Italia intera. Lo farà per cinque anni, sarà un importante presidio non per la maggioranza di turno», sottolinea Conte.

Che dopo la premessa parte all’attacco dell’ex ministro dell’Interno intervenuto solo pochi istanti prima. «Molte dichiarazioni indulgono sul passato, sono rimaste ferme all’ 8 agosto, quando, con una certa arroganza, una forza politica ha ritenuto di arrivare unilateralmente a una crisi di governo, di portare il Paese alle elezioni, alla campagna elettorale da ministro dell’Interno, e ancora sempre unilateralmente e arbitrariamente di concentrare definitivamente tutti i poteri, pieni poteri», è l’atto d’accusa nei confronti di Salvini che adesso invoca le piazze contro il governo delle «poltrone». I senatori del Carroccio insorgono, si sbracciano e lanciano improperi all’indirizzo del premier. Altra pausa. Altro sguardo agli ex alleati, poi Conte prosegue. «Se questo era lo schema, il progetto, l’obiettivo, è comprensibile che chiunque l’abbia ostacolato, pur nel rispetto della Costituzione, per senso di responsabilità sia diventato nemico. Gli amici di ieri, gli interpreti del cambiamento diventano nemici». Il segretario della Lega ascolta la replica immobile mentre i suoi compagni di partito urlano a squarciagola. Ed è proprio a lui, a Salvini, che Conte si rivolge quando afferma: «Assegnare ad altri le proprie colpe è il percorso più lineare per essere deresponsabilizzati a vita, un modo certo, non il migliore, per salvare la propria leadership». Come a dire: tutta la bagarre di questi giorni è frutto di un calcolo sbagliato dell’ex inquilino del Viminale, che adesso aizza i suoi per restare in sella al partita. «Errare è umano, ma dare agli altri le proprie colpe è il modo migliore per conservare la leadership del proprio partito», insiste il presidente del Consiglio. Ma l’arringa non è ancora finita. Conte deve togliersi tutti i sassolini accumulati nelle scarpe in una due giorni di interventi e insulti tra Camera e Senato. E con consueta mitezza lancia l’ultimo “siluro” agli ex soci di governo. «Sento spesso richiamare il termine dignità», dice, rivolgendosi ai parlamentari del Carroccio che più volte hanno scandito in coro la parola «dignità» nel corso della giornata. «Fino a ieri ero l’alfiere degli interessi nazionali e ora scopro che non lo sono mai stato. Avrete modo di spiegare agli italiani cosa ci sia di dignitoso in tutti i volta- faccia che ci sono stati nelle ultime settimane». La reazione è da copione: nuova bagarre, mentre Salvini e Calderoli applaudono ironici. Esaurita la fase della replica ai leghisti, Conte si dedica all’esposizione del programma. Un bignami, rispetto all’ora e mezza dedicata il giorno precedente a Montecitorio. Scuola e ricerca, riforma fiscale, lavoro. C’è ancora spazio però per una puntualizzazione sul caso Bibbiano, il protagonista indiscusso dell’opposizione saliviniana negli ultimi giorni. Sugli affidi illeciti il governo «non interviene sulle inchieste in corso ma una misura è stata adottata: è stata istituita presso il ministero della giustizia una commissione per un più efficace censimento degli affidi», spiega il capo dell’esecutivo. Infine, da segnalare, le parole di Andrea Marcucci, capogruppo Pd a Palazzo Madama e neo alleato del M5S, che nell’annunciare la fiducia dem al nuovo governo risponde ai leghisti: «Anche io non vi invidio quando parlate di onore e tradimento per come vi siete comportati di fronte al paese e avete deciso di privilegiare l’interesse di parte e lo avete fatto senza scrupoli. Le elezioni si faranno nel momento in cui la Costituzione le prevede». Con 169 sì, 133 no e 5 astenuti, il governo incassa la fiducia.

L’anatema di Salvini: «Governo di poltronari, non durerete…» Il nuovo esecutivo è «formalmente legittimo, ma sostanzialmente abusivo», ha dichiarato a Palazzo Madama l’ex vicepremier leghista. Rocco Vazzana l'11 Settembre 2019 su Il Dubbio. «Non la invidio presidente Conte- Monti, siete passati dalla rivoluzione che volevate fare ad avere il voto di Casini, Monti e Renzi». Fin dalle battute è subito chiaro quale sarà il tema centrale del discorso di Matteo Salvini al Senato: Giuseppe Conte. Il leader della Lega prende di mira il premier come se volesse sfogarsi dopo settimane di tensione finite con un finale imprevisto: Salvini fuori dal Viminale e nuova maggioranza tra Pd e Movimento 5 Stelle. Nella retorica del Carroccio il presidente del Consiglio viene descritto come un “poltronaro” protagonista di una giravolta «figlia della slealtà, del tradimento e dell’interesse personale», accusa. «Aveva detto che sarebbe tornato alla sua professione e poi è inchiodato lì, alla poltrona, come le vecchie mummie della prima Repubblica». Il numero uno di Palazzo Chigi diventa, per tutto il tempo dell’intervento, «Conte- Monti», a voler sottolineare un “colpo di mano” organizzato a Bruxelles, da quei poteri forti più volte evocati dalla Lega nelle ultime settimane. Salvini si accalora mentre i suoi colleghi di partito lo sostengono con applausi e cori, ma dai banchi del governo manca qualcuno. Luigi Di Maio, il capo politico con cui “il capitano” sottoscrisse il contratto di governo poco più di un anno fa, è assente. L’ex ministro dell’Interno non se ne cura e prosegue nel tiro al bersaglio grosso: Conte. «L’Europa la vogliamo diversa. E vogliamo un’Italia a testa alta: l’immagine dell’uomo che sussurrava alla Merkel non fa bene al Paese. A proposito di stile… alla faccia», insiste Salvini. «Lo stile non lo fa la cravatta, la pochette o il capello ben pettinato». Non solo. «Aspettate a festeggiare perché tutto può fare Gentiloni fuorché avere un occhio di riguardo nei confronti dell’Italia. Presidente Conte le hanno rifilato una sola…», prosegue Salvini, sminuendo il risultato delle contrattazioni con Bruxelles. Il nuovo esecutivo, per il numero uno di via Belle- rio, è formalmente «legittimo» ma sostanzialmente «abusivo». Salvini poi si scaglia contro la sinistra, a suo modo di dire allergica alla piazza. «Abituatevi alle piazze, siete minoranza nel Paese: voi siete maggioranza solo nei giochi di palazzo per salvare le poltrone», dice. «Il governo è basato sulla spartizione delle poltrone e sulla paura del voto degli italiani. È questa l’unica paura esistente. Noi rispondiamo con il sorriso amando i nostri avversari». E con amore, lancia un anatema alla nuova maggioranza: «Siete minoranza nel Paese» e lo siete «anche nei vostri partiti. Potete scappare per qualche mese ma non potete scappare all’infinito, ci sono anche le elezioni regionali, a meno che non vi inventiate qualcosa la liberazione dal Pd potrà diventare realtà nei prossimi mesi». Ovviamente Salvini non si fa sfuggire l’occasione di nominare il caso Bibbiano nel corso del suo intervento. Del resto, da giorni i suoi parlamentari urlano il nome della cittadina emiliana nelle Aule come nelle piazze. L’ex sottosegretaria ai Beni culturali, Lucia Borgonzoni, poco prima dell’intervento del segretario leghista ha perfino sfoggiato una maglietta con su scritto «parlateci di Bibbiano», costringendo la presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, a sospendere la seduta. Il capo del Carroccio sembra una furia, non fa sconti a nessuno, nemmeno ai senatori a vita, che si apprestano a concedere la fiducia al Conte due: «Un figura assolutamente superata. È la casta della casta della casta», dice, impossessandosi improvvisamente dell’argomento fondativo dell’esperienza pentastellata: la lotta alla casta. Perché il Salvini d’opposizione è pronto a prendersi tutti gli spazi lasciati vuoti dagli altri partiti lungo il cammino istituzionale. Parole “distensive” vengono riservate solo alla neo inquilina del Viminale, Luciana Lamorgese: «Sono assolutamente a disposizione del nuovo ministro degli Interni per i dossier aperti. Non per i consigli perché non ne ha bisogno, ma può contare sulla mia leale collaborazione perché si occupa di sicurezza del Paese. Mi auguro che non si pieghi ai ricattucci della sinistra cancellando i decreti sicurezza perché farebbe il male di questo Paese». I senatori della Lega riservano un’ovazione, dopo ore di urla contro i banchi del governo. Resta solo una precisazione da fare nel campo del centro destra. Ma non è Salvini a chiedere una puntualizzazione, ma Renato Schifani, di Forza Italia, che prende la parola per «tranquillizzare Salvini che Forza Italia non ha alcuna intenzione di prendere parte a un governo Conte», come aveva lasciato intendere l’ex ministro nel suo intervento. La discussione si può chiudere. Il governo Conte ha incassato la prima fiducia.

Governo Conte, la fiducia al Senato. Salvini: «Traditore, servo di Macron e Merkel». Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Corriere.it. Il voto di fiducia al Senato sul nuovo governo Conte è meno scontato rispetto a quello di ieri alla Camera, ma sulla carta i numeri per il via libera ci dovrebbero essere. La maggioranza M5S-Pd-Leu potrebbe contare teoricamente su circa 175 voti, contando anche i senatori non iscritti, ma ci potrebbero essere diverse defezioni, in particolare tra i pentastellati dissenzienti (sicuramente Paragone, in dubbio Airola) e fuoriusciti (per ora solo la senatrice Nugnes ha detto espressamente che voterà sì), oltre a quella di Emma Bonino, che ha scelto di non dare per ora la fiducia all’esecutivo giallorosso. Molti tra senatori a vita e esponenti del gruppo Misto si sono resi disponibili a far partire il governo — tra loro Liliana Segre che festeggia in Aula i suoi 89 anni —, ma solo alla fine della seconda chiama, attorno all’ora di cena, si saprà se la maggioranza di 160 sarà raggiunta (il plenum di Palazzo Madama è attualmente di 319 senatori). Ma prima di arrivare alla conta finale, a tenere banco è il nuovo annunciato «duello» tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Salvini ha già parlato, Conte lo farà nella replica finale. Salvini parte con il botto, chiama più volte il premier «presidente Conte-Monti» e lo accusa di avere fatto tutto per «una poltrona figlia di slealtà e di tradimento» e di essere «incollato a quella poltrona come una vecchia mummia della prima repubblica». «Le lascio la sua poltrona — dice Salvini —, io mi tengo il mio onore e l’affetto di milioni di italiani. Per noi “mai col Pd” rimane “mai col Pd”». Salvini sottolinea che la nascente alleanza giallo-rossa è fatta «solo per tenere fuori la Lega» e lo dimostrerebbe l’intenzione di mettere da subito mano alla legge elettorale, con il ritorno al proporzionale. «Sembra di tornare al pentapartito — fa notare Salvini —. Chi ha paura del voto degli italiani è perché pensa di non meritarlo». «Lo stile non lo fa la cravatta, la pochette, il capello ben pettinato» aggiunge poi il leghista rinfacciando al premier di non avere mai voluto infierire sulle sue disavventure a inizio di legislatura (la vicenda del curriculum gonfiato), diversamente — sembra di leggere tra le righe — da come lui lo ha poi strapazzato il 20 agosto al Senato in occasione dello showdown del precedente governo. Lo accusa poi di essere «l’uomo che sussurrava alla Merkel», di avere «svenduto l’interesse italiano», di avere preso una «sòla» con la nomina di Paolo Gentiloni a commissario per gli Affari economici della Ue, «visto che tutto sarà sotto il controllo del vicepresidente Dombrovskis che è un falco della Ue». In mattinata aveva dichiarato che alla base di questa nomina c’è un vero e proprio «patto col diavolo» che poi i diavoli sarebbero due, il presidente francese Macron e la cancelliera tedesca Merkel. «Ma state tranquilli — è la conclusione di Salvini —: non potete scappare per sempre, noi torneremo alla guida di questo Paese e lo faremo per amore dell’Italia e non delle poltrone». Intanto in mattinata la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, è stata costretta a sospendere la seduta dopo che la senatrice leghista Lucia Borgonzoni ha mostrato una maglietta con la scritta «Parliamo di Bibbiano». La presidente ha invitato più volte la senatrice a coprire la maglia e, al suo diniego, ha deciso la sospensione dei lavori. A Bibbiano ha fatto riferimento anche Salvini nel suo intervento, spiegando che «noi siamo per la famiglia», che «un bambino ha una mamma e un papà e non dovrebbe essere sottratto loro» e parlare di questo «non dovrebbe infastidire nessuno, men che meno il presidente del consiglio».

Fabio Martini per la Stampa l11 settembre 2019. Nell' austera e ovattata aula del Senato, per ore e ore, i due si sono sogguardati a distanza e quando è arrivato il momento di prendere la parola, si sono scambiati parole taglienti. Taglienti sì, ma - ecco la sorpresa - senza affondare il colpo, senza cercare la ferita che lascia la cicatrice. Per primo ha preso la parola Matteo Salvini. Seduto sui banchi della Lega, con un giacca scura, elegante, ha parlato da senatore semplice, battendo per 21 minuti quasi sempre sul concetto del nuovo governo «inchiodato alle poltrone», anche se la battuta che più gli stava a cuore l' ha detta all' inizio e poi l' ha ripetuta tre volte: «Non la invidio, presidente Conte-Monti». E quanto al presidente del Consiglio - intervenuto poco dopo - ha infilzato Salvini più volte, ma alla fine la battuta più cattiva non è stata personalistica ma politica: «Assegnare ad altri le proprie colpe è il più limpido percorso per rimanere deresponsabilizzati a vita, per non confrontarsi con le conseguenze delle proprie decisioni. È un modo certo per conservare la leadership di un partito». Ma alla fine entrambi sono stati ben attenti a non lasciarsi sfuggire il colpo da kappaò, o comunque, quello che fa davvero male. Per rispetto della vita trascorsa in comune? O perché si sono scelti come rispettivi, futuri avversari? Mentre lascia l' aula, il senatore Gaetano Quagliariello, che è anche storico e osservatore fine della politica, annuisce e annota: «A Salvini piace pensare a Conte che si conservi a lungo premier alla Monti e "investe" su questa immagine, mentre a Conte piace un Salvini "lego-fascista", perché un centrodestra con quella connotazione gli garantisce lunga vita come leader di un nuovo schieramento di sinistra-centro». E dunque, il mortale duello tra Conte e Salvini c' è stato, ma solo a metà. Un personaggio tosto come Salvini era atteso da tutti con un numero di alta scuola. Sin dalle prime parole («Siete passati dalla rivoluzione al voto di Casini, di Monti e di Renzi, con tutto il rispetto») si è capito che sarebbe stato un florilegio di battute ad effetto. Salvini ricorda che Renzi il 7 agosto disse: «Conte è semplicemente imbarazzante». Il capo della Lega martella, dice che il premier «è come le vecchie mummie della Prima Repubblica», ricorda il suo curriculum, le sue consulenze, «i suoi potenziali conflitti di interesse e i suoi studi fantasma col professor Alpa». Mentre Salvini parla, Conte seduto nella sua "poltronissima" tra i banchi del governo, affetta indifferenza: muove le carte, prende un appunto, ogni tanto guarda il suo "nemico" ma riabbassa subito lo sguardo e torna a muovere fogli. Ma intanto l' altro continua a battere: «Una poltrona figlia di slealtà, di tradimento, di interesse personale: fosse la più importante del mondo, io non riuscirei mai ad occuparla neanche per un quarto d' ora». I leghisti applaudono, ma senza passione, i decibel restano bassi. Forse il Capitano non è in gran giornata? O si prepara ad una traversata nel deserto e capisce che non potrà farla tutta urlando e di corsa? Curioso il passaggio nel quale dice che non farà mancare il suo consiglio al nuovo ministro dell' Interno, curioso il passaggio nel quale dice che lui risponde «col sorriso, amando i nemici» e curioso anche quando parla di «una sana, robusta e onesta opposizione». Poi parla Conte, ricorda le pretese del capo della Lega di andare ad elezioni senza averne il potere, anche se la parte contundente - per nulla spettacolare - è la lezione di diritto costituzionale con la quale chiude il suo intervento: sul decreto sicurezza-bis il nuovo governo raccoglierà le osservazioni di Mattarella, anche perché «chi ha una minima educazione giuridica sa bene che ogni norma possiamo anche scriverla in modo chiarissimo, ma sarà interpretata in senso costituzionalmente orientato» in un sistema giuridico incardinato su «un' architettura sovranazionale». Un modo elegante per dare degli ignoranti ai leghisti. A fine giornata, incassata la fiducia al Senato con 169 sì, 133 no, 5 astenuti (tra cui Paragone e Richetti, che in serata annuncia di passare al Misto), Conte approda su Twitter: «Una stagione riformatrice di rilancio e speranza».

Da Adnkronos il 10 settembre 2019.  Applausi ironici dai banchi della Lega all'intervento di Pier Ferdinando Casini. "Non abbiate crisi di gelosia. Le donne tradite sono sempre le peggiori", ha replicato il senatore del gruppo delle Autonomie agli sfottò del Carroccio nell'aula del Senato iniziati dopo che Casini ha detto ai senatori 5 stelle "Chi l'avrebbe mai detto che ci saremmo trovato seduti così vicino?". Agli applausi ironici della Lega Casini ha anche aggiunto "Mi piacciono queste conversioni tardive".

Il lapsus della Casellati: "Senatore Casini termini". Salvini: "Casini no..." La presidente del Senato è protagonista di un lapsus. E Salvini subito ci tiene a precisare: "Casini no, per favore". Giovanna Stella, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. Anche il giorno del voto al Senato è arrivato. L'aria che si respira fra i senatori è piuttosto tesa. Nonostante sia cosa più o meno certa che il Conte bis riceverà la fiducia nelle prossime ore, la paura è sempre dietro l'angolo. E a scaldare gli animi è stato l'intervento di Matteo Salvini. L'ex titolare del Viminale si è tolto tutti i sassolini dalle scarpe e non ha risparmiato niente e nessuno. "Noi ci siamo - ha detto il leader della Lega - faremo opposizione leale a questo governo, lo faremo nelle piazze che qualcuno vorrebbe chiudere. Voi avete x tempo per dimostrare quello che potete fare ma avete zero sostegno popolare. Questo governo è legittimo formalmente ma abusivo sostanzialmente". Salvini in Senato ribadisce la linea della Lega, non manca di definire Conte come "l'uomo che sussurrava alla Merkel" e ogni tanto - apposta - lo chiama Conte/Monti. Anche su Paolo Gentiloni ha qualcosa da dire: "Oggi un giorno di festa perchè è stato nominato Gentiloni commissario Ue? Io aspetterei a festeggiare, è un commissario controllato, se avete svenduto l'interesse nazionale per qualche poltrona lo avete svenduto male perchè signor presidente le hanno rifilato una sola". Ma è proprio quando il tempo è terminato e Salvini deve fare il punto che al Senato ci scappa un lapsus "divertente". La presdiente del Senato, Elisabetta Casellati, infatti, invita l'ex ministro dell'Interno a terminare il discorso. "Senatore Casini - dice - la invito...". Ma subito Salvini la blocca. E fra le risate dei senatori e le sue esclama: "Casino no, per favore". Proprio poco prima, il leader del Carroccio aveva ammonito i M5S di essere "passati dalla rivoluzione al voto di Casini, Monti e Renzi".

Lo strano no di Emma al governo più europeista. Reazione alla nomina di Di Maio alla Farnesina o altro? Rimane il fatto che + Europa dice no ad un governo che rilancia il rapporto con la Ue. Davide Varì l'11 Settembre 2019 su Il Dubbio. Il governo più europeista dai tempi di Mario Monti non avrà il voto di Emma Bonino. E non ci sarebbe nulla di male se non fosse che Bonino è la leader di un partito che ha scelto di chiamarsi “+ Europa”. I bisbigli più maligni che arrivano dal Transatlantico fanno sapere che Emma avrebbe considerato decisamente più europeo un governo con lei alla guida della Farnesina. Ma come è noto il ministero degli Esteri è finito nelle mani dell’ex vicepremier Di Maio, il quale ha tutta l’intenzione di trasformare la Farnesina in un bunker accessibile solo ai fedelissimi: quelli che fino all’ultimo hanno gridato: “mai col partito di Bibbiano”. E che ieri hanno accolto con malcelato gelo e distacco la nascita del Conte bis. «La Farnesina non può essere trasformata nel quartier generale di un partito o la sede di un governo ombra», ha tuonato nel suo intervento in Senato Emma Bonino. Ma la storica leader radicale ha criticato anche il programma di Conte, definendolo non solo «enciclopedico» ma un «un libro dei sogni e una fiera delle ovvietà». «Ottimo e abbondante, avrebbe detto mia mamma, aggiungendo che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e per me c’è un oceano». Risultato: + Europa, – fiducia.

MI ASTENGO QUINDI ESISTO. Da Huffingtonpost il 10 settembre 2019. Due senatori dissidenti, uno grillino uno dem. Gianluigi Paragone del Movimento 5 stelle ha annunciato in Aula del Senato che non vota contro la fiducia al governo Conte II ma si astiene.” La mia tentazione di votare No è forte ma mi asterrò”. Anche nel Partito Democratico c’è un senatore dissidente che si dissocia dal suo gruppo parlamentare: si tratta di Matteo Richetti, anche lui contrario all’alleanza tra dem e Movimento 5 Stelle, sulla linea quindi dell’europarlamentare ex Pd Carlo Calenda. Richetti non vota contro ma si astiene. “Presidente Conte dopo questo voto lei sarà anche il mio presidente del Consiglio ma non avrà la mia fiducia. E’ uno dei giorni più difficili per me”, confessa Richetti. “Non posso per coerenza votare la fiducia a un governo nato su basi di convenienza e ambiguità”, ha aggiunto. “Mi atterrò perché non voglio cumulare il mio voto a quello della Lega”. “Andrò nel gruppo Misto per rispetto al mio gruppo e ho messo nel conto di lasciare il Pd. Non ho votato la fiducia e comincerò a costruire un nuovo spazio magari insieme a Calenda”, ha detto Richetti ai microfoni di La 7. “Io oggi- spiega- ho vissuto le ore più brutte della mia vita, ma penso che questo partito abbia bisogno di qualcuno che dice basta. Questo Pd sta soffocando le energie e la libertà e questa scelta ha un tasso di ambiguità troppo elevato, non solo per il Pd ma anche per il paese”.

Gianluigi Paragone attacca Giuseppe Conte: "Come Il Rinoceronte". Eppure resta al suo posto. Libero Quotidiano l'11 Settembre 2019. Anche ad Agorà, in diretta su Rai 3, Gianluigi Paragone - il grillino fedelissimo di Alessandro Di Battista - cerca di spiegare la sua ultima piroetta. Ricapitolando: aveva promesso che in caso di accordo col Pd avrebbe lasciato il M5s e non lo ha fatto; aveva poi promesso che avrebbe votato la sfiducia a Giuseppe Conte in Senato, e non lo ha fatto optando per l'astensione (che equivale a Palazzo Madama al voto contrario ma non è certo il secco "no" che aveva annunciato). Ed eccolo, dunque, in televisione affermare che "il rispetto per la piattaforma Rousseau e i colleghi ieri si è esaurito. Credo che il M5s stia vivendo in una ipnosi, in buona fede". Chi lo ha ipnotizzato?, gli chiede Serena Bortone. E il grillino: "Beh, questo miracolo contiano. Quest'uomo che appartiene molto al teatro dell'assurdo di Ionesco: Il rinoceronte - si lancia Paragone - è una commedia bellissima, dove le persone si trasformano in rinoceronti. Nel primo atto alcuni personaggi che contestano la trasformazione dei cittadini in rinoceronti che scorrazzano per la città facendo danni inenarrabili, nel secondo atto, quindi nel Conte-bis, si trasformano in rinoceronti perché hanno voglia di essere come loro. Era un'allegoria, la metafora della dittatura comunista. Qui non siamo nella dittatura comunista, ma è il pensiero unico che l'Europa e il neoliberismo impiantato e incistato nell'Europa ahimè oggi domina". Belle parole. Probabilmente ha ragione. Resta però il fatto che al netto delle minacce d'addio e delle promesse circa la sfiducia, Paragone è ancora lì. Ora spiega che "il rispetto per la piattaforma Rousseau e i colleghi" si è esaurito con la fiducia a Palazzo Madama. Eppure... è ancora lì, col M5s.

Francesca Schianchi per “la Stampa” il 10 settembre 2019. Lungo l' ora e venti di discorso del premier Conte, Giancarlo Giorgetti resta serafico seduto al suo posto. Mentre accanto a lui nei banchi della Lega si intonano cori «e-le-zio-ni» e urla «Bibbiano», mentre altri, come il deputato Igor Iezzi, escono dall' emiciclo con la voce roca e un livido sul pollice a furia di battere le mani sul banco, l' ex sottosegretario alla presidenza del consiglio resta tranquillo, ascolta, ogni tanto commenta le parole del premier col vicino di banco, l' ex ministro Lorenzo Fontana. Fuori alcuni colleghi leghisti partecipano alla manifestazione insieme a quasi tutti i deputati di Fratelli d' Italia, che lasciano semideserti i banchi tutti a destra. Di fronte a Montecitorio, nel presidio animato dal suo leader Matteo Salvini e da Giorgia Meloni, ci andrà più tardi, «starò in mezzo alla gente, mi dispiace che abbiano chiuso tutti gli accessi alla piazza e c' è gente che non riesce ad arrivare», commenta. Nel frattempo, scene da manifestazione anche in Aula: «Sono 23 anni che sono qui dentro, ne ho viste di tutti i colori», scherza, «mi sembra tutto surreale: quelli che si mandavano affa..., ora si applaudono, e quelli che prima si applaudivano, adesso si mandano a quel paese...». Si infila dentro l' ascensore che lo porta verso il suo nuovo ufficio, nell' area degli uffici della Lega, una stanza ancora spoglia - scrivania, divano, tre-quattro foto di famiglia ma non quella di Renzi, che aveva raccomandato a tutti i ministri del Carroccio come monito per ricordare quanto velocemente si può slittare dal 40 per cento alla sconfitta - «non serve più» -, il calendario disegnato dalla figlia a scuola ancora da appendere.

Che ne dice del discorso del premier?

«Conte ha cambiato pelle dopo le elezioni europee, se ne sono accorti tutti. Ha maturato la consapevolezza che o prendeva in mano lui la situazione o finiva male. E ha preso in mano lui la situazione, ha iniziato a fare il leader».

Come li vede Pd e Cinque stelle?

«Secondo lei questo governo nasce da un atto di passione, c' è stata una scintilla?».

Può essere una scintilla anche accorgersi di poter fermare un avversario politico, non crede?

«Pensi a una relazione amorosa e veda che conclusione ne trae».

Di fatto però oggi il governo prende la fiducia e parte. Dica la verità, avete fatto un autogol ad aprire la crisi?

«Voi continuate a ragionare con la logica del Palazzo. Noi non siamo fatti come gli altri. Io avrei potuto dire "faccio il commissario europeo", come mi dicevano tutti, "vai, guadagni un sacco di soldi". No, io non potevo stare lì facendo finta di niente. No. Noi che ragioniamo in maniera semplice, magari ingenua, abbiamo detto "se una cosa non può andare avanti, non va avanti". E dopo tu sei fesso perché fai così?».

Però se voi pensavate di fare il bene del Paese, uscendo dal governo non potete più farlo, no?

«Facciamo l' opposizione. Poi se lei va in giro nei bar, nei luoghi pubblici, sui mezzi di trasporto, e sente cosa pensa la gente di questa cosa qua Io penso che la politica sia andare in giro a testa alta. E se fossi stato un ministro oggi avrei avuto vergogna».

Fa una previsione? Quanto dura questo governo?

«Una roba così può anche durare. È un governo che nasce per durare, non per fare questo o quello».

Matteo Salvini, primo addio alla Lega: Carmelo Lo Monte lascia il gruppo alla Camera, chi è il "trasformista". Libero Quotidiano l'11 Settembre 2019. Prima è stato tirato per la giacchetta da tutta la Lega, o quasi, affinché scaricasse il M5s e archiviasse il governo gialloverde. Poi, pur avendo sì sbagliato il tempismo, Matteo Salvini è stato criticato da alcuni esponenti del Carroccio per aver dato il là alla crisi. Ed in questo contesto, si registra anche uno dei primi addii alla Lega in Parlamento. Una rottura ufficializzata proprio nei momenti in cui al Senato si votava la fiducia a Giuseppe Conte-bis. Un addio, però, alla Camera: lascia il messinese Carmelo Lo Monte, che se ne va dal gruppo del Carroccio per aderire al Gruppo Misto. Va detto che i cambi di casacca, per Lo Monte, sono all'ordine del giorno. Nella sua carriera politica ha militato nella bellezza di otto partiti: Democrazia Cristiana, Partito Popolare Italiano, Democrazia Europea, Unione di Centro, Movimento per le Autonomie, Centro Democratico, Partito Socialista Italiano e Noi con Salvini, la costola della Lega al Sud. La prima volta fu eletto con la Lega nelle elezioni politiche del 2006, sempre a Montecitorio, nella circoscrizione Sicilia 2. Dopo una serie di cambi di casacca era tornato nel Carroccio nel dicembre 2017, abbandonando il Psi. Un assoluto trasformista, insomma.

Da Libero Quotidiano il 10 settembre 2019. In pochi lo hanno notato ma ieri, lunedì 9 settembre, alla Camera per ascoltare il discorso di Giuseppe Conte e poi per votare la fiducia, c'era anche Maria Elena Boschi. La fu sottosegretaria Pd che, insieme a Matteo Renzi, è sempre stata bersaglio prediletto degli attacchi e degli insulti di quegli stessi grillini con cui adesso governo. Va da sé, tra i molti democratici delusi da questo nuovo governo (anche se non lo ammetterà mai) c'è proprio lei. E non a caso in pochi, ieri, hanno notato la sua presenza in aula. Anche perché lei stessa ha fatto il meno possibile per farsi notare. E alla vicenda, alla piddina silenziosa, Il Fatto Quotidiano dedica un titolone nelle pagine interne dal quale apprendiamo che "Boschi quasi non applaude". Come spiega l'articolo, la Boschi, "quando il premier finisce di parlare non si lascia andare a commenti particolarmente elogiativi, ma neanche a critiche seppur velate. Più che altro - prosegue il pezzo -, ostenta una sorta di indifferenza". E la ha ostentata anche e soprattutto non applaudendo praticamente mai, eccezion fatta per la difesa d'ufficio di Teresa Bellanova e pochi altri passaggi. Una 'cartolina' che dà in modo plastico la cifra di questo governo, un esecutivo in cui i due partiti letteralmente non si sopportano.

Liliana Segre, il compleanno (89 anni) in Aula: «Voto sì, eravamo sul precipizio». Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Corriere.it. «Vorrei che questo governo nascesse dalla consapevolezza di uno scampato pericolo, dal senso di sollievo dopo che si è giunti sull’orlo di un precipizio e ci si ritrae in tempo». E poi: «Occorre ripristinare un terreno di valori condiviso nella difesa costante della democrazia e dei principi di solidarietà nati dalla Costituzione e dalla Resistenza». Con queste parole la senatrice a vita Liliana Segre, deportata ad Auschwitz e sopravvissuta all’Olocausto, ha annunciato il suo «sì» alla fiducia per il governo Conte II. L’intervento della senatrice è stato preceduto da un lungo applauso nel giorno del suo compleanno: «Quest’anno sono 89», ha detto Liliana Segre in Aula: «La mia speranza è che il nuovo governo faccia proprio quel senso del dovere civile». Segre ha citato anche le parole del poeta inglese John Donne: «”Non chiedere mai per chi suona la campana, essa suona per te”. È con questo spirito che voterò “sì”». Segre non ha usato mezzi termini: «Mi hanno preoccupato i numerosi episodi susseguitisi durante l’ultimo anno che mi hanno fatto temere un imbarbarimento con casi di razzismo trattati con indulgenza, la diffusione dei linguaggi di odio. Il continuo richiamo della politica italiana a simboli religiosi le ricorda il "Gott mit uns" (in tedesco letteralmente "Dio con noi")». "Gott mit uns" era il simbolo scritto nelle fibbie dell’esercito nazista. Al posto della precedente aquila di Weimar, i nazisti inserirono un’aquila che negli artigli teneva una svastica. «A me fa questo effetto — ha detto la senatrice — forse qui sono la sola a cui fa questo effetto...». Parlando dei simboli religiosi esposti dai politici, Segre è stata interrotta da alcuni senatori leghisti che le hanno ricordato di quando il premier Conte è stato ospite in Rai con i simboli di padre Pio. Segre non ha risposto e ha ripreso il suo discorso. Segre ha poi rilanciato sul fronte culturale: «A inizio legislatura ho presentato una proposta di legge per l’istituzione di una commissione di indirizzo e controllo dei fenomeni dell’hate speech (parole e discorsi che esprimono odio e intolleranza, ndr), del razzismo e dell’antisemitismo. Mi auguro che maggioranza e opposizione diano il via libera — conclude la senatrice a vita —Ho vissuto sulla mia pelle come sia facile passare dalle parole dell’odio ai fatti, realizzare questa commissione darebbe un segnale di risposta politica ai problemi che abbiamo di fronte».

Da «Noi siamo populisti» a «Ora un nuovo umanesimo». Le parole di Conte a confronto. Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Corriere.it. Da «Noi siamo populisti, anti sistema: ascoltiamo la gente» (5 giugno 2018), a ora è il tempo di «un nuovo umanesimo: il primato della persona, alla quale la Repubblica riconosce diritti inviolabili» (9 settembre 2019). Sono parole lontane, quelle che balzano agli occhi confrontando i due discorsi pronunciati dal premier per chiedere la fiducia in Parlamento per il Conte I ed il Conte II. Nel 2018 l’intervento durò 75 minuti, questa volta 10 minuti in più. A distanza di un anno, tutto (o quasi) è cambiato, nel piglio politico e, soprattutto, nella scelta delle parole. Analizzandone la ricorrenza, nel 2018 alla Camera il termine più usato è stato «governo», mentre al Senato per il Conte II è stato «Paese». «Cittadini» rimane invece una parola utilizzata in entrambi i discorsi, segno che comunque un filo conduttore rimane forte nella sua linea di governo. Scompare chiaramente il termine «contratto», collante chiave (che poi ha ceduto) per tenere insieme M5S e Lega. Adesso l’alleanza politica è diventata altrettanto inedita, e il premier (anche con il contributo del suo portavoce Rocco Casalino) ha messo in atto anche una rivoluzione semantica e lessicale. «Sociale» rimane però un termine molto ricorrente, non a caso per il Conte II ha annunciato come obiettivo gli «asili nido gratis per tutti». La «lotta al business dell’immigrazione», cavallo di battaglia della Lega (e in parte anche del M5S) si è trasformata in «definizione di un’organica normativa che persegua la lotta al traffico illegale di persone e l’immigrazione clandestina». Il «Noi saremo fautori di un’apertura verso la Russia» (lo stesso Paese di cui Conte ha contestato duramente i rapporti della Lega di Salvini) è diventato: «L’azione di governo che oggi si avvia investirà su queste direttrici per realizzare al meglio tutte le enormi potenzialità che il nostro Paese esprime. Questo è lo spirito con cui intendiamo continuare a sviluppare i rapporti con i grandi attori globali, — come India, Russia e Cina — e con le aree di maggiore interesse per il nostro sistema produttivo».

«Mummie, cadrete», e contro Conte spuntano tonno e colla. Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Gian Antonio Stella su Corriere.it. «Il suo governo cadrà, presidente Conte. Cadrà qui, in Senato…» Nessuno, che si sappia, può testimoniare se il premier del governo rosso-giallo si sia discretamente toccato quando Renato Schifani, cupo e affilato, ha indossato i panni antichi d’un indovino menagramo per annunciargli un futuro fosco. Certo, non è bello ricevere un cattivo auspicio il giorno in cui s’incassa, dopo quella alla Camera, la seconda fiducia a Palazzo Madama. «Lei cadrà qui, in Senato, come abbiamo fatto in modo che nel 2008 cadesse il governo di Romano Prodi. La sua, presidente, è infatti un’alleanza eterogenea, composta da partiti che non solo non la pensano allo stesso modo, ma hanno storie diverse». Inconciliabili, secondo il senatore forzista: «Lei può partire oggi, avrà la maggioranza in Senato, ma gradualmente l’erosione del suo governo sarà irreversibile...». Oddio, se poteva sbagliare il veggente Calcante, per Omero il più bravo di tutti , figuratevi Schifani. Ma è lo stesso ex «Avvocato del popolo» a sapere che sarà dura in generale per il suo nuovo esecutivo, ma in particolare al Senato. Dove già ieri mattina, appena si è affacciato al suo posto in aula è stato accolto da una selva di urla e fischi e «buuuuu». Lui non ha fatto una piega. E non una delle quattro pieghe della sua pochette ha vibrato di emozione. Ma per ore e ore, dai banchi più in alto della Lega e dei Fratelli d’Italia dove ogni tanto appariva un cartello che i commessi si affrettavano a rimuovere, gli hanno scaraventato addosso insulti di ogni genere. E lui lì, sotto l’uragano. Impassibile. Appena appena l’accenno a un sorriso ironico durante l’intervento del senatore forzista Marco Perosino. Che dopo aver paventato col nuovo governo un futuro catastrofico con l’okay allo «ius soli a chi nasce e ai genitori e anche ai nonni che vengano a operarsi di cataratta e di ernia» e «droga libera per tutti» e «il suicidio assistito anticamera dell’eutanasia» e «l’utero in affitto, le adozioni gay, il gender e tutte le perversioni contro natura» ha affidato l’Italia al Cielo. Ma non solo alla «Bedda Matri» come faceva Totò Cuffaro. Di più, di più: «Prego la Madonna, San Francesco e Santa Caterina, patroni d’Italia, e San Pio da Pietralcina, che era un buono, affinché ci proteggano». Basteranno?

Un po’ meno apocalittico il «meloniano» Francesco Zaffini, armato lancia in resta contro tre comunismi contiani: il «comunismo del Pd di cui essi stessi si vergognano», il comunismo «paleolitico» di Leu e su tutti il «comunismo dei 5 Stelle, che possiamo tranquillamente chiamare comunisti inconsapevoli (inconsapevoli di tutto, anche dell’essere comunisti)». Da non perdere il mini-show di Licia Ronzulli, senatrice e braccio destro operativo di Silvio Berlusconi, che dopo aver denunciato «il governo della paura, che ha paura di andare al voto e che fa anche paura a tanti cittadini», tira fuori un piccolo armamentario e lo sparpaglia sul suo seggio per i grillini: «Vi regalo un lucchetto, che sostituisce l’apriscatole con cui dovevate aprire le istituzioni, mentre vi ci siete asserragliati e blindati dentro. Abbiamo poi il tonno, perché l’appetito vien mangiando e in questo caso anche l’appetito del potere. Quindi la colla, che vi tiene ben fermi sulle vostre poltrone e infine lo scotch, l’unico strumento, così fragile, che tiene insieme i partiti di questa maggioranza». Non meno divertente il siparietto tra Ignazio La Russa e la presidente del Senato Elisabetta Casellati. La vecchia volpe pizzuta della destra missina e poi aennina, oggi presidente di Fratelli d’Italia, si avvita con garbo in un ragionamento sulla inevitabilità che il Quirinale aprisse solo a una maggioranza parlamentare come quella individuata, inevitabilità che secondo lui non c’era... Tutto rispettoso, va detto, nel contesto delle urla belluine di questi giorni. Salta su la Casellati: «Presidente La Russa, sarebbe meglio evitare i riferimenti al presidente Mattarella, come lei sa». Mah... Il cuore della giornata, non poteva esser diversamente, resterà comunque lo scontro frontale tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Col leader leghista che rinfaccia al «suo» ex premier d’esser un voltagabbana «inchiodato alla poltrona come le vecchie mummie della prima repubblica» e l’altro che gli risponde duro che è stato lui che «con una certa arroganza e scarse cognizioni di diritto costituzionale, ha ritenuto, nell’ordine, di attivare unilateralmente una crisi di governo, e questo è pienamente legittimo, ma poi di poter unilateralmente decidere di portare il Paese alle elezioni e ancor più unilateralmente di portare il Paese alle elezioni e alla campagna elettorale da ministro dell’Interno» nonché «unilateralmente e arbitrariamente di concentrare definitivamente nelle proprie mani tutti i pieni poteri».

Botte di qua, botte di là. Urla di qua, urla di là. Con qualche dettaglio divertente. Come l’invettiva del Capitano del Carroccio contro «una nuova legge elettorale proporzionale per garantire a vita l’inciucio e i giochi di palazzo in Parlamento». Invettiva legittima, si capisce: non si dovrebbero fare leggi elettorali su misura dei propri interessi di bottega. Era curioso, però, vedere chi applaudiva alla sua sinistra l’indignato Matteo. Roberto Calderoli. Quello che s’inventò nel 2006 una legge su misura per fregare Romano Prodi dato per sicuro vincitore delle elezioni in arrivo: «Lo dico francamente», disse poi a Matrix, «l’ho scritta io ma è una porcata».

Sottosegretari, è guerra  nei 5 Stelle: «Non siamo  al collocamento». Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Monica Guerzoni su Corriere.it. Ministri gialloverdi a caccia di un posto da sottosegretario, ex sottosegretari che bramano per essere promossi viceministri, risse verbali a porte chiuse, presidenti di commissione che trattano i parlamentari come disoccupati all’ufficio di collocamento. E Giuseppe Conte che accelera, per chiudere il sipario dell’imbarazzante teatrino delle poltrone: «Dobbiamo fare il prima possibile». Venerdì al massimo, o perfino domani, con tanto di via libera del Consiglio dei ministri. Alla buvette del Senato, Dario Franceschini si cuce la bocca: «Siamo ancora in alto mare». Il capo delegazione del Pd è nel pieno delle trattative con Vincenzo Spadafora, che ha in mano il dossier per il M5S. Ma se i dem si orientano nel bosco delle pretese grazie alla bussola delle correnti, i 5 Stelle sono nel caos. Al M5S spettano una ventina di posti. Gli aspiranti sono il quadruplo e Di Maio ha trovato un escamotage per non farsi triturare dagli esclusi. «Io avrò l’ultima parola e sceglierò in base alle competenze — è stato il messaggio del leader ai presidenti delle 28 commissioni di Camera e Senato — Ma voi dovete propormi i candidati». Un po’ come dire, scannatevi tra di voi. È nata così l’idea di una «rosa» di cinque nomi da individuare tra i commissari, perché il capo politico possa poi pescare dal mazzo. Il rodeo dell’«autopromozione» ha prodotto 14 riunioni. I presidenti Grande, Gallinella, Ruocco, Brescia, Lorefice, Rizzo e Gallo hanno promesso «discontinuità anche nel metodo», peccato che poi hanno cominciato ad azzuffarsi tra loro e con i colleghi. E quando hanno capito che Di Maio non manderà i presidenti di commissione al governo per non scatenare la guerra di successione col Pd, hanno sbottato: «Non siamo un ufficio di collocamento». Dentro la Affari costituzionali se le sono date, a parole, di santissima ragione fino a notte. «Un metodo folle», commentava un deputato stravolto all’uscita. In compenso ecco i magnifici quattro per l’Economia: Stefano Buffagni, Laura Castelli, Alessio Villarosa e Marco Pellegrini. A Palazzo Madama alcuni parlamentari 5 Stelle si sono azzuffati per via XX Settembre, dove Buffagni e Castelli sono testa a testa. A chi toccherà l’onere e l’onore di marcare stretto il ministro dem Roberto Gualtieri e il numero due in pectore del Pd, Antonio Misiani? Ed è vero che la ex ministra Barbara Lezzi sarebbe disposta a tornare al governo come vice?Al Nazareno il tema è quanti renziani entreranno. «Se saranno cinque il governo durerà», è il pronostico di un senatore. Dal Pd arriveranno Maria Sereni e Lia Quartapelle agli Esteri, Lele Fiano all’Interno, Gian Paolo Manzella all’Innovazione, Walter Verini alla Giustizia e Anna Ascani all’Università: la vicepresidente del Pd già si scambia messaggini con Lucia Azzolina del M5S. Per l’Editoria dovrebbe spuntarla Andrea Martella, che avrebbe il delicato compito di portare il Pd a Palazzo Chigi. Al premier Conte sarebbe piaciuto assegnare la delega ai rapporti con la stampa al fidatissimo tecnico Roberto Chieppa. Ma Riccardo Fraccaro smentisce l’intenzione di affiancargli un altro sottosegretario: «L’ho letto sui giornali». È dunque molto probabile che Chieppa resti segretario generale, con le mani più libere sull’organizzazione della presidenza. Francesco D’Uva gareggia come vice all’Interno. Luca Carabetta andrà al Mise e Giancarlo Cancelleri ai Trasporti. Nicola Morra resterà all’Antimafia, per non lasciare una casella così importante a Pietro Grasso di Leu o al dem Franco Mirabelli.

Il Parlamento con due maggioranze. Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Antonio Polito su Corriere.it. Altro che Parlamento senza maggioranza. Quello uscito dalle elezioni del 2018 ne nascondeva addirittura due. Una ha espresso il governo più a destra dai tempi di Tambroni, l’altra quello più a sinistra dai tempi di Parri. Il più sovranista e il più europeista. E sempre con lo stesso premier. Bisogna ammettere che i parlamenti, da Londra a Roma, dimostrano una notevole capacità di resistenza: lottano per non farsi sciogliere, e non gli manca certo la fantasia. D’altra parte sarebbe ingenuo pensare che in un mese la società italiana sia cambiata tanto da giustificare un tale ribaltamento. Agosto è troppo breve e troppo caldo per una rivoluzione. Siamo più o meno quelli di prima, solo un po’ meno abbronzati (Salvini molto meno). Eppure un mese fa il Senato votava la fiducia al decreto Sicurezza bis, e ieri la stessa aula ha votato la fiducia a un governo che ha in programma di riscriverlo. Gentiloni ha appena preso posto sulla poltrona che a primavera era di Giorgetti, e la Bellanova su quella di Centinaio. Sembra di essere in Sliding Doors. Che cosa è successo? Per spiegarlo, i politici di entrambi gli schieramenti tendono ad avvalersi, certo inconsapevolmente, della metafora con cui Benedetto Croce spiegò il passaggio dall’Italia fascista a quella antifascista: l’invasione degli Hyksos. Gli «altri», i vincitori, chiunque essi siano, sono infatti sempre degli usurpatori, alieni infiltratisi nel Palazzo con la forza o con l’inganno, cacciati i quali si potrà tornare allo spirito autentico degli italiani. Per la sinistra Salvini al Viminale è stato una «parentesi morale», finalmente chiusa; mentre per la destra Di Maio agli Esteri è un tradimento nazionale, tragicamente aperto. Ma in realtà l’Italia di settembre è uguale a quella di luglio: piena di problemi, acciaccata e impaurita, solo un po’ più divisa, perché la crisi ha lasciato un sedimento di rancore molto profondo, aggravando la tendenza italica alla «democrazia dissociativa», in cui gli schieramenti non si riconoscono mai legittimità reciproca, e l’obiettivo dell’azione politica non è il compromesso alla ricerca delle migliori soluzioni, ma la lotta all’ultimo sangue per l’annientamento del nemico. Restano perciò intatte sul campo tre grandi questioni, una delle quali favorisce la destra, una la sinistra, e l’altra il centro (che non c’è, ma proprio per questo potrebbe prima o poi esserci). Vediamole.

#Nazionalismo. Il primo tema è il #nazionalismo. È un sentimento popolare che non si è dissolto con la chiusura autunnale del Papeete. E che anzi oggi la Meloni (evidentemente più pimpante del collega, non avendo sbagliato il pronostico sull’alleanza con i Cinquestelle), potrebbe interpretare in modo anche più aggressivo. Gli avversari tendono a presentare il nazionalismo — che si manifesta sotto le forme più varie, dalla chiusura dei porti agli immigrati, delle frontiere ai capitali, delle dogane ai commerci — come una forma di nostalgia anacronistica. Sbagliano. La destra italiana non è affatto provinciale, perché le sue idee, da Trump a Johnson, da Bolsonaro a Orbán, fanno eco nel mondo. La «grande paura», che la crisi del 2008 ha scatenato nei cittadini dell’Occidente, non è finita. La maggioranza degli italiani è ancora contraria ad accogliere tanti immigrati come in passato. Dunque per il ministro Lamorgese, e ancor più per il governo, è vitale dimostrare che si può ottenere lo stesso risultato (o quasi) di Salvini senza finire indagati per violazione della legge del mare e dell’umanità. E ha solo una speranza per riuscirci: un accordo per la distribuzione degli arrivi con l’Europa.

#Bruxelles. E qui veniamo al secondo grande tema che rimane sul terreno dopo l’agosto sull’ottovolante: #Bruxelles. Se con questo nome intendiamo la Commissione Ue, il nuovo governo ha il vento in poppa: le ha tolto le castagne del sovranismo dal fuoco. E non per un complotto, come dice Salvini. È che la destra sovranista ha perso le elezioni europee e Salvini ha fatto finta di non capirlo. Così si è incaponito a votare contro la presidenza della von der Leyen, mentre l’amico Orbán cuciva invece l’accordo con i Popolari tedeschi. Che errore. L’idea di dar vita a un governo anti-europeo e filo-russo nel cuore del Mediterraneo era lievemente azzardata, e infatti non ha retto: le vie della Cancellerie sono infinite, e perfino Trump ha salutato «Giuseppi due» come una benedizione. Infatti Di Maio si è sfilato, e su Ursula si è davvero rotta la maggioranza giallo-verde. Ma la trojka Gentiloni-Gualtieri-Amendola, che si è presa l’Europa, farà bene a non dimenticare che oltre (e sopra) la Commissione, pronta a fare sconti, ci sono i governi, i quali non fanno regali, e ancor più su i mercati, i quali fanno solo conti. La flessibilità sarà perciò l’ennesima occasione sprecata, se verrà usata per comprare consenso invece di costruire crescita.

#Centro. Infine, siccome la realtà è cocciuta, il terzo grande tema: tra governi di destra e governi di sinistra, qui non si vede più il #centro del sistema. Nessun corpo fisico può restare a lungo in equilibrio senza un centro, e a Conte non basterà fare l’equilibrista per stare in piedi. Una possibilità è che i Cinquestelle si costituzionalizzino, si trasformino cioè da forza «contro» il sistema a forza critica «nel» sistema. Sembra essere il sottinteso che li ha spinti al governo con il Pd, e paradossalmente ha spiazzato proprio il moderato Di Maio, apparso così impietrito e poco a suo agio sui banchi del nuovo governo da far temere che non asseconderà il progetto, forse per lui troppo Elevato. Un’altra possibilità è che il nuovo centro nasca dall’interno del Pd, Renzi si propone come il catalizzatore di un trasformismo parlamentare che più che alla durata di questo governo guarda a quella della legislatura. E ciò che resta di Forza Italia, così platealmente assente dalla piazza dell’opposizione, sembra quasi offrirsi a una nuova leadership moderata, da qualsiasi parte provenga. Infine c’è una terza possibilità: che sia la destra, a caccia degli Hyksos, a radicalizzarsi fino al punto di spaventare il grande elettorato potenziale di cui oggi dispone, tra gazzarre in Aula e saluti romani, sprecando l’occasione migliore della sua storia per prendersi il governo. Tutto è sembrato cambiare, insomma, in questo storico agosto. Ma, ahinoi, a settembre spunta sempre fuori qualcuno che ci ricorda che la guerra continua.

 Il gallo e i suoi polli. Alessandro Sallusti, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. Se Giuseppe Conte pensa davvero che una volta liberatosi di Matteo Salvini potrà finalmente fare il premier, allora vuole dire che pur sentendosi gallo non conosce i suoi polli. Ieri si è preso una giornata di gloria - si fa per dire - presentando al paese il suo nuovo giocattolo. Più delle parole che ho ascoltato mi hanno colpito i non casuali silenzi di pollo Renzi, pollo Zingaretti, pollo Bersani e pollo Di Maio. È un silenzio inquietante che non lascia presagire nulla di buono circa la supremazia millantata ieri dal premier bis. Gli ultimi due leader - Renzi e Salvini - che hanno pensato e detto, come ha fatto ieri Conte, «qui comando io» non hanno fatto una bella fine nonostante vantassero un consenso elettorale e una scaltrezza politica che l'attuale premier neppure si sogna. Se Di Maio e soci non sono riusciti a tenere testa alla Lega, figurati al Pd e ai comunisti. Questo sarà sicuramente un governo di sinistra e se Conte vorrà sopravvivere dovrà aprire ben altro dei porti. Non si illuda - scampato il pericolo elezioni - di potere contare all'infinito sulle aperture e le benevolenze ricevute in questi giorni da oltre confine, perché anche in politica vale il vecchio detto che recita «passata la festa, gabbato lo santo». E in questo senso non so se per Conte sia stato un affare affidare il suo destino in Europa alle sapienti mani del suo predecessore Gentiloni, che del Pd è anima e corpo. Non ho mai visto in vita mia la sinistra, in tutte le sue declinazione, stare sotto padrone, neppure quando il padrone di turno era uno di loro, figuriamoci di un professore mai eletto da nessuno. «Lealtà» e «affidabilità» sono parole che da quelle parti non hanno mai avuto un senso definitivo e ben lo sa chiunque abbia avuto la disavventura di incrociarne i destini. Leggo che gli esperti di cose politiche prevedono una lunga vita di questo governo e portano a sostegno della loro tesi argomenti fondati e convincenti. Ma trascurano la componente umana, una variabile che è sempre in agguato quando si tratta di persone per lo più dall'ego e dalla arroganza sproporzionate e insaziabili. Tra Conte e il suo governo prevedo quindi una luna di miele tiepida (la faccia di Di Maio ieri in aula diceva molto più di tante parole) e breve. Vedremo quanto sarà lunga la guerra di logoramento.

Governo Conte I. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il governo Conte I è stato il sessantacinquesimo esecutivo della Repubblica Italiana, il primo della XVIII legislatura. È rimasto in carica dal 1º giugno 2018 al 5 settembre 2019, per un totale di 461 giorni, ovvero 1 anno, 3 mesi e 4 giorni. È un governo di coalizione nato da un accordo tra Movimento 5 Stelle e Lega dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018. Dai colori tradizionalmente adottati dai due partiti, il governo è stato spesso chiamato dalla stampa "governo giallo-verde". Giuseppe Conte ricevette l'incarico di formare un nuovo governo dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 31 maggio 2018, a cui il giorno stesso propose la lista dei ministri. Il governo ottenne la fiducia del Senato della Repubblica il 5 giugno 2018 con 171 voti favorevoli, 117 contrari e 25 astenuti. Il giorno seguente ottenne la fiducia anche dalla Camera dei deputati con 350 voti favorevoli, 236 contrari e 35 astenuti. Nella serata del 20 agosto 2019 Conte ha rimesso il mandato nelle mani del presidente della Repubblica, rassegnando così le dimissioni dalla carica di presidente del Consiglio dei Ministri, al termine di un lungo e animato confronto in Senato dovuto ad una mozione di sfiducia presentata dalla Lega, ritirata nel corso della stessa discussione parlamentare. Il governo resta in carica per il disbrigo degli affari correnti fino al 5 settembre, giorno in cui presta giuramento il governo Conte II.

Dopo una crisi istituzionale durata quasi tre mesi, Giuseppe Conte venne indicato per il ruolo di presidente del Consiglio da Movimento 5 Stelle e Lega, che avevano stipulato un accordo programmatico, ricevendo poi l'incarico di formare un nuovo governo dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 23 maggio 2018, accettandolo con riserva. Il successivo 27 maggio, però, Conte rimise il mandato a causa del mancato accordo con Mattarella sulla nomina di Paolo Savona al Ministero dell'economia e delle finanze. Dal presidente della Repubblica fu quindi incaricato l'economista Carlo Cottarelli, con l'intenzione di formare un "governo neutrale" che accompagnasse il Paese a ravvicinate nuove elezioni. Il 31 maggio, essendosi nuovamente create le condizioni per un governo politico, Cottarelli rimise a sua volta il mandato ricevuto; lo stesso giorno Conte venne incaricato per la seconda volta di formare un nuovo governo, accettando questa volta senza riserva[8] e proponendo immediatamente la lista dei ministri.

Il nuovo governo entrò in carica prestando giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica, come previsto dalla Costituzione, il 1º giugno 2018.

Composizione.

Consiglio dei Ministri.

Presidenza del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte (Indipendente)

Giancarlo Giorgetti (Lega) Segretario del Consiglio dei ministri con delega allo sport, al CIPE, all'attuazione programma di governo, alle politiche spaziali ed aerospaziali ed alle scommesse sportive.

Vito Crimi (M5S) Con delega all'editoria e informazione, Politiche finalizzate alla ricostruzione delle zone terremotate.

Vincenzo Spadafora (M5S) Con delega alle pari opportunità, ai giovani e servizio civile nazionale.

Vicepresidente del Consiglio dei ministri:

Matteo Salvini (Lega)

Luigi Di Maio (M5S)

Ministri senza portafoglio.

Ministro Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro (M5S)

Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno (Lega)

Affari regionali e autonomie Erika Stefani (Lega)

Sud Barbara Lezzi (M5S)

Famiglia e disabilità Lorenzo Fontana (Lega) (fino al 10 luglio 2019) 

Alessandra Locatelli (Lega) (dal 10 luglio 2019)

Affari europei Paolo Savona (Indipendente) (fino all'8 marzo 2019)

Riassunzione delle funzioni delegate da parte del presidente Giuseppe Conte (dall'8 marzo 2019 al 10 luglio 2019)

Lorenzo Fontana (Lega) (dal 10 luglio 2019)

Ministri con portafoglio

Affari esteri e cooperazione internazionale Enzo Moavero Milanesi (Indipendente)

Interno Matteo Salvini (Lega)

Giustizia Alfonso Bonafede (M5S)

Difesa Elisabetta Trenta (M5S)

Economia e finanze Giovanni Tria (Indipendente)

Sviluppo economico - Lavoro e politiche sociali Luigi Di Maio (M5S)

Politiche agricole alimentari, forestali e turismo Gian Marco Centinaio (Lega)

Ambiente e tutela del territorio e del mare Sergio Costa (Indipendente)

Infrastrutture e trasporti Danilo Toninelli (M5S)

Istruzione, università e ricerca Marco Bussetti (Indipendente)

Beni e attività culturali Alberto Bonisoli (M5S)

Salute Giulia Grillo (M5S)

Chi sono i sottosegretari e i viceministri del nuovo governo. Il Post mercoledì 13 giugno 2018. Sono 45, di cui solo 6 donne, e sono stati nominati ieri sera dal Consiglio dei ministri: oggi giureranno davanti al presidente della Repubblica. Nella serata di martedì il Consiglio dei ministri si è riunito per nominare i 39 sottosegretari di stato e i 6 viceministri del nuovo governo presieduto da Giuseppe Conte. Sottosegretari e viceministri sono le persone che lavorano più a stretto contatto con i ministri, solitamente occupandosi di questioni specifiche su cui hanno una maggiore preparazione. La più grande differenza tra i due incarichi è che ai viceministri è permesso partecipare al Consiglio dei ministri, su invito del presidente del Consiglio. Tra le 45 persone incaricate, soltanto 6 sono donne (tra i ministri invece ci sono 5 donne su 18). Una delle nomine di cui sta parlando di più è quella di Carlo Sibilia, un importante dirigente del M5S noto anche per il suo sostegno a diverse teorie complottiste (tra le altre cose, nega che l’uomo sia andato sulla Luna): è il nuovo sottosegretario all’Interno. Tra gli altri nominati ci sono Armando Siri, consigliere economico della Lega, l’ex capogruppo del M5S Vito Crimi e Vincenzo Spadafora, stretto collaboratore di Luigi Di Maio. Alle 15 di mercoledì i nuovi sottosegretari e viceministri giureranno davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Vito Crimi – Sottosegretario all'Editoria. Ha 46 anni ed è uno dei volti più noti del Movimento 5 Stelle. Eletto per la prima volta al Senato nel 2013, Crimi fu scelto come primo portavoce del gruppo parlamentare, insieme alla deputata Roberta Lombardi. Grazie a questo ruolo ricevette una grande visibilità mediatica e partecipò alle trattative in streaming con l'allora segretario del PD Pier Luigi Bersani. Crimi però non ha mai fatto molta carriera nel Movimento. Non fece parte del "direttorio" e anche oggi è considerato un dirigente di secondo piano.

Vincenzo Zoccano – Sottosegretario alla Famiglia. È il presidente del Forum italiano sulle disabilità, un'organizzazione che raccoglie alcune delle principali associazioni di disabili italiani. Zoccano era stato scelto da Di Maio come candidato del Movimento 5 Stelle in un collegio in Friuli Venezia Giulia ed era stato presentato come uno dei più importanti insieme all'ex vicedirettore del TG5 Emilio Carelli, l'ex capitano Gregorio De Falco e l'ex giornalista Gianluigi Paragone. Zoccano però non è stato eletto.

Vincenzo Santangelo – Sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento. Ha 46 anni ed è senatore del Movimento 5 Stelle dal 2013. È siciliano, di Trapani, il collegio dove è stato rieletto lo scorso 4 marzo. Prima di entrare in Parlamento era un architetto libero professionista. Nel 2015, in risposta ad alcune notizie sulle infiltrazioni mafiose nel comune di Paternò, in provincia di Catania, scrisse su Twitter: «Con un po' di impegno l'Etna risolverebbe tanti problemi dell'Italia». Lo scorso ottobre, durante una discussione in Senato sulla legge elettorale, come atto di protesta contro quella che definì una "legge anticostituzionale", si tolse la cravatta, un gesto vietato in Senato.

Stefano Buffagni – Sottosegretario agli Affari regionali. Ha 34 anni ed è un commercialista di Milano. Nel 2013 ha avuto la sua prima esperienza politica venendo eletto con il Movimento 5 Stelle al Consiglio regionale della Lombardia di cui divenne portavoce. L'anno scorso, dopo l'arresto di un medico per un grave episodio di malasanità, Buffagni scrisse su Facebook: «questa gente deve essere linciata ed esposta in pubblica piazza affinché casi di questo genere non succedano mai più». È considerato molto vicino al capo politico del Movimento Luigi Di Maio.

Simone Valente –Sottosegretario ai rapporti con il Parlamento. Ha 31 anni ed è stato eletto alla Camera con il Movimento 5 Stelle nel 2013 e poi di nuovo lo scorso 4 marzo. È nato a Savona dove nel 2010 inizia a partecipare alle attività della sezione locale del Movimento 5 Stelle. Nel 2011 si candida come consigliere al comune di Savona, ma senza risultare eletto. È appassionato di temi sportivi e ambientalismo. Il sito della Camera indica la sua professione ancora come "studente.

Mattia Fantinati – Sottosegretario alla Pubblica istruzione. Ha 43 anni ed è un ingegnere di Verona. È stato eletto per la prima volta con il Movimento 5 Stelle nel 2013 ed è stato rieletto lo scorso 4 marzo. Nell'estate del 2015, Fantinati divenne famoso per essere stato il primo esponente del Movimento 5 Stelle a partecipare al Meeting di Comunione e Liberazione. Nel suo intervento criticò duramente il movimento religioso accusandolo di essere «Sempre dalla parte dei potenti, sempre dalla parte di chi comanda. Sempre in nome di Dio».

Luciano Barra Caracciolo – Sottosegretario alle Politiche europee. Ha 59 anni ed è un giurista e magistrato che ha a lungo lavorato nel Consiglio di stato, la corte di massimo livello della giustizia amministrativa e fino al 2013 è stato membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, l'organo di autogoverno della magistratura amministrativa. Barra Caracciolo ha svolto incarichi di consigliere e di dirigente ministeriale durante il secondo governo Berlusconi e poi durante il quarto, tra 2001 e 2005. È contrario all'euro e all'Unione Europea e nel 2014 scrisse su Twitter: «"Bisogna fare le riforme" diverrà una frase come "il lavoro rende liberi" quando sarà il momento della nuova Norimberga».

Guido Guidesi – Sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento. Ha 39 anni ed è nato a Codogno, in provincia di Lodi. È stato eletto deputato con la Lega la prima volta nel 2013 e poi nuovamente lo scorso 4 marzo. È un ragioniere e ha lavorato in aziende e associazioni di imprese locali. È iscritto alla Lega da circa 20 anni e dal 2004 ha incarichi dirigenziali a livello locale. Nel dicembre 2015 ha presentato un'interrogazione parlamentare per chiedere conto al governo di una nuova restrizione tecnica nei regolamenti sul porto d'armi che giudicava "liberticida".

Giuseppina Castiello – Sottosegretario alla Coesione. Ha 47 anni e dalla metà degli anni Novanta è impegnata in politica con il centrodestra. Originaria di Afragola in provincia di Napoli, dopo diversi anni trascorsi nella politica locale, Castiello è entrata in Parlamento nel 2006 con Alleanza Nazionale, poi di nuovo nel 2008 con il Popolo della Libertà e nel 2013 con Forza Italia. Nel corso dell'ultima legislatura ha fatto un ulteriore spostamento, passando alla Lega di Salvini che l'ha fatto eleggere lo scorso 4 marzo per la quarta volta consecutiva.

Vincenzo Spadafora – Sottosegretario alle Pari opportunità e i giovani. Ha 44 anni ed è nato ad Afragola, in provincia di Napoli. È considerato il braccio destro e il principale consigliere di Luigi Di Maio. Lo scorso 4 marzo è stato eletto deputato con il Movimento 5 Stelle. In precedenza aveva ricoperto l'incarico di presidente di UNICEF Italia e poi quello di Garante per l'infanzia. Nel 2014 aveva rivelato le sue ambizioni politiche pubblicando un libro dal titolo "La terza Italia. Manifesto di un Paese che non si tira indietro". In passato ha collaborato con l'UDEUR di Clemente Mastella, con il segretario dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio e poi con Francesco Rutelli di cui fu capo della segretaria al minisitero dei Beni culturali.

Ricardo Antonio Merlo – Sottosegretario agli Esteri. Ha 56 anni ed è un politico argentino di origini italiane. È in politica dal 2003, quando fu eletto membro del consiglio generale degli italiani all’estero a Buenos Aires. È entrato nel Parlamento italiano nel 2006 nella circoscrizione estero, e ne è uscito nel 2018. Da molti anni è presidente del MAIE, il principale partito che rappresenta gli italiani all’estero.

Manlio Di Stefano – Sottosegretario agli Esteri. È un ingegnere informatico diventato parlamentare del M5S, di cui è uno dei principali riferimenti sulla politica estera. Ha posizioni scettiche sulla NATO e l’Unione Europea, e di apertura nei confronti della Russia. Nel 2016 partecipò per conto del M5S al congresso di Russia Unita, il partito del presidente russo Vladimir Putin.

Riccardo Picchi – Sottosegretario agli Esteri. Ha 45 anni ed è un deputato e dirigente di banca in aspettativa. È entrato in Parlamento nel 2006 con Forza Italia, e dieci anni più tardi ha aderito ala Lega. È considerato molto vicino a Matteo Salvini, di cui è consigliere per la politica estera.

Emanuela Del Re – Sottosegretaria agli Esteri. Ha 54 anni ed è una professoressa universitaria. Insegna “Diplomazie multiple” all’Università di Roma Tre e “Sociologia dei fenomeni politici del Medio Oriente” all’università telematica Cusano. Negli anni ha partecipato a moltissimi progetti di ricerca, e fa parte del consiglio redazionale della rivista Limes. In campagna elettorale il M5S la propose come ministro degli Esteri.

Salvatore Giuliano – Sottosegretario all’Istruzione, Università e Ricerca. Ha 51 anni ed è il dirigente scolastico dell’istituto tecnico industriale Majorana di Brindisi, una delle scuole che viene raccontata come tra le più innovative d’Italia: nel 2010 ha avviato ad esempio il progetto “Book in progress” in base al quale sono i docenti a scrivere i libri di testo in formato e-book e che ha portato a un notevole risparmio per le famiglie. Giuliano è laureato in economia bancaria, finanziaria e assicurativa, è stato consulente al Miur sia della ministra dell’Istruzione Stefania Giannini che della ministra Valeria Fedeli e ha più volte sostenuto pubblicamente la riforma della “buona scuola”, partecipando ai “cantieri” predisposti nel maggio 2014 per scrivere le bozze dei provvedimenti. In campagna elettorale era stato indicato dal M5S come possibile ministro dell’Istruzione.

Lorenzo Fioramonti – Sottosegretario all’Istruzione, Università e Ricerca. Ha 41 anni ed è un economista e professore universitario che negli ultimi tempi si è avvicinato al M5S. Fino a pochi mesi fa insegnava Politica economica all’Università di Pretoria, in Sudafrica. È noto soprattutto per la sua battaglia contro il riconoscimento del PIL come indicatore economico affidabile. Alle elezioni del 2018 è stato eletto nel collegio uninominale di Roma Torre Angela, dove ha battuto fra gli altri il presidente del PD, Matteo Orfini.

Michele Geraci – Sottosegretario per lo Sviluppo economico. Ha 51 anni ed è un economista di Palermo, il cui nome era finito tra quelli dei possibili candidati a presidente del Consiglio del governo Lega-M5S. È stato definito sui giornali “il prof. ‘cinese’ che mette d’accordo Lega e M5S". È laureato in ingegneria elettronica e ha ottenuto un master in Business Administration al MIT di Boston, e oggi insegna alla University of Nottingham, all’Università di Zhejiang e nella sede di Shangai della New York University, ed è capo della sede in Cina del think tank di Londra Global Policy Institute. Ha scritto degli interventi sul sito di Beppe Grillo e interviene con una certa frequenza in televisione e sui giornali come esperto di economia cinese. Nel 2015 è stato nominato Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia – un’onoreficenza riservata a chi ha migliorato la collaborazione dell’Italia con altri paesi – dal presidente della Repubblica.

Davide Crippa – Sottosegretario per lo Sviluppo economico. Ha 39 anni, è di Novara ed è alla seconda legislatura come deputato con il Movimento 5 Stelle. È laureato in ingegneria ambientale, e si è occupato di trasporti ed energia, opponendosi alla costruzione della TAV e all’acquisto dei caccia F-35. Forse potreste ricordarvi di lui per quella volta che si lamentò su Facebook che a causa di un voto in Commissione Attività produttive dovette saltare un torneo di “beach waterpolo ad Arona”, attirandosi un po’ di critiche.

Dario Galli – Sottosegretario per lo Sviluppo economico. Ha 61 anni ed è un politico di lungo corso della Lega: negli anni Novanta fu sindaco di Tradate, la sua città di origine, in provincia di Varese, poi si candidò alla Camera nel 1996 nella coalizione di centrodestra senza venire eletto. Nel 1997 prese il posto di un deputato morto in un incidente, e rimase in Parlamento fino al 2008: nel 2006 però lasciò la Camera e si fece eleggere al Senato. È stato poi presidente della provincia di Varese, e poi consigliere d’amministrazione di Finmeccanica su nomina di Giulio Tremonti. Nel 2017 è stato rieletto sindaco di Tradate, e alle politiche dello scorso marzo è stato eletto come deputato, raggiungendo la quarta legislatura.

Andrea Cioffi – Sottosegretario per lo Sviluppo economico. Ha 56 anni, è cresciuto in Campania e prima di diventare senatore nella scorsa legislatura con il Movimento 5 Stelle era ingegnere. Negli ultimi cinque anni è stato membro della Commissione per i Lavori pubblici e le telecomunicazioni, e di quella per le Politiche dell’Unione Europea. Tra le tracce maggiori che ha lasciato c’è un video in cui, durante un dibattito sulla fiducia al governo Renzi al Senato, esortò gli altri senatori a “ribellarsi” contro il governo.

Maurizio Fugatti – Sottosegretario alla Salute. È uno storico attivista della Lega in Trentino, dove è stato anche segretario regionale. È stato deputato dal 2006 al 2013, poi fu il candidato presidente della Lega alla presidenza della provincia di Trento: non venne eletto ma rimase nel consiglio provinciale. Nel 2018 è stato eletto deputato nel collegio nominale di Pergine Valsugana.

Armando Bartolazzi – Sottosegretario alla Salute. Ha 57 anni ed era il candidato ministro per la Salute proposto dal M5S in campagna elettorale. È dirigente medico all'Unità di Istologia e Anatomia patologica dell'ospedale universitario Sant’Andrea di Roma. Durante la campagna elettorale aveva messo in discussione il modo con cui era stata promossa l’obbligatorietà dei vaccini.

Franco Manzato – Sottosegretario per le Politiche Agricole alimentari e forestali. Nato a Oderzo (Treviso) nel 1966, è un deputato della Lega Nord. Laureato in filosofia, è stato consigliere comunale di Oderzo, poi consigliere regionale nel 2000, riconfermato nel 2005. Nel 2002 è stato nominato capogruppo della Lega in Veneto, nel 2008 è diventato assessore all’Agricoltura e vicepresidente al posto di Luca Zaia; nel 2010 è stato rieletto per la terza legislatura. Ha fondato a Padova la prima scuola per nuovi dirigenti leghisti, molti dei quali sono stati eletti in Parlamento nel 2008.

Antonella Pesce – Sottosegretaria per le Politiche Agricole alimentari e forestali. Prima delle elezioni era stata indicata da Luigi Di Maio come ministra delle Politiche agricole del suo eventuale governo. Ha un dottorato di ricerca in Agricoltura istituzioni e ambiente per lo sviluppo economico, ha fatto ricerca nel campo economico agrario, ha scritto centinaia di pubblicazioni scientifiche e curato alcune edizioni del Rapporto sullo stato dell’agricoltura italiana. Nel 2014 è entrata nella Segreteria tecnica di Andrea Olivero, allora vice ministro alle Politiche; è dirigente del Crea (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’Economia Agraria), un ente di ricerca del ministero.

Claudio Durignon – Sottosegretario al Lavoro e alle Politiche sociali. È un ex sindacalista di 46 anni eletto con la Lega nel Lazio. Ha fatto parte per anni dell’Ugl – cioè il discendente della CISNAL, il sindacato della destra sociale – di cui è stato anche vicesegretario generale. Da qualche tempo responsabile del dipartimento lavoro della Lega. È alla sua prima legislatura.

Claudio Cominardi – Sottosegretario al Lavoro e alle Politiche sociali. Ha 36 anni ed è un deputato del M5S alla seconda legislatura. Prima di entrare in politica faceva l’informatico. Nella scorsa legislatura ha fatto parte della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Aldo Moro, e si è occupato spesso di lavoro e tecnologia. Ha collaborato col sociologo Domenico De Masi al progetto “Lavoro 2025”, poi trascritto in un libro. Alle ultime elezioni politiche è stato eletto nel sistema proporzionale in Lombardia.

Stefano Candiani – Sottosegretario per l'Interno. Ha 47 anni ed è nato a Busto Arsizio, in provincia di Varese. Ha un’esperienza in politica quasi ventennale e sempre con la Lega Nord. Dopo diversi incarichi nelle amministrazioni locali e come segretario del partito nella provincia di Varese, nel 2013 è stato eletto per la prima volta senatore, distinguendosi in diverse occasioni per accesi scontri con l’allora presidente del Senato, Piero Grasso (gli diede anche del “fascista”). È stato rieletto alle politiche dello scorso marzo, sempre in Senato, ed è ritenuto uno dei principali fautori del successo della Lega in alcune regioni del centro come l’Umbria.

Nicola Molteni – Sottosegretario per l'Interno. Ha 42 anni ed è il presidente leghista della Commissione speciale della Camera. È stato eletto per la prima volta in Parlamento nel 2008. Nel 2012 tentò di diventare sindaco della sua città, Cantù, in provincia di Milano, ma fu sconfitto dal candidato di una lista civica. È stato rieletto alla Camera prima nel 2013 e poi di nuovo nel 2018, dove ha vinto proprio il collegio uninominale di Cantù. È spesso ospite dei talk show politici in tv ed è stato tra i meno scettici nei confronti del M5S e di un eventuale accordo di governo, poi realizzato.

Luigi Gaetti – Sottosegretario per l'Interno. Ha 59 anni, è di Mantova ed è stato eletto in Senato per la prima volta nella scorsa legislatura, come rappresentante del Movimento 5 Stelle per la circoscrizione Lombardia. È stato vicepresidente della IX Commissione permanente Agricoltura e produzione agroalimentare, facendosi notare per le sue posizioni molto critiche sull’impiego degli organismi geneticamente modificati. A ottobre del 2013 è stato eletto vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia. Non fa parte dei parlamentari di questa legislatura.

Carlo Sibilia – Sottosegretario per l'Interno. Ha 32 anni è di Avellino e ha una storia ormai decennale di militanza nei gruppi di sostegno a Beppe Grillo confluiti poi nel Movimento 5 Stelle. Eletto la prima volta nella scorsa legislatura, è stato segretario della III Commissione Affari Esteri e Comunitari, è stato “responsabile Università” per conto del M5S ed è stato uno dei più stretti collaboratori nel gruppo di lavoro proposto da Grillo. Rieletto quest’anno sempre alla Camera, Sibilia si è distinto negli anni per dichiarazioni molto controverse: sostiene che quello dello sbarco sulla Luna sia un complotto, ha tenuto interventi in Parlamento sulle teorie sul “signoraggio”, è convinto che il Gruppo Bilderberg complotti per influenzare e controllare la politica internazionale, è contrario alle vaccinazioni obbligatorie, ha modificato senza permesso un video dell’Altra Europa con Tsipras per farlo sembrare uno spot del M5S, ha proposto di discutere in Parlamento una legge per consentire matrimoni di gruppo e tra specie diverse, purché consenzienti. 

Vittorio Ferraresi – Sottosegretario per la Giustizia. Nato a Cento (Ferrara) nel 1987, è laureato in Giurisprudenza e fa parte del M5S dai primi meetup del 2008. Nel 2010 fondò il gruppo del movimento di Finale Emilia, nel 2013 fu eletto deputato e nominato capogruppo del M5S in Commissione giustizia. È primo firmatario di proposte di legge riguardanti, tra le altre cose, la legalizzazione della cannabis, la violenza contro gli animali e la riconversione di ex-zuccherifici in centrali a biomasse (le trovate tutte qui). Si è anche occupato del terremoto in Emilia-Romagna, in particolare per sospendere i mutui sulle case inagibili dei terremotati.

Jacopo Morrone – Sottosegretario per la Giustizia. È di Carpinello (Forlì), ha 35 anni, è laureato in Giurisprudenza e dal 2015 è segretario della Lega Nord Romagna. È stato eletto deputato per la prima volta in questa legislatura.

Raffaele Volpi – Sottosegretario alla Difesa. È un senatore della Lega di 58 anni. È in Parlamento da dieci anni: dal 2014 al 2018 è stato segretario di presidenza al Senato. Viene considerato uno dei promotori dei comitati a favore di Matteo Salvini nel sud Italia.

Angelo Tofalo – Sottosegretario alla Difesa. Ha 37 anni ed è un deputato salernitano del Movimento 5 Stelle, membro del Copasir nella scorsa legislatura. L’anno scorso finì nei guai per avere incontrato il capo del governo islamista che si era insediato a Tripoli, in Libia, prima di quello di unità nazionale. Nel 2018 è stato rieletto deputato a Salerno.

Gianluca Vacca – Sottosegretario ai Beni culturali. Ha 44 anni, è nato a Roma, ed è un insegnante di lettere alla sua seconda legislatura da deputato col Movimento 5 Stelle. Nella scorsa legislatura è stato membro della commissione Cultura della Camera.

Lucia Borgonzoni – Sottosegretaria ai Beni culturali. È una senatrice della Lega di 41 anni, al primo mandato da parlamentare. In precedenza aveva lavorato come interior designer. È in politica solo da alcuni anni: nel 2011 fu eletta consigliere comunale a Bologna, e cinque anni dopo è stata la candidata sindaca del centrodestra in città (è stata sconfitta al ballottaggio da Virginio Merola, del centrosinistra).

Vannia Gava – Sottosegretaria per l’Ambiente, la tutela del territorio e del mare. Ha 44 anni ed è di Sacile, comune in provincia di Pordenone nel quale ha ricoperto l’incarico di assessore per l’Ambiente per la Lega Nord. È stata eletta per la prima volta in Parlamento lo scorso marzo, in precedenza aveva negato di essere interessata a ruoli di rilevanza nazionale e di volere fare la sindaca. È stata spesso critica nei confronti del M5S, soprattutto sulle posizioni del partito sul tema dello ius soli durante la scorsa legislatura.

Salvatore Micillo – Sottosegretario per l’Ambiente, la tutela del territorio e del mare. Nato nel 1980 a Villaricca, nella cosiddetta Terra dei fuochi, è stato eletto per la prima volta deputato con il M5S nel 2013, e ha fatto parte prima della commissione Giustizia poi della commissione Ambiente. Si è impegnato soprattutto per far approvare la legge sui reati ambientali e si è occupato in particolare della difficile situazione dei rifiuti nei territori a nord di Napoli. Ha votato diversamente dal proprio gruppo parlamentare il 33 per cento delle volte.

Armando Siri – Sottosegretario per le Infrastrutture e Trasporti. Ha 46 anni, è di Genova ed è uno dei responsabili economici della Lega: il suo nome è comparso spesso nelle cronache politiche di questi ultimi mesi insieme a quello di Claudio Borghi e Alberto Bagnai. Tutti e tre sono considerati tra i più influenti consiglieri di Matteo Salvini, ma Siri è generalmente ricordato per essere l’uomo dietro alla proposta di flat tax presentata dal centrodestra alle ultime elezioni (mentre di Borghi e Bagnai si parla soprattutto in quanto convinti sostenitori dell’uscita dall’euro). Qualche mese fa, L’Espresso scoprì che nel 2015 Siri patteggiò una pena a 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta: al centro del processo c’era Mediaitalia, una sua società che fallì con oltre 1 milione di euro di debiti, secondo quanto scrisse l’Espresso. Da giovane, scrive lo stesso Siri sul suo sito personale, fu «collaboratore e amico personale» di Bettino Craxi, «del quale ha condiviso e sostenuto la visione del giusto equilibrio che si può realizzare nello Stato tra intrapresa privata e prerogativa pubblica». Prima della carriera politica, Siri era stato giornalista a Mediaset. Alle elezioni dello scorso marzo è stato eletto al Senato.

Edoardo Rixi – Sottosegretario per le Infrastrutture e Trasporti. Ha 48 anni, è di Genova dove si è laureato in Economia e iniziò la sua carriera politica nel 2002 come consigliere comunale della Lega. Si candidò alla Camera nel 2008, non venendo eletto: nel 2010 diventò deputato in sostituzione del decaduto Maurizio Balocchi. Dopo quattro mesi, però, Rixi si dimise da deputato per diventare consigliere regionale in Liguria. Nel 2012 si candidò a sindaco di Genova, ottenendo meno del 5 per cento, e poi fu il candidato della Lega alla presidenza della regione Liguria nel 2012, prima che il partito decidesse poi di sostenere il candidato di Forza Italia Giovanni Toti. Fu comunque eletto in consiglio regionale e nominato assessore allo Sviluppo economico. Dal 2014 al 2016 è stato vicesegretario della Lega. Nel 2016 è stato rinviato a giudizio nel processo definito dai giornali “spese pazze”, un presunto caso di uso improprio dei fondi pubblici nel periodo dal 2010 al 2012 al consiglio regionale ligure.

Michele Dell'Orco – Sottosegretario per le Infrastrutture e Trasporti. Ha 32 anni, è originario della provincia di Modena ed era deputato già nella scorsa legislatura, durante la quale fu per qualche mese capogruppo del M5S alla Camera e membro della IX Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni. È un perito chimico, e in Parlamento si è occupato di grandi opere, di liberalizzazioni sul lavoro (in particolare della revisione del lavoro domenicale) e di piccole e medie imprese.

Massimo Garavaglia – Sottosegretaria per l'Economia e le Finanze. Ha 50 anni, è nato a Cuggiono ed è laureato in Economia e commercio alla Bocconi. Nel 2006 fu eletto deputato con la Lega Nord, nel 2008 divenne il più giovane senatore della storia della Repubblica italiana. Riconfermato nel 2013 si dimise dopo la nomina di Assessore all’Economia della regione Lombardia. Dal 2015 è indagato per turbativa d'asta nell'inchiesta che ha portato all'arresto del vicepresidente della Lombardia Mario Mantovani.

Alessio Villarosa – Sottosegretario per l'Economia e le Finanze. È nato nel 1981 in provincia di Messina. Dopo la Laurea in Economia aziendale ha lavorato per 4 anni come operaio in una fabbrica di reti ortopediche e poi ha fondato un’azienda nel settore farmaceutico. Nel 2013 fu eletto deputato con il M5S e nominato membro della Commissione finanze; nel 2014 divenne presidente del gruppo parlamentare dopo le dimissioni di Riccardo Nuti.

Laura Castelli – Sottosegretaria per l'Economia e le Finanze. È nata a Torino nel 1986, dal 2013 è deputata del M5S. È famosa per una puntata di Otto e mezzo del dicembre 2017: Lilli Gruber le chiese cosa avrebbe votato a un referendum sull’euro e Castelli rispose «Non si dice cosa si vota». È indagata per diffamazione per aver pubblicato su Facebook la foto di una cassiera del bar nel Palazzo di giustizia di Torino insieme a Piero Fassino: era una foto di gruppo che era stata ritagliata per mostrare solo Fassino e la donna, e sostenere che il bar avrebbe ottenuto la gestione per un rapporto tra i due.

Massimo Bitonci – Sottosegretario per l'Economia e le Finanze. Nato a Padova nel 1965, è laureato in Economia e commercio e lavora come commercialista. È presidente della Liga Veneta, cioè il nucleo veneto fondativo della Lega Nord, dal 2016. Fa politica dagli anni Novanta: nel 2002 fu eletto sindaco di Cittadella sostenuto da una coalizione di Lega e liste civiche; nel 2008 divenne deputato, nel 2013 senatore, venendo scelto come capogruppo della Lega Nord. Si dimise dall’incarico nel 2014, quando fu eletto sindaco di Padova con una coalizione di centrodestra; nel 2016 la giunta cadde dopo le dimissioni di 17 consiglieri comunali. Bitonci si ricandidò ma venne sconfitto dal candidato di centrosinistra Sergio Giordani. Bitonci è stato anche vicepresidente dell'Associazione nazionale comuni italiani (ANCI) dal 2010 al 2015. Nel 2012 si era candidato come segretario della Liga Veneta ma fu battuto da Flavio Tosi.

DAGONEWS il 26 settembre 2019. I due ministri trombati (Grillo e Tontinelli) stanno fomentando gli altri pentastellati delusi perché si sentono profondamente defraudati e allora accusano Giggetto Di Maio di essere dispotico e di aver ridotto il Movimento a qualcosa che non è né carne né pesce. Come risposta, Casaleggio e Di Maio, insieme a Grillo, elaboreranno una struttura organizzativa in grado di reggere almeno fino alle elezioni regionali, in gennaio, in Emilia e Romagna. Intanto, l’ex bibitaro si trastulla con l’idea che la vittoria alle regionali in Umbria (27 ottobre) sarà appannaggio dell’asse PD-M5S, quindi i malumori all’interno del Movimento saranno sopiti. E’ questo uno dei motivi che lo spinge a fare in fretta le nomine dei consiglieri dell’AgCom dove vuole piazzare il suo fidato e confidente Emilio Carelli – il PD spinge invece per l'ex sottosegretario alle comunicazioni Antonello Giacomelli. Per quanto concerne il governo, tutto è in mano a Spadafora, che ha un ottimo rapporto con Franceschini, e a Fraccaro che da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ha il compito di tampinare le mosse del duplex Conte-Casalino che ormai galoppano autonomi da Casaleggio e Di Maio. Gli uomini forti a Palazzo Chigi sono Roberto Chieppa e l’ambasciatore Piero Benassi con Rocco che dà a Conte gli input politici. Anche perché il Movimento del Vaffa è ormai diventato un partito tradizionale dilaniato dalle correnti: Casaleggio, Di Maio, Grillo, Fico e dissidenti vari e avariati. Travaglio con “Il Fatto” appoggia il redivivo Grillo tornato a casa dopo il divorzio da Salvini, un tipino che Beppe non ha mai sopportato, nemmeno in foto.

Luca De Carolis per il “Fatto quotidiano” il 26 settembre 2019. Quei 14 mesi di governo ora le sembrano stati più lunghi. "Governare assieme alla Lega è stato un incubo, vogliono favorire solo il Nord-Est", scandisce Giulia Grillo, ormai ex ministro della Salute. Dentro un locale a due passi dalla Camera, la deputata del M5S parla a tono basso ma le sillabe sono dritte, senza metafore: "Da una parte mi sento liberata ma sono anche arrabbiata, stavo lavorando bene e sarà un vero peccato non raccogliere i frutti di tutto quel lavoro".

Ha sentito il suo successore Roberto Speranza?

«Sì, mi sembra una persona ragionevole e che ha a cuore la sanità. Magari non so quanta consapevolezza abbia di certi processi, perché si tratta di un mondo molto complesso».

Che priorità dovrebbe darsi il nuovo ministro?

«Innanzitutto completare alcune riforme che abbiamo avviato, come quella della formazione post-laurea dei medici, in modo che non ci sia carenza di specialisti. Poi è fondamentale dare incentivi a medici e infermieri che lavorano nelle aree di emergenza o disagiate».

Lei una volta ha detto che il ministro della Salute è quasi superfluo, perché tanto decide tutto il ministero dell' Economia, visto che gestisce i fondi per la Sanità.

«È un problema di priorità politiche: io in 14 mesi non ho trovato l' appoggio che mi aspettavo sulla sanità da parte del mio capo politico. Avevo chiesto di abolire il superticket, magari gradualmente, e di aumentare il fondo per la sanità: ma i soldi non sono stati trovati. A parte Beppe Grillo, non ho ricevuto sostegno. E il decreto Calabria (quello con cui è stato commissariata la sanità regionale, ndr) sono riuscito a farlo solo grazie all' appoggio del presidente del Consiglio Conte».

Anche lei avrà sbagliato qualcosa. Dal M5S in diversi le rimproverano di essersi isolata, di aver rifiutato incontri e suggerimenti.

«Smentisco totalmente. Sono uno dei ministri che hanno fatto più incontri con parlamentari, aziende e parti sociali. Ho favorito un accordo tra Regioni e case farmaceutiche con cui si è risolto un contenzioso (payback, ndr) che ha fatto recuperare agli enti locali 2 miliardi e mezzo. Certo, sono stata dura con i lobbisti, e forse questa mia durezza è uno dei motivi per i quali non sono più ministro».

Quando ha saputo che non sarebbe rimasta ministro?

«Cinque minuti prima che venisse diffusa la lista dei ministri. Mi ha avvertito il capo politico Luigi Di Maio, con uno stitico messaggio su WhatsApp: cinque o sei parole. Poi mi ha chiesto un incontro tramite la segreteria, ma ho declinato».

Anche Danilo Toninelli non è più ministro. Vede analogie con il suo caso?

«Certamente. Non si capisce perché 14 mesi fa fossimo degni di piena fiducia, e poi successivamente io e lui siamo stati esclusi da riunioni dove si decideva la linea del governo. Senza una spiegazione».

Pochi giorni fa lei ha condiviso un post di Alessandro Di Battista molto duro nei confronti del Pd. State organizzando una fronda?

«Non c' è alcuna fronda e con Alessandro ci siamo sentiti solamente dopo che ho rilanciato il post. L' ho fatto solo perché abbiamo sbagliato a non essere critici con la Lega nel governo precedente, e ora non dobbiamo commettere lo stesso errore con il Pd. I dem hanno valori sicuramente più simili ai nostri, ma in questi anni li hanno spesso traditi».

Condivide l' accordo in Umbria con il Pd?

«Io avevo proposto di allearci con le liste civiche già per le Regionali in Sicilia del 2017 e non venni ascoltata. Ora questa intesa mi pare un salto enorme».

Dal Senato chiedono di modificare lo Statuto, e l' idea di fondo è che Di Maio sia un capo con troppo potere. Condivide?

«Per me non è in discussione la persona ma il ruolo del capo politico, che è privo di contrappesi. Ci vuole collegialità nelle decisioni. Per essere chiari non voglio mettere Di Battista, che pure ritengo di grande valore, al posto di Di Maio. Ma con questo assetto non possiamo andare avanti. Siamo nati come un Movimento senza un leader».

E Grillo cos' era, cos' è? E Gianroberto Casaleggio?

«Beppe era ed è una guida, l' unico ad avere una visione politica della società, la nostra spina dorsale. Invece Casaleggio fissava dei punti ma ci lasciava liberi di autodeterminarci. Dopodiché quando faceva il capo sapeva farlo».

Cosa serve ora?

«Dobbiamo aprire una fase costituente e discutere, nelle assemblee. Inutile riunirsi ogni tanto in Parlamento per un paio d' ore a sera tardi. Serve maggiore confronto».

Per fare cosa? Un comitato politico, un direttorio?

«Il punto non è questo e comunque io non ho la soluzione in tasca. Ma so che la gente è spaesata e che adesso dobbiamo scegliere se diventare un partito a tutti gli effetti o restare un movimento. A oggi non siamo né carne né pesce. Non sono chiari i processi decisionali e la partecipazione di iscritti ed eletti è solo marginale. E non va bene».

Giovanni Tria, il più umiliante dei licenziamenti: "Via dal ministero, come l'ho saputo". Capito Conte? Libero Quotidiano il 13 Settembre 2019. Neanche una telefonata. Giovanni Tria, ormai ex ministro dell'Economia del Conte I, si è lamentato ad Agorà per essere stato informato della sua sostituzione in via XX Settembre solo via stampa. "Leggo le notizie", ha ammesso sconsolato l'ex titolare di via XX Settembre, massacrato a turno da Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Il premier Giuseppe Conte, con Sergio Mattarella alle sue spalle, lo ha protetto per 14 mesi ("Abbiamo lavorato insieme 14 anni", è lo scivolone in diretta di un evidentemente emozionato Tria). Poi la crisi, l'inciucio M5s-Pd e tanti saluti al tecnico. "Me l'aspettavo", ha commentato in studio a Raitre sottolineando come da Conte non gli sia arrivata nessuna comunicazione ufficiale. 

Paolo Mastrolilli per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. Tutti sanno cosa servirebbe per rilanciare l' economia italiana, ma il governo è paralizzato dalla difficoltà di scegliere. A lanciare questo allarme è l' ex ministro dell' Economia Giovanni Tria, parlando a margine della conferenza "Progressivism, Socialism, Nationalism" , organizzata dal Center on Capital and Society della Columbia University guidato dal Nobel Phelps. «Mi sembra che ci sia difficoltà di decisione. Si tratta di scegliere, di prendere le risorse dove sono». Per farlo, «bisogna governare la spesa corrente. Mi concentrerei a risolvere tutti i problemi che impediscono di portare avanti un programma di investimenti pubblici, che sono ancora inferiori del 30% rispetto al 2008. Questo serve non solo a far riprendere l' economia, ma a creare le condizioni per gli investimenti privati». Secondo l' ex ministro «c' è da ridurre la pressione fiscale, cambiarne la composizione. Una riforma fiscale credibile non si fa a deficit. Una famiglia si indebita per comprare una casa, non per pagare l' affitto». Poi aggiunge: «Se vogliamo evitare l' aumento dell' Iva dobbiamo contenere la dinamica della spesa corrente e agire su tax expenditure, fare una manovra diffusa su tutte le voci di spesa in modo che non crei danni da nessuna parte». Non significa tagliare: «Supponiamo che la spesa prevista per la sanità il prossimo anno sia di 2, 5 miliardi. Se invece spendessimo 2 miliardi, la sanità si fermerebbe? No, ma con i soldi risparmiati si potrebbero finanziare interventi per favorire la crescita». E perché non si fa? «Perché ci sono miti che non si possono toccare». Tria rivela che «io volevo fare la flat tax l' anno scorso, ma è stata la Lega che ha deciso di non vararla, per fare invece quota 100. Stavo lavorando sulla riduzione delle aliquote, abbassare l' Irpef per i redditi medi e medio bassi, che è quello di cui si continua a parlare. Poi alcuni la chiamano riduzione del cuneo fiscale, altri flat tax, ma è un fatto nominalistico. Per flat tax si è sempre inteso questo: non ho mai visto sul tavolo altri progetti». Anche sul reddito di cittadinanza avanza dei dubbi: «Forse è servito ad aiutare alcune persone più indigenti», ma non a rilanciare l' economia e la crescita. L' ex ministro parla anche del difficile rapporto con Bruxelles: «Il mio governo aveva ottenuto la flessibilità, il problema è che poi gli investimenti non sono stati fatti». Quindi aggiunge: «Non sono convinto che la Ue sia più flessibile perché è cambiato l' esecutivo. Il momento ora è più favorevole perché è mutato il clima. Si discute su come sostenere la crescita, non fare politiche restrittive, perché l' economia globale rallenta». L' ex ministro però non risparmia una frecciata al leader della Lega Salvini: «Certo è che se uno ha in corso una trattativa, e non insulta la controparte, forse è meglio. Facilita la trattativa». Se fosse ancora ministro, senza i limiti prodotti dalle tensioni nella coalizione, avrebbe un piano: «Mi concentrerei per risolvere i problemi che impediscono un programma di investimenti pubblici. Questo farebbe riprendere l' economia, ma creerebbe anche le condizioni per gli investimenti privati». Le possibilità ci sarebbero, anche dagli Usa: «Sono opportunità molto grandi, ma gli investitori non vengono per il rischio legale e l' imprevedibilità normativa». È un grave danno per il futuro del paese, perché «senza investimenti in ricerca e tecnologia siamo fuori dalla competizione globale. C' è un vecchio detto che dice: chi non sta a tavola, sta nel menù». Un ultimo messaggio lo manda proprio a Washington: «Sul 5G in Italia c' è una legislazione abbastanza forte». Quanto all' adesione alla Via della Seta, «è stato spiegato che l' accordo contiene ben poco. Altri paesi europei non lo hanno fatto, ma hanno accordi ben più forti nella sostanza con la Cina».

Governo Conte 2, ecco l'elenco completo dei ministri.

Consiglio dei Ministri.

Presidenza del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte (Indipendente)

Riccardo Fraccaro (M5S) Segretario del Consiglio dei ministri

Andrea Martella (PD) Con delega all'Editoria e Informazione

Mario Turco (M5S) Con delega alla programmazione economica e investiment

Ministri senza portafoglio.

Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà (M5S)

Innovazione tecnologica e digitalizzazione Paola Pisano (M5S)

Pubblica amministrazione Fabiana Dadone (M5S)

Affari regionali e autonomie Francesco Boccia (PD)

Sud e coesione territoriale Giuseppe Provenzano (PD)

Politiche giovanili e sport Vincenzo Spadafora (M5S)

Pari opportunità e famiglia Elena Bonetti (PD)

Affari europei Vincenzo Amendola (PD)

Ministri con portafoglio

Affari esteri e cooperazione internazionale Luigi Di Maio (M5S)

Interno Luciana Lamorgese (Indipendente)

Giustizia Alfonso Bonafede (M5S)

Difesa Lorenzo Guerini (PD)

Economia e finanze Roberto Gualtieri (PD)

Sviluppo economico Stefano Patuanelli (M5S)

Politiche agricole alimentari, forestali e turismo Teresa Bellanova (PD)

Ambiente e tutela del territorio e del mare Sergio Costa (Indipendente)

Infrastrutture e trasporti Paola De Micheli (PD)

Lavoro e politiche sociali Nunzia Catalfo (M5S)

Istruzione, università e ricerca Lorenzo Fioramonti (M5S)

Beni e attività culturali Dario Franceschini (PD)

Salute Roberto Speranza (Art. 1 Leu)

Governo Conte 2, ecco l'elenco completo dei viceministri e sottosegretari. La maggioranza va al M5s con 21, 18 per il Pd. Due i rappresentanti di Leu, un incarico anche al Maie. La Repubblica il 13 settembre 2019. Ecco l'elenco completo dei viceministri e sottosegretari scelti nella riunione convocata a Palazzo Chigi dal premier Conte. Sono 21 i sottosegretari M5s, 18 i Dem, 2 i rappresentanti di Leu, 1 del Maie. Al dem Martella la delega all'editoria.

Presidenza consiglio dei ministri: Mario Turco (M5S, programmazione economica e investimenti), Andrea Martella (Pd, editoria)

Rapporti con il parlamento: Gianluca Castaldi (M5S), Simona Malpezzi (Pd)

Affari Ue: Laura Agea (M5S)

Esteri: Emanuela Del Re (M5S, viceministro), Manlio Di Stefano (M5S), Marina Sereni (Pd, viceministro), Ivan Scalfarotto (Pd), Ricardo Merlo (Maie)

Interni: Vito Crimi (M5S, viceministro), Carlo Sibilia (M5S), Matteo Mauri (Pd, viceministro), Achille Variati (Pd)

Giustizia: Vittorio Ferraresi (M5S), Andrea Giorgis (Pd)

Difesa: Angelo Tofalo (M5S), Giulio Calvisi (Pd)

Economia: Laura Castelli (M5S, viceministro), Alessio Villarosa (M5S), Antonio Misiani (Pd, viceministro), Pierpaolo Baretta (Pd), Cecilia Guerra (Leu)

Mise: Stefano Buffagni (M5S, viceministro), Alessandra Todde (M5S), Mirella Liuzzi (M5S), Gianpaolo Manzella (Pd), Alessia Morani (Pd)

Politiche agricole: Giuseppe L'Abbate (M5S)

Ambiente: Roberto Morassut (Pd)

Mit: Giancarlo Cancelleri (M5S, viceministro), Roberto Traversi (M5S), Salvatore Margiotta (Pd)

Lavoro: Stanislao Di Piazza (M5S), Francesca Puglisi (Pd)

Istruzione: Lucia Azzolina (M5S), Anna Ascani (Pd, viceministro), Giuseppe De Cristofaro (Leu)

Cultura: Anna Laura Orrico (M5S), Lorenza Bonaccorsi (Pd)

Salute: Pierpaolo Sileri (M5S, viceministro), Sandra Zampa (Pd)

Sottosegretari, chiusa la lista: sono 42 con 10 viceministri. Un incarico anche al Maie. Misiani e Castelli al Mef, Buffagni al Mise. I dieci viceministri del governo giallo-rosso. Conte ha imposto la chiusura nella riunione convocata stamattina a Palazzo Chigi. 21 i sottosegretari M5s, 18 i Dem, 2 i rappresentanti di Leu, 1 del Maie. Al dem Martella la delega all'editoria. Solo quindici le donne. Lunedì il giuramento. La Repubblica il  13 settembre 2019.  Giuseppe Conte avrebbe voluto chiudere già ieri la partita di sottosegretari e viceministri e ha manifestato la sua irritazione per il ritardo del pacchetto di nomine (anche perché non vuole concedere armi alla propaganda salviniana). Ma questa mattina, nel vertice a Palazzo Chigi, è arrivata l'intesa: in tutto 42 nomine, con 10 viceministri. La maggioranza va ai Cinquestelle con 21 esponenti; 18 sono invece in quota Pd (cinque di area renziana) due sono indicati da Leu, uno è del Maie (gli italiani all'estero). I viceministri sono 6 in quota M5S, 4 per il Partito democratico. Solamente quindici le donne. E per il giuramento bisognerà attendere lunedì mattina.

10 VICEMINISTRI Partiamo dai viceministri. All'Economia vanno Antonio Misiani per il Pd (senatore della commissione bilancio, tesoriere del Pd con Bersani segretario) e Laura Castelli per i 5Stelle (che dunque ha vinto il derby nel Movimento con Buffagni). Stefano Buffagni (M5s) - vicino a Davide Casaleggio - sarà invece viceministro allo Sviluppo economico. Viceministre degli Esteri sono Marina Sereni (Pd) - che Zingaretti ha voluto in segretaria e che nella scorsa legislatura è stata vicepresidente della Camera - e Emanuela Del Re (M5s): per lei si tratta di una riconferma. Gli altri viceministri sono il 5Stelle Giancarlo Cancelleri (leader dei 5Stelle in Sicilia e consigliere regionale) alle Infrastrutture; il 5Stelle Pierpaolo Sileri - un chirurgo - alla Salute, mentre la dem - e renziana ortodossa - Anna Ascaniandrà all'Istruzione (nelle ultime ore erano affiorate perplessità sul suo nome per le critiche nel mondo scolastico nei confronti della riforma della Buona scuola, ma evidentemente sono state superate). All'Interno saranno viceministri Matteo Mauri - Pd, molto vicino a Maurizio Martina - e Vito Crimi(M5s) - l'uomo delle battaglie contro Radio radicale - che perde la casella di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'editoria.

32 SOTTOSEGRETARI. Passiamo ora all'elenco dei sottosegretari. L'importante delega all'editoria va ad Andrea Martella del Pd, che era coordinatore della segreteria dem (quindi uno zingarettiano a Palazzo Chigi). L'altro sottosegretario alla presidenza del Consiglio sarà Mario Turco, dei Cinquestelle, alla programmazione economica e investimenti. Sottosegretari ai rapporti con il Parlamento sono Simona Malpezzi, Pd (renziana di Base riformista, la corrente Lotti-Guerini) e Gianluca Castaldi (Cinquestelle e senatore abruzzese). Agli Esteri come sottosegretari vanno Ivan Scalfarotto (Pd) (renziano doc, promotore dei comitati civici dell'ex premier);  Manlio Di Stefano (Cinquestelle, vicino a Di Maio, riconfermato) e Ricardo Merlo (Maie, il Movimento per gli italiani all'estero, che ha votato la fiducia al governo giallo-rosso. Era già sottosegretario nel governo gialloverde). All'Interno vanno Carlo Sibilia (M5S, riconfermato) e Achille Variati (Pd), ex sindaco di Vicenza. Alla Giustizia Vittorio Ferraresi (M5S, anche per lui una riconferma) e Andrea Giorgis (deputato Pd e costituzionalista che disse no alla riforma renziana).Agli Affari europei Laura Agea (M5S, ex europarlamentare). Alla Difesa:Angelo Tofalo (M5S, già sottosegretario nel governo gialloverde, noto anche per una serie di gaffe e per la foto in tuta mimetica e mitra) e Giulio Calvisi del Pd, esperto di immigrazione, un passato nella Fgci e nella sinistra giovanile.  All'economia Alessio Villarosa (M5S, riconfermato) Pierpaolo Baretta (Pd, ex sindacalista Cisl, già al Mef con Saccomanni e Padoan) eCecilia Guerra (Leu). Al Mise Alessandra Todde (M5S, ex amministratore delegato di Olidata, prima dei non eletti nella circoscrizione Isole alle europee), Mirella Liuzzi (M5S) , Gianpaolo Manzella (finora assessore nella giunta Zingaretti, fortemente voluto dal segretario dem) e la renziana Alessia Morani (area Lotti-Guerini). Alle Politiche agricole: Giuseppe L’Abbate (M5S), deputato pugliese, componente della commissione agricoltura della Camera, che si è occupato di Xylella. All'ambiente sottosegretario unico Roberto Morassut (Pd), già membro della commissione Ambiente della Camera e vicepresidente della commissione di inchiesta sul degrado delle periferie. Alle infrastrutture Roberto Traversi (m5s) e Salvatore Margiotta (Pd).  Al Lavoro: Stanislao Di Piazza (M5S) e Francesca Puglisi (Pd). All'IstruzioneLucia Azzolina (M5S) - insegnante e sindacalista - e Giuseppe De Cristofaro (Leu, un passato in Rifondazione e nel Genoa social forum).  Alla Cultura: Anna Laura Orrico (M5S) e Lorenza Bonaccorsi (Pd, con delega al turismo, assessora uscente nella giunta Zingaretti). Alla Salute la dem - e prodiana - Sandra Zampa, cofondatrice del Partito democratico.

GLI SCENARI. Rispetto al tam tam di voci delle ultime ore, restano fuori dalla squadra di governo il dem Emanuele Fiano (che sembrava in corsa per l'Interno), Lia Quartapelle del Pd (agli esteri), due ex ministre Cinquestelle come Trenta (che non è neppure parlamentare) e Lezzi e l'ex ministro dem Maurizio Martina. Da notare che - con l'ingresso nel governo degli assessori del Lazio Manzella e Bonaccorsi - si liberano due caselle nella giunta Zingaretti aprendo nuovi scenari in vista di un rimpasto. Anche con il possibile coinvolgimento di esponenti Cinquestelle o vicini ai 5Stelle. Insomma, il Lazio come potenziale laboratorio di una collaborazione giallo-rossa anche al livello amministrativo.

Sottosegretari, poco più di un terzo le donne. Il Sud prevale sul Nord. Ira dei renziani in Toscana. Da Nardella a Bonafé, protesta "regionale" contro le scelte dei vertici dem: "Noi esclusi. Una purga contro l'ex premier?". Critiche dal governatore abruzzese e dai leghisti liguri. E scoppia il caso Cancelleri. La Repubblica il 13 settembre 2019. La squadra di governo si completa, con la nomina dei sottosegretari, e scattano immancabili le polemiche. Si parte da un dato oggettivo: il numero delle donne è pari solo al un terzo del totale. Cioè 15 su 42 (anche tra i ministri le donne sono solo 7 su 21). Le dem sono sette (Malpezzi, Sereni, Morani, Puglisi, Ascani, Bonaccorsi, Zampa); sette le M5S (Agea, Del Re, Castelli, Liuzzi, Azzolina, Todde, Orrico), una di Leu (Guerra). E poi c'è il tema della composizione geografica della squadra: tra i 42 nominati oggi in Consiglio dei ministri - 10 sono viceministri e 32 i sottosegretari - 15 sono nati al Sud, 13 sono del Centro Italia, 11 del settentrione. Un trend che conferma la tendenza emersa nella squadra dei ministri. La Lega già attacca: il deputato Franco Manzato (già sottosegretario nel governo gialloverde) dice che "nella scorpacciata di poltrone del governo Conte bis il nord produttivo non è stato rappresentato come invece meritava", con particolare riferimento all'Agricoltura.

Molto nutrita, nel governo, la squadra dei siciliani: tre ministri, due vice ministri e quattro sottosegretari. Parliamo di Alfonso Bonafede (M5s) alla Giustizia, Giuseppe Provenzano (Pd) al Sud e Nunzia Catalfo (M5s) al Lavoro. I due vice ministri sono: Giancarlo Cancelleri (M5s) alle Infrastrutture e Vito Crimi all'Interno.  I quattro sottosegretari sono: Alessio Villarosa (M5s) all'Economia, Stanislao Di Piazza (M5s) al Lavoro, Manlio Di Stefano (M5s) agli Affari esteri, Lucia Azzolina (M5s) all'Istruzione. E poi ci sono tutte le proteste dell'Italia dei campanili. Il governatore dell'Abruzzo - Marsilio di Fratelli d'Italia - protesta perché la regione è rappresentata solo dal Cinquestelle Castaldi. Per il leghista Edoardo Rixi il governo ha umiliato la Liguria: "Per la prima volta un Governo di centrosinistra non ha un ministro ligure, non ha un viceministro ligure, mi risulta che al momento ci sia solo un sottosegretario del M5S", dice. Ma la protesta più clamorosa è quella dei renziani della Toscana. "È inconcepibile e assurdo - dice il sindaco di Firenze, Dario Nardella - che il Pd tenga fuori da questo governo la regione che ha dato in assoluto più voti e più consenso a questo partito, con il capoluogo, Firenze, dove si è toccato il record di voti alle ultime elezioni. Se questa esautorazione è una vendetta contro la vecchia maggioranza del partito o contro Renzi". E Simona Bonafè - segretaria del Pd in Toscana, nonché eurodeputata - insorge: "Leggendo la lista dei sottosegretari e viceministri non posso negare la mia profonda delusione e amarezza per la mancanza di nomi toscani del Partito Democratico. Qualcuno a livello nazionale dovrà spiegare ai tanti militanti ed elettori toscani il motivo, ad oggi incomprensibile, per il quale la Toscana non sia stata considerata degna di avere un rappresentante ai massimi livelli, o se ci sia una purga Renzi che ancora oggi la Toscana deve pagare". Eppure i renziani hanno otto rappresentanti al governo: cinque tra sottosegretari e viceministri (Ascani, Morani, Malpezzi, Scalfarotto, Margiotta) e tre ministri (Bellanova, Bonetti e Guerini, quest'ultimo però a sua volta punto di riferimento di una corrente autonoma). Qualche protesta anche per l'incarico di viceministro a Giancarlo Cancelleri, fedelissimo di Di Maio, consigliere regionale in Sicilia che infrange un altro tabù del Movimento: il divieto del doppio incarico. Il neoviceministro dovrebbe dimettersi a breve, ma la sua nomina rappresenta comunque un'anomalia rispetto all'ortodossia grillina.

I sottosegretari del secondo governo Conte. Il Post 13 settembre 2019. Ci sono molte più donne rispetto al primo, e il M5S ha confermato diverse persone del governo precedente. Il Consiglio dei ministri del secondo governo di Giuseppe Conte, sostenuto da Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, ha nominato 42 sottosegretari, fra cui 10 con la carica di viceministro: il M5S ne avrà 21, il PD 18, Liberi e Uguali 2, mentre un sottosegretario è andato al MAIE (Movimento Associativo Italiani all’Estero). Sottosegretari e viceministri sono le persone che lavorano più a stretto contatto con i ministri, solitamente occupandosi di questioni specifiche su cui hanno specifiche deleghe. Fra i 42 nominati, alcuni provengono dal precedente governo: su tutti Manlio Di Stefano agli Esteri, Laura Castelli all’Economia e Carlo Sibilia all’Interno. Tra viceministri e sottosegretari, 5 persone sono state nominate al ministero degli esteri guidato da Luigi Di Maio e 5 all’Economia con Roberto Gualtieri. Andrea Martella del PD, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, avrà la delega all’editoria: ruolo molto rilevante sul mondo dell’informazione. Rispetto al precedente governo, che era sostenuto dalla Lega e dal M5S, è raddoppiato il numero delle donne: fra ministri e sottosegretari nel governo precedente erano soltanto 11, oggi sono 22. Secondo il Corriere della Sera il giuramento dei nuovi sottosegretari e viceministri è stato fissato per lunedì 16 settembre.

Sandra Zampa. Sottosegretaria alla Salute. È una storica collaboratrice dell’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Dopo una carriera da giornalista entrò in politica prima col ruolo di capo-ufficio stampa di Prodi nel 2007, poi con l’elezione a deputata nel 2013 col Partito Democratico. Fra 2013 e 2017 è stata anche vicepresidente del partito.

Alessio Villarosa. Sottosegretaria all'economia. È nato nel 1981 in provincia di Messina. Dopo la Laurea in Economia aziendale ha lavorato per 4 anni come operaio in una fabbrica di reti ortopediche e poi ha fondato un’azienda nel settore farmaceutico. Nel 2013 fu eletto eletto deputato con il M5S e nominato membro della Commissione finanze; nel 2014 divenne presidente del gruppo parlamentare dopo le dimissioni di Riccardo Nuti. È sottosegretario all'Economia uscente.

Achille Variati. Sottosegretario all’Interno. Ha 66 anni ed è nato a Vicenza, città di cui è stato sindaco per il centrosinistra tra 1990 e 1995 e poi di nuovo tra 2008 e 2018 (è stato a lungo anche consigliere regionale in Veneto). Ha lavorato in banca prima di entrare in politica con la DC e passare poi alla Margherita e da lì entrare nel PD.

Carlo Sibilia. Sottosegretario all'Interno. Ha 33 anni è di Avellino e ha una storia ormai decennale di militanza nei gruppi di sostegno a Beppe Grillo confluiti poi nel Movimento 5 Stelle. Eletto la prima volta nella scorsa legislatura, è stato segretario della III Commissione Affari Esteri e Comunitari, è stato “responsabile Università” per conto del M5S ed è stato uno dei più stretti collaboratori nel gruppo di lavoro proposto da Grillo. Rieletto nel 2018 Camera, anche nello scorso governo era sottosegretario all’Interno. Sibilia si è distinto negli anni per dichiarazioni molto controverse: sostiene che quello dello sbarco sulla Luna sia un complotto, ha tenuto interventi in Parlamento sulle teorie sul “signoraggio”, è convinto che il Gruppo Bilderberg complotti per influenzare e controllare la politica internazionale, è contrario alle vaccinazioni obbligatorie, ha modificato senza permesso un video dell’Altra Europa con Tsipras per farlo sembrare uno spot del M5S, ha proposto di discutere in Parlamento una legge per consentire matrimoni di gruppo e tra specie diverse, purché consenzienti.

Pierpaolo Sileri. Viceministro alla Salute. Ha 47 anni ed è un chirurgo dell’università di Tor Vergata, a Roma. È entrato in politica l’anno scorso, quando è stato eletto al Senato col M5S. Da allora è presidente della commissione Salute al Senato.

Alessandra Todde. Sottosegretaria allo Sviluppo Economico. Ha 50 anni, è nata in Sardegna ed è l’ex amministratrice delegata della società Olidata. Aveva lasciato il suo incarico per candidarsi in Sardegna con il Movimento 5 Stelle, ma a causa del pessimo risultato del partito non è stata eletta.

Anna Laura Orrico. Sottosegretaria ai Beni culturali. Ha 38 anni ed è una ex manager calabrese. Nel marzo 2018 è stata eletta per la prima volta col Movimento 5 Stelle alla Camera, e da allora fa parte della commissione Turismo e Commercio. Prima di entrare in politica aveva lavorato a diversi progetti, fra cui l’apertura di uno spazio di coworking all’interno dell’Università della Calabria.

Roberto Morassut. Sottosegretario all’Ambiente. Ha 55 anni ed è un politico molto noto a Roma, dove ha militato nei vari partiti antenati del PD e dove è stato assessore all’Urbanistica nell’amministrazione di Walter Veltroni. È deputato dal 2008. Nel 2016 si candidò a sindaco di Roma ma alle primarie del PD arrivò soltanto secondo dietro Roberto Giachetti.

Roberto Chieppa – Nato a Roma, 53 anni, Chieppa è un magistrato amministrativo e funzionario pubblico. Attualmente è segretario generale della presidenza del Consiglio, dove è stato chiamato dall’attuale presidente Giuseppe Conte (anche lui un magistrato amministrativo). È un membro del Consiglio di stato, il supremo tribunale amministrativo italiano, mentre in passato è stato Segretario Generale dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

Alessia Morani. Sottosegretaria allo Sviluppo Economico. Ha 43 anni ed è nata a Sassocorvaro, in provincia di Pesaro Urbino. Eletta la prima volta nel 2013 e poi di nuovo nel 2018 è considerata molto vicina a Renzi, che la scelse come responsabile giustizia nella sua prima segreteria.

Antonio Misiani. Viceministro all'Economia. Senatore del PD, 51 anni, nato a Bergamo e in parlamento dal 2006. Laureato in economia all’Università Bocconi e da tempo collabora con il centro di ricerca economico NENS. È un sostenitore della sinistra del partito ed è vicino all’attuale vicesegretario Andrea Orlando.

Ivan Scalfarotto. Sottosegretario agli Esteri. Ivan Scalfarotto del Partito Democratico in attesa dei risultati delle primarie del PD presso la sede del Nazareno a Roma, 3 marzo 2019. Ha un blog sul Post.

Mario Turco. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, delega alla programmazione economica. Ha 51 anni ed è nato a Taranto. Docente di economia all’università di Bari è stato eletto senatore per la prima volta nel 2018 nelle liste del Movimento 5 Stelle.

Roberto Traversi. Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti. Ha 49 anni ed è deputato del Movimento 5 Stelle alla prima legislatura. Prima di entrare in politica lavorava come architetto in uno studio di Chiavari, in provincia di Genova. Attualmente siede nella commissione Ambiente della Camera.

Marina Sereni. Viceministra agli Esteri. Ha 59 anni ed è nata a Foligno, in provincia di Perugia. È una delle dirigenti del PD con maggiore esperienza in politica. Nel 2001 entrò per la prima volta alla Camera coi DS, di cui fece anche parte della segreteria politica. Dal 2009 al 2013 fu vicepresidente del Partito Democratico, in cui entrò dopo la fusione fra DS e Margherita. Fino all’anno scorso è stata deputata per il PD.

Riccardo Merlo. Sottosegretario agli Esteri. Ha 57 anni ed è nato a Buenos Aires, in Argentina. È in Parlamento dal 2006 ed è sempre stato eletto tra gli italiani all’estero. Oggi è senatore del MAIE, eletto nella circoscrizione Sud America. Di origine veneta, prima di entrare in politica ha lavorato come giornalista in Argentina.

Matteo Mauri. Viceministro all’Interno. Ha 49 anni, è di Milano e dal 2013 è deputato del PD. Alle spalle ha una lunga carriera nel partito. È stato vicino al segretario Pier Luigi Bersani, per poi avvicinarsi alla segreteria Renzi nel 2015, insieme al gruppo guidato da Maurizio Martina.

Francesca Puglisi. Sottosegretaria al Lavoro. Ex senatrice del Partito Democratico fra 2013 e 2018, ha 50 anni e in passato è stata responsabile nazionale del PD per la scuola. Si è candidata alle politiche del 2018 e alle europee del 2019 senza risultare eletta.

Angelo Tofalo. Sottosegretario alla Difesa. Ha 38 anni ed è un deputato salernitano del Movimento 5 Stelle, membro del Copasir nella scorsa legislatura. È il sottosegretario uscente alla Difesa. Nel 2017 finì nei guai per avere incontrato il capo del governo islamista che si era insediato a Tripoli, in Libia, prima di quello di unità nazionale.

Laura Castelli. Viceministra all'Economia. Sottosegretaria uscente al ministero dell’Economia, è nata a Torino nel 1986 e dal 2013 è deputata del M5S. Ha una laurea in economia e prima di venire eletta alla Camera ha lavorato in un centro di assistenza fiscale. È considerata una fedelissima di Di Maio e nei primi mesi di vita del primo governo Conte era i volti più visibili del Movimento. In seguito a una serie di gaffes e incidenti televisivi, però, ha assunto un profilo più basso.

Stanislao Di Piazza. Sottosegretario al Lavoro. Detto “Steni”, ha 62 anni e viene da Palermo, dove per molti anni è stato direttore della filiale locale di Banca Etica. In passato fu per tre anni consigliere comunale a Palermo per la Democrazia Cristiana. Nel marzo 2018 è stato eletto in Senato col M5S.

Manlio Di Stefano. Sottosegretario agli Esteri. Ha 38 anni ed è nato a Palermo. È deputato del Movimento 5 Stelle dal 2013 ed è stato sottosegretario agli esteri nel primo governo Conte, mentre tra 2013 e 2018 è stato capogruppo del Movimento nella commissione Esteri della Camera. È considerato molto vicino al capo politico del Movimento Luigi Di Maio.

Mirella Liuzzi. Sottosegretaria allo Sviluppo Economico. Ha 34 anni ed è nata a Tricarico, in provincia di Matera. È stata eletta alla Camera con il Movimento 5 Stelle per la prima volta nel 2013 e poi di nuovo nel 2018. Laureata in scienze della comunicazione ha fatto parte della commissione di vigilanza RAI nella scorsa legislatura.

Simona Malpezzi. Sottosegretaria ai Rapporti col Parlamento. Ha 47 anni e viene da Cernusco sul Naviglio, in provincia di Milano. Prima di entrare in politica faceva l’insegnante di lettere. Negli ultimi dieci anni è stata consigliera comunale e Pioltello, poi deputata e infine senatrice col Partito Democratico, ruolo che ricopre ancora oggi.

Vittorio Ferraresi. Sottosegretario alla Giustizia. Nato a Cento (Ferrara) nel 1987, è laureato in Giurisprudenza e fa parte del M5S dai primi meetup del 2008. Nel 2010 fondò il gruppo del movimento di Finale Emilia, nel 2013 fu eletto deputato e nominato capogruppo del M5S in Commissione giustizia. È sottosegretario uscente alla Giustizia.

Andrea Giorgis. Sottosegretario alla Giustizia. Ha 54 anni ed è nato a Torino. Fa parte del PD con cui è stato eletto alla Camera nel 2013 e poi di nuovo nel 2018. È professore di diritto costituzionale all’Università di Torino e fa politica dagli anni Novanta, quando si iscrisse al PDS. Nel 2016, al referendum costituzionale sulla riforma voluta da Matteo Renzi, si schierò per il No.

Gian Paolo Manzella. Sottosegretario allo Sviluppo Economico. Nato a Barcellona, in Spagna, ha 54 anni ed è l’attuale assessore allo Sviluppo economico della regione Lazio, in quota PD. In passato ha collaborato con la Banca Europea degli Investimenti, la Corte di Giustizia europea, il ministero del Tesoro e la presidenza del Consiglio dei Ministri.

Andrea Martella. Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria. Ha 51 anni, è nato a Portogruaro (Venezia) ed è stato parlamentare prima coi DS e poi col Partito Democratico per 17 anni, dal 2001 al 2018. Era ministro dei Trasporti nel “governo ombra” presentato da Walter Veltroni nel 2008. Ha un passato da calciatore nelle giovanili del Portogruaro. Oggi è capo della segreteria politica di Zingaretti.

Maria Cecilia Guerra. Sottosegretaria all’Economia. Ha 61 anni ed è nata a Nonantola, in provincia di Modena. Docente di economia in varie università è stata eletta in Parlamento con il PD nel 2013. Ha ricoperto gli incarichi di sottosegretaria al Lavoro nel governo Monti e poi di viceministro in quello guidato da Enrico Letta. Nel 2017 ha lasciato il PD per entrare in Articolo 1 - MDP.

Giuseppe L'Abbate. Sottosegretario alle Politiche agricole. Ha 34 anni ed è un deputato del M5S alla seconda legislatura. È laureato in Informatica ma si interessa soprattutto di ambiente. Nel 2012 aveva provato a candidarsi a sindaco della famosa cittadina pugliese di Polignano a mare, raccogliendo il 9 per cento.

Salvatore Margiotta. Sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti. Ha 55 anni ed è nato a Potenza. Ingegnere e docente universitario è in parlamento dal 2006, prima con la Margherita e poi con il PD. Coinvolto in diversi procedimenti giudiziari, è stato sempre prosciolto.

Emanuela Del Re. Viceministra agli Esteri. Ha 54 anni ed è una professoressa universitaria, sottosegretaria uscente agli Esteri. Insegna “Diplomazie multiple” all’Università di Roma Tre, “Sociologia dei fenomeni politici del Medio Oriente” all’università telematica Cusano e fa parte del consiglio redazionale della rivista Limes. In campagna elettorale il M5S la propose come ministro degli Esteri.

Vito Crimi. Viceministro all’Interno. Ha 47 anni ed è nato a Palermo. Impiegato di tribunale è stato eletto per la prima volta al Senato nel 2013 ed è divenuto famoso insieme a Roberta Lombardi come uno dei due primi capigruppo del Movimento in Parlamento. Nel primo governo Conte è stato sottosegretario con delega all’editoria, una posizione nella quale si è fatto conoscere per la sua opposizione al finanziamento di Radio Radicale.

Stefano Buffagni. Viceministro allo Sviluppo Economico. Ha 36 anni e prima di entrare in politica faceva il commercialista di Milano. Nel 2013 ha avuto la sua prima esperienza politica venendo eletto con il Movimento 5 Stelle al Consiglio regionale della Lombardia di cui divenne portavoce. Dopo essere arrivato a Roma è riuscito rapidamente a diventare uno dei collaboratori più stretti del capo politico del M5S Luigi Di Maio.

Lorenzo Bonaccorsi. Sottosegretaria ai Beni culturali. Ha 51 anni ed è l’attuale responsabile nazionale di Cultura e Turismo per il Partito Democratico. In passato era stata molto vicina a Matteo Renzi, che l’aveva anche nominata nella sua segreteria, ma in seguito si è avvicinata all’attuale segretario Nicola Zingaretti, che nel 2018 l’ha nominata assessore al Turismo della regione Lazio. Alle ultime elezioni politiche si era candidata all’uninominale in una zona periferica di Roma, senza essere eletta.

Pierpaolo Baretta. Sottosegretario all’Economia. Ha 70 anni ed è nato a Venezia. Operaio a Porto Marghera, poi sindacalista dei metalmeccanici della CISL, Baretta è stato deputato dal 2008 al 2018 e sottosegretario all’Economia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni.

Giuseppe De Cristofaro. Sottosegretario all’Istruzione. Detto “Peppe”, ha 48 anni e da diversi anni fa politica nel mondo della sinistra. Fu coordinatore nazionale dei Giovani Comunisti, poi segretario regionale di Rifondazione Comunista per la Campania. Dal 2013 al 2018 fu senatore per Sinistra Ecologia e Libertà. Candidato nel 2018 con Liberi e Uguali, non venne eletto.

Gianluca Castaldi. Sottosegretario ai Rapporti col Parlamento. Ha 49 anni ed è nato a Vasto, in provincia di Chieti. È in Parlamento dal 2013, due volte eletto al Senato con il Movimento 5 Stelle. Di professione artigiano è segretario del Senato e capogruppo del Movimento nella commissione Industria, commercio e turismo.

Lucia Azzolina. Sottosegretaria all’Istruzione. Ha 37 anni e prima di entrare in politica insegnava alle scuole superiori ed era attiva nel sindacato ANIEF. È una deputata del Movimento 5 Stelle alla prima legislatura.

“AL LICEO MI CHIAMAVANO CAZZOLINA”. Da “Un giorno da Pecora - Radio1” il 17 ottobre 2019. Il sottosegretario all'Istruzione Lucia Azzolina aveva un soprannome molto particolare: "Cazzolina". L'onorevole lo ha raccontato oggi a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, nel corso di una lunga intervista dove si è raccontata al di fuori della politica, a partire dal curioso nome che le avevano affibbiato a scuola. “Al liceo mi chiamavano "Cazzolina"...” E le dispiaceva? “No, ci ridevo sopra. E i miei compagni di allora mi chiamavano anche "Oracolo", perché ero una secchiona...” Il quotidiano Libero l'ha definita "il segreto sexy del M5S, capello nero e rossetto rosso fuoco". E' d'accordo? “Sul rossetto rosso anche l'Espresso mi aveva dedicato un articoletto. Da quel momento in poi me lo metto ancora di più, è direttamente proporzionale questa cosa..." E sull'essere il "segreto sexy del M5S"? "Non vorrei che si guardassero le donne in politica con gli stereotipi, vorrei che si guardasse la testa delle persone”. Come andava a scuola il sottosegretario all'Istruzione? “Avevo 10 in storia, arte e italiano, 9 in fisica, 8 in matematica. Agli esami di Stato i miei professori scrissero una menzione sul mio diploma perché non c'era ancora la lode: presi 100/100”. Se dovesse scegliere, lei preferirebbe andare alla Leopolda o al Papeete Beach? “Io amo il mare, andrei al Papeete ma non come ci è andato Salvini. Pensate se fossi andata io, donna e del M5S, lì in costume, con tutti gli uomini in costume intorno”. E si sarebbe bevuta un mojito come il leader leghista? “Da quel momento il mojito è diventata la mia bevanda preferita”. Quindi lei il mojito lo ha bevuto per festeggiare la caduta del precedente governo...”Si, dai, perché no...”, ha concluso la Azzolina a Un Giorno da Pecora. 

Anna Ascani. Viceministra all'Istruzione. È nata a Città di Castello (Perugia) e ha 31 anni. Vicepresidente del PD di cui è deputata dal 2013. Ascani, che è figlia di un importante esponente della Democrazia Cristiana in Umbria, ha iniziato molto presto a fare carriera politica ed oggi è considerata una delle deputate del PD più vicine a Matteo Renzi.

Giancarlo Cancelleri. Viceministro alle Infrastrutture e Trasporti. Ha 44 anni e per due volte è stato il candidato del Movimento 5 Stelle alla presidenza della regione Sicilia. È geometra e prima di entrare in politica lavorava nel settore metalmeccanico. Ha iniziato a fare politica nel 2007, quando ha costituito un comitato civico a Caltanissetta contro l’aumento delle tariffe delle bollette. Da tempo è considerato vicino al capo politico del M5S, Luigi Di Maio.

Giulio Calvisi. Sottosegretario alla Difesa. Ha 54 anni ed è nato a Olbia in Sardegna. Fa parte del PD e negli anni Novanta fu il successore di Nicola Zingaretti alla guida della Sinistra Giovanile. Esperto di welfare e immigrazione, è stato deputato tra 2008 e 2013 e all’interno del partito ha sempre sostenuto l’area più a sinistra.

Laura Agea. Sottosegretaria agli Affari Europei. Ha 41 anni e un’unica esperienza politica alle spalle: quella di parlamentare europea per il Movimento 5 Stelle fra 2014 e 2019, di cui a un certo punto è stata anche capogruppo.

I conti che non tornano di Alessandra Todde, sottosegretaria a Cinque stelle. Mandata da Luigi Di Maio al ministero dello Sviluppo, dice di aver risanato Olidata, l'azienda di computer in grave crisi di cui era amministratore delegato. Ma la relazione dei revisori di bilancio racconta una storia diversa. Vittorio Malagutti il 25 settembre 2019 su L'Espresso. Quando Luigi Di Maio, a sorpresa, la inserì come capolista nella circoscrizione Isole per le elezioni Europee della scorsa primavera, Alessandra Todde si presentò su Facebook spiegando di voler rilanciare l’Italia utilizzando «il modello Olidata». Un annuncio non casuale: Olidata, società romagnola con un marchio molto noto nel mondo dei personal computer, era finita in liquidazione e il presidente Riccardo Tassi aveva chiamato Todde, esperta di informatica con un curriculum internazionale, per risollevare le sorti aziendali con l’incarico di amministratore delegato. A sei mesi di distanza da quella impegnativa dichiarazione, c’è da sperare (per l’Italia) che la manager sponsorizzata da Di Maio abbia cambiato idea. Il modello Olidata, infatti, fin qui non ha granché funzionato. La società con base a Cesena, un tempo trattata in Borsa con migliaia di piccoli azionisti, si trova ancora in mezzo al guado, alla ricerca di capitali per ripartire davvero. Todde invece, persa la corsa al Parlamento di Strasburgo (prima dei non eletti), due settimane fa ha traslocato al Ministero dello sviluppo economico come sottosegretaria e forse, prima o poi, potrebbe capitarle di occuparsi ancora di Olidata, ma questa volta in veste di rappresentante del governo chiamato al capezzale di aziende in crisi. Un documento recentissimo, datato 6 settembre, non lascia infatti molto spazio all’ottimismo sul futuro della società fino a poco tempo fa guidata dall’esponente Cinque stelle. Il nuovo piano industriale e l’aumento di capitale “non si sono perfezionati nei tempi e nelle modalità previste”, scrivono i revisori della Nexia Audirevi nella loro relazione ai conti 2018 di Olidata. Per questo motivo, si legge nel documento, rischiano di “venir meno” gli accordi a suo tempo stipulati con i creditori che hanno dato via libera al concordato e alla revoca della liquidazione a fine 2017. La vertenza più preoccupante è con un’azienda pubblica, Poste italiane, che vanta un credito di circa 5 milioni. Ancora pochi mesi fa, la futura sottosegretaria Todde dichiarava orgogliosa su Facebook di aver partecipato “da protagonista all’advisory team che ha determinato il risanamento” di Olidata. Una visione che appare piuttosto ottimistica, alla luce dei dati di bilancio. I ricavi del 2018, circa 7 milioni, derivano per il 70 per cento da un’operazione contabile, e non ripetibile, legata alla rivalutazione del marchio Olidata. Per ripartire davvero servirebbe un’iniezione urgente di liquidità, ma l’aumento di capitale per 30 milioni di euro varato nel maggio scorso resta in sospeso perché, secondo quanto scrivono i revisori, non si è perfezionato l’accordo “con le controparti che dovevano procedere alla sottoscrizione” delle nuove azioni. Durante la gestione Todde, a giugno dell’anno scorso, Olidata aveva già raccolto 3,5 milioni grazie a un altro aumento di capitale. Gran parte di questa somma era stata versata da due soli investitori: Mario Carlo Ferrario ed Edmondo Gnerre. Gli stessi che proprio in quelle settimane avevano ricevuto circa 3 milioni da Olidata per la vendita all’azienda romagnola della Italdata di Avellino. Anche quest’ultima, che vende servizi informatici, non se la passa troppo bene: gli stipendi di giugno sono stati pagati solo ad agosto dopo uno sciopero dei dipendenti. Il presidente Tassi, che è anche il maggior azionista di Olidata con una quota del 25 per cento del capitale, dice però di non avere nessuna intenzione di gettare la spugna. «Abbiamo appena firmato due lettere d’intenti con possibili nuovi investitori», annuncia. Questi accordi sono però legati “al reperimento di nuovi capitali” da parte della società, come si legge nella relazione dei revisori. Per il momento quindi niente di fatto. Il destino di Olidata resta sospeso. Il risanamento può attendere. Todde invece si è lasciata alle spalle perdite e debiti, lanciata verso un futuro a Cinque stelle.

Altro che fake news, ecco i documenti che smentiscono la 5 Stelle Alessandra Todde. La sottosegretaria del Mise attacca l'Espresso e ci accusa di diffondere informazioni false. Ma non riesce a citare un solo dato in grado di smontare i fatti da noi riportati. Vi mostriamo tutte le carte che confermano il nostro lavoro. Vittorio Malagutti il 27 settembre 2019 su L'Espresso. Alessandra Todde, sottosegretario allo Sviluppo economico in quota Cinque stelle, ieri se l’è presa con L’Espresso. “Vergognose fake news”, così l’esponente grillina ha liquidato la nostra ricostruzione del suo lavoro a Olidata, l’azienda informatica in grave crisi di cui è stata amministratore delegato tra il 2018 e il 2019, prima di candidarsi senza successo alle elezioni europee e quindi traslocare nel nuovo governo. Stia tranquilla, signora Todde: nessuna fake news. La nostra ricostruzione si basa per intero su documenti contabili ufficiali. Insulti a parte, lo scomposto intervento di Todde ospitato dal Blog delle stelle, organo ufficiale della propaganda grillina, si rivela inconsistente nel merito, visto che non riesce a citare un solo dato in grado di smontare i fatti riportati dall’Espresso. A beneficio dei lettori e anche della sottosegretaria, ci sembra quindi utile riassumere i termini della vicenda. Partiamo dalla relazione dei revisori di bilancio pubblicata il 6 settembre scorso. Nel documento, i professionisti della società Nexia Assirevi dichiarano testualmente di “non aver acquisito sufficienti elementi probativi per poter accertare la completezza e la correttezza dei dati e delle informazioni riportate nel bilancio consolidato al 31 dicembre 2018”, un bilancio, quindi, che riguarda anche Todde, amministratore delegato di Olidata dal 13 luglio 2018 al 17 aprile 2019. Va ricordato che anche prima del luglio 2018 Todde ha lavorato per mesi come consulente dell’azienda. Quello formulato dai revisori è un giudizio grave, tale quantomeno da sollevare qualche dubbio sulla credibilità dei conti aziendali. Nella relazione viene inoltre segnalato che su 1.045 milioni di debiti verso i creditori che a fine 2017 hanno sottoscritto il concordato di Olidata, ce ne sono ben 560 milioni scaduti. I revisori scrivono che “il mancato pagamento” di questi debiti può “determinare il venir meno degli accordi” su cui si fonda il concordato. Todde rivendica di aver portato Olidata a chiudere il primo bilancio in attivo dopo anni. L’esponente grillina si dimentica di spiegare come è stato raggiunto questo risultato. Lo facciamo noi al suo posto. Ebbene, nel bilancio 2018 è stata accreditata a conto economico la rivalutazione, per oltre 4 milioni di euro, del marchio Olidata, un’operazione straordinaria (quindi difficile da ripetere) e puramente contabile, che non ha nulla a che fare con le performance di mercato. Come già scritto nell’articolo, questa manovra vale da sola oltre il 70 per cento dei ricavi aziendali. Senza la rivalutazione del marchio, Olidata avrebbe chiuso il 2018 con una perdita di 1,8 milioni su 2,3 milioni di ricavi. Con buona pace del bilancio in attivo vantato da Todde. Altro che fake news, quindi. L’operazione straordinaria sul marchio aziendale è dettagliatamente spiegata nella relazione sulla gestione. Todde dovrebbe saperlo, visto che è stata approvata lo scorso 23 agosto dal consiglio di amministrazione di Olidata di cui la futura sottosegretaria faceva ancora parte. Nel giugno 2018 Olidata ha varato un aumento di capitale che ha fruttato 3,5 milioni di euro. «Un grande risultato», sostiene Todde. Che però evita di ricordare che i due principali sottoscrittori di questo aumento (Mario Carlo Ferrario ed Edmondo Gnerre) sono di fatto stati finanziati dalla stessa Olidata, a cui proprio Ferrario e Gnerre hanno venduto la loro azienda, l’Italdata, a un prezzo complessivo di 3 milioni. L’Espresso ha scritto che Italdata “non se la passa troppo bene”. E lo conferma, anche se Todde sostiene il contrario. In luglio i dipendenti di Italdata sono infatti stati costretti a scioperare per ricevere il loro stipendio. La sottosegretaria afferma che a giugno 2018 Italdata aveva un utile netto di 300 mila euro. Il dato però va aggiornato: negli ultimi sei mesi del 2018, Italdata è andata in rosso, visto che l’utile di fine anno è stato pari a soli 11 mila euro. Nel 2019 la società di Avellino dovrà inoltre far fronte alla perdita di un’importante commessa pubblica. Infine, nel suo intervento sul Blog delle stelle, Todde non manca di ricordare che Olidata “da aprile 2018 ad aprile 2019” non ha licenziato un singolo dipendente. Gliene diamo volentieri atto. Non prima però di aver ricordato ai lettori che a fine 2018 Olidata spa dava lavoro a sole 11 persone. Per effetto di nuove uscite si sarebbe rischiata l’estinzione. I dipendenti erano 15 nel 2017 e 35 nel 2015, quando la società è entrata in crisi. C’è scritto nel bilancio, Todde può controllare. In compenso, a partire da aprile 2018 e fino a settembre di quest’anno la società poteva contare su cinque consiglieri di amministrazione a cui vanno aggiunti 10 consulenti, tutti esperti di tecnologie e di finanza, divisi tra un “Innovation Board” e uno “Strategic Board”.

·         Conflitto d'interessi e memoria corta.

Luigi Ferrarella per il ''Corriere della Sera'' il 30 novembre 2019. Epidemia di conflitti di interesse ai vertici di Eni. La svelano le mail depositate ieri dai pm al Tribunale del riesame sulla «Wnr World Natural Resources» di diritto britannico, a cui nel 2013-2015 la congolese Aogc (schermo del dittatore N' Guesso) cedette il 23% dei diritti di esplorazione «Marine XI» non trattati da Eni proprio per i dubbi su Aogc. Le mail dicono che Wnr - tramite Maria «Marinù» Paduano, poi dirigente Eni - era dell' allora capo di Eni in Africa, Roberto Casula (oggi imputato nell' altro processo su tangenti Eni in Nigeria). Il 27 novembre 2011 Casula scriveva a un legale: «Marinù ha ricevuto da noi pieno mandato per rappresentarci...io non comparirò formalmente». «Non fare menzione del fatto che sono un prestanome», scriveva il 21 dicembre Paduano a un legale, che ora alla GdF conferma: «Marinù mi disse che era solo una prestanome (...) così le aveva chiesto Casula». Con Paduano l' altro volto della Wnr era Alexander Haly: cioè proprio il monegasco che con la moglie dell' allora capo esplorazioni Eni e attuale amministratore delegato Claudio Descalzi, la principessa congolese Marie Madeleine Ingoba, era azionista della Cardon, società lussemburghese controllante (dietro trust neozelandesi a Cipro) sei società fornitrici di servizi navali a Eni per 300 milioni nel 2007-2018. Il 23 agosto 2012 alla moglie subentrò la figlia Simone, mentre tutta Cardon fu ceduta ad Haly l' 8 aprile 2014: un mese prima che Descalzi divenisse n.1 Eni.

Dal ''Corriere della Sera'' il 5 dicembre 2019. In relazione agli articoli pubblicati nei giorni scorsi dal Corriere della Sera, Eni tiene a precisare:

1. L' Amministratore Delegato, Claudio Descalzi, esclude, in ogni caso ed in modo tassativo, che il dirigente interessato gli abbia mai parlato del proprio eventuale (e personale) coinvolgimento o interesse nell' operazione WNR/Marine XI; inoltre è sbagliato mettere in connessione la mail di Claudio Descalzi che impone la necessità di una green flag con il blocco Marine XI poiché tale mail di ottobre 2013 si riferisce a tutt' altra operazione (non Marin XI);

2. Eni non ha mai intrattenuto rapporti con WNR a qualsivoglia titolo;

3. Dal complesso della documentazione che Eni ha potuto visionare sino ad ora (si tratta comunque di svariate migliaia di pagine, corrispondenti a 2,9 gigabytes, 3.341 cartelle e 1.612 files) non emergono allo stato evidenze di legami tra le iniziative personali ipotizzate a carico di dirigenti della Società ed asseriti conflitti d' interesse dell' Amministratore Delegato;

4. Come già ribadito in più sedi, Eni non ha mai dato seguito ad alcun interesse per il Blocco esplorativo Marine XI, né diretto né indiretto, sia a causa dei problemi tecnici e geofisici (tale Blocco è infatti poi risultato, nei fatti, privo di valore economico e industriale e conseguentemente mai sviluppato) sia anche a causa delle coeve difficoltà emerse nel processo di compliance;

5. Eni, conseguentemente, non ha subito alcun danno o pregiudizio, o altrimenti ricevuto alcun vantaggio, dal personale comportamento oggetto delle verifiche della Procura a carico dei soggetti interessati. Comportamenti la cui rilevanza penale non risulta peraltro definibile dalla documentazione (di cui Eni dispone allo stato);

6. Per completezza, risulta dai documenti fino ad ora depositati dalla Procura, che le autorità inquirenti dovevano «ancora verificare eventuali elementi di collegamento» tra Marine XI ed i processi di assegnazione ad Eni di Marine VI e Marine VII (oggetto delle ipotesi di corruzione internazionale a carico di Eni ex legge 231); 7. La Società svolgerà comunque ogni ulteriore opportuno accertamento in merito alla compatibilità con la normativa aziendale del comportamento personale dei singoli soggetti interessati sulla scorta del nuovo materiale acquisito.

La replica di Luigi Ferrarella: Grazie per le note rivolte all' indagine, tra le quali anche un' altra da Descalzi sarebbe preziosa: se e cosa la moglie Madeleine Ingoba gli avesse detto della catena Loba Trust (Nuova Zelanda), Cambiasi Ltd (Cipro) e Cardon sa (Lussemburgo) con la quale controllava (lei beneficiaria fino all' agosto 2012, poi la sorella Simone Antoinette fino all' aprile 2014) sei società fornitrici in Africa di Eni.

Da “la Verità” il 14 dicembre 2019. Grazie al decreto fiscale del governo gialloblù del 23 ottobre 2018, che porta la firma di Giuseppe Conte, un gruppo di imprese si salvò dalla morsa del fisco. Lo ha rivelato Il Tempo, sottolineando che le aziende appartenevano a Cesare Paladino e alle figlie Cristiana e Olivia. Quest' ultima è la compagna del premier. I debiti tributari dei Paladino ammontavano a circa 36 milioni di euro. Con quella contestatissima pace fiscale il suocero di Giuseppi chiese la rateizzazione, senza multe e interessi, di poco meno di 27 milioni di euro di debiti.

Ecco il trucchetto di Conte per salvare i "suoceri" dal Fisco. Dopo la parcella fumante delle Iene, altra tegola sul premier: Il Tempo lo inchioda per l'escamotage sulla rottamazione ter. Fabio Franchini, Venerdì 13/12/2019, su Il Giornale. Ancora guai per Giuseppe Conte. Dopo l'inchiesta de Le Iene per la parcella per le prestazioni rese insieme al professor Guido Alpa – che poi prese parte alla commissione che lo esaminò e gli assegnò la cattedra di Diritto Privato all'Università di Caserta – ecco un'altra grana per il presidente del Consiglio. Il direttore de Il Tempo Franco Bechis, infatti, scrive che con la cosiddetta "rottamazione ter" dell'autunno 2018, il premier fece un bel favore alla famiglia della sua compagna Olivia Paladino. Già, perché per le aziende della famiglia Paladino, nei guai con il Fisco per circa 36 milioni di euro, la pace fiscale fu una vera e prorpia manna dal cielo. E l'allora decreto del governo gialloverde portava come primo firmatario proprio il nome e il cognome del sedicente avvocato del popolo, che volle fortissimamente quella misura. Grazie al provvedimento dell'esecutivo, insomma, i Paladino chiesero la rateizzazione – senza multe e interessi – per la bellezza di ventisette milioni di euro. La rottamazione ter, di fatto, come scrive Bechis sulle colonne del quotidiano, diede un gran bell'aiuto a quel "piccolo gruppo di imprese che in quel momento erano senza liquidità schiacciate dalle cartelle degli esattori del fisco. Gruppo di imprese che appartiene a Cesare Paladino, alle figlie Cristiana e Olivia e al loro fratellastro Jhon Rolf Shadow Shawn, figlio di primo letto di Ewa Aulin, la bella attrice che sposò Cesare in seconde nozze. Olivia era ed è la compagna di vita del premier Conte, e papà Cesare pur non essendo i due sposati, è di fatto lo suocero". Ricordiamo inoltre come il nome di Cesare Paladino sia legato al Grand Hotel Plaza di Roma, di cui è gestore: l'imprenditore a giugno 2019 ha patteggiato davanti una pena a un anno e due mesi per l’accusa di peculato, per non aver versato la tassa di soggiorno per una cifra pari a due milioni di euro. Le società dei Paladino erano in difficoltà per la crisi del mattone e con decine e decine di milioni di debiti tributari, e numerose cartelle esattoriali sulle spalle. In balia del buio, ecco la luce: la rottamazione ter, che li ha graziati. "Uno dopo l'altra – scrive Il Tempo – hanno fatto domanda la Archimede immobiliare, l'Agricola Monastero Santo Stefano Vecchio, l'Unione esercizi alberghi di lusso e l'Immobiliare di Roma Splendido, chiedendo la rateizzazione di poco meno di 27 milioni di euro di debiti tributari di varia natura, lasciandone fuori perché non potevano rientrarvi altri nove milioni di euro".

Franco Bechis per iltempo.it il 13 dicembre 2019. La ciambella di salvataggio è arrivata il 23 ottobre 2018, grazie al decreto fiscale del governo gialloverde che porta come prima firma quella di Giuseppe Conte. È stato quel testo a tenere in piedi un piccolo gruppo di imprese che in quel momento erano senza liquidità schiacciate dalle cartelle degli esattori del fisco. È il gruppo di imprese che appartiene a Cesare Paladino, alle figlie Cristiana e Olivia e al loro fratellastro Jhon Rolf Shadow Shawn, figlio di primo letto di Ewa Aulin, la bella attrice che sposò Cesare in seconde nozze. Olivia era ed è la compagna di vita del premier Conte, e papà Cesare pur non essendo i due sposati, è di fatto lo suocero. Tutti insieme i Paladino attraverso vari intrecci societari controllano una serie di imprese immobiliari fra cui c’è quella proprietaria dell’Hotel Plaza di Roma, in via del Corso. Non se la passano benissimo: c’è la crisi del mattone, gli affitti sono scesi, il costo del personale è alto, lo stesso Plaza ha richiesto ingenti investimenti per la ristrutturazione. Tutte insieme hanno qualcosa come 50 milioni di debiti tributari, e dopo le cartelle esattoriali sono scattate ipoteche e pignoramenti sugli immobili. Non sanno più come fare. Con i due ultimi governi del Pd hanno preso al balzo la rottamazione delle cartelle e il suo bis, ma le condizioni per l’accesso erano strette strette, e i problemi non erano spariti. È in quel momento che è arrivata la contestatissima rottamazione ter, a cui la famiglia Paladino si è appesa come fosse una insperata stella cometa. Uno dopo l'altra hanno fatto domanda la Archimede immobiliare, l'Agricola Monastero Santo Stefano Vecchio, l'Unione esercizi alberghi di lusso e l'Immobiliare di Roma Splendido, chiedendo la rateizzazione di poco meno di 27 milioni di euro di debiti tributari di varia natura, lasciandone fuori perché non potevano rientrarvi altri 9 milioni di euro. Il quadro della situazione era descritto con crudezza nel giugno 2018 dal sindaco e revisore unico arrivata a controllare gran parte delle immobiliari, Barbara Piconi. Ha verbalizzato in calce al bilancio della Unione esercizi alberghi di lusso di avere “ottenuto dall'amministratore unico le informazioni sul generale andamento della gestione della società, sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggiore rilievo effettuate dalla società, anche per considerare la continuità aziendale in un contesto di grave crisi di liquidità finanziaria constatata. A tal proposito si è in particolare appurata una situazione di ingenti debiti accumulati negli anni pregressi verso il fisco, Inps, Inail, e altri enti comunali. La sottoscritta esortando la loro regolarizzazione, ha ricordato all’Amministratore le connesse sanzioni penali per debiti che superano le relative soglie (Iva e ritenute), ed ha però da lui ricevuto i piani di rateizzazioni già approvati e regolarmente pagati dalla società per chiudere le pendenze in atto. Inoltre l’amministratore ha fatto presente di aver aderito alle cd. “rottamazione e rottamazione bis” del 2016 e del 2017 per alcuni tipi di debiti e che stanno approntando tutta una serie di operazioni che contribuiranno nei prossimi anni ad aumentare le entrate finanziarie per far fronte agli impegni presi con il fisco”. L'anno dopo la stessa Piconi nel bilancio della stessa società annoterà l'adesione alla rottamazione ter per una cifra di poco inferiore ai 10 milioni di euro. Mentre per circa 2 milioni di euro di tassa di soggiorno non pagata dal Plaza era arrivato il sequestro giudiziario della somma e Cesare Paladino è finito a processo patteggiando una condanna per evasione fiscale di un anno, due mesi e 7 giorni. I due milioni sono stati garantiti al Plaza da un'altra società, la Agricola Monastero Santo Stefano Vecchio, controllata al 47,5% da ciascuna delle sue figlie Cristiana e Olivia e al 5% dal fratellastro. La fidanzata del premier Conte non ha cariche societarie nel gruppo (l'unica avuta per un anno è stata la vicepresidenza delle Sorelle Fontana), ma partecipa attivamente alle assemblee, come è accaduto l'ultima volta il 26 luglio scorso. Il revisore Piconi in ogni società della famiglia finisce per mettersi le mani nei capelli. Così scrive il 14 giugno 2019 in calce al bilancio della Immobiliare di Roma splendido: “così come già esposto nelle verifiche trimestrali, nel corso del 2018 non si è ancora regolarizzata l’iscrizione presso l’ufficio del registro del principale contratto di locazione della società, questo poiché l’ufficio ha sostenuto che, fino a che non si provvederà a pagare tutta l’imposta di registro relativa al contratto stesso, l’adempimento della registrazione non potrà essere effettuato”. E più in là: “nel corso del 2018, in seguito ad accertamento per imposte dell’anno 2013, è stato definito con l’agenzia delle entrate un atto di “accertamento con adesione” - pagabile in 16 rate - che ha portato alla riduzione del corrispondente “fondo imposte” che era stato stanziato nel 2017 in pendenza di questo accertamento, e per la parte non coperta dallo stesso l’emersione di sopravvenienze passive indeducibili”. Infine avvisa l'imprenditore che dopo tanta evasione fiscale, le conseguenze penali potrebbero essere gravi: “la situazione debitoria verso il fisco potrebbe attenuarsi nel caso di conclusione positiva e dunque con il pagamento dell’ultima rata prevista nel piano delle adesioni alle cd “rottamazione bis e ter” ma ciò non toglie la responsabilità penale connessa alle soglie di punibilità che la scrivente ha rammentato all’amministratore nel corso delle verifiche trimestrali esortandolo ad adempiere entro i termini prestabiliti”. Sul bilancio della stessa società per altro arrivano le cartelle bonarie anche per l'Imu e la Tasi che non sono state versate come dovuto nel 2014 e nel 2015: in tutto poco meno di 1,4 milioni di euro. Con la pace fiscale varata da Conte però le nubi sul piccolo impero dei Paladino si sono diradate, il debito tributario si è alleggerito di interessi, more e sanzioni e la rateizzazione ha offerto la possibilità di trovare entrate anche da dismissione di cespiti per onorare quanto dovuto al fisco, sia pure dopo avere disatteso gli obblighi per così lungo tempo. E' probabile che il premier non conoscesse il dettaglio della situazione fiscale della sua quasi famiglia bis. Altrimenti si sarebbe astenuto dalla votazione del provvedimento: invece proprio su quella pace fiscale Conte ha battagliato a lungo, rivelando poi di avere letto norma dopo norma in consiglio dei ministri davanti a Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ed escludendo che nel testo originario ci fosse pure quel condono penale che secondo il capo del M5s successivamente una manina avrebbe inserito.

Da “Libero quotidiano” il 16 dicembre 2019. Conte minaccia Il Tempo: «Quando terminerò l' incarico di presidente del Consiglio la prima querela per diffamazione che presenterò sarà quella contro il quotidiano romano». Ad annunciarlo è stato il portavoce del premier la vicenda riguarda l' inchiesta sui bilanci delle società della famiglia della fidanzata di Conte, Olivia Paladino, le quali aderendo alla «rottamazione ter» delle cartelle esattoriali avrebbero sanato i loro debiti col fisco. «Il presidente ha chiarito che non agirà mai contro la stampa approfittando del suo ruolo perché non vuole approfittare di una eventuale asimmetria di posizioni. Ma quell' articolo e in particolare il titolo è gravemente diffamatorio», spiegano da palazzo Chigi.

Franco Bechis sfida Giuseppe Conte. Il premier minaccia querela, prima pagina clamorosa: "Così va bene?" Libero Quotidiano il 15 Dicembre 2019. Il premier Giuseppe Conte minaccia Il Tempo e Franco Bechis risponde con una prima pagina durissima e memorabile. "Quando terminerò l'incarico di presidente del Consiglio la prima querela per diffamazione che presenterò sarà quella contro il quotidiano romano", aveva annunciato il portavoce di Conte riguardo all'inchiesta sui bilanci delle società della famiglia della fidanzata di Conte, Olivia Paladino, le quali aderendo alla "rottamazione ter" delle cartelle esattoriali avrebbero sanato i loro debiti col fisco.  Il Tempo aveva dedicato a questa storia piuttosto imbarazzante la prima pagina di venerdì e Conte non l'ha presa bene. Replica di Bechis, glaciale: "L'annuncio di querela 'quando non sarà più premier' ha un solo scopo - scrive il direttore -: zittirci. Vietato criticarlo finché dura e allora di adeguiamo". Il modo scelto è esilarante e potentissimo: un fotomontaggio in prima pagina, la faccia di Conte sul corpo di un culturista e il titolo che è tutto un programma: "Conte è un figo". Domandina maliziosa: "Signor presidente, così va bene?". 

Franco Bechis per ''Il Tempo'' il 16 dicembre 2019. Ieri mattina mi è arrivato dal portavoce di Giuseppe Conte questo messaggio: “Il Presidente ha chiarito sin dall’inizio del suo mandato che non agirà mai contro la stampa approfittando della sua veste di Presidente del Consiglio. Ha rinunciato a iniziative di tutela giudiziaria sin quando sarà Presidente, perché non vuole approfittare di una eventuale asimmetria di posizioni. Ma quell’articolo e in particolare il titolo è gravemente diffamatorio. Quando terminerà l’incarico questa causa per diffamazione sarà la prima che farà”. Il premier ce l'aveva con Il Tempo che ieri ha pubblicato- a mia firma- una inchiesta sui bilanci delle società di cui è azionista anche la fidanzata di Conte, Olivia Paladino, e di cui è amministratore il papà, Cesare. Da quei documenti si rilevava che gran parte di quelle immobiliari- una delle quali controlla l'hotel Plaza di Roma- da anni non versavano al fisco, all'Inps e agli enti locali il dovuto, sostenendo di non poterlo fare per mancanza di liquidità. Quando le cose si stavano mettendo davvero male, è arrivato un aiuto legislativo decisivo: quello del decreto fiscale emanato nell'ottobre 2018 a prima firma dello stesso presidente del Consiglio, Conte, che conteneva la cosiddetta “rottamazione ter” delle cartelle esattoriali, ribattezzata “pace fiscale” da quel governo. Abbiamo raccontato la storia di quel gruppo imprenditoriale, citando fra virgolette non opinioni nostre, ma le relazioni del revisore dei conti di ogni società allegate ai bilanci regolarmente depositati in Camera di commercio. Lo stesso revisore avvertiva Cesare Paladino dei rischi penali a cui sarebbe andato incontro pur aderendo alla rottamazione ter, perché le cifre evase (decine di milioni di euro) superavano ampiamente le soglie di punibilità. D'altra parte il papà della fidanzata del premier era già finito nelle maglie della magistratura penale per avere evaso circa 2 milioni di euro di tassa di soggiorno che l'Hotel Plaza aveva riscosso ma non girato come doveva alle casse del comune di Roma, e proprio il mese scorso aveva patteggiato una condanna di poco superiore a 1 anno e due mesi. L'inchiesta è stata così titolata in prima pagina: “L'evasore del popolo- Non solo l'hotel Plaza: il suocero del premier Conte da anni non pagava le tasse...”. Come ho chiarito subito al messaggio ricevuto dal portavoce di Conte, la libertà di stampa ha sempre un contrappeso nella legge, che offre il diritto di replica e se uno si ritiene offeso anche il diritto di querelare per diffamazione. Ce l'ha qualsiasi cittadino, perché non dovrebbe averlo il presidente del Consiglio? Personalmente non vedo i margini per una querela del premier su quanto scritto, essendo pura cronaca dei fatti tratta da documenti che ovviamente produrrei in qualsiasi giudizio. Ma se lui ritiene diversamente (sono di parte, essendo il possibile querelato), ha diritto a presentarla. Questo non toglie nulla alla libertà di nessuno dei due. Il messaggio che mi è arrivato al contrario minaccia seriamente Il Tempo e la libertà di stampa. E secondo me offende pure la categoria dei magistrati. Sostenere come fa il premier che ci sarebbe asimmetria nel giudizio se procedesse ora, sarebbe come dire che un tribunale di Roma (davanti a cui il procedimento sarebbe incardinato per competenza territoriale) sarebbe condizionato dal potere del premier. A me hanno insegnato che i magistrati applicano la legge e sono indipendenti, non prendono la parte del più potente e quindi non ho alcun timore nel sottopormi al loro giudizio sulla correttezza professionale utilizzata nel caso di cui si duole il presidente del Consiglio. Dire invece come è stato fatto: “appena smetto di essere premier sarete i primi verso cui farò causa per diffamazione” significa invece mettere in ostaggio un giornalista e una testata per non so quanti mesi o anni (il tempo che durerà l'attuale incarico di Conte). Al di là di chi vi scrive che ha la pellaccia dura e in tanti anni di professione ha trovato tanti premier, ministri, industriali, finanzieri e potenti vari furiosi per un articolo scritto, questo vezzo del “vi querelerò” vorrebbe essere scelta di stile, e invece con assai poca eleganza ha l'aspetto tenebroso di una minaccia alla libertà di scrivere su questa testata da domani in avanti sulle attività del premier e del suo governo. E' come dire ogni giorno: “attenti, che ho quella querela in canna”, e questo un uomo di potere non lo deve fare semplicemente perché ne abuserebbe oltre ogni accettabile misura. Mi quereli oggi, presidente, e liberi Il Tempo da questa scure sulla testa. Sono qui.

Franco Bechis per ''Il Tempo'' di ieri il 15 dicembre 2019. “Il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte è un uomo affascinante, dal fisico scultoreo. Ricorda nel viso certe statue del dio greco Apollo e nel corpo i bronzi di Riace. Veste come solo alcuni lord inglesi sanno fare, ha modi gentili e cavallereschi che ricordano altri tempi e veri gentiluomini. Ha una cultura vastissima, che non sfoggia per non umiliare gli interlocutori, e un'intelligenza vivida che inevitabilmente il più scettico degli interlocutori coglie. Parla con facilità almeno una trentina di lingue come fossero la natia. In ogni vertice internazionale cui abbia partecipato nell'ultimo anno al suo passaggio si è sentito mormorare unicamente un “Oh” di assoluta sorprendente meraviglia. Talvolta le donne svengono dall'emozione scorgendolo da lontano passeggiare nella loro direzione. La regina Elisabetta di Inghilterra ne è incantata, il cancelliere Angela Merkel affascinata, qualche giorno fa la giovanissima neo premier finlandese Sanna Marin, sembrava rapita non volere lasciare più quella mano che stava stringendo per la prima volta. Conte è anche il migliore politico che sia apparso sulla scena italiana dal dopoguerra: equilibrato, saggio, competente, illuminato. Profondo conoscitore delle leggi, le plasma davanti agli occhi attoniti dei colleghi durante i consigli dei ministri: è un piacere dello spirito vederle nascere così. Siccome fin dalle elementari era il primo della classe in matematica, ha una spiccata capacità nel compilare tabelle di bilancio, aggirarsi fra aliquote fiscali, limare la spesa, costruire la crescita della ricchezza nazionale del paese che ha la fortuna di averlo alla guida. Sempre sorridente, sa contagiare ogni tipo di platea con il buon umore: fine ironia, lieve sarcasmo, dosata bonomia sono frecce sempre presenti al suo arco e pronte ad essere scoccate. Come l'altro giorno quando ha strappato a tutti un sorriso facendosi fotografare a fianco di Andrea Scanzi tenendo in mano la copertina del suo ultimo libro su Matteo Salvini, “Il cazzaro verde”. Non dovremmo addentrarci, anche perché Conte è di grandissima riservatezza, ma anche la vita privata brilla di luci che un diamante non saprebbe riflettere con tanta intensità. Compagno perfetto di vita, padre ideale, spirito profondissimo, valori granitici, generosità oltre ogni convenienza personale. Mai alterato, sempre disponibile per tutti, di straordinaria umiltà e commovente dolcezza...” Chiedo scusa se mi fermo qui, come un film interrotto proprio sul più bello. Ma avrò bisogno di altre puntate per questa monumentale biografia del premierissimo a cui tutti vogliamo benissimo. Non vorrei averci messo troppo pepe, indispettendo il protagonista con il rischio di aggiungere anche questo suo disappunto alla causa che ha appena minacciato di fare a Il Tempo come prima cosa il giorno stesso che dovesse malauguratamente terminare il suo prezioso servizio al Paese da palazzo Chigi. Sto camminando sulle uova, perché so che il terreno è accidentato. Da palazzo Chigi l'altro giorno mi informavano che Conte era furioso, ieri rincaravano la dose aggiungendo che gli abbiamo causato “dolore” con i nostri titoli ed articoli. Furia e dolore: ci toccherà pagare anche i danni “sentimentali”, e potete capire quanta angoscia ci accompagnerà fino a quando non gli faremo tornare almeno un istante il sorriso. Sono stato ironico fin qui, ma volevo dare l'idea di cosa significhi la minaccia che Conte ci ha fatto: “sarete i primi a cui farò causa appena non sarò più premier”. Potete stare tranquilli che non per questo grideremo “Lunga vita al premier”. Ma è giornali densi di articoli così che si vorrebbe avere nell'attesa della mannaia? E' questa la stampa libera che ha in mente palazzo Chigi? Io credo di no, ma si renda conto il premier che la minaccia che ci ha trasmesso l'altro giorno è in se stessa prigione della libertà di stampa. E' vero che il premier gode di un potere molto grande, ed è pure vero che molti anni fa quando un presidente del Consiglio- Massimo D'Alema- annunciò querela nei confronti del vignettista Giorgio Forattini, tutti insorsero. Lo fecero perché quel potere deve avere contrappesi in un paese liberale, e fra questi c'è il diritto di critica nei suoi confronti, anche puntuto, anche irriverente, anche urticante. Sarebbe cambiato qualcosa se D'Alema come fa oggi Conte, avesse detto: “appena lascio palazzo Chigi querelerò Forattini?”. Sì, sarebbe cambiato in molto peggio. Perché da quel giorno stesso Forattini non sarebbe stato più libero di trattare D'Alema nelle sue vignette, e se anche lui lo fosse stato, magari avrebbe avuto un freno dentro il giornale o l'azienda editoriale per cui lavorava. Come ho ripetuto in questi giorni, sostenere come Conte fa che oggi il suo potere lo metterebbe in posizione di vantaggio in un tribunale della Repubblica è offensivo verso i magistrati della cui indipendenza evidentemente dubita il capo del governo. Se si ritiene diffamato (continuo a non capire come e dove) da quanto scritto da me su Il Tempo, mi quereli subito come farebbe qualsiasi semplice cittadino e dal giorno dopo continueremmo a fare il nostro mestiere con serenità entrambi.

Ps. La prima parte di questo articolo è più o meno l'idea di libera stampa che hanno nella loro testa la maggiore parte dei leader politici. In questo Conte è sicuramente in larga compagnia.

Filippo Ceccarelli per “il Venerdì - la Repubblica” il 14 dicembre 2019. Non tutte le auto-paparazzate riescono col buco. Questa studiata epifania del presidente Conte, per dire, “sorpreso” da Chi con “la sua Olivia” a far la spesa meritava un approfondimento se non altro per la postura e per l’espressione di lei, che a braccia incrociate ha tutta l’aria di chi non è che proprio desiderasse prestarsi a questo genere di servizi fotografici, ma pazienza: si sa come sono fatti gli uomini, e i maschi politici ancora di più. Senza entrare nelle circostanze – vere e presunte, pretese e immaginarie – che l’hanno determinata, l’immagine infatti da un lato dispiega il mistero meta-coniugale dell’avvocato del popolo, di cui scrive Marianna Aprile nel suo recentissimo Il grande inganno: first lady, nemiche perfette ed eroine silenti, così la politica nasconde le donne (Piemme); e dall’altro conferma come la trasparenza, lungi dall’essere reclamata e praticata a proposito dei processi decisionali del potere (collocazione internazionale dell’Italia, Ilva, Alitalia, Mes, Mose, prossime nomine, eccetera), trova slancio e applicazione quasi solo negli impicci del gossip, a loro volta sempre più condizionati da inediti e impudichi fenomeni di autoesposizione. Ma pazienza anche su questo. Il punto più interessante è che mentre il tenutario di questa bislacca rubrichetta si lambiccava il cervello attorno ai precedenti e allo statuto del self-gossip, tanto più se ambientato nel set rassicurante del supermercato, l’immagine del presidente Conte guadagnava una spinta propulsiva ed eccessiva, un’impressionante accelerazione che lo trasformava in un soggetto politicamente vuoto, ma definitivamente performativo; passaggio attuato secondo le logiche visive dell’offerta e del consumo, parola che potrebbe far suonare un campanellino alle orecchie dello spin doctor Casalino. E insomma in pochi giorni si è visto in foto Conte che si tappava le orecchie, e Conte con la bacchetta che dirigeva l’orchestra, e Conte con la vanga che piantava l’albero, e Conte con il grembiule che impastava la cioccolata, e Conte che mangiava l’hamburger sullo sfondo dei grattacieli, e Conte sommelier che faceva cin cin, e Conte operaio con il casco e gli occhialoni e il trapano, e Conte, Conte, Conte...E neanche il tempo di riflettere sulle forme espressive della post-politica, né di ricordare che doveva essere «un anno bellissimo», ed ecco che Conte si portava avanti per Natale perfezionando il suo Almanacco sentimental: con i negretti in braccio, con i bimbi malati e nella casa della sua infanzia, dove giocava nella vasca da bagno con le paperelle. Che poi ci si sente anche cinici a interpretarla in questo modo, ma nel tempo dell’autopromozione illimitata chi ci salverà più, chi ci salverà mai dalla benevolenza del potere?

Claudio Antonelli per la Verità il 9 novembre 2019. I legami tra il premier Giuseppe Conte e l' avvocato Giuseppe Conte si fanno sempre meno trasparenti. A tenere banco è il tema del conflitto d' interessi maturato attorno al parere pro veritate rilasciato a Fiber 4.0 (partecipata dal fondo del finanziere Raffaele Mincione) in merito al tentativo di scalata a Retelit e alla possibilità di un eventuale intervento di Stato tramite lo scudo del golden power. L' avvocato Conte firma il parere il 14 maggio 2018 nonostante la sera prima in un albergo di Milano abbia incontrato Luigi Di Maio, Vincenzo Spadafora, Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini. I quattro gli prospettano la possibilità di diventare premier. Cosa che avviene il primo giugno successivo. Il 7 si tiene il primo cdm del governo Conte, al quale il premier non partecipa essendo in Canada. Dopo l' esplosione della notizia e soprattutto dopo l' attacco del Financial Times datato 28 ottobre scorso, Conte diffonde due note stampa e poi interviene alla Camera davanti ai deputati. In questa sede conferma la sua posizione innocentista e attacca Salvini. «Il parere ha riguardato esclusivamente l' applicabilità o meno della disciplina, ovvero se notificare o meno la decisione al governo, decisione spettante alla società», spiega. «Al fine di evitare ogni possibile forma di conflitto d' interessi, mi sono astenuto da qualsivoglia attività e coinvolgimento sulla decisione dell' esercizio del golden power di Retelit. Scrissi una lettera protocollata il 6 giugno con cui informavo della mia determinazione di astenermi da qualsiasi atto su questo procedimento. Non presi parte alla seduta del Consiglio dei ministri che ha esaminato tale questione, la seduta fu presieduta da Salvini»: ribadisce così un concetto che mercoledì ha sostenuto nell' intervista a firma Maurizio Caverzan sulla Verità. «Tutte le decisioni e le valutazioni sul punto sono state affidate al vicepremier Salvini che ha presieduto il consiglio in mia vece», dichiara nell' intervista. Ed è qui che sta il busillis. La lettera protocollata il 6 giugno è destinata al segretario generale Paolo Aquilanti. Conte fa presente di astenersi sul tema in base al decreto legge 21 del 15 marzo 2012. Solo che questa informazione non sarebbe mai arrivata l' indomani in cdm. «La ricostruzione della vicenda operata dal presidente Conte è volutamente distorta: i occasione del Consiglio dei ministri, infatti, non è mai stata verbalizzata alcuna incompatibilità del premier rispetto alla vicenda, né è stato fatto alcun cenno al parere che Conte aveva reso in materia», spiega alla Verità Gian Marco Centinaio allora ministro delle Politiche agricole e in con tale incarico presente al cdm del 7 giugno. «Semplicemente Conte non ha partecipato alla riunione perché in viaggio verso il G 7 e il contenuto della lettera non è mai arrivato in cdm». Un buco di comunicazione non irrilevante che fa il paio con l' altro tema mai svelato dal premier. Nella nota diffusa lunedì 28 ottobre in risposta all' articolo dell' Ft, Palazzo Chigi ricorda che «Conte non ha mai avuto contatti con alcuno al vertice di Fiber 4.0». Il che non spiega da chi sia arrivata la richiesta di redigere il parere. Fonti spiegano alla Verità che ben due figure si erano all' epoca interessate alla questione Retelit. Oltre a Luigi Bisignani anche Guido Alpa, maestro di Conte che però all' epoca era avvocato di Carige, banca interessata da una scalata firmata Mincione. Motivo per cui Alpa non avrebbe mai potuto firmare il parere. Dal punto di vista politico il passaggio più delicato resta però lo sbolognare le colpe a Salvini. «Dichiarare o no il conflitto è una differenza, che può sembrare minima, ma è invece di sostanza», prosegue Centinaio. «Se Conte fosse stato presente ed avesse dichiarato il proprio conflitto di interessi (astenendosi, quindi, dal votare), anche gli altri ministri sarebbero venuti a conoscenza dell' esistenza di un conflitto tra l' avvocato e il presidente del Consiglio. Un conto è votare conoscendo l' esistenza del conflitto, altro è votare senza saperlo. Purtroppo come detto, l' assenza di Conte ha impedito che il conflitto venisse dichiarato, ponendo così tutti i ministri nell' impossibilità di conoscere l' effettiva realtà dei fatti». Nell' audizione alla Camera, il premier ha menzionato una seconda lettera datata agosto 2018. La questione era tornata all' attenzione della presidenza del Consiglio anche ad agosto, tanto che inviò un' altra lettera, «dichiarando di volermi astenere da qualsiasi forma di trattazione delegando per tutte le relative attività e per l' intero procedimento il vicepresidente del consiglio Matteo Salvini». Sarebbe a questo punto interessante capire se e dove anche questa missiva si sia fermata. Così come sarebbe opportuno svelare al Parlamento il contenuto delle varie telefonate intercorse tra Conte la famiglia Malacalza e il legale della banca genovese (circostanza mai smentita). Perché probabilmente il Financial Times, pur scrivendo imprecisioni, ha sollevato un link estremamente bollente quando ha messo in fila sulla stessa linea Conte, Mincione e il Vaticano.

Ilaria Proietti per “il Fatto quotidiano” il 5 novembre 2019. Colpo di scena al Senato. La Commissione contenziosa, ormai pronta a decidere sui 771 ricorsi presentati contro la delibera che ha imposto la revisione al ribasso dei vitalizi degli ex senatori, è in stallo. E ha rinviato la camera di consiglio prevista per ieri dopo le dimissioni dall' organismo di Elvira Evangelista del Movimento 5 Stelle. La senatrice ha deciso per il passo indietro dopo che si è scoperto, come rivelato dal Fatto Quotidiano e dalla Notizia, che sul collegio giudicante di Palazzo Madama pesava un conflitto di interesse difficile da ignorare: un micidiale intreccio di rapporti tra Nitto Palma, il capo di gabinetto della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e due membri della Commissione da lei nominati nell' organismo: si tratta del senatore di Forza Italia, Giacomo Caliendo che presiede l' organismo e del componente laico Cesare Martellino che è relatore sui 771 ricorsi contro il taglio dei vitalizi. Che erano 772 fino al 29 ottobre, quando Nitto Palma, travolto dalle polemiche ha deciso di ritirare il suo su cui si apprestavano a decidere i due giudici "amici". Vecchie conoscenze politiche e professionali che da qualche mese si sono ritrovati al Senato dopo che le loro carriere (e i loro incarichi) si erano incrociati per anni. Ma nonostante il ritiro del ricorso, come tentativo in extremis di allontanare il sospetto del conflitto di interessi che ha messo in imbarazzo il Palazzo, la frittata è ormai fatta. Perché laddove questa Commissione dovesse annullare o disapplicare la delibera sui vitalizi, anche Palma beneficerà della decisione. ricorso o meno. E infatti il Movimento 5 Stelle attacca a testa bassa. "La senatrice Evangelista ha deciso di dimettersi, ritenendo che nel collegio non ci fossero le condizioni necessarie e indispensabili per un giudizio così delicato. Una scelta del tutto condivisibile: la sensazione è che le ragioni dei ricorrenti e l' interesse collettivo non fossero sullo stesso piano. Forse erano altri che avrebbero dovuto fare un passo indietro, per garantire la giusta serenità al collegio giudicante" si legge sul blog delle Stelle in post dal titolo "Sui vitalizi non accettiamo farse" che pare un avviso di sfratto. Ma la Commissione Caliendo pare invece voler resistere alla buriana. "Ora integreremo il collegio con un supplente insieme a cui riapriremo l' istruttoria. E sarà necessario riconvocare gli avvocati degli ex senatori ricorrenti" ha detto Caliendo che prova a chiudere il caso e pure le polemiche. Che però non si spengono. "Le mie dimissioni - dice la senatrice pentastellata Evangelista - non riguardano questioni tecnico-giuridiche, su cui avrei potuto in Camera di consiglio esprimere la mia posizione. Magari in dissenso rispetto alla prospettiva di annullare la delibera sul ricalcolo dei vitalizi che ritengo sostanzialmente corretta perché rispetta il principio della ragionevolezza e anche delle prevedibilità: l'affidamento del privato (in questo caso gli ex senatori rispetto al vitalizio, ndr) soccombe sempre di fronte all' interesse pubblico e all'equità sociale. Fattori che da tempo hanno determinato la necessità di introdurre il metodo contributivo per tutti i comuni cittadini". Ma qui il dissenso sulla soluzione che si va profilando c' entra fino a un certo punto. La questione infatti è un' altra e riguarda la necessaria autonomia e l' imparzialità delle decisioni attese dalla commissione contenziosa. Che evidentemente, dopo le rivelazioni di stampa ha traballato pesantemente. "Il clima che si è creato negli ultimi giorni non mi garantiva più la dovuta serenità per un giudizio così delicato: il collegio non mi è parso così equidistante dagli interessi in gioco" dice rammaricata la senatrice prima di aggiungere: "Fossi la presidente del Senato rivedrei la composizione della Commissione contenziosa anche per allontanare il rischio di ogni strumentalizzazione delle future decisioni". 

E sui vitalizi la vicepresidente pentastellata scappa col pallone: dimissioni e si ricomincia daccapo. Paolo Armaroli il 6 Novembre 2019 su Il Dubbio. La Notizia ha raccolto le motivazioni della vicepresidente pentastellata. L’altro ieri, 4 novembre, era l’anniversario della Vittoria. E la Commissione contenziosa del Senato doveva riunirsi in camera di consiglio per pronunciarsi sui ben 771 ricorsi presentati da ex senatori per il taglio dei loro vitalizi deliberati dal Consiglio di presidenza di PalazzoMadama, con effetto dal primo gennaio scorso.Così non è stato per un colpo di scena dell’ultima ora. La riunione non si è tenuta per il semplice fatto che la vicepresidente della Commissione, la grillina Elvira Lucia Evangelista, si è dimessa. E non si è negata il piacere di dire il perché.

La Notizia ha raccolto le motivazioni della vicepresidente pentastellata. Lei ha precisato che la questione non riguarda il merito. No, piuttosto il clima che si è determinato in seno alla Commissione in seguito alle rivelazioni che la stessa Notizia e il Fatto Quotidiano avevano pubblicato grazie all’ausilio di una misteriosa gola profonda. La pietra dello scandalo, per il vero, lascia perplessi. Tra i ricorrenti c’era anche Francesco Nitto Palma, capo di gabinetto della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, il quale da tempo conosce due componenti della predetta Commissione. E precisamente il presidente Giacomo Caliendo, senatore di Forza Italia, e Cesare Martellino, ex magistrato. Tutto qui. A ogni buon conto, allo scopo di stemperare ogni polemica, Nitto Palma ha ritirato il ricorso. Comunque, tanto per essere chiari, non è affatto detto che un’eventuale vittoria dei ricorrenti si estenda anche a quest’ultimo. A questo punto, non restava altro che confermare la camera di consiglio e decidere sui ricorsi. E invece no. La vicepresidente Evangelista ha sibillinamente dichiarato che alla luce di quanto pubblicato dai giornali nei giorni scorsi «il nostro Collegio non mi è parso più equidistante dagli interessi in gioco». Insomma, uno stato d’animo, il suo, una sensazione tipicamente femminile. E nulla più. Se non avesse prevalso il predetto stato d’animo, la Evangelista, per sua stessa ammissione, sarebbe probabilmente entrata in camera di consiglio e avrebbe votato in dissenso «rispetto ad un eventuale annullamento della delibera». Voce dal sen fuggita.

Ed ecco la vera motivazione. Si dimette e scappa con il pallone perché – quando si dice il fiuto di Sherlock Holmes – ha sentore che la Commissione a maggioranza è seriamente intenzionata ad annullare la delibera che ha tagliato i vitalizi. Se non è rivelazione di segreto d’ufficio, beh poco ci manca. Rimasta in minoranza, la vicepresidente si abbandona all’ostruzionismo. Perché a seguito delle sue dimissioni, dovrà subentrare nella Commissione uno dei due membri supplenti a discrezione della presidente del Senato. E così tutto dovrà ricominciare daccapo. Dall’udienza pubblica, con un esercito di avvocati pronti a dire la loro. Campa cavallo. Ma non è finita qui. Non poteva mancare una perla da Stato etico. Questa: a sommesso avviso della sullodata vicepresidente grillina «l’affidamento dei privati soccombe sempre rispetto ad esigenze pubbliche». Il divino Hegel la promuoverebbe a pieni voti, ma i padri della nostra Costituzione repubblicana sul punto avrebbero parecchio da ridire. E la boccerebbero inesorabilmente. A riprova poi che tutti i salmi finiscono in gloria, ecco il suo modesto suggerimento alla Casellati: «Per sgombrare il campo da ogni possibile strumentalizzazione, prenderei in considerazione l’idea di rivedere la composizione della Commissione». Si presume finché non sarà nominata una Commissione che in tutto e per tutto dia pienamente ragione alla nostra imperdibile cocca pentastellata. Che, per finire in bellezza, rovescia come un calzino la consolidata giurisprudenza della Coste costituzionale. Perché ha l’ardire di sostenere che la delibera sul taglio dei vitalizi rispetterebbe i principi della proporzionalità, della prevedibilità e della ragionevolezza. La senatrice Evangelista è un avvocato. Ma, in questo caso, minaccia di apparire il classico avvocato delle cause perse.

Gli argomenti sollevati dal dubbio: le risposte. La senatrice grillina: mi sono dimessa, sui vitalizi clima teso. Risposta della senatrice M5s ad Armaroli: «la mia presenza in Camera di consiglio si sarebbe rivelata una mera formalità». Elvira Lucia Evangelista il 7 novembre 2019 su Il Dubbio. Un articolo apparso ieri su questo giornale, a firma dell’ex deputato di AN Paolo Armaroli, ha il pregio di aver portato sulle pagine de Il Dubbio un tema così importante dal punto di vista istituzionale e sociale come i vitalizi agli ex Parlamentari. Ringrazio fin d’ora Armaroli per essersi preso la briga di sostenere, con uno stile espositivo così giocoso e ironico, le ragioni della Commissione contenziosa del Senato e invece confutare le affermazioni da me rese a seguito delle dimissioni dall’organo di autodichia, usando peraltro un tono insolitamente familiare per un ex collega con cui non ho mai avuto il piacere di disquisire di temi giuridici. Capisco il suo stato d’animo in quanto beneficiario di un vitalizio e parte soccombente del recente ricorso in cassazione sempre in tema di vitalizi. Mi preme però fare delle precisazioni. Nel comunicare pubblicamente le mie dimissioni da componente e vice presidente di quella Commissione, in un comunicato stampa che certamente Armaroli ha letto con attenzione, avevo scritto che «il clima venutosi a creare in relazione all’esame dei ricorsi sui vitalizi è infatti tale da non garantirmi la dovuta serenità per un giudizio così delicato. La questione non riguarda le divergenze di vedute nel merito, ma piuttosto il contesto privo ormai delle condizioni necessarie al rispetto degli interessi in gioco, anche alla luce dei fatti emersi nei giorni scorsi». Evidentemente mi riferivo non solo al preoccupante intreccio di rapporti raccontato da due quotidiani, ma anche ad altri aspetti emersi nei giorni che precedevamo la Camera di consiglio. Voglio tranquillizzare Armaroli su due punti del suo scritto. Il primo è che non c’è niente di particolarmente femminile, se non il mio aspetto estetico, nello svolgimento dei miei compiti di giudice e/ o di senatore dentro Palazzo Madama. Se la mia serenità è venuta meno ho le mie ragioni per ritenere che la mia presenza in quella camera di consiglio si sarebbe rivelata, di fatto, una mera formalità. Il secondo riguarda i tempi della decisione. Su questo sinceramente fossi in lui impiegherei le energie mentali in altre angosce e urgenze sociali. Faccio molta fatica a pensare che si debba avere un iter accelerato per stabilire se restituire o meno agli ex senatori l’intero importo dei loro vitalizi: trattamenti di favore che, nel tempo, i miei colleghi si sono attribuiti in aumento arbitrariamente, e ciò anche quando le condizioni economiche del Paese sono cambiate peggiorando fino a sfiorare la recessione. Ricordo infatti ad Armaroli che i principi della Corte Costituzionale, che lo stesso vorrebbe intendere a suo favore, non possono essere piegati alle esigenze di poche e privilegiate persone che prendono pensioni da tremila, cinquemila, ottomila, novemila, e 10.000 euro al mese, non in virtù di una adeguata somma di contributi versati ma in forza di regolamenti interni e grazie alla disponibilità di risorse pubbliche che sono state sottratte al più nobile fine di tutelare il bene dei cittadini.

Conte e il presunto conflitto di interessi: «Incarico da Fiber prima che fossi premier». Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 da Corriere.it. «Fu un incarico professionale che venne prima della mia nomina a premier»: così il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha detto in aula alla camera in merito al presunto conflitto d’interesse riguardante il suo ruolo di avvocato nella vicenda Fiber. «Non potevo immaginare che di lì a poco sarebbe nato un esecutivo da me presieduto, che poi sarebbe stato chiamato a decidere sull’esercizio o meno della cosiddetta Golden Power con riguardo all’operazione Retelit». La vicenda riguarda un parere legale fornito dall’allora avvocato Conte a un fondo a cui partecipavano il finanziere Raffaele Mincione e lo Stato del Vaticano interessato alla scalata dell’azienda di telecomunicazioni Retelit. Nel maggio del 2018 Conte suggerì che lo stato avrebbe dovuto esercitare la golden power, un meccanismo teso a impedire che la società finisse sotto il controllo di investitori stranieri, cosa poi avvenuta. Nel giugno successo, da presidente del consiglio, Conte face effettivamente scattare la golden power. «Al fine di redigere il parere (e rispondere al quesito giuridico che mi era stato sottoposto, ho esaminato i documenti che mi sono stati inviati, senza mai incontrare gli amministratori o gli azionisti della Società. Non ero dunque a conoscenza - né ero tenuto a conoscere - che tra gli investitori vi fosse il sig. Raffaele Mincione o che parte degli investimenti risalissero, come è stato ipotizzato da alcuni organi di stampa, alle finanze vaticane» ha detto Conte in aula. «Non ricorre certo una situazione di incompatibilità e quanto al potenziale conflitto di interessi, ove ravvisato, il rimedio affinché la cura degli interessi pubblici non sia distorta da un possibile interesse personale è l’astensione. È a queste norme che mi sono attenuto in maniera scrupolosa ed estremamente cautelativa, astenendomi dal partecipare a tutti i procedimenti» su Retelit. Ed è ciò che continuerò a fare nella eventualità che procedimenti riguardanti Retelit possa richiedere la mia partecipazione»ha propseguito il premier. In effetti la seduto del consiglio dei ministri sulla golden power fu presieduta da Matteo Salvini.

Da ansa.it il 5 novembre 2019. Sulla vicenda dell'incarico ricevuto da Fiber sui giornali ci sono state "ricostruzione molto lontane dai fatte" o "ricostruzioni distorte", ha detto in Aula alla Camera il premier Giuseppe Conte. "Al fine di redigere il parere (e rispondere al quesito giuridico che mi era stato sottoposto, ho esaminato i documenti che mi sono stati inviati, senza mai incontrare gli amministratori o gli azionisti della Società. Non ero dunque a conoscenza - né ero tenuto a conoscere - che tra gli investitori vi fosse il sig. Raffaele Mincione o che parte degli investimenti risalissero, come è stato ipotizzato da alcuni organi di stampa, alle finanze vaticane". "Ho accettato l'incarico di redigere il parere per la società Fiber 4.0 - ha detto Conte nell'informativa alla camera sul caso Fiber 4.0 - quando non ancora ero stato designato Presidente del Consiglio, in un momento in cui io stesso non potevo immaginare che di lì a poco sarebbe nato un esecutivo da me presieduto, che poi sarebbe stato chiamato a decidere sull'esercizio o meno della c.d. Golden Power con riguardo all'operazione Retelit". "Al fine di redigere il parere (e rispondere al quesito giuridico che mi era stato sottoposto, ho esaminato i documenti che mi sono stati inviati, senza mai incontrare gli amministratori o gli azionisti della Società. Non ero dunque a conoscenza - né ero tenuto a conoscere - che tra gli investitori vi fosse il sig. Raffaele Mincione o che parte degli investimenti risalissero, come è stato ipotizzato da alcuni organi di stampa, alle finanze vaticane". "Non ricorre certo una situazione di incompatibilità e quanto al potenziale conflitto di interessi, ove ravvisato, il rimedio affinché la cura degli interessi pubblici non sia distorta da un possibile interesse personale è l'astensione. È a queste norme che mi sono attenuto in maniera scrupolosa ed estremamente cautelativa, astenendomi dal partecipare a tutti i procedimenti" su Retelit. Ed è ciò che continuerò a fare nella eventualità che procedimenti riguardanti Retelit possa richiedere la mia partecipazione". 

Conflitto di interessi, tutte le bugie di Conte. Nicola Porro il 7 novembre 2019. Ieri abbiamo pubblicato un estratto da Quarta Repubblica che mostrava tutte le lacune della versione fornita da Giuseppe Conte sull’ultimo caso di conflitto d’interessi che gli viene rimproverato, secondo la quale egli avrebbe accettato l’incarico di redigere il parere sull’operazione Retelit per la società Fiber 4.0 quando ancora non immaginava di essere designato Presidente del Consiglio. Ma non è il primo caso di conflitto d’interessi che gli viene attribuito, né è la prima volta che il premier s’involve nelle sue risposte. Ricordiamo anzitutto la famosa querelle sul fatto che fosse o meno socio in affari del professor Guido Alpa, suo mentore universitario. Nel curriculum scritto da lui stesso si legge che ”dal 2002 ha aperto con il prof. avv. Guido Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al diritto civile, al diritto societario e fallimentare”. Ma, interpellato quand’era alla guida del governo gialloverde, dichiarò di non aver mai avuto una società con Alpa, nonostante circolasse una foto che riportava una targa in Piazza Benedetto Cairoli 6, a Roma, sede dello Studio Legale Alpa, con i nomi di Guido Alpa e Giuseppe Conte in bella vista. Ad aggravare il tutto, l’urgenza di un decreto, quello per salvare la Banca Carige, votato in tutta fretta nel gennaio 2019 con un Consiglio dei ministri lampo, durato appena 10 minuti, e la coincidenza per cui fino al 2013 il professor Alpa fosse consigliere d’amministrazione proprio di Carige. C’è poi il caso del concorso universitario che Conte avrebbe dovuto sostenere per diventare professore di Diritto provato a La Sapienza di Roma. Una volta divenuto presidente del Consiglio, Conte aveva dichiarato: “Il mio nuovo ruolo mi impone di riconsiderare la domanda”. In realtà poi si scoprì che il premier aveva semplicemente chiesto lo spostamento dell’esame d’inglese, necessario per la valutazione finale, a causa di “impegni istituzionali”. Seguirono polemiche, finché arrivò la decisione definitiva: “Rinuncio alla cattedra per sensibilità personale”, anche se non c’è “nessun conflitto d’interessi”. Sarà, ma allora perché tutti questi distinguo e cambi di versione? Spostandosi sul piano prettamente politico, è difficile non vedere un conflitto, d’interessi o perlomeno di agende programmatiche, nella disinvoltura con cui Giuseppe Conte nel giro di poche ore è passato da premier del governo con la Lega a premier del governo col Pd, traghettando molti dossier critici nel nuovo esecutivo o capovolgendone totalmente altri. In fondo, ci vien da dire che l’unico conflitto d’interessi che non gli si può addossare è quello relativo alle manette per gli evasori, cult del suo attuale governo. Se infatti in passato fosse valsa questa legge, sia lui che il suocero avrebbero rischiato grosso. Quest’ultimo, Cesare Paladino, padre della sua compagna, ha patteggiato una pena a un anno e due mesi per l’accusa di peculato, relativa a proventi non versati della tassa di soggiorno del suo Grand Hotel Plaza, quantificati in 2 milioni di euro. Lo stesso Conte ha avuto problemi con Equitalia, visto che gli venne contestata la mancata documentazione per due cartelle, una del 2009 e una del 2011, per un ammontare complessivo, tra mancati pagamenti di tasse, multe e imposte, di oltre 50mila euro.

Il Financial Times: "Conte collegato a un fondo sotto indagine per corruzione". Lo scoop del Financial Times sul premier. Angelo Scarano, Lunedì 28/10/2019 su Il Giornale. "Un fondo di investimento sostenuto dal Vaticano al centro di un'indagine sulla corruzione finanziaria era alla base di un gruppo di investitori che assunse Giuseppe Conte -ora primo ministro italiano- per lavorare su un accordo perseguito poche settimane prima che assumesse la carica". Lo scrive il Financial Times. Che poi aggiunge: "Il collegamento con Conte rivelato in documenti esaminati dal Financial Times probabilmente attirerà un ulteriore esame sull'attività finanziaria del Segretariato di Stato vaticano, la potente burocrazia centrale della Santa Sede, che è oggetto di un'indagine interna su transazioni finanziarie sospette". E ancora: "Conte era un accademico di Firenze poco conosciuto quando è stato assunto a maggio 2018 per fornire un parere legale a favore di Fiber 4.0, un gruppo di azionisti coinvolto in una lotta per il controllo di Retelit, una società italiana di telecomunicazioni lo scorso anno. L'investitore principale in Fiber 4.0 è stato il Athena Global Opportunities Fund, finanziato interamente per 200 milioni di dollari dal Segretariato Vaticano e gestito e di proprietà di Raffaele Mincione, un finanziere italiano". Il giornale ricorda che "la fonte finale dei fondi di Mincione non è mai stata dichiarata nella battaglia degli azionisti per il controllo di Retelit ed era sconosciuta prima che la polizia vaticana questo mese facesse irruzione negli uffici del Segretariato per sequestrare documenti e computer a causa della preoccupazione per un affare di proprietà di lusso a Londra stretto con Athena". Oltre a ripercorrere le recenti vicende giudiziarie interne al Vaticano sulla vicenda, il quotidiano rileva che "Conte è balzato dall'essere un politico sconosciuto a guidare un governo populista italiano nel giugno 2018" e ripercorre le tappe della crisi d'agosto e del nuovo esecutivo da lui presieduto con Pd e M5S. Si ricorda, inoltre, che "ha già affrontato accuse di conflitto di interessi in relazione all'accordo Retelit, dopo aver emanato un decreto basato sul cosiddetto "golden power" che favorito i suoi clienti di una settimana prima di diventare primo ministro. Ha negato ogni conflitto di interessi ma è verosimile che debba affrontare nuovi approfondimenti sui suoi legami con la transazione e il coinvolgimento del Vaticano".

L’FT: «Conte legato a un fondo indagato dal Vaticano». La replica: «Tranquillissimo». Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it su Fabrizio Massaro. Lo scandalo del palazzo di Londra comprato dalla segreteria di Stato vaticana sfiora il premier. Lo scandalo del palazzo nel centro di Londra, in Sloane Avenue 60, comprato dalla segreteria di Stato vaticana utilizzando 200 milioni di dollari dell’obolo di San Pietro e ora al centro di un’indagine della magistratura del Papa, non smette di alimentare polemiche. Polemiche che adesso arrivano a tirare in ballo, via Financial Times, il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, per alcuni incarichi professionali avuti pochi settimane prima di essere indicato come premier della coalizione Lega - Movimento 5 Stelle nell’estate del 2018. Al riguardo, nella notte fonti di Palazzo Chigi hanno fatto sapere che il presidente del Consiglio «è tranquillissimo» riguardo l’articolo del Financial Times su un presunto collegamento del premier al fondo di investimenti sostenuto dal Vaticano al centro di una indagine su un caso di corruzione. Il legame tra Conte e l’investimento del Vaticano a Londra è proprio nel fondo che ha realizzato l’operazione, Athena Global Opportunities, gestito dal finanziere Raffaele Mincione. Come ha rivelato domenica 13 ottobre lo stesso Mincione in un’intervista al Corriere della Sera, l’unico investitore del fondo Athena era la Segreteria di Stato vaticana, con 200 milioni di dollari, pari a circa 147 milioni dell’epoca, nell’ottobre 2013. Di quei milioni, circa 80 vennero utilizzati per rilevare il 45% del palazzo (a vendere le quote fu lo stesso Mincione) mentre il resto venne utilizzato per investimenti mobiliari, fondamentalmente in tre titoli di società quotate a Piazza Affari: Banca Carige, Tas (società che si occupa di pagamenti digitali), e Retelit, una società di telecomunicazioni che gestisce anche una rete in fibra ottica. È lo stesso Mincione a svelare al Corriere di aver scalato queste tre società — soprattutto Tas e Retelit — con i soldi del Vaticano. Di fatto la segreteria di Stato è stato l’effettivo proprietario delle azioni fino al novembre del 2018, quando la transazione tra Mincione e il Vaticano non portò a una divisione delle attività: al Vaticano andò l’intero palazzo; a Mincione gli investimenti mobiliari più un conguaglio di 44 milioni di euro in contanti. È proprio quando Mincione, nella primavera del 2018, scala Retelit, candidandosi anche come presidente della società, che spunta il nome di Conte. È il Financial Times a ricordare il ruolo di Conte in questa partita, evidenziando come l’allora avvocato Conte a maggio di quell’anno emise un parere giuridico a favore di Fiber 4.0, una cordata di azionisti di Retelit capitanata al 40% da Athena, secondo il quale il voto dell’assemblea dei soci sulla nomina del consiglio di amministrazione avrebbe potuto essere impugnato dal governo usando il «golden power», cioè un potere di intervento dell’esecutivo su società considerate strategiche. Secondo l’allora avvocato Conte, Retelit avrebbe potuto finire sotto il controllo della cordata avversaria, composta dai tedeschi di Shareholder Value e soprattutto - e qui stava il rischio, secondo Conte - dalla società telefonica di Stato della Libia, Lybian Post Telecommunications (che era in realtà azionista da anni). Sempre al Corriere, il 10 gennaio 2019 Mincione raccontò come fosse arrivato a Conte: «Noi abbiamo chiesto sul tema Retelit un parere a uno studio legale, che purtroppo aveva scritto un’opinione che non andava nella nostra direzione. Quindi ci ha suggerito il nome di un avvocato che aveva la nostra stessa scuola di pensiero. Era quello di Conte, che non era ancora nessuno ma dopo l’opinione è diventato primo ministro. Uno deve pur lavorare, no? Io Conte non l’ho mai incontrato, non lo conosco, non gli ho mai dato un incarico, lo ha fatto uno dei miei collaboratori». A vincere la corsa per il controllo di Retelit fu la cordata opposta a Mincione. Il 7 giugno il neonato governo Conte emanò il decreto che applica a Retelit il golden power, dichiarandone strategiche le attività. Allora il governo stabilì che Retelit garantisse «la continuità del servizio e la funzionalità operativa della rete, assicurandone l’integrità e l’affidabilità, attraverso adeguati piani di manutenzione e sviluppo». In secondo luogo che doveva «assicurare» investimenti «che garantiscano lo sviluppo e la sicurezza delle reti», che la gestione della rete rimanesse in Italia e fosse messa in sicurezza, «tutte attività che — spiegò allora Retelit — vengono già regolarmente svolte dalla società».

Financial Times: "Conte fu consulente di un fondo finito nell'inchiesta del Vaticano". Il giornale britannico avanza l'ipotesi di un conflitto di interessi del premier legato al finanziere Raffaele Mincione. La Repubblica il 28 ottobre 2019. Un conflitto di interessi per il premier? La questione viene rilanciata dal Financial Times, che collega una vicenda da tempo esaminata dalla stampa italiana all’ultimo scandalo vaticano. Le indagini aperte poche settimane fa dagli investigatori pontifici si focalizzano infatti sul fondo di investimento Athena Global Opportunities gestito dal finanziere Raffaele Mincione, che avrebbe ricevuto circa 200 milioni di euro dal Segretariato Vaticano per un discusso investimento immobiliare di lusso a Londra. Nel maggio 2018 la società Fiber 4.0, controllata sempre dal fondo di Mincione, aveva ingaggiato l’avvocato Giuseppe Conte per un parere legale. Fiber 4.0 stava tentando la scalata alla Retelit, una compagnia italiana di telecomunicazioni, ma era stata battuta da due aziende straniere: un fondo tedesco e una società statale libica. Conte nel suo parere legale del 14 maggio 2018 sostenne la necessità di introdurre il principio del golden power, che in questo caso avrebbe permesso al governo di bloccare la cessione delle compagnie strategiche ad azionisti stranieri. Repubblica rivelò per prima la vicenda già il 23 maggio 2018, quando Conte era solo candidato premier e non ancora insediato a Palazzo Chigi. Un mese dopo, il governo giallo-verde guidato da Conte emanò un decreto applicando proprio il golden power a Retelit. Ma il fondo di Mincione non ne ottenne benefici e non riuscì a ottenere il controllo della compagnia. Il premier spiegò allora di non avere partecipato alla discussione del decreto e di essersi astenuto dal votarlo in consiglio dei ministri. E Mincione disse di non avere mai incontrato personalmente l’avvocato Conte, il cui nome gli venne suggerito da un altro studio legale. Ma Gianluca Ferrari, direttore della Shareholder Value ossia il fondo tedesco che si opponeva a Mincione nella scalata, ha dichiarato al Financial Times che “hanno tentato di invalidare il voto degli azionisti attraverso un escamotage tecnico legale che richiede l’approvazione del governo e hanno assunto un avvocato che ha rilasciato un parere legale guarda caso pochi giorni prima di diventare primo ministro”. Questo tipo di conflitto di interessi – sostiene il manager – ha rischiato di minare la fiducia degli investitori internazionali nell’Italia. Il Financial Times inoltre ha potuto esaminare alcuni elementi dell’indagine aperta dalla procura vaticana, focalizzata proprio sulle attività di Mincione e i finanziamenti sospetti concessi dalle istituzioni pontificie alle sue attività. Il quotidiano britannico arriva a sostenere che il fondo Athena Global Opportunities fosse “sostenuto dal Segretariato Vaticano” e che la scalata alla Retelit sia stata lanciata utilizzando proprio il denaro ottenuto dalla Santa Sede. Nel maggio 2018 l’avvocato Conte sapeva di stare lavorando per un fondo sostenuto dal Vaticano? Ieri sera Palazzo Chigi ha diffuso una nota: “Conte ha reso solo un parere legale e non era a conoscenza e non era tenuto a conoscere il fatto che alcuni investitori facessero riferimento ad un fondo di investimento sostenuto dal Vaticano e oggi al centro di un’indagine”. La presidenza del Consiglio ha ribadito che “per evitare ogni possibile conflitto di interesse, il premier si è astenuto anche formalmente da ogni decisione circa l’esercizio della golden power. In particolare non ha preso parte al Consiglio dei Ministri del 7 giugno 2018 (nel corso del quale è stata deliberata la golden power), astenendosi formalmente e sostanzialmente da qualunque valutazione. Si fa presente che in quell’occasione era impegnato in Canada per il G7”. E conclude: “Non esiste nessun conflitto di interesse, rischio questo che peraltro era già stato paventato all’epoca da alcuni quotidiani”. Salvini ha subito rilanciato l’articolo del giornale britannico: “Magari domani la prima lettura del presidente del Consiglio sarà il corriere dell’Umbria, la seconda il Financial Times. Non sono positive né l’una, né l’altra”. Gli ha fatto eco Giorgia Meloni: “Se Conte ha tradito l’Italia, o ha fatto qualcosa che non sta nel suo ruolo, gliene chiederemo conto”.

Dagonews il 27 ottobre 2019. Un fondo di investimento che raccoglieva i soldi del Vaticano, al centro dell'inchiesta per corruzione finanziaria che ha scosso la Segreteria di Stato, era dietro a un gruppo di investitori che ingaggiò Giuseppe Conte – prima che diventasse premier – per lavorare a un affare che doveva chiudersi poche settimane prima dell'inizio del suo mandato. Lo scrive il ''Financial Times'': Conte era un professore di Firenze poco conosciuto quando nel maggio 2018 (le elezioni erano già state stravinte dal M5s e lui era il candidato in pectore al ministero della Pubblica Amministrazione) gli fu chiesta una consulenza legale in favore di Fiber 4.0, un gruppo di azionisti che stava lottando per Retelit, una società di telecomunicazioni italiana. L'investitore principale in Fiber 4.0 era l' Athena Global Opportunities Fund, finanziato interamente con 200 milioni della Segreteria di Stato di cui manager e proprietario era Raffaele Mincione. La fonte dei suoi fondi non fu mai rivelata durante la battaglia per il controllo di Retelit. Una volta sconfitto, Mincione pagò Conte in quanto esperto legale per ribaltare il risultato del voto. Conte ha scritto il 14 maggio 2018, in un memo visionato dal FT, che il voto poteva essere annullato se Retelit fosse stata posta sotto ''golden power'', la regola che permette al governo italiano di bloccare il controllo straniero di società considerate strategiche per il Paese. Due settimane dopo, Conte è stato nominato presidente del Consiglio, e dopo pochi giorni, il suo governo ha approvato un decreto che faceva esattamente quanto richiesto da Mincione. Però non basto' per ribaltare il risultato della disfida azionaria. Rocco Casalino non ha risposto alle richieste del quotidiano, mentre Mincione dice di non aver mai conosciuto Conte, e che era stato ingaggiato da un altro studio legale che lavorava per il consorzio.

Fabrizio Massaro e Mario Gerevini per il “Corriere della sera” il 29 ottobre 2019. «Dal Vaticano, 28 novembre 2018. Spettabile Credit Suisse, con riferimento alla relazione bancaria n. S0456-033 intestata a questa Segreteria di Stato - Sezione per gli Affari Generali - presso codesto Credit Suisse (Lugano), mi pregio di disporre la seguente operazione (...): trasferire l' importo di Euro 45.400.000 alla Rubrica Gutt...». La lettera è firmata Edgar Peña Parra, da poco più di un mese Sostituto della Segreteria di Stato. È il bonifico che innesca l' acquisto esclusivo da parte del Vaticano del palazzo di Sloane Avenue 60 in centro a Londra, fin lì posseduto in tandem con il finanziere Raffaele Mincione (al 55%), e oggi al centro di un' inchiesta della magistratura del Papa. È l' uscita, concordata con Mincione, dallo spinoso investimento del 2014 quando l' allora Sostituto, Giovanni Angelo Becciu, prelevò 200 milioni di dollari dalla cassa dell' Obolo di San Pietro - alimentato dalle offerte dei fedeli - per rilevare, con il fondo Athena di Mincione, il 45% dell' immobile londinese. Con lo stesso accordo, escono dal portafoglio della Santa Sede partecipazioni speculative in Borsa, lontanissime da ogni logica di investimento «etico» e conservativo: Carige, Retelit, Tas. Il Vaticano chiude con Mincione e Athena. Ma riparte con Gianluigi Torzi, 40enne finanziere e abile trader di valuta a Londra. Torzi è alla guida di Gutt, la società nuova proprietaria del palazzo, su incarico della Segreteria. Ma la ripartenza è tutt' altro che lineare. Trame, sospetti e veleni si diffondono fin da subito nei corridoi della Santa Sede, ben prima che parta l' inchiesta vaticana. Gutt avrà vita breve e Torzi sarà liquidato con 10 milioni di euro. Anche il divorzio da Mincione, del resto, non era stato sereno. Si è consumato negli ultimi mesi del 2018 con l' arrivo di Peña Parra. Il colpo di grazia probabilmente è stato il report di settembre del fondo Athena Capital Global Opportunities Fund, quello tutto investito dalla Segreteria: -9% in un anno, -20% dal lancio, rispetto a +4% e +20% di un fondo comparabile. Il rapporto contiene nel dettaglio tutte le partecipazioni: la banca genovese in crisi; Tas, gruppo di pagamenti digitali; Retelit, società di telecomunicazioni che gestisce 12 mila chilometri di fibra ottica e ha tra i clienti il governo Usa. Tutte scalate da Mincione con soldi del Vaticano, come lui stesso ha rivelato il 13 ottobre al Corriere . Una storia ripresa ieri dal Financial Times. In particolare è dagli inizi del 2018 che il fondo Athena si muove in tandem su Carige, dove Mincione sfida la famiglia Malacalza per il controllo, e su Retelit. Su quest' ultima, lo scontro per la conquista del consiglio di amministrazione, attraverso la società Fiber 4.0, vede contrapposta Athena a un gruppo di investitori istituzionali con al centro la società statale libica Lptic (Libyan Post Telecommunications). I libici erano arrivati al 24% stringendo un patto con il fondo tedesco Axxion gestito da Shareholder Value Management. All' assemblea del 27 aprile Mincione viene sconfitto. Tuttavia, per fermare gli avversari, il 20 aprile il finanziere aveva presentato un esposto al governo Gentiloni: chiedeva che Palazzo Chigi dichiarasse la rilevanza strategica di Retelit usando i poteri speciali («golden power»), nella speranza di far decadere il nuovo cda. La battaglia legale proseguì dopo l' assemblea. Ed è qui che interviene l' avvocato Giuseppe Conte. Il 14 maggio emette un parere per Fiber 4.0 in cui sostiene che il golden power si può applicare a Retelit e che quindi andava comunicato al governo il passaggio del controllo ai libici. La settimana dopo, il 21, Conte è proposto premier da Movimento 5 Stelle e Lega. Per quel parere, a quanto risulta, Conte presentò una fattura da 15 mila euro il 29 maggio. Il 7 giugno, con il premier che si astiene, il neonato esecutivo riconosce Retelit come «strategica». Una coincidenza? «Abbiamo chiesto un parere a uno studio legale, che purtroppo aveva scritto un' opinione che non andava nella nostra direzione», ha spiegato a gennaio Mincione al Corriere . «Quindi ci ha suggerito il nome di un avvocato che aveva la nostra stessa scuola di pensiero. Era quello di Conte, che non era ancora nessuno. Io non l' ho mai incontrato, non lo conosco, non gli ho mai dato un incarico, lo ha fatto uno dei miei collaboratori». Ieri il presidente del Consiglio ha spiegato che anche l' Antitrust ha riconosciuto, il 23 gennaio, di non ravvisare «conflitti di interesse» e ha detto di non conoscere Mincione. Athena in Retelit aveva investito 5 milioni. A settembre il valore era sceso a 2,87 milioni, anche per il vincolo apposto dal governo. Una perdita che ha pesato nella rottura tra Mincione e Vaticano.

Cosa sostiene il Financial Times sulla consulenza di Conte a Fiber 4.0. Secondo il quotidiano inglese il premier avrebbe lavorato per una società al centro di un'inchiesta del Vaticano. Barbara Massaro il 28 ottobre 2019 su Panorama. "Nel maggio 2018 il primo ministro italiano Giuseppe Conte è stato ingaggiato per una consulenza legale dal gruppo Fiber 4.0. il cui principale investitore è l'Athena Global Opportunities Fund, fondo sostenuto interamente per 200 milioni di dollari dal Segretariato di Stato Vaticano e gestito da Raffaele Mincione". Così scrive il Financial Times che, nella sua edizione online, riporta alla cronaca una vicenda di cui si era già parlato all'epoca dei fatti.

I fatti. Secondo il quotidiano della City l'attuale Premier, poco prima della sua nomina a capo del governo, sarebbe stato incaricato - in qualità di consulente esterno - di fornire un parere legale circa la possibilità che il fondo Fiber 4.0 potesse ribaltare l'esito dell'acquisizione della società di telecomunicazioni Retelit, società che possiede 8.000 chilometri di fibra ottica in tutta Italia. Conte, in quell'occasione, avrebbe detto che l'unico modo di rovesciare la votazione sarebbe stato l'intervento del governo che avrebbe potuto applicare la cosiddetta golden power su Reteil. La golden power è lo strumento che permette all’esecutivo di imporre a società ritenute strategiche di seguire particolari orientamenti o di fare certe scelte piuttosto che altre. Era il 14 maggio e meno di un mese dopo Conte sarebbe stato chiamato a guidare il governo.

Conflitto d'interesse sì o no? I primi che avevano parlato del possibile conflitto d'interesse del premier erano stati i giornalisti di Repubblica, ma, proprio come avvenuto oggi, l'ufficio di gabinetto del capo del governo ha respinto l'accusa di conflitto d'interessi e in una nota Palazzo Chigi spiega: "Nei primi giorni del maggio 2018 l'allora avvocato Conte ha ricevuto dalla società Fiber 4.0 l'incarico di scrivere un parere pro veritate circa il possibile esercizio, da parte del governo, dei poteri di golden Power nei confronti della società Retelit. In quel momento, ovviamente, nessuno poteva immaginare che, poche settimane dopo, un governo presieduto dallo stesso Conte sarebbe stato chiamato a pronunciarsi proprio sulla specifica questione oggetto del parere". E poi la nota prosegue: "Per evitare ogni possibile conflitto di interesse, il presidente Conte si è astenuto anche formalmente da ogni decisione circa l'esercizio della golden Power. In particolare non ha preso parte al Consiglio dei Ministri del 7 giugno 2018 (nel corso del quale è stato deliberato l'esercizio dei poteri di golden Power), astenendosi formalmente e sostanzialmente da qualunque valutazione. Si fa presente che in quell'occasione il presidente conte era impegnato in Canada per il G7. Pertanto non esiste nessun conflitto di interesse, rischio questo che peraltro era già stato paventato all'epoca da alcuni quotidiani. La circostanza era stata già chiarita e, in particolare, era stato già chiarito che Conte non ha mai incontrato né conosciuto il sig. Mincione". Mincione, interpellato dal FT, avrebbe, inoltre, specificato che la golden power non "gli ha fatto perdere nè guadagnare neppure un euro" e che il fatto che Conte fosse il nuovo capo del governo è stata solo una "fortuna".

I legami con la corruzione in Vaticano. L'aspetto su cui, però, ora il Financial Times insiste è il fatto che la società che avrebbe pagato Conte sarebbe stata finanziata da un fondo che sarebbe al centro di un'indagine sulla corruzione in Vaticano. Secondo il giornale, infatti, il denaro con cui Mincione si era imposto in Fiber 4.0, si parla di circa 200 milioni di euro, sarebbe provenuto dalla segreteria di Stato del Vaticano. La polizia vaticana già da ottobre è al lavoro su questa inchiesta e al momento ben 5 dipendenti sono già stati sospesi per cercare di capire se e chi ha sottratto illecitamente milioni di euro alle casse vaticane per investirli in maniera azzardata. In merito a questo aspetto della vicenda palazzo Chigi ha così commentato: "Quanto ai fatti riferiti dal Financial Times si precisa che Conte ha reso solo un parere legale e non era a conoscenza e non era tenuto a conoscere il fatto che alcuni investitori facessero riferimento ad un fondo di investimento sostenuto dal Vaticano e oggi al centro di un'indagine".

Ecco la fattura per la consulenza di Giuseppe Conte: per il premier compenso di 15 mila euro. La parcella per il parere legale in merito alla tentata scalata del finanziere Mincione alla società Retelit. Il saldo inviato due giorni prima che il professore diventasse presidente del Consiglio. Il Vaticano non sta effettuando alcuna investigazione sull'incarico professionale. L'indirizzo della fattura è lo stesso di quello dello studio di Alpa. Emiliano Fittipaldi 29 ottobre 2019 su L'Espresso. La fattura firmata da Giuseppe Conte alla Fiber 4.0 di Raffaele Mincione è del 29 maggio 2018. Il professore (che sarebbe diventato premier incaricato solo due giorni dopo) due settimane prima aveva infatti consegnato un parere pro veritate scritto per la spa del finanziere che stava tentando di conquistare il controllo di Retelit, e ora spediva il conto della consulenza. Un compenso da 15 mila euro tondi tondi, a cui aggiungere 3.436 euro di spese generali, più la quota della Cassa degli avvocati e l'Iva. L'oggetto della fattura è coerente con il parere di sette pagine inviato a Mincione il 14 maggio 2018: «Saldo dei compensi per la redazione del parere sulla valutazione dell'assunzione, da parte di Libyan Post Telecommunications information Technology Company, del controllo su Retelit Spa all'esito dell'assemblea del 27 aprile 2018 e sulla eventuale violazione degli obblighi stabiliti in materia di golden power». L'Espresso pubblica il documento per fare chiarezza sull'entità del compenso ottenuto da Conte, dopo che la vicenda – già nota – è stata risollevata due giorni fa dal Financial Times. La perizia di Conte a favore della Fiber 4.0 di Mincione era stata infatti già svelata da Repubblica quasi in diretta a maggio del 2018. In quei giorni delicatissimi per il Paese e per la sua carriera politica, il futuro presidente del Consiglio continuava (peccando forse sul piano dell'opportunità) a fare l'avvocato. E a incassare (seppur modeste) parcelle da clienti importanti. Tra questi, c'è Mincione. Che da tempo stava combattendo una battaglia per il controllo della Retelit, azienda strategica che gestisce cavi in fibra ottica per 12.500 chilometri in molte città italiane. I suoi avversari sono proprio i libici di Lptic, una società statale, e quelli di Axxon, fondo teutonico gestito da Shareolder Value Management che con i libici ha stretto un accordo di ferro. Nell'assemblea citata da Conte, quella del 27 aprile, Mincione viene messo sotto, e non riesca a prendere il controllo del cda. Tenta così un'ultima carta: ottenere dal governo italiano, allora presieduto da Paolo Gentiloni, di considerare Retelit un'azienda strategica per gli interessi nazionali. In quel caso, l'esecutivo avrebbe potuto usare la sua golden power e fare decadere il cda appena insediato, riaprendo così la partita per il controllo. Come ha evidenziato Valentina Conte su Repubblica, la battaglia viene combattuta anche a colpi di consulenze tecniche. Mincione chiede aiuto a Conte, che di fatto spiega nel suo parere come i rivali del suo cliente avrebbero compiuto un'omissione grave: quella di non comunicare al governo italiano che la loro compagine – con dentro i libici – aveva ormai il controllo di Retelit. Le accuse di conflitto d'interesse per Conte, di cui hanno poi parlato diffusamente quasi tutti i quotidiani italiani per mesi, scattano poi il 7 giugno, quando il governo (in una seduta in cui il neo premier Conte si astenne) decise di considerare Retelit come “azienda strategica” e di esercitare la golden power. Esattamente come aveva suggerito il parere pro veritate dell'avvocato di Volurara Appula. Come mai, dunque, l'esterofila stampa italiana ha rilanciato in grande stile il pezzo del Financial Times? Perché il quotidiano tedesco, riprendendo altri scoop dell'Espresso in merito al fondo vaticano da 147 milioni di euro gestito da Mincione ed usato per comprare un palazzo nel centro di Londra (un business finito nel mirino della magistratura della Santa Sede), ha ricordato come Fiber 4.0 di Mincione usasse anche denaro del fondo lussemburghese della segreteria di Stato, l'Athena Capital Global Opportunities Fund. Mischiando le due storie, e piazzando nello stesso titolo Conte, Vaticano e il fondo di Mincione, l'effetto – soprattutto in concomitanza della notte delle elezioni umbre – è così assicurato. Il Financial Times si spinge a scrivere che il collegamento tra Conte e Mincione su Retelit (già svelato dallo stesso Mincione in un'intervista a un quotidiano) «probabilmente attirerà un ulteriore esame sull'attività finanziaria della Segreteria di Stato». In realtà se da un lato il premier, che fattura la consulenza a Fiber 4.0, poteva ovviamente non sapere nulla di Athena e dell'origine «sacra» dei suoi fondi, dall'altro i promotori di Giustizia – risulta a chi vi scrive - non hanno alcun interesse investigativo verso le consulenze fatte a professionisti dalle varie società in cui ha investito il fondo lussemburghese. Tantomeno ai 15 mila euro di Conte. L'intento dei pm del papa, come ha scritto l'Espresso, è quello di verificare se dietro il grande business immobiliare effettuato a Londra (con i denari dell'Obolo di San Pietro in teoria destinati alla beneficenza, ma gestiti con opacità e mancanza di etica dalla Segreteria di Stato) si nascondano reati come corruzione, abuso d'ufficio, riciclaggio e peculato. Detto questo, la fattura di Conte a Mincione ripropone ancora una volta – grazie all'indicazione dell'indirizzo dello studio romano del premier, a Piazza Benedetto Cairoli 6 a Roma – la questione dei rapporti tra Conte e Guido Alpa. Cioè il giurista e avvocato maestro di Conte che ha studio nello stesso palazzo, e che ha seguito la carriera dell'amico negli ultimi lustri. Un nome, quello di Alpa, che appare direttamente o indirettamente nei concorsi universitari vinti da Conte. Senza scordare che il mentore è stato – anche lui – avvocato di Mincione. Stavolta nell'affaire di Carige, la banca genovese che il finanziere italo-londinese ha provato ha scalare nel settembre del 2018. Il legame tra Alpa, Conte e Mincione finì già un anno fa in un'interrogazione parlamentare del Pd.  «Perché ho scelto Guido Alpa per il dossier Carige? Era la persona più giusta per lavorare con noi visto che era stato consigliere della banca, da cui si era dimesso denunciando tante cose sbagliate” spiegò Mincione mesi fa. «Mi spiace leggere di questa assurda strumentalizzazione politica».

Claudio Antonelli per “la Verità” il 29 ottobre 2019. Domenica sera il quotidiano della City, il Financial Times, spara ad alzo zero sul premier. Titola così l' articolo: «Il presidente del Consiglio italiano collegato a un fondo sotto indagine in Vaticano». Nel testo si spiega che nel maggio del 2018, Giuseppe Conte riceve l' incarico di elaborare un parere pro veritate a favore di Fiber 4.0, un gruppo impegnato a scalare Retelit, una compagnia di tlc italiana. Il principale investitore della Fiber 4.0 era il fondo Athena global opportunities, gestito da Raffaele Mincione e finanziato dalla segreteria di Stato vaticana. La gendarmeria d' Oltretevere un mese fa ha aperto un' inchiesta perché lo stesso fondo ha gestito 200 milioni finiti in un immobile di lusso a Londra. La notizia del Financial Times non è per nulla uno scoop. E qui sta probabilmente la notizia. Ce ne eravamo già occupati noi della Verità. Raffaele Mincione, inoltre, intervistato dal Corriere, ha confermato i link tra Athena e il Vaticano e persino il tema della consulenza rilasciata da Conte a Fiber 4.0 era già stata oggetto di una interrogazione parlamentare firmata dal Pd. Il partito che oggi tace, dovendo sostenere il Conte bis. Sparare, però, a pallettoni potrebbe avere un senso per l' Ft perché la notte di domenica non era una notte qualunque. Erano in corso le elezioni in Umbria e Conte ci ha messo la faccia. Il primo a commentare sui social l' articolo del Ft è stato un altro finanziere. Si chiama Davide Serra , anche lui, come Mincione, è ormai anglofono ma soprattutto è molto vicino a Matteo Renzi, che in questi giorni bramerebbe per sganciare qualche bomba mediatica nell' ufficio del premier, e vederlo in difficoltà e magari dimissionario. Infatti, rilanciare il tema ha imposto a Conte ben due note. La prima diffusa la sera della pubblicazione. Nella quale Palazzo Chigi spiega che al momento del parere non si poteva sapere che Conte sarebbe divenuto premier e tanto meno che in uno dei primi Cdm si sarebbe dovuto occupare della scalata a Retelit esercitando il golden power. «In particolare, Conte non ha preso parte al consiglio dei ministri del 7 giugno 2018 (nel corso del quale è stato deliberato l' esercizio dei poteri di golden power), astenendosi», si legge nella stessa nota, «formalmente e sostanzialmente da qualunque valutazione». Ieri sera Palazzo Chigi è tornato sul tema, ribadendo che non ci fu alcun conflitto d' interessi, come ha certificato il Garante della concorrenza lo scorso 24 gennaio. «Ho fornito all'autorità tutte le informazioni richieste, unitamente ai necessari riscontri documentali, dimostrando in particolar modo la mia astensione (formale e sostanziale) a qualsiasi decisione relativa a Retelit, e ribadendo di non aver mai conosciuto o avuto contatti con i vertici societari di Fiber 4.0 (e specificamente con il signor Mincione)». Sembra di capire che la mossa del Ft possa proprio essere mirata a ciò. Far finire sul tavolo alcuni dettagli in più in una giornata delicata come quella di oggi. Il Copasir si riunirà per sentire Gennaro Vecchione direttore del Dis, a cui verrà chiesto di rispondere alle medesime domande rivolte la scorsa settimana a Conte sul tema dello spygate. Ma a quanto risulta alla Verità si discuterà anche di 5G, e delle scelte del governo di estendere le norme in tema (vedi primo Cdm del Conte bis): c' è quindi il rischio concreto che anche il dossier Retelit finisca sul tavolo del Copasir. A quel punto bisognerà capire se c' era la necessità di applicare a tutela della società di tlc Retelit lo «scudo» della sicurezza nazionale e se ciò, da un punto di vista politico (non tecnico), abbia implicato un conflitto d' interessi. Il golden power serviva a blindare l' azienda dagli stranieri. Ma chi erano gli stranieri? I libici tedeschi che già ne detenevano il controllo o la società finanziata dal fondo inglese gestito da Mincione? Il tentativo di scalata da parte del finanziere amico del Vaticano non è andato in porto. All' assemblea del 2018 gli sono mancate le quote per portare a termine il progetto. Ma resta ancora da capire quale fosse lo schema. Perché quella mini Telecom che ha cavi sottomarini che collegano gli Usa al Medioriente è così importante da imporre il golden power? Una domanda che oggi potrebbe essere posta a Vecchione. In quella scatola sono passati segreti così delicati anche per l' intelligence Usa, tanto da creare pericolose connessioni con i temi su cui il Copasir indaga? Vi è una terza domanda che invece andrebbe posta direttamente a Conte. Quando dice che non ha mai avuto contatti con i vertici di Fiber 4.0, che cosa intende? Chi gli ha chiesto il parere? Il socio Alberto Pretto? O «nessuno dei vertici», come dice lui? In tal caso dovremmo pensare che a girare all' avvocato Conte la pratica sia stato Guido Alpa? Quest' ultimo non avrebbe potuto esprimersi su Retelit in quanto legale di Carige, banca all' epoca sotto schiaffo dallo stesso Mincione. Ciò aprirebbe nuovi fascicoli, estranei al Copasir. Significherebbe che Conte e Alpa lavoravano nello stesso studio, eventualità già negata dal premier (Alpa dichiarò Conte idoneo all' insegnamento) e aprirebbe un' enorme voragine che riguarda Carige, istituto cui Conte si è più volte interessato.

QUEL CONFLITTO D’INTERESSI DEL PREMIER CONTE SU RETELIT. IL GOVERNO ESERCITA I POTERI SPECIALI. Carlo Festa per carlofesta.blog.ilsole24ore.com dell'8 giugno 2018. Sul primo passo del nuovo governo del neo premier Giuseppe Conte in ambito finanziario e Tlc, c’e’ l’ombra di un possibile conflitto d’interesse. Ma vediamo i fatti. Il nuovo Governo guidato da Giuseppe Conte ha deciso di esercitare la golden power su Retelit, che in Borsa oggi cede oltre il 4%. Lo ha deliberato il Consiglio dei Ministri che si è riunito nella serata di ieri sotto la presidenza del vice presidente Matteo Salvini. Nel dettaglio, l’esecutivo ha stabilito di “esercitare i poteri speciali con riferimento alla modifica della governance di Retelit derivante dall’assemblea dei soci del 27 aprile 2018, mediante l’imposizione di prescrizioni e condizioni volte a salvaguardare le attività strategiche della società nel settore delle comunicazioni”. Nell’assemblea del 27 aprile è stato nominato il nuovo cda del gruppo tlc, con la conferma dei precedenti vertici: la lista che ha conquistato la maggioranza dei voti, battendo la Fiber 4.0 (cordata guidata dal finanziere Raffaele Mincione), era sostenuta dai libici di Bousval (Lybian Post Telecommunications) e dai tedeschi di Axxion, sotto il coordinamento di Shareholder Value Management (Svm). Ma il conflitto d’interessi dell’avvocato Conte è dietro l’angolo. Come ricostruito da Radiocor – proprio il premier Giuseppe Conte, meno di un mese fa (lo scorso 14 maggio), nell’esercizio della propria professione di avvocato aveva formulato un parere per la Fiber 4.0 (cioè la cordata perdente guidata dal finanziere Raffaele Mincione) sull’assunzione del controllo dei libici nell’assemblea del 27 aprile e sull’eventuale violazione degli obblighi stabiliti in materia di golden power. La conclusione? Perlomeno alla data dell’assemblea i libici avrebbero dovuto notificare, come previsto dalla disciplina della golden power, l’assunzione del controllo di Retelit poichè quest’ultima detiene asset strategici. Per questo, sempre secondo Conte, la delibera assembleare e le successive delibere del cda neo-eletto sono da considerarsi nulle. Ora, non entrando nel merito tecnico-giuridico della vicenda, suona alquanto strano che un governo, come prima decisione in tema di finanza e come prima mossa nel mondo delle Tlc, eserciti un potere speciale su una vicenda dove il proprio premier era coinvolto fino a un mese fa (per conto della cordata perdente) da professionista e dove aveva pure percepito un compenso. Infatti Fiber 4.0 aveva segnalato alla Presidenza del Consiglio che Bousval, Axxion e SVM hanno compiuto un’omissione, grave a parere di Fiber 4.0, non comunicando al governo italiano di avere ormai il controllo di Retelit. Nella battaglia a colpi di consulenze, l’avvocato Conte ha stilato il parere pro veritate e supportato le ragioni di Fiber 4.0: a suo dire, l’obbligo di notifica, come prevede la legge, alla Presidenza del Consiglio dei ministri c’era eccome, proprio in ragione del passaporto libico della Bousval. Lo stesso Conte avvertiva che il governo avrebbe potuto sanzionare la mancata comunicazione sul nuovo assetto di controllo di Retelit, ricordando anche che “in casi eccezionali di rischio (…) il Governo può opporsi, sulla base della stessa procedura, all’acquisto”. Nel frattempo la replica del Cda non è tardata ad arrivare. Dopo la decisione del Governo di esercitare la golden power su Retelit, quest’ultima – attraverso una nota – precisa integralmente le disposizioni del decreto del Consiglio dei Ministri. Nel dettaglio, le condizioni e prescrizioni nei confronti di Retelit prevedono innanzitutto “garantire la continuità del servizio e la funzionalità operativa della rete, assicurandone l’integrità e l’affidabilità, attraverso adeguati piani di manutenzione e sviluppo”. In secondo luogo “assicurare l’elaborazione di programmi industriali e l’impiego di adeguati investimenti che garantiscano lo sviluppo e la sicurezza delle reti”; in terzo luogo “tutelare tramite idonei strumenti e strutture organizzative aziendali, la sicurezza fisica e logica della rete su tutto il territorio nazionale al fine di garantire la piena operatività”. Infine “mantenere stabilmente sul territorio nazionale le funzioni di gestione e sicurezza delle reti”. Al proposito, Retelit rende noto che “le condizioni e prescrizioni sopra menzionate riguardano attività che vengono già regolarmente svolte dalla società nello svolgimento della propria attività ordinaria, la quale è altresì titolare di certificazioni nazionali ed internazionali”. Di conseguenza, la società ritiene che “l’applicazione delle predette misure non comporterà costi e investimenti aggiuntivi ne’ restrizioni di carattere operativo e/o commerciale rispetto a quanto considerato nel piano industriale”. Insomma, sono già osservate prescrizioni in tema di Golden power.

RETELIT, LA GUERRA COL GOVERNO E LA SFIDA DI MINCIONE. Luigi Pereria per startmag.it del 14 giugno 2018. Guerra legale fra Retelit e governo che si affianca alla disfida finanziaria tra azionisti di maggioranza e socio di minoranza (Mincione) sempre scalpitante.

Ecco le ultime novità.

CHE COSA HA DECISO IL CDA DI RETELIT. Il consiglio di amministrazione di Retelit ieri ha deliberato di “dare mandato ai propri legali di impugnare nelle competenti sedi giurisdizionali il provvedimento dello scorso 7 giugno 2018 con il quale la Presidenza del Consiglio dei Ministri – a seguito della notifica effettuata in via meramente prudenziale e cautelativa dalla Società successivamente all’assemblea ordinaria degli azionisti tenutasi 27 aprile – ha esercitato i poteri speciali previsti dall’articolo 2 del c.d. Decreto Golden Power”. La società conferma, inoltre, quanto già reso noto al mercato con il proprio comunicato dell’8 giugno e cioè che l’adozione del provvedimento non comporta in ogni caso per il Gruppo Retelit costi o investimenti sulla rete ulteriori rispetto a quelli già programmati nell’esercizio della propria attività, né mutamenti o restrizioni della strategia operativa e commerciale delineata nel piano industriale del Gruppo.

COSA FA LA SOCIETÀ. L’infrastruttura in fibra ottica di Retelit al 31 marzo 2018 si sviluppa per circa 12.500 chilometri (equivalente di circa 231.000 km di cavi in fibra ottica), di cui 68.000 km situati in MAN) e collega 9 Reti Metropolitane e 15 Data Center in Italia, inclusa la Cable Landing Station di Bari. Con circa 3.583 siti On-Net, di cui 2.371 siti cliente, 710 torri di telecomunicazione, 447 cabinets e 40 Data Center raggiunti, la rete di Retelit si estende, inoltre, anche oltre i confini nazionali con collegamenti ai maggiori PoP europei, inclusi Francoforte, Londra, Amsterdam e Parigi.

CHE COSA È SUCCESSO NELL’ASSEMBLEA DI RETELIT. Nell’assemblea del 27 aprile è stato nominato il nuovo cda del gruppo tlc, con la conferma dei precedenti vertici: la lista che ha conquistato la maggioranza dei voti, battendo la Fiber 4.0 (cordata guidata dal finanziere Raffaele Mincione presente nell’azionariato anche di Banca Carige), era sostenuta dai libici di Bousval (Lybian Post Telecommunications) e dai tedeschi di Axxion, sotto il coordinamento di Shareholder Value Management (Svm). In sostanza, l’assemblea non capisce il motivo di cambiare il management che porta in dote il primo dividendo della storia della società: la lista della continuità ottiene il consenso del 42% del capitale, la cordata sfidante si ferma al 24%.

LA DECISIONE DEL GOVERNO CONTE. Il nuovo governo M5S-Lega guidato da Giuseppe Conte ha deciso di esercitare la golden power su Retelit, come ha deciso la scorsa settimana il consiglio dei ministri. Infatti l’esecutivo ha stabilito di “esercitare i poteri speciali con riferimento alla modifica della governance di Retelit derivante dall’assemblea dei soci del 27 aprile 2018, mediante l’imposizione di prescrizioni e condizioni volte a salvaguardare le attività strategiche della società nel settore delle comunicazioni”.

I DETTAGLI DELLA DECISIONE DEL GOVERNO. Il 7 giugno, col nuovo inquilino di Palazzo Chigi in volo per il G7, la Presidenza del consiglio emana il decreto che applica a Retelit il golden power, dichiarandone strategiche le attività. Ma attiva l’articolo 2 della legge (non l’articolo 1 su difesa e sicurezza nazionale) che prescrive adempimenti ai quali la società dice già di non sottrarsi. Siccome – secondo le indiscrezioni di mercato – i legali di Mincione studiano tra le pieghe del decreto come riaprire la partita, il cda Retelit – come detto – ieri ha deciso comunque di ricorrere per via legale.

LA POSIZIONE DOPPIA DELL’AVVOCATO E PREMIER CONTE. Va anche ricordato che – come ricostruito nei giorni scorsi da Radiocor – proprio il premier Conte, meno di un mese fa (lo scorso 14 maggio), nell’esercizio della propria professione di avvocato aveva formulato un parere di parte (e non pro veritate) per la Fiber 4.0 sull’assunzione del controllo dei libici nell’assemblea del 27 aprile e sull’eventuale violazione degli obblighi stabiliti in materia di golden power. Ma il presidente del Consiglio Conte con la golden power ha preso una decisione diversa dalla posizione assunta dall’avvocato Conte.

LO STATO DELL’ARTE. Quali erano e quali sono dunque le mire del finanziere? Mincione, in altri termini, ha provato invano a fermare il voto agitando lo spettro del golden power per congelare i libici e sventolando i pareri legali di Gianni-Origoni e di Giuseppe Conte, che ancora nessuno immaginava sarebbe diventato il futuro premier. Il nuovo cda – con i libici e Ferrari – conferma Pardi e Protto e per precauzione notifica il “cambio di governance” a chi di dovere.

SCENARI E PROSPETTIVE SECONDO IL SOLE 24 ORE. Scrive oggi il Sole 24 Ore in un articolo di approfondimento a cura di Antonella Olivieri: “Nel frattempo il titolo è sceso sotto 1,7, Fiber 4.0 ha in carico la quota a 1,75 euro, finanziata almeno in parte a debito secondo il tam tam di Borsa. A fine anno scade un’opzione per rilevare un ulteriore 3,5%. Intanto però a settembre potrebbe aprirsi il data room di BT Italia, che la cordata Mincione aveva messo nel mirino, tant’è che all’inizio al posto di Talotta aveva pensato a Corrado Sciolla, l’presidente per le attività europee dell’operatore britannico. Pure Retelit è interessata, ma l’ad Protto pensa anche a come sviluppare il business, ipotizzando una collaborazione con Sparkle (al cui timone è tornato Riccardo Delleani) per servizi da offrire in comune alle aziende, laddove affiora il cavo sottomarino, e diventare così competitivi con le aree del Mediterraneo – vedi Marsiglia – che si sono già attrezzate. L’idea insomma è di costruire il “terminal” intorno alla pista di atterraggio. In campo anche Irideos, il polo dei servizi corporate di F2i, che a BT Italia guarda, a Retelit non più perchè un’Opa sarebbe troppo onerosa. Domani, chissà, se ci sarà la società della rete, magari anche piccola e grande Telecom potrebbero finire sotto lo stesso tetto. Ma è una prospettiva di anni e a Retelit, nel frattempo, potrebbe ancora succedere di tutto”.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 28 ottobre 2019. Esistono intercettazioni che rassicurerebbero sull' intervento di Giuseppe. Premetto che l'ombra del conflitto di interesse sull'operato dell'avvocato Giuseppe Conte, divenuto presidente del Consiglio all'inizio di giugno del 2018, c'è sempre stata, ora l'ombra si è fatta corposa perché è entrata di prepotenza nella devastante, micidiale inchiesta sulle finanze perdute del Vaticano.  Sono i soldi dell'obolo di San Pietro, quelli proditoriamente utilizzati per rischiosi investimenti, a volte persino per investimenti inesistenti, insomma, utilizzati con disinvoltura, i soldi dei fedeli. Così i vari filoni dell'inchiesta alla fine tornano a essere uno. Su Dagospia ve ne abbiamo parlato per primi, ma qui nessuno rivendica diritti di primogenitura o di scoob. È un puzzle complicato, una storia terribile, per quanto riguarda il Vaticano, cominciata nel 2012 con la Costituzione della Commissione Cosea voluta da Bergoglio per far luce su investimenti opachi. Allora rischiò la pelle e la reputazione chi nella commissione prese sul serio il compito ricevuto, e segnalò quel che non andava; oggi che l'inchiesta è andata avanti, anche perché certe casse sono vuote, è più difficile il tentativo di coprire le vere responsabilità, anche se per ora a pagare è stato ancora una volta un capro espiatorio, il comandante della gendarmeria, Giani, allontanato per fuga di notizie. Nello scandalo però rischia di entrare anche l'Italia, un po' come sta accadendo con il Russiagate di quelli che tramarono per non fare eleggere Donald Trump. Lì come in questo caso ci sarebbero state interferenze. Se l'inchiesta di Washington va avanti spedita perché questo è lo stile del presidente americano, qui tutto era stato messo sotto traccia, nonostante inchieste giornalistiche e nuove pubblicazioni di libri, prima dell'articolo del Financial Times che tira pesantemente in ballo Giuseppe Conte, il quale ha svolto una consulenza legale per il finanziere Mincione che ora è finita nell'inchiesta per corruzione del Vaticano. Sono 200 milioni di euro messi sul tavolo da Mincione per prendersi Retelit, che erano in realtà della Segreteria di Stato. Conte firma il suo parere il 14 maggio del 2018, dopo le elezioni vinte dai 5 stelle e quando era già in predicato di diventare ministro della Pubblica Amministrazione. Quindici giorni dopo diventò presidente del Consiglio invece, ed in quella veste ha esercitato il Golden Power su Retelit, come serviva al suo cliente Mincione. E ora? Il Vaticano potrebbe a questo punto decidere due cose:

1 . Chiedere che si indaghi sulla buona fede di Conte nell'esercizio della Golden Share.

2. Sostenere la correttezza del comportamento, a seguito delle intercettazioni che sarebbero nelle mani degli inquirenti vaticani e che sembrano confermare che il premier fosse a conoscenza dell'importanza dell'esercizio della Golden share anche per gli interessi della Santa Sede.

Infine, si dice oltretevere, impossibile pensare che il premier non fosse a conoscenza del fatto che i soldi di Retelit e quindi di Atena provenivano da investimenti vaticani. Qualche aggiunta per la comprensione della complicata questione.

I soldi dell’Obolo di San Pietro sono quelli che i fedeli donano alla Santa Sede per l’evangelizzazione, le necessità della Chiesa e il soccorso ai poveri. Raffaele Mincione è un uomo d'affari molto audace e astuto che si è piazzato a Londra e ha fatto il primo investimento immobiliare audace accaparrandosi una proprietà per meno della metà del suo valore. Nel 2012, fonda una società registrata nell’isola di Jersey chiamata 60S. Secondo il Financial Times, ottiene un prestito di 75 milioni da Deutsche Bank e per 129 milioni di sterline compra un palazzo al 60 di Sloane Avenue, che intende trasformare  in un condominio di lusso. Gli serve un socio e a quanto pare conosce bene quello che era allora Segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Della Prima sezione della Segreteria è responsabile il Sostituto Angelo Becciu, che vuol investire 200 milioni di dollari in una società angolana, Falcon Oil, che ha il 5% dei diritti per costruire una piattaforma petrolifera offshore con Eni e Sonangol.  Mincione e rappresentanti del Vaticano si incontrano a Londra al Credit Suisse,istituto che  gestisce da tempo il tesoro della Segreteria di Stato, formato , vale la pena ricordarlo, prevalentemente dall’Obolo di San Pietro. Alla fine il progetto in Africa non si fa, Mincione dirotta gli investitori sul suo progetto immobiliare a Londra, per il quale viene creato un fondo.  La Segreteria di Stato compra il 45% della proprietà dell’immobile  attraverso il suo investimento nel fondo Athena Global Opportunities, gestita dalla Wrm di Mincione, che a sua volta ne detiene la maggioranza. La Segreteria di Stato è perciò l’unico investitore del fondo Athena. Quando arrivano le licenze nel 2016, è arrivata anche la Brexit, e il mercato immobiliare come la sterlina sono andati giù pesantemente. Non a danno di Mincione, il quale in un'intervista al Corriere della Sera ha spiegato che incassa in commissioni il 2%.  16 milioni in tutto. Inoltre: dei 147 milioni di euro investiti dal Vaticano, 80 sono finiti nel palazzo, circa 65 in altro del fondo. Sono denari che fanno comodo a Mincione per finanziare alcuni progetti. Il fondo Athena compare nelle incursioni in Carige, Retelit (comunicazioni) e Tas (pagamenti digitali). In Vaticano sapevano? “Tutto”, risponde Mincione al Corsera. E tutto è trasparente e legittimo. Secondo lui. Nel 2018 intanto è cambiato il Sostituto in Vaticano. A Becciu succede il venezuelano Edgar Peña Parra, assai poco convinto del' affare, che.  decide di acquistare tutto l’immobile e uscire da Athena. Sceglie anche un intermediario, Enrico Crasso, per vigilare sugli investimenti del fondo, che però non dura perché non va d'accordo con Mincione. Per riuscire ad entrare in possesso dell’intero immobile, la segreteria di Stato accende un mutuo da 130 milioni con due società lussemburghesi. Mincione si tiene gli investimenti finanziari. Per uscire da Athena, il Vaticano gli riconosce un conguaglio di 44 milioni. Per il mutuo  la Segreteria di Stato chiede 150 milioni allo Ior. La richiesta insospettisce il direttore Mammì, che infatti nel luglio scorso denuncia l’operazione. Anche l’Ufficio del revisore vaticano si rivolge alla magistratura vaticana. È così che faticosamente si arriva alle indagini che si sommano ad altre segnalazioni più antiche, che hanno portato alle perquisizioni in Segreteria di Stato e negli uffici dell’Antiriciclaggio vaticano il primo ottobre. Fino alle ipotesi "di peculato, truffa, abuso d’ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio”, ma nel prosieguo dell'approfondimento sul ginepraio anche a ipotesi di "’appropriazione indebita, corruzione e  favoreggiamento”. Se a processo, ne dovranno rispondere cinque alti dirigenti  di Segreteria e Aif . Al di là delle dichiarazioni di Mincione, che si fa gli affari suoi e sostiene che il Vaticano ci ha guadagnato, la verità è che ci ha guadagnato ufficialmente solo lui. Secondo il Financial Times 138 milioni di sterline. Quanto al Vaticano, se lo Ior non gli dai i soldi per estinguere il mutuo, 150 milioni, l'immobile di Londra finirà nelle mani degli istituti di credito lussemburghesi, e quelli perduti saranno tutti i soldi dell'obolo di San Pietro.  Condannati saranno non solo gli utilizzi disinvolti del patrimonio in investimenti che non rendono, e che dimostrano come minimo incapacità, come massimo malafede di coloro che sono incaricati, stiamo parlando di Fondi extra bilancio. Poi ci sono tutti le conseguenze dell'inchiesta. Perché un finanziere disinvolto e con poca storia come Mincione è riuscito ad arrivare tanto vicino alla Segreteria di Stato Vaticana? Ti rispondono che le entrature importanti le aveva proprio in Italia e con Giuseppe Conte, attraverso la banca Carige e il giurista Guido Alpa, maestro di Conte. E di qui il rapporto diretto con Tarcisio Bertone.

Tobia De Stefano per “Libero quotidiano” il 31 ottobre 2019. È davvero un peccato che nel maggio del 2018, due settimane prima di diventare premier, l' avvocato Giuseppe Conte non abbia avuto l' accortezza di indagare sui soggetti che si nascondevano dietro a un suo assistito, il fondo Athena. Non solo perché era suo dovere farlo - glielo imponevano le norme sull' antiriciclaggio - ma anche perché ne avrebbe scoperte delle belle. Si sarebbe reso conto per esempio che in quel momento l' unico finanziatore del fondo di Raffaele Mincione era il Vaticano, che stava "sperperando" circa 150 milioni di offerte dei fedeli per l' acquisto di un immobile a Chelsea (Londra). E magari avrebbe potuto fare pure un po' di indagine storica su quel fondo - non servivano grandi investigatori bastavano delle banali ricerche su Internet - per vedere che Athena era lo stesso strumento finanziario nel quale, qualche mese prima, aveva bruciato un bel po' di milioni la banca popolare di Vicenza. Triste storia quella del crac di Bpvi. L' istituto gestito per diciannove anni da Gianni Zonin ha mandato in frantumi le ricchezze di migliaia di piccoli risparmiatori che hanno visto le azioni della banca dissolversi dai 62,50 euro a 10 centesimi. Motivi? Tanti. Dalla mancata vigilanza fino ai prestiti concessi senza controllare la reale consistenza degli beneficiari, per non parlare delle operazioni illecite. Tra le numerose vicende poco chiare c' era il meccanismo delle cosiddette operazioni baciate che ormai erano diventate la prassi. Nella sostanza Bpvi concedeva finanziamenti molto vantaggiosi a clienti "amici" che poi con una parte di quei soldi acquistavano azioni della banca. In questo modo nel bilancio dell' istituto apparivano degli aumenti di capitale dove invece nella realtà c'erano dei debiti. Scontato che un certo punto i nodi sarebbero venuti al pettine e infatti così è stato. Ecco, se il capo del governo si fosse premurato di scoprire che nella storia del fondo Athena c'era stata anche la Popolare di Vicenza forse non avrebbe prestato quel parere legale retribuito "positivo" a Fiber 4.0, società nella quale il fondo Athena di Mincione pesava per il 40%. A fine 2012 la Popolare di Vicenza - il direttore generale dell' epoca era Samuele Sorato - aveva investito 100 milioni nel fondo lussemburghese del finanziere italo-londinese. L' operazione rientrava in una politica di "diversificazione" dell' istituto di credito che prevedeva di destinare circa 450 milioni di euro in fondi speculativi. Sta di fatto che la Bce apre un' indagine sul finanziamento ad Athena - considerandolo un' operazione anomala - e che quattro anni più tardi la Popolare di Vicenza chiuderà quell' affare con una perdita di una ventina di milioni. In sostanza tornano indietro circa 80 dei 100 milioni investiti. Cosa sia stato fatto con quei quattrini non è dato saperlo. Di sicuro ci sono state anche delle operazioni immobiliari e non è da escludere che parte di quella liquidità sia servita a Mincione per comprare l' immobile londinese nel quale poi è rimasto incastrato il Vaticano. Insomma tutto torna, tranne il comportamento di Conte prima da avvocato e poi da premier. Da legale, infatti, nel rispetto delle norme sull' antiriciclaggio, avrebbe dovuto sapere chi erano i principali quotisti del fondo Athena a cui stava prestando un parere pagato 15 mila euro. Da premier, invece, avrebbe dovuto evitare che tre settimane dopo quel parere il suo governo autorizzasse il golden power su Retelit, proprio in conformità a quello che lui aveva consigliato a Mincione e compagni. Conte si giustifica evidenzindo che non ha partecipato al Cdm incriminato perché era in Canada.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 30 ottobre 2019. Sono andato a rivedermi una vecchia puntata di DiMartedì, il programma di Giovanni Floris in onda su La 7. Nel talk show di prima serata, il 28 febbraio dello scorso anno, Luigi Di Maio si presentò accompagnato da quattro aspiranti ministri. Uno era Pasquale Tridico, attuale presidente dell' Inps, un altro era Lorenzo Fioramonti, oggi ministro dell' Istruzione. Poi c'era Alessandra Pesce, sottosegretaria alle politiche agricole, e infine tra i quattro spuntò il professor Giuseppe Conte, docente all' università di Firenze e candidato a guidare la Funzione pubblica.  Il futuro capo del governo non disse grandi cose, se non di essersi avvicinato ai 5 Stelle da quattro anni, e di voler mettere al servizio del Paese la propria competenza giuridica. Tuttavia, mentre a febbraio Giuseppe Conte si diceva pronto a servire l' Italia, a maggio serviva anche un signore di nome Raffaele Mincione, ossia un finanziere impegnato in una battaglia piuttosto complicata per il controllo di Banca Carige, il principale istituto di credito della Liguria. Un servizio che, guarda caso, coincide proprio con la sua ascesa politica. Oggi, nella vicenda in cui spuntano il Vaticano e un oscuro affare milionario nella City di Londra, il premier nega di conoscere il finanziere, anche se - come vedremo - mentre stava per conquistare Palazzo Chigi firmò per lui un parere pro veritate. All'epoca del suo insediamento ai vertici della Repubblica, a denunciare il conflitto di interessi di un presidente del Consiglio al servizio di un banchiere furono proprio gli attuali alleati di Giuseppe Conte, ossia i parlamentari del Pd. Quando infatti il Consiglio dei ministri approvò in fretta e furia un decreto che introduceva misure urgenti per salvare Carige, i compagni si scatenarono. Il decreto, approvato su proposta del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, fu preso di mira da Luigi Marattin, attuale capogruppo di Italia viva, il quale chiese se il premier si fosse astenuto, essendo noti i suoi rapporti «tramite il suo socio Alpa, consigliere di Carige» con la banca, e per essere stato «consulente di Mincione». Alessia Morani, altra deputata dem, pose la stessa domanda sottolineando che «Conte è stato consulente di Raffaele Mincione, banchiere socio di Carige». E Simona Malpezzi, pasdaran renziana, rincarò parlando di «strane coincidenze» e di «conflitto d' interessi». Ovviamente non poteva mancare Michele Anzaldi, il quale scomodò addirittura il presidente dell' Anac, chiedendo a Raffaele Cantone di aprire un' indagine. A scatenare la raffica di dichiarazioni degli uomini del Pd fu il rapporto che legava e lega il premier a Guido Alpa, un professore che nel curriculum di Giuseppe Conte si incontra spesso. Innanzitutto perché Alpa fa parte della commissione che promuove Conte, facendolo diventare professore ordinario. E poi perché Conte e Alpa viaggiano spesso in coppia quando c' è da firmare un parere giuridico. Prova ne sia che è lo stesso premier a scrivere che «dal 2002 ha aperto un nuovo studio legale con Alpa», anche se poi, di fronte alle contestazioni, dice di esserne stato solo coinquilino. Che fosse socio o coinquilino poco cambia, resta il fatto che Alpa è stato consigliere di Carige e consulente legale di Mincione. E qui torniamo all'inizio, ossia all' affare milionario al centro di uno scandalo raccontato anche dal Financial Times. Di mezzo ci sono i soldi dell' Obolo di San Pietro, che invece di essere investiti dal Vaticano in opere pie finiscono per essere utilizzati per spregiudicate operazioni finanziarie. Il fondo d' investimento usato per le scorribande è quello di Mincione, che guarda caso investe in Carige e in Retelit, operatore di servizi digitali e infrastrutture. E Giuseppe Conte, l' uomo che il 28 febbraio da Floris diceva di volersi mettere al servizio del Paese, in quei giorni era invece al servizio delle società dello stesso Mincione. Infatti il 14 maggio, quando già il suo nome circolava non più come ministro della Funzione pubblica, ma addirittura come presidente del Consiglio (sarà incaricato una settimana più tardi), Giuseppi firma un parere giuridico per sostenere che il governo - di cui presto farà parte - deve esercitare la golden power, cioè bloccare la cordata di azionisti avversa a quella di Mincione. E il governo, di cui nel frattempo Conte è divenuto presidente del Consiglio, poche settimane dopo esercita proprio la golden power sollecitata dal Conte avvocato di Mincione e non ancora avvocato del popolo. Tutto chiaro? Il premier dice: non conosco Mincione e non presi parte alla riunione che deliberò l' esercizio dei poteri su Retelit, ma così il capo del governo si nasconde dietro a un dito, perché non basta uscire dalla stanza per raccontare che non esiste conflitto d' interessi. La realtà è che credo sia giunta l'ora che Giuseppi ci racconti bene i suoi rapporti con Guido Alpa, con il Vaticano e anche con alcune delle operazioni di cui abbiamo parlato in queste settimane. Non ci basta più il racconto del professore arrivato dalla Puglia e riuscito ad arrivare in alto: vogliamo sapere chi lo aiuta nella scalata e perché. In pratica, la sensazione è che finora Conte non ce l' abbia raccontata giusta. E che su di lui ci sia ancora molto da scrivere.

Tobia De Stefano per “Libero Quotidiano” l'1 novembre 2019. Verrà a riferire alla Camera il 5 novembre, ma prima il presidente del Consiglio ha preferito prendere carta e penna e scrivere al Financial Times per mettere a verbale la versione di Conte sulle accuse di conflitto di interesse per il caso Retelit, rilanciate qualche giorno fa proprio dal giornale della City. Vicenda complicata che ha la sua genesi a metà del 2018. Il 14 maggio dello scorso anno, infatti, l' allora semisconosciuto avvocato pugliese fornì una parere retribuito (15 mila euro) a Fiber 4.0, società controllata dal finanziere Raffaele Mincione attraverso il fondo Athena che oggi è sotto' indagine in Vaticano per un affare immobiliare. La consulenza riguardava la possibilità di applicare il golden power (il governo interviene per evitare che un gruppo strategico finisca in mani straniere) alla società di telecomunicazioni che gestisce più di 12mila chilometri di fibra ottica. Fiber, quindi Mincione, aveva da poco perso (il 27 aprile) la battaglia assembleare per la conquista del gruppo di tlc a vantaggio di una cordata formata dal fondo tedesco Shareholder Value e dal fondo pubblico libico del settore. E per ribaltare l' esito di quell' assemblea si stava giocando la carta dell' interesse strategico nazionale. Il problema è che il Conte avvocato una settimana dopo aver fornito quella consulenza retribuita viene incaricato a capo del governo. Due settimane dopo, il 2 giugno, giura da primo ministro. E tre settimane dopo, il 7 giugno, come secondo provvedimento del primo consiglio dei ministri del governo Lega-Cinque Stelle, fa applicare il golden power su Retelit. Da qui la domanda: c' è conflitto di interessi? Conte nega. Dice di non conoscere Mincione (che peraltro ha avuto rapporti di lavoro in Carige con il suo maestro professionale, Guido Alpa), anzi ci tiene a evidenziare di non sapere che dietro a Fiber ci fosse lo stesso finanziere italo-londinese. Cosa alquanto strana, per le norme antiriciclaggio, infatti, anche gli avvocati dovrebbero sapere chi sono i principali azionisti delle società che difendono. Ma evidentemente l' avvocato non si era informato. Poi passa alle accuse di conflitto di interessi. E chiarisce. «Quando ero impegnato a elaborare il parere non avrei potuto immaginare che, qualche settimana dopo, un governo da me presieduto sarebbe stato chiamato a pronunciarsi esattamente sulla stessa questione... Per evitare ogni possibile conflitto di interessi - ricorda il premier al Financial Times - mi sono astenuto da qualsiasi valutazione e decisione sull' esercizio del golden power. In particolare, non ho partecipato alla riunione del Consiglio dei Ministri del 7 giugno 2018, trovandomi in quel momento in Canada per il summit del G7». Nulla che non si sapesse, era questa la versione difensiva di Conte sin dal giugno dello scorso anno. Libero ha potuto consultare alcuni documenti che pongono più di un punto di domanda rispetto alla versione autoassolutoria del capo del governo. Innanzitutto sulla questione dell' assenza al Consiglio dei ministri del 7 giugno, quando è stata decisa l' applicazione del golden power su Retelit.

Primo punto. È il 20 aprile quando Mincione sottopone la questione del golden power su Retelit al governo Gentiloni che aveva perso le elezioni del 4 marzo ma era ancora in carica per l' ordinaria amministrazione. Conte, invece, fornisce il suo parere il 14 maggio, quando già sapeva (ci sono diverse dichiarazioni pubbliche che lo confermano) di essere in ballo per avere un ruolo importante - almeno da ministro della Pa - nel nuovo esecutivo gialloverde. Quindi, certo, che avrebbe potuto immaginare un potenziale conflitto di interessi.

Secondo punto. Conte evidenzia di non aver partecipato al Cdm del 7 giugno che autorizza l' applicazione del golden power su Retelit, eppure quella decisione era stata presa ben prima dello stesso 7 giugno come conferma il decreto del presidente del Consiglio che Libero ha avuto modo di consultare. Il decreto evidenzia che si era arrivati a dare il via libera al golden power in virtù dell' attività istruttoria fornita dal ministero incaricato, cioè il ministero dello Sviluppo Economico, e di un parere dell' Agcom, l' autorità per la garanzia nelle telecomunicazioni. Vuol dire che quel Cdm ha avuto essenzialmente una funzione di ratifica rispetto alle decisioni prese in un momento e in un luogo differente. Morale della favola: che Conte fosse in Canada o in Groenlandia ai fini del conflitto di interessi era sostanzialmente indifferente. Terzo punto. Da chi era stata presa quella decisione? In primis dal ministero dello Sviluppo Economico che in quel momento era guidato da Luigi Di Maio che come leader del Movimento Cinque Stelle era stato anche il principale sponsor di Conte a Palazzo Chigi. Quindi dall' autorità per la garanzia nelle telecomunicazioni, l' Agcom. Nella sua consulenza, l' autorità sostiene che Retelit «dispone di reti metropolitane (MAN) in fibra ottica, router e rete di backbone per trasporto nazionale e internazionale in misura quantitativamente apprezzabile da poter essere considerata strategica nel settore delle comunicazioni». In sostanza dà il via libera al golden power. Fatto assolutamente anomalo, però, il parere non viene firmato dal presidente o dai commissari in forma collegiale ma dal segretario generale Riccardo Capecchi. Circostanza talmente anomala da rappresentare uno degli elementi più importanti del ricorso di Retelit contro il provvedimento del governo. Nella sostanza il parere dell' Agcom sarebbe illegittimo perché il segretario svolge funzioni organizzative e non ha il potere di rilasciare pareri. Su questo si esprimeranno i giudici investiti del ricorso. Il dato politico è invece abbastanza chiaro. Viene il sospetto che l' authority - il cui presidente è nominato con decreto del Quirinale su proposta del capo del governo d' intesa con il ministro dello Sviluppo - sia stata influenzata dal parere favorevole al golden power espresso dal premier Conte e che quindi non potesse esprimersi diversamente. Magari però non era convintissima e quindi si è arrivati al compromesso della firma del segretario generale. Sarebbe una conseguenza indiretta del conflitto di interessi. Ma anche su questo aspetto il presidente del Consiglio al Financial Times non dice nulla. Speriamo sia più loquace martedì in Parlamento.

Russiagate e spie americane: guerra atomica Salvini-Conte. Il premier chiarirà sugli incontri tra gli 007. I giudici: è chiaro che i soldi del Metropol fossero destinati alla Lega. Massimiliano Scafi, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. Uno-due, diretto-gancio, è Conte il bersaglio, l'anello debole, il punchingball che la Lega ha scelto di colpire. Più di Di Maio, quasi come Renzi, adesso è lui, «l'uomo che pensa solo al ciuffo e alla poltrona», il nemico numero uno di Matteo Salvini. La manovra a tenaglia scatta al mattino, dagli schermi di Agorà. Il leader leghista spara il primo colpo sui rapporti nebulosi con gli americani e sul possibile coinvolgimento italiano nel Russiagate. «Il presidente del Consiglio usa gli 007 come una dependance, spieghi al Paese se qualcuno ha sbagliato e se ha qualcosa da nascondere». Insomma, «è uno scandalo, se il premier ha la coscienza pulita venga a riferire in Parlamento». Salvini vuole conoscere i dettagli sugli incontri dei nostri responsabili della sicurezza con il ministro Usa William Barr e il procuratore John Duhram. Dopo un po' i capigruppo Molinari e Romeo formalizzano la richiesta. «Sarebbe gravissimo - dicono - se avesse usato i servizi segreti per fini personali». Passa qualche ora ed ecco la seconda botta: il Carroccio deposita a Palazzo Madama un'interrogazione sulla carriera accademica di Conte. Barbe finte, trame internazionali, sospetti di interventi di Washington sulla svolta politica italiana. C'è un po' di tutto tra i cocci di un rapporto ormai logoro. Eppure, soltanto un mese e mezzo fa, uno era premier, l'altro ministro dell'Interno, erano alleati, avevano firmato un contratto di governo, sedevano attorno allo stesso tavolo, varavano e difendevano le stesse leggi. Sorrisi, foto, strette di mano, conferenze stampa congiunte. Non si amavano, ma nemmeno si odiavano e, al di là di qualche polemicuccia, non litigavano in pubblico anche perché era chiaro chi tra i due comandava. Poi la crisi a Ferragosto, il duro discorso di Conte in Parlamento e la nascita del governo giallorosso hanno rovesciato un mondo. Ora si detestano e il premier è diventato il nemico giurato del leader della Lega, a caccia di rivincite. E la vuole in Parlamento, dove qualche settimana fa, a metà di una torrida estate, il premier lo ha strapazzato, anche parlando del caso Russia. Proprio ieri i giudici del Riesame di Milano hanno rimarcato che dalla trascrizione dell'audio «rubato» all'hotel Metropol si evince come il «denaro fosse necessario per finanziare la campagna elettorale della Lega» e hanno respinto il ricorso presentato da Savoini per opporsi al sequestro di documenti e telefoni avvenuto il 15 luglio a casa sua. Sempre all'estate risalirebbe il viaggio segreto a Roma degli americani. «Io non sono stato informato di niente - spiega Salvini - A Ferragosto ero a Castelvolturno e Conte non mi fece nemmeno un colpo di telefono. Se neanche i vicepremier sapevano di scandali internazionali o di fondi che non si troveranno mai... Il premier spieghi se ha usato i servizi come suoi portatori di bevande». In serata fonti di Palazzo Chigi, assicurano che al presidente Conte non risulta alcuna anomalia di comportamento da parte dei vertici servizi segreti. Inoltre il premier, prima di esprimersi pubblicamente su tale vicenda, si riserva di riferire al Copasir per correttezza istituzionale. Ma ancora più scabroso per il premier potrebbe essere l'altro versante di accuse. Conte si è già difeso, ha spiegato la natura dei suoi rapporti con lo studio Alpa, ha negato possibili conflitti d'interesse. Però ora il Carroccio chiede di più. Domanda, ad esempio, «se reputi opportuno che un premier, nell'escludere un conflitto, ricostruisca i fatti omettendo di esplicitare elementi decisivi». 

"Cosa nasconde del suo passato?". Così Salvini inchioda Conte in Aula. I rapporti con Alpa, l'incarico del 2002 contro la Rai e le parcelle di Conte: ecco su cosa vuole far luce Salvini nel passato del premier. Sergio Rame, Giovedì 03/10/2019, su Il Giornale. "Venga in parlamento a chiarire... Oppure c'è qualche problemino?". Nei giorni scorsi, durante una diretta su Facebook, Matteo Salvini aveva già lanciato la bomba. Vuole vederci chiaro "su alcuni presunti conflitti di interessi e alcune presunte omissioni sulla carriera" del premier Giuseppe Conte, "sulla base di qualcosa che diceva il Pd" quando non era alleato con il Movimento 5 Stelle. Per farlo Lucia Borgonzoni ha presentato una interrogazione per ottenere delle risposte dal presidente del Consiglio sulla sua attività precedente di avvocato e docente universitario e sui rapporti con Guido Alpa.

L'interrogazione del Carroccio. La Lega vuole "se qualcuno ha qualcosa da nascondere e, per questo qualcosa, chiede protezione in Europa". "Le bugie hanno le gambe corte", ha detto Salvini nei giorni scorsi. Il punto è che a sollevare il sospetto di un conflitto di interessi era stato proprio il Partito democratico, ora al governo con l'avvocato del popolo, accendendo i fari su Alpa e sul salvataggio di Banca Carige. Per ricostruire il passato del premier l'interrogazione della Lega, come anticipato da Dagospia, parte proprio dal 2002 quando consegue l'idoneità a professore ordinario di Diritto privato in un concorso bandito dalla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Campania. All'interno della commissione giudicatrice c'è Alpa con cui, "nel corso dello stesso anno", apre uno studio legale. "Sul sito del Garante per la protezione dei dati - si legge - sono riportati i nomi di entrambi i Professori per incarichi di patrocinio in ben dieci differenti processi". Eppure, replicando a una inchiesta pubblicata da Repubblica, Conte ha assicurato che "sul piano accademico" il suo maestro è stato il professore Giovanni Battista Ferri e che ha conosciuto Alpa "diversi anni dopo", quando ormai era già ricercatore all'Università di Firenze.

I rapporti tra Conte e Alpa. "A differenza di quanto riportato - si legge nella lettera inviata al direttore di Repubblica - io e Alpa non abbiamo mai avuto uno studio professionale associato né mai abbiamo costituito un'associazione tra professionisti. Sarebbe bastato ai suoi giornalisti chiedere in giro, senza profondersi in sofisticate investigazioni, per scoprire che Alpa, all'epoca dei fatti, aveva sì uno studio associato, ma a Genova, con altri professionisti. Mentre a Roma - continua - siamo stati 'coinquilini' utilizzando una segreteria comune, che serviva anche altri studi professionali, tutti collocati nello stesso stabile, come spesso avviene nel mondo professionale, dove è frequente che diversi professionisti si ritrovino a condividere un medesimo indirizzo professionale, anche solo per economia organizzativa, mantenendo tuttavia distinte le rispettive attività professionali". Non solo. A conferma della distinzione delle attività professionali, Conte rivendica di aver stipulato un contratto di locazione per l'appartamento che si trovava al piano superiore, mentre Alpa ne aveva un altro al piano di sotto.

Il patrocinio contro la Rai. Con l'interrogazione presentata nei giorni scorsi, la Lega intende far luce anche sull'accusa di aver avuto rapporti d'affari in un incarico che risale al 2002. Si tratta del patrocinio del Garante per la privacy contro la Rai che risalirebbe a una sessantina di giorni prima dello svolgimento del concorso. Sempre nella lettera inviata a Repubblica l'8 ottobre dell'anno scorso, Conte assira che non c'è alcuna incompatibilità. "Sia io che Alpa abbiamo svolto la nostra attività quali professionisti autonomi e fatturato al nostro cliente ciascuno per proprio conto". Eppure, come ricordano gli uomini di Salvini, in un servizio televisivo andato in onda il 10 ottobre 2018, il premier ha dichiarato alle telecamere di aver fatturato separatamente da Alpa. "Il presidente del Consiglio, nell'escludere che Alpa fosse in una condizione di incompatibilità con il candidato Conte, ha dunque più volte sostenuto pubblicamente la sua totale autonomia e l'inesistenza di alcun rapporto di interdipendenza economica con Alpa".

I dubbi sul passato di Conte. A questo punto, come riportato da Dagospia, la Lega vuole sapere se Conte "può escludere che esistano progetti di parcella firmati da entrambi e su carta cointestata riferiti ai patrocini prestati al Garante per la protezione dei dati personali". Non solo. Vuole anche sapere se, "in caso contrario, come ciò possa conciliarsi con la più volte ribadita autonomia e se reputi opportuno che un Presidente del Consiglio, nell'escludere un conflitto, ricostruisca i fatti omettendo di esplicitare elementi decisivi".

Marco Antonellis per Dagospia il 3 ottobre 2019. Se ne era parlato tanto e Dagospia nelle scorse settimane aveva addirittura anticipato che era proprio questo il vero motivo per il quale Matteo Salvini, il capitano leghista, aveva fatto delle dichiarazioni alquanto sibilline ("ha qualcosa del suo passato da nascondere") riguardanti il passato del Premier Conte. Ed ora Dagospia è in grado di anticipare anche l'interrogazione parlamentare firmata dai leghisti in merito ai presunti conflitti di interesse riguardanti l'attuale Premier....

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Oggi al Senato, prima firma Lucia Borgonzoni, la Lega deposita l’interrogazione sul presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Ecco il testo.

Interrogazione a risposta scritta - Al Presidente del Consiglio dei ministri. Premesso che:

secondo quanto si legge sul sito del MIUR, nel 2002, il Prof. Avv. Giuseppe Conte, attuale Presidente del Consiglio, ha conseguito l’idoneità a professore ordinario di Diritto privato in un concorso a cattedra bandito dalla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Campania "L. Vanvitelli", la cui commissione giudicatrice vedeva al suo interno il Professor Guido Alpa;

nel corso dello stesso anno, il Prof. Conte "ha aperto con il prof. avv. Guido Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al diritto civile, al diritto societario e fallimentare", secondo quanto si legge testualmente nel curriculum vitae inviato alla Camera dei Deputati nel 2003, per la candidatura alle elezioni a componente del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa;

sul sito del Garante per la protezione dei dati sono riportati i nomi di entrambi i Professori per incarichi di patrocinio in ben dieci differenti processi a partire del 2002, con inizio sempre nello stesso giorno, ma non sempre liquidati contestualmente;

di fronte all'inchiesta pubblicata in data 6 e 7 ottobre 2018 dal quotidiano La Repubblica in cui si legge che il Presidente del Consiglio sarebbe stato promosso dal maestro e socio di studio Prof. Alpa, con il quale lavorava e aveva rapporti d'affari, e che lo stesso, pochi mesi dopo, fu il suo commissario esaminatore, il Prof. Conte ha risposto con una lunga lettera al Direttore della testata in oggetto replicando innanzitutto che "sul piano accademico" il suo maestro sia stato il Prof. Giovanni Battista Ferri e che avrebbe conosciuto il Prof. Alpa "diversi anni dopo", quando ormai era già ricercatore all'Università di Firenze;

in merito alla loro presunta associazione nello stesso studio legale, il Presidente del Consiglio scrive: " A differenza di quanto riportato, io e il prof. Alpa non abbiamo mai avuto uno studio professionale associato né mai abbiamo costituito un’associazione tra professionisti. Sarebbe bastato ai suoi giornalisti chiedere in giro, senza profondersi in sofisticate investigazioni, per scoprire che Alpa, all’epoca dei fatti, aveva sì uno studio associato, ma a Genova, con altri professionisti. Mentre a Roma siamo stati “coinquilini” utilizzando una segreteria comune, che serviva anche altri studi professionali, tutti collocati nello stesso stabile, come spesso avviene nel mondo professionale, dove è frequente che diversi professionisti si ritrovino a condividere un medesimo indirizzo professionale, anche solo per economia organizzativa, mantenendo tuttavia distinte le rispettive attività professionali. Peraltro, a conferma della distinzione delle attività professionali vi è il fatto che io ho stipulato un contratto di locazione per l’appartamento sito al piano superiore e Alpa per l’appartamento sito al piano inferiore, entrambi a Roma, in piazza Benedetto Cairoli 6.";

riguardo, invece, l'accusa di aver avuto rapporti in affari nell'incarico del 2002 per il patrocinio del Garante privacy contro la Rai, già sessanta giorni prima dello svolgimento del concorso, il Prof. Conte replica: "Verissimo. [...] Quale sarebbe la ragione di questa incompatibilità visto che sia io che Alpa abbiamo svolto la nostra attività quali professionisti autonomi e fatturato al nostro cliente ciascuno per proprio conto?";

sempre il merito all'incarico del 2002, in un servizio televisivo andato in onda il 10 ottobre 2018, Il Presidente del Consiglio ha dichiarato alle telecamere di aver fatturato separatamente dal Prof. Alpa;

Il Presidente del Consiglio, nell’escludere che il Prof. Avv. Alpa fosse in una condizione di incompatibilità con il candidato Conte, ha dunque più volte sostenuto pubblicamente la sua totale autonomia e l'inesistenza di alcun rapporto di interdipendenza economica con il Prof. Avv. Alpa;

si chiede di sapere: se il Presidente del Consiglio può escludere che esistano progetti di parcella firmati da entrambi e su carta cointestata riferiti ai patrocini prestati al Garante per la protezione dei dati personali;

se, in caso contrario, come ciò possa conciliarsi con la più volte ribadita autonomia e se reputi opportuno che un Presidente del Consiglio, nell'escludere un conflitto, ricostruisca i fatti omettendo di esplicitare elementi decisivi.

Marco Menduni per “la Stampa” il 2 novembre 2019. «Giuseppe Conte vuole sempre mantenere il ruolo di super partes nelle coalizioni di cui è stato premier, ma prima o poi sarà costretto a schierarsi». Guido Alpa, uno dei più importanti avvocati italiani, l' ex presidente del Consiglio nazionale forense, ordinario di diritto civile alla Sapienza, è considerato il "padre" professionale del premier. Una delle persone, da sempre, a lui più vicine. Anche oggi, i due continuano periodicamente a sentirsi. «Lui - racconta Alpa - è molto impegnato. Però rivelo una cosa: mi chiama la domenica, per chiedermi come sto, come mi vanno le cose. Non gli do alcun consiglio, non ne ha bisogno». La politica è un argomento di conversazione? «No, non ne parliamo mai. Anche perché la pensiamo diversamente, io sono sempre stato socialista e morirò socialista». Però oggi Conte guida un esecutivo dalle tinte diverse dal passato: fuori la Lega, dentro il Pd. Alpa ne è convinto: «Ad un certo punto - ribadisce - si dovrà schierare». Sin dall' inizio della carriera politica del premier le attenzioni dei detrattori si sono concentrate sui rapporti con Alpa. Anche nelle ultime settimane, con la vicenda del parere legale per l' affare Retelit, che s' intreccia con le attività del finanziere Raffaele Mincione e con la vicenda Carige. Ma in precedenza con le polemiche sul curriculum di Conte, sul suo concorso universitario, per arrivare ai rapporti dello stesso Alpa con la Link, l' Università messa in piedi dall' ex ministro democristiano Enzo Scotti, salita agli onori della cronaca mondiale per la scomparsa di Joseph Mifsud, uomo chiave del Russiagate.

Qual è la sua impressione sulle polemiche che coinvolgono il suo nome?

«La più semplice è che vogliano colpire me, per colpire il premier. E' penoso vedere come siano costruite ad arte fake news sulla base di una tecnica semplicistica, l' associazione casuale di immagini e parole. Questa tecnica è stata condannata dalla corte di Cassazione, già dal 1984».

Partiamo dai rapporti con Mincione. Prima della questione Carige vi conoscevate già?

«Fino a poche settimane precedenti l' assemblea di Carige (il 20 settembre, ndr) non conoscevo Mincione, non l' avevo mai incontrato né avevo avuto modo di interessarmi alle sue attività».

Come andò il vostro incontro?

«Mi chiese assistenza professionale e io lo aiutai, sia in giudizio, sia nel corso dell' assemblea. Dopo quella vicenda non l' ho più incontrato. È del tutto improprio quindi accostare il mio nome a Mincione nella vicenda degli acquisti immobiliari a Londra da parte del Vaticano».

Conte ha detto di non aver mai avuto contatti diretti con i vertici del fondo di Mincione nella vicenda Retelit. Qualcuno ha sospettato che la pratica possa avergliela girata lei.

«Non è andata così. Io ho conosciuto Mincione due settimane prima dell' assemblea di Carige. L' incarico a Conte è precedente. Poi c' è un altro elemento».

Quale?

«Il segreto professionale. Anche con un amico, con il collega vicino di stanza. Sono stato presidente del Consiglio nazionale forense che si occupa di deontologia, è assurdo pensare che l' abbia potuta violare».

C' è poi la vicenda della Link, l' università del Russiagate.

«Ho accolto l' invito della Link a far parte di un comitato scientifico per la pubblicazione di una collana editoriale, ma l' associazione tra Link e Russiagate ha fatto sì che i giornali insinuassero che ero coinvolto in questa vicenda! Non c' entro nulla e non ne so nulla».

Ha mai conosciuto o almeno incontrato Mifsud?

«No, non l' ho mai visto»

Anche sul concorso universitario si sono concentrati gli oppositori del premier...

«La commissione era stata estratta a sorte: era composta da me e da altri quattro membri. Data la mia giovane età non ne ero il presidente. Conte ebbe l' unanimità dei giudizi positivi. Anche se non lo avessi votato, avrebbe avuto quattro voti e gli altri candidati ne ebbero zero: Conte avrebbe vinto egualmente. Tutte le illazioni sul concorso sono infondate».

Siete mai stati soci, lei e il professor Conte? Ci sono le foto delle targhe sul portone che riportano entrambi i vostri nomi.

«Chiarisco che io ero associato fino a qualche anno fa con un valoroso avvocato genovese (Tommaso Galletto e infatti lo studio professionale era conosciuto come Alpa-Galletto, ndr). Quindi non potevo essere membro di un' altra associazione; basta leggere la disciplina della professione forense per rendersene conto. Avevo ed ho studio a Genova e ho anche una sede romana. In quella sede eravamo semplici coinquilini».

Nei giorni scorsi un giornale ha pubblicato la parcella per il parere legale di Giuseppe Conte in merito alla tentata scalata di Mincione alla società Retelit. L' indirizzo è lo stesso di quello del suo studio.

«Nulla di strano. Ripeto: eravamo coinquilini, ma due attività separate».

Tutte queste vicende hanno acceso una particolare attenzione nei suoi confronti...

«Sono stato perseguitato dalla troupe di una trasmissione televisiva, mi hanno aspettato alla fine della lezione per aggredirmi. Sono venuti all' aeroporto di Fiumicino alle 23.30, una sera in cui ero di ritorno da Parigi dopo aver cambiato volo. Chi li avesse informati del mio arrivo quel giorno e a quell' ora non l' ho mai accertato, è uno dei tanti misteri del nostro Paese».

Quale effetto le fa constatare come Conte da "taroccatore di curriculum" sia diventato uno dei personaggi centrali della politica?

«Il suo curriculum è del 1994. Vi si dice che il Premier ha completato i suoi studi alla New York University. Il giornalista del NY Times ha equivocato il significato: ha ritenuto che il premier si volesse arrogare il merito di aver insegnato o seguito i corsi di quella prestigiosa Università. Non è così: ha svolto ricerche, perché come ho fatto io negli anni Settanta, è solo frequentando le Università straniere che si possono leggere libri, riviste, fare fotocopie, di cui non sono dotate le biblioteche italiane».

Conflitto d'interessi e memoria corta. Francesco Maria Del Vigo, Martedì 03/09/2019, su Il Giornale. Ci sono due paroline che per anni sono state una vera e propria ossessione della sinistra italiana: conflitto d'interessi. Una clava utilizzata per un ventennio contro Silvio Berlusconi e le sue aziende. E ora che fine ha fatto? Il conflitto d'interessi è rispuntato come un fiume carsico nei 20 punti che Luigi Di Maio ha messo sul tavolo dei dem per dar vita al mostro giallorosso. Ma in realtà il Pd non ha mai mollato l'osso e anche all'inizio di questa legislatura è tornato a battere sul tema. Indovinate chi c'era questa volta nel mirino? Davide Casaleggio e la piattaforma Rousseau. Lo scorso maggio, durante una conferenza stampa, Graziano Delrio, Emanuele Fiano e Francesco Boccia presentano una proposta di legge sullo spinoso tema del conflitto d'interessi digitale. Per i grillini è chiaramente una mossa per far fuori Casaleggio, ma i deputati dem argomentano in modo diverso: «È evidente il conflitto di interessi in cui si trova Casaleggio associati che controlla Rousseau e controlla mezzo Parlamento e più di mezzo governo. Sarebbe in conflitto di interessi e sarebbe anche sanzionabile - spiegava Boccia -. La nostra norma prevede che se le piattaforme appartengono a partiti politici devono essere open source e con algoritmi trasparenti. Il non rispetto di queste norme comporta l'ineleggibilità a meno che non si lasci la guida di queste società tre anni prima di candidarsi. È un conflitto di interessi macroscopico. Noi non ce l'abbiamo con Casaleggio. Faccia business oppure diventi capo politico e adotti una piattaforma open source». Inappuntabile.

Preciso. Solo che adesso il Partito democratico ha un conflitto d'interessi proprio sul conflitto d'interessi. Perché sarà proprio Rousseau a decidere se il matrimonio giallorosso s'ha da fare e, quindi, se i dem torneranno ancora una volta al governo senza passare dalle urne. Dalle urne reali, ovviamente, perché adesso quelle virtuali, opache e taroccabilissime di Rousseau vanno benissimo. Non si sono levate grida di protesta da parte della sinistra contro questa prassi quantomeno anomala: il Presidente della Repubblica, il destino del governo e della cosa pubblica sono appesi a una votazione su una piattaforma privata, gestita unilateralmente dal padre padrone di uno dei partiti in gioco e, per giunta, già sanzionata dal Garante per la privacy. Praticamente un Far West, un sistema talmente oscuro da far passare per specchiate le famose primarie del Pd nelle quali votavano anche i morti e frotte di cinesi ingaggiati alla bisogna. E al Nazareno cosa dicono? Tutti zitti. Non si sa mai che perdano l'occasione di arraffare qualche poltrona. Le vestali della Costituzione dormono sonni profondi, non è tempo di girotondi in nome della democrazia. E anche i grillini possono stare sereni: difficilmente il Pd riaprirà il caso. Il conflitto d'interessi ora è sparito, non esiste più. Adesso anche il Pd si è inginocchiato alla democrazia (etero)diretta di Grillo e Casaleggio.

Le "coincidenze" della famiglia Casellati. Il Fatto racconta l'incrociarsi dei viaggi del presidente del Senato e le carriere dei figli. Il Fatto Quotidiano: "Visite a chi sostiene il blog della sua primogenita e onorificenze a chi fa esibire il figlio direttore d'orchestra". HuffPost il 14/04/2019. Una lunga scia di "coincidenze" tra il ruolo del presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e le carriere professionali dei suoi due figli, Alvise e Ludovica. Vengono messe in fila da un articolo del Fatto Quotidiano che racconta come la carriera dei due figli, uno ex avvocato d'affari a New York oggi direttore d'orchestra, l'altra ex dipendente di Publitalia, la concessionaria pubblicitaria di Mediaset, oggi "appassionata di cicloturismo" creatrice della società, Green Life, che edita il blog Viaggi in bici. "Oggi Casellati rientra da un viaggio in Colombia con una doppia tappa, la capitale Bogotà e poi Cartagena", racconta il Fatto, e ha "consegnato l'onorificenza di commendatore della Stella d'Italia a Julia Salvi, fondatrice e direttrice del Festival musicale di Cartagena". Secondo il Fatto, "Salvi ha meritato la Stella d'Italia anche perché ha manifestato lungimiranza artistica con l'invito al Festival del maestro Alvise Casellati, che s'è esibito lo scorso gennaio in plaza de San Pedro Claver a Cartagena". Non è l'unica "coincidenza": Un lasso di tempo più esiguo ha diviso il concerto di Alvise a Baku, in Azerbaigian, e la visita di Casellati. Alvise era in cartellone il 5 ottobre 2018, la presidente è sbarcata il 18, tre mesi dopo Sergio Mattarella, per una forma di diplomazia pleonastica: la prima e la seconda carica dello Stato che omaggiano la Repubblica azera a stretto giro. Agende più clementi negli Stati Uniti. In missione tra Washington e New York, il 3 luglio 2018, dopo un pranzo da Eataly, Casellati si è ritrovata un pomeriggio libero e così l'ha riempito con una gita a Central Park per assistere a Opera italiana is in the air del maestro Alvise, un evento gratuito per allietare la comunità italiana con Verdi, Rossini, Puccini, finanziato da Eni, Eataly, Banca Intesa, alimenti Cremonini, costruzioni Pizzarotti, Banca Intesa. Il Fatto riporta come sul mensile delle Frecce delle Ferrovie dello Stato, nel numero di dicembre, la Freccia dia spazio a una intervista di tre pagine sempre ad Alvise. Il giornale diretto da Marco Travaglio ricorda quindi il "buon legame" tra la Casellati e l'ad di FS Gianfranco Battisti, ricevuto a Palazzo Madama in ottobre. Alvise, "per rendere edotti i colleghi, spiega che compra il frac da Brooks Brothers, però non cede alla volgarità di precisare che Brooks Brothers ha pagato Opera italiana is in the air". Le "coincidenze" riguardano però anche la figlia di Casellati, Ludovica: "La Freccia di aprile propone un testo di una scrittrice emergente, Ludovica Casellati: Compagna di viaggio, la bicicletta. L'occasione è buona per promuovere il libro di Ludovica e per segnalare i "bike hotel" più suggestivi. Per questioni di eleganza, la Freccia non avvisa il lettore che tra le strutture menzionate ci sono pure quelle del circuito "Luxury Bike Hotel" di Ludovica". Riporta sempre il Fatto: Viaggi in bici, dal 2017, organizza il premio "Urban Award" per la "mobilità dolce" in città, patrocinato dal ministero dell'Ambiente. [..] Viaggi in bici fa parte di Green Life, una società che fattura 55.606 euro (bilancio 2017), eppure è riuscita a suscitare l'interesse di sponsor facoltosi, come Acea Energia e Fondazione Iseni Y Nervi. Come ammette con sincerità Ludovica, "Urban Award" esiste perché la Fondazione Iseni del gruppo sanitario Iseni lo sostiene con affetto. Un affetto reciproco. Il 24 maggio 2018, Casellati ha benedetto la riforma grafica del portale Malpensa 24 di Iseni Editore e incontrato, accompagnata da Ludovica, il patron Fabrizio Iseni, giurato di "Urban Award". Il 2 ottobre, la Fondazione ha presentato in Senato il settimo congresso nazionale, che si è tenuto a Saint Vincent, delle "giornate cardiologiche".  

Da Libero Quotidiano il 6 ottobre 2019. In pochi minuti nelle tasche di Elisabetta Alberti Casellati sono finiti 200mila euro netti. Soldi dovuti, sia chiaro, ma al Fatto quotidiano saltano sulla sedia e s'indignano. La questione è il vitalizio maturato dalla forzista, presidente del Senato, nei "tre anni e spicci" in cui ha lasciato il Parlamento in quanto "membro laico del Consiglio superiore della magistratura". In ballo c'è "il divieto di cumulo tra la pensione da senatrice e lo stipendio che gli ha versato ogni mese il Csm" (eletta nel 2014, si era dimessa in anticipo per ricandidarsi alle politiche 2018), un divieto contro cui si è espresso il Consiglio di Garanzia di Palazzo Madama e per questo al Fatto parlano già di "conflitto d'interessi". A scongelare il vitalizio inizialmente negato alla Casellati è stato dunque l'organo formato da Bruno Alicata (presidente, di Forza Italia come lei), Salvatore Torrisi (poi passato con Angelino Alfano), Giuseppe Cucca e Rosanna Filippini (Pd) e Francesco Molinari (M5s, poi passato a IdV). Una lunga battaglia con l'amministrazione di Palazzo Madama terminata con la sentenza che dichiara "illegittimo l'articolo 6 del Regolamento" perché "il divieto di cumulo tra l'assegno vitalizio riconosciuto ai senatori cessati dalla carica non può legittimamente operare nel caso in cui l'incarico attribuito all'ex senatore sia privo di connotazione politica e presupponga, invece, l'assoluta indipendenza del soggetto nominato dal potere politico", proprio come la poltrona da membro laico del Csm presuppone.

·         La Perdita di Sovranità.

Italia, un paese a sovranità europea. La Ue prometteva 70 anni di prosperità. Pura mitologia che è ora di sfatare e cambiare. Mario Giordano il 20 settembre 2019 su Panorama. Angela Merkel che telefona al premier perché non gli piace il nostro ministro degli Esteri. Il ministro dell’Economia vidimato Ue (è stato uno dei padri del Fiscal compact, la formula responsabile dello strangolamento della nostra economia). Pierre Moscovici che applaude. I commissari europei che festeggiano. Il nuovo governo italiano nasce sotto il segno della casta europea. E intanto in Gran Bretagna, nonostante il voto popolare di tre anni fa, la Brexit è sotto scacco. Due eventi che fanno sorgere la medesima domanda: schiavi di Bruxelles Iddio ci creò? Addio democrazia: comanderà per sempre l’oligarchia Ue? Saremo in eterno sottomessi alla dittatura dei palazzi europei? Ma sì: tiriamo giù il velo d’ipocrisia. Noi non siamo più un Paese sovrano. O meglio, siamo un Paese a sovranità limitata. E secondo molti questo è un giusto castigo: ce lo siamo meritati, perché siamo stati cattivelli, abbiamo fatto le marachelle, abbiamo fatto crescere il debito pubblico, abbiamo consumato più di quello che dovevamo. E dunque adesso dobbiamo chiedere scusa, stare in ginocchio sui ceci, prostrandoci tre volte al giorno nella direzione di Ursula von der Leyen. Perché, in fondo, l’europeismo non è altro che questo: una resa incondizionata. Come a dire: noi non siamo capaci, meglio che a governarci ci pensi qualcun altro. Il ragionamento non è privo di fascino. E, per altro, anche di un fondo di verità. Figuriamoci se non riconosciamo (li denunciamo da decenni) i difetti del nostro Paese. Figuriamoci se non riconosciamo (li denunciamo da decenni) i difetti di chi lo ha governato, quasi sempre pensando più agli interessi suoi che a quelli dei cittadini. Però, ecco, siamo degli incredibili nostalgici. E restiamo convinti che, nonostante i difetti conclamati dell’italico caravanserraglio, quello per cui i nostri padri e i nostri nonni e i padri dei nostri nonni si sono sacrificati e battuti, spesso offrendo la loro stessa vita, non può essere questo nostro Paese trasformato nello scendiletto di Bruxelles. Non può essere un’Italia che ha meno autonomia di un burattino nel teatro di Mangiaeurofuoco. Conosco quali sono le frasi di rito per ogni discussione che arriva a questo punto. L’Europa ci ha regalato 70 anni di pace, l’Europa ci regala la stabilità economica. Non sono vere né l’una né l’altra. A regalarci 70 anni di pace è stata la Nato, non certo l’Ue che per altro è assai più recente. E che nei confronti della pace non ha nemmeno mai mostrato un talento specifico (per informazioni chiedere Sarajevo o Libia). E per quanto riguarda la stabilità economica, beh, non scherziamo: l’Ue, contrariamente a quello che ci avevano promesso, non ci ha per nulla protetto dalle grandi crisi internazionali. Ha applicato politiche sbagliate, ha richiesto austerity in modo eccessivo, ha provocato lacrime, sangue, morti di bambini (vedi Grecia) e suicidi di imprenditori (vedi Italia). Come uno di quegli argini costruiti male, anziché fermare l’onda, ha aumentato a dismisura la sua capacità di devastazione. Eppure, nonostante tutto ciò, ogni tentativo di cambiare l’Ue sembra infrangersi clamorosamente. I palazzi dell’establishment si sono arroccati, e resistono. Ripetono gli errori, replicano i modelli farlocchi, continuano nei percorsi che hanno trasformato il sogno europeo in un incubo (si veda il modo in cui è stata eletta alla presidenza della Commissione Ursula van der Leyen). Ma nulla sembra scalfirli. Vuoi fare la Brexit? Finisci arrosto. Vuoi sfidare le regole Ue? Finisci al Papeete. O ti adegui, come hanno fatto i Cinque stelle, oppure vieni massacrato. Perché tutto si può cambiare, ma non il fatto che le decisioni importanti si prendono lassù. A Palazzo Berlaymont.Schiavi di Bruxelles Iddio ci creò, per l’appunto. Dicono che nella sfida globale si resiste solo se si è abbastanza grandi. Balle. Il Giappone è forse grande? E il Qatar? La verità è che quello che stiamo assaggiando è il frutto avvelenato di una scelta politica, di un disegno preciso. Non c’è nulla di male, per carità. Il mondo va avanti così, attraverso scelte e disegni. I quali, però, possono essere giusti o sbagliati. Ecco: noi siamo rimasti intrappolati dentro un disegno sbagliato che distrugge la nostra storia, le nostre tradizioni, il nostro amor patrio, la nostra sovranità. Senza nemmeno un’adeguata contropartita. Chi ci ha portato fin qui andrebbe processato davanti ai tribunali della storia. Intanto speriamo che prima o poi qualcosa accada. Perché la medesima storia dimostra che i disegni sbagliati non resistono a lungo. O cambiano. O crollano.

La verità non detta da Conte: le influenze esterne ci sono eccome. Lorenzo Vita su it.insideover.com il 10 settembre 2019. “Difendere l’interesse nazionale non significa abbandonarsi a sterili ripiegamenti isolazionistici, ma mettere la propria Patria al di sopra di tutto e non farsi mai condizionare da pressioni di poteri economici e da indebite influenze esterne”. Le parole di Giuseppe Conte sono riecheggiate nell’aula della Camera dei deputati durante il discorso per la fiducia. E sono parole che, riferite durante il discorso sull’Europa e i rapporti dell’Italia con l’Unione europea, sembrano voler dire che il governo Conte-bis non si piega e non si piegherà di fronte a esigente esterne. Parole sicuramente affascinanti, ma la realtà è un’altra. Il governo Conte 2, come tutti i governi italiani, non può non sottostare a influenze esterne che ne decidono le sorti. E anzi, questo nuovo esecutivo giallorosso è chiaramente il frutto anche di influenze dall’esterno. Oltre che da evidenti scelte di natura politica da parte della Lega di Matteo Salvini. Impossibile non riconoscere le influenze esterne nel momento in cui tutti i leader europei benedicono la nuova compagine di governo. Emmanuel Macron si è augurato che Salvini fosse fuori dal nuovo esecutivo italiano così come non sono da dimenticare tutti gli attacchi del presidente francese per la linea “sovranista” intrapresa da Roma mentre la Lega era alleato di governo. Nel momento in cui la crisi si è fatta acuta e in cui era impossibile non andare allo scontro, l’Eliseo ha blindato l’asse con Eliseo e Partito democratico e ricucito i rapporti con Conte e con quel Movimento 5 Stelle che aveva esaltato i gilet gialli. Nello stesso periodo, Angela Merkel ha fatto di tutto per mostrare l’apprezzamento della sua Germania verso la nuova esperienza governativa in Italia. La sua stima personale verso il premier si è unita alla volontà di escludere il Carroccio dal nuovo esecutivo. Con quella ormai famosa immagine della cancelliera che parla con il presidente del Consiglio sui sondaggi e sulla Lega che rischia di essere un simbolo perfetto della nuova alleanza tra Berlino e Roma. La Germania guida dell’Unione europea ha ottenuto la sua garanzia. i conti a posto e un uomo come Conte che ha un rapporto estremamente positivi con l’establishment tedesco. Influenze esterne, dicevamo. Le stesse che hanno visto scendere in campo tutta l’Unione europea. Ursula von der Leyen, eletta anche grazie al sostegno dei pentastellati, ha da subito chiarito le aspettative della nuova Commissione europea. L’Italia doveva essere a guida giallorossa. E la nomina di Paolo Gentiloni agli Affari economici è stato un ulteriore step di questo commissariamento europeista del governo italiano in cui tutti i rapporti tra Italia ed Europa sono stati blindati con uomini del Pd, sia a Roma che nei palazzi dell’Unione europea. Bruxelles ha così deciso di soffiare sul vento della crisi politica per ribaltare il tavolo, e le pressioni da parte di Bruxelles hanno fatto il resto. Conte ha ricevuto il sostegno dei leader europei e dell’Unione europea. E in poche settimane, il Movimento ha cambiato forma: da populista e garante della stabilità europea ha ricostruito i rapporti con l’Europa. Mentre i grandi fondi di investimento e i mercati hanno brindato alla nascita di questo nuovo esecutivo con un tasso dello spread sempre più basso e promettendo aperture sul fronte finanziario. Altro che “mai farsi condizionare da poteri economici”, come ricordava Conte a Montecitorio. Pressioni finite? Assolutamente no. Uscendo dal perimetro dell’Unione europea è del tutto evidente che a Roma siano arrivati semafori verdi, endorsement e richieste da parte delle maggiori potenze mondiali per il cosiddetto Conte-bis. Donald Trump, presidente degli Stati Uniti ma soprattutto presidente della maggiore potenza della Nato e a cui l’Italia è legata a doppio filo, ha pubblicamente elogiato il premier con un tweet ormai passato alla storia per “Giuseppi”. Ma quel messaggio era molto più importaste: indicava che Trump dava semaforo verde a un nuovo governo con la garanzia che fosse proprio Conte a guidarlo. Il Pd e il Movimento Cinque Stelle non hanno mai nascosto di essere particolarmente attratti dalle sirene orientali, da quella Via della Seta che Xi Jinping vuole che arrivi in Europa passando per l’Italia. E per questo motivo, Conte ha fatto subito capire di aver ricambiato il favore personale di The Donald con una mossa chiarissima: l’approvazione del Golden Power sul 5G cinese. Uno smacco a Huawei e Zte che ha irritato enormemente Pechino, tanto che dall’agenzia Xinhua è arrivato un messaggio assolutamente poco lusinghiero nei confronti di Luigi Di Maio, definito sostanzialmente inadatto al suo ruolo. A Pechino avevano accolto con favore il nuovo asse Pd-5S. Ma queste prime decisioni non sono piaciute. Influenze esterne ci sono state eccome, quindi. Tanto è vero che le prime mosse di Conte (dal cdm, sul Golden Power all’arresto della presunta spia russa Aleksandr Korshunov a Napoli e su richiesta degli Stati Uniti) hanno scatenato già le prime reazioni da parte delle superpotenze. Conte può raccontare che le influenze non ci sono: ma questo governo nasce (e reggerà) anche grazie ad esse.

Il Pd domina in Europa e non si capisce come mai. Gentiloni Commissario agli Affari Economici è l'ennesima poltrona europea andata ad un partito in crisi di voti ed identità ma potentissimo a Bruxelles. Anna Migliorati il 10 settembre 2019 su Panorama. Se il governo giallo verde dichiarò guerra alla Commissione europea e alle sue regole, il capovolgimento estivo è palpabile con il nuovo esecutivo Conte-bis che più che trattare con l’Europa sembra averla disegnata a sua misura. Meglio ancora, con la componente del Partito Democratico a occupare le caselle del puzzle sull’asse tra Roma e Bruxelles. Perché è il Pd ad avere in mano in questo scacchiere una serie di posti chiave dove si prenderanno le decisioni, soprattutto in tema economico. Paolo Gentiloni, ex premier, ha strappato il portafoglio di peso della Commissione per gli Affari Economici anche grazie al suo ruolo precedente, visto che tutti gli ex premier di paesi membri in Europa hanno sempre avuto la presidenza della Commissione, da Prodi a Barroso fino a Juncker. E portare un ex capo di governo in seno all’Europa ha un peso politico. A trattare con la Commissione in cui Gentiloni avrà il portafoglio economico andrà il ministro per gli Affari Europei Vincenzo Amendola, anche lui del Pd, affiancato dal titolare dell’economia Roberto Gualtieri, Pd anche lui, eurodeputato di lungo corso (dal 2009 sedeva a Strasburgo e considerato tra i tre europarlamentari più influenti in Europa). Era consigliere economico dello stesso Gentilioni quando era al governo ed eletto solo nel luglio scorso presidente della commissione Affari economici e monetari del Parlamento europeo, incarico che ha lasciato proprio per diventare ministro in Italia. Come dire, un tavolo apparecchiato per rendere la trattativa più amichevole di quanto non lo sia stata negli ultimi mesi. Segno che sui rapporti con l’Europa la componente dem del governo punta molto. Non a caso la prima prova di alleanza tra Pd e M5s è avvenuta proprio nell’emiciclo di Strasburgo. Dove a farla da padrone è sempre il Pd tra le componenti italiane. La Lega, dopo aver vinto le elezioni nel gioco di alleanze europee, è andata in minoranza e non ha portato a casa nessuna poltrona. Il Pd, invece, ha ottenuto il seggio del presidente del parlamento europeo con David Sassoli. Ma sempre del Pd era, proprio con Gualtieri, la presidenza della commissione economica e monetaria. All’ex presidente del parlamento europeo Antonio Tajani è andata la presidenza della commissione Affari costituzionali ma il suo vice è un altro italiano apertamente di sinistra, l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Sempre Pd altri vicepresidenti di commissioni del parlamento europeo “di peso”: Patrizia Toia all’Industria, ricerca e energia, Caterina Chinnici al Controllo del bilanci, Giuseppe Ferrandino alla Pesca e Piero Bartolo alle Libertà civili, giustizia e affari interni, la commissione che ha la delega sulle politiche dell’immigrazione e che dovrà pronunciarsi su un’eventuale riforma del trattato di Dublino. Insomma, trattare in casa è la nuova strategia. Segno che dopo il voto, le caselle si assegnano in parlamento.

Federico Fubini per il ''Corriere della Sera'' l'11 settembre 2019. Non è non è e non sarà un giubileo. Sarà un test di lungimiranza, ancora tutto da superare. La nomina di Paolo Gentiloni come commissario Ue per l' Economia non significa che per l' Italia inizia un periodo nel quale sarà esente dalle regole. E il fatto che un ex premier italiano del Pd rappresenti la prima linea della vigilanza su un governo con un ministro dell' Economia del Pd, Roberto Gualtieri, non lascia né all' uno né all' altro le mani libere. Piuttosto, Gentiloni avrà bisogno di tutto il suo tatto e peso intellettuale per perseguire un duplice obiettivo: sospingere l' area euro verso politiche che non ripetano gli errori del passato e l' Italia - a parità di deficit - verso scelte che non puntino a fiammate di consenso ma a gettare le basi di un' economia più vitale. Ursula von der Leyen, presidente entrante della Commissione, ha subito intravisto un rischio nella richiesta italiana di dare a Gentiloni l' incarico che oggi è di Pierre Moscovici. In molti l' avrebbero accusata di innescare un conflitto d' interessi: l' ex premier dello Stato dal deficit più alto dopo Francia e Spagna, dal debito più alto dopo la Grecia, quello che cresce meno in assoluto, a guardia di un governo che include il suo stesso partito. La tedesca ha sciolto il dilemma in stile cristiano-democratico, senza scontentare nessuno. Il commissario Gentiloni coprirà le materie che chiedeva, anche più numerose e promettenti di quelle affidate oggi a Moscovici. Ma Valdis Dombrovskis, ex premier lettone e già oggi vicepresidente a Bruxelles piuttosto propenso al rigore di bilancio, su quelle stesse materie diventa «vicepresidente esecutivo». È una sottile differenza rispetto al passato. Anche con Juncker i vicepresidenti c' erano, ma avevano funzioni di «coordinamento». Con von der Leyen invece tre di loro diventano «esecutivi» - ha scritto la tedesca nelle lettere di missione - con potere di «gestire le aree politiche». Significa che l' ex premier di un Paese fondatore e di un' economia da 1750 miliardi di euro dovrà riportare all' ex premier di un Paese entrato nell' Unione europea 15 anni fa e di un' economia da meno di 50 miliardi di euro. Il primo avrà bisogno dell' assenso del secondo. In parte è il prezzo che Gentiloni paga per l' essere stato nominato per ultimo nel ruolo a Bruxelles, per le note vicende, da un Paese che resta oggetto di timori e diffidenza per la debolezza cronica della sua economia. Per Gentiloni e al suo Paese si aprono però due finestre preziose. Nella sua nuova posizione, l' ex premier alla prova dei fatti finirà per incidere sul sistema europeo in misura del peso specifico e della qualità politica della sua presenza. Lui stesso dev' esserne consapevole e per questo non sembra preoccupato di avere un «vicepresidente esecutivo» accanto a sé. Quanto all' Italia, nella lettera di missione a Gentiloni von der Leyen sembra indicare una strada: con la prossima Commissione sarà probabilmente più facile accettare certi livelli di deficit fra il 2% e il 3% del Pil se le risorse vengono usate per tagliare i nodi indicati da Bruxelles, quelli che paralizzano il Paese da anni. Investire in tribunali delle imprese per una giustizia più rapida e certa non è inutile come gettare le stesse somme nel calderone della spesa corrente. Offrire sgravi per le tecnologie in azienda o l' assunzione di giovani qualificati, prima che fuggano all' estero, non è come riesumare le baby pensioni. Qui il ruolo di guida e mediazione del commissario italiano può diventare prezioso. Sempre che qualcuno a Roma trovi il tempo di dargli ascolto.

Beda Romano per Il Sole 24 ore il 10 settembre 2019. A poco meno di due mesi dal voto di fiducia ottenuto a Strasburgo a metà luglio, la presidente eletta della Commissione europea Ursula von der Leyen ha presentato martedì a Bruxelles la nuova squadra di commissari. Rispetto all’esecutivo comunitario guidato da Jean-Claude Juncker, l’ex ministra della Difesa tedesca ha introdotto non pochi cambiamenti. All’ex premier Paolo Gentiloni è stato affidato un non meglio precisato portafoglio dedicato all’economia. «La mia Commissione è equilibrata da un punto di vista politico, geografico e di genere – ha detto in una conferenza stampa la presidente eletta von der Leyen –. Voglio che la Commissione guidi l’Europa con determinazione, offrendo risposte alle domande dei nostri cittadini».

I tre vicepresidenti esecutivi. La nuova presidente sarà coadiuvata da tre vice presidenti esecutivi: Margrethe Vestager, Frans Timmermans e Valdis Dombrovskis, responsabili rispettivamente del digitale, del clima e dell’economia. I tre vice presidenti esecutivi saranno chiamati a coadiuvare il lavoro dei commissari. Saranno responsabili anche di un singolo portafoglio oltre che del dossier più generale. La danese Margrethe Vestager sarà quindi responsabile, oltre che del digitale, anche della concorrenza. Altri quattro esponenti saranno vice presidenti non esecutivi: Maros Sefcovic, Vera Jourova, Margaritis Schinas e Dubravca Suica. A questi si aggiunge l’Alto Rappresentante per la politica estera e di Sicurezza Josep Borrell.

L’economia a Paolo Gentiloni. All’ex premier Gentiloni è stato affidato un portafoglio dedicato all’economia. Attualmente il suo predecessore Pierre Moscovici ha una delega più precisa: agli affari economici e finanziari, alla tassazione e alle dogane. La signora von der Leyen ha certamente semplificato il nome del portafoglio. Sarà interessante capire se e quanto questo cambiamento porterà cambiamenti anche di sostanza. Il commissario Moscovici era in prima fila nel controllo delle finanze pubbliche. Ursula von der Leyen ha precisato che la delega è stata affidata a una persona «con vasta esperienza» in campo economico. Paolo Gentiloni «sarà chiamato a collaborare strettamente con Valdis Dombrovskis. Aggiungo poi che a Roma è stato appena nominato ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, una persona che conosce perfettamente quali siano le regole su cui ci siamo messi d’accordo, quali sono le aspettative dei paesi membri su regole che ci servono per rafforzare la zona euro».

Il patto di stabilità. Ha poi aggiunto sempre la signora von der Leyen: «Sul Patto di Stabilità vi è oggi un ampio consenso. Le regole sono chiare. I limiti sono chiari. La flessibilità è chiara». La presa di posizione giunge dopo che nelle ultime settimane la scena politica italiana è stata segnata da un acceso dibattito sulla possibilità di riformare le regole di bilancio. Addirittura il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è espresso a favore di una riforma del Patto di Stabilità, un accordo intergovernativo approvato all’unanimità. Infine è da segnalare che nella precedente Commissione, presieduta da Jean-Claude Juncker, i vice presidenti coordinavano il lavoro dei commissari senza avere accesso diretto alle direzioni generali. Nella Commissione von der Leyen il vice presidente esecutivo Dombrovskis sarà anche responsabile del portafoglio affari finanziari. Potrà quindi avere un controllo maggiore sulla macchina amministrativa e possibilmente sulle scelte di Paolo Gentiloni.

Le altre scelte di von der Leyen. Al di là del portafoglio affidato a Paolo Gentiloni, vanno segnalate altre scelte interessanti. La francese Sylvie Goulard ottiene la delega al mercato interno e all’industria militare e spaziale; l’irlandese Phil Hogan sarà responsabile del commercio; il rispetto dello stato di diritto sarà affidato alla ceca Vera Jourova, la giustizia al belga Didier Reynders. Per scelta della Gran Bretagna in procinto di lasciare l’Unione, il governo britannico non avrà un proprio commissario. In buona sostanza, la nuova Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen sarà composta da 14 uomini e 13 donne . L’ex ministra della Difesa tedesca è riuscita a rispettare l’impegno di comporre un esecutivo comunitario paritario tra uomini e donne. I popolari sono 9, i socialisti 10, i liberali 6. Nella nuova Commissione siederanno anche un ecologista, il lituano Virginijus Sinkevicius, e un conservatore, il polacco Janusz Wojciechowski.

Le personalità. Rispetto all’esecutivo comunitario uscente, le personalità sono di minore spicco. Solo due sono ex premier, il lettone Valdis Dombrovskis e l’italiano Paolo Gentiloni. Nella Commissione Juncker gli ex premier erano 4, mentre le donne erano 9 su 28. La presidente von der Leyen è la prima donna a presiedere l’esecutivo comunitario e la prima tedesca dal 1957. Il nuovo esecutivo comunitario entrerà in carica il 1 novembre, dopo una serie di audizioni parlamentari e un voto di fiducia fissato per il 22 ottobre. 

Che brutta l’eterogenesi dei fini tricolore quando in ballo c’è l’appartenenza alla Ue. Pietro Di Muccio il 10 Settembre 2019 su Il Dubbio. Fu il nostro grande Gianbattista Vico il primo a formulare nella Scienza Nuova quella che circa un secolo dopo il tedesco Wilhelm Wundt chiamò “legge dell’eterogenesi dei fini”, ormai sulla bocca di tutti perché costituisce esperienza comune l’osservazione che i fini realizzati storicamente differiscono dai fini perseguiti dalle persone e dalle comunità: “Questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti.” Perciò la scienza sociale, per essere ad un tempo seria e utile, deve investigare le conseguenze inintenzionali dell’attività degli individui, sia privata che pubblica, specialmente politica, comparate con i propositi e le intenzioni. L’europeismo è un esempio di eterogenesi dei fini, il più clamoroso nell’Europa postbellica. Le istituzioni conseguenti e risultanti da quell’ideale sembrano uscite infatti da una mente diversa e tutta contraria all’obiettivo specifico che gli europeisti “si avevan proposti”. Basti leggere la magnifica “Allocuzione per l’elezione a presidente dell’Assemblea parlamentare europea”, pronunciata da Gaetano Martino nella seduta del 27 marzo 1962, per rendersi immediatamente conto dell’anomalia organica prodotta dall’eterogenesi dei fini dell’originario, genuino, europeismo. Esiste pure un altro connotato di questa eterogenesi. E riguarda la politica europeista nazionale. L’Italia fu maggioritariamente entusiasta di aderire ( di più: il nostro Paese fu socio fondatore) e via via legarsi sempre più strettamente alle istituzioni comunitarie e poi all’Unione europea. Tale politica fu perseguita con ogni mezzo da pochi governanti anche per riacquistare alla nazione una virtù finanziaria che la classe politica, senza distinzione tra maggioranza e opposizione, aveva perduto battendo la strada della dissipazione e dell’indebitamento. Negli ultimi anni, la stessa classe politica, talora urlando, talaltra sussurrando, ha poi incolpato l’Ue d’imporle la virtù con una cintura di castità, peraltro non inviolabile né inviolata. Nell’europeismo, che nel tempo ha purtroppo assunto le facce di un poliedro, esiste tuttavia un nucleo autentico e originale, un fine originario: gli Stati Uniti d’Europa, una federazione ( non confederazione!) tra Stati che si erano dilaniati per secoli. Unità nella diversità fu dunque il criterio ispiratore, federalista, dei padri nobili dell’europeismo. Invece si è pervertito in uniformità senza unità! L’unificazione federale dell’Europa è urgente e necessaria. Dopo aver dovuto constatare che non era più la fucina della politica mondiale, l’Europa oggi, sebbene grande potenza economica, non può più parlare da pari a pari con le maggiori potenze perché non ha una sola voce. Come sarcasticamente notava Harry Kissinger: “Quando voglio parlare con l’Europa non so mai chi chiamare…” Se la cosiddetta “Europa a geometria variabile” fosse un prezzo da pagare per federare gli Stati europei, sarebbe un ben misero prezzo rispetto all’acquisto. Una federazione, per quanto ristretta, sarebbe più importante dell’Unione integrata com’è oggi. La qualità del legame è importante non meno del numero degli Stati. La decadenza politica dell’Europa non è ineluttabile. Lo diventa se fronteggiata con il gradualismo economico. Nella Conferenza di Messina, disse Gaetano Martino alla Camera il 18 gennaio 1957, non vollero “mettere il carro dell’unificazione politica davanti ai buoi dell’unione economica”. Ebbene, è ora di farlo! L’Europa è già una grande cosa, se consideriamo il punto di partenza. Tuttavia viene percepita meno grande o addirittura piccola da popolazioni frustrate soprattutto dal non riuscire a scorgere il punto focale, il Dio in cui credere. Del resto, come ammonisce La Rochefoucauld, “Chi si applica troppo alle piccole cose, di solito diventa incapace delle grandi”. Una massima appropriata all’europeismo contemporaneo.

·         E la chiamano Democrazia...

Carlo Bastasin per ''Il Sole 24 Ore''  il 27 ottobre 2019. Quando guardiamo uno schermo elettronico viviamo un' esperienza che non è nota in natura: non guardiamo attraverso un vetro, né uno specchio, ma ci facciamo guardare da esso. Ho cominciato a leggere il libro di Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, su un lettore elettronico mentre ero seduto sulla "red line" che mi portava da Harvard al centro di Boston e il cui biglietto avevo pagato con la carta di credito. Sceso vicino al Commons, il parco urbano, ho acquistato un paio di giornali con una app del telefono e ho voluto provare una terribile "acqua di cocco" servita in una corretta bottiglia di vetro. Infine ho camminato fino a South Station dove ho preso la "silver line" che conduce all' aeroporto. A quel punto, in attesa del volo per Washington, ho calcolato quante informazioni elettroniche avevo lasciato dietro di me e quale profilo ne sarebbe risultato. I giornali scelti, la lunga camminata, i mezzi pubblici, le sottolineature sul libro e ovviamente l' acqua di cocco mi smascheravano come un potenziale elettore di Elizabeth Warren e fiero sostenitore di Greta. Vero o no. Che io lo volessi oppure no. Sappiamo che esiste un rischio nel collegamento tra tecnologia e democrazia. L'ingenua visione delle piattaforme attraverso cui si esprime la volontà del popolo è ridicolizzata dalla realtà. Ma non è la realtà dell'ubiqua sorveglianza che mi ha colpito, bensì il fatto che stia avvenendo sotto i nostri occhi senza che ne siamo sufficientemente allarmati. Come cioè se fosse già parte della normale vita quotidiana. Il libro di Zuboff spiega quanto poco normale tutto ciò sia. La denuncia va oltre il caso di Cambridge Analytica, la società in grado di usare i dati personali di Facebook per contribuire all' elezione di Donald Trump. Secondo Zuboff aziende come Google stanno costruendo un nuovo ordine economico la cui materia prima è l' esperienza della vita umana. Qualsiasi cosa facciamo vale come fonte di dati che servono non solo ai fini economici, ma a trasformare la vita stessa, secondo un meccanismo senza fine. Se un comportamento non è conveniente al conto economico di una compagnia di assicurazione, dati e prezzi permetteranno di dissuadere l' utente. Il frigorifero che ordina le birre, il robot che pulisce i pavimenti, il materasso che registra la "qualità" delle nostre notti, il termostato, il citofono e le telecamere di casa incorporano dei giudizi sulla nostra vita - non necessariamente morali - attraverso cui esercitano forme di autorità. Tutto ciò avviene al di fuori della tradizionale reciprocità dello scambio economico, nel quale ognuno di noi acquista un bene o un servizio in cambio di denaro. Nello scambio digitale sono le mie stesse informazioni a mettermi in condizione di inferiorità rispetto al venditore, che sa tutto di me senza che io sappia nulla di lui. Questa confutazione del rapporto tra consumatore e tecnologia come ultima iterazione dell' industrializzazione è forse la parte più convincente dell' inquadramento di Zuboff e meriterebbe di essere esteso in una più ampia valutazione del capitalismo in tutte le attività immateriali, finanza compresa. Se Zuboff attribuisce a Facebook la qualifica di «untore del capitalismo della sorveglianza», il vero cattivo del libro è Google. Dopo un inizio idealista, i due fondatori Larry Page e Sergey Brin hanno adottato l' estrazione di dati utili all' analisi predittiva dei comportamenti, aprendo la strada alle pubblicità mirate, portatrici di profitti per l' azienda attraverso algoritmi mai rivelati, in grado di anticipare il modo di pensare degli utenti, di fatto influenzandoli. Si tratta di un potere disponibile solo a pochi super-esperti a patto che dispongano anche dei capitali per costruire un' adeguata capacità computazionale e trasformare l' intera internet in una rete da pesca per gli inserzionisti. "Street view" e la mappatura di Google-Earth, per esempio, costituiscono il panottico benthamita dei tempi moderni che corrisponde allo spirito del tempo - la sorveglianza appunto - emerso dopo l' 11 settembre 2001. A chiudere il cerchio sono state la campagna di Barack Obama del 2008 e soprattutto quella di Trump nel 2016: i dati dei cittadini sono entrati in una dinamica tale per la quale essi avrebbero votato prima ancora di deciderlo. La dimensione della sfida posta da big-tech ha fatto salutare il libro di Zuboff come un testo epocale. Il collegamento diretto che vede tra manipolazione dei dati e dinamiche capitaliste non è però del tutto convincente. Il problema dei tech-giants è che diventano rapidamente monopolisti: più li si usa, e più i loro algoritmi migliorano, mettendo fuori gioco gli avversari. Il regolatore pubblico può e deve intervenire, sanzionando le pratiche monopolistiche e manipolatorie. Il problema è quello antico dei monopoli e dell' asimmetria informativa, quest' ultima con le nuove tecnologie diventa molto pericolosa. Intervenire è un' opportunità per migliorare il funzionamento del mercato. Aiutare il consumatore a fare un uso informato delle tecnologie non servirà solo a sostituire Google con altri motori di ricerca più attenti ai diritti degli individui, ma forse aprirà la porta a una nuova cultura dell' intervento pubblico nell' economia. È una riflessione su cui la cultura pubblica americana è tanto vivace a parole quanto le istituzioni sono in ritardo nei fatti rispetto a quella europea. Zuboff osserva che identificare le minacce nel potere dello Stato «ci ha lasciato impreparati a difenderci da nuove aziende dai nomi fantasiosi, guidate da giovani geni apparentemente in grado di offrirci gratuitamente tutto quello che volevamo». Il fallimento dell' Antitrust americana rispetto a quella europea non ha però a che fare solo con le ideologie, ma per paradosso con una minor cura per i diritti degli individui. La Corte di Giustizia europea ha riconosciuto l' importanza della libera circolazione delle informazioni, senza però metterla sullo stesso piano della salvaguardia della dignità, della privacy e della protezione dei dati. Furono le autorità tedesche a scoprire che Street View catturava dati dalle abitazioni private, e gli abitanti di una cittadina inglese a fermare le auto di Google. I cittadini riescono a difendersi anche oltre il "diritto al santuario", l' area di privatezza che definisce il solo spazio di libertà dell' individuo. C' è una componente magica nell' esaudire i desideri con una semplice ricerca sul web, opere come quella di Zuboff contribuiscono al disvelamento di questo incanto a cui siamo tutti esposti.

SE È POSSIBILE INFLUIRE SUL VOTO DEGLI ELETTORI...Andrea Morigi per ''Libero Quotidiano'' il 26 ottobre 2019. Se è possibile influire sul voto degli elettori attraverso la raccolta di informazioni sulle loro abitudini, passioni e preferenze, anche il funzionamento della democrazia si trova esposto a un' influenza esterna e non dichiarata. Non soltanto da parte dei soliti russi, ma anche dei grandi colossi di Internet. Ne hanno parlato giovedì a Tirana, ospiti di Consulcesi Tech, l' ex presidente del Consiglio e presidente della Fondazione Italianieuropei Massimo D' Alema e Davide Casaleggio, presidente della Casaleggio Associati, oltre a vari esperti del settore, come la policy manager di Facebook Kara Sutton, gli avvocati Luca Bolognini e Luigi Neirotti e il docente universitario svizzero Jörn Egbuth, moderati da Gianluigi Pacini Battaglia, CEO di Consulcesi Tech, nell' ambito della 41esima Conferenza internazionale sulla Protezione dei dati e la Privacy. L' argomento dovrebbe suscitare anche la curiosità del centrodestra, poiché il fenomeno tocca da vicino la sovranità dei popoli. Per ora, in Albania, sono principalmente personalità vicine all' attuale maggioranza di governo a parlarne e per questo, nell' imminenza dell' evento, si è creduto di vedere un accordo dietro le quinte allo scopo di condizionare gli equilibri politici italiani. In realtà, D' Alema e Casaleggio hanno "inciuciato" alla luce del sole, parlando davanti a giornalisti di diversi Paesi europei e alla presenza del primo ministro socialista albanese Edi Rama, il quale ha annunciato una proposta di legge nazionale per regolamentare i mercati finanziari che operano con la tecnologia blockchain. «Spesso le persone non sono in grado di valutare le conseguenze dei loro comportamenti on line. Siamo sorvegliati da una sorta di Grande Fratello che può sfruttare le nostre emozioni e interessi per orientarci, arrivando a collegarsi anche con le scelte politiche, come successo negli Stati Uniti», afferma D' Alema, nel corso del suo intervento a una tavola rotonda organizzata da Consulcesi Tech sulla tecnologia blockchain e la protezione dei dati. Il suo approccio è piuttosto cauto, se non diffidente, nei confronti della tecnologia, poiché vede «opportunità e rischi di concentrazione di masse enormi di dati nelle mani di pochi», ma non è luddista e chiede «un quadro normativo per proteggere i diritti fondamentali degli individui», fra cui quello alla riservatezza. Casaleggio, più a suo agio sulle nuove frontiere, ritiene che la privacy sia un concetto di origine medioevale, legato alla confessione sacramentale, che implica la protezione della segretezza. Ora però le persone sono in grado di scegliere, secondo la loro convenienza, di limitare o far rispettare l' inviolabilità della propria sfera personale. Sviluppando un' identità digitale, attraverso la blockchain, quindi, potremmo controllare meglio chi ha l' accesso a segmenti rivelatori e sensibili della nostra vita e non saremmo costretti a renderli disponibili per sempre. E non è da escludere che si possa monetizzarli, poiché le prospettive per il futuro indicano che a partire dal 2023 la quantità di dati creati e diffusi ogni anno raggiungerà la cifra record di 100 zettabyte, un' unità di misura della quantità di dati pari a un triliardo (ovvero a mille miliardi di miliardi) di byte. Si tratta di una mole di informazioni senza precedenti, che aumenta in maniera esponenziale e che rappresenta l' elemento fondamentale di un' industria che produce, nel mondo, oltre 3 trilioni di dollari l' anno. Perciò, «una legge per agevolare le aziende che investono in blockchain è un' ottima direzione per favorire lo sviluppo di un settore che sta diventando strategico», in quanto «si stima che entro il 2027 il 10% del Pil globale si baserà su almeno un processo blockchain. Gli Stati e le aziende che vogliono intercettare questo valore devono investire oggi in questa direzione», aggiunge Casaleggio. Quanto al voto, è la sua azienda ad aver inventato la Piattaforma Rousseau. Per loro è sinonimo di trasparenza.

IL TOTALITARISMO DEI BUONI. Mattia Ferraresi per il Foglio – Stralci - il 18 settembre 2019. Nel suo ultimo libro, White, presto in uscita in Italia per Einaudi, Bret Easton Ellis parla di autoritarismo, di fascismo, di totalitarismo, di censura, di superiorità morale, di ossessione da controllo, di pressioni dirette e indirette per conformarsi al canone ideologico del momento. A volte sembra di avere fra le mani le pagine di un samizdat sfuggite chissà come ai controlli della polizia politica, ma incastonate dentro un immaginario hollywoodiano e ultra-pop, più Tom Wolfe che Solzenicyn. Il regime che il romanziere americano denuncia non è quello dei costruttori di muri e dei truci promotori di un presunto clima da anni Trenta. E' quello degli altri, della resistenza progressista, del liberalismo bacchettone che si atteggia a vittima delle pulsioni barbariche e del clima d' odio. L' obiettivo polemico è il regime dei buoni, e White è una cronaca dall' inferno delle loro buone intenzioni. Ed è lacerante e repulsiva almeno quanto certe scene di American Psycho o Glamorama, e infatti per l' autore questo libro non è una parentesi saggistica fra opere di fiction, ma la continuazione del suo lavoro di romanziere con un altro registro. Ellis gode di una posizione vantaggiosa per avanzare osservazioni altrimenti indicibili. Per un codificato meccanismo dell' egemonia culturale, certe idee diventano presentabili se a esprimerle è qualcuno che gli arbitri del dibattito si trovano in difficoltà a squalificare: lo scrittore gay, la femminista pentita, il prete progressista e così via. Anche questo è un portato della identity politics che lo fa imbestialire: chi esprime un' idea è più importante dell' idea stessa. Una delle idee di Ellis è che questo regime ha preso il potere trasformandoci tutti in attori. In un mondo pieno di palchi digitali - i social media e non solo - tutti recitano una parte, dove il talento fondamentale dell' attore è quello di fare tutto ciò che è necessario per piacere al pubblico; il quale a sua volta chiede che la performance sia perfettamente conforme ai precetti ideologici che già abbraccia e che segnano il confine fra l' accettabile e l' inaccettabile, fra la civiltà e la barbarie. Tutto il resto è oppressione, violenza (al pari di quella fisica) e intelligenza con il nemico, roba meritevole di boicottaggio e censura nella forma del de-platforming, la tecnica preferita dalla cosiddetta cancel culture. Se il regista Erroll Morris fa un documentario-intervista con Steve Bannon, con l' ambizione di capirlo e non appena di crocifiggerlo, l' opera non deve essere distribuita; se uno scrittore ben inserito nella società hollywoodiana va a cena con amici conservatori e dà conto delle loro legittime posizioni con una serie di tweet, va condannato per il solo fatto di averli ascoltati; se Kanye West elogia Donald Trump avrà certamente sbroccato, serve un trattamento sanitario obbligatorio, la camicia di forza, la revoca della legge Basaglia. In uno dei passaggi più graffianti, Ellis scrive: "Pare che siamo entrati precariamente in una specie di totalitarismo che detesta la libertà di parola e punisce le persone se rivelano il loro vero io". In un' intervista concessa al Foglio, lo scrittore spiega: "Ho scritto di una specie di totalitarismo, non del totalitarismo nel suo senso storico. E ho scelto di usare questo termine perché è così che mi sento: sotto controllo di un regime. Oggi ci sono una serie di regole che un' artista deve seguire, e se non le segue viene cancellato o messo a tacere. Tutto deve essere coordinato da una certa sensibilità. Questo meccanismo si vede nelle case editrici già oggi.

Anche le battaglie progressiste per i diritti degli omosessuali, questione che sta certamente a cuore a Ellis, finiscono nel tritacarne delle sue critiche. Lo scrittore attacca il "fascismo gay" che impone conformismo e ferreo allineamento all' interno della comunità, fa strame delle associazioni che hanno santificato "l'elfo gay", figura magica e mansueta che non contraddice, non fa domande complicate, non viola gli ordini di scuderia, si presenta come vittima, brandisce valori liberal, vota diligentemente a sinistra, non si azzarda a prendere in considerazione ciò che viene dal mondo conservatore, specialmente da quello di impronta cristiana, e si commuove guardando Moonlight, film che definisce "innocuo", che nella gerarchia degli aggettivi di Ellis è superiore forse soltanto a "solare" e "inclusivo". "Molti movimenti progressisti sono diventati rigidi e autoritari quanto le istituzioni che contrastavano", sentenzia Ellis.

Democrazia è contraddire il capo. Pubblichiamo qui di seguito un’anticipazione del nuovo libro di Antonio Funiciello, “Il metodo Machiavelli” (Rizzoli). Giornalista, saggista e consulente aziendale, Funiciello è stato anche capo di gabinetto di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi, dal 2016 al 2018. Chi consiglia il leader deve sapere dirgli di no. Lo scriveva Machiavelli e vale ancor di più oggi. Il sovrano possiede il potere, ma non la verità: ha bisogno di qualcuno che possiede la verità ma non il potere. Antonio Funiciello il 05 settembre 2019 su L'Espresso. Ai leader non piace essere contraddetti. Ai leader non piacciono le cattive notizie. Anche il più saggio statista spera, in cuor suo, che quando interrogherà il suo braccio destro, questi lo confermerà dell’analisi o della decisione che intende intraprendere. Anche nel più avveduto e capace dei leader, la contraddizione che crea il parere negativo di un consigliere è sempre accolta con una smorfia del viso. Perché problematizza ciò che necessita di essere semplificato e allunga i tempi della decisione. Non stupisce che in Machiavelli si trovi analizzata, in maniera mirabile, anche questa scomoda situazione. Nel capitolo XXXV del libro III dei Discorsi, il consigliere Machiavelli, indaga la condizione del consigliere nell’occhio del ciclone della decisione politica. Il capitolo s’intitola: “Quali pericoli si portano nel farsi capo a consigliare una cosa; e quanto ella ha più dello istraordinario, maggiori pericoli vi si corrono”. Scrive Machiavelli: «Parlerò solo di quegli pericoli che portano i cittadini o quelli che consigliano uno principe a farsi capo d’una diliberazione grave ed importante, in modo che tutto il consiglio di essa sia imputato a lui». Il segretario fiorentino fissa, in questo passo, un collegamento fondamentale tra il cittadino libero che critica il potere e il consigliere politico che esercita sì la stessa funzione, ma per mestiere. È una connessione assai significativa, che fa del consigliere il simbolo di chi si arrischia a contestare il potere, anche a prezzo della propria vita (o della disoccupazione…). È una circostanza nella quale Machiavelli si sarà ritrovato spesso nei quattordici anni al servizio della Repubblica di Firenze. Qui spiega che, giacché i leader giudicano le scelte politiche assunte dopo il consiglio di un collaboratore sulla base degli effetti che quelle scelte producono, se l’effetto è positivo, il consigliere sarà elogiato; se negativo, sarà bistrattato. E tuttavia il biasimo supererà d’intensità la lode - «di lunge il premio non contrappesa a il danno» - anche perché per la decisione a cui arride un buon risultato, il leader richiamerà di certo a sé il merito per averla assunta». I «consigliatori», così li chiama Machiavelli in queste pagine dei Discorsi, rischiano sempre grosso. Se non sono assassinati, tanti sono costretti all’esilio. A lui stesso, d’altronde, fu impedito dai Medici di mettere piede nella sua amata Firenze. Non c’è mestiere più scomodo al mondo di chi sceglie di lavorare accanto a un leader. È una condizione di equilibrio precario, suscettibile a variare in ogni momento, nella quale se i «consigliatori» non hanno il coraggio di dire la verità, «mancano dell’ufficio loro»; se invece il coraggio non gli manca e si spingono a consigliare un’impresa temeraria, «entrano in pericolo della vita e dello stato». L’errore che commettono i leader, secondo il nostro segretario, è limitarsi a «giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine». Ma come? Machiavelli non era il demonio del fine che giustifica i mezzi? No. Non l’ha mai scritto. Né l’ha mai pensato. «La leggenda nera di Machiavelli» di cui scriveva Mario Praz, è, appunto, una leggenda. La politica è una cosa dannatamente complicata. Chiunque ecceda nel semplificarla non potrà mai capirla. Gli elementi che concorrono a formulare un consiglio o un parere, o quelli che intervengono nel lavoro dei «consigliatori», quando questi s’industriano a istruire una pratica su mandato del proprio leader, sono numerosi e spesso è impossibile coglierli tutti. Non solo. Oltre a essere tanti, sono estremamente variabili, «essendo le cose umane sempre in moto». Il movimento inquieto delle cose umane modifica gli elementi dell’analisi e della formulazione del consiglio. E per quanto il bravo consigliere possa (e debba) tenere presente questo movimento, egli sa bene (e dovrebbero saperlo anche i leader) che l’intima natura di tale movimento è l’imprevedibilità. Poiché nella politica, a differenza delle altre attività dell’ingegno e dello spirito, tutto conta e tutto pretende di contare. E allora Machiavelli raccomanda il consigliere di essere moderato nelle proprie valutazioni, di non sposare alcuna causa «e dire la opinione sua sanza passione, e sanza passione con modestia difenderla: in modo che se la città o il principe la segue, che la segua voluntario e non paia che vi venga tirato dalla tua importunità». Forse solo così, il consigliere può evitare che gli siano scaricate addosso colpe non sue. Una forma di ragionata sobrietà dialettica e argomentativa che sola può essere insegnata dall’esperienza e dai mille errori che si compiono nel lavorare accanto a un leader. Errori che sono regolarmente commessi e producono un momentaneo o duraturo indebolimento della leadership. Del resto, una ragionata moderazione può evitare un altro rischio mortale per i consiglieri, quello di essere utilizzati come capri espiatori. Non vale la pena accalorarsi troppo su una singola questione, dacché la soddisfazione e la gloria derivano da un bilancio complessivo del servizio reso al capo. I grandi politici sanno non vincolare il giudizio sull’operato di un proprio consigliere dall’esito di una singola faccenda di Stato. Un leader che sappia pensarsi nel tempo e immagini la propria vicenda storica legata non al momento, ma a una fase politica più o meno lunga, sarà in grado di collocare anche la valutazione di meriti e demeriti di un consigliere in questa fase. È la prova del tempo, più che quella del momento, a forgiare i grandi leader (e i grandi consiglieri). In Grecia, dove tutto è cominciato e dove la nostalgia del pensiero sempre ci riporta, quello del pronunciamento della verità dinanzi al potere era considerato uno dei problemi principali della filosofia, dunque dell’uomo. Intorno al V secolo a.C. i greci antichi, che inventarono una parola per definire ogni concetto, per alludere a questa facoltà o virtù usavano il termine “parresia”: il parlare franco, il dire liberamente ciò che si crede essere la verità. È singolare, ma anche illuminante, che durante il Giubileo della misericordia del 2015, sia stato papa Francesco a tornare sul significato di questo termine. Nell’aprire i lavori del Sinodo, il pontefice ha invitato i suoi interlocutori a parlarsi chiaro tra loro, come Pietro e Giovanni i quali, come raccontano gli Atti degli apostoli, dopo la morte del maestro giravano il mondo parlando alla gente con parresia. E ha senso che tornino, quasi alla fine del nostro racconto, gli apostoli, i primi staffer di cui ci dà conto la storia. Nell’antica Grecia, agli occhi di chi sosteneva in maniera convinta la democrazia, la parresia assumeva una funzione fondamentale. Nella sua Prima Filippica, il politico e oratore Demostene ribadisce il dovere della franchezza nel discorso pubblico dell’agorà democratica, anche se questa franchezza dovesse spiacere a qualcuno. Come ha notato Michel Foucault nelle sue celebri lezioni a Berkeley del 1983, la parresia ricorre di continuo anche nelle opere del tragediografo Euripide. Nella sua Elettra, per esempio: la regina Clitennestra, omicida del marito Agamennone, sollecita sua figlia Elettra a esprimere con parresia la sua opinione sull’uxoricidio da lei ordito. Nelle Fenicie Giocasta, madre e moglie di Edipo, chiede a suo figlio esule Polinice perché l’esilio sia considerato così duro e insopportabile per chi lo subisce. Polinice le risponde che la condizione dell’esiliato è terribile poiché egli, straniero in patria d’altri, non può partecipare alla vita pubblica e, dunque, è impedito nell’esercizio della parresia, del parlare franco. Spiega Foucault: «Se un cittadino non può usare la parresia, non può contrastare il potere del capo. E senza il diritto alla critica, il potere esercitato da un sovrano è senza limiti». Opere di 2.400 anni fa raccontano il dissidio precipuo della democrazia, quello tra potere e verità: «Il sovrano, colui che possiede il potere», scrive Foucault, «ma non la verità, si rivolge a qualcuno che possiede la verità ma non il potere», ossia il consigliere. Quello tra verità e potere è forse il più pericoloso incrocio che abbia segnato - e segni tuttora - il difficile cammino della storia umana. Chi detiene il potere, infatti, non sempre possiede anche la verità. E il consigliere che manifesta un dissenso verso il proprio leader, pensando sia suo dovere esercitare la parresia e dirgli quella che crede essere la verità, non è mai in possesso di una dose di potere tale da metterlo in salvo in caso di contrasto. Questa insormontabile difficoltà interseca le due direttrici principali del discorso democratico: il senso della leadership, capace di riconoscere nella critica un punto di forza e non una minaccia, e la funzione della critica come esercizio effettivo di libertà per chi contesta il potere. Con Arturo Parisi, che ho incontrato durante la redazione del libro, ho indugiato molto su questo pericoloso incrocio. Parisi, oltre che amico fraterno, è stato per molti anni il braccio destro di Romano Prodi, prima nel suo ruolo di sottosegretario a Palazzo Chigi e, dopo la presidenza dei Democratici, come ministro della Difesa. Ma Parisi è anche uno dei più apprezzati sociologi della politica, nonché l’inventore di buona parte delle cose interessanti sperimentate nella politica italiana nell’ultimo quarto di secolo. Perché è così importante che un consigliere sviluppi l’esercizio critico a supporto del proprio leader, quando lo ritenga necessario? L’ho chiesto a Parisi. Vale davvero la pena riportare per intero il suo pensiero in proposito. «La critica del consigliere individua nella contraddizione l’elemento cruciale della formazione della decisione. Il fondamento della politica è il riconoscimento del conflitto. Ed è la contraddizione che innesca il conflitto. Il leader deve essere in grado di saper riconoscere il valore della contraddizione - almeno dovrebbe esserlo. L’esercizio del potere consiste appunto nel produrre e svolgere scelte capaci di governare il conflitto. Ma una scelta è tanto più una scelta quanto più è libera. Ed è libera quanto più si ha consapevolezza che esistono alternative a quella scelta stessa. A differenza dell’esecutore, il consigliere ha il compito di rappresentare le scelte alternative e non assecondare la scelta formulata dal leader. E deve svolgere questo compito muovendo dal riconoscimento della contraddizione attraverso l’esercizio della critica». Ancora: «Il leader ha una sua verità, quella da cui muove. Ma esistono altre verità. E chi lo consiglia è chiamato a farsi portavoce di queste altre verità. Il pluralismo delle verità rafforza, infatti, la scelta del leader. Certo il leader può anche scegliere di non riconoscere questo pluralismo e assolutizzare deterministicamente la sua scelta. Può proteggersi dietro lo scudo della scelta obbligata, può dire: “Non poteva che andare così”. Ma c’è sempre un’alternativa. Se il potente valorizza il punto di vista del consigliere e la sua verità, quando compirà una scelta diversa da quella che il suo consigliere gli suggerisce, la sua scelta avrà più valore proprio perché sarà libera e non necessitata. Perché esiste un’alternativa alla sua scelta e lui sa che esiste». È così che, seguendo il ragionamento di Parisi, il consigliere diventa il simbolo del cittadino che contesta, esercitando la sua libertà di pensiero e di parola, il potente di turno. Il disprezzo per l’adulazione, la lealtà verso il leader e la passione per la politica lo sostengono nel pronunciare le verità più scomode. Un comportamento che sembrava puntare soltanto a salvaguardare il proprio ruolo e fare bene il proprio mestiere nasconde, in realtà, qualcosa d’altro. Ciò che di profondo lo sprona in tal senso ha, piuttosto, un’origine lontana e un senso generale e più alto. Non vale solo per il consigliere: vale per il leader e per la politica, per la libertà e per la democrazia. Vale per tutti oggi e in ogni tempo. «Che cos’è la critica?» si chiedeva Foucault in una conferenza di quarant’anni fa alla Société française de philosophie. Rispondeva: «È l’arte di non essere eccessivamente governati». L’individuo libero è tale poiché possiede «il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità». Se perde questo doppio diritto, smette di essere libero e la democrazia, che ha costruito proprio allo scopo di poter liberamente interrogare verità e potere, si sgretola su se stessa. La critica al potere che esercita il consigliere sarebbe, in sé, poca cosa e resterebbe banalmente iscritta nel contratto che lo lega al suo datore di lavoro. Se non fosse che, in virtù di questa sua funzione, egli costringe il potente a tornare sul proprio intendimento, ponendosi come termine dialettico e primo suo argine. È il consigliere la prima persona che sperimenta sulla sua pelle l’esercizio liberale o dispotico del potere. Che ne sia consapevole o ignaro, che gli piaccia o meno, egli è la cavia prediletta della storia. Servire il potere può essere la più nobile delle attività umane, perché il potere è lo strumento più efficace che gli uomini hanno per difendere e diffondere la libertà. Ma quando il potere strumentalizza chi dovrebbe servirsene, quello è il momento di ribellarsi. A un potente che non vuole sentire ragioni e si fa dispotico, il consigliere è chiamato a opporsi affermando la propria libertà, per difendere quella di tutti. Se vuole salvarsi l’anima, deve correre il rischio della critica. Servire il potere e salvarsi l’anima è possibile soltanto restando liberi. Liberi di poter esercitare la parresia, liberi di contestare il potere che si serve, liberi di criticare il proprio capo. Non c’è crinale più scosceso da percorrere. Da un lato, il potere appare quel mezzo formidabile che la politica può adoperare per rafforzare la democrazia e dare un giusto senso alla storia. Dall’altro, il potere assume come proprio compito il mero accrescimento di sé e del potente che ne è illuso, temporaneo interprete. Servire il potere è una faccenda rischiosa. Per votare l’emendamento contro la schiavitù, Abramo Lincoln dispensò incarichi e prebende, ogni mezzo lecito e illecito per conquistare il voto dei parlamentari. Thaddeus Stevens, il più coerente tra gli abolizionisti, disse che la più grande legge del XIX secolo era passata grazie alla corruzione promossa e favorita dall’uomo più puro d’America. Aveva ragione. Finì per questo all’inferno Lincoln, quando John Booth lo colpì a morte a Washington? Finirono all’inferno i ministri di Lincoln, che lo aiutarono in quella memorabile impresa? Finirono all’inferno i suoi collaboratori che raggirarono, corruppero e comprarono tutti i voti che erano necessari per cancellare la schiavitù dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America? Nessuno può dirlo. Eppure, nulla avrebbe senso se il paradiso esistesse e le loro anime non vivessero lì felici, in una villa sul mare, insieme alle persone che hanno amato. La verità è che non c’è niente di più demoniaco sulla Terra del potere. Nulla è, allo stesso tempo, così fetido e grandioso, così nobile e umiliante, come il potere. Perché può essere usato per abolire la schiavitù o per istituirla. E qualcosa che può essere utilizzato per gli ideali più alti e per gli scopi più infimi, non può che essere un’invenzione del diavolo. Spetta agli uomini decidere che uso farne e se scegliere di dannarsi l’anima o salvarla. Per conto mio, non sono neanche sicuro di averne una, di anima. Ma nel dubbio.

Mario Giordano per “la Verità” il 2 settembre 2019. La Giustizia? Ai 5 stelle. La Cultura? Al Pd. E l' Economia? Al Colle. Nei retroscena di Palazzo, ormai, la spartizione viene data per scontata come il tre per due all' Esselunga. Nelle intense trattative a porte chiuse, dove c' è sempre al centro il programma (eccome no), si litiga fino all' ultimo sulla poltrona di ministro della Salute (va ai 5 stelle o al Pd?) e su quella della Pubblica istruzione (va al Pd o ai 5 stelle?), ma quando si arriva agli Esteri si sa che la casella è bloccata: lì la scelta tocca al Colle. Il ventriloquo presidenziale, il corrierista di lungo corso Marzio Breda, l' ha già scritto papale papale, anzi Quirinale Quirinale: sui «dicasteri critici» il presidente della Repubblica «è pronto a offrire pareri preventivi». Che, tradotto dal felpato linguaggio di corte, significa che vuol decidere lui. E nessuno pensi di scavalcarlo. Del resto lo si era capito già nella formazione del precedente governo, quando la seggiola dell' Economia di Paolo Savona fu fatta brillare all' ombra dei corazzieri e al suo posto venne chiamato il più rassicurante (per i Palazzi europei) Giovanni Tria. Anche agli Esteri, sempre per le medesime ragioni, diciamo così, di dipendenza internazionale, fu scelto un uomo di garanzia (garanzia dei Palazzi europei, ovviamente), con il bollo preventivo del Quirinale: infatti toccò a Enzo Moavero Milanesi, che avrebbe dovuto portare nel mondo l' odore forte delle rivoluzione populista-sovranista e invece ha lasciato dietro di sé soltanto una lunga scia di borotalco. L' unica cosa davvero incisiva della sua azione di governo. Si era sempre detto che nel primo esecutivo Conte c' era il partito di Sergio Mattarella, formato, oltre che dal medesimo Conte, per l' appunto da Tria e da Moavero. E il partito, mese dopo mese, ha accresciuto i propri consensi. Non fra i cittadini, si capisce, tanto si sa che quelli in Italia non contano più. Ma di sicuro tra i Palazzi. E così, appena partite le nuove consultazioni, il Pdq, Partito del Quirinale, ha immediatamente rivendicato più spazio: sulla base degli accresciuti consensi (nei Palazzi) non si accontenta più dei due ministeri che aveva, seppur così rilevanti, come Economia ed Esteri. Ne vuole quattro. E cioè: Economia, Esteri, Difesa e Interni. I quattro ministeri più importanti. Più la presidenza del Consiglio. E la cosa straordinaria è che ormai questo Paese è così impazzito che tutto ciò sembra ovvio. A tutti. Lo si scrive e lo si dice come se fosse una cosa normale. Persino costituzionale. Pensateci. Sono giorni e giorni che ci sentiamo dare lezioni sulla democrazia parlamentare. E sul ruolo delle Camere. E sulla rappresentanza come valore. Benissimo. Qualcuno di questi professori di Repubblica parlamentare sa dirmi dove lo trovo rappresentato in Parlamento il Pdq? Quali voti ha preso? Quanti seggi ha alla Camera o al Senato? In base a quale principio della democrazia parlamentare può permettersi di rivendicare (letteralmente: scegliere in via preventiva) i quattro ministeri più importanti del governo? Forse è cambiata la Costituzione a nostra insaputa. Benissimo. Lo si dica. Sergio Mattarella scenda dal Colle e si presenti ai colloqui con Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio, si butti nella bagarre, partecipi alla trattativa. Magari, chi lo sa, oltre a Economia, Esteri, Difesa e Interno, gli danno anche il sottosegretario ai Beni culturali o il viceministro delle Politiche agricole. Caso mai non gli bastasse il resto Di Maio avrà tutti i difetti di questo mondo, ma alla fine non ha mica torto quando rivendica a sé un ruolo da vicepremier. Altrimenti il partito politico che ha avuto più voti alle ultime elezioni e che ha più seggi in Parlamento (lo diciamo sempre per i docenti di democrazia parlamentare che hanno occupato i talk show nelle ultime settimane), che fa? Si prende le briciole e sostiene il governo dei tecnici scelti dal Pdq? Salvatore Rossi o Daniele Franco all'Economia? Franco Gabrielli o Alessandro Pansa agli Interni? Il ritorno di borotalco Moavero agli Esteri? E la presidenza del più mattarelliano di tutti (oltre che merkeliano e macroniano), cioè Giuseppe Conte? Tutte persone degnissime, si capisce. Ma scelte da chi non ha mai preso voti nel Paese. Ora si capisce che i 5 stelle, così come il Pd, hanno poco margine di manovra. Sono con le spalle al muro. L' intero sistema di potere li sta mettendo sotto pressione: questo governo s' ha da fare. E loro, del resto, hanno una paura fottuta di andare alle urne. Quindi sono pronti a ingoiare tutto: se Mattarella gli chiedesse Mario Balotelli alle Politiche culturali e Barbablù alle Pari opportunità, dovrebbero chinare il capo e dire di sì. Però, ecco, non vorremmo che nel far passare un governo della vergogna, facessero anche passare, sempre sulla testa degli italiani, una riforma costituzionale a loro insaputa. Il Quirinale deve nominare i ministri (tutti i ministri) su proposta del presidente del Consiglio. Ma non c' è scritto da nessuna parte che ha diritto ad averne una quota. Non c' è scritto da nessuna parte che deve partecipare alla spartizione. Non c' è scritto da nessuna parte, soprattutto, che gli spettano i quattro ministeri più importanti più il premier, sommando di fatto un potere assoluto senza alcun contrappeso. È ancora permesso dirlo? Oppure a forza di salvare la democrazia, ci siamo ridotti ad accettare supinamente la monarchia?

Governo M5s-Pd, Paragone canta Bennato per protesta: "Domani ti abituerai a dire sempre di sì". Repubblica TV il 29 Agosto 2019. Il senatore pentastellato Gianluigi Paragone esprime il suo dissenso al governo giallo-rosso cantando una vecchia canzone di Edoardo Bennato sulla sua pagina Facebook: "In fila per tre", dall'album "Burattino senza fili". "Magari all'economia ti metteranno quelli provenienti da Bankitalia - attacca - o che erano già dentro al Mef e avevano già scritto tutto negli anni precedenti e che hai contestato". Ma "i giornali già dicono che siamo bravi, responsabili, civili. Basta 'vaffa', magari adesso noi civilizzeremo loro" . Testo

Presto vieni qui ma su non fare così

ma non li vedi quanti altri bambini

che sono tutti come te

che stanno in fila per tre

che sono bravi e che non piangono mai...

E' il primo giorno però domani ti abituerai

e ti sembrerà una cosa normale

fare la fila per tre, risponder sempre di sì

e comportarti da persona civile...

Vi insegnerò la morale e a recitar le preghiere

e ad amare la patria e la bandiera

noi siamo un popolo di eroi e di grandi inventori

e discendiamo dagli antichi romani...

E questa stufa che c'è basta appena per me

perciò smettetela di protestare

e non fate rumore e quando arriva il direttore

tutti in piedi e battete le mani...

Sei già abbastanza grande

sei già abbastanza forte

ora farò di te un vero uomo

ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l'onore

ti insegnerò ad ammazzare i cattivi...

E sempre in fila per tre marciate tutti con me

e ricordatevi i libri di storia

noi siamo i buoni perciò abbiamo sempre ragione

e andiamo dritti verso la gloria...

Ora sei un uomo e devi cooperare

mettiti in fila senza protestare

e se fai il bravo ti faremo avere

un posto fisso e la promozione...

E poi ricordati che devi conservare

l'integrità del nucleo famigliare

firma il contratto non farti pregare

se vuoi far parte delle persone serie...

Ora che sei padrone delle tue azioni

ora che sai prendere le decisioni

ora che sei in grado di fare le tue scelte

ed hai davanti a te tutte le strade aperte...

Prendi la strada giusta e non sgarrare

se no poi te ne facciamo pentire

mettiti in fila e non ti allarmare

perché ognuno avrà la sua giusta razione...

A qualche cosa devi pur rinunciare

in cambio di tutta la libertà che ti abbiamo fatto avere

perciò adesso non recriminare

mettiti in fila e torna a lavorare...

E se proprio non trovi niente da fare

non fare la vittima se ti devi sacrificare

perché in nome del progresso della nazione

in fondo in fondo puoi sempre emigrare...

Compositori: Edoardo Bennato

DAGONOTA il 29 Agosto 2019. (dall'articolo "The Weaponization of history" pubblicato dal "Wall Street Journal"). “È meglio avere un muro completamente bianco - o racconti stracolmi di morale sull’eroismo delle persone di colore - che raccontare una storia complicata su un eroe americano”. È questa ormai la tendenza che l’America ha con il suo passato. Una tendenza manifestata dai politici, dalle élite delle università che eliminano ogni devianza dal pensiero dominante, e anche dai giornali. Il tentativo del “New York Times” di riscrivere la storia degli Stati Uniti e dare merito agli schiavi che hanno costruito il mito americano è la summa perfetta di questo trend. “1619 project” è una mega-inchiesta del quotidiano, che guarda al passato degli Stati Uniti mettendo al centro il fenomeno dello schiavismo, che arriva a mettere in discussione la bontà della Costituzione compilata nel 1787, finora considerato documento illuminante e illuminato da pressoché tutti. Scordatevi i padri fondatori, Tocqueville, scordatevi il mito della frontiera: l’America non è una democrazia, ma una schiavocrazia! Ormai, come spiega lo storico Wilfred M. McClay, professore all’Università dell’Oklahoma e autore di “Land of Hope: An Invitation to the Great American Story”, in un editoriale sul Wall Street Journal, la storia viene sempre più usata come arma politica. “il miglior esempio in tal senso - spiega McClay, è il sempreverde argomento ad Hitlerum, secondo cui qualsiasi male, dal bigottismo al vegetarianesimo e perfino all’apprezzamento di Wagner, viene ricondotto a un immaginario nazista. Ecco quindi che i centri di detenzione sul confine meridionale dell'America dovrebbero essere chiamati "campi di concentramento", secondo Alexandria Ocasio-Cortez. È un po’ la stessa cosa che vediamo in Italia con il fantomatico “ritorno del fascismo”, tirato in ballo di tanto in tanto per attaccare gli avversari politici, da Berlusconi a Salvini. “Quando è stato interrogata a proposito, la giovane democratica ha consigliato agli americani: ‘Questa è un'opportunità per noi di parlare di come apprendiamo dalla nostra storia’. Peccato che - spiega ancora McClay - quella storia non sia la nostra”. Continua McClay: “Un esempio più inquietante è la precipitosa corsa a giudicare gli eroi del passato e demolire o rinominare i monumenti a loro dedicati. Tra questi ci sono George Washington, Thomas Jefferson e Woodrow Wilson. Siamo davvero così deboli di cuore che non possiamo più tollerare che grandi uomini del passato per alcuni aspetti non soddisfano le nostre attuali categorie? È vero che tutti e tre gli uomini avevano o schiavi o credenze razziste. Ciò esaurisce tutto ciò che dobbiamo sapere su di loro? Dovrebbe superare il valore di tutto il resto che hanno fatto? (…) Ma così si trasforma la storia in un'arma, e lo si fa con una brutale semplificazione della documentazione storica. È l'approccio dell'audace "Progetto 1619" del New York Times, secondo il quale "quasi tutto ciò che ha reso l'America eccezionale è nato dalla schiavitù". Un approccio sinceramente storico riconoscerebbe certamente che Washington possedeva schiavi, lo peserebbe in funzione delle sue credenze e delle sue azioni nell’ambito di un’ampia e lunga vita. Le considererebbe nel contesto del loro tempo, e terrebbe anche conto della sua decisione di liberare i suoi schiavi al momento della morte. Ma la complessità, purtroppo - scrive ancora McClay - non va più di moda. Ad esempio un consiglio scolastico di San Francisco ha votato coprire un murale dedicato al primo presidente americano. La motivazione? Era razzista e degradante per il modo in cui rappresentava neri e nativi americani. Meglio avere semplici e tranquillizzanti pareti bianche piuttosto che raccontare una storia complicata su un eroe americano. Ma attenzione, “armare” - spiega lo storico - significa essere ostili alla storia vera e semplificarla tremendamente. È quello che si vede ormai da anni con l’intersezionalità che domina i campus universitari staunitensi, con la “cultural appropriation”, con le categorie di “storicamente sottorappresentato” per certificare gruppi che in base al passato si suppone debbano necessariamente essere favoriti automaticamente oggi”. Insomma, la storia serve ancora? Perché studiare ancora il passato? “Oggi la risposta sembra essere troppo spesso ‘per ottenere armi migliori da usare nelle attuali battaglie’. Ma non può durare per sempre. Una volta che la storia diventa un club, perde la sua credibilità. E le affermazioni ‘esageratamente esagerate’ del 1619 project del Times non faranno che gettare discredito sull’analisi storica”.

L' AMERICA? CHIAMATELA SCHIAVOCRAZIA. Enrico Deaglio per “la Repubblica” il 29 Agosto 2019. L'atto d'accusa è senza precedenti: «Cittadini americani, tutto quello che vi hanno sempre detto sulla purezza della nostra democrazia, sulle nostre libertà superiori a quelle di qualsiasi altro, sulla eticità del nostro capitalismo e della nostra Costituzione è semplicemente falso, disonesto ed ipocrita. Le cose non andarono così: noi non siamo figli di una lotta di indipendenza, ma di una "schiavocrazia", che ancora adesso plasma la nostra vita sociale ». Queste parole non sono scritte su un volantino di un centro sociale, su un sito di assatanati marginali o su una pubblicazione di un accademico eccentrico, ma sono stampate in grandi caratteri sul New York Times , il più importante giornale del mondo, in un "evento" destinato a segnare, se non altro, una svolta nel giornalismo. Si tratta di The 1619 Project , un'"inchiesta- bomba" pubblicata con super tiratura sul magazine del quotidiano, che rivisita la storia americana a partire dal quattrocentesimo anniversario di una data mai veramente ricordata. Nell' anno 1619, davanti alle coste della Virginia, una nave pirata inglese assalì un vascello portoghese, cercando oro e dobloni. Trovò invece nella stiva «20 o più» africani, che erano stati rapiti in un territorio che oggi è l' Angola. Non sapendo che farsene, i pirati inglesi li barattarono per provviste, con uno sparuto gruppo di settlers inglesi. L' arrivo di quel gruppo di africani segnò l' inizio della schiavitù americana, che avrebbe portato in quel continente 12,5 milioni di loro fratelli, in catene, in viaggi attraverso l' oceano Atlantico che causarono la morte di altre due milioni di persone, nella «più grande migrazione forzata della storia fino alla Seconda guerra mondiale». Era appunto il 1619, i Padri Pellegrini sarebbero arrivati solo l' anno dopo - quindi non sono loro i "founding fathers"; e solo 157 anni dopo i coloni inglesi decisero che erano stufi dell' Inghilterra che gli faceva pagare troppe tasse e produssero quel gioiello per le sorti dell' umanità («tutti gli uomini sono uguali» «il diritto alla felicità») che è la Dichiarazione d' Indipendenza, ma si dimenticarono - anzi non li nominarono proprio - gli schiavi africani, che costituivano già allora un quinto della popolazione. Neanche la Costituzione fa cenno a loro, ma piuttosto si dilunga su tutti i sistemi con cui il governo si impegna a garantire agli schiavisti la loro "proprietà", compreso l' uso gratuito dell' esercito e della polizia in caso di ribellioni o fughe. Solo nel 1870, dopo la guerra civile dai 600 mila morti e la liberazione di quattro milioni di schiavi, il Congresso approvò il diritto di voto per i neri, ma solo nel 1965, dopo anni di lotte civili, il presidente Johnson ottenne che quel diritto potesse essere esercitato. E ancora oggi è ostacolato. L' impianto del 1619 Project è una sorta di candida rivoluzione copernicana: è bastato riguardare la storia mettendo al centro un "fenomeno" di cui si faceva fatica a parlare, e fargli ruotare il mondo intorno, per cambiare il significato degli eventi. E dunque, se si ammette che la forza lavoro schiava è stata determinante per la realizzazione dei grandi miti americani, dalla costruzione delle città, al disboscamento delle foreste e soprattutto alle enormi produzioni di zucchero e cotone (la potenza economica americana nell' Ottocento costruita con il lavoro forzato), si potrà osservare che da questa generazione di ricchezza a basso costo concentrata al Sud sono nate, al Nord, sia la rivoluzione industriale, sia il sistema bancario, sia la globalizzazione dell' epoca. Dei primi 12 presidenti americani, 10 erano proprietari di schiavi; all' inizio dell' Ottocento, l' uomo più ricco d' America era un broker di schiavi del Rhode Island; la Wall Street di New York si chiama così per il Muro, davanti al quale si svolgevano le compravendite degli schiavi. La guerra civile nel 1865 sancì la fine ufficiale della schiavitù, ma l' America fece molta difficoltà ad ammettere che quei quattro milioni di persone erano stati i protagonisti della nascita di una nazione. Lo stesso presidente Lincoln, il campione dell' abolizionismo e il vincitore della guerra, convocò alla Casa Bianca - ed era la prima volta che uomini neri varcavano la soglia di quell' edificio che i loro genitori o nonni avevano costruito come schiavi - un gruppo di afroamericani "prominenti" e spiegò loro che era meglio che le due razze si separassero; e li informò che aveva dato ordine al Congresso di trovare i soldi necessari per trasferire tutti in Africa. Il progetto non andò in porto, anche perché Lincoln venne ucciso, ma quello che è certo - secondo The 1619 Project - è che tutte le successive conquiste della democrazia americana, sono avvenute non grazie ai bianchi, ma nonostante i bianchi, e solo perché i neri d' America sono stati più patriottici di tutti i loro concittadini, aprendo la strada alle conquiste di tutti gli altri. È una ricostruzione romanticizzata della storia americana? Non proprio, anche se il 1619 Project arriva ad un pubblico di massa dopo una serie di successi letterari sullo stesso tema; si lega piuttosto a un movimento politico - che ha una certa consistenza, specie in un anno di elezioni presidenziali - e che chiede, per i neri d' America, una "compensazione" concreta e tangibile, per le ingiustizie subite da sempre. Tutto il "progetto" - passato al vaglio dei più importanti storici, e che si avvale dei contributi di poeti, giornalisti, musicisti in una ricostruzione radicale e maestosa della storia americana - è stato coordinato da Nikole Hannah-Jones, giornalista del Times , 43enne nata a Greenwood, Mississipi dove suo padre era bracciante agricolo. La città è nota per essere stata una delle capitali del cotone, ma anche dei linciaggi e del razzismo. Presentando il suo lavoro, Hannah-Jones scrive: «I neri hanno visto il peggio dell' America, ma nonostante tutto credono ancora nel suo meglio. Una volta ci dissero che proprio perché eravamo stati schiavi, non avremmo mai potuto essere americani. Ma fu proprio in virtù della nostra schiavitù, che siamo diventati i più americani di tutti». Allibita e furiosa per questa pubblicazione, tutta la destra americana, presidente in testa. Finora cauti i candidati democratici. Ma un successo democratico Nikole Hannah- Jones l' ha già ottenuto: ha conquistato il New York Times.

Regno Unito, il parallelo: quel colpo di re Carlo I che mandò in aula i soldati (e scatenò la guerra civile). Pubblicato mercoledì, 28 agosto 2019 da Sergio Romano su Corriere.it. L’Inghilterra ha un lunga storia e i suoi cittadini cercano spesso di trovare nel passato vicende che sembrano anticipare quelle del presente. Il confronto è rassicurante. Dimostra che il Paese ha una forte identità e che riuscirà ancora una volta a uscire vincente dalle situazioni più difficili e complicate. Dopo il passo inatteso con cui il Primo Ministro Boris Johnson ha deciso di chiudere il Parlamento per qualche settimana, molti hanno ricordato gli avvenimenti del 1641 quando Carlo I Stuart, re di Scozia e d’Inghilterra, fortemente irritato dall’antagonismo di Cromwell e del Parlamento, cercò di chiudere la Camera dei Comuni e vi entrò con un drappello di militari per arrestare alcuni deputati. Scoppiò una guerra civile e Carlo lasciò la testa sul ceppo del boia. Non sarà questa certamente la fine di Boris Johnson e ogni confronto con le vicende di questi giorni sarebbe assurdo. Ma esiste ormai un dibattito sulle funzioni e i poteri del Parlamento che gli inglesi prima o dopo dovranno affrontare. Voglio credere che la Regina Elisabetta non avrebbe firmato l’atto con cui il Primo Ministro ha deciso di sospendere i lavori della Camera dei Comuni sino al discorso della Corona, il 14 ottobre, se i suoi consiglieri avessero fondati dubbi sulla legalità del provvedimento. I regolamenti parlamentari non escludono la possibilità di una proroga dei lavori e in altre occasioni l’argomento usato da Boris Johnson (una sessione parlamentare che dura ormai da 340 giorni ed è la più lunga da molti anni) sarebbe stato considerato ragionevole e comprensibile. Vi sono state proroghe in altri momenti, ma in questo caso la situazione è alquanto diversa e le circostanze giustificano molti sospetti. Il Primo Ministro sapeva che nelle prossime settimane Jeremy Corbin, leader del Partito Laburista avrebbe cercato di raccogliere consensi, anche fra i conservatori, per presentare una mozione di sfiducia contro la sua persona. E sapeva che Corbin avrebbe approfittato del tempo di cui disponeva per aprire un grande dibattito alla Camera dei Comuni e nel Paese sulla prospettiva di una Brexit senza «deal», come viene succintamente definito l’accordo che Theresa May aveva negoziato con la Commissione di Bruxelles per risolvere i molti problemi del “dopo Brexit”. Johnson non può ignorare quanti siano i legami che ancora uniscono la Gran Bretagna alla Ue, e quanto sia necessario adottare rimedi per impedire che la brusca interruzione di questi rapporti danneggi i consumatori e le aziende, per non parlare dei Paesi che sono stati per molti anni i partner economici del Regno Unito. Boris Johnson si dichiara convinto di riuscire a risolvere ogni problema presentando al Paese un ambizioso programma di riforme che dovrebbero ridare alla Gran Bretagna un ruolo mondiale; e dice che per la preparazione del programma ha bisogno di tempo. Ma temo che abbia soprattutto bisogno di un Parlamento a porte chiuse che non gli metta i bastoni fra le ruote sollevando dubbi e facendo domande imbarazzanti. In un Paese in cui la Camera dei Comuni, per le sue tradizioni e per i poteri di cui dispone, è la spina dorsale della democrazia, la decisione di Johnson dovrebbe aprire un dibattito nazionale sul ruolo e i poteri del Parlamento in una moderna democrazia: un problema che gli inglesi, prima o dopo, dovranno affrontare. Johnson, probabilmente, non si sarebbe avventurato su questa strada se non sapesse di potere contare sull’approvazione e sul sostegno di Donald Trump. Li unisce la vanità, la sete di potere, uno spregiudicato nazionalismo e l’insofferenza per la Ue. In questa vicenda vi è, in effetti, molto sovranismo. I sentimenti del Premier britannico per l’Ue non sono molto diversi da quelli di Marine Le Pen, di Viktor Orban e degli altri leader di Visegrad. Johnson crede di avere in mano un’ altra carta che cercherà di giocare al Consiglio Europeo del 17 ottobre quando la sua strategia consisterà ancora una volta nel tentativo di dividere la Ue. Londra vi è riuscita in altre circostanze e non vorremmo che accadesse anche ora. L’Inghilterra che ci piace è quella che ha regalato al mondo le istituzioni e le regole della democrazia: non quella che chiude i parlamenti.

DagoSpia il 27 agosto 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Paolo Becchi, professore universitario di filosofia del diritto ed ex ideologo del Movimento 5 Stelle: Caro Dago, Una crisi che si poteva concludere con una risata (gli amanti si rimettono insieme) oppure ed è ancora possibile con una grossa inculata (il PD che ritorna al governo dopo essere stato sconfitto alle elezioni). La via delle elezioni sembrerebbe preclusa anche a costo di trovarsi di fronte ad uno scollamento tra popolo e istituzioni, uno scollamento di cui il Presidente della Repubblica se avesse letto Costantino Mortati dovrebbe tener conto ed in parte ne sta tenendo conto...Infatti lui, scartata a priori la possibilità della risata che invece a me sarebbe tanto piaciuta l‘ha posta in questi termini : giallo rossi o tutti morti. Non del tutto corretto ma sempre il Presidente è. Il povero Salvini rendendosi conto della trappola per lui e della inculata per tutti gli italiani ha fatto l’impossibile per ricucire - credetemi l‘ impossibile. E l‘amante è stato pure tentato di ricucire perdonando il tradimento. Ma l‘Elevato  di sto cazzo si è messo di traverso e ha mandato a fare in culo Salvini,  inserendo persino nella famiglia degli Elevati l’avvocato non del popolo ma dello studio Alpa. Obbiettivo: far fuori il Capitano che a Grillo è sempre stato sul cazzo e portare al Quirinale il suo compagno di merende: Romano Prodi. Tutto sta andando nel verso giusto quando Giggino si rende conto di rimanere mezzo inculato anche lui e allora si incassa come una iena e pretende vicepresidenza del consiglio e Viminale mirando a fare col Pd quello che la lega ha fatto con lui. Da qui l‘impasse attuale, altro che Conte ...Il fratello del commissario Montalbano ora non sa proprio cosa fare. Certo che se Giggino tira ancora la corda il fratello del commissario  potrebbe anche avere un lampo di lucidità (sarei tentato di escluderlo il lampo, ma non si sa mai) e dire: ora basta, andiamo ad elezioni e sono cazzi amari per il M5S. Zingaretti verrebbe premiato per la sua coerenza e potrebbe giocarsela con Salvini e con le elezioni il M5S diventerebbe un prodotto di scarto biodegradabile. 

Meloni: «Stanno rubando il governo, sono come i ladri incappucciati».  Giorgio Sigona martedì 27 agosto 2019 su Il Secolo d'Italia. «Tutti sanno che stanno facendo un governo contro la volontà degli italiani». Lo afferma Giorgia Meloni in un video pubblicato sulla sua pagina Facebook. «E questo è tipico del Pd: se non puoi ottenere una cosa perché non te la meriti, rubala. E il governo lo stanno veramente rubando, perché non è roba loro ma degli italiani, del loro voto, della loro volontà. Siccome sanno di perdere, impediscono che si vada a votare e se lo prendono lo stesso. Per loro è importante stare seduti sulla poltrona». «Io sono basita», dice ancora la Meloni, «per quello che sta accadendo. È l’equivalente del ladro incappucciato che ti entra in casa e ti porta via l’argenteria. È la stessa cosa». «Non c’è un governo da un mese e lo spread cala magicamente a 191 punti: dopo la benedizione degli euroburocrati, delle Ong e quella della Cgil ora arriva anche quella dei mercati finanziari. Il governo Pd-M5S è la migliore garanzia possibile per i gruppi di potere che da decenni saccheggiano il popolo italiano». «Il governo M5s-Pd ha la benedizione della Cgil. Quindi sarà ufficialmente una maledizione per famiglie e imprese italiane». È quanto scrive Giorgia Meloni su Twitter, postando un articolo de Il Giornale.it dal titolo “Il contratto dei giallorossi lo scriverà la Cgil”. In un ultimo tweet la presidente di Fdi incalza: «Stanno facendo di tutto per togliervi la parola. Elezioni subito».

Il cittadino vota ma non conta più: è non democrazia. Claudio Brachino, Martedì 27/08/2019 su Il Giornale. Voto ergo non sum. Con questa cartesiana certezza rovesciata, fatalmente e anche storicamente stiamo entrando nell'era della non-democrazia, o democrazia formale. Le elezioni in Italia sembrano ormai una concessione, un'eccezione, una contorsione delle regole dei padri costituenti. Forse una populistica liturgia da guardare con sospetto. Già la democrazia rappresentativa non se la passa così bene e ha ingrassato in maniera spropositata movimenti anti-casta che poi in proprio, nella fase costruens, cioè amministrativa del potere, hanno dimostrato di avere idee contraddittorie sulla realtà, in primis nella materia decisiva dell'economia. Ma andiamo con ordine. È vero che Mattarella secondo la Costituzione deve verificare se esistono maggioranze parlamentari credibili prima di richiamare i cittadini italiani alle urne. Ma è anche vero che queste maggioranze non devono essere accrocchi, pardon inciuci, di meri numeri, poltrone, nomine, paure incrociate. Queste maggioranze devono avere una relazione logica, se non proprio cartesiana, con il sentiment popolare. Non solo Frankstein partoriti da disegni di potere, non solo acrobazie di conservazione e resuscitazione, le maggioranze parlamentari «credibili» devono avere una sostanza democratica. Lo specchio inclinato verso i cittadini e non buttato nei rifiuti per non vedere il frutto di una pessima chirurgia politica. Anche qui facciamo ordine: il 4 marzo del 2018 gli italiani hanno votato il centrodestra, primo senza i numeri per governare, ma primo. Poi il successo del M5s, il crollo del Pd, il sorpasso della Lega su Forza Italia. Poi Salvini e Di Maio hanno messo insieme ciò che nessuno gli aveva detto di mettere insieme. Inutile ridire quello che è stato detto mille volte, vale la pena solo sottolineare qui che l'unica antropologia comune era quella di aver capitalizzato, anche se ognuno per conto proprio, una lunghissima campagna anti-sistema. Com'è finita si sa. Con Conte che parla una lingua sub-istituzionale da fidanzata offesa e la soap sarcastica delle telefonate tra i due golden boys. In questi mesi poi il sentiment popolare si è espresso con le Regionali, tutte vinte dal centrodestra, con le Europee vinte dalla Lega che poi nei sondaggi ha toccato punte del 39 per cento. Lo dice Chomsky, ideologo della sinistra americana, e non un barbaro sovranista: se io cittadino voto e ho la sensazione di non poter cambiare la realtà o di non poter dare un giudizio su chi mi ha governato, allora la macchina democratica va in frantumi. Dunque come cittadino non esisto, non ci sono, non valgo, non conto. Non sum. Ci pensi, Mattarella.

Per la quarta volta un governo del Pd non votato alle urne. Riccardo Mazzoni il 26 Agosto 2019 su Il Tempo. Se nascerà il governo rossogiallo, sarà la quarta volta in 6 anni che il Pd va al governo senza aver vinto le elezioni. Specialista in scorciatoie giudiziarie per far cadere i governi Berlusconi, il maggior partito della sinistra - nonostante le divisioni interne - ha collezionato 3 premier, presidiato Palazzo Chigi e ministeri chiave e ora si accinge a una nuova occupazione del potere insieme ai nemici del M5s. Questa volta con la pistola politica di Renzi puntata alla tempia di Zingaretti. In una democrazia parlamentare si tratta di manovre del tutto legittime, per carità, purché non si abbia l'impudicizia di ammantarle con la scusa dell'interesse nazionale, visto che il Paese reale, quello che ancora si prende la briga di andare alle urne, ha dimostrato ripetutamente - e in maniera schiacciante - di non volere la sinistra al governo. E pensare che questa stagione anomala di trasformismo malamente occultato dietro le formule nuoviste, di contratti di governo che prendono il posto delle vecchie coalizioni politiche, oltre che di sconcertante disinvoltura nel cambiare maggioranze come fossero magliette, era iniziata nel segno del cambiamento: contratto del cambiamento, governo del cambiamento, legislatura del cambiamento, eccetera. Ebbene, il risultato di questa strabiliante svolta a trazione grillina ha in realtà prodotto non un reale cambiamento, ma un palese arretramento non solo della qualità della politica, ma anche dei suoi usi, costumi e riti, che sono parte sostanziale della democrazia. Per più di 20 anni siamo stati infatti abituati al bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra, una scelta di campo semplificata dell’offerta politica. L’anno scorso invece, col una legge elettorale per due terzi proporzionale – studiata maldestramente per arginare i grillini - le alternative sulla scheda erano molte di più, perché il maggioritario aggrega le proposte, mentre il proporzionale le moltiplica, insieme alle risposte. Per cui il tripolarismo ha riportato l’orologio della politica indietro di diversi lustri: dal capo del governo nominato ipso facto la sera delle elezioni, con le consultazioni al Quirinale divenute un passaggio solo formale, si è tornati agli estenuanti riti della prima repubblica e alla formazione del governo determinata da un negoziato politico in Parlamento e dalla capacità di coalizzare una maggioranza intorno a un nome, a una formula e a un contratto che ha preso il posto del programma. A fronte di una novità – il contratto - che si è dimostrata assai deleteria per la stabilità del governo, insomma invece del cambiamento è stata innestata l’indietro tutta. E se l’istinto di sopravvivenza consentirà la nascita di un nuovo governo - di qualunque colore esso sia – e andrà quindi in porto il taglio di 345 parlamentari posto come prima e irrinunciabile condizione dai Cinque Stelle, il passo indietro diventerà ancora più rilevante, visto che il passo successivo sarebbe il ritorno in piena regola alla legge proporzionale della prima repubblica. Un passo in parte obbligato, perché l’ampiezza dei collegi che andrebbero ridisegnati alzerebbe di fatto le soglie di sbarramento a livelli tali da pregiudicare la rappresentanza parlamentare dei partiti medio-piccoli. E in parte fortemente voluta per impedire a Salvini di prendere i pieni poteri facendo incetta di collegi del Rosatellum. Anche se in Italia i pieni poteri ce li ha solo la magistratura, e non c’è vittoria elettorale, anche se bulgara, che li possa garantire (per informazioni chiedere a Berlusconi). Se torneremo al proporzionale, l’Italia si addentrerà in un terreno inesplorato, perché non esistono più le divisioni ideologiche, che erano anche certezze politiche, ma soprattutto i partiti radicati della prima repubblica, e quindi si andrà ad alleanze strette solo dopo le elezioni, a lunghi negoziati in Parlamento e a un’ingovernabilità che rischia di essere assurta a sistema. Indietro tutta, o forse peggio.

Pd al governo per la 4° volta in 6 anni senza il “disco verde” degli elettori? Ribaltoni. Se nasce l’esecutivo Di Maio-Zinga, per la quarta volta, in 6 anni, il PD guiderebbe il Paese, senza il “disco verde” degli elettori Pietro Mancini Lunedì 26 agosto 2019 su Affari Italiani. Se è vero che le tanto agognate quanto disprezzate “poltrone” sono sempre quelle degli altri, non si può negare che quello tra grillini e democratici si prospetti come “il patto delle cadreghe”. E, qualora il governicchio Dibba-Boschi nascesse, per la quarta volta, in 6 anni, il PD guiderebbe il Paese, senza il “disco verde” degli elettori. E, ancora una volta, la politica rinuncia a guidare l’opinione pubblica, come ha osservato, ieri, Massimo Cacciari, ex deputato del PCI, che ha definito l’ipotesi di accordo Pd - M5s «una manovra di Palazzo indecente». L'ex sindaco di Venezia, e non solo lui, trova «surreale che, dopo aver sparato a palle incatenate per anni, essersi insultati, essersene dette di tutti i colori, adesso Pd e 5 Stelle cerchino accordi, senza aver fatto un minimo di autocritica”. E Mattarella ? Il filosofo auspica che il Capo dello Stato bocci l’inciucio. Eppure, la sinistra dovrebbe, finalmente, aver capito che i “ribaltoni” sono deleteri, soprattutto per i partiti, che li organizzano. Romano Prodi, 20 anni dopo la caduta del suo primo governo, ha osservato : “Farlo cadere, in quel modo, con un colpo di mano di Bertinotti, orchestrato da D’Alema e Marini, tutti interni alla coalizione, è stato un errore enorme. Una catastrofe. La prova provata dell’inaffidabilità della sinistra. Che abbiamo pagato per tutti gli anni a venire”. Con l’esecutivo del Prof. scomparvero le speranze, diffuse in tanti elettori progressisti dalla nascita dell’Ulivo. Come fanno a non comprendere i capi del PD e del M5S dell’errore, che stanno compiendo ? In primis, Di Maio e c. non possono ignorare che il sentimento dei militanti sia agli antipodi rispetto al “governissimo”. Mentre l’immagine più realistica del PD l’ha colta Michele Serra : il buon fratello di Montalbano sta conducendo una trattativa faticosa, con Renzi in groppa, vendicativo e impegnato a restituire agli avversari interni venti chili di slealtà rispetto ai 10 subiti. La risposta di Cacciari : “Oggi i supposti big sono tutte terze o quarte file della politica. Zingaretti è un bravo amministratore. Però, da qui a pensarlo come un leader politico ce ne corre. Renzi ? Aspetta di fare un suo partito”. E il sociologo Domenico De Masi : “Rispetto all’avvio della legislatura, nulla è cambiato nei vertici del M5S e del PD. Entrambi i partiti hanno leader di pessima qualità. E Casaleggio jr dovrebbe passare la palla, per non distruggere la macchina ingegnosa, che il padre ha creato”. Dopo la caduta del Salvimaio, nascerebbe un Governicchio non “per” cercare di risolvere i tanti problemi del Paese, ma esclusivamente “contro” il temuto, e molto popolare, leader, Matteo Salvini. Che continua a essere il politico più attaccato e temuto, in quanto determinato ad attuare profondi cambiamenti, in tanti, delicati settori. In primis, quello della sicurezza e dell’immigrazione. Uno dei non pochi osservatori, ossessionati dal Matteo leghista, si è chiesto se il Capo della Lega continuerà a mangiare nutella in diretta social e se “perderà, definitivamente, la testa o la ritroverà”...Governo giallorosso, dunque, all’insegna di due paure : l’ascesa di Salvini e l’addio alle poltrone. Altro che “esecutivo forte per l’Italia risorta”, auspicato, ieri, da Scalfari, a cui l’età ha giocato un brutto scherzo : ha confuso l’ex leader del PSDI, Pietro Longo, che finì in cella per l’affaire Lockeed, con il successore di Togliatti al vertice del “partitone rosso”, Luigi Longo.

Chi li invoca e chi vuole sistemi di voto ad hoc. Ma dimenticano che i partiti sono spariti. Che cosa sono oggi quegli attori politici che ci ostiniamo a chiamare partiti? Pino Pisicchio il 27 Agosto 2019 su Il Dubbio. Accade che le parole nel tempo cambino contenuto, anche se mantengono la stessa forma. I linguisti direbbero che, pur in presenza di uno stesso “significante”, che è l’involucro esterno, mutano il significato, cioè il concetto racchiuso. Prendete “partito politico”. Se avessimo pensato a questa coppia di vocaboli trent’anni fa avremmo trovato quello che più o meno intendevano i nostri padri della patria con l’articolo 49 della Costituzione: un’associazione formata da cittadini con lo scopo di determinare la politica nazionale, organizzata con forme democratiche e chiamata a svolgere funzioni pubbliche fondamentali, come la formazione e la selezione della rappresentanza nelle assemblee in cui si esercita la sovranità popolare. Oggi si continua a parlare ancora di partiti ( ne stiamo facendo un’overdose in questa estate che ha sostituito ai giochi di spiaggia il thriller della crisi), ma intendiamo ancora la stessa cosa? Qualche dubbio ce l’avremmo. Cos’era il partito della cosiddetta Prima Repubblica a cui fa riferimento la Costituzione? Un attore istituzionale che constava di una struttura organizzativa stabile sul territorio ( per alcune formazioni addirittura dotato di una straordinaria capillarizzazione), di una identità ideologica marcata, di struttura interna democratica e comunque in grado di consentire una contendibilità dei vertici, di una continuità di presenza agli appuntamenti elettorali, sia nazionali che locali. Il precipitato necessario di questa impostazione era la legge proporzionale – attenzione: col voto di preferenza plurimo – che moderava il conflitto tra i candidati dello stesso partito e consentiva il rapporto diretto con il corpo elettorale. L’elemento centrale di quella esperienza era dato, dunque, dalla stabilità, sia in termini di continuità della presenza sulla scena pubblica che in termini di raccolta del consenso, e dal rapporto con la cittadinanza: fino alla metà degli anni Ottanta, infatti, il 10 per cento dei cittadini era iscritto ad un partito politico e il livello di partecipazione al voto si aggirava intorno al 90 per cento. Che cosa sono oggi quegli attori politici che ci ostiniamo a chiamare partiti? Salvo alcune sopravvivenze – peraltro anch’esse abbastanza alterate rispetto al modello risalente siamo di fronte a strutture provvisorie e continuamente cangianti, prosciugate di contenuto ideologico, caratterizzate dall’impianto cesaristico dei vertici, in genere non contendibili, poco strutturate organizzativamente, assolutamente instabili, con performance elettorali che fanno salire e scendere le montagne russe del consenso. Insomma: più che di partiti democratici parliamo di traversate solitarie di leader con il gruppo dei suoi cari attorno e tanta, tanta potenza di tiro dal punto di vista della comunicazione. Soprattutto, un destino politico effimero. In fatti tutti i cicli si sono fatti brevissimi; il risultato elettorale di un mese fa oggi proporrebbe cifre del tutto diverse, tramutando le doppie in numeri soli e viceversa. Quale che possa essere il giudizio su quel che accade in questi giorni nella trattativa per il nuovo governo, non si può fare a meno di considerare che il ripristino della normalità in un sistema istituzionale che poggia necessariamente sulla forma- partito, è proprio la restituzione della democrazia dei partiti. C’è poco da fare: in loro assenza il meccanismo democratico si inceppa, non funziona e tutto cade nelle mani del duce di turno e della sua egolatria ( se non della sua paturnia). Certo, c’è anche il grande tema della legge elettorale, un evergreen tutto italiano, ed anche elemento che influisce profondamente nella democrazia dei partiti. Nel frattempo, però, facciamo attenzione a maneggiare la paroletta magica perché quello che circola per lo più non si chiama partito politico: chiamatelo corte del Celeste Imperatore, chiamatelo azienda, chiamatelo congrega, chiamatelo come vi pare, ma usate una certa cautela quando parlate di partito. Perché quello che è scolpito nella Costituzione è tutta un altra cosa.

Dalla fine del sovran-populismo alla crisi della democrazia. Gennaro Malgieri il 14 agosto 2019 su Il Dubbio. Vediamo muoversi ombre vaganti verso il nulla. Quasi un secolo fa chi assisteva allo stesso spettacolo lo denunciava, ma non veniva ascoltato. Quando si è affermata l’idea, sancita da un massiccio consenso elettorale, che “uno vale uno”, la democrazia italiana è entrata nella fase più acuta della sua crisi. L’estremizzazione egualitaria ha cancellato qualsiasi replica possibile dei sostenitori delle competenze e delle gerarchie. E coloro che hanno condiviso l’assurdo assunto si sono sentiti autorizzati a rivendicare come giacobini assetati di giustizialismo sommario la bontà dell’idea che li metteva nella posizione di accaparrarsi il potere puntando sull’odio, sull’invidia sociale, sulla paura del “diverso”, sull’inimicizia dell’Europa. L’acquisizione del potere da parte dei sovran- populisti ha reso l’Italia il laboratorio della dissoluzione dei principi fondanti la democrazia organica, quella, per intenderci, nella quale il suffragio è certamente uno dei pilastri della costruzione comunitaria, ma se ad esso non si affiancano la responsabilità, la partecipazione, la solidarietà, non resterà niente del governo del popolo, al massimo la sua caricatura. E gli oligarchi che per un anno ci hanno propinato di tutto, in nome del cambiamento, sono stati i fautori di un istero- egualitarismo per Il quale chiunque si è vanamente sentito in dovere di reclamare per se stesso ( salvo smentite fattuali) qualsiasi cosa gli veniva promesso da quel fronte bislacco eppure propagandisticamente efficace guidato da Salvini e Di Maio. Adesso che i conti non tornano più, ed uno dei due protagonisti della più confusa stagione politica della storia repubblicana reclama il diritto ad ottenere addirittura “i pieni poteri”, mentre qualcuno fa finta non sentire questa roboante intenzione, ci si dimentica che non è vero che “uno vale uno”, ma uno solo vale tutti. Cioè a dire la pretesa di identificare il popolo con il capo o questi con chi lo applaude acriticamente. I paragoni storici si stanno sprecando in questi giorni, ma il solo che reputo significativo è quello con il giacobinismo sfociato anni dopo in bonapartismo: l’edificazione di un’élite che oggi avrebbe, a differenza del lontano passato, il supporto di una tecnologia aggressiva per produrre e conservare consenso. Altro che rappresentanza responsabile e partecipazione attiva. La democrazia italiana – che non si è stati capaci di riformare secondo modelli di intervento politico e di controllo della legalità partitica per come autorevoli studiosi, oltre che lungimiranti politici, immaginavano e proponevano – è entrata in un tunnel nel quale è impossibile perfino riconoscere le regole che dovrebbero modulare lo svolgimento del processo di ricomposizione a seguito della rottura nell’ambito della maggioranza di governo. E per questo, quale che sarà la soluzione che verrà adottata, potrà dirsi soddisfatto. Elezioni anticipate? Governo istituzionale, di minoranza o di scopo? Marchingegni per ritardare il voto con conseguenze devastanti all’interno degli stessi partiti e delle improbabili coalizioni? Alchimie. Un classe politica seria e dedita alla ricerca di “bene comune” non avrebbe strillato come le oche del Campidoglio all’invasione ( ma quando è avvenuta?) dei “diversi” per eccitare l’istinto primordiale di sopravvivenza, né avrebbe fatto credere che la “povertà è stata abolita” ( con tutto il rispetto, neppure Nostro Signore che resuscitava i morti e guariva gli infermi si spinse fino a tanto) ed il ridicolo reddito di cittadinanza unitamente alla “quota cento” avrebbero reso l’Italia un posto migliore. La classe politica sistematasi nelle stanze del potere poco più di un anno fa, impropriamente avvinghiata ad un patto di potere scellerato perché finalizzato alla distruzione degli stessi “soci”, ma ricco di promesse partitocratiche che entrambi i soggetti contraenti ambivano a soddisfare, avrebbe dovuto impegnarsi in una riforma, possibilmente coinvolgente anche le altre forze politiche, del sistema istituzionale constatata la fragilità del vigente e dedicarsi a porre le premesse di un nuovo protagonismo italiano piuttosto che incanaglirsi contro tutto, tradendo alleanze interne ed internazionali, spiaggiandosi sulla volgarità più corriva e utilizzando il sovranismo ( caricatura tragica del sostantivo sovranità) ed il populismo ( mistificazione di popolare ed ideologia anarco-elitista) quali pilastri di un disegno volto alla demolizione della già barcollante democrazia. Adesso che la crisi sistemica è sotto gli occhi di tutti, perfino di quelli che non li hanno voluti aprire finora, si resta sconcertati dalle ipotesi che vengono messe sul tavolo: i partitocrati di una volta erano dei veri statisti a fronte di biscazzieri del potere il cui unico scopo è quello di salvare se stessi. Altro che “nazione sovrana” ( è in atto un processo di disgregazione che fa rimpiangere il secessionismo: l’autonomia regionale rafforzata), altro che popolo decidente: uno non vale uno, non vale niente come tutti gli altri. E la partita che si sta giocando è proprio quella di limitare i danni mettendo insieme ciò che insieme non può stare e dividendo ciò che dovrebbe restare unito. Chi, per ragioni opposte, tira in ballo l’ aumento dell’Iva e l’ esercizio provvisorio, tanto per spaventare la gente, al fine di giustificare il ricorso alle urne o negarlo, è complice della devastazione provocata dai sovran-populisti ( si accusano a vicenda, ma fino a ieri hanno condiviso tutto ciò che potevano: dovrebbero avere la decenza di ammetterlo) il cui esercizio del potere non è stato scalfito per un anno da nessuno, tanto da destra quanto da sinistra, nella speranza in entrambi di schieramenti di potersi ritagliare uno spazio all’ombra dell’uno o dell’altro dei soci. Si rifà il centrosinistra con i Cinque Stelle? Verrà riesumato il Centrodestra con la Lega? Politicismo d’accatto. Mercato delle vacche. Vediamo muoversi ombre vaganti verso il nulla. Quasi un secolo fa chi assisteva allo stesso spettacolo lo denunciava, ma non veniva ascoltato. Weimar era la Repubblica dell’odio e la fabbrica del totalitarismo. Quando muore una democrazia in genere nessuno corre al suo capezzale. Ci vogliono decenni perché si oda un requiem.

«Difendo Weimar e i liberali che tentarono di evitare il baratro». Gli sforzi per radicare in Germania un modello di democrazia liberale falliti, la grande crisi e la spinta della destra e poi finalmente l’Europa civile di Adenauer, Schuman e De Gasperi ci tirò fuori dalle rovine della guerra. Dino Cofrancesco il 27 Agosto 2019 su Il Dubbio. Caro Gennaro, condivido gran parte delle tue riflessioni pessimistiche sul sovran- populismo e la crisi della democrazia, anche se, pur non essendo certo un simpatizzante di Matteo Salvini, certi toni mi sembrano eccessivi, come mi sembravano eccessivi ieri quelli usati dai detrattori della ( tua) vecchia destra. Mi ha meravigliato non poco, però, la chiusa del tuo articolo. Resisto alla tentazione di ripetere il vecchio adagio popolare ‘ il lupo perde il pelo ma non il vizio’( a tua formazione culturale non ti portava certo a simpatizzare con la Germania pentita delle sue follie imperialiste) ma non posso non rilevare che le parole da te impiegate– “Weimar era la Repubblica dell’odio e la fabbrica del totalitarismo. Quando muore una democrazia in genere nessuno corre al suo capezzale. Ci vogliono decenni perché si oda un requiem”-, non fanno onore alla tua intelligenza e alla tua cultura, che ho sempre molto apprezzato e continuo ad apprezzare, memore dei tanti saggi che mi hai inviato e che ho letto e ammirato per il loro anticonformismo e per il loro spessore etico e teorico. Ti racconto un episodio di cui sono stato protagonista l’anno scorso e che è alle origini della mia ‘ fuoruscita’ dal ‘ Foglio’. Il 7/ 8 luglio, Francesco Cundari, aveva scritto sul quotidiano diretto da Claudio Cerasa una lunga recensione del saggio di Benjamin Carter, La morte della democrazia ( The Feath of Democracy: Hitler’s Rise to Powee and the Downfall of the Weimar Republic). L’entusiasmo dell’ex giornalista dell’’ Unità’ per un libro insopportabilmente apologetico della Repubblica tedesca mi aveva colpito. Cundari, avevo rilevato, «ci riporta a una stagione storiografica che sembrava passata dopo decenni di revisionismo. È come se Ernst Nolte, George L. Mosse, Renzo De Felice, Walter Laqueur, Domenico Settembrini, Andreas Hillgruber, François Furet, Augusto Del Noce, Hannah Arendt non fossero mai esistiti. Non è il ritorno, il suo, alle interpretazioni più o meno marxiste e gramsciane dei Nicola Tranfaglia, dei Guido Quazza, dei Domenico Losurdo, ma al loro stile di pensiero che divideva la storia in pecore bianche e in pecore nere e a queste ultime non riconosceva né ragioni, né ideali ma, nel migliore dei casi, l’imbecillitas di chi si lascia mobilitare in difesa di interessi non suoi. Scrive Cundari, citando Hett, «la chiave per capire perché molti tedeschi sostennero Hitler stava anzitutto nel “rifiuto nazista di un mondo razionale basato sui dati di fatto |…| Il trauma della sconfitta spinse milioni di tedeschi a credere a una particolare narrazione della guerra non perché fosse oggettivamente vera ma perché era emotivamente necessaria”. È dunque questo impasto di vittimismo e aggressività, ricerca del capro espiatorio e paura del futuro, narrazioni autoconsolatorie e calcoli sbagliati, a spianare la strada a Hitler». Chiesi, pertanto al direttore del "Foglio", di poter pubblicare il mio commento all’articolo e, come sempre nel passato, mi fu concesso. Sennonché ebbi l’impressione che la mia replica non fosse piaciuta molto sicché, con grande sollievo di Cerasa, ritirai l’articolo, che poi venne pubblicato da Luca Ricolfi sull’’ Hume Page’, la rivista on line della Fondazione David Hume. In effetti, avevo mostrato di non condividere l’entuasismo per una Germania la cui capitale, stando alla testimonianza di Stefan Zweig:” si trasformò nella Babele del mondo. Bar, parchi di divertimento, pub crebbero come funghi. Ragazzi truccati, i fianchi messi in rilievo dalla vita assottigliata ad arte, passeggiavano per la Kurfürstendamm, e non erano soltanto professionisti.|…| Neppure la Roma di Svetonio conobbe orge pari ai balli dei travestiti a Berlino, dove centinaia di uomini in abiti femminili e donne vestite da uomo danzavano sotto gli occhi indulgenti della polizia”. Detto questo, però, come dimenticare che la classe politica tedesca del primo dopoguerra, erede del Reich di Guglielmo II, fece il possibile e l’impossibile per radicare in Germania un modello di democrazia liberale che, forse non avrebbe incontrato difficoltà insuperabili se non si fosse rovesciata la dinastia degli Hohenzollern, militarista quanto si vuole ma garante della lealtà dell’esercito e della burocrazia, come accennò in una pagina significativa Raymond Aron, che di regimi politici se ne intendeva? ( Gli americani non fecero lo stesso errore quando consentirono all’imperatore Hirohito di rimanere sul trono). I socialdemocratici Gustav Noske, Friedrich Ebert, Philipp Scheidemann, il popolare Gustav Stresemann furono a torto calunniati dalla storiografia di sinistra— che avrebbe voluto una SPD pronta a spianare la strada alla rivoluzione bolscevica, agli spartachisti, a quella Rosa Luxemburg critica di Lenin da posizioni ‘ movimentistiche’— e, sull’altro versante, vennero consegnati alla damnatio memoriae dalle destre affrante dallo spettacolo della vecchia Germania che cadeva a pezzi. Eppure i loro tentativi sarebbero andati a buon fine se la grande crisi non si fosse abbattuta su un paese fortemente dilacerato da conflitti religiosi, ideologici, culturali, geografici. Uomini come lo scienziato politico e sociologo Max Weber ( il più grande del secolo) e il giurista Hans Kelsen, economisti e imprenditori come Walter Rathenau ( ricordato di recente sul ‘ Giornale’ da Francesco Perfetti, in occasione della recente pubblicazione del suo saggio del 1919, L’economia nuova, Ed. Aragno) fanno parte del patrimonio ideale di quell’Europa civile che i Konrad Adenauer, gli Alcide De Gasperi, i Robert Schuman vollero ricostruire faticosamente sulle rovine di una guerra voluta dai nemici più feroci e irriducibili di Weimar. La Germania del primo dopoguerra è un case study particolarmente intriguing per lo studioso del liberalismo inteso come filosofia politica e come modello istituzionale. La sua tragicità sta nell’impossibile convivenza di culture e di visioni del mondo radicalmente opposte ma segnate tutte da un radicalismo assoluto ripugnante a ogni mediazione. Tra l’etica di Goebbels, di Rosenberg, di Salomon e quella di Grosz, di Brecht, di Henrich Mann c’era un abisso incolmabile: mors tua, vita mea, il confronto era tra nemici ontologici non tra appartenenti a una stessa "comunità di destino". Se ne trae una lezione che non ha perduto nulla della sua attualità: il pluralismo che sta alla base della società aperta non è quello tra valori incompatibili che dividono un popolo in masse ostili e pronte a scannarsi a vicenda. Il vero pluralismo, almeno quello liberale, non è conflitto di valori ma conflitto sul peso e la rilevanza che gli attori politici e sociali danno a valori che tutti condividono. Di qui l’importanza cruciale di una tradizione interiorizzata dai membri della comunità politica che si riconoscano negli stessi simboli storici, negli stessi ideali di un tempo e che, avvertendo l’orgoglio dell’appartenenza, coltivino, senza complessi, un’identità separata, pur se disposta a accogliere gli "stranieri" disposti a "nazionalizzarsi". Weimar conobbe, invece, il rullo compressore di un universalismo comunista e illuminista che inondava di disprezzo la patria— identificata col militarismo junker e con i capitalisti dal volto suino di Grosz— e di un tribalismo che, a parole, la esaltava ma, de facto, la diluiva in una comunità razziale planetaria in cui si perdeva la grande Kultur tedesca alla quale avevano dato un contributo non secondario, di uomini e di idee, gli odiati ebrei. "Andare fino in fondo", "portare i principi alle loro estreme conseguenze": è uno stile di pensiero del tutto incompatibile con la "democrazia liberale", che vive di chiaroscuri, di mediazioni sottili o dichiarate, di un buon senso iscritto in quella che fu per secoli la filosofia dei popoli anglosassoni, l’empirismo. Se la “società civile” sottostante non è "predisposta", i tentativi generosi— come quello di ricongiungere la Germania alle grandi democrazie atlantiche– sono destinati a naufragare e un tedesco fin nel midollo come Thomas Mann si vede costretto a emigrare anche se incarna, come pochi altri, lo spirito più profondo del suo paese, prima che la catastrofe bellica ne avesse orrendamente sfigurato il volto. Il 15 marzo 1896 Giovanni Giolitti scriveva alla figlia Enrichetta: «Un governo è il portato di secoli, e la peggiore di tutte le costituzioni sarebbe quella che venisse studiata in base a principii astratti e non fosse adatta in tutto e per tutto alle condizioni attuali del paese» e la invitava— lui simbolo dell’Italia aperta alle classi popolari!– a leggere il libro del "reazionario" «Taine, Les origines de la France contemporaine e in specie il volume intitolato La conquete jacobine» per rendersi conto di dove «conduce il voler foggiare un governo partendo da principi astratti». Quando vedo illustri storici del diritto tessere l’elogio della Costituzione di Weimar, mi riconfermo malinconicamente nell’idea che da noi il liberalismo non ha mai messo solide radici: una Costituzione, infatti, è buona non se, ispirandosi ai principi che la Ragione Universale detta urbi et orbi, si propone di cambiare i costumi di un popolo con le leggi ma se fa leggi che tengano conto dei costumi e costruiscano il futuro sulle solide fondamenta del passato. La classe dirigente weimariana ce la mise tutta per modernizzare civilmente il vecchio Reich. La si può anche accusare di debolezza nei confronti degli avversari della democrazia ma senza dimenticare, caro Malgieri, che un regime politico liberale può ben poco se “la forma non s’accorda all’intenzion dell’arte,. perch’a risponder la materia è sorda”. Ciò non toglie che i buoni europei debbano riguardare bolscevichi e nazisti come due rami dello stesso albero bacato e rendere, omaggio a quei socialdemocratici e a quei popolari che, tra le tempeste della crisi mondiale cercarono ( invano) di impedire al loro paese di precipitare nel baratro.

·         Quando i ribaltoni erano una cosa seria.

Così finì la Prima Repubblica. Un libro racconta l'agonia del craxismo e l'irruzione di Berlusconi. Partendo da quando Bettino cercò di fermare le inchieste giudiziarie mettendo le mani sul Corriere. Proprio come avrebbe fatto il Cavaliere 15 anni dopo. Marco Damilano il 20 gennaio 2012 su L'Espresso. Canaglia. Mascalzone. C'è solo una persona che nel 1992 Bettino Craxi odia più di Antonio Di Pietro. Per lui non c'è il poker d'assi, ma una sequenza di attacchi, accuse, perfino minacce fisiche. "Una volta mi chiamò e mi urlò: "Dopo le elezioni verrò lì e la butterò giù dalle scale a calci!". Gli risposi: "Beh, intanto pensi a vincerle, le elezioni"". Giulio Anselmi oggi è una figura istituzionale per il giornalismo, presidente dell'Ansa e presidente della Federazione degli editori... Ha diretto tutto quello che si può: "Il Mondo", "Il Messaggero", l'Ansa, "l'Espresso", "La Stampa". Ma la direzione che non può dimenticare è quella del "Corriere della Sera", ricoperta ad interim tra il febbraio e il settembre del 1992, nel mezzo della tempesta Tangentopoli. All'epoca il genovese Anselmi ha 47 anni, dopo una carriera da inviato... è in via Solferino dal 1987, con il grado di vice-direttore vicario di Mikhail Kamenetzky detto Micha, ovvero Ugo Stille, il direttore venuto da lontano, una vita di esodi tra Mosca, la Lettonia, New York, fortemente voluto da Gianni Agnelli. "All'inizio del 1992 Stille si ammalò e tornò in America. Non poteva neppure parlare al telefono, mi sono ritrovato da solo alla testa del "Corriere"", racconta Anselmi. Il "Corriere della Sera", nel 1992 come sempre nella sua storia, è l'oggetto del desiderio dei partiti di governo. E il ruolo del quotidiano di via Solferino, e del suo reggente Anselmi, chiamato dalle circostanze a tenere il timone nella tempesta, sarà decisivo per costruire il consenso attorno all'inchiesta Mani Pulite. Un esito per nulla scontato. Nel rapporto tra il "Corriere" di Stille e l'altro potere forte di Milano, il Psi di Craxi, c'è stato lo scivolone del direttore che non ama la politica italiana e che nelle sue acque limacciose si muove con una buona dose di ingenuità: 19 maggio 1989, congresso dei socialisti all'Ansaldo di Milano, c'è il camper parcheggiato dove sono riuniti con Craxi i maggiorenti del partito. Di fronte a tutti, arriva Stille, sale la scaletta del camper e va a salutare il leader del Psi, padrone di Milano. Dopo di lui, appuntano i cronisti, entra Silvio Berlusconi. L'omaggio del direttore del "Corriere" ben descrive i rapporti di forza che ci sono tra potere politico e stampa alla vigilia di Mani Pulite. Anselmi... incarna il profilo moderato di una città stufa di scandali e di paralisi politica. Nelle prime ore di Mani Pulite, il 18 febbraio, all'indomani dell'arresto di Mario Chiesa, il "Corriere" piazza un richiamo in prima pagina e i servizi nelle cronache locali, a pagina 40, firmati da Alessandro Sallusti, il futuro braccio destro di Vittorio Feltri e direttore del "Giornale" berlusconiano. Già dal giorno dopo, però, l'attenzione cresce... Il primo articolo su Antonio Di Pietro è datato 24 febbraio, un ritratto di Goffredo Buccini sul pm "estroverso e imprevedibile, abruzzese d'origine". Da quel momento l'indagine non abbandona più la prima pagina. E Craxi comincia a innervosirsi. "Quando partì l'inchiesta non avevo idea delle dimensioni dello smottamento" ricorda Anselmi. "Avevo la sensazione che stesse precipitando il craxismo, quel modo di intendere la politica, le mani del Psi su Milano, ma non avevo la più pallida idea di quello che sarebbe successo in seguito. Nessuno ce l'aveva, in realtà... Si ipotizzava all'epoca che anche Andreotti avesse informazioni privilegiate, ma il mio ricordo è diverso. Una volta mi chiamò Luigi Bisignani, "il presidente vorrebbe parlarti", mi disse. Lo andai a trovare a Palazzo Chigi, sperando di ricevere qualche notizia. E invece fu Andreotti a chiedermi cosa stesse succedendo a Milano e fin dove si sarebbero spinti i giudici. Aveva meno informazioni di me". Il primo editoriale di Anselmi su Mani Pulite arriva il 2 maggio, all'indomani del primo avviso di garanzia per gli ex sindaci Tognoli e Pillitteri. Segue, a distanza di quattro giorni, un secondo intervento. ...Con Craxi lo scontro violento arriva qualche settimana dopo. Quando il segretario del Psi manca l'obiettivo di Palazzo Chigi e il quotidiano di Anselmi martella ogni giorno sulle inchieste. Titoli urticanti... interviste... editoriali schierati: "Noi non apparteniamo al "partito" di Di Pietro. Ma l'opinione pubblica ha individuato in Di Pietro e nei suoi colleghi che conducono le inchieste sulle tangenti i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza... Non tenerne conto significa aver perso il polso della situazione del Paese" ("Di chi è la giustizia", 28 giugno)... E a questo punto Craxi ordina: da ora in poi non si subisce più. Il 17 luglio l'editoriale dell'"Avanti!" (coincidenze straordinarie) è una dichiarazione di guerra contro il giornale di via Solferino e la sua direzione: "Non intendiamo in alcun modo ostacolare il corso della giustizia come insistono nel dire organi di stampa che hanno perso insieme equilibrio, misura, obiettività e senso della giustizia, ad esempio è il caso di tanti articoli, corrispondenze e corsivi del "Corriere della Sera"". "È vero, ho pubblicato l'intervista di Biagi a Di Pietro, c'erano gli editoriali, ma... c'era Giuliano Ferrara che firmava una rubrica, io la conservai accompagnandola con un distico: "Il contenuto di questo articolo non corrisponde alla linea del giornale". Sallusti era uno dei cronisti più bravi, più attivi. In redazione c'era un vice-direttore che tremava ogni volta che facevamo il titolo di prima e che teneva il filo con i socialisti, io saggiamente non gli avevo dato deleghe... Una volta sbottò con me: "Ci farai cacciare via tutti". E io gli risposi: "Perché ti preoccupi tu, che non sanno nemmeno che esisti?"". Una delle leggende più dure da sfatare, a distanza di vent'anni, è il complotto dei poteri forti contro i partiti, le "coincidenze straordinarie" tra stampa, magistratura e editori di cui parlò l'"Avanti!", il circuito mediatico-giudiziario. "Non ho mai incontrato Di Pietro in quei mesi, mai parlato con lui neppure al telefono", replica Anselmi: "Non c'era nessun complotto contro i socialisti e contro i partiti: io e tutti gli altri capimmo quello che stava accadendo con gradualità, giorno dopo giorno. E per dire quale tipo di rapporto ci fosse tra la magistratura e il potere economico ricordo una cena al Savini con l'intero establishment schierato, da Cesare Romiti in giù. A un certo punto arrivò Borrelli, sembrava un generale che passa in rassegna le truppe, salutò tutti con un cenno del capo e con un militaresco colpo di tacco. In sala c'era un gelo paragonabile al terrore. No, grandi disegni non ce n'erano. Se non avessi fatto il giornale così a Milano mi avrebbero tirato i sassi alle finestre. E se ci fu complotto dei poteri forti, fu quanto meno mal congegnato". Da lì a poco, infatti, finiscono coinvolti nell'inchiesta i big dell'imprenditoria. Anche la Fiat viene coinvolta, mesi dopo, con l'arresto del numero tre, Francesco Paolo Mattioli. "In estate uno dei massimi dirigenti della Fiat da Torino venne di persona a Milano per dirmi che la successione di Stille era ormai quasi fatta e che il direttore sarei stato io. Nel percorso di denuncia mi ero spinto molto in là, non potevo arrestarmi quando le inchieste dai politici locali passavano a toccare i santuari della finanza, non potevo fermarmi di fronte alla Fiat e a Mediobanca. Così, quando fu scarcerato Mattioli, anche il "Corriere" pubblicò la sua foto con in mano la giumenta, la borsa di cartone con le sue cose. E da Torino chiamarono per sapere se fossimo tutti impazziti...". Nell'editoriale del 28 agosto Anselmi attacca "i grandi gruppi che saranno sempre più tentati di riporre le bandiere orgogliosamente sventolate per rincantucciarsi all'ombra protettiva dello Stato". È il suo ultimo editoriale da reggente, il 2 settembre viene nominato Paolo Mieli, fino a quel momento direttore della "Stampa". Scrive Massimo Pini che è il segretario del Psi a trasmettere il proprio benestare alla nomina con una telefonata a Ugo Intini: "Chiama Paolo Mieli e digli che farà il direttore del "Corriere"". Una delle pochissime vittorie di Craxi di quell'anno, anche se solo in apparenza. Anselmi resterà infatti in posizione di vertice come vice di Mieli per tutto il 1993, fino alla nomina a direttore del "Messaggero": "Quando la Camera negò per Craxi le prime autorizzazioni a procedere uscirono due editoriali sul "Corriere", uno firmato da me e uno di Mieli. E quello di Paolo era molto più duro del mio". Nel 2008 i destini di Anselmi e di Mieli sono tornati a incrociarsi. Anselmi è dal 2005 direttore della "Stampa", Mieli dal 2004 è tornato in via Solferino. E il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi li accomuna in una sorta di licenziamento in diretta. Riporta l'Ansa (2 dicembre 2008): ""Il tuo giornale titola oggi Berlusconi contro Sky. Che vergogna...", si sdegna il premier rivolto ad Augusto Minzolini, cronista della Stampa. "E le vignette del Corriere? Ma che vergogna, che vergogna...", aggiunge. "I direttori di questi giornali, come Stampa e Corriere, dovrebbero andarsene a casa..."". Il desiderio del Cavaliere sarà presto esaudito. Passano quattro mesi e Anselmi e Mieli lasciano le direzioni dei loro quotidiani. Mentre Minzolini viene nominato direttore del Tg1. Sembra un poker d'assi, anche in questo caso. Ma è tutta un'altra storia. O forse no, forse è la stessa.

Antonio Gnoli per Robinson – la Repubblica il 25 Settembre 2019. La forte immagine di decadenza che la società italiana sta offrendo di sé non è una novità. Dai tempi di Dante e Machiavelli si ripropone puntualmente, rivelando la nostra costante debolezza politica. Sabino Cassese l' affronta ne La svolta, il nuovo libro edito da il Mulino. È una disamina arguta su questa estate incattivita dalle svolte dei suoi protagonisti. Gli chiedo se oggi la politica sia solo tattica o anche strategia. Gli obiettivi si colgono a fatica, dice, però consiglierei di meditare su una frase di Stendhal: «La politica non è una lotta del bene contro il male, ma una scelta tra il preferibile e il detestabile». Un invito alla prudenza e, forse, anche alla letteratura che lui frequenta con soddisfazione. Ha tra le mani alcuni fogli di appunti per poter guidare il nostro incontro. Ma poi scopro che sono soprattutto richiami letterari, citazioni da vari autori: Conrad e Mann, Diderot e Goethe. L' elenco è lungo.

Che funzione svolge la letteratura nella sua vita?

«Ha da sempre un ruolo importante. Ho una predilezione per quella tedesca: Goethe e Mann sopra a tutti. E poi quella russa. Ma anche la Francia mi affascina: le Massime di La Rochefoucauld; Diderot e Stendhal. Proust. Ho un mio Proust fatto con tutte le frasi che ho annotato».

Prende spesso appunti quando legge?

«Sono il prolungamento dei miei pensieri».

Vedo che ha annotato una frase di Conrad.

«È piuttosto famosa ma rende bene l' idea della mia giornata: "Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?"».

Lui scrisse anche: "Si vive come si sogna, perfettamente soli".

«Credo fosse in Cuore di tenebra, uno dei grandi romanzi della disperazione. Lo lessi a Salerno, da giovane».

È lì che è nato?

«Sono nato ad Atripalda, un paesino dell' avellinese. Però ho vissuto a Salerno. Mio padre era direttore dell' archivio di Stato e in seguito professore universitario. Mia madre insegnante al ginnasio. Ho una sorella che ha sposato Tullio De Mauro e un fratello, Antonio, che è stato un esperto importante di diritto internazionale. Il suo lavoro nell' ambito del tribunale speciale contro i crimini di guerra è stato pionieristico».

A Salerno fino a quando è restato?

«Sono andato via a 17 anni. La cosa più bella era il lungomare. Quella più terrificante l' ho vissuta nel settembre del 1943. Seicento navi schierate nel golfo puntavano i cannoni sulla città».

Divenne poi celebre per lo sbarco di Salerno.

«Lo fu grazie alla svolta di Togliatti, nell' aprile del 1944».

Svolta perché?

«Togliatti era tornato dall' Urss e tutti si aspettavano dal capo del comunismo italiano una posizione filosovietica. In realtà capì che la cosa migliore fosse quella di trovare un compromesso tra le forze in campo».

Si creò un governo provvisorio.

«Furono rappresentate tutte le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale. Nel 1944 avevo nove anni. Ricordo che un pezzo di quel governo si riuniva a casa mia».

Poi lascia Salerno per andare dove?

«A 17 anni vinco il concorso di ammissione alla Normale di Pisa. Il presidente di commissione era Delio Cantimori».

Grande storico.

«Indubbiamente. Una volta chiesi a Rosario Villari chi era più grande tra Chabod e Cantimori».

«Chabod, anche se giudicava Cantimori uno storico straordinario».

Era comunque l' università di Giovanni Gentile.

«La sua morte ancora si percepiva. E l' idealismo gentiliano continuava ad avere lì le radici. Ma, in quei primi anni Cinquanta, l' azione degli studenti della Normale fu di netta contrapposizione alla politica conservatrice del corpo accademico. Personalmente mi iscrissi alla federazione giovanile comunista, fino a diventarne segretario locale».

Non sapevo di questo suo impegno diretto.

«Fino ai primi anni '70 l' Italia non ha mai smesso, nei propri corpi statuali, la vocazione repressiva, ereditata dal precedente regime. Il governo di Scelba, lo scelbismo come fu chiamata la sua azione, ne divenne l' espressione più significativa. Allora poteva accadere, come a me è accaduto, che la polizia o i carabinieri venissero a informarsi col portiere o con i vicini se eri o no di sinistra».

Ma alla fine chi è stato il suo maestro?

«Indiscutibilmente Massimo Severo Giannini. Giunse in Normale nel 1952. Fu accolto come fosse il diavolo. Era stato socialista e capo di Gabinetto di Nenni. La sua intelligenza e le sue competenze si rivelarono fondamentali per la nascita della Costituzione».

Dopo la laurea che le accade?

«Nel 1957 entrai all' Eni. Fu Giannini a segnalare il mio nome a Giorgio Fuà, allora consigliere economico di Mattei. Voleva che un giovane con ottimi voti studiasse l' azione delle imprese pubbliche. Divenni anche capo ufficio studi del legislativo. Era ancora possibile che un giovane di 26 anni ricoprisse un ruolo così importante».

Ha frequentato Mattei?

«Sì, come scrisse Nenni nei Diari: "Personaggio di infinita seduzione". La sua convinzione fu che un paese piccolo e senza materie prime poteva diventare grande. Coltivò questo sogno con straordinaria dedizione e realismo».

Da lui, si è scritto, nacque il sistema delle tangenti.

«Non c' è ombra di dubbio. C' erano i libretti di assegni che firmava regolarmente per partiti e uomini politici».

Come oggi?

«Però in un contesto diverso».

Nel senso?

«La corruzione, in certi momenti, è parte organica del sistema. Non la sto giustificando. Dico che occorre distinguere il giudizio storico da quello morale. Oltretutto Mattei aveva un totale disinteresse per le esigenze personali e viveva in maniera modesta. Era figlio di un carabiniere ed era stato partigiano nella Resistenza».

Cosa pensa della sua morte?

«Propendo per la fatalità. Sull' aereo che è precipitato io volai diverse volte. Lo spazio interno era ridottissimo, come fosse un caccia. C' erano quattro posti. Un velivolo piccolo e veloce. Il temporale che lo investì, durante il volo Catania-Milano, fu la causa della tragedia. Il che non esclude che furono diversi a gioire della sua morte».

Era ingombrante.

«Il conflitto con il consorzio petrolifero delle "Sette sorelle" era palese e aspro. Agendo per lo più in regime di monopolio non potevano accettare la strategia di un uomo che parteggiava per i paesi, soprattutto africani, che il petrolio lo avevano».

Muore Mattei e lei che fa?

«Vado via, abbastanza disgustato dai nuovi capi dell' Eni. Fuà che tra l' altro insegnava economia mi chiamò all' università di Ancona, dove sono stato per 13 anni».

Una scuola prestigiosa di economia.

«Assolutamente. Del gruppo facevano parte, tra gli altri, Giorgio Ruffolo, Claudio Napoleoni, Antonio Pedone».

Ma lei, giurista di formazione, che cosa c' entrava?

«Non credo che il diritto si studi solo con il metodo giuridico. Oggi è un' affermazione scontata ma un tempo era considerata una specie di eresia. Il diritto comprende molte componenti: sociali, economiche, perfino psicologiche. A me interessa come istituzione sociale. Ho anche scritto intorno alla costituzione economica».

Quindi un diritto che tenga conto delle spinte al cambiamento?

«Non può ignorarle, ma neppure piegarsi per debolezza a esse».

Vale anche per la Costituzione?

«La conoscenza e il rispetto della Carta sono requisiti indispensabili. Poi è il contesto storico che ne orienta il senso».

Cosa rispose? Intende dire che alcune cose che valevano non valgono più?

«Meglio: valgono meno. Piero Calamandrei e lo stesso Giannini sapevano che in certi punti la nostra Costituzione era sbilenca. Calamandrei disse che in nessuna parte della Carta era previsto il rafforzamento del governo. Ma si immagina in quel momento, con il mondo occidentale spaccato in due, con l' esperienza del fascismo alle spalle, chi avrebbe potuto avere il coraggio di inserire una norma del genere?».

Lei fu eletto giudice della Corte costituzionale. Che esperienza è stata?

«Per nove anni, dal 2005 al 2014, ho esercitato quel ruolo che mi fu offerto da Ciampi, allora Presidente della Repubblica. Mi telefonò chiedendomi la disponibilità. Sinceramente non me lo aspettavo e in un primo momento pensavo di rifiutare».

Cosa le ha fatto cambiare idea?

«L' ammirazione e l' amicizia che avevo per Ciampi. Quando tre mesi dopo mi ritelefonò, chiedendomi cosa avessi deciso, accettai la nomina. In quell' arco di tempo avevo maturato l' idea che avrei potuto svolgere quel ruolo non solo da giudice, ma anche da storico e da politologo».

Torna ai suoi amori tedeschi. Ha seguito la sua natura versatile.

«Non ho mai cercato di occupare il centro di una disciplina scientifica».

In che senso lo assume? Restare ai margini? Vocazione per cosa?

«Era Einstein che diceva che il progresso delle scienze avviene sui confini. Voleva dire che è conveniente per un ricercatore tenersi in contatto con altri saperi».

Siamo il paese della malavoglia? Tornerei a Pisa: quando si laurea? Chi frequentava alla Normale? Le piace il potere intellettuale?

«Mi chiedo se esista ancora, comunque è preferibile a quello politico».

Perché?

«Il potere politico è una brutta bestia».

L' apostolo della pace. Lei più volte lo ha sfiorato.

«A me interessa svolgere la funzione di entomologo, consapevole che gli "insetti" che studio sono gli attori principali della felicità o dell' infelicità altrui».

Sono le promesse, spesso infondate, degli uomini politici.

«Loro calcano la scena, a noi studiosi il compito di valutarne le conseguenze».

Quasi sempre frutto di promesse inattendibili.

«Lo so, ma appartiene alle regole della retorica politica. Il punto vero è un altro».

Quale?

«Sapere che il potere spesso corrompe e allora bisogna avere dei correttivi. La domanda che io ritengo oggi capitale non è tanto chi va o no va al governo; ma che cosa accade se chi governa esce fuori dai binari. Ci vuole un capostazione che dica attenti: così si deraglia».

È lei l' uomo dei treni?

«La mia passione è cercare di capire dove sono i correttivi.

Anche i migliori possono deragliare».

NON CHIAMATEMI RIBALTONE. Alessandro Giuli per ''Libero Quotidiano'' l'8 settembre 2019. Dalla vetta dei suoi 88 anni, Lamberto Dini guarda al ribaltone giallorosso come a una svolta necessaria per l' Europa e benedetta dall' alto dei cieli finanziari. Anzi, nemmeno vuole chiamarlo "ribaltone", lui che passa per essere il tecnocrate che ha capovolto la maggioranza berlusconiana nel 1995, entrando a Palazzo Chigi al posto del Cavaliere sfiduciato da Umberto Bossi.

«Non mi riconosco nella definizione di "premier del ribaltone". Io ero una riserva della Repubblica che veniva dalle istituzioni. Quando mi hanno chiesto di entrare nel governo Berlusconi come ministro del Tesoro, lavoravo come direttore generale della Banca d' Italia da 15 anni. Poi ho dovuto gestire da Palazzo Chigi un periodo di transizione tra una legislatura e l' altra e l' ho fatto come servitore dello Stato».

Possiamo considerare Giuseppe Conte un suo epigono?

«Abbiamo formazioni diverse. Lui è un giovane avvocato che viene dallo studio Alpa. Poi ha fatto altre cose, anche se non tutto ciò che aveva inserito nel suo curriculum, nel 2018, rispondeva a verità. Comunque è stato scelto dai Cinque Stelle come persona terza, che non aveva mai fatto politica».

Non ha brillato molto nel governo gialloverde.

«Era stretto nella morsa dei due vice premier. Molto schiacciato. Poi, con la crisi provocata da Matteo Salvini, Conte ha potuto mostrare le sue qualità. Ma già si era rivelato un ottimo negoziatore con Bruxelles, riuscendo a scongiurare due procedure d' infrazione da parte della Commissione. E malgrado i pessimi rapporti tra Salvini e l' Europa».

Lo stesso Salvini che gli ha poi regalato la grande ribalta.

«Quando il leader leghista ha minacciato la mozione di sfiducia a Conte, il premier ha risposto in Senato con un discorso in cui ha mostrato grande coraggio e altrettanta capacità politica».

Ma aveva governato 14 mesi con Salvini! Il suo non è stato un saggio di trasformismo?

«Assolutamente no! Le due formazioni che si erano combattute nelle precedenti elezioni politiche, Partito democratico e Movimento Cinque Stelle, erano e sono a maggior ragione adesso meno lontane fra loro rispetto ai contraenti della coalizione gialloverde».

Era più naturale che si alleassero dopo il voto del marzo 2018.

«Esatto, ma allora l' ostruzione di Matteo Renzi fu disastrosa. In questa occasione, invece, la sua apertura a una maggioranza con i Cinque stelle è stata non soltanto legittima sotto il profilo costituzionale, ma anche intelligentissima e vincente. Da liberaldemocratico, dico che Renzi ha salvato l' Italia dal governo di estrema destra che avremmo dovuto subire in caso di voto anticipato».

Lo dice da uomo di establishment europeo. Ora l' Europa sarà più benevola con l' Italia?

«Certo. La politica di Salvini prevedeva una manovra di 50 miliardi per finanziare in deficit la flat tax e altri provvedimenti, accrescendo a dismisura disavanzo e debito pubblico».

Non trova paradossale che adesso l' Unione europea possa concedere all' Italia quella flessibilità prima negata ai gialloverdi?

«No, perché l' intendimento di Salvini era portare l' Italia fuori dall' euro: un disegno dichiarato apertamente, in piena crisi, dal suo consigliere economico Claudio Borghi e fortunatamente evitato. Anche il Pd renziano in passato aveva beneficiato di una certa flessibilità, ma questo perché Renzi ha sempre avuto un indirizzo europeista e pro euro.

Conte potrà fare altro debito?

«Ci sarà consentito di fare una manovra espansiva entro certi limiti poiché è nell' interesse di un' Europa a bassissimo tasso di crescita, come dimostrano i guai della Germania. L'Ue non insisterà a chiederci ulteriori riduzioni del disavanzo, sarà relativamente accomodante con noi perché siamo pienamente tornati nel consesso europeo».

Sta dicendo che Salvini poteva sfruttare la congiuntura e invece ha spaventato l' Europa?

«Sì. Probabilmente era l' occasione favorevole per ottenere concessioni importanti, ma non certo per chi minaccia un' uscita dall' euro. Berlino dovrà stimolare la domanda interna per rilanciare la crescita economica, sarebbe il momento per cogliere con lungimiranza la necessità di finanziare investimenti pubblici continentali tramite eurobond e dare capacità finanziaria all' Europa».

Il presidente francese Emmanuel Macron ha avuto un ruolo importante nella battaglia anti sovranista vinta grazie ai Cinque stelle. Li ripagherà accogliendoli nel suo eurogruppo? I Verdi hanno già chiuso le porte.

«Questo non lo so. Ma dobbiamo riconoscere che i Cinque stelle avevano già azzeccato la mossa giusta sostenendo Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione. Oggi i seguaci di Grillo si stanno collocando in un' ottica europeista e potrebbero essere accolti relativamente bene».

Quanto ha contato il rapporto di Salvini con Mosca, nella torsione che lo ha condotto a inimicarsi l' Europa, forse anche la Casa Bianca, e poi all' opposizione?

«Certamente rimane ancora oscura la vicenda denominata "Russia Gate". A causa del suo atteggiamento equivoco, Salvini si è giocato il sostegno degli Stati Uniti che a un certo punto hanno cominciato a guardare a lui con molta preoccupazione. Non mi sorprende che ora gli Usa siano apertamente favorevoli a questo governo, con giudizi tanto positivi su Conte».

Detto da lei, che non è mai stato un campione di russofobia.

«Io ero d' accordo con la posizione di Renzi, quando era presidente del Consiglio: l' Italia è penalizzata dalle sanzioni economiche contro la Russia volute dagli Stati Uniti e pagate in larga parte da noi. Il nostro interesse è avere buoni rapporti con Mosca e Renzi muoveva in quella direzione. Ma se non c' è consenso in Europa, non possiamo andare da soli. Infatti ci siamo accodati e continueremo ad accodarci al giudizio della maggioranza europea».

Non pensa che il nuovo governo rischia di alimentare nuovamente il consenso di Salvini con provvedimenti choc sull' immigrazione, dallo ius soli all' apertura indiscriminata ai richiedenti asilo?

«Auspico che i nuovi governanti non prendano posizione estreme. Lasciar morire la gente sui barconi no, mai. Ma ritengo che anche il nuovo ministro dell' Interno, il prefetto Lamorgese, sarà prudente, non spalancherà i porti e s' impegnerà a ricercare un tipo di accoglienza compatibile con le nostre possibilità. Per l' Italia il problema migratorio resta centrale: il nuovo governo dovrà battersi per una revisione degli accordi di Dublino e per una politica europea di redistribuzione. Non mi aspetto una politica dell' accoglienza sguaiata. Non dimentichiamoci che Salvini ha ottenuto grandi consensi alle europee grazie alle sue politiche securitarie: la gente è ancora spaventata dall' immigrazione e ha gradito i decreti sulla sicurezza così come la legge sulla legittima difesa».

Anche lei crede ai sondaggi che danno la Lega in calo?

«Salvini farà le sue manifestazioni in piazza, ma se il governo governerà in modo decente la Lega è destinata a ridimensionarsi. Anche perché le grandi e piccole imprese del nord sono fortemente pro Europa».

Ha vinto il partito dello spread. La comunità finanziaria stappa champagne.

«La comunità finanziaria è a favore del nuovo governo. Il leghista Borghi diceva che le oscillazioni dello spread dipendevano soltanto dai movimenti della Banca centrale europea; il calo dello spread sta invece dimostrando che quelle impennate dipendevano dalle parole del signor Borghi, in quanto esponente titolato del secondo partito di governo».

Finché la destra salviniana era al potere si respirava un clima da guerra civile. Ora che il Pd governa di nuovo l' Italia, Nicola Zingaretti parla di pacificazione nazionale.

 «Il governo Berlusconi del quale ho fatto parte e i successivi governi berlusconiani non erano troppo malvisti: non eravamo incendiari, eravamo un centrodestra di moderati».

Ma non può negare che anche contro il Cavaliere si mise in moto la macchinina della delegittimazione culturale e politica.

«In parte è vero: anche Berlusconi fu vittima di un conflitto durissimo e di manovre tese a delegittimarlo. Non è giusto, però fa parte della dialettica e della narrativa politica: noi siamo angeli, voi siete il diavolo. Ma la cosa essenziale, come ha ricordato più volte il presidente Sergio Mattarella, è governare rispettando i grandi impegni in Europa e in Occidente, e difendendo il risparmio degli italiani. Noi, a differenza di Salvini, siamo sempre rimasti nel giusto perimetro».

Con questi presupposti, la legislatura arriverà alla sua scadenza naturale?

«Sì. Non riesco a vedere grosse o insormontabili contraddizioni tra Pd e Cinque stelle. Sono due forze che guardano a sinistra. E poi conta molto che il governo sia nato con il sostegno non richiesto, ma ottenuto, dell' Europa e degli Stati Uniti. Saranno anche loro a temperare eventuali pulsioni estremiste. O almeno me lo auguro, per il bene del paese».

«Non offendiamo la Prima Repubblica: quello che si vede oggi non ha nulla che le somigli». L'Espresso il 4 settembre 2019.  «Un disastro: la politica è una scienza esatta, c’è un rapporto preciso di causa ed effetto. Ma qui domina l’ignoranza, siamo all’illeggibilità, all’imprevedibilità assoluta». Non fai in tempo a varcare la soglia dei suoi uffici (citofonare “Gulliver”, il gigante fra i nani di Swift, alla faccia dell’understatement) che Paolo Cirino Pomicino ha già impallinato la gestione della crisi di governo e tutti i suoi protagonisti. Li uccide con un sorriso. Lapidario sarcasmo, alla napoletana: ti dico che sei morto mentre ti porgo la tazzina del caffè. Giunto alla soglia degli 80 anni, che celebra in questi giorni con una festa il cui biglietto d’invito è tutto un programma (sobrio l’incipit: «Il 3 settembre 1939 Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania di Hitler, mentre alle 7 del mattino nasceva» eccetera), l’andreottiano doc, il doroteo che da presidente della Commissione Bilancio non negava un obolo a nessuno (li chiamò «vol-au-vent», omaggio al principio che «il governo è di tutti», un precursore), l’ex ministro di De Mita e Andreotti, cinque volte in Parlamento tra il 1976 e il 1992, poi di nuovo eletto nella Seconda Repubblica, Pomicino sguazza nella consapevolezza che «la migliore furbizia è dire la verità, tanto nessuno ci crede». Seduto alla sua scrivania, sotto un mega combo di foto regalatogli da sua figlia (tra le altre: con Giovanni Paolo II, con Moravia, con Andreotti, con Bernabei, con Ruggiero, con Iotti, Bertinotti e Marini, con Berlusconi) non riesce a smettere un secondo di parlare di politica, anche se a questo punto a Palazzo non ci tornerebbe nemmeno dipinto: «Perché non è più il Parlamento. Quando vado a Montecitorio non vedo politici: vedo boy scout. In gita».

Questa Terza Repubblica somiglia alla Prima, ma senza averne gli strumenti. Lo si è detto spesso, nella crisi. Ci dia una interpretazione autentica: è così?

«Non offendiamo la Prima Repubblica, non c’è proprio nulla che le somigli. C’è un leader politico, Salvini, che addirittura chiede i pieni poteri, fa una crisi di governo e poi, però, si dice: possiamo continuare a lavorare. Mai accaduto. Poi c’è un presidente del Consiglio che dà i pieni poteri a un suo ministro su una emergenza - nella Prima Repubblica era semmai il Consiglio dei ministri a deliberarla. Un precedente inesistente».

Beh, c’è il governo Tambroni.

«Non dica Tambroni, perché quello è stato un incidente. Di tre mesi. Nessuno ha mai immaginato di poter dare a un ministro l’assoluta responsabilità dinanzi a una emergenza. Peraltro, il presidente del Consiglio che l’ha fatto, dieci giorni dopo ha pronunciato una arringa da pm, contro lo stesso ministro, in Senato. Meno male che doveva essere un anno bellissimo. Dulcis in fundo, il giovane Di Maio. Che ha incominciato chiedendo l’impeachment del presidente della Repubblica, ha continuato asserendo che c’erano contratti segreti per cui era stato costretto a dare l’Ilva ad Arcelor Mittal, ha poi intimidito - con la famosa “manina” - i dirigenti del Tesoro, ed è finito a fare alleanze con tutti. Lui che diceva che il Movimento 5 Stelle non avrebbe fatto alleanze con nessuno».

Ma le alleanze non sono eterne, non si deve spiegarlo certo a lei.

«È così, non c’è dubbio, si immagini. Però le alleanze sono una cosa seria. Anche la Dc ha avuto una stagione di centrismo, poi ha fatto un congresso e ha aperto ai socialisti. E, in un momento di grande crisi, con il terrorismo e l’inflazione a due cifre - quando nessuno voleva governare con la Dc, ma tutti volevano che la Dc governasse - si fece la solidarietà nazionale con il Pci».

A proposito di quell’esperienza, Pier Luigi Castagnetti ha ricordato la «lezione di Berlinguer», spiegando in un tweet molto citato che «lui (che avrebbe preferito Moro) accettò Andreotti, perché riteneva che sono i programmi e non le persone il terreno e lo strumento della discontinuità». Andò proprio così?

«Ogni volta si inventano le cose, tanto nessuno se le ricorda. Moro era in quel momento il capo del partito vero, Zaccagnini era il suo amico e il suo segretario, mentre Andreotti era stato sconfitto, insieme ai dorotei: aveva solo il 5 per cento, a quell’epoca - perché Pomicino era ancora un giovanotto e non controllava la corrente... Insomma dipese dall’idea di Moro, che era un’idea politica: non solo tenere unito il partito, una tradizione della Democrazia cristiana, ma coinvolgere le minoranze nel governo. Ma quella è una delle cifre con cui si giudica un partito: come tratta le minoranze».

Proprio come accade adesso, no?

«Ora le minoranze sono marginalizzate. Alcuni tentano di rottamarle, come Renzi, altri le espellono direttamente, come i Cinque Stelle. Ecco perché dico che nulla somiglia alla Prima Repubblica. Nessuno ha mai espulso nessuno, di nessun partito. Le scissioni erano politiche: non uno che dissentiva. C’erano i fondamentali».

Adesso non ci sono più? 

«Si dice sempre che la politica è cambiata. È vero: adesso c’è l’algoritmo. Ma non è che, siccome c’è l’algoritmo, allora la tavola pitagorica non c’è più. I fondamentali della politica sono eterni. Poi cambiano le politiche, gli uomini, le sfide, la comunicazione. Ma i fondamentali restano. Il problema è che nessuno li conosce. Ecco perché dico che l’ignoranza determina l’imprevedibilità».

Sta dicendo che Salvini è scivolato su un fondamentale e non se ne è nemmeno accorto?

«Esatto. Una crisi di governo in agosto: già questo indispettisce. E poi: avrei capito con un ragionamento, all’indomani delle Europee. Ma così a freddo, sostenendo che alcuni ministri Cinque Stelle dicevano no. E non era neanche vero: dicevano sempre di sì. Anzi, in quel momento Di Maio faceva il maggiordomo. Conte pure. E in più - è la cosa che più mi affligge - con un Parlamento che non diceva una parola, approvava tutto. Nella Prima Repubblica c’erano scontri epici, ma tutti di alto livello. Adesso l’opposizione si fa al massimo con i cartelli. Uno entra, estrae il cartello, fine. Un’opposizione da consiglio di quartiere. Peggio: da condominio».

Lei dice che nulla sopravvive della Prima Repubblica: il doppio forno, però, resiste.

«Quello non è il ritorno della Prima Repubblica: è la sua eternità».

Ma ci sono le parole, il lessico. C’è Di Maio che dice «avvieremo tutte le interlocuzioni possibili per una maggioranza solida».

«Si pensa che il lessico di qualcuno sia democristiano - vedi anche il caso di Conte - quando parla piano, non urla e tenta la mediazione. Queste tre cose danno l’immagine. Manca però la cosa più importante: il buonsenso. Qualità fondamentale nella Dc. E manca un’altra cosa. Ogni partito - tranne forse il Pd - ha un solo leader che può fare il presidente del Consiglio, e poi fine della trasmissione. E dico uno solo perché sono generoso, soprattutto verso Lega e Cinque Stelle. Nei grandi partiti avevi otto-nove presidenti del Consiglio, sei-sette ministri degli Esteri e dell’Economia. Qui non c’è nessuno. Tanto è vero che il governo giallo-verde ha chiamato i tecnici, e per quali incarichi? Gli Esteri, l’Economia, la Difesa, l’Ambiente, la presidenza del Consiglio. Incarichi squisitamente politici».

A quale corrente della Dc iscriverebbe Giuseppe Conte?

«Ai dorotei, vista l’ambiguità».

E Luigi Di Maio?

«Al Movimento giovanile della Dc».

Come Enrico Letta e Marco Follini?

«Non volevo offendere nessuno: diciamo allora che Di Maio può essere un aspirante iscritto al Movimento giovanile della Dc. Un aspirante, ecco. I capi del giovanile avevano stoffa, sapevano parlare di politica».

Da cattolico e democristiano cosa pensa dei rosari sventolati da Salvini nei comizi?

«Uno che caccia fuori il rosario e bacia l’immagine della Madonna deve sapere, se crede per davvero, che c’è anche l’inferno. E se tu non vivi cristianamente l’inferno sta là, non solo il paradiso: e devi preoccuparti anche di questo. Il rosario non l’ha brandito nemmeno Scalfaro, all’epoca in cui schiaffeggiava le donne per un po’ di scollatura».

Altro fondamentale oggi dimenticato: mai confondere governo e partito.

«Una regola aurea: il segretario del partito non andava mai al governo, e addirittura i ministri non erano neanche componenti della direzione. Perché partito e governo erano soggetti diversi. Uno aveva previsione ventennale e faceva propaganda. L’altro non faceva propaganda, se non illustrando le decisioni assunte. Ma se vai a mettere al governo l’uomo di partito, quello - prima di fare il ministro - fa la propaganda. E così hanno fatto Salvini e Di Maio, ma prima di loro era accaduto già col governo Prodi nel 2006. Quando Di Pietro Mastella, Rutelli, Pecoraro Scanio, D’Alema illustravano i provvedimenti, piuttosto che spiegare le decisioni chiarivano la differenza che loro avevano rispetto alle decisioni, perché la diversità per loro era la fonte del consenso».

Che farebbe lei oggi se fosse ministro del Bilancio?

«Non si possono risanare i conti pubblici senza coinvolgere la ricchezza nazionale, che oggi non è toccata in nessun modo. Invece bisogna spiegarle, prima con una iniziativa di persuasione politica, poi con un sistema di agevolazioni e incentivi volontari, che salvando il Paese salverebbe anche se stessa».

Sarà, ma quando hanno toccato voi, sui vitalizi, avete reagito con una battaglia furiosa. Torneranno mai?

«Ma no, mancherà il coraggio. Adesso abbiamo all’orizzonte il taglio dei parlamentari, ma nessuno ricorda che il Parlamento è come la salute: lo si apprezza quando non c’è più. Se impoverisci i deputati ne limiti la libertà, se tagli i posti, e quindi riduci il rapporto che esiste tra popolazione ed eletti, finisci per ridurre la democrazia rappresentativa. Questo Di Maio non lo dice: perché non lo sa. Il colpo alla democrazia arriva a sua insaputa. Ma così finisce per governare la piazza: e la piazza che governa è sempre autoritaria».

I Cinque Stelle hanno sempre sbandierato la guerra al trasformismo.

«Piccolo particolare: nella Prima Repubblica il trasformismo non c’era. Uno solo, Franco Bassanini, passò dai socialisti all’opposizione: e fu pure schiaffeggiato in Transatlantico dal segretario amministrativo, Giorgio Gangi. Il trasformismo c’è stato solo nell’Italia liberale e nella Seconda Repubblica, e sa perché? Avevano il maggioritario e il collegio uninominale: tu sei eletto col concorso di più forze e quindi sei figlio di nessuno, men che meno dell’elettore che trova il tuo nome già stampato sulla scheda. Da noi invece c’era la preferenza. Quindi, accanto all’appartenenza al partito, c’era il rapporto con l’elettore, che era talmente diretto che alla fine nella scheda doveva scrivere: Po-mi-ci-no. Una cosa lunga. Lui se lo ricordava, però me lo ricordavo pure io. Il più sciocco dei deputati dell’epoca rappresentava un pezzo di territorio, o un pezzo di società. Oggi nessuno rappresenta nessuno, se non il segretario che ti ha messo al primo o al secondo posto, in un collegio sicuro o in un collegio perdente. Questo è il motivo per cui ci sono i trasformismi parlamentari, in massa. Ormai addirittura partiti interi».

Però la preferenza era il regno del malaffare, dell’inquinamento mafioso.

«La verità è che la criminalità organizzata, con il voto di preferenza, c’entrava poco. Mentre c’entra molto nei collegi uninominali, che sono più ristretti: perché là, mille voti fanno la differenza. Mentre in una circoscrizione di 3 milioni e mezzo, come la mia – Napoli e Caserta - anche se uno ti dà 5 mila voti non fa la differenza. Io e ne prendevo 180 mila e arrivavo secondo. Non so se mi spiego».

Da dove si riparte?

«Il riassetto del sistema politico può nascere solo con la scissione del Pd».

L’ha appena votato, alle europee, e già vuole che si divida?

«Per un motivo semplice. Mettere insieme le culture ha significato che questi sono né comunisti, né socialisti né democristiani. Non sono nulla, non hanno identità, la gente non riesce a capirli. Mentre se si dividono una parte del Pd fa la sinistra, in maniera forte, serena. Quell’altra il centro che recupera il voto moderato. E il centrosinistra così governa: con una coalizione vera. Mentre oggi il Pd non ha un alleato naturale: quella coi Cinque Stelle è oggettivamente una forzatura per salvare capra e cavoli. Lo dissi già nel 2009, alla Camera, a Marini e D’Alema: se vi scindete governerete alleati per i prossimi vent’anni. Se state insieme, morirete abbracciati. Per loro la profezia fu addirittura plastica. Però il Pd è pesantemente crollato. Perché in politica, due più due fa tre, non fa cinque».

Lei ci sta sulla rete?

«Ma certo. Una volta uno mi scrisse: “Pomicino sulla rete? Non sapevo che nei cimiteri c’era la connessione”. E io gli risposi: “Solo voi mortali avete bisogno della connessione”. Però è un passatempo. Sulla rete c’è una minoranza di persone. E se tu hai un rapporto con le comunità, col territorio, con le persone nella realtà, allora lo sai e te ne puoi anche fregare. Se tu non ce l’hai, e pensi che l’unico rapporto tra eletto ed elettore sia la rete, allora sì che assume importanza».

Le riunioni del Caf si facevano a casa sua, sull’Appia. Adesso ci si vede nel salotto di Vincenzo Spadafora.

«Ma lei lo sa chi è Spadafora? Fu candidato con alcuni amici miei a Cardito, al consiglio comunale: ebbe 45 voti, non fu eletto. Era tra la sinistra di base e gli andreottiani. Ma gli andreottiani del luogo: io non l’ho mai conosciuto».

Lei è anche esperto di elezioni al Quirinale. Nel 1992 impallinò l’ascesa di Forlani, come ha raccontato anche Paolo Sorrentino nel film “Il Divo”. Chi sarà il prossimo inquilino del Colle?

«Nell’attuale Parlamento non vedo nessuno. Bisognerà pregare Mattarella di fare come Napolitano, oppure rivolgersi fuori. Mario Draghi per esempio è una persona di qualità. Lo chiamammo noi al Tesoro. Ha dato segno di sé. Ma è un esterno. Ed è passato dal ruolo pubblico al privato, peraltro in una delle peggiori banche d’affari. Poi è tornato al pubblico. Mentre all’epoca chi usciva dal pubblico non tornava più. Romiti veniva dalle partecipazioni statali: non è mai più tornato indietro. Draghi però può essere un interlocutore internazionale formidabile».

E Prodi?

«Sarebbe buono. È mio coetaneo, si mantiene benissimo in forma. Ed è più democristiano di me: la sua ambiguità è costruttiva».

Come finirà?

«Non lo so. È una situazione sconvolgente. Devo avere il terzo quarantennio, per forza: non posso venire meno, voglio vedere fino in fondo dove vanno a finire».

Il primo trasformista: Agostino Depretis, il vinattiere che rovesciò la politica. Agostino Depetris, il primo trasformista. Era il 1876 e il vinattiere di Stradella passò da ministro di Ricasoli a presidente del Consiglio. Zeffiro Ciufoletti l'8 settembre 2019 su Il Dubbio. La parola più antica e più usata per speigare le straordinarie giravolte politiche italiane è sempre stata “trasformismo”. Tuttavia, le analogie, che tanto appassionano gli storici, rischiano sempre di essere superate da ciò che accade, ormai da molti anni, in Italia. Da Tangentopoli in poi il sistema partitico italiano sembra impazzito: sempre più nuovi e sempre più fragili i partiti, sempre più inconsistente la politica e l’azione di governo, sempre più logore le istituzioni. Tranne una, per fortuna: la Presidenza della Repubblica. Peraltro non eletta direttamente. Nel giro di un quarto di secolo proprio la Presidenza della Repubblica ha dato vita a tre governi tecnici, in realtà espressioni del volere del capo dello Stato di turno: il presidente Scalfaro con Ciampi e poi con Dini, il presidente Napolitano con il prof. Monti, che fece una politica di austerità ma aprì la strada ai Cinquestelle. I primi due, Ciampi e Dini, venivano dalla Banca d’Italia. Il terzo era un professore molto ben inserito nel mondo della finanza internazionale. Oggi il professor Conte, l’“avvocato del popolo” di una maggioranza composta da due forze politiche definite, fino a ieri, populiste, Cinquestelle e Lega, si ritroverà, forse, a capo di un nuovo governo. Un governo che non si sa ancora come chiamare, salvo i colori che evocano una squadra di calcio. Certo sarà un governo a “maggioranze inverite” , con due forze come Pd e Cinquestelle, che dopo essersi molto odiate e anche offese, si mettono insieme prima di tutto per negare le elezioni a Salvini che ha scelto il momento sbagliato per aprire una crisi. Certo le due forze che si uniscono per formare il governo non rappresentano più, da tempo, la maggioranza del Paese, non solo nei sondaggi, ma nelle elezioni regionali che si sono succedute negli ultimi tempi. Inoltre tutte le regioni produttive che tengono in piedi l’Italia sono in mano al Centrodestra. Queste chiederanno dopo il referendum vinto, maggiore autonomia ad una maggioranza ostile. Più che un governo di necessità, quello fra Cinquestelle e Pd sembra un governo di necessità dei perdenti, che pur di evitare il voto farebbero di tutto di più. Tanto è vero che uno dei problemi nella formazione del governo, riguarda proprio Zingaretti, segretario del Pd e governatore del Lazio, che dovrebbe dimettersi per entrare nel governo, aprendo la strada alle elezioni nel Lazio, che il Pd teme assai. Quello che impressiona è che il governo Cinquestelle- Lega si basava su un contratto che doveva legare due forze che diffidavano l’una dell’altra. Questa di oggi è un’alleanza di necessità in cui di programmi non si parla nemmeno. Questa sarebbe la vera “discontinuità”… rispetto ad una alleanza fondata su un contratto sottoscritto e garantito dai due leader di partito, tutti e due vicepremier e ministri del primo governo Conte che diventerebbe un premier per tutte le stagioni, come nella storia del trasformismo. La prima grande operazione trasformistica, come è noto, avvenne in Italia nel 1876. La Destra vinse le elezioni nel 1874 ma perse molti collegi al Sud e nelle isole. Il governo Minghetti, autorevole esponente della destra, che raggiunse il grande obiettivo del pareggio di bilancio, fu messo in minoranza nel voto sull’interpellanza Morana, il 8 marzo 1876. Sembrava uno dei tanti episodi che segnavano la vita, sempre breve, dei governi della Destra storica. Il re, forse anche per ricreare una cucitura Nord- Sud, grave problema di ieri e di oggi, diede l’incarico di governo ad Agostino Depretis, il vinattiere di Stradella, che sebbene di sinistra aveva ricoperto incarichi ministeriali con vari governi e nel ’ 66 persino con Bettino Ricasoli, uno dei grandi nomi della Destra storica. Il 25 marzo 1876, assunta la guida del governo e non avendo una maggioranza certa, si andò alle elezioni. Guarda un po’ proprio nel novembre del 1876. Grazie all’uso spregiudicato dell’azione dei prefetti nei collegi meridionali, da parte del ministro degli Interni Nicotera, la Sinistra stravinse. Meditate gente, meditate…. Le battute a mia disposizione sono finite, ma la storia politica d’Italia non finisce mai di sorprendere….

Vittorio Feltri: "Gli eredi di Cossiga e De Mita sono indegni. C'è terrone e terrone". Libero Quotidiano il 29 Agosto 2019. Molta gente mi accusa di essere antiterrone, cioè di detestare i connazionali nati e cresciuti da Roma in giù. Critiche superficiali e false. La verità è che ho avuto ed ho pochi amici, la quasi totalità dei quali è (ed era) meridionale. Ne cito alcuni, i più cari: Paolo Isotta, insigne scrittore, Ettore Botti, Salvatore Scarpino e Gaetano Afeltra, giornalisti di vaglia. Tra i politici che un tempo conobbi e frequentai, c' erano uomini di valore, mentre quelli di oggi mi sembrano modesti, per usare un termine gentile, eppure assatanati, vogliosi di sbranare il potere usando mezzucci squallidi. Al confronto di costoro, i personaggi del Sud di una volta erano giganti sia sotto il profilo culturale sia sotto quello etico e tecnico. Ne ricordo qualcuno, i migliori, che durante la prima Repubblica si sono distinti per saggezza e competenza. Cossiga, per esempio, era un autentico fenomeno: non si dava arie, la sua cifra era la semplicità mista ad arguzia e intelligenza. Ricoprì varie cariche distinguendosi per efficienza e sagacia. La più alta, quella di Capo dello Stato. Egli rimase al Quirinale a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, quando tangentopoli infuriava. Comprese per primo che il regime democristiano era alla frutta e sarebbe finito malamente qualora lo scudo crociato non avesse trovato la forza e le risorse per respingere gli attacchi della magistratura. Cominciò a sferzare tutti, non solo gli amici di partito nella speranza di ricondurli alla ragione. All' epoca, famosi furono i suoi colpi secchi al sistema marcescente che venivano ripresi dalla stampa con notevole evidenza. In quel periodo io dirigevo l'Indipendente e pernottavo al residence Romana, a Milano. Spesso la mattina presto mi telefonava. Il portiere mi avvertiva: «C'è un tizio che le vuol parlare, sostiene di chiamare dal Quirinale». Me lo passi, dicevo. Era Francesco che affermava: «Caro Vittorio, oggi piccono». In effetti i suoi interventi denigratori della casta erano definiti picconate, e lo erano. Mi informava delle sue intenzioni affinché predisponessi la mia redazione a prenderne atto con la dovuta attenzione. Io stavo al gioco e lo accontentavo perché convinto che avesse ragione da vendere. L'indomani le sue picconate venivano esaltate sul mio quotidiano. Diventammo amici e lo rimanemmo pure allorché se ne era andato dal Colle. Fondai Libero e Cossiga mi chiese di incontrarmi; fui felice di accordargli un appuntamento nella sede del giornale. Dove un pomeriggio si appalesò un po' zoppicante. Conoscendo il suo amore per il Whisky scozzese gli offrimmo un sorso di Lagavulin ovviamente torbato. Che gradì. Poi fece un giro nelle nostre modeste stanze stringendo la mano a ogni collega. Infine mi fece una proposta che non si poteva rifiutare: «Vorrei diventare giornalista, iscrivermi all'Ordine e quindi scrivere articoli per voi». Fantastica idea. Il presidente emerito iniziò una fitta collaborazione raccontando stupendi aneddoti politici che ci aiutarono a incrementare la diffusione. Cossiga era disciplinato oltre che cortese. Annunciava i suoi pezzi deliziosi e li inviava con puntualità svizzera. Per parecchi anni ci gratificò con la sua produzione letteraria pregevole. Appena ottenne, due anni appresso, l' iscrizione all' ordine mi invitò a pranzo e festeggiammo al ristorante Trussardi di Milano. Questo era Francesco. Impossibile non apprezzarlo e amarlo. Era colto. Capace. Aveva un solo difetto: troppo perbene per essere accettato nelle sue alzate di ingegno. Lo rimpiango. Quando incontrai Ciriaco De Mita era da poco stato rapito ed ucciso Aldo Moro ed era quindi alle battute finali la politica di compromesso storico che negli anni precedenti aveva tentato di portare al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, il quale tuttavia non arrivò mai a partecipare al governo in una grande coalizione. La Dc, risoluta ad archiviare questa fase e ad intraprendere un nuovo corso, inaugurò una serie di convegni a cui presero parte i personaggi politici di spicco. Fui mandato dal Corriere ad uno di questi raduni, che si tenne sul lago Maggiore, dove ebbi modo di ascoltare il discorso di De Mita, facendone la cronaca e riportandone i concetti, espressi dal politico con il suo linguaggio fumoso. Il giorno seguente, uscito il pezzo, De Mita, allora ministro, mi telefonò complimentandosi per la mia scrittura. Restai attonito. Di lì a poco ebbe inizio la campagna elettorale ed io fui incaricato dal mio giornale di seguire i leader dei diversi partiti nei loro comizi. Si trattava di un mandato rilevante. Mancai di partecipare solo ai convegni di Bettino Craxi, il quale si oppose alla mia presenza. Quando comunicarono a Ciriaco che sarei stato io a scrivere riguardo la sua campagna elettorale, ne fu molto lieto. Raggiunsi come prima tappa il Piemonte, dove una folla straripante accolse De Mita. Alla sera avrei dovuto recarmi a Roma e Ciriaco, avendolo appreso, mi invitò sull' aereo privato del suo caro amico Calisto Tanzi, sul quale egli stesso viaggiava. Insistette tanto che non potei rifiutare. Durante il volo il ministro ed un altro passeggero si misero a giocare a carte, a tresette, con un certo coinvolgimento, tanto che arrivarono persino ad incazzarsi e a bestemmiare. Non persi l' occasione di raccontare anche questo spaccato di "ordinaria" quotidianità nel mio pezzo. Ciriaco ne fu molto divertito. Un ferragosto fui inviato dal Corriere nel paese natale di De Mita, a Nusco, in provincia di Avellino. Trovai alloggio in un albergo orrendo, del resto da quelle parti non c' era molta scelta. Giunto in hotel, dalla mia stanza, chiamai Ciriaco, il quale mi disse che in quel momento era impegnato e mi diede appuntamento per il giorno seguente. L' indomani mi presentai a casa del politico, una villetta graziosa seppure arricchita con elementi dal gusto discutibile, come un pozzo finto piantato in giardino. Davanti all' abitazione fui catapultato in un passato ancestrale, anzi medioevale, ritrovandomi in mezzo ad una folla di persone che andavano a porgere omaggio a De Mita, stringendo sotto il braccio chi un cappone chi una pagnotta. Per non creare turbamento, mi misi in fila anche io, pur essendo a mani vuote. Giunto finalmente il mio turno, fui spinto in casa con calore da De Mita che mi offrì un bicchiere o due di Falangina, servito freddo. Ma a ristorarmi dall' afa non fu il vino ghiacciato, bensì le freddure di Ciriaco nonché una spassosa barzelletta che aveva come protagonisti De Mita stesso e Craxi. Ciò che suscitava maggiore ilarità era la circostanza che a raccontarmela fosse Ciriaco stesso, che continuava a ridere a crepapelle. Non mancai di allietare anche i lettori con quella storiella buffa. Scrissi il pezzo, lo consegnai, il mattino seguente mi recai in edicola e con mio grande stupore vidi che il mio articolo non solo era finito in prima pagina, ma costituiva titolo di apertura. De Mita mi telefonò felice, ringraziandomi e facendomi i complimenti per la mia opera. Nel 1992 l' uomo divenne presidente della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali, dopo neanche un anno ne fu estromesso ed io feci questo titolo: "De Mita lascia la Bicamerale, gli rimane l' attico". La titolazione prendeva spunto dal fatto che, quando era diventato presidente del Consiglio nel 1988, De Mita andò ad abitare in un attico preso in affitto, messo in sicurezza dai servizi segreti. Va da sé che Ciriaco non se la prese. In fondo, erano state maggiori le occasioni in cui gli avevo reso onore riconoscendo il suo merito. Come quando, dopo il terremoto in Irpinia del 1980, scrissi un pezzo sull' avvenuta ricostruzione nel quale sottolineai il fatto di avere trovato il paese di Ciriaco risanato in modo impeccabile, segno che questi avesse utilizzato in modo efficace i soldi pubblici destinati proprio alla ricostruzione. Credo che De Mita questa cosa se la fissò in testa. Assunta la direzione de Il Giornale, lo statista invitò me e Paolo Mieli, allora direttore del Corriere della Sera, ad Avellino per prendere parte ad una conferenza sul dopo terremoto. Terminato il convegno, Ciriaco ci condusse a cena a casa sua. Erano presenti, oltre alla moglie, che cucinò in modo stupefacente, anche i suoi figli. L' atmosfera era intima, familiare, lieta. Ricordando il pozzo finto in giardino non mi stupì la vista di un' enorme statua di San Ciriaco che dominava il salone principale, regalo fatto al politico da un parroco locale. Durante il lauto banchetto discutemmo anche di politica. Io sostenevo che la Dc fosse oramai finita. De Mita si incazzava. Litigammo, ma oramai eravamo diventati amici. Tuttora Ciriaco mi è molto affezionato e mi telefona di tanto in tanto. Quell'attico famoso De Mita lo acquistò alla fine, al prezzo stabilito dall' ente proprietario, una cifra piuttosto conveniente. Tutti i media lo attaccarono con violenza. Io lo difesi sostenendo che solo un idiota si sarebbe fatto sfuggire la ghiotta occasione di acquistare ad un ottimo prezzo un'abitazione nella quale dimorava da tempo. Ciriaco, figlio del sarto di Nusco, era un leader dall' animo semplice e pieno di premure. Con le inchieste di "Mani pulite" la Dc entrò in crisi, il suo potere continuava ad erodersi, ma era come se i suoi vertici non se ne rendessero conto. Andai a trovare Cirino Pomicino al Ministero del Bilancio e gli dissi: «Come fate a non vedere che state morendo? Vi stanno massacrando». Ed egli rideva. I democristiani si credevano invincibili. Le cose poi andarono come avevo previsto. Gli eredi di Cossiga e De Mita sono indegni. C' è terrone e terrone. Vittorio Feltri

Scelba, il ministro  più odiato, che tolse  i comunisti  dalla polizia. Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 su Corriere.it da Giampaolo Pansa. De Gasperi, leader della Dc del primo dopoguerra, era odiato dalle sinistre. Ma più di lui, Mario Scelba. Chi era il numero uno della Democrazia Cristiana del primo dopoguerra? Di certo Alcide De Gasperi, l’uomo della vittoria conquistata sul campo contro comunisti e socialisti nelle elezioni del 18 aprile 1948. Alcide era odiato dalle sinistre, ma ancora più odiato di lui era Mario Scelba, il ministro dell’Interno. Scelba era il capo della Celere, la polizia di Stato ritenuta al servizio della Dc. Ancora oggi chi allora non era più un bambino ricorda come il Pci e il Psi giudicassero il ministro dell’Interno. Lo dipingevano come un diavolo in terra. Una belva assetata di sangue, un lacchè dei fascisti, un mafioso, un manganellatore, un servo degli imperialisti americani. L’Unità arrivò a scrivere che era il più impopolare e odiato politico d’Italia. In realtà era soltanto un uomo che si era dato una missione: impedire che il Pci di Palmiro Togliatti e il Psi di Pietro Nenni conquistassero il governo.

Pupillo di don Sturzo. Scelba era nato nel 1901 a Caltagirone, un centro di media grandezza in provincia di Catania. Bisogna ricordare che era il luogo natale anche di don Luigi Sturzo, il sacerdote che avrebbe fondato il Partito popolare italiano. Mario apparteneva a una famiglia di condizioni modeste e, se riuscì a progredire negli studi fino alla laurea in Legge, fu per merito proprio di don Sturzo che aveva preso a cuore il destino del ragazzo povero e bravo. Nacque allora la leggenda senza fondamento che Mario fosse il figlio naturale di Sturzo, nato quando il sacerdote aveva trent’anni. Non era vero, ma si usava per spiegare perché Scelba diventò il suo pupillo.Scelba era nato nel 1901 a Caltagirone, un centro di media grandezza in provincia di Catania. Bisogna ricordare che era il luogo natale anche di don Luigi Sturzo, il sacerdote che avrebbe fondato il Partito popolare italiano. Mario apparteneva a una famiglia di condizioni modeste e, se riuscì a progredire negli studi fino alla laurea in Legge, fu per merito proprio di don Sturzo che aveva preso a cuore il destino del ragazzo povero e bravo. Nacque allora la leggenda senza fondamento che Mario fosse il figlio naturale di Sturzo, nato quando il sacerdote aveva trent’anni. Non era vero, ma si usava per spiegare perché Scelba diventò il suo pupillo.

Nel 1919, a diciotto anni, Scelba si iscrisse al Partito popolare ed ebbe l’incarico di segretario del leader. Lo seguì a Roma e gli rimase accanto sino al 1926, quando il regime di Mussolini sciolse anche il Ppi. Sturzo fu costretto a lasciare l’Italia e riparò dapprima a Parigi, poi a Londra e infine negli Stati Uniti. Scelba rimase a Roma e rifiutò sempre di prendere la tessera del Fascio. Nel 1940, insieme a De Gasperi, a Giovanni Gronchi, a Giuseppe Spataro e Guido Gonella iniziò a preparare di nascosto un partito nuovo: la Democrazia Cristiana. In quel momento il futuro ministro dell’Interno era un quarantenne piccolo di statura, destinato alla calvizie, con l’aspetto del provinciale inurbato nella capitale. «Scelba è scialbo» ironizzavano i detrattori. Ma il suo carattere si sarebbe rivelato tutto l’opposto dell’uomo grigio. Possedeva una grande tenacia e una capacità di lavoro che pochi potevano vantare. E una posizione politica chiara e ferrea, l’esatto contrario dei cattolici di sinistra. Considerava i comunisti un rischio per la giovane democrazia italiana e, quando si ritrovò al governo, giorno dopo giorno dimostrò di non avere nessun timore nell’usare la mano dura sul Pci di Togliatti.

Il primo impegno di Scelba come ministro dell’Interno fu di rimettere in sesto quel che restava delle forze dell’ordine. La Pubblica sicurezza era ridotta ai minimi termini. Anche l’Arma dei carabinieri mancava di tutto: mezzi di trasporto, armi, divise, calze, mutande. La paga delle reclute era ridicola e la fiducia nello Stato sotto i tacchi. Se il Pci avesse tentato una spallata per prendere il potere in Italia, non avrebbe incontrato ostacoli. Il giudizio di Scelba era senza scampo: «Se fossi comunista, farei la rivoluzione domani mattina». Da ministro dell’Interno cominciò subito a rafforzare la polizia. All’inizio del 1947, gli effettivi della Pubblica sicurezza erano trentamila. Anni dopo Scelba disse ad Antonio Gambino, giornalista del primo Espresso: «Il guaio era che di questi agenti almeno ottomila erano comunisti, tutti ex partigiani delle Garibaldi, pronti ad agire contro lo Stato dall’interno delle forze dell’ordine». Nel giro di un anno la consistenza della polizia venne portata a cinquantamila uomini grazie al reclutamento di giovani che, disse Scelba, «avevano un sicuro senso dello Stato». Restava il problema di liberarsi degli agenti legati al partito di Togliatti e nei loro confronti il ministro adottò il vecchio sistema del bastone e della carota. Il sistema era molto semplice: Scelba varò un provvedimento che garantiva una buona liquidazione a chi accettava di dimettersi dalla polizia. Al tempo stesso, chi non voleva andarsene venne trasferito in sedi periferiche molto lontane dalla residenza abituale. Spesso in località disagevoli, nelle zone interne di Sardegna, Sicilia e Calabria. Luoghi dove in caso di un colpo di stato comunista non avrebbero potuto fare nulla. A quel punto fu lo stesso Pci a consigliare ai poliziotti che controllava di lasciare il servizio e intascare la buonuscita.

Scelba rafforzò e migliorò l’utilizzo dei reparti mobili della polizia, la famosa Celere. Creati dal socialdemocratico Giuseppe Romita, all’inizio erano appena tre dislocati a Roma, Padova e Milano. I famosi celerini viaggiavano su Campagnole della Fiat. Avevano una cattiva fama, ma erano chiamati a difendere la libertà politica e la pace sociale. Scelba continuò a essere soprattutto un ministro dell’Interno anche quando divenne presidente del Consiglio nel febbraio 1954. Il suo governo durò poco più di un anno, sino al luglio 1955. Poi la sua stella cominciò ad appannarsi. Nella Dc stavano prevalendo i sostenitori del centrosinistra. Eletto di continuo prima alla Camera e poi al Senato sino al 1979, Scelba fondò una corrente moderata: Centrismo popolare. Non ebbe molta fortuna, ma l’avvocato di Caltagirone era un uomo appagato e si spense a Roma nell’ottobre 1991, a novant’anni compiuti da un mese. A distanza di tanto tempo dobbiamo ricordarlo con gratitudine per avere organizzato i corpi di sicurezza italiani.

Scelba, l’avversario del centrosinistra. Ma impedì a Segni di affossarlo. Francesco Damato il 26 Novembre 2019 su Il Dubbio. Fu uno dei dc più odiati dai comunisti, garanzia nel dopoguerra al Viminale. Nell’estate del ’64 disse no al colle perché temeva moti di piazza. Per la sua lealtà Moro lo fece eleggere presidente del consiglio nazionale scudocrociato. Fra i primissimi articoli scritti all’insegna di un orgoglioso e meritato “ritorno in Solferino” quel salutare bastian contrario della sinistra che è Giampaolo Pansa ha voluto dedicarne uno al democristiano che forse fu il più odiato dai comunisti e dai loro alleati – più dello stesso Alcide De Gasperi, il vincitore delle storiche elezioni del 18 aprile 1948- per il polso col quale volle e seppe fare il ministro dell’Interno. Pansa invece gli ha giustamente espresso “gratitudine” proprio per questo, riconoscendo che a causa dello stato in cui erano ridotti i “corpi di sicurezza italiani” nel dopoguerra sarebbe stato facile al Pci di Palmiro Togliatti realizzare una “rivoluzione”, se lo avesse voluto davvero sfidando anche Stalin. Che difendeva da Mosca la spartizione dell’Europa concordata con gli altri vincitori del conflitto scatenato dai nazisti, cui si erano accodati i fascisti. Peccato che Pansa, Giampa per gli amici come me, si sia sostanzialmente limitato a riconoscere a Scelba solo quel merito, comprensivo del ricorso ai “celerini” scambiati spesso a sinistra per barbari scatenati dal Viminale contro inermi dimostranti. Scelba fu un patriota, e non il reazionario dipinto dai suoi avversari, anche per scelte successive a quegli anni terribili e per la pazienza con la quale seppe sopportare le provocazioni tentate contro di lui, persino con dossieraggi segreti sulla sua famiglia, quando contrastò l’apertura della Dc a sinistra, particolarmente nei riguardi del Psi di Pietro Nenni. Era il superamento di quel centrismo che gli era capitato di guidare anche come presidente del Consiglio, sostanzialmente rimosso nel 1955 da Giovanni Gronchi appena approdato al Quirinale. Per dimostrarvi la civilissima opposizione di Scelba a quella svolta, a capo di una corrente che fu chiamata “Centrismo popolare”, ricordo un particolare riferitomi dal fedele Oscar Luigi Scalfaro. Dopo avere presieduto una lunga e complicata riunione della direzione sulla preparazione del centrosinistra, il segretario del partito Aldo Moro propose e fece approvare un documento “con le consuete riserve” – disse dell’onorevole Scelba. Il quale però reagì dicendo che per le cautele di quel documento egli non aveva riserve da esprimere. “Ma è utile che vi siano”, gli replicò Moro pensando alle esigenze tattiche delle trattative con i socialisti. E Scelba sorridendo consentì. Realizzato finalmente nell’autunno del 1963 sotto la propria guida il primo governo “organico” di centrosinistra, con la partecipazione diretta dei socialisti, Moro dovette dimettersi già nell’estate dell’anno successivo per un incidente parlamentare sul finanziamento alla scuola materna privata. Che, bocciato dai socialisti, alcuni settori della Dc tentarono di cavalcare per interrompere l’esperienza di governo col Psi e tornare alle elezioni con un governo centrista. Essi trovarono una certa sponda al Quirinale, dove peraltro Antonio Segni era stato eletto nel 1962 come contrappeso politico preventivo al centrosinistra in gestazione. Lo stesso Scelba, prima di morire a novant’anni nel 1991, ha raccontato in un suo libro di memorie la proposta ricevuta da Segni nell’estate del 1964 di fare quel governo elettorale di centro. Che egli contestò esprimendo la preoccupazione che, data la breve durata dell’esperimento di governo avviato da Moro, si aprisse una stagione politica di altissima tensione anche nelle piazze. Alla garanzia del controllo della situazione dell’ordine pubblico fornitagli da Segni parlando delle assicurazioni ricevute in questo senso dal Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e già capo del servizio segreto Giovanni De Lorenzo, di una cui udienza al Quirinale fu data peraltro notizia ufficiale, Scelba oppose un rifiuto ancora più forte e convinto. E la crisi di governo prese tutt’altra piega, con la ricomposizione del centrosinistra da parte di Moro fra i “rumori di sciabole” avvertiti nei propri diari da Pietro Nenni. Essi contribuirono a diffondere la sensazione, mai provata, anche con verifiche giudiziarie, di un colpo di Stato predisposto allora con un piano chiamato “Solo”. Fu dopo quella crisi, per volontà dello stesso Moro e quasi come riconoscimento della lealtà del suo amico di partito, che Mario Scelba divenne presidente del Consiglio Nazionale della Dc, rimanendovi sino al 1973, anche dopo avere assunto nel 1969 la Presidenza del Parlamento Europeo a elezione non ancora diretta. Questo era Scelba, non a caso il pupillo, come ha ricordato lo stesso Pansa, del più celebre concittadino don Luigi Sturzo. Di cui era stato allievo e fidato segretario.

Giampaolo Pansa per il “Corriere della sera” il 16 novembre 2019. Tanti anni fa l' obiettivo principale di noi giovani cronisti antifascisti era il segretario del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante. Era tornato al comando del Msi nell' epoca molto agitata per via del Sessantotto. In precedenza, dopo tre anni da leader del partito, era stato sostituito da Arturo Michelini rimasto poi in sella per un quindicennio. La poltrona missina era molto ambita a destra. Michelini l' aveva occupata in modo dignitoso. Nato nel 1909, aveva combattuto da volontario nella guerra di Spagna e poi nella guerra civile di casa nostra. Invecchiando era diventato un signore tranquillo e amante delle comodità. La leggenda racconta che riceveva i maggiorenti del partito nella sua casa romana. E li accoglieva avvolto in una fantastica vestaglia da camera. Mostrava il disincanto tipico dei leader. Un giorno diede udienza a un parlamentare missino che si lamentava di non essere trattato bene dal quotidiano del partito, il Secolo d' Italia. Michelini lo mise tranquillo dicendogli: «Che ti frega del Secolo ? Lo legge soltanto il mio cameriere che è fascista». Almirante poteva infuriarsi per le beghe interne al partito. Tutti sostenevano che era un politico dai nervi d'acciaio. Ma non era così. Ho un ricordo personale in proposito. Risale al 1973, quando tre quarti dell' Italia si scaldava su una questione molto importante: il divorzio tra coniugi. La possibilità di divorziare era stata introdotta dalla legge Baslini-Fortuna. Gli antidivorzisti si preparavano ad annullarla attraverso un referendum che si sarebbe tenuto a maggio del '74. E tra i nemici della legge c'era il Movimento Sociale. Rammento quello che sosteneva Almirante. La sua linea era esplicita: la legge Baslini-Fortuna andava affossata per un motivo politico. Lo strumento adatto era un referendum che doveva diventare un plebiscito anticomunista. La vittoria degli antidivorzisti avrebbe impedito al Pci di andare al potere. Il leader del Msi ribadì questa convinzione ai primi del gennaio '73, nel corso di una conferenza stampa organizzata per presentare il Decimo congresso del partito. All' inizio tutto andò liscio. Il trambusto si scatenò quando cominciarono le domande dei giornalisti. Uno dei primi a farle fui io. Qualcuno poi ritenne che la mia domanda fosse troppo personale. Ma io la consideravo lecita dal momento che Almirante era un capo politico importante e sapeva di certo che anche nel suo caso il confine tra privato e pubblico risultava pressoché inesistente. Gli chiesi perché si opponesse al divorzio dal momento che aveva alle spalle un matrimonio fallito e stava per unirsi a un' altra signora. Fu come gettare un fiammifero in un bidone di benzina. Esplose un caos infernale. La sala della conferenza stampa diventò una bolgia. Tanto rovente che ho dimenticato la risposta di Almirante prima di andarsene. Avevo contro quasi tutti. Se la presero con me persino alcuni colleghi di altri giornali, accusandomi di essere un terrorista verbale, uno sfasciacarrozze, incapace di stare alle regole del bon ton tra politici e cronisti. Avevo fatto quella domanda al leader missino perché conoscevo la sua storia coniugale. Non si trattava di un segreto. Tant' è vero che molti ne erano al corrente. L' avevo sentita raccontare nel Transatlantico di Montecitorio. Dopo la fine della guerra civile, Almirante aveva sposato una ragazza della sua città natale, Salsomaggiore Terme in provincia di Parma. Lei si chiamava Gabriella Magnatti e gli aveva dato una figlia, Rita, lo stesso nome della madre del capo fascista. In seguito il matrimonio era andato a rotoli e la coppia aveva deciso di separarsi. In quel '73 Almirante stava per contrarre un matrimonio religioso con una vedova più giovane di lui. Era Assunta Stramandinoli, nata nel 1925 a Campobasso. Una donna speciale, bella e dal forte carattere. Destinata a rimanere alla ribalta per molti anni anche dopo la morte del leader missino. Almirante era un uomo intelligente. Sapeva che di casi come il suo ne esistevano a migliaia in Italia. Quando si trattò di raccogliere le firme per il referendum che abrogava il divorzio, aveva spiegato di essere contrario all' iniziativa della Balena bianca. Ma nel suo partito fu messo in minoranza e dovette schierarsi con Fanfani. Anni prima stavo scrivendo per la Stampa una serie di articoli sulla Destra. Chiesi di vederlo e lui accettò. Nelle stanze della Galleria San Federico a Torino il sentimento della redazione era antifascista senza se e senza ma, come si usa dire oggi, molto intransigente. Almirante però era un politico astuto e sapeva che eravamo noi a fargli un regalo e non il contrario. L' incontro avvenne il 2 dicembre '70 nella sede del Msi a Palazzo del Drago in via Quattro Fontane a Roma. Erano le 9 di mattina, Almirante si era alzato da poco, doveva aver passato una nottata di riunioni o dibattiti. Sembrava più anziano dei suoi 56 anni. Asciutto ma livido. Tutto occhiaie. La faccia un po' disfatta. Il suo ufficio aveva un' aria neutrale. Di Mussolini non esisteva traccia. Il busto del Duce trasferito in anticamera e seminascosto in un angolo. Di nero erano rimaste soltanto due cose. Un labaro delle ausiliarie che avevano militato nei ranghi della Repubblica sociale. L' altra cosa nera era il quadro che fece della situazione italiana. Un panorama a tinte fosche che Almirante riteneva esatto al millimetro. A sentire lui l' Italia democratica era alla vigilia del collasso. La Dc, «passeggiatrice della politica», si era arresa. Il Psi era un cavallo di Troia dei comunisti. Il Pci era diventato l' arbitro della politica nazionale. Il risultato? Le istituzioni crollavano sotto i colpi dell' opposizione comunista che insidiava la sicurezza, il lavoro, la famiglia, la scuola, la magistratura, la gioventù, la cultura e non so che altro. Erano ipotesi sbagliate. Sarebbe stato necessario arrivare alle soglie del Duemila per veder crollare il muro della politica di Governo, quello che stiamo osservando con terrore ancora oggi.

Il giorno in cui la coerenza divenne disvalore. Era il gennaio 1994 quando Bossi in un lampo smontò l’accordo di governo stretto dal suo vice Maroni e Mario Segni. E si alleò con Berlusconi per poi farlo secco a dicembre. Quello fu solo l’inizio. Paolo Delgado il 27 Agosto 2019 su Il Dubbio. C’era una volta la coerenza. Oddio, nei fatti a volte c’era e a volte non c’era. Non bisogna esagerare nel beatificare i bei tempi andati. Le esigenze di carriera c’erano anche allora e di politici capaci di spostarsi con la rapidità del lampo dal civettamento con la sinistra all’ala destra e viceversa non ne mancavano certo. Basti dire che Fernando Tambroni, passato alla storia come premier del solo governo sostenuto dal Msi neofascista nella prima Repubblica e abbattuto a furor di piazza era stato fino a quel momento la sponda della sinistra nella Dc, o che il generale De Lorenzo, quello del "rumor di sciabole", insomma del golpe del 1964 era tra gli alti gradi quello più apprezzato dal Pci. Però la coerenza c’era lo stesso, nel senso che campeggiava ai primissimi posti nel listino di borsa dei valori politici. Le giravolte erano guardate con sospetto nei palazzi come nei bar. Bisognava, se del caso, preparale, giustificarle, sostenerle con strategie politiche ariose a raffinate. Da questo punto di vista i tempi si sono letteralmente capovolti. La piroetta, persino nell’arco di appena 24 ore, è peccatuccio veniale. Nessuno potrebbe permettersi di tirare la prima pietra e comunque gli elettori non puniscono neppure con il brecciolino. Così va il mondo. Così fan tutti. La tendenza non è nuova ma certo la crisi d’agosto ha portato la sagra dell’incoerenza a vette mai violate prima. Praticamente non c’è nessun attore in camp che non abbia fatto l’opposto esatto di quanto asserito per settimane, mesi, anni e persino decenni. Il catalogo è noto: non c’è bisogno di ricapitolarlo. Il bello è che a questa legittimazione della più estrema disinvoltura si accompagna un rigidissimo richiamo alla coerenza nel "fare ciò che si dice". Peccato che si tratti di due atteggiamenti inconciliabili: la strategia dell’incoerenza nelle alleanze e nei "posizionamenti" impone infatti comunque di mediare con l’alleato di turno, e qualsiasi mediazione impedisce di ‘ fare quel che si è detto’, almeno non alla lettera. La somma dei due fattori, possibilità di capovolgere le posizioni sullo scacchiere della politica in pochi secondo e necessità di mostrarsi come chi è pronto a tutto pur di "fare quel che si è detto" convergono nel trasformare il panorama politico in una sala da ballo dove i giri di valzer sono necessariamente vertiginosi, continui e rapidissimi.

E’ forse possibile rintracciare una data precisa all’origine del "nuovo corso! ed è senza dubbio facile individuare le spinte che la hanno portata a imporsi sempre più. La data è il 26 gennaio 1994. Due giorni prima su mandato di Bossi, capo indiscusso della Lega, il suo braccio destro Maroni aveva siglato un accordo di governo con Mario Segni, vincitore del referendum del 1993. Bossi lo stracciò 48 ore dopo per sostituirlo con il patto con Berlusconi, che avrebbe poi cancellato nel dicembre dello stesso anno. La spiegazione del ripensamento, di fronte agli stati generali del Carroccio fu in schietto stile bossiano: "Lo avevo detto a Bobo: togliti di mezzo che sto per tirare tiro". Accompagnata dall’elegante gesto dell’ombrello rivolto all’appena affondato Mariotto. Era l’impostazione del Senatur, all’epoca inaudita nella politica italiana: massima rigidità negli obiettivi strategici, il federalismo estremo, totale duttilità, senza perdere tempo con la vetusta coerenza, nella tattica quotidiana. A questo si è accompagnata l’ambiguità di una legge elettorale, quella varata nel 1993, il Mattarellum, che mischiava maggioritario e proporzionale rendendo così possibili i cambi di alleanza propri del proporzionale anche in un sistema che si voleva maggioritario, e cioè impermeabile a quei cambi. In questo senso la formula ‘ né di destra né di sinistra’, inaugurata proprio dalla Lega di Bossi negli anni ‘90 ma dilagata poi con l’M5S e, nei fatti, con il Pd di Renzi, altro non è che la consacrazione di una politica che, in nome del pragmatismo e del "tramonto delle ideologie" pretende di guardare solo al sodo, al risultato concreto, al "mantenimento delle promesse" e sotto questa bandiera è pronta a tutto. La formula ha attecchito. Il valore della coerenza nella Borsa politica è precipitato. Allearsi con il peggior nemico per poi riscoprirlo come inconciliabile rivale è norma accettata dagli elettori stessi in nome del risultato. Peccato che non funzioni, perché in politica i risultati richiedono una solidità che non si concilia con il caleidoscopio dei posizionamenti mutevoli ma anche perché intorno ai diversi forni che ogni partito ha o sogna di avere a disposizione si articolano inevitabilmente le lacerazioni interne, con effetto paralizzante e spesso i posizionamenti interni finiscono per riflettere più le guerre intestine che il perseguimento dell’ "impegno da mantenere". Con un effetto in più: la totale delegittimazione dell’intero sistema politico, giudicato per definizione falso e inaffidabile. E’ un processo che si è già spinto molto avanti. La messa in scena un po’ allucinante che si sta svolgendo in questi giorni potrebbe dare alla credibilità del sistema politico complessivo il colpo di grazia.

Il patto Gentiloni: cento anni dopo la storia si ripete? Luciano Lanna il 13 Dicembre 2016 su Il Dubbio. Nel 1913 il tacito accordo tra liberali e cattolici per fermare i socialisti con la regia del conte Vincenzo Ottorino, antenato del neo-premier. «Me lo chiedono da quando andavo a scuola… » , ha detto Paolo Gentiloni dei rapporti col suo antenato Vincenzo e del “ patto” passato alle cronache con il cognome della loro famiglia e che, nel 1913, consentì di far fuoriuscire da una impasse paralizzante la politica italiana. Del resto, in questi giorni le coincidenze e le ricorrenze sono più d’una. Intanto se Vincenzo Ottorino Gentiloni Silveri si spegneva nel 1916, è esattamente cento anni dopo che un suo discendente viene incaricato di presiedere un governo finalizzato a uscire da una nuova situazione di stallo. E allora come adesso c’è di mezzo una questione di legge elettorale. Paolo Gentiloni Silveri deve infatti guidare un governo con lo scopo principale di pervenire di un nuovo sistema di voto in grado di far superare lo stallo verificatosi dopo le elezioni del 2013. Nel 1912, invece, una riforma elettorale – approvata il 30 giugno – aveva introdotto il suffragio universale maschile su base di collegi maggioritari uninominali. Il numero di aventi diritto al voto era passato dai circa tre milioni iniziali a quasi nove milioni di elettori. Una riforma elettorale che era stato il prezzo pagato dal premier Giovanni Giolitti ai socialisti di Leonida Bissolati per l’appoggio ottenuto durante la guerra italo– turca. Ma essendo la maggioranza degli elettori operai e di estrazione popolare si temeva una maggioranza guidata dal partito socialista, che all’epoca comprendeva anche posizioni massimaliste e anarcoidi, oggi diremmo populiste. In questo senso, l’azione di Vincenzo Gentiloni fu decisiva per consentire di affrontare la nuova legge elettorale, collegio per collegio, con lo scopo di far perdere i socialisti. Il patto Gentiloni portò deliberatamente, alle elezioni del 1913, l’elettorato cattolico a schierarsi con i liberali giolittiani con il fine esplicito di fermare l’avanzata socialista, marxista e anarchica e consentire a Giolitti la formazione di un nuovo governo. Anche da questo punto di vista – corsi e ricorsi della storia – c’è un comune riferimento alla cultura liberale. Quando infatti, qualche anno fa, hanno chiesto a Paolo Gentiloni cosa occorresse di più al Pd, lui rispose chiaramente: « Il pensiero liberale: nel partito democratico ci saranno sia eredi di una cultura comunista che è stata sconfitta dalla storia, sia militanti di una cultura cattolica che ha avuto torti e ragioni. Possibile che manchino interpreti di quella liberale, che ha vinto la battaglia culturale del Novecento? Cercansi disperatamente – concludeva – interpreti della cultura liberale » . Allo stesso modo, i punti del patto firmato nel 1912 furono inseriti nell’accordo fondativo dell’allora neonato Partito liberale. Nello spirito del “ patto”, infatti, Gentiloni e Giolitti diedero vita al Partito liberale del periodo immediatamente precedente alla prima guerra mondiale, al quale s’ispireranno, dopo la seconda guerra mondiale, i fondatori dello stesso Pli. Nel Partito liberale, fondato appunto nel 1912, grazie a Giolitti e Gentiloni, venivano perciò a confluire il filone risorgimentale legato alla tradizione cavouriana e il filone cattolico largamente maggioritario nel Paese anche se fino ad allora sostanzialmente escluso dalla partecipazione ufficiale alla legislazione e all’amministrazione dello Stato. È quindi un doppio cognome – quello dell’attuale incaricato premier e dell’uomo che consentì a Giolitti di fermare il trionfo socialista – che tradisce origini nobiliari: Gentiloni Silveri. Un cognome importante nella storia del Paese, non solo per questi due esponenti, ma anche per altri personaggi. Tutti marchigiani, rappresentanti di una famiglia nobile di conti di Filottrano, Cingoli, Macerata e Tolentino, con tanti esponenti distintisi nella vita pubblica. Proveniva dalla stessa famiglia anche Domenico Gentiloni Silverj: guardia nobile del Pontefice, ma anche ammiratore e amico di Vincenzo Gioberti e di Massimo d’Azeglio, nel 1849 aveva aderito alla Repubblica romana. Nel 1857 divenne primo cittadino di Tolentino, passerà alla storia della sua città come l’ultimo sindaco dello Stato pontificio e il primo del nuovo Regno d’Italia, senza soluzione di continuità. Domenico era anche musicista e aveva composto nel 1846 in occasione dell’elezione di Pio IX – un altro marchigiano, Giovanni Maria Mastai Ferretti – l’opera intitolata “ L’Armonia religiosa”, che fu eseguita per la prima messa celebrata dal nuovo Pontefice a San Pietro. L’inno che vi era contenuto fu regolarmente usato in Vaticano nelle occasioni più solenni fino al 1970, quando fu soppresso nell’ambito della riforma della corte pontificia voluta da Paolo VI, per essere in seguito ripristinato nel 2008, per volontà di Benedetto XVI. E, arrivando al Novecento, vengono dalla stessa famiglia il professor Niccolò Gentiloni Silveri, medico di fama internazionale, che raggiunse l’apice della notorietà curando Giovanni Paolo II al Policlinico Gemelli; Filippo Gentiloni Silveri, giornalista specializzato in tematiche religiose e politiche, già sacerdote gesuita, firma del quotidiano Il Manifesto; e infine il capogruppo Ncd alla Regione Marche, Francesco Massi Gentiloni Silveri. Un cognome importante, quindi, e una innegabile e comune matrice cattolica. Anche Paolo Gentiloni, del resto, riceve un’educazione cattolica e prima dei sedici anni fa anche il catechista assieme ad Agnese Moro. E quando il sindaco di Roma Francesco Rutelli dovette affrontare la decisiva partita del Giubileo, nomina fiduciario e assessore proprio il suo portavoce Gentiloni, che svolge il ruolo di interfaccia con le autorità vaticane. E pur con un’adolescenza e una giovinezza politiche trascorse tra il Movimento studentesco di Mario Capanna e il Pdup, Paolo Gentiloni si rivolge poi all’ambientalismo e sarà – pur tra posizioni laiche, nel senso di non post– democristiane – tra i fondatori della Margherita di Rutelli e, infine, del Pd. D’altronde, a inizio ’ 900 il Patto Gentiloni aveva portato alla fusione tra il filone cattolico e quello laico– risorgimentale, le due componenti che, unite, formarono per un decennio la maggioranza politica e sociale del Paese, prima dell’interventismo e della Grande Guerra che sconvolgeranno poi tutto e cambieranno gli equilibri politici italiani. Il merito politico di Vincenzo Ottorino Gentiloni Silveri – da presidente dell’Unione elettorale cattolica italiana – fu storicamente proprio quello di aver consentito il superamento del non expedit di Pio IX, la decisione che dopo Porta Pia impediva ai credenti di partecipare alla politica. Ai primi del secolo scorso, l’avanzare dei socialisti e il grosso peso dei laico– radicali nelle compagini di governo aveva spinto Pio X ( 1909) a promuovere la creazione dell’Unione Elettorale Cattolica Italiana ( Ueci), un’associazione laicale con il compito di indirizzare i cattolici italiani impegnati nell’agone politico, e a porvi a capo proprio il Conte Gentiloni. D’altra parte, Giolitti, e con lui vari esponenti della classe politica che aveva governato l’Italia nel suo primo cinquantennio di vita, desiderava bloccare l’avanzata che sembrava impetuosa del Partito socialista. L’accordo che andrà sotto il nome, appunto, di Patto Gentiloni, era in sostanza un documento siglato che prevedeva un’intesa su alcune direttrici fondamentali. Nel dettaglio, il patto consisteva in un elenco di sette punti considerati irrinunciabili per ottenere il sostegno degli elettori cattolici, tra i quali la difesa delle garanzie date dagli ordinamenti costituzionali alle libertà di coscienza e di associazione e il diritto di avere una seria istruzione religiosa nelle scuole comunali. Il “ patto” aveva dietro di sé una interpretazione diversa del Risorgimento: ancorarlo – come era stato fatto sino ad allora dalla Destra e dalla Sinistra storiche – all’idea e alla prassi di “ rivoluzione” non poteva portare, secondo i cattolico– liberali, che al rovesciamento del suo intento originario, quello di rivendicazione e riconquista dell’autonomia nazionale. Una lettura che, unendo Gioberti, Manzoni, Cavour e Giolitti, conduceva a una evidente strategia politica antisocialista, antiradicale, antilaicista. Collegio per collegio, quindi, i cattolici liberali di Gentiloni si impegnarono a eleggere deputati cattolici che avevano sottoscritto l’accordo, mentre i cattolici si dicevano pronti a votare per i candidati liberali che accettavano quegli impegni. E nelle elezioni politiche italiane del 1913 – le prime della storia italiana a suffragio universale maschile – il nuovo partito liberale ottenne uno schiacciante successo. Preoccupati di passare un gran numero di eletti ai socialisti, i giolittiani misero a disposizione davvero una nutrita quantità di seggi per i candidati cattolici. Da parte sua, il Conte Gentiloni fu incaricato di passare al vaglio i candidati liberali, al fine di far confluire i voti dei cattolici su quelli tra loro che promettessero di fare propri i valori affermati dalla dottrina cristiana e, parallelamente, di negare il proprio sostegno a leggi laiciste. Sia ben chiaro: il “ patto” fu concluso in maniera informale, siglato ma mai reso pubblico. Anzi, Giolitti, di fronte alle accuse di aver “ ceduto” ai cattolici, riferitegli dai liberali della sua maggioranza, ne negò addirittura l’esistenza. I radicali comunque lasciano la maggioranza giolittiana e fra i cattolici, espresse delle riserve don Luigi Sturzo, che si batteva per la creazione di un autonomo partito di cattolici. La Santa Sede comunque appoggiò il Patto: in vista delle elezioni, papa Pio X tolse il non expedit in 330 collegi su 508. E i risultati delle elezioni del 1913 sancirono il grande successo del Patto e rappresentarono il trionfo di Gentiloni: i liberal– cattolici ebbero il 51 per cento dei voti e su 508 seggi ebbero 260 eletti. Di questi, 228 furono gli eletti cattolici che avevano sottoscritto gli accordi del Patto prima delle elezioni. I deputati socialisti ( tra Psi e Socia- listi indipendenti e sindacalisti) videro salire a 58 il numero dei propri eletti, 73 furono i radicali, 34 i cattolici non aderenti al Partito liberale e solo 5 quelli della destra nazionalista. Ricordiamolo: nell’Italia a sistema elettorale censitario, quella precedente Patto Gentiloni, l’alleato dei giolittiani era il Partito radicale che, con i suoi settanta deputati, aveva appoggiato il terzo e quarto governo Giolitti. Dopo le elezioni del 1913 i radicali passarono all’opposizione e successivamente alla marginalità politica. Dall’anno successivo emergeranno nuove forze politiche – i popolari, i mussoliniani dei fasci di combattimento, i sindacalisti rivoluzionari, i comunisti – che inaspettatamente per i giolittiani faranno rientrare dalla finestra quei fattori di instabilità sventati dal patto siglato da Gentiloni. Il quale, del resto, nel 1916, a soli cinquantuno anni d’età scomparve prematuramente. Con la solita astuzia della storia, una domanda viene allora spontanea: qualcosa di quelle dinamiche potrebbe forse ripetersi un secolo dopo? Riuscirà, insomma, un altro Gentiloni nell’affermazione di un nuovo “ patto” – questa volta finalizzato alla legge elettorale – in grado di evitare un governo in mano al M5S e ad altre forze populiste?

Intesa di governo: dal connubio al contratto di governo gialloverde. Quando i nemici storici diventano alleati. Il patto Di Maio-Zingaretti potrebbe essere solo l’ultimo accordo tra esponenti politici in precedenza molto distanti tra loro. Ecco i precedenti più famosi. Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 27 agosto 2019.

Camillo Benso Conte di Cavour-Urbano Rattazzi, 1852. Fino a qualche mese fa un accordo di governo tra Pd e 5 Stelle sarebbe stato considerato fantapolitica. Prima di diventare segretario dei Dem Nicola Zingaretti ha voluto (o dovuto) precisare più volte che mai avrebbe portato a termine un’intesa con il Movimento in questa legislatura. Ma parole come «mai» e «per sempre» non esistono nella politica italiana. Lo dimostrano una serie di precedenti storici in cui importanti esponenti, dopo essersi combattuti senza sosta, trovano un’intesa diventando alleati. L’esempio più antico risale al novembre del 1852 ai tempi del Regno di Sardegna quando Cavour, esponente della Destra Storica, si accordò con il capo del Centro-sinistra Urbano Rattazzi per isolare le estreme del Parlamento, sia di destra che di sinistra. Nacque così il primo governo Cavour con un programma liberale e di difesa delle istituzioni costituzionali. L’intesa che portò alla nascita del primo governo Cavour fu ribattezzata in maniera dispregiativa «Connubio» in contrapposizione al divorzio che si era consumato nella Destra storica. Cavour avrebbe poi governato ininterrottamente per tutto il decennio e guidato il Paese verso l’unificazione.

Giovanni Giolitti-Filippo Turati, 1903. Un’altra svolta radicale nella politica italiana arriva a inizio del XX secolo. Da anni il Paese è minacciato da una ventata reazionaria: gli scioperi dei lavoratori sono repressi spesso con la forza e gli scontri culminano con gli 83 morti dei moti di Milano tra il 6 e il 9 maggio del 1898. Pur di evitare che la situazione degeneri, Giovanni Giolitti si avvicina ai “nemici” socialisti e il 3 novembre 1903 vara il suo secondo governo con l’appoggio esterno del partito riformista guidato da Filippo Turati. Quello che a molti analisti appare come un azzardo, si rivela una felice intuizione politica. Nel primo decennio del secolo il Paese non solo è caratterizzato da un forte crescita economica, ma adotta anche una serie di misure a favore dei ceti popolari e della classe operaia come le leggi sulla tutela del lavoro minorile, su quello femminile e quella sugli infortuni.

Giovanni Giolitti - Vincenzo Ottorino Gentiloni, 1913. Nel 1913, un anno prima dell’inizio della Grande Guerra, il liberale Giovanni Giolitti porta a termine un’altra celebre svolta siglando il «Patto Gentiloni» che segna l’ingresso ufficiale dei cattolici nella vita politica italiana (fino ad allora erano ancora in vigore le dichiarazioni di papa Pio IX sulla «non convenienza» - non expedit - della partecipazione dei fedeli all’attività politica). L’accordo fu portato a termine dal politico piemontese e dal leader dell’Unione Elettorale Cattolica Italiana Vincenzo Ottorino Gentiloni. Grazie all’intesa Giolitti si garantì l’appoggio dei cattolici e trionfò con il 47,6% dei voti nelle prime elezioni con il suffragio universale maschile.

Palmiro Togliatti - Pietro Badoglio, 1944. Uno dei più celebri compromessi della storia italiana è la «svolta di Salerno» del marzo 1944. Il leader comunista Palmiro Togliatti, tornato dall’esilio moscovita, annuncia che il suo partito è disposto ad accantonare per il momento la questione monarchica e a partecipare, con altre forze politiche antifasciste, a un governo presieduto da Pietro Badoglio, già maresciallo d’Italia sotto il regime fascista.Vittorio Emanuele III avrebbe trasferito i suoi poteri al figlio Umberto che sarebbe diventato Luogotenente del Regno. La questione costituzionale (monarchia o repubblica) sarebbe stata risolta con un referendum dopo la fine del conflitto. Il nuovo governo Badoglio nasce il 22 aprile e Togliatti diventa vicepresidente del Consiglio.

Aldo Moro - Pietro Nenni, 1963. Nel 1963 è varato il primo governo di centro-sinistra con democristiani e socialisti che erano stati acerrimi nemici per più di un decennio. La svolta fu portata a termine dopo anni di trattative da Aldo Moro e Pietro Nenni. Il primo ottenne la Presidenza del Consiglio, il secondo fu suo vice. L’esecutivo nel quale erano presenti anche il Partito socialdemocratico di Giuseppe Saragat e il partito repubblicano di Ugo La Malfa presentò un ambizioso programma riformatore che riuscì però solo in parte a portare a termine.

Giulio Andreotti - Enrico Berlinguer, 1977-78. Sotto il nome di «compromesso storico» s’intende il percorso che porto al riavvicinamento negli anni ‘70 della Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, i due partiti che avevano fino ad allora dominato la politica italiana, combattendosi senza tregua. I fautori del compromesso storico furono Aldo Moro ed Enrico Berlinguer che culminò con la nascita del terzo e quarto esecutivo presieduti entrambi da Giulio Andreotti, il primo nato grazie all’astensione del PCI, il secondo con l’appoggio esterno del partito guidato da Berlinguer. Prima di allora Giulio Andreotti era stato uno dei principali bersagli della propaganda comunista.

Massimo D’Alema - Umberto Bossi, 1995. Il 22 dicembre del 1994 termina il primo Governo Berlusconi. A «tradire» il Cavaliere è l’alleato Umberto Bossi che in accordo con l’ex nemico e leader del Pds Massimo D’Alema appoggerà l’anno successivo il governo «tecnico» di Lamberto Dini portando a termine uno dei più celebri «ribaltoni» della storia italiana.

Massimo D’Alema - Silvio Berlusconi. Nel 1997 i “nemici” Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi, leader rispettivamente del Pds e di Forza Italia, si accordano per portare a termine riforme costituzionali in Parlamento e fanno nascere la commissione «Bicamerale». L’accordo, ribattezzato «patto della crostata», sarebbe stato stipulato durante una cena alla Camilluccia, nella casa romana di Gianni Letta a cui avrebbero partecipato oltre il padrone di casa e i due leader politici, anche Franco Marini e Gianfranco Fini. La cena si concluse con la crostata preparata dalla signora Letta che ottenne “l’unanimità dei consensi”. Tuttavia la Commissione Bicamerale sarebbe naufragata già nel giugno del 1998 quando l’allora presidente D’Alema «prese atto del venire meno delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione».

Enrico Letta - Silvio Berlusconi, 2013. Il 28 aprile dl 2013 nasce il governo di “larghe intese” presieduto da Enrico Lettae sostenuto principalmente dal Partito Democratico del premier e dagli ex rivali del Popolo delle Libertà di Silvio Berlusconi. A novembre dopo che il Cavaliere decade dalla carica di Senatore per effetto della Legge Severino, il Pdl tornato a essere Forza Italia, annuncia che non appoggerà la finanziaria e passa all’opposizione. Ad evitare la caduta del governo è il Nuovo Centro-Destra il cui leader Angelino Alfano rinnova la fiducia all’esecutivo Letta.

Luigi Di Maio - Matteo Salvini, 2018. Gli ultimi “nemici” ritrovatasi alleati sono Luigi Di Maio e Matteo Salvini, rispettivamente leader del Movimento 5 stelle e della Lega che a fine maggio 2018 siglano un “contratto” e fanno nascere il “governo del cambiamento”. Nato il 1 giugno del 2018, l’esecutivo, guidato dall’avvocato Giuseppe Conte, rimane in carica 14 mesi prima delle dimissioni presentate dal premier lo scorso 20 agosto.

Quando i ribaltoni erano una cosa seria. Francesco Damato il 18 Agosto 2019 su Il Dubbio. Se alla fine sarà davvero ribaltone, come ha promesso l’alba di questa crisi con le votazioni sul suo calendario al Senato, non si potrà neppure dire che sarà il primo di questa diciottesima legislatura. Se alla fine sarà davvero ribaltone, come ha promesso l’alba di questa crisi con le votazioni sul suo calendario al Senato, dove i grillini si sono trovati col Pd contro i leghisti, non si potrà neppure dire che sarà il primo di questa diciottesima legislatura. Che fu aperta l’anno scorso proprio con un ribaltone rispetto alla campagna per il rinnovo delle Camere e ai risultati elettorali del 4 marzo, avendo finito per trovarsi al governo due partiti – il Movimento delle 5 Stelle e la Lega- che se l’erano dette e date nelle piazze mediatiche di santa ragione: l’uno puntando addirittura ad un monocolore in cui Giuseppe Conte avrebbe dovuto fare solo il ministro della funzione pubblica, e l’altra proponendosi – e mancando per poco – l’obiettivo di un esecutivo di centrodestra a trazione non più berlusconiana ma salviniana. Fu un ribaltone, quello dell’anno scorso, neppure con la scusa, o la ragione, della eccezionalità e provvisorietà, ma con l’ambizione dichiarata sin dal primo momento da entrambi gli attori di far durare la loro esperienza contrattuale per tutta la durata della legislatura. Anche nel 1976, all’epoca della cosiddetta prima Repubblica, con una classe politica ben oleata e, francamente, molto più autorevole di questa della terza Repubblica, fu un ribaltone rispetto alla campagna elettorale e ai risultati del rinnovo delle Camere la maggioranza emergenziale di cosiddetta solidarietà nazionale. Che si formò attorno ad un governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti col contributo decisivo del Pci di Enrico Berlinguer, la cui “alternatività” allo scudo crociato era stata dichiarata anche da Aldo Moro. Che pure fu poi l’artefice o regista dell’intesa parlamentare con i comunisti di fronte all’anomalia di un risultato elettorale con “due vincitori”, nessuno dei quali era in grado di costituire una maggioranza contro l’altro. Diversamente dagli improvvisati – permettetemi di dirlo – statisti di oggi, quelli di allora fecero le cose così tanto con la testa sulle spalle che – senza neppure bisogno di stringere un contratto scritto e di mettervelo dentro come una clausola – concordarono da galantuomini non solo il carattere provvisorio della loro convergenza, senza la pretesa di tirarla per le lunghe per cinque anni, ma anche la dissoluzione della legislatura nel momento in cui uno dei due maggiori partiti avesse abbandonato la maggioranza. Per cui, quando Berlinguer annunciò, all’inizio del 1979, il ritorno all’opposizione nessuno fece storie e il presidente della Repubblica Sandro Pertini sciolse le Camere come due caramelle in bocca. Adesso è tutt’altra storia, con tutt’altri protagonisti, ripeto, e in tutt’altro quadro. In cui spicca, almeno per quanto riguarda le mie personali riflessioni, la eccessiva esposizione alla quale protagonisti e semplici attori della crisi stanno sottoponendo l’incolpevole presidente della Repubblica. Dal quale una nuova e ribaltosa maggioranza fra Movimento 5 Stelle e Pd, con cespugli vari, vorrebbe essere aiutata a nascere, incurante dell’obbligo avvertito dal capo dello Stato – e fatto conoscere attraverso il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda – di non sostituirsi ai partiti e di valutare poi, con le sue prerogative costituzionali, il risultato delle loro capacità, se ne avranno, di accordarsi su un serio programma. Della posizione e del ruolo del capo dello Stato si è avuto poco riguardo anche nel momento in cui dai partiti, o loro correnti, aspiranti al ribaltone, e non certo dalla sola fantasia dei retroscenisti di turno, si è fatto notare, diciamo così, che evitando le elezioni anticipate e portando la legislatura al suo ordinario epilogo, nel 2023, la nuova maggioranza sarebbe in condizione di eleggere l’anno prima il successore di Mattarella, o di confermarlo al Quirinale. Così il presidente della Repubblica si troverebbe esposto, suo malgrado, al sospetto di muoversi in un potenziale conflitto d’interessi se e quando gli toccherà di giudicare un’intesa fra grillini e piddini: una cosa francamente mai vista nelle tante storie di crisi di governo e di ribaltoni cui mi è capitato di assistere in quasi sessant’anni ormai di mestiere giornalistico. Pensavo di avere visto il massimo dell’anomalia fra l’estate e l’autunno del 1994, quando l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, non incautamente spinto verso gli intrighi da altri e giustamente infastidito, come adesso Mattarella, ma di sua volontà incoraggiò l’insofferente Umberto Bossi, che lo avrebbe poi raccontato personalmente, a far saltare il primo governo di centrodestra di Silvio Berlusconi. Cui seguì, preparato dai pranzi a Gallipoli fra Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione e gli spuntini con panini e alici fra lo stesso D’Alema e Bossi nella casa di quest’ultimo a Roma, il ribaltone del governo Dini. Che, in verità, Scalfaro cercò ad un certo punto di rendere meno vistoso del possibile, sia mandando a Palazzo Chigi lo stesso Dini, ministro del Tesoro nel governo Berlusconi, sia promettendo al Cavaliere elezioni anticipate entro maggio- giugno del 1995. Poi le cose presero un po’ la mano a tutti, compreso Berlusconi. Che compromise i rapporti con Dini reclamando la conferma del suo fidato Gianni Letta a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Dini, dal canto suo, si prestò a ritardare le elezioni di un anno e fondò un suo partito contribuendo alla vittoria del centrosinistra ulivista, Nei cui governi avrebbe fatto ininterrottamente il ministro degli Esteri, fra il 1996 e il 2001. Il ribaltone di Bossi ancor più di Berlusconi, che poi lo avrebbe recuperato come alleato per non perderlo più sino a quando la Lega sarebbe rimasta nelle sue mani, scandalizzò in modo particolare Gianfranco Fini. Che giurò di non prendere più neppure un caffè col capo del Carroccio. Eppure sarebbe stato proprio Fini nel 2010 a tentare il ribaltone più clamoroso della seconda Repubblica, rompendo con Berlusconi e cercando di rovesciarne il governo con una mozione di sfiducia preparata nel proprio ufficio di presidente della Camera. L’operazione fallì per i tempi imposti a quella mozione dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, deciso a mettere prima in sicurezza i conti dello Stato – già allora- con l’approvazione della legge finanziaria e del bilancio annesso, e per i voti giunti al Cavaliere dalle impreviste sponde dipietriste e di sinistra: i sì alla fiducia, o no alla sfiducia, del famoso Domenico Scilipoti ed altri “responsabili”. Ma il governo rimase ugualmente ammaccato, cadendo meno di un anno dopo. Fu in qualche modo ribaltone anche quello del 1998 compiuto da D’Alema contro Prodi subentrandogli a Palazzo Chigi con l’appoggio dei transfughi del centrodestra arruolati apposta dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che tuttavia se ne sarebbe pentito l’anno dopo, senza tuttavia riuscire a cambiare prima delle elezioni ordinarie del 2001, e della rivincita di Berlusconi, il quadro da lui improvvisato con l’approdo – si era compiaciuto del “primo comunista”, o post- comunista, e sinora unico, a Palazzo Chigi.

Quando Moro bocciò i due ministri del Pci e rifiutò di sostituire Bisaglia e Donat Cattin. Erano le richieste di Berlinguer per votare la solidarietà nazionale, ma la Dc rifiutò. Francesco Damato il 21 Settembre 2019 su Il Dubbio. Nella ricerca ormai ossessiva delle discendenze o analogie politiche si è cercato di scavare nel passato anche a proposito della scissione del Pd consumata questa volta da Matteo Renzi, come due anni e mezzo fa dai suoi nemici ormai per la pelle Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni. Che avevano brindato alla sua sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, dopo averla apertamente osteggiata. Ho sentito da qualche parte evocare persino il povero Aldo Moro, già scomodato durante la crisi d’agosto come anticipatore di Giuseppe Conte, per usarne il ricordo stavolta contro Renzi. Che si sarebbe comportato con la stessa irrazionalità e assurdità di un Moro che nel 1976, dopo avere spinto la Dc verso l’intesa di carattere eccezionale col Pci di Enrico Berlinguer, nonostante la contrapposizione elettorale, se ne fosse andato dal suo partito. Il paragone, sia pure rovesciato – ripeto- in negativo, fatto per deplorare e non per giustificare l’iniziativa di Renzi, è di una evidente esagerazione per l’abisso, più che per la differenza, fra i due personaggi, anche se l’ex segretario del Pd e fondatore di “Italia Viva” è in qualche modo riconducibile alla storia della Dc: più a quella però del suo corregionale Amintore Fanfani che a quella di Moro, l’altro “cavallo di razza” dello scudo crociato. Eppure, scavandoci sotto o riflettendoci sopra, il riferimento a Moro potrebbe diventare meno stravagante e assurdo di quanto non abbia pensato chi vi ha fatto ricorso in funzione antirenziana. E spero che quanto sto per scrivere, ove mai letto dall’interessato, non lo imbaldanzisca troppo facendolo molto, troppo paradossalmente sentire un nuovo Moro. Cui Renzi potrebbe paragonarsi davvero se solo volesse esprimere pubblicamente eventuali riserve sulla natura strutturale, persino a livello locale, che la dirigenza del Pd vorrebbe dare all’accordo con i grillini da lui proposto, a sorpresa, in via del tutto eccezionale, e con una prospettiva non di legislatura. Moro fu certamente l’artefice dell’intesa del 1976 con Berlinguer, al quale però fece ingoiare persino un governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti: uno degli esponenti della Dc fra i più lontani, obiettivamente, dal Pci. E che proprio per questo costituiva un elemento di riequilibrio e di garanzia oltre Tevere e Oceano Atlantico. Il guaio fu, per l’allora presidente ella Dc, che ad un certo punto la gestione di quell’intesa da parte di Andreotti a Palazzo Chigi e del suo amico ed estimatore Benigno Zaccagnini a Piazza del Gesù, come segretario del partito, andò ben oltre i suoi progetti o intenzioni. Se ne accorse, poveretto, un anno e mezzo dopo, verso la fine del 1977, quando Berlinguer non ce la fece più a trattenere i mal di pancia nel Pci e provocò la crisi reclamando un passo avanti sulla strada di nuovi equilibri politici. Il leader comunista chiese ad Andreotti e a Zaccagnini per via riservata, ma non tanto da sfuggire alle orecchie e all’intuito di Moro, di fare entrare nel governo almeno due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci. Quando Moro se ne accorse non si lasciò certo tentare – figuriamoci, col suo carattere- di minacciare e tanto meno di preparare e realizzare un’uscita dalla Dc, come ha appena fatto Renzi col Pd. Egli lavorò con pazienza e ostinazione per impedire che la richiesta di Berlinguer fosse accettata da Andreotti e da Zaccagnini, che ne erano molto tentati pur di non chiudere anzitempo la stagione politica della cosiddetta “solidarietà nazionale” e trattare un nuovo centrosinistra col Psi passato nel frattempo dalla guida di Francesco De Martino a quella di Bettino Craxi. Che era disponibile a riprendere la collaborazione con lo scudo crociato, e ricacciare il Pci all’opposizione, ma non a buon mercato, diciamo così. Moro afferrò nelle sue mani le trattative, dietro e davanti alle quinte, e convinse Berlinguer della impraticabilità politica della sua richiesta, sul piano interno per i rischi di rottura dell’unità democristiana e sul piano internazionale per i rapporti con gli Stati Uniti. Dove già avevano storto il muso per la mezza partecipazione del Pci alla maggioranza, astenendosi nelle votazioni di fiducia al governo Andreotti, e avrebbero storto qualcosa di più e di diverso in caso di nomina a ministri di eletti nelle liste comuniste. Berlinguer si acquietò ripiegando su un programma di governo da concordare più dettagliatamente e incisivamente di quanto non fosse stato fatto nel 1976. E ciò per consentire al Pci di passare dall’astensione al voto di fiducia vero e proprio, dalla mezza maggioranza alla maggioranza intera, dall’anticamera alla camera della spartizione del potere e sottopotere, perché esistevano già allora enti pubblici, consigli d’amministrazione, cariche di alta burocrazia e quant’altro da assegnare con criteri politici. A trattativa conclusa, tuttavia, Berlinguer tentò, con un altro approccio diretto ad Andreotti e a Zaccagnini, di ottenere qualcosa in più da spendere sul terreno della propaganda: la testa di qualche ministro uscente. Furono individuate, in particolare, quelle di Antonio Bisaglia e di Carlo Donat- Cattin, distintisi nella Dc durante la crisi per le resistenze opposte ad una maggiore apertura al Pci. Ma quando Moro se ne accorse, leggendo la lista dei ministri portata di sera da Andreotti a un vertice democristiano alla Camilluccia, prima di salire al Quirinale per sottoporla alla firma del capo dello Stato, il presidente del partito disse no. E impose la conferma di entrambi i democristiani dicendo che la Dc sarebbe finita se avesse accettato di farsi selezionare la classe dirigente dagli altri. Alcune decine di migliaia di copie del giornale ufficiale del Pci già stampate con la lista dei ministri promessa a Berlinguer dal presidente del Consiglio furono ritirate dalla spedizione e macerate. Nei gruppi parlamentari comunisti il malumore crebbe sino alla minaccia di non votare più la fiducia al governo che stava per presentarsi alle Camere. Lo stesso Zaccagnini nella Dc voleva dimettersi da segretario. Tutto rientrò solo perché la mattina del 9 marzo 1978, andando proprio alla presentazione del governo a Montecitorio, Moro fu sequestrato dai brigatisti rossi fra il sangue della sua scorta, decimata. Dopo 55 giorni di drammatica prigionia, e di convulsa gestione governativa e partitica della cosiddetta linea della fermezza imposta dal Pci ad una Dc a dir poco sconvolta dagli eventi, sarebbe stato ucciso pure Moro. Meno di un anno dopo sarebbe finita anche la maggioranza di “solidarietà nazionale”, o di “compromesso storico”, come preferiscono chiamarla persone di cattiva memoria o storici improvvisati. Il compromesso storico proposto da Berlinguer era tutt’altra cosa dall’operazione concepita e gestita da Moro.

Segni: «A cena con Berlusconi cercai di convincerlo a non entrare in politica». Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it da Walter Veltroni. «L’idea della battaglia per il maggioritario me la fece venire Pannella. Sono stato ingenuo: mi spettavo l’appoggio della Dc. Poi il referendum del ’99 fu l’inizio della restaurazione.

Mario Segni, non si può parlare di fine della prima Repubblica senza la tua testimonianza. Tu nasci politicamente maggioritario? Un democristiano non proporzionalista alla fine degli anni Ottanta è un’eccezione...

«Essere per il maggioritario nella Dc non era facile. Ricordo che ci fu ad un certo punto, febbraio 1979, l’incarico a La Malfa. Lui, per motivi sostanzialmente tattici, ben diversi dai miei, si era convinto che bisognava arrivare in Italia al maggioritario. La ragione è che voleva fregare Craxi, nella sostanza. Proponeva: facciamo il quadripartito, senza Craxi, e la legge maggioritaria. Facemmo una lunga chiacchierata con il proposito poi di farne un pezzo giornalistico, con Augusto Barbera, Ronchey. Passammo mezza giornata, registrando e scrivendo. Se non sbaglio doveva essere Ronchey a trarne un pezzo giornalistico. Ma non se ne fece nulla. Era poco dopo la morte di Moro. Il ragionamento di La Malfa era questo: era possibile una situazione diversa, quella della legittimazione del Pci attraverso un’alleanza di governo, finché c’era Moro, come garante. Non c’è più Moro, il Pci torna indietro, si arrocca e quindi noi restiamo sotto il giogo di Craxi. Liberiamoci di questo e governiamo l’Italia. Aveva una sua lucidità».

Facciamo un passo indietro, nel ’77 tu firmi, insieme con una serie di deputati della destra democristiana, un documento contro la solidarietà nazionale. Che cosa non ti convinceva di quella formula?

«Era, nelle nostre intenzioni, la fase iniziale di un movimento di idee nuove dentro la Democrazia cristiana. Durò poco, fu limitato nei suoi effetti, però ebbe una sua vitalità. Era il tentativo di infondere nella Dc una cultura liberale, che diciamo la verità, nella Dc era molto limitata dal massimalismo della sinistra interna da una parte e dall’altra parte dallo statalismo doroteo. Era una merce rarissima, naturalmente incoraggiata dalla candidatura di Umberto Agnelli che aveva suscitato interesse in certi ambienti, anche insospettabili. Per esempio ricordo l’entusiasmo per questo tipo di iniziativa di Andreatta, che pure era della sinistra democristiana e vicino a Moro».

Anche Scalfaro firmò quel documento...

«Scalfaro però se ben ricordo era interessato più a una rottura politica della solidarietà nazionale piuttosto che all’assunzione, nella Dc, di una cultura liberale. Noi anche eravamo contrari a quell’esperimento, in primo luogo perché contrastavamo il consociativismo. Nessuno di noi pensava, in quel momento, a far nascere una campagna maggioritaria referendaria, ma l’opposizione alla solidarietà nazionale era coerente, nella nostra visione liberale: il rapporto Dc-Pci doveva sfociare nell’alternativa fra i due grandi blocchi, non nell’abbraccio. Fu un’azione che ebbe un notevole successo, nei gruppi parlamentari. Più per anticomunismo che per vera cultura liberale, per essere sinceri. Molti avvertivano il clima mutato di quegli anni. Quell’iniziativa trovò, non sembri paradossale, una interlocuzione molto attenta con Moro, il quale sentiva come un dovere tenere la Dc più unita possibile. E capiva che noi interpretavamo una spinta esterna forte, c’era Montanelli, ad esempio, che ci sosteneva. Avevamo con lui un’interlocuzione frequente, specie sugli elementi di programma».

Ti ricordi il suo ultimo discorso al Gruppo della Dc per convincerli a sostenere il governo Andreotti?

«Benissimo».

Che impressione ti fece?

«Molto netto e molto chiaro. Fu assolutamente esplicito sulla direzione di marcia. Lui stesso prima era stato più reticente, più cauto, più prudente. Grande discorso. Fu l’atto politico decisivo della sua scelta strategica, coraggiosa e sofferta».

Come hai vissuto i giorni del rapimento?

«Il ricordo che ho è la situazione caotica in cui erano venuti a trovarsi gli organi di polizia. Si vedeva la casualità, la disorganizzazione. Io ho avuto sempre l’impressione che Cossiga avesse dato un grande contributo a questo caos della polizia, anche perché lui aveva la mania di fare il poliziotto, dava le direttive, si intrometteva, aveva creato questi strani comitati. Io credo che facesse una grandissima confusione. Il merito di Rognoni, uomo più semplice, forse meno brillante di Cossiga ma più concreto e più efficace, fu quello di ridare ad ognuno il suo ruolo, quindi i poliziotti facessero i poliziotti e i carabinieri facessero i carabinieri. Tanto è vero che la sua prima mossa, azzeccata, fu quella di nominare dalla Chiesa».

Dopo la solidarietà nazionale c’è il buco nero del pentapartito che fu una stagnazione di cui il debito pubblico italiano è testimonianza. Quando ti nasce l’idea del referendum? Come?

«L’idea della battaglia per il maggioritario me la fece nascere Pannella, che creò la Lega per il collegio uninominale. Si costituì a livello parlamentare e c’erano dentro tutti i radicali, era patrocinata dai socialisti. Formica era uno dei più attivi, tanto è vero che si raccoglievano fondi e i soldi venivano versati all’Avanti. Cose che raccontate oggi... Questa Lega fece delle cose molto belle sul piano culturale, fu molto attiva. Questa è la parte precedente. Dopo di che però il referendum fu inventato non da me, ma dal Congresso della Fuci presieduto da Guzzetta, con Ceccanti e Tonini. Guzzetta trovò anche il meccanismo giuridico e io lo seppi dai giornali. La cosa mi interessò, andai a trovare i fucini assieme a Bartolo Ciccardini e immediatamente si aggiunse Pietro Scoppola, che fu uno degli animatori dell’inizio della battaglia referendaria e una delle anime decisive del movimento. Stiamo parlando, non a caso, dell’89. Nel ’90 partì la prima raccolta di firme».

Quanto contò la caduta del muro in questa scelta?

«Enormemente. La caduta del muro fu quella che ci fece capire chiaramente che l’alternanza era finalmente possibile. Che era caduto veramente il grande ostacolo, era finito un sistema. Che aveva tenuto bloccata la democrazia italiana».

Chi sono i primi compagni di strada che trovi in questa vicenda?

«Il passaggio decisivo è il colloquio con Occhetto, che era già stato avvicinato da Pannella. Quando andai da Occhetto lo trovai entusiasta. La causa referendaria deve molto ad Occhetto. Quelli che sono stati poi addebitati come suoi difetti in questo caso furono essenziali per l’esito di quella battaglia. Era un uomo che si buttava, impulsivo, coraggioso, forse anche eccessivamente. Senza questa determinazione probabilmente non sarebbe mai partita la sfida. Occhetto la sposò con entusiasmo. Dopodiché raccogliemmo in quel periodo le adesioni più strane, ci furono convergenze da tutte le direzioni. Per esempio un gruppo attivissimo fu l’Associazione Nazionale Donne Elettrici, giovani fucine, anziane nobili, un mondo stranissimo, eterogeneo sul piano sociale e politico. C’era persino la cognata di Andreotti... Un grande contributo venne da Paolo Barile che poi ci difese e collaborò molto alla costruzione giuridica del quesito. Ci fu un evento che ci fece decidere per la strada referendaria. Verso la fine del 1989, arrivò in parlamento la riforma degli Enti locali presentata da Gava, il ministro dell’Interno, governo Andreotti. Noi presentammo un emendamento per l’elezione diretta del Sindaco, raccogliendo moltissimi voti. Gran parte del gruppo della Dc era favorevole, i missini anche, e pure nel Pci raccogliemmo molto consenso. L’emendamento poteva, a scrutinio segreto, essere approvato. Noi eravamo addirittura disposti ad un accomodamento gradualista che facesse iniziare la riforma dai piccoli comuni. Andreotti non rispose neanche, Craxi fu durissimo. Andreotti pose la fiducia e così noi ci accorgemmo che la strada legislativa era chiusa, per sempre. Restava solo il referendum».

Nella Dc ti fecero una guerra spietata. Mi racconti i passaggi più duri?

«Per la Dc fu una grande occasione mancata. Eravamo agli inizi del pentapartito e fu decisiva la durezza di Craxi. Io non me l’aspettavo, perché Craxi era stato l’inventore della grande riforma. Invece fece un ragionamento puramente tattico. Disse che non ci sarebbe stato più un sindaco socialista, che gli eletti direttamente sarebbero stati tutti o democristiani o comunisti. Per la Dc contò, per determinare l’opposizione al referendum, il convinto appoggio di Occhetto. Sarò stato ingenuo, ma ero convinto che la Dc sarebbe stata su posizioni diverse e il paradosso fu che una riforma di tipo gollista passò, in Italia, con l’appoggio della sinistra e con la feroce contrarietà di tutto il mondo politico cosiddetto moderato. Poi noi, per fortuna, avevamo l’appoggio di Montanelli, della Confindustria, dell’associazionismo sociale. Ma Forlani, Andreotti, Craxi che in quel momento erano i detentori del potere, erano ferocemente contrari e fecero di tutto per batterci...».

Chi, della Dc, cercò di intimorirti?

«Ricordo i colloqui con Forlani. Forlani era un uomo gentile, non era un duro, ma sul tema fu fermissimo. Forlani avvertiva pienamente l’opposizione durissima di Ruini e di tutto il mondo cattolico organizzato. Poi ci furono con noi la Fuci e pezzi importanti dell’associazionismo. Ma il giornale più ostile di tutti fu l’Avvenire. Fu un elemento importante, che aumentò enormemente le nostre difficoltà. Ma, più in generale lo considero un grave elemento di crisi strutturale della Democrazia cristiana e di tutto quel mondo. Fu uno dei grandi sbagli strategici di quella fase».

In fondo la Dc non aveva capito la caduta del muro? Pensava che tutto potesse continuare come prima?

«Nella sostanza, sì».

Poi arriva Tangentopoli...

«La vittoria del ’91 non ha niente a che fare con Tangentopoli. Lì la Democrazia cristiana effettivamente entra in crisi, perché molta parte del voto dei Sì nel ’91 era democristiana. Una buona parte dell’elettorato democristiano aveva disatteso le indicazioni del partito».

Fu un po’ come per il divorzio?

«Sì, esattamente. Uno scossone che fece tremare tutto il sistema politico».

In quel momento è leggenda che tu avessi il Paese in mano?

«Se tu parli del ’91, allora eravamo all’inizio del cammino riformistico. I due anni successivi furono impiegati a preparare il referendum. Vittoria molto dura, anche se ormai la strada era in discesa. Sono passati trent’anni e posso dire che la famosa battuta di aver perso il biglietto vincente della lotteria non mi colpì mai, perché il mio vero biglietto erano stati i referendum. Anche in termini personali, era il successo della riforma. Se stavo facendo una cosa importante era quella di promuovere il referendum e la riforma del Paese, non quella di creare, come pure sognavo, un’area liberal democratica. De Gaulle va ricordato perché ha cambiato la Costituzione francese assai più che per aver creato poi il Partito gollista. Oggi, a trent’anni di distanza, siamo alle prese con l’amarezza di vedere in gran parte disfatto quello che avevamo fatto...».

È vero che Berlusconi ad un certo punto ti propose di fare il candidato alla Presidenza del Consiglio, prima della sua discesa in campo?

«Non è vero. La capacità di Berlusconi di dire bugie e soprattutto di farle credere agli italiani è immensa. È anche facilmente comprensibile, conoscendo Berlusconi come lo abbiamo conosciuto dopo».

Lui non ha mai pensato di portarti nel suo schieramento?

«Mai, assolutamente. Lui ha sempre pensato, legittimamente dal suo punto di vista, a creare e a capeggiare. Onestamente non me lo disse mai».

È lui che ha messo in giro la voce?

«Berlusconi organizzò, subito dopo il referendum del ’93, un pranzo a casa Letta in cui lui propose un’azione comune. Io, che ero contrario all’idea che scendesse in campo perché avevo previsto facilmente il conflitto di interessi e tutto quello che avrebbe significato, cercai di sconsigliarlo. Questo fu il tema. Non si parlò mai di leadership di uno schieramento, che lui voleva per se stesso».

Un’occasione probabilmente persa da tutti fu proprio nel ’94 il non aver fatto un’alleanza tra lo schieramento tuo e di Martinazzoli e la sinistra. La somma dei voti dei due schieramenti era superiore a quello del centrodestra. Che cosa sarebbe successo nella storia italiana?

«Sarebbe stato tutto diverso, non c’è il minimo dubbio. Vista a posteriori la cosa può sembrare facile, in realtà era difficilissima. Era crollato il muro di Berlino ma c’erano decenni di un passato molto diverso, di divisioni profonde, ed è vero anche che c’erano incrostazioni massimalistiche di vecchio stampo dentro il Partito comunista, ed erano molto forti. Fu dopo, con Prodi, che iniziò in quel campo una situazione nuova. Quindi nonostante Occhetto e la sua disponibilità al nuovo, credo che allora sarebbe stata difficilissima un’alleanza e onestamente non so poi quale sarebbe stato il risultato elettorale. Avemmo un risultato elettorale molto inferiore al previsto, ma la nostra convinzione era che ci fosse un pezzo del Paese disposto a votare per un partito di centro ma non un’alleanza a sinistra. Forse i voti non si sarebbero sommati».

Nel ’96 perché non fosti con l’Ulivo?

«Fu un fatto personale. Sentii che ormai dovevo dedicarmi alle questioni istituzionali, non alla politica in senso stretto. E da una posizione più neutra noi preparammo un evento di cui oggi possiamo parlare solamente mordendoci le mani: il referendum del ’99 che avrebbe sancito il passaggio a un sistema maggioritario integrale. Fu veramente una catastrofe per il Paese. Nel ’93 avevamo prodotto una svolta profonda. Il ’99 fu la mancata svolta, l’inizio della restaurazione».

Forse va ricordato che mancò il quorum per 150.000 voti, raggiunse il 49,8 dei partecipanti, ma il Sì vinse con il 91,50 per cento.

«Dei due milioni di elettori all’estero solo lo 0,85 ricevette la scheda elettorale. È inutile ricordare. Se affrontiamo il discorso su cosa ha reso possibile la controffensiva di questi anni, non c’è dubbio che l’evento principale è stato quello. Tanto è vero che Franco Marini, nostro tenace e coerente avversario, insieme a parte della sinistra e a Forza Italia, il giorno dopo il referendum disse che si doveva e poteva iniziare la battaglia per la proporzionale. Capii immediatamente la portata della sconfitta che avevamo subito. Il Paese aveva rimesso indietro l’orologio».

Le varie strade che tu hai battuto: Alleanza democratica, poi il Patto Segni...

«Fu una ricerca onesta, ma infelice. Fini ha rappresentato, in certi momenti, la speranza di una destra diversa. Sappiamo da dove veniva, e non mi piaceva, però io ci credevo. Ho conservato un rapporto personale ottimo con lui. Mi dispiace tutto quello che è capitato. Quell’operazione fu un tentativo affrettato e quindi profondamente sbagliato di cominciare ad aggregare quelli che volevano creare in Italia una destra riformista».

E Alleanza democratica invece?

«Alleanza democratica era basata su una speranza che però era oggettivamente una illusione. La velocità del cambiamento in quegli anni ’92, ’93, ’94 ci fece credere che i mutamenti che richiedono anni o decenni potessero avvenire improvvisamente. Alleanza democratica presupponeva la fine del Partito comunista o di quello che ne era seguito. Anche questa si rivelò un’ipotesi azzardata. La storia era andata veloce, ma i processi politici erano più lenti».

Craxi, che al referendum disse «andiamo al mare», con te che rapporto ebbe?

«Quando lanciò la grande riforma eravamo tutti con lui, ma Craxi era un uomo per il quale erano difficili le mezze misure, per come l’ho conosciuto. E quindi, poi, fu una guerra. Lui fu protagonista di un episodio non simpatico: pretese le mie dimissioni dalla presidenza del comitato di controllo dei servizi. Un tipo di guerra che onestamente io non ho mai praticato e che da lui non mi sarei mai aspettato, nella mia ingenua concezione di una politica cavalleresca. Io credo che sia stato il grande errore politico della sua carriera, il referendum del 9 giugno. Fu l’inizio del suo declino politico perché lui passò dal ruolo di innovatore che gli veniva riconosciuto anche dagli avversari a quello del conservatore dello stato presente e della sua evidente malattia istituzionale e politica. Occhetto fece salire il Pds non tanto sul carro dei vincitori, quanto su quello degli innovatori, salvando così le prospettive generali della sinistra. Occhetto merita questo riconoscimento. Lui ha salvato la sinistra italiana, in quel momento. Se gli eredi del Pci si fossero schierati dall’altra parte e fossero stati battuti, tutta la prospettiva della sinistra italiana sarebbe stata compromessa».

Come sarà l’Italia del proporzionale?

«Tutti si illudono che tornino De Gasperi e Togliatti. Va peraltro ricordato che De Gasperi cercò di superare il proporzionale con quella legge che fu assurdamente definita truffa. La situazione di allora era del tutto diversa. L’Italia aveva un partito quasi al quaranta per cento, un’opposizione al trenta, una divisione dei due schieramenti dettata da eventi mondiali. Partiti fortissimi, solidi, che non sono mai più esistiti e mai più esisteranno. Nell’Italia proporzionale ci saranno molti Ghini di Tacco, molti. Un gigantesco crogiuolo di trasformismi. Noi siamo stati accusati o elogiati a seconda dei punti di vista, per aver determinato la fine dei partiti, dei vecchi partiti, come la Democrazia cristiana. Ma questa è un’accusa o un merito ingiustificato. Noi abbiamo immaginato, sulla crisi dei partiti, la democrazia dell’alternanza, con governi decisi dai cittadini. Era l’idea di una uscita in positivo dalla crisi. Ma la crisi dei partiti non l’abbiamo fatta noi. Era già in atto. Solo gli equilibri internazionali la mantenevano in piedi, da troppi anni».

Nilde Iotti, 20 anni fa scompariva la prima italiana Presidente della Camera. Roberta Caiano il 4 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il 4 dicembre del 1999 scompare all’età di 79 anni Nilde Iotti. Insegnante, dirigente comunista e prima donna in Italia ad essere nominata Presidente della Camera dei deputati è ancora ricordata come una delle donne più famose e influenti della storia del nostro Paese. La sua profusione nella vita politica e sociale attraverso le battaglie di resistenza l’hanno portata ad essere fonte di ispirazione per le generazioni successive. Ma ancor di più, è considerata una pietra miliare nel mondo della parità dei sessi e dell’emancipazione femminile grazie al suo contributo per l’introduzione di molte delle leggi di cui oggi le donne beneficiano.

LA STORIA – Leonilde Iotti, conosciuta solo come Nilde, è nata a Reggio Emilia il 10 Aprile del 1920. Figlia di un ferroviere attivista nel movimento operaio socialista, é cresciuta in un ambiente di gravi difficoltà economiche. Il padre Egidio fu licenziato a causa del suo impegno politico e in seguito fu perseguitato durante il periodo del regime fascista. Ma nonostante le condizioni familiari non agiate, il padre iscrisse la figlia all’Università Cattolica di Milano per permetterle di studiare. Grazie all’ottenimento di borse di studio ha potuto continuare a studiare alla Cattolica laureandosi alla facoltà di Lettere e Filosofia nel 1942, dove ebbe come professore Amintore Fanfani. Nello stesso anno comincia ad esercitare la professione di insegnante in alcuni Istituti Tecnici Industriali della zona emiliana, per poi concludere la sua esperienza nel mondo dell’insegnamento nel 1946. Grazie anche all’esempio di suo padre, Nilde si iscrisse al Partito Comunista Italiano nel 1943, periodo che coincideva con l’adesione dell’Italia alla Seconda Guerra Mondiale. Inizialmente si impegnò come porta-ordini, uno dei ruoli più significativi e pericolosi assunti dalle donne durante la Resistenza attraverso la quale i partigiani lottarono portando l’Italia alla liberazione dall’occupazione nazi-fascista. La sua partecipazione attiva tra i partigiani di Reggio Emilia le consentì poco più che ventenne di essere designata responsabile dei Gruppi di Difesa della Donna, struttura molto attiva nella guerra di liberazione. I Gruppi di Difesa della Donna (GDD) e di Assistenza ai Combattenti della Libertà partirono da Milano per poi estendersi su tutto il territorio italiano ancora occupato dai tedeschi con l’obiettivo di mobilitare, attraverso un’organizzazione capillare e clandestina, donne di età e condizioni sociali differenti per fronteggiare le devastazioni della guerra. Infatti, questi gruppi femminili si occupavano di distribuire indumenti, medicinali, alimenti per i partigiani e si adoperavano per portare messaggi, custodire liste di contatti, preparare case-rifugio, trasportare volantini ed anche armi. E’ proprio dal suo impegno ai Gruppi di Difesa della Donna che Nilde portò avanti le sue idee sull’emancipazione e i diritti per le donne. Il suo nome è molto spesso ricordato anche in merito alla relazione avuta con Palmiro Togliatti guida storica del Partito Comunista e compagno di vita per oltre 18 anni, fino alla morte del politico.

LA VITA POLITICA – Da responsabile dei GDD e segretaria dell’UDI di Reggio Emilia, a soli ventisei anni Nilde entra a far parte del Parlamento italiano ricoprendo il ruolo di semplice deputato. In seguito viene eletta al Consiglio Comunale come indipendente nelle liste del PCI per poi diventare membro dell’Assemblea Costituente. Il ruolo svolto nell’ambito della Costituente a favore dei diritti delle donne e per le famiglie, segnò l’impegno che Nilde profuse nella sua attività parlamentare condotta ininterrottamente per 53 anni. Nel 1948 la Iotti viene eletta per la prima volta alla Camera dei deputati, riconfermata per le successive legislature. Questo fino a quando nel 1979 viene eletta al primo scrutinio e prima donna nella storia parlamentare italiana come Presidente della Camera. Dopo di lei ci sono state soltanto altre due donne a ricoprire questo ruolo: Irene Pivetti nel 1994 e Laura Boldrini nel 2018. Nilde Iotti è stata Presidente sino al 18 Novembre 1999, quando ha deciso di dimettersi per motivi di salute. Non appena ottenne la carica le sue dichiarazioni furono: “Io stessa – non ve lo nascondo – vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo, che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si sono aperte la strada verso la loro emancipazione”.  Sin dagli albori della sua ascesa politica, Nilde si è sempre prodigata affinché le donne potessero integrarsi nella società non solo abbattendo i pregiudizi ma soprattutto da un punto di vista legislativo. Infatti, quando entrò a far parte della “Commissione dei 75” predispose la Relazione sulla Famiglia, auspicando il superamento dello Statuto Albertino con una nuova Carta Costituzionale che si occupasse dei diritti della famiglia del tutto ignorati dallo Statuto, ormai disapplicato soprattutto in vista della fine del fascismo. Per la Iotti, dunque, il caposaldo della nuova Costituzione deve essere il rafforzamento della famiglia: “L’Assemblea Costituente deve inserire nella nuova Carta Costituzionale l’affermazione del diritto dei singoli, in quanto membri di una famiglia o desiderosi di costruirne una ad una particolare attenzione e tutela da parte dello Stato”. Altro aspetto fondamentale della relazione riguarda i diritti della famiglia era sicuramente la posizione della donna: “Uno dei coniugi poi, la donna, era ed è tuttora legata a condizioni arretrate, che la pongono in stato di inferiorità e fanno sì che la vita familiare sia per essa un peso e non fonte di gioia e aiuto per lo sviluppo della propria persona. Dal momento che alla donna è stata riconosciuta, in campo politico, piena eguaglianza, col diritto di voto attivo e passivo, ne consegue che la donna stessa dovrà essere emancipata dalle condizioni di arretratezza e di inferiorità in tutti i campi della vita sociale e restituita ad una posizione giuridica tale da non menomare la sua personalità e la sua dignità di cittadina”. In quest’ottica fu una donna lungimirante in quanto sin da quando mosse i primi passi nel Parlamento riuscì a porre l’attenzione sulla donna in quanto tale e sul suo diritto a lavorare. Per questo premette affinché la nuova Costituzione dovesse assicurare il diritto al lavoro “senza differenza di sesso”. Inoltre, sempre nella relazione sul diritto alla famiglia, un altro elemento su cui si focalizzava era la questione dell’indissolubilità del matrimonio “considerandolo tema della legislazione civile”. Infine, arriva all’argomento della maternità che secondo lei non doveva essere più intesa come “cosa di carattere privato” ma come “funzione sociale” da tutelare. Infatti, uno degli articoli di maggiore impatto innovativo della proposta costituente si basava sul principio dell’uguaglianza giuridica dei coniugi. Questi ultimi per lei hanno eguali diritti e doveri nei confronti dei figli per la loro alimentazione, educazione ed istruzione. Nel corso di mezzo secolo vissuto a pieno all’interno delle istituzioni repubblicane, Nilde fu promotrice della legge sul diritto di famiglia del 1975, della battaglia sul referendum per il divorzio del 1974 e per la legge sull’aborto del 1978. Nel 1993 ottenne la Presidenza della Commissione Parlamentare per le riforme istituzionali e nel 1997 venne eletta Vicepresidente del Consiglio d’Europa. La decisione di lasciare l’incarico a metà novembre del 1999 destò grande rispetto da parte di tutto lo schieramento parlamentare che la salutò tra gli applausi. Infatti dopo pochi giorni, il 4 dicembre, Nilde morì per un arresto cardiaco. In molte parti d’Italia al nome di Nilde Iotti sono intitolati, asili e organizzazioni giovanili. L’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione di una giornata commemorativa in memoria di Nilde Iotti di qualche anno fa scrisse: “Nilde Iotti, con la quale ho condiviso una lunga attività parlamentare e intrattenuto un rapporto di feconda amicizia, ha rappresentato un esempio altissimo di rigore morale, di forte passione civile, di intelligente e totale impegno al servizio delle istituzioni del paese. Nella sua vicenda umana e politica si riflette la storia stessa dell’Italia repubblicana, che ella ha accompagnato nel cammino di ricostruzione e di sviluppo dai banchi dell’Assemblea costituente e poi della Camera dei Deputati, di cui per lungo tempo fu presidente unanimemente apprezzata, garanzia di libero confronto per tutti i gruppi politici. La lezione politica di Nilde Iotti, anche nella costante affermazione del principio costituzionale dell’uguaglianza della donna nella società, nel lavoro e nelle professioni, mantiene oggi intatta tutta la sua forza e attualità: una eredità che è patrimonio dell’intero paese”.

LA FICTION – A 20 anni dalla sua scomparsa e a 40 anni dalla sua nomina a presidente, la RAI ha voluto rendere omaggio alla Presidente attraverso la docufiction ‘Storia di Nilde‘, prodotta da Gloria Giorgianni per Anele in collaborazione con Rai Fiction e diretta da Emanuele Imbucci. La protagonista sarà interpretata dall’attrice Anna Foglietta, che ripercorrerà la storia umana e politica di Nilde Iotti. La ricostruzione sarà alternata a materiali di repertorio e testimonianze, tra cui troviamo quella dell’ex Presidente della Repubblica e Senatore a vita Giorgio Napolitano e di Marisa Malagololi Togliatti, figlia adottiva di Nilde e Togliatti. La docufiction andrà in onda giovedì 5 Dicembre come monito e ricordo nei confronti della generazione che l’ha vissuta ma anche delle nuove generazioni che possono solo trarne ispirazione.

Ilviaggiodellacostituzione.it il 3 dicembre 2019. La storia narra che l’amore tra Nilde Iotti e Palmiro Togliatti sia nato in un ascensore. Palmiro Togliatti la vede con indosso un vestito a fiorellini con un colletto bianco di pizzo e chiede subito al cronista dell’Unità che lo accompagna, Emanuele Rocco, chi sia quella deputata: "Si chiama Nilde Iotti, è di Reggio Emilia". Più avanti galeotta sarà una leggera carezza di Togliatti alla sua chioma mentre scendono lo scalone di Montecitorio: seguono poi delle appassionate conversazioni sui poemi cavallereschi di Ariosto e di Boiardo, qualche incontro clandestino e infine l’amore.  Togliatti avverte una «vertigine davanti a un abisso», la Iotti sente «sgomento per questo immenso mistero d’amore che mi dà le vertigini» (come rivelato nel carteggio tra i due, pubblicato nella biografia “Nilde Iotti. Una storia politica al femminile” di Luisa Lama). Palmiro Togliatti, detto il “Migliore”, è più grande della Iotti di 27 anni ed è sposato: la moglie, Rita Montagnana, è un esponente di spicco del Partito Comunista, ha fatto la Resistenza e con Togliatti ha un figlio, Aldo. Nonostante l’avere una relazione extraconiugale sia un reato penale (il cosiddetto “concubinato”), Togliatti e la nuova compagna non riescono a rinunciare al loro amore: il segretario del PCI chiede al compagno di partito Pietro Secchia di trovare una sistemazione per lui e la Iotti ma alla fine i due andranno a vivere in un umido abbaino all’ultimo piano di Botteghe Oscure, sede del PCI, e poi in un villino a Montesacro. Il loro sarà sempre una convivenza more uxorio, mai ufficializzata, sempre contestata dalla legittima moglie ma soprattutto dal partito, il quale arriva a installare delle microspie per sorvegliarli. Pietro Secchia informa anche Stalin della “crisi personale del segretario”, spera di spedire lontano Togliatti al Comintern russo o al Cominform di Praga e arriva ad insinuare dubbi sul comunismo della deputata, la quale ha studiato alla Cattolica e ha preso parte ai comizi del cattolico Giuseppe Dossetti. Questo porterà la Iotti a scrivere un’accorata lettera a Luigi Longo, vicesegretario del PCI, per lamentare la posizione subalterna a cui è relegata per non aver saputo rinunciare al legame con il Migliore: «Sono passati più di sei mesi… nessuna responsabilità di lavoro mi è stata affidata. Questo pone una compagna in una posizione non giusta, quasi di un’intrusa. […] Oggi io chiedo di poter lavorare e di poter rispondere del mio lavoro di fronte al partito e all’organizzazione a cui fin dall’inizio ho dato i miei sforzi, credo con discreto risultato». Il loro amore non sarà mai coronato da un figlio naturale ma dall’adozione di una bambina rimasta orfana, Marisa Malagoli, sorella minore di uno dei sei operai rimasti uccisi negli scontri con le forze dell’ordine il 9 gennaio 1950, a Modena, nel corso di una manifestazione. Aldo, il figlio di Togliatti, sarà la persona che più di tutte soffrirà per la relazione del padre con la Iotti: già sofferente di depressione, dopo la morte della madre Rita sarà internato in un ospedale psichiatrico, dove resterà fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2011. Neanche l’aver fatto scudo a Togliatti gettandosi sul suo corpo, in occasione dell’attentato del 1948 a opera di un esaltato, avrà alcun valore agli occhi degli esponenti del partito: la Iotti dovrà infatti aspettare la morte di Togliatti, nel 1964, per poter essere riconosciuta ufficialmente come sua compagna e vedersi concesso il “privilegio” di sfilare in prima fila dietro al feretro del segretario. Per ottenere il definitivo riconoscimento politico, infine, dovrà attendere il 1979, quando sarà eletta Presidente della Camera, prima donna nella storia della Repubblica.

Da huffingtonpost.it l'8 dicembre 2019. “Era facile amarla perché era una bella emiliana simpatica e prosperosa come solo sanno essere le donne emiliane. Grande in cucina e grande a letto. Il massimo che in Emilia si chiede a una donna”. In questi termini si è espresso Giorgio Carbone, giornalista di Libero, ricordando la figura di Nilde Iotti. Il commento è stato giudicato sessista e misogino, scatenando numerose polemiche contro il giornale. L’Ordine dei Giornalisti ha deciso di deferire Libero per l’articolo. “Sminuire la figura di Nilde Iotti non è solo l’ennesimo insulto a tutte le donne, ma lo è anche per il giornalismo”, hanno dichiarato attraverso una nota le parlamentari del Movimento 5 stelle del gruppo Pari Opportunità alla Camera, “Questo non è giornalismo, ma l’ennesimo articolo denigratorio e privo di contenuto. Non potremo mai raggiungere la piena parità e il rispetto se non si cambia anche la cultura del paese”. Anche il Partito Democratico si è schierato a difesa della Iotti e ha attaccato il quotidiano diretto da Vittorio feltri: “L’articolo di Libero non offende solo la memoria della prima presidente della camera della storia repubblicana, ma tutte le donne italiane, di sinistra e di destra, moderate e radicali, femministe e non”. Sia pentastellati che dem dichiaravano nella nota di voler presentare un esposto all’Ordine dei giornalisti, che è intervenuto sulla vicenda.

La reazione dell’Ordine dei Giornalisti - . “La trasmissione della fiction su Nilde Iotti, a venti anni dalla scomparsa, offre al quotidiano Libero un’altra opportunità per violare le regole principali deontologiche. Sessismo e omofobia: il giornalismo è un’altra cosa. Il riferimento fatto a una grande statista, prima donna in Italia a ricoprire una delle tre massime cariche dello Stato, è volgare e infanga con cinismo e allusioni becere tutte le donne italiane, non solo la prestigiosa figura di Nilde Iotti. Abbiamo già provveduto a segnalare al Collegio di Disciplina territoriale competente questo nuovo infortunio del quotidiano milanese”. Lo dichiarano Carlo Verna e Guido D’Ubaldo, presidente e segretario del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti.  “I contenuti dell’articolo di oggi sono deplorevoli ed infangano la memoria di una grande donna che ha fatto la storia italiana. La competenza delle sanzioni come per tutti gli ordini professionali, in base DPR 137/2012, è passato ai consigli di disciplina, che sono totalmente autonomi rispetto agli Ordini, nei quali riponiamo - come si deve nei confronti di chiunque si veda assegnata da una legge la funzione giudicante - piena fiducia. E ci fa piacere ricordare come pochi giorni fa la giustizia domestica in primo grado abbia disposto la radiazione per l’autore della cosiddetta telecronista sessista contro una guardalinee di calcio. Ancora una volta diciamo no a chi fa male al giornalismo”, hanno aggiunto Verna e D’Ubaldo.

Chi era Nilde Iotti - Staffetta partigiana e storica militante del Pci prima e dei Ds poi, Nilde Iotti è divenuta celebre per essere diventata la prima donna a ricoprire il ruolo di presidente della Camera, nel 1979. La sua figura ha rappresentato un punto di svolta nella politica italiana, segnando il primo passo nel coinvolgimento delle donne all’interno delle istituzioni italiane. A vent’anni dalla scomparsa della Iotti (4 dicembre 1999) e a quarant’anni dalla sua nomina a presidente della Camera dei Deputati, la Rai ha deciso di omaggiarla con la docu-fiction “Storia di Nilde”. Anna Foglietta è l’attrice scelta per interpretare la più longeva presidente della Camera dei deputati della storia della nostra Repubblica (dal 1979 al 1992). Il quotidiano diretto da Vittorio Feltri non ha risparmiato nemmeno lei. Carbone ha infatti proseguito il suo commento sessista facendo un paragone tra Nilde Iotti e Anna Foglietta: “Anna Foglietta, chiamata a raffigurarla sul piccolo schermo (buona scelta, una romana bella e soda, chiamata a interpretare la più in vista della campagna per il divorzio)”. Gli ascolti tv della prima puntata della fiction - Giovedì 5 dicembre è andata in onda la prima puntata di “Storia di Nilde”. La fiction ha registrato un grande successo, conquistando 3.684.000 spettatori pari al 16.2% di share e vincendo la competizione della prima serata con gli altri programmi.

Elisabetta Salvini per huffingtonpost.it l'8 dicembre 2019. Su una cosa ha ragione Giorgio Carbone quando parla di Nilde Iotti: ed è quando dice che era facile amarla. È vero. Era facile amarla, ma non per i motivi stereotipati e sessisti che elenca Carbone e che giustamente hanno suscitato indignazione e rabbia. Era facile perché è sempre facile innamorarsi dell’intelligenza, del garbo, della passione e dell’umiltà. Nilde era così, una donna intelligente, solida e preparata. Una di quelle donne la cui presenza non poteva passare inosservata. La prima ad accorgersene fu Lina Cecchini, la sua insegnante di filosofia che la volle vicina nelle riunioni clandestine della primavera del ’43 per ragionare insieme sul futuro di un’Italia liberata dal fascismo. La stessa anziana professoressa che, orgogliosa ed emozionata, sarà la sola altra donna che le si siederà vicino nel 1946 nel primo consiglio comunale reggiano del dopoguerra. E se ne accorse anche il Prefetto di Reggio Emilia che il 20 agosto 1945, in seguito a una sommossa per il pane organizzata dalle donne reggiane, si trovò davanti a una donna così giovane da suscitare in lui non poche perplessità e tanti pregiudizi, destinati, però, a scomparire come per incanto, non appena Nilde iniziò ad argomentare con “garbo e con parole appropriate” le sue idee. E indubbiamente se ne accorse anche Palmiro Togliatti che fin dal primo momento ne rimase affascinato. Ma più di tutte ad accorgersene furono le donne che la sostennero nella sua battaglia politica e la scelsero come loro portavoce, perché lei, più di tante altre, le parole le sapeva usare bene e le faceva arrivare lontano. Di questo amore Nilde si fece scudo per affrontare i tanti, troppi pregiudizi che per ogni donna erano il pane quotidiano, ma che per le pioniere della politica erano ancora più duri e crudeli. Nilde l’emiliana prosperosa. Nilde la raccomandata amante di Togliatti. Nilde la comunista libertina e rovina famiglia. Chissà quante volte se lo sarà sentita dire alle spalle e quante volte lo avrà letto tra le righe, ma non solo. Eppure quelle malignità sono servite a poco, perché di coloro che le hanno pronunciate la storia se ne è già dimenticata, di Nilde, invece no. Perché lei è la storia della Repubblica come partigiana, come segretaria dell’Unione donne italiane, come madre della Costituzione e come prima donna Presidente del Camera. Anche per la storia, infatti, è stato facile amare Nilde Iotti, tanto quanto sarà facile dimenticarsi di Giorgio Carbone e di quelle sue orrende e inopportune parole sessiste e misogine che insultano tutte le donne, ma prima di tutto insultano lui.

Pietro Senaldi per ''Libero Quotidiano'' l'8 dicembre 2019. Nilde Iotti fu un presidente della Camera saggio e imparziale come pochi prima e dopo di lei. Era facile amarla perché era bella, simpatica e prosperosa. Grande in cucina e a letto». Sono le parole con le quali Libero, sotto il titolo «Hanno riesumato Nilde Iotti», ha recensito la fiction andata in onda giorni fa sulla Rai dedicata alla grande comunista, compagna di Palmiro Togliatti. Inaspettatamente siamo stati accusati da mezza sinistra di sessismo e coperti di fango per avere scritto «grande a letto», come se fosse un insulto anziché un complimento. Sinceramente non avevamo la minima intenzione di criticare sotto l' aspetto personale la Iotti, non ce ne sarebbe stato motivo, e ci spiace se qualcuno ha equivocato. Ci scusiamo pure, benché non ci sia chiaro di cosa. Non siamo sessisti ma neppure sessuofobi e ci sorprende l' indignazione che abbiamo suscitato in spiriti monacali, anche se chi ci ha lapidato non vive in convento ma naviga da lungo corso nelle redazioni e in Parlamento, che non sono templi di virtù né oasi di moralità. Quando vogliamo attaccare qualcuno, lo facciamo a tutta pagina, a caratteri cubitali e mettendoci la faccia, non deleghiamo a un collaboratore suggerendogli di insinuare del veleno tra una riga e l' altra. Pertanto rassicuro tutti: non volevamo atteggiarci a moralisti svergognando Leonilde. Non saremmo il giusto pulpito. Noi abbiamo senso del ridicolo, sappiamo di non essere santi e non indossiamo abiti che non ci appartengono. Il nostro cronista l' ha vista nella fiction sospirare a letto con Palmiro e ha pensato che anche questa scena potesse essere oggetto della sua recensione. Ci auguriamo che l' Ordine non lo passi per le armi per questo. Da direttore responsabile di Libero devo dire però che sono preoccupato per gli attacchi, omologati come un belare di gregge. Mi spiace per le donne del Pd, che pensano che a questo si sia ridotto il loro ruolo. Ritrovarmi vittima del loro conformismo, della loro superficialità, della loro pochezza e della loro arte mistificatoria mi ha aperto gli occhi, svelandomi perché non raccattano più un voto. Nascondono la loro incompetenza dietro battaglie facili. Hanno voluto prendere il potere senza ripassare dalle urne e, non sapendo gestire il Paese, sparano su un cronista ottantenne, che a differenza di Togliatti è rimasto con i figli e la moglie tutta la vita, tenendole la mano in ambulanza nel momento del trapasso. Mi auguro che per una donna di sinistra questo sia ancora un valore. Ma più che dei politici, mi hanno sconcertato gli attacchi dei colleghi, perché tradiscono la professione e si sottomettono ai linguaggi a cui li obbliga una fazione rinunciando alla libertà di critica e d' espressione. E per farlo sparano su chi non può difendersi, un collega in pensione. Contribuiscono a far credere a chi non lo legge che Libero abbia deciso una linea politica d' attacco a Nilde Iotti. Francamente noi, a differenza dei compagni, viviamo in questo secolo e quindi non avremmo mai attaccato la compagna Leonilde, deceduta vent' anni fa. Infatti l' articolo non era un ritratto politico ma una recensione di spettacoli. Per farci la morale Repubblica cita una frase della storica presidente della Camera: «È necessario cogliere negli altri solo quello che di positivo sanno darci e non combattere ciò che è diverso da noi». Complimenti, copiate e non capite. Abbiamo scritto che fu brava e imparziale, bella e simpatica e voi cogliete solo quel che non vi garba, «grande in cucina e a letto», non contestualizzate, fate della parte il tutto e la servite mistificata ai vostri lettori. Leonilde vi sputerebbe in faccia. Non c' è da aspettarsi molto di diverso da chi ogni giorno dà del razzista a Salvini, del bandito a Berlusconi e della coatta alla Meloni - quali profonde analisi - e poi pretende che gli altri si inginocchino adoranti di fronte a chi i padroni dell' informazione ci indicano. Mi appello all' Ordine dei giornalisti, perché difenda i suoi iscritti dalla prepotenza dei politici e dal killeraggio bugiardo di certi colleghi. Difenda la libertà di stampa dall' ottusità faziosa di chi vuol decidere cosa altri possano o non possano scrivere. Non permetta che i giornalisti facciano da bersaglio a politici disperati che parlano di Libero non riuscendo più a parlare ai propri elettori. Abbiamo descritto Nilde Iotti con simpatia, ritraendola migliore di quanto fosse. Avessimo voluto indugiare sulle sue arti amatorie lo avremmo fatto. Non sappiamo di persona se fosse grande a letto, come descritto dalla fiction. Sappiamo però che Togliatti non era un pirla e se, dopo anni di relazione clandestina, mollò moglie e prole per andarci a vivere, supponiamo che gli piacesse e non gli bastasse incontrarla in Parlamento. Dove la signora ha dato gran prova di sé, meritandosi la poltrona presidenziale, sicuramente agevolata dal fatto di essere la donna del capo, che gli avrà elargito molti e utili consigli.

Fulvio Abbate per “il Riformista” il 18 dicembre 2019. La Iotti e l’amore, di più, Nilde e il sesso… Sono trascorsi alcuni giorni dalla querelle venuta su dopo che la Rai ha dedicato una docu-fiction proprio a Nilde Iotti, la prima donna che abbia ricoperto l’incarico di presidente della Camera dei deputati, dirigente comunista. Tutto muove da “Libero”, che in un articolo ne ha tratteggiato la parabola pubblica indicando in lei una “bella emiliana prosperosa, brava in cucina e a letto. Il massimo che in Emilia si chieda a una donna”. Parole forse sessiste, da conversazione maschile, tra sala biliardo e circolo, si fa per dire, dei civili. Pochi giorni dopo, su La7, Pietro Senaldi, direttore responsabile di quel quotidiano, e Concita De Gregorio hanno concesso un supplemento di discussione. A fronte di un Sallusti, giunto in studio a ribadire il carattere delle emiliane-romagnole, a suo dire, segnato da “esuberanza”, orizzonte da “Mondo piccolo” di Guareschi rivisitato nella banalizzazione da pro-loco ulteriore, la De Gregorio ha sentito la necessità di porre ai suoi interlocutori dove avessero tratto i presunti dettagli circa le qualità amatorie della signora: “… come fate a sapere che a letto Nilde Iotti era brava?” Interrogativo innanzitutto politico, deontologico. Se ne verrà a capo? Ha ragione la mia amica Angela, che suggerisce un’obiezione inattaccabile: nessuno mai si riferirebbe a un politico di sesso maschile, forte di una carica pubblica, chiamandone in causa le probabili, prerogative nell’ars amandi. Resta però in tema di insinuazioni grevi da galleria fotografica de “Il Borghese” o vignette di “Candido”, storici trascorsi fogli della convegnistica privata di destra, occorrerà magari rispondere richiamando il principio del diritto al piacere. Sia dunque ritenuto legittimo disporsi a immaginare Nilde Iotti mentre fa l’amore, di più, mentre “fa sesso” con il suo uomo, convivente, compagno di vita e di partito, Palmiro Togliatti, leader-feticcio del popolo comunista post-bellico, quasi a smentire le immagini che li mostrano insieme, coppia che sembra raccontare la compostezza piemontese di lui, aria da provveditore agli studi in principe di Galles, soprabito antracite, talvolta la lobbia sul capo. Così almeno appare nello sfondo marmoreo del Palazzo dei Congressi dell’Eur in un’istantanea del 1962, due anni prima della morte a Yalta. Nilde Iotti gli è accanto, la crocchia o forse un’acconciatura cotonata, propria di quando Mina cantava le “Mille bolle blu”, polpacci e caviglie marcati, una spilla a ingentilire il collo del tailleur; altrove invece una stola di pelliccia da prima teatrale. Sappiamo bene che rivendicare i piaceri del corpo nella storia politica nazionale è cosa rara, ancora meno da comunisti, assai di più in questo genere di libertà individuali dobbiamo, nel tempo, a Marco Pannella e ai suoi radicali, parole in difesa di ciò che gli psicoanalisti chiamano “istinto desiderante”. Andando oltre la prosa da fureria di “Libero”, sarà bene rispondere con la limpidezza di chi appunto, libertario, rivendichi l’esistenza del corpo come luogo di gratificazione. Ben venga allora perfino immaginare a letto proprio “la Iotti”, docu-fiction o meno, scansando la discussione sullo scandalo moralistico che nel Partito comunista italiano del dopoguerra suscitò vedere Togliatti accompagnarsi a una giovane deputata di Reggio Emilia, lasciando moglie e figlio, e qui torna buona la ballata sull’attentato, ripresa perfino da Francesco De Gregori nell'album-canzoniere politico “Il fischio del vapore”, dove la Iotti, benchè al momento degli spari si trovi accanto al suo uomo, è espunta dalla cronaca melodica, diversamente dalla coniuge ufficiale, leggi: “Rita Montagnana che era al Senato, coi dottori e tutto il personale han condotto il marito all’ospedale, sottoposto alla operazion!”, infatti il testo. Nel rivendicare il diritto all’eros anche per Iotti, rispondiamo così sia alla grettezza moralistica comunista che si espresse il 14 luglio del 1948 sia all’implicito dar di gomito di Senaldi e colleghi. Nel far questo, come nei prodigi della memoria archivistica, vediamo altrettanto planare verso di noi un disegno apparso su “Il Male” negli stessi giorni in cui la signora raggiungeva lo scranno più alto di Montecitorio; lì c'è il modo in cui quel giornale di satira volle salutare l’occasione. Lo facciamo ancor di più pensando al seguito della polemica, con Pietro Senaldi che per ribattere a Concita De Gregorio che obietta appunto come faccia “Libero” a conoscere la condotta sessuale di Nilde a letto, il mattino del giorno dopo pubblica un editoriale dove si cita la campagna di lancio de “l’Unità” al tempo in cui a dirigerla trovavamo proprio la De Gregorio. Il manifesto dove Oliviero Toscani, cita se stesso della "scandalosa" campagna dei jeans “Jesus” degli anni Settanta (la stessa che Pasolini così commentò sul “Corriere della Sera”: “Il futuro appartiene alla giovane borghesia che non ha più bisogno di detenere il potere con gli strumenti classici; che non sa più cosa farsene della Chiesa”), fianchi e sedere di ragazza inguainati in una minigonna di denim dalla cui tasca spunta proprio il “nuovo” giornale... L’ “affaire”, al momento, in attesa di nuovi sussulti, non sembra essersi ingrossato ulteriormente. Tra moralismo degli uni e la rodata ottusità degli altri, improvvisamente, chi scrive, si è ricordato appunto di una pagina di un settimanale di satira senza dio né padroni né comitati centrali. Sarà stato proprio il 1979, e al “Male” ritennero doveroso salutare l’elezione della ex compagna di Togliatti con una vignetta di Jean-Marc Reiser, disegnatore satirico francese, firma di “Charlie Hebdo”, amico di strada e di talento di Wolinski; si deve proprio a lui, alla sua disinvoltura situazionista, la tavola che Mario Canale, già del collettivo del “Male”, ci ha prontamente recapitato e che offriamo qui all’attenzione di tutte le persone dotate di senso dell’ironia liberatoria. Un disegno che fa giustizia, di più, un disegno che custodisce la risata che seppellirà Senaldi e soci, e forse anche Concita De Gregorio. Come diceva proprio Togliatti: “Veniamo da lontano, andiamo lontano”. A proposito, a chi dice che invece al "povero" Berlusconi non è stata concessa nessun attenuante sessuale consegniamo le parole della Santanché pronunciate tempo addietro in radio, a “La Zanzara”: “La Minetti? Anche Togliatti aveva come amante la Iotti, poi lei è diventata il primo presidente donna alla Camera, e sicuramente non aveva vinto concorsi. Nessuna delle due ha vinto un concorso, questo è sicuro”. Non tutti, temiamo, sanno andare lontano.

Laico, libero e radicale, Loris Fortuna una vita per i diritti civili. Valter Vecellio il 5 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Il tribunale di Udine gli intitola un’aula. Prima la resistenza poi la critica da sinistra allo stalinismo con il liberale Antonio Baslini diede il nome alla legge che nel 1970 cambiò la società italiana. Andate su Google, e digitate Roma, via Loris Fortuna. Zero. Fate poi la prova con Milano, Torino, Napoli, Bologna… sempre zero. A Udine risulta un parco, con il suo nome… Eppure si sta parlando di una di quelle persone a cui l’Italia civile, democratica, deve più di qualcosa: partigiano, comunista fino ai tragici fatti d’Ungheria ( stomacato lascia il partito), resta nel campo della sinistra, diventa un esponente del PSI, conosce Marco Pannella, si iscrive al Partito Radicale, è, con lo stesso Pannella e il liberale Antonio Baslini il “padre” della legge sul divorzio ( e non bisogna dimenticare un altro “padre” della legge: Mauro Mellini); successivamente porta il suo nome la legge che permette a una donna che vuole interrompere la gravidanza di poterlo fare in una struttura sanitaria, senza dover subire il trauma della clandestinità, e mettere a rischio la sua salute… Eppure, come dimenticato. Un passo indietro: una notte di dicembre del 1970. La Camera dei Deputati, dopo un lungo, faticoso iter, approva la legge che istituisce il divorzio in Italia. In piazza, a festeggiare con candele accese e qualche timida bottiglia di spumante, un giovane Pannella, militanti della Lega per l’istituzione del divorzio, e lui, Fortuna: parlamentare di cui pochi hanno sentito parlare fino a qualche mese prima. E’ un avvocato friulano. La fotografia che li ritrae c’è un cartello che dice tutto: «Paolo VI ha perso, Argentina Marchei ha vinto». È quello lo slogan di un’Italia che diventa più laica. Argentina: una popolana, trasteverina “doc”, da sempre iscritta al PCI, anziana, le vene varicose nei polpacci; per anni ha dovuto patire l’umiliante condizione del “pubblico concubinaggio”, e non poter dare il nome del padre ai suoi figli. Sarà tra le prime a beneficiare della legge Fortuna. Quella sera erano lacrime di commozione e di gioia a rigarle il viso rugoso, dopo anni e anni di attesa. Sì, Argentina ha vinto; e con lei l’Italia civile, democratica, rispettosa dei diritti di tutti. L’intolleranza clerico- vaticana ha perso. L’altra “fotografia”, di qualche anno dopo. Sempre Roma, sempre notte, sempre Fortuna, sempre i diritti civili e il divorzio. Da qualche ora si conoscono i risultati del referendum promosso dalla DC, dal MSI e dalle organizzazioni clerical-vaticane per abrogare la legge. La stragrande maggioranza degli italiani respinge quel referendum, il NO vince. A migliaia i romani si riversano in piazza ebbri di gioia: un corteo che si snoda fino a Porta Pia, la breccia grazie alla quale Roma diventa finalmente capitale d’Italia. I primi, Fortuna, Pannella, gli altri, sono arrivati dove il monumento ricorda quello storico XX settembre, e ancora c’è chi deve muoversi da piazza Navona. Loris poi lega il suo nome ad altre importanti leggi di civiltà e di progresso: quella per la depenalizzazione del reato d’aborto, per esempio. Sua una proposta di legge per l’eutanasia, il diritto alla “morte dolce”, che però viene affossata; e leggi per nuovi spazi nell’ambito dei diritti di famiglia, l’impegno contro lo stermino per fame nel mondo. Non ricordo, in Parlamento e in Friuli ( dove faceva aprire le sedi socialiste che “ospitavano” per la notte i partecipanti delle prime marce antimilitariste da Trieste ad Aviano, nonviolenti di pasta ben differente dai “pacifisti” d’oggi), battaglia per i diritti civili che non lo abbia visto presente, schierato in prima fila.

L’ultima intervista, credo, a chi scrive: parla di iniziative contro la censura che in quegli anni colpisce film, libri, perfino locandine: “Una di quelle battaglie civili in cui sono impegnato da tempo. Se un rimprovero mi devo fare è di non essermi impegnato prima, e con più incisività. Sono contrario a ogni censura”. Erano anni, che oggi appaiono sideralmente lontani; c’erano magistrati che disponevano il sequestro de “l’Espresso” o di “Panorama” per copertine ritenute offensive della moralità pubblica. Si sequestra un mensile come “Photo”, per le modelle in costume discinto, ma anche i libri di Alberto Moravia, Pier Vittorio Tondelli, Erica Jong. C’è stato anche questo in questo paese. Fortuna nasce a Breno, il 22 gennaio del 1924. Muore a Roma, il 5 dicembre 1985: 34 anni fa. Eppure per questo paese è una specie di desaparecido, cancellato; si capisce. Una vendetta va pur consumata. Fate un altro tentativo: sfogliate i manuali di storia d’Italia contemporanea. Per esempio, Paul Ginsborg, e la sua “Storia d’Italia 1943- 1996”: si limita a una frettolosa citazione a proposito della legge sul divorzio. Stessa cosa la “Storia dell’Italia contemporanea” di Martin Clark. Nella “Storia dell’Italia repubblicana” di Silvio Lanaro si parla due volte di legge Fortuna- Baslini senza darsi pena neppure di spiegare chi sono, Fortuna e Baslini. Ignorato completamente da Aurelio Lepre nella sua “Storia degli italiani nel Novecento”; va meglio con Giuseppe Mammarella e la sua “L’Italia contemporanea 1943- 1998”: quattro citazioni, ma solo nell’ultima si apprende che Fortuna si chiama Loris, è socialista e presenta, dandogli il nome, la legge sul divorzio. Di ben altro parla Sergio Romano nella sua “Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni”. Un’occhiata ora a un volume di un politico che è stato anche giornalista, titolare della cattedra di Storia contemporanea all’università di Firenze, senatore, ministro, presidente del Consiglio; ha pubblicato una quantità di libri di carattere storico: Giovanni Spadolini. “L’Italia dei laici, lotta politica e cultura dal 1925 al 1980” dovrebbe, potrebbe essere il libro adatto. Errore. Si passa dal nono capitolo dedicato a “Roma città sacra e Roma città laica” ( gli anni di papa Pio XII), al capitolo decimo “Il silenzio di Moro”, quando è già stato ucciso dalle Brigate Rosse. E quei quasi trent’anni dal 1952 al 1978? Un dettaglio della storia, saltati. Così nell’indice dei nomi si passa da Ugo Forti a Giustino Fortunato. Fortuna, chi era questo Carneade?, sembra chiedersi Denis Mack Smith con la sua fortunata e pur pregevole Storia d’Italia dal 1861 al 1997: si passa disinvoltamente da Alessandro Fortis a Giustino Fortunato. Curioso – e certo non privo di significato – che l’indice dei nomi e delle cose significative”, trovi più opportuno segnalare, che so, Bernardo Bertolucci ( due citazioni), o Umberto Eco ( due citazioni); e non menzioni una volta Fortuna o Pannella. Un’occhiata alle storie più “popolari”, più facilmente divulgative. Per esempio la fortunata serie di volumi curata da Indro Montanelli e Mario Cervi,; ne “L’Italia degli anni di piombo”, si prendono in esame gli anni tra il 1965 e il 1978; per Fortuna tre citazioni. Si apprende che «nella trattativa per la formazione del ministero Rumor si era inserita – complicandone il corso e ritardandone la soluzione – una questione di portata storica: l’introduzione del divorzio nella legislazione italiana. Era approdata in Parlamento – ed aveva avuto il voto favorevole della Camera il 28 novembre 1969 – la legge che portava il nome del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini…». Bisogna riconoscere che in meno di dieci righe si dice tutto l’essenziale, compreso un azzeccato giudizio: “questione di portata storica”. Più frettoloso il capitolo dove si parla della legge sull’aborto: “… Il Governo avrebbe dovuto, a questo punto, rimettersi al lavoro: ma gli si parava davanti un grosso ostacolo, la legge per la legalizzazione dell’aborto… Zaccagnini il progressista ( ma anche il cattolico fervente) non se la sentì di delineare una sua strategia. A chi l’interrogava in proposito, rispose: ‘ La questione dell’aborto è troppo delicata anche per un segretario di partito tranquillo come me. Diciamo che sarà il gruppo parlamentare a decidere’. Così fu. Il gruppo parlamentare presentò un emendamento restrittivo alla legge Fortuna…”. Poco, vero? Non meglio va se si consulta “l’Italia del Novecento”, anch’essa di Montanelli e Cervi: “… Rumor galleggiava, Arnaldo Forlani aveva sostituito Piccoli come segretario della DC, la legge sul divorzio che portava i nomi del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini aveva posto la DC di fronte a un dilemma spinoso: subirla o ingaggiare battaglia?…”. La seconda citazione è quando si racconta che Craxi forma il suo governo bis, estromette Renato Altissimo, Lelio Lagorio, Mino Martinazzoli, Gianuario Carta, e “imbarca” Virginio Rognoni, Carlo Donat Cattin, Rino Formica, Francesco De Lorenzo e “in sostituzione del defunto Fortuna un altro socialista, Fabio Fabbri…”. Sono i prezzi che a quanto pare si devono pagare, e che non solo Fortuna paga, per aver voluto essere socialista e radicale senza tentennamenti, laico, anticlericale, libertario. Personaggi di questo tipo devono essere cancellati, estirpati dalla memoria collettiva. Pagano il torto di aver ragione; imperdonabili agli occhi di quanti come unica ragione hanno quella di avere torto. Nelle carceri di Gorizia c’è una lapide che lo ricorda. In quel carcere nella primavera- autunno 1944, il partigiano Fortuna viene tenuto prigioniero, condannato a morte e successivamente a tre anni di lavoro forzato, tradotto in un campo di sterminio; miracolosamente sopravvive. La sua compagna Gisella Pagano, alla morte di Loris trova un suo “Diario”, un quaderno composto da fogli leggeri sui quali scrive a matita le vicende degli interminabili giorni di prigionia.

«24 aprile 1944, lunedì, due compagni di cella se ne sono andati. Non so che cosa a loro sia successo. Vengono altri due slavi e un italiano. Per tutta la notte si sente urlare straziatamente nelle celle di rigore. Ora sono le due di notte. Io penso a Udine… Chissà cosa sarà di me!».

17 agosto, giovedì, Loris annota «Graziani, Pranz e Bruno saranno fucilati domani alle sei. Ottengono di passare la loro ultima mattina con noi… Poi, si sente una scarica».

11 settembre, lunedì, si svolge «il quarto processo della serie, il pubblico ministero chiede la PENA DI MORTE PER ME!».

17 settembre, domenica, Bruno Bencini di Genova, viene condannato a morte. Passa tutta la notte con noi. Lo aiutiamo a scrivere le ultime lettere e la “volontà”. La mattina del 18, viene il frate… Alle sette sparano dal Castello di Gorizia. Alle sette e mezzo Ronioni dice di aver visto dalle sue sbarre il furgone del Municipio, con la bara!».

21 settembre, giovedì, «Sono partiti settanta detenuti per la Germania: 46 uomini e 24 donne». 25 settembre, lunedì, «Stasera sono arrivati in prigione alcuni avvocati, tra cui Blessi…».

2 ottobre, lunedì, «I giudici che ci avevano dato sei mesi sono stati destituiti dal Tribunale Tedesco: privati dello stipendio ed espulsi dal Litorale Adriatico, li hanno confinati a Salò».

19 ottobre, giovedì, «Ecco la sentenza! NON LA PENA DI MORTE, ma condannato per tre anni ai “lavori forzati”. Pippo invece a nove…».

Dagospia il 6 dicembre 2019.  Pubblichiamo l' intervista di Vittorio Feltri a Marco Pannella fatta negli anni Ottanta. Sono passati trent' anni e il tema della povertà in Africa è ancora nelle agende dei nostri politici. Ecco come il fondatore del partito Radicale intendeva affrontarlo. Articolo di Vittorio Feltri pubblicato da “Libero quotidiano”.

Nella stanza di Pannella si affaccia Rutelli: «Scusa, Marco, posso? Hanno rinviato».

«Rinviato cosa?»

«La nomina del sottosegretario».

«Ancora? Ma che aspettano?».

E il capo radicale allarga le braccia, più scocciato che sconsolato. Poi si rivolge a me, come per giustificarsi del breve abbandono alla stizza e, caso mai, per precisare che non pensa a se stesso, alla carica, ma a quelli che dovrebbero essere i beneficiari della legge: «Ogni giorno che passa, laggiù qualcuno muore. E noi perdiamo tempo. Quando lo capiranno che la vita di un uomo non è una pratica di burocrazia?». Pannella allenta il nodo della cravatta, slaccia il colletto e tracanna, direttamente dalla bottiglia, un lungo sorso d' acqua: gesti esageratamente lenti, sembra che gli servano per ritrovare la calma. E invece sbotta un' altra volta: «L' ho detto e lo ripeto. Se non si spicciano, ritiro la candidatura. Giuro».

Perdoni, Pannella, ma chi glielo ha fatto fare di offrirla?

«Era doveroso, per una volta. Anche se mi è costato fatica, molta fatica. È un compito tremendo, lo dichiaro senza enfasi. La legge è sulla linea, sia pure degradata, che noi stiamo riuscendo a imporre non solamente in Italia, ma anche in Europa e nel Terzo Mondo. Allora mi son detto che non potevamo non essere disponibili ad assicurare anche l' esecuzione del provvedimento, per coglierne l' obiettivo: abbassare i tassi di mortalità nei Paesi dove la fame è assassina. Certo, candidarmi ad essere il millesimo sottosegretario di questa Repubblica a 55 anni, 40 dei quali di onorata carriera civile, ha richiesto del coraggio e un po' di umiltà».

È tattica, o è vero che se non fanno alla svelta, questione di ore, lei si ritira? Se la sua fosse una disponibilità a cronometro, non crede che sarebbe poco apprezzata da chi, come dice lei, muore di fame?

«Delle due, l' una: o è esatto quello di cui siamo riusciti a convincere il nostro governo, che a Bruxelles al vertice europeo ha imposto alla Comunità dei dieci di muoversi a tempo, perché fra cento giorni avrà inizio una catastrofe senza precedenti in Africa, e allora non è possibile continuare a perdere giorni e settimane (è dal 29 marzo che devono designare il sottosegretario); oppure non lo è. Ma se lo è, bisogna essere molto chiari. Siamo in un caso in cui i riflessi partitocratici non possono avere campo libero, altrimenti si comincia male, ed è inutile creare illusioni su quello che effettivamente si può fare».

Se sarà chiamato ad amministrare i fondi, dovrà collaborare, se non dipendere, dal ministro, che è Andreotti. Una prospettiva singolare per un radicale.

«Nei confronti di Andreotti ho sempre avuto grande stima oltre che grandissimi motivi di scontro politico. E ho ragione di credere che il suo stato d' animo verso di me non sia difforme. Una eventuale collaborazione, circoscritta, puntuale, potrebbe rivelarsi preziosa, sia come esperienza personale, sia per il Paese».

Se lei entrerà nel governo, come farà il PR a stare all' opposizione? Si opporrà anche a Pannella o adotterà l' antica formula dei "due pesi e due misure"?

«Il governo continuerà la sua politica senza essere condizionato dalla mia presenza come cinquantacinquesimo sottosegretario; la politica di Pannella, e ancor più quella del mio partito, non potranno essere messe in causa. Nessun doppio binario, quindi, ma una crescita di responsabilità dalla quale non potrà non essere tratta una opportunità in più di dialogo davvero laico e democratico».

Il PSDI è favorevole a lei come commissario. E anche il PSI, dopo le dichiarazioni di Loris Fortuna. E gli altri? Insomma, quante probabilità ha di farcela?

«Che probabilità hanno di farcela loro, non io. Non sono un disoccupato».

Mettiamo che la nomina arrivi, quale sarà il suo primo passo?

«L' unico serio, cercare subito di mettere in piedi una baracca che regga al diluvio delle cose da fare. È questa la cruna d' ago attraverso la quale la Grande Speranza deve passare. Avrò come sempre il profondo senso dell' urgenza, il rifiuto di cedere alla fretta».

E poi come pensa di spendere quei soldi?

«Anzitutto, che sia io o un altro, si dovrà badare a come non spenderli. Anzi, a non dilapidarli. In ogni caso, non a sostegno dei nostri commerci, magari vergognosi e inconfessabili; non a sostegno di classi e di gente corrotte; non in aiuti soprattutto alimentari».

Ma allora dove finiranno i miliardi?

«Non finga di non sapere. I radicali da almeno cinque anni illustrano ogni giorno come si dovranno amministrare. Ci rifaremo a quelle indicazioni, costituiscono un programma solido d' intervento: non possiamo adesso fare elenchi contabili, ci vorrebbero mezza giornata e mezzo giornale».

La Malfa ha obiettato che 1.900 miliardi sono troppi per un Paese come l' Italia che ha un bilancio disastrato almeno quanto l' Africa. E parecchi gli danno ragione.

«Mi auguro che non abbia effettivamente pronunciato una tale demagogica non verità. Siamo stati i soli, purtroppo, a denunciare che migliaia di miliardi negli anni scorsi erano stati buttati via, ossia senza risultati né per l' Italia, né per i milioni di agonizzanti. A coloro che così pensano, rispondiamo comunque che questa legge nasce per intervenire diversamente. Il vero problema serio, serissimo, urgente, è quello di convertire in spese di vita e di pace le migliaia di miliardi che si destinano ai folli "investimenti" militari».

C'è chi, come Montanelli, ha scritto che gli aiuti ai Paesi in miseria non servono a niente perché non arrivano mai a destinazione: derrate alimentari che marciscono per strada, ruberie, eccetera. Cosa suggerisce per evitare che anziché i poveri vengano agevolati i furbi?

«Il problema da questo punto di vista non è diverso che a Napoli o a Palermo o a Reggio Calabria e, in alcuni casi, a Milano o a Torino. La sola ricetta è quella del buon governo. Per il quale occorre avere "mani nette e cuore di cristallo", come canta Francesco De Gregori».

Altri sono persuasi che se uno muore di fame, piuttosto che regalargli un pesce è meglio insegnargli a pescarlo. Non mi sembra un' idea cretina.

«All' inizio, circa 20 anni fa, questa massima di Mao era interessante. Adesso, ogni volta che la sento, penso che ci deve essere dietro qualche industria che produce ami, lenze e canne da pesca. Perché se non c' è il pesce, né l' acqua e neppure l' apprendista pescatore, che è agonizzante, tutto l'armamentario, compreso il manuale per acchiappare le sogliole, può servire al massimo come ornamento di qualche tomba».

Sulla rivista missionaria Nigrizia, un articolo di padre Alessandro Zanotelli denunciava che i soldi degli affamati finiscono spesso nelle tasche di amici, esperti, ricercatori e professori vari. È così?

«Quell' articolo è apparso sulle prime pagine de l' Unità e de La Repubblica solo perché era in corso il tentativo di evitare che andasse in porto una legge pericolosa per l' Unione Sovietica e per i ladri. Condividiamo molto di quanto ha scritto Nigrizia: e il PR è stato l' unico partito a pubblicare un libro bianco su determinate storture. Non a caso andiamo ripetendo che, in partenza, si deve contare soprattutto sul piccolo esercito di missionari cattolici cristiani e laici, che opera dando letteralmente la vita alla lotta per la salvezza dell' umanità da questo immondo olocausto».

Sarebbero 30 milioni quelli che rischiano la fine. Non sono troppi anche per Pannella?

«Se la cifra si è ridotta a 30 milioni invece che a 50, come dichiaravano le agenzie dell' ONU, ciò è dovuto allo studio dei radicali. Ma questa è una riduzione sulla carta. Con i mezzi della legge, che sono la metà di quelli richiesti con la proposta Piccoli, sono sicuro che si può entro due anni garantire la sopravvivenza di oltre un milione di persone».

Lei sostiene che se avessero lasciato fare a Pertini il problema della denutrizione sarebbe ormai un brutto ricordo. Vuol spiegare?

«Per la verità è una frase che ho detto sia a Pertini, sia a Giovanni Paolo II, perché si tratta semplicemente di avere volontà politica e umana di concepire certe scelte e di perseguirne gli obiettivi.

L'espressione è forse frusta, ma in un mondo nel quale si sperperano migliaia di miliardi di lire di attrezzature militari, e per l' esplorazione, sempre a scopo militare, degli spazi e delle stelle, non trovare soldi per bloccare l' avanzata del deserto, che minaccia di sommergerci con la sua crescita, è una follia».

Lei va d'accordo col Papa. Vi unisce l' impegno contro la fame, o Pannella risente del proprio passato, quando da giovanissimo era fiancheggiatore dei gruppi cattolici, come ricordano i suoi biografi?

«Mi sono iscritto nel dicembre 1945, a 15 anni, al Partito Liberale di Marco Pannunzio e Benedetto Croce. Fino al 1953, quando me ne sono andato definitivamente, sono entrato e uscito dal PLI seguendo il moto ondulatorio dei miei "maggiori" impegnati nella sinistra liberale. L' ultimo contatto che ho avuto col mondo istituzionale della Chiesa è stato la prima comunione, nel giugno 1940. Ciò detto, e rivendicando anche per me l' intransigenza anticlericale, che suppongo sia propria di ogni spirito religioso, penso che non possiamo non dirci cristiani e anche cattolici, se siamo cresciuti in questo Paese dove le tante culture cattoliche costituiscono per più di un millennio l' intero universo del sapere e della religiosità. Ripeto, inoltre, che dinanzi allo sterminio per mancanza di cibo, se dovessi iscrivermi oggi a "questo" Stato o a "questa" Chiesa sceglierei di iscrivermi a "questa" Chiesa. Naturalmente è una boutade. Ma come in ogni boutade autentica, c' è sicuramente molto del "mio" vero».

I critici dei radicali insinuano che quello dei disperati dell' Africa è il vostro cavallo di battaglia elettorale, anche se alle amministrative non avete liste in proprio.

«Stia pur certo che se questa lotta di umanesimo integrale cristiano e laico fosse stata pagante in termini di riuscita mondana e di potere, non ce ne avrebbero lasciato così a lungo il monopolio. I morti di fame del Terzo Mondo non sono elettori».

Tra i suoi bersagli consueti, negli ultimi tempi spicca il PCI. Perché?

«Perché oggi è il vero Stato nello Stato, il solo che permanga. La Chiesa, il mondo clericale, per loro fortuna, non lo sono più. Perché il PCI è un' immensa struttura anche di parastato che ha una sua feroce logica di autoconservazione. Perché è l' unico che può ancora ingannare grandi masse. Perché è partito anzitutto di potere, pilastro della partitocrazia. Non a caso sul fronte della lotta allo sterminio dei diseredati il suo apporto è stato unicamente negativo, e ha smontato lo splendido slancio del "popolo comunista" che, anche attraverso numerosi sindaci, stava dando molto, organizzando manifestazioni internazionali prestigiose».

Veniamo alle elezioni. Perché state coi «Verdi»? Temete che mangino la rosa?

«Siamo "verdi" anche noi, da sempre. E riteniamo necessario alla democrazia che i "verdi" di diverso itinerario dal nostro si costituiscano anch' essi in forza politica autonoma. Perché l' inquinamento della politica e della morale in Italia è almeno pari, se non più grave, di quello dell' ambiente. E fin d' ora sollecitiamo la presenza di liste di questo tipo anche alle elezioni politiche. Se non riuscissimo a proporre per il superamento della partitocrazia, anche un sistema di partiti nuovi e diversi, la nostra lotta per un regime democratico all' occidentale, "perfetto", non potrebbe mai realizzarsi».

Si intensificano tra PR e PSI dei contatti per trovare, pare, punti di accordo. Loris Fortuna, uso parole sue, vuole "definire un' area operativa socialista e radicale fino all' ipotesi di una struttura federativa e associativa". Oltre a chiederle se è d' accordo, devo confessarle che non ho capito niente. Le spiace fare chiarezza?

«Ci sono due miracoli nella politica italiana e europea. Uno è del PSI, che non poco più del dieci per cento, esprime il presidente della Repubblica, e il presidente del Consiglio, sindaci, presidenti di regioni, di banche, di USL e via occupando. L' altro e del PR, che con meno di tremila iscritti, riesce puntualmente da 20 anni a essere maggioritario nelle grandi battaglie per i diritti civili; e molti capi di Stato del Terzo Mondo lo considerano il più autentico rappresentante dell' Europa. Abbiamo percorso cammini opposti; loro quello del tentativo di convertire il potere con il potere; noi quello di convertire la politica in politica democratica dei valori, delle idealità e delle speranze. Ma le radici sono comuni. Come, d' altra parte, sono comuni con il PRI, il PLI, il PSDI, i cattolici liberali e i comunisti della tradizione di Terracini e Gullo. Insieme, di frutti ne abbiamo già raccolti. Ma chi è convinto, come noi, che la democrazia può vivere solo guardando la semplicità delle democrazie anglosassoni, con grandi partiti programmatici, di identica civiltà, non può fare a meno di constatare la bontà delle indicazioni di Fortuna. Che poi sono le stesse iscritte nella bussola radicale. Si tratta cioè, di aggregare, sui fatti, forze analoghe».

Ma Pannella sottosegretario, eventualmente, si potrebbe interpretare come un primo passo verso la realizzazione dell' ipotesi di Fortuna?

«Semmai renderei omaggio ad un passo responsabile democratico dei partiti di governo, che in genere, invece, sono partitocratici».

Lei già una volta ha chiesto la tessera del PSI, ma non mi sembra che abbia avuto accoglienze entusiastiche.

«Non una, ma due volte. Immagino di essere l' unico italiano dal '45 cui sia stato - comprensibilmente - riservato questo trattamento. Devo ammettere, però, che per noi la doppia militanza, contro i partiti-Chiesa, è un obiettivo quasi necessario».

Sul Giornale ho letto la sua proposta di non votare per far cadere il referendum, secondo le norme costituzionali. Ma ai fini pratici, che differenza c' è fra non votare e votare no? L' importante non è che non vincano i sì?

«Esatto. Perché non vincano i sì bisogna che tutti coloro e non solo una parte, che sono ostili alla richiesta referendaria, o la considerano non meritevole del proprio interesse, siano computabili. Cioè, facciano numero insieme. Ora, se si accetta il valore di questo referendum, e si va al seggio, ci si separa e si annulla quel 25/30 per cento di cittadini che sicuramente non andrà, in questa occasione, alle urne. La Costituzione per questo tipo di consultazione ha esplicitamente previsto l' eventualità di un rifiuto della maggioranza dei cittadini, stabilendo che se non si raggiunge il 50 per cento dei suffragi validi degli aventi diritto, il voto è nullo. Di conseguenza la nostra posizione resta quella di sempre: il referendum si deve tenere. E in molti riteniamo (il partito non si è ancora espresso) che stavolta il ricorso alle urne non valga l' avallo di una scheda, ma esiga la condanna di un rifiuto preventivo. Ignorando la chiamata è impossibile non vincere, perché è impossibile che la somma delle astensioni autonome e di quelle degli elettori, della DC, del PSI, del PRI, del PSDI, del PLI e del PR, più quelle della UIL, della CISL e della componente socialista della CGIL non sia di gran lunga superiore al 50 per cento. Lo ripeto: il referendum si deve tenere. E sarà per la politica del vertice Pci, quel che è stato lo scontro sul divorzio, nel 1974, per la DC e il mondo clericale: una lezione storica a tutto vantaggio anche degli sconfitti».

Ma perché a lei preme che il PCI perda la conta anche sulla scala mobile?

«Perché lo stesso PCI ha parlato del referendum come una iattura. Perché per un anno lo spauracchio è servito a distrarre la politica italiana dalla vera questione: la riforma del costo del lavoro. E perché un esito positivo per i comunisti non potrebbe essere sostenuto dalla nostra economia. E il PCI lo sa benissimo».

·         Don Sturzo ed il Partito popolare. I “liberi e forti” cent’anni dopo.

Sturzo, il liberale che riportò i cattolici italiani in politica. Il prete siciliano con il suo popolarismo ha combattuto i mali della democrazia. Ma lo si ricorda troppo poco. Matteo Sacchi, Mercoledì 07/08/2019, su Il Giornale. L'8 agosto di sessanta anni fa moriva don Luigi Sturzo, il combattivo sacerdote siciliano fondatore, nel 1919, del Partito Popolare italiano. Ovvero l'uomo che riuscì nel difficile tentativo di riportare i cattolici in politica, superando il Non expedit. Un percorso difficile, rallentato dall'avvento della dittatura fascista, che diede poi origine alla Democrazia Cristiana. Un impegno in politica, quello di Sturzo, che aveva anche una profonda ragione sociale, nasceva dall'idea di aiutare i poveri (non solo in senso economico), che era strettamente legato a quello che il padre del liberalismo cattolico italiano considerava il suo mandato sacerdotale. Quando si spense Sturzo - colto da un malore mentre celebrava la Messa il 6 agosto 1959, morì due giorni dopo nella Casa delle Suore Canossiane dell'Opera Don Orione, a Roma - si chiuse un'epoca, di cui lui era stato l'indiscusso protagonista. Don Luigi era nato a Caltagirone, in provincia di Catania, il 26 novembre del 1871, da una famiglia di antichi fasti nobiliari: il padre faceva parte della nobile famiglia dei Baroni d'Altobrando. Cagionevole di salute sin da ragazzo si rivelò un brillante seminarista, fu ordinato sacerdote il 19 maggio del 1894. Nel 1896, alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, ottenne la laurea in teologia. Ferratissimo negli studi iniziò però da subito a mostrare un interesse per la vita attiva, per la politica. Già nel 1897 creò a Caltagirone una Cassa Rurale dedicata a San Giacomo e una mutua cooperativa. Seguì anche il giornale La croce di Costantino. Immediate le ire dell'alta borghesia locale legata alla massoneria. Sturzo insisteva con costanza nel denunciare tutte le piaghe del Sud agrario e pensava che su questi temi i cattolici dovessero avere un'opinione netta. In brevissimo tempo Sturzo si posizionò a favore del ritorno dei cattolici all'interno dell'agone politico. Il che avrebbe segnato una vera rivoluzione per il mondo politico italiano. Nel 1902 guidò i cattolici di Caltagirone alle elezioni amministrative. Nel 1905 verrà nominato consigliere provinciale della Provincia di Catania. Sempre nel 1905, alla vigilia di Natale, pronunciò il discorso su I problemi della vita nazionale dei cattolici, il Rubicone del Non expedit per lui era superato. Nello stesso anno venne eletto pro-sindaco di Caltagirone (mantenne la carica fino al 1920). Nel 1915 divenne il Segretario generale della Giunta Centrale dell'Azione cattolica. Ma la vera svolta doveva ancora avvenire. Nel 1919 fondò il Partito popolare italiano e lanciò il suo appello più famoso, forse il testo politico più importante dell'Italia del Novecento. Iniziava così: «A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello...». Un invito alla battaglia morale e politica che Sturzo interpretò subito come contrapposizione al fascismo. Una linea che si rivelò perdente. Sturzo, non incline a tentennamenti, lasciò gli incarichi nel partito e si rifugiò dal 1924 al 1940 prima a Londra, poi a Parigi, infine a New York. Dall'esilio animò diversi gruppi politici di fuoriusciti e di cattolici europei. Ritornò in Italia, sbarcando a Napoli il 5 settembre 1946. Scelse di non avvicinarsi troppo alla politica attiva, non aderì formalmente alla Dc. Fu però il primo a sollevare la «questione morale» pubblicando nel novembre 1946 su L'Italia un articolo dal titolo: Moralizziamo la vita pubblica. Diceva, con dantesca memoria, che esistono «tre male bestie» che infettavano il sistema italiano: la partitocrazia, lo statalismo e l'abuso del denaro pubblico. Anche questo forse spiega perché di beatificare Don Sturzo si discute ma di portarne avanti il pensiero politico molto meno. Come ci spiega il professor Flavio Felice, ordinario di Storia delle dottrine politiche all'università degli studi del Molise e grande esperto di Sturzo: «Sturzo è attualissimo per la sua carica ideale a favore di un processo democratico che venga dal basso, rispetto ad un'idea di democrazia calata dall'alto. Il distacco tra le élite e il popolo è la spiegazione del proliferare attuale dei movimenti populistici. Ecco, il popolarismo di Sturzo è proprio l'antidoto al populismo, è l'antidoto alla malattia delle democrazie: l'essere risucchiate dal circolo vizioso delle istituzioni estrattive, dalla legge ferrea delle oligarchie. Però a essere sinceri Sturzo è stato studiato in modo insufficiente e divulgato ancora meno. L'accademia gli ha dato poco spazio e gliene ha dato poco anche il mondo cattolico. La stessa Dc alla fine lo mise in un angolo e le gerarchie lo trovavano scomodo, avendo teorizzato e praticato l'autonomia dei laici in politica dalle gerarchie ecclesiastiche: l'aconfessionalita».

I “liberi e forti” cent’anni dopo. L’appello di don Sturzo un secolo dopo, scrive Emanuele Macaluso il 19 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Cento anni fa Luigi Sturzo lanciò l’appello ai “liberi e forti”, ai cattolici italiani, per dar vita ad un partito che nel primo dopoguerra partecipasse alla battaglia politica, già rovente per la presenza attiva del Partito socialista e, dato che si era nel 1919, dei primi nascenti fasci mussoliniani. Oggi sul Corriere della Sera, il professor Galli della Loggia, ricordando l’avvenimento, nota che, dopo la fine dell’aspro contrasto tra la Chiesa e lo Stato, don Sturzo proponeva al costituendo partito popolare italiano un programma “tutto calato nell’immediatezza dei problemi concreti”. Vero. Ma Sturzo, negli anni della rottura tra la Chiesa e lo Stato, e poi del compromesso Gentiloni, si era impegnato in Sicilia a costruire una fitta rete di casse rurali, di cooperative, di centri di attività sociali che organizzavano i contadini e impegnavano i giovani cattolici in un attivismo che aveva anche un risvolto politico. In quegli anni la polemica sturziana contro i collegi uninominali dominati dalla massoneria e dalla mafia fu vivace. E contro la mafia Sturzo scrisse anche un’operetta teatrale. Voglio dire che, non solo in Sicilia, nel 1919 il mondo cattolico e le sue organizzazioni – l’Azione Cattolica, la Fuci, le strutture sociali e assistenziali – erano pronte all’agone politico e, infatti, nelle elezioni di quell’anno, le prime con il sistema proporzionale, socialisti e popolari risultarono i primi e i più forti partiti. E sappiamo anche come poi andarono le cose anche per errori commessi dalla sinistra socialista e comunista, dai popolari (una parte, infatti, partecipò al primo governo fascista), dai liberali di Giolitti e dallo stesso Croce. E sappiamo del tradimento della monarchia. Il fascismo trionfò e Sturzo fu costretto all’esilio negli Stati Uniti. Dopo la caduta del fascismo, gli eredi di Sturzo costituirono la DC ed è noto, ormai storicamente, il ruolo che essa ha avuto, nel bene e nel male, nella vicenda politica italiana. Non è ovviamente questa la sede per discuterne la storia. La situazione del 1919 o del 1943 non sono assimilabili a ciò che vediamo oggi in Italia e nel mondo. Tuttavia, un problema che riguarda i cattolici sembra che riemerga. Lo hanno detto esponenti autorevoli di quel mondo, vescovi e laici. Tante cose di quel che succede nel nostro Paese e oltre, oggi feriscono i cattolici e c’è ormai chi pensa che occorre contrastare il cinismo politico, imperante in chi governa, con un’azione politica. È questo che ci dicono le polemiche sui comportamenti verso gli immigrati, su ciò che accade in Paesi devastati dalla guerra nell’arroganza dei potenti che dispongono di enormi ricchezze di fronte alla povertà di milioni di persone. Anche il Papa, che su questi temi si è molto speso, ha sollecitato un impegno dei cattolici nell’agone politico. È chiaro che non si tratta di ricostituire il partito popolare di Sturzo né la DC di De Gasperi. Però, sarà interessante capire quali forme prenderà questo impegno in una situazione politica in cui si avvertono anche segni di mutamenti, soprattutto in vista delle elezioni europee. Vedremo.

"Fondando il Partito popolare diede voce al mondo cattolico e alla libertà di tutti", scrive Matteo Sacchi, Sabato 19/01/2019, su "Il Giornale". Un secolo fa, il 18 gennaio 1919, Don Luigi Sturzo (1871-1959) con il suo Appello ai Liberi e Forti fondò il Partito popolare italiano. Fu un momento epocale all'interno della storia politica italiana. Il Non expedit, del 1874, promulgato da Pio IX - il divieto ai cattolici di partecipare alla politica del regno invasore - veniva così definitivamente superato. Non più con un accordo tra vertici politici e religiosi come con il patto Gentiloni del 1913 ma con la nascita di un partito che voleva avere le sue radici nel popolo. Si trattava di un programma profondamente innovativo che si presentava sulla scena politica proprio in uno dei momenti più difficili per il Paese dove gli estremismi del biennio rosso e la controrivoluzione mussoliniana dei Fasci di combattimento si stavano preparando a darsi apertamente e sanguinosamente battaglia. Il progetto di Sturzo voleva invece portare l'Italia in tutt'altra direzione. Ce lo siamo fatti raccontare dal massimo esperto del pensatore cattolico: il professor Flavio Felice, ordinario di Storia delle dottrine politiche all'Università degli studi del Molise e autore di svariati saggi e articoli su Luigi Sturzo.

Professor Felice, perché è fondamentale per la storia italiana la fondazione del Partito popolare il 18 gennaio 1919?

«Sturzo decide di far nascere il Partito popolare dopo un percorso di 14 anni. Una gestazione che parte con il suo discorso a Caltagirone pronunciato il 24 dicembre del 1905. In quel discorso formulava per la prima volta l'idea di una presenza dei cattolici in politica che superasse il Non expedit. Le idee sviluppate in quegli anni sono tre. La prima era la necessità di una presenza nazionale dei cattolici e non solo a livello locale. La seconda era l'idea di un modello basato sul municipalismo e non più sull'idea di uno Stato monopolista e fortemente centralizzato a cui pensavano le correnti politiche del liberalismo dell'epoca. La vera base del potere avrebbe dovuto essere la società civile nel suo insieme. La terza idea era quella di superare il monopolio dei socialisti sulla classe del proletariato. Tutte queste idee trovano sviluppo definitivo nell'Appello ai Liberi e Forti».

Quell'appello per l'epoca era un oggetto politico dirompente?

«Certo, parlava ad un'Italia uscita provata dalla Grande guerra e che iniziava ad essere preda delle violenze del biennio rosso e dei nascenti fasci di combattimento. Spingeva i cattolici ad unirsi e ad assumersi la responsabilità del governo del Paese dopo un auto isolamento durato anni. E soprattutto a farlo in modo nuovo, autonomo sia rispetto alle gerarchie ecclesiastiche sia rispetto ai gruppi di notabili che avevano controllato la politica sino a quel momento. Proponeva un partito di cattolici ma non dei cattolici. Cattolici impegnati in politica per il bene comune non a favore di interessi, nemmeno quelli delle gerarchie ecclesiastiche».

Sturzo proponeva un'idea di politica decisamente nuova...

«Spezzava la tradizione del notabilato liberale. Il popolare nel nome del partito intendeva proprio far riferimento al popolo in tutte le sue sfaccettature. Attraverso la riforma agraria, la libertà scolastica e il municipalismo, si voleva rendere il popolo l'attore principale della politica».

Sturzo era federalista?

«Lo era sin dal 1901 e sosteneva di condurre una guerra federalista. Era contrario a ogni uniformismo culturale. E non era un federalismo che partiva dalla questione meridionale o puramente economico. Voleva un federalismo orientato a Sud, un federalismo che tutelando i corpi intermedi e le differenze facesse l'interesse di tutto il Paese».

Idee davvero poco compatibili con il fascismo...

«Sturzo fu antifascista sin dall'inizio. Poi dopo la sua invettiva del 1923 il regime lo isolò facendo pressione sulle gerarchie ecclesiastiche. Lui scelse l'esilio».

Cosa ha mutuato Sturzo dai suoi anni in Inghilterra e negli Usa?

«Ha avuto la possibilità di veder funzionare nella pratica le idee che aveva assimilato con lo studio ad esempio di Rosmini. A Londra amava lo Speakers' Corner di Hyde Park. Era per lui un esempio di quello che chiamava il metodo della libertà. Amava anche lo scarso numero di poliziotti e di divise che vedeva per le strade... Voleva uno Stato non minaccioso».

L'Appello ai liberi e forti è stato da poco citato da Silvio Berlusconi. È ancora attuale per la nostra politica?

«È attuale l'idea di popolo come realtà plurale e non omogenea. In questo senso il popolo diventa il limite del potere e non uno strumento di potere come nel populismo. È attuale anche l'idea di un partito dei cattolici che però non dipenda dalle gerarchie della Chiesa. C'è poi tutto il tema di un vero federalismo che valorizzi le comunità e le particolarità. Un federalismo, ribadisco, ben diverso da un federalismo solo economico. Insomma la proposta di Sturzo è ancora tutta da realizzare e quindi attuale...».

Quindi il popolarismo di Sturzo è ben diverso dal populismo?

«Nel popolo, per la concezione di Sturzo, risiedono il limite organico al potere, il limite morale - dato da scuola e famiglia - e il limite istituzionale. Insomma il popolo non è mai stampella del principe. Semmai il popolo è la critica costante al principe al fine di indirizzarlo. Siamo molto lontani dal populismo e dalla fascinazione per il leader».

Quell'appello per mobilitare le forze migliori di tutto il Paese E salvare l'Italia. Suffragio universale, istruzione per tutti e un vero federalismo Ecco l'anima dei popolari, scrive Luigi Sturzo, pubblicato Sabato 19/01/2019 da "Il Giornale".  A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà. E mentre i rappresentanti delle Nazioni vincitrici si riuniscono per preparare le basi di una pace giusta e durevole, i partiti politici di ogni Paese debbono contribuire a rafforzare quelle tendenze e quei principi che varranno ad allontanare ogni pericolo di nuove guerre, a dare un assetto stabile alle Nazioni, ad attuare gli ideali di giustizia sociale e migliorare le condizioni generali, del lavoro, a sviluppare le energie spirituali e materiali di tutti i Paesi uniti nel vincolo solenne della «Società delle Nazioni». E come non è giusto compromettere i vantaggi della vittoria conquistata con immensi sacrifici fatti per la difesa dei diritti dei popoli e per le più elevate idealità civili, così è imprescindibile dovere di sane democrazie e di governi popolari trovare il reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso della società. Perciò sosteniamo il programma politico-morale patrimonio delle genti cristiane, ricordato prima da parola angusta e oggi propugnato da Wilson come elemento fondamentale del futuro assetto mondiale, e rigettiamo gli imperialismi che creano i popoli dominatori e maturano le violente riscosse: perciò domandiamo che la Società delle Nazioni riconosca le giuste aspirazioni nazionali, affretti l'avvento del disarmo universale, abolisca il segreto dei trattati, attui la libertà dei mari, propugni nei rapporti internazionali la legislazione sociale, la uguaglianza del lavoro, le libertà religiose contro ogni oppressione di setta, abbia la forza della sanzione e i mezzi per la tutela dei diritti dei popoli deboli contro le tendenze sopraffatrici dei forti. Al migliore avvenire della nostra Italia - sicura nei suoi confini e nei mari che la circondano - che per virtù dei suoi figli, nei sacrifici della guerra ha con la vittoria compiuta la sua unità e rinsaldata la coscienza nazionale, dedichiamo ogni nostra attività con fervore d'entusiasmi e con fermezza di illuminati propositi. Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i Comuni - che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell'Istituto Parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto delle donne, e il Senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali: vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione, invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia comunale, la riforma degli Enti Provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali. Ma sarebbero queste vane riforme senza il contenuto se non reclamassimo, come anima della nuova Società, il vero senso di libertà, rispondente alla maturità civile del nostro popolo e al più alto sviluppo delle sue energie: libertà religiosa, non solo agl'individui ma anche alla Chiesa, per la esplicazione della sua missione spirituale nel mondo; libertà di insegnamento, senza monopoli statali; libertà alle organizzazioni di classe, senza preferenze e privilegi di parte; libertà comunale e locale secondo le gloriose tradizioni italiche. Questo ideale di libertà non tende a disorganizzare lo Stato ma è essenzialmente organico nel rinnovamento delle energie e delle attività, che debbono trovare al centro la coordinazione, la valorizzazione, la difesa e lo sviluppo progressivo. Energie, che debbono comporsi a nuclei vitali che potranno fermare o modificare le correnti disgregatrici, le agitazioni promosse in nome di una sistematica lotta di classe e della rivoluzione anarchica e attingere dall'anima popolare gli elementi di conservazione e di progresso, dando valore all'autorità come forza ed esponente insieme della sovranità popolare e della collaborazione sociale. Le necessarie e urgenti riforme nel campo della previdenza e della assistenza sociale, nella legislazione del lavoro, nella formazione e tutela della piccola proprietà devono tendere alla elevazione delle classi lavoratrici, mentre l'incremento delle forze economiche del Paese, l'aumento della produzione, la salda ed equa sistemazione dei regimi doganali, la riforma tributaria, lo sviluppo della marina mercantile, la soluzione del problema del Mezzogiorno, la colonizzazione interna del latifondo, la riorganizzazione scolastica e la lotta contro l'analfabetismo varranno a far superare la crisi del dopo-guerra e a tesoreggiare i frutti legittimi e auspicati della vittoria. Ci presentiamo nella vita politica con la nostra bandiera morale e sociale, inspirandoci ai saldi principi del Cristianesimo che consacrò la grande missione civilizzatrice dell'Italia; missione che anche oggi, nel nuovo assetto dei popoli, deve rifulgere di fronte ai tentativi di nuovi imperialismi di fronte a sconvolgimenti anarchici di grandi Imperi caduti, di fronte a democrazie socialiste che tentano la materializzazione di ogni identità, di fronte a vecchi liberalismi settari, che nella forza dell'organismo statale centralizzato resistono alle nuove correnti affrancatrici. A tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti, a quanti nell'amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degl'interessi nazionali con un sano internazionalismo, a quanti apprezzano e rispettano le virtù morali del nostro popolo, a nome del Partito Popolare Italiano facciamo appello e domandiamo l'adesione al nostro Programma.

Dc, il racconto di un Paese nel libro di Marco Follini. Pubblicato sabato, 09 novembre 2019 su Corriere.it da Ernesto Galli della Loggia. L’autore rievoca (con tenerezza) le stagioni del partito che si identificò con l’Italia. I protagonisti e gli aneddoti disseminati lungo 50 anni nel volume edito da Sellerio. Come qualcuno ricorderà a suo tempo ci eravamo augurati in parecchi di «non morire democristiani»: e allora oggi non rimane che dire «ben ci sta!». Soprattutto dopo aver letto questo libro di Marco Follini (Democrazia Cristiana. Il racconto di un partito, Sellerio) il quale della Dc fece a tempo a vivere le ultime stagioni e di essa ora ripercorre non tanto le vicende quanto l’ethos e l’antropologia della sua classe politica. Non si tratta dunque, di un libro di storia o di ricordi (anche se questi non mancano). È piuttosto una rievocazione: soffusa inevitabilmente di un’indulgente tenerezza e di qualche malinconia, come capita quando il pensiero ritorna alle cose del passato che non ci sono più, e che già solo per questo ci sembrano più degne e più belle di quanto forse in realtà non fossero. Inutile aggiungere poi che in queste pagine il racconto della Democrazia cristiana diviene com’è ovvio anche il racconto di una certa Italia di ieri che fu quella del cattolicesimo diffuso ed egemone. Un’Italia dimessa, «nascosta e appartata», un Paese di piccola borghesia con il salotto «buono» ricoperto di fodere bianche (come quello di casa Andreotti a corso Vittorio nella testimonianza dell’ingegner De Benedetti), di amori clandestini, di abiti alla buona, di omosessualità tenute rigorosamente segrete (anche se si trattava perlopiù di un segreto di Pulcinella che tuttavia — oh gran bontà dei deputati antiqui! — a nessuno veniva in mente di violare).

Marco Follini, «Democrazia Cristiana. Il racconto di un partito», Sellerio (pagine 240, euro 16)Altrettanto ovviamente il racconto della Dc e dei suoi molti meriti e qualità — su cui oggi si registra un’inedita vastità di consensi — è insieme il racconto di com’era la politica all’epoca della Prima Repubblica, di cui quel partito fu una sorta di epitome. A cominciare dalla capacità che gli fu propria di far convivere al proprio interno molte anime (come ci furono infatti molte Democrazie cristiane, così per l’appunto ci furono pure molti Partiti comunisti e molti Partiti socialisti), alla cauta discrezione usata dalla Dc nei confronti della Chiesa nel tentativo in buona parte riuscito di tenere distinte le proprie sorti dalle sue, di sottrarsi alle sue troppo pressanti richieste. Ma anche qui: non cercò di seguire a un dipresso la medesima strada pure il suo grande antagonista, il Pci, alle prese con l’arcigna Potenza che ne sorvegliava le mosse dalla lontana Mosca? La verità è che in un Paese a sovranità limitata come il nostro, specie in quel tempo, l’italica scaltrezza dissimulatrice doveva toccare necessariamente vertici da manuale.

Marco Follini (Roma, 1954) presenta il suo libro a Roma mercoledì 20 novembre presso la libreria Feltrinelli della galleria Alberto Sordi. Disseminati lungo l’arco di un cinquantennio, ritratti acutissimi (tra tutti spicca quello di Aldo Moro), aneddoti, ricordi, definizioni fulminanti (perfetta quella per i «dorotei»: «Una sorta di società anonima del notabilato dell’epoca») si susseguono in pagine di scrittura sapiente e piacevole, piene di osservazioni interessanti. Ad esempio quella circa la continua personalizzazione e contrattazione all’interno del un partito che caratterizzava ogni decisione politica, facendo della Dc il partito inevitabilmente antidecisionista per antonomasia, oppure quella circa la contraddizione sempre più grave che venne crescendo durante la Prima Repubblica tra la lentezza rarefatta della politica e dei suoi riti da un lato e la velocità del cambiamento sociale dall’altro. Sono pagine che comunque, pur cercando di non sottrarsi alle questioni storiche più generali che pone la vicenda democristiana, tuttavia lo fanno in un modo quasi sempre indiretto ed evocativo: ciò che alla fine, però, rischia di apparire vago ed elusivo (un modo molto «democristiano» avrebbero detto i critici di un tempo). Non solo, ma almeno in un caso lo fanno in un modo che risulta anche sorprendentemente sbrigativo, direi. Definire infatti come fa Follini una «leggenda» il consociativismo Dc-Pci, ridurlo a un semplice «gioco di riguardi incrociati e di interessi comuni», mi sembra davvero che sfidi un po’ troppo oltre che un ormai ricco lavoro di scavo storiografico anche il ricordo di alcuni milioni di italiani. Venendo alle ragioni della triste fine della Democrazia cristiana, le molte, parziali spiegazioni che ce ne vengono qui proposte lasciano tuttavia insoddisfatto il desiderio che ce ne venga offerta una più di fondo e generale, o perlomeno una gerarchia organizzata (cioè concatenata) delle cause varie che condussero alla crisi. Che dalla lettura del testo di Follini appaiono ridursi in sostanza ad una. Al fatto che nata da una precisa ed esatta idea dell’Italia la Democrazia cristiana, però, da un certo punto in avanti non riuscì più a farsene alcuna per il futuro, non riuscì più a elaborare alcuna visione circa l’avvenire del Paese che corrispondesse ai suoi sogni e ai suoi bisogni. Pensò che tutto dipendesse dalla «conventio ad excludendum», che il problema fosse quello di «portare a destinazione il sistema democratico», cioè di favorire in qualche modo l’ingresso al governo del Partito comunista. Ciò su cui Follini sembra concordare: ma a distanza di tanti anni oggi possiamo forse dire che un regime dell’alternanza era con il Psi che bisognava cercare di costruirlo, non con un comunismo italiano dalle cui ceneri era destinato a nascere, come è nata, solo una sinistra minoritaria, confusa e divisa, senza idee e senz’anima. Ma dei socialisti curiosamente nel libro di cui stiamo dicendo non si fa menzione neppure una volta: una sorta di «damnatio memoriae» proclamata dal pulpito almeno in teoria più inatteso.

·         Il Contropotere: I Dorotei.

Pd, piccoli dorotei crescono inseguendo i 5S e il potere. Francesco Damato il 9 Agosto 2019 su Il Dubbio. Dalla Dc ai Dem: corsi e ricorsi storici. La corrrente democristiana, nacque come rivolta contro Amintore Fanfani accusato di aver accumulato troppe poltrone ma in realtà aspiravano alle stesse cose. Come ha detto con sorprendente levità Matteo Salvini commentando le condizioni della maggioranza gialloverde dopo le votazioni al Senato sulla Tav, «qualcosa si è rotto» anche nei rapporti fra i grillini e i “dorotei” del Pd, come io chiamo – e vi spiegherò perché quelli che da qualche tempo coltivano più o meno apertamente la speranza di potersi inserire nelle tensioni fra grillini e leghisti per aiutare i primi a fare a meno dei secondi, sostituendoli col maggiore partito della sinistra. Nelle votazioni parlamentari sulla realizzazione della linea ferroviaria per il trasporto ad alta velocità delle merci dalla Francia all’Italia il Pd si è ritrovato non con i grillini ma con i leghisti. E ben poco sarebbe cambiato se i nuovi “dorotei” fossero riusciti a strappare al loro partito la decisione di disertare tutte le votazioni per non confondersi, appunto, con i leghisti. La mozione grillina per un no alla Tav formalmente attribuito al Parlamento e non al governo, nello specioso tentativo di lasciare fuori dalla contesa il presidente del Consiglio schieratosi per il sì, sarebbe stata ugualmente bocciata. A salvare i rapporti fra i “dorotei” del Pd e i grillini difficilmente basterà il rammarico espresso per la gestione del passaggio parlamentare dall’ex capogruppo del Pd al Senato e ora tesoriere del partito, Luigi Zanda. Che rappresenta la corrente di Dario Franceschini nella delegazione incaricata recentemente dalla direzione del partito di seguire gli sviluppi della situazione politica nella speranza di una crisi. I “dorotei” piddini hanno dovuto ingoiare non solo la partecipazione alle votazioni, ma anche una modifica, all’ultimo momento, della mozione del loro gruppo, a favore della Tav, per consentire ai leghisti di approvarla interamente. E’ stato eliminato, in particolare, un passaggio polemico verso il governo, che avrebbe comportato la votazione del documento per parti separate. Ma perché chiamo “dorotei” i piddini favorevoli, pur con varie sfumature o modalità, ad un’intesa con i grillini, con o senza la condizione di un preventivo passaggio elettorale? Che è stata posta dal segretario del partito Zingaretti nel tentativo di ridurre le tensioni interne e di scongiurare il disegno di una scissione attribuito, a torto o a ragione, a Matteo Renzi. I “dorotei”, dal nome della santa protettrice delle suore nel cui convento si riunirono a Roma, nacquero come corrente della Dc nel 1959 per rivolta contro Amintore Fanfani, formalmente accusato di volere correre troppo verso i socialisti, superando il centrismo degli anni degasperiani, ma in realtà inviso per una certa bulimia di potere. Essa era stata avvertita nella decisione presa dal segretario della Dc, dopo il successo elettorale del 1958, di fare anche il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri. A dimostrare che l’elemento distintivo dei “dorotei” fosse il potere, da conservare e insieme distribuire equamente fra di loro, e non la linea politica, fatta di programmi e di alleanze in un partito a maggioranza relativa e non assoluta, fu il fatto che Aldo Moro, chiamato a succedere a Fanfani alla guida dello scudo crociato, non ripudiò per niente le aperture ai socialisti. Fu lui, anzi, a completare l’operazione politica di Fanfani con una più accorta gestione realizzando personalmente nel 1963 il primo governo di centro- sinistra “organico”, a partecipazione cioè dei socialisti, al posto dei liberali dei governi centristi e in aggiunta ai socialdemocratici e ai repubblicani. Nonostante si fosse guardato bene, visti i precedenti di Fanfani, dal cumulare troppe cariche lasciando la segreteria del partito all’amico di corrente Mariano Rumor, anche Moro finì per essere sospettato di volere rimanere troppo a lungo, e a tutti i costi, sulla scena da protagonista. Gli fu rimproverato dai colleghi di corrente di essere troppo aperto e tollerante con i socialisti, che pure non erano ancora quelli guidati dal volitivo e giovane Bettino Craxi, ma dall’anziano Pietro Nenni, e di averne anche favorito l’unificazione con i socialdemocratici. Di cui nella Dc temevano di fare le spese elettorali nel 1968, al rinnovo delle Camere. Nonostante l’unificazione socialista fosse sostanzialmente fallita nelle urne, e destinata a dissolversi rapidamente anche a livello organizzativo, i “dorotei” pretesero dopo le elezioni la rimozione di Moro da Palazzo Chigi. Dove, pur di insediarsi al suo posto, Rumor offrì ai socialisti una edizione del centro- sinistra “più incisiva e coraggiosa”. Che tuttavia non bastò al Psi non più unificato, che reclamò poco dopo “equilibri più avanzati” ancora: tanto avanzati che il centro- sinistra non resse alla prova e si dissolse nelle emergenze della “solidarietà nazionale” col Pci e del terrorismo. Si passò negli anni Ottanta al “pentapartito”, comprensivo di liberali e socialisti, grazie alla svolta socialista di Craxi. Ditemi voi, con questi precedenti, se sbaglio, o sbaglio più di tanto, a considerare “dorotei” quelli che nel Pd inseguono i grillini pur di recuperare il potere perduto con la sconfitta elettorale dell’anno scorso.

·         Sui reati dei Ministri non c’è certezza.

Sui reati dei ministri non c’è certezza: inchieste, politica, maggioranze e Consulta si incrociano. Pietro Di Muccio De Quattro il 20 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Per effetto del referendum dell’ 8 novembre 1987, niente più Commissione inquirente (“la grande insabbiatrice”, “il porto delle nebbie”); niente più Parlamento in seduta comune; niente più giudizio della Corte costituzionale. Può essere utile ricordare che l’impianto dei Costituenti per i reati ministeriali fu radicalmente mutato dalla legge costituzionale 1/ 1989, che basò l’accusa ai ministri sull’immunità ministeriale anziché sul foro speciale previsto dalla Costituzione del 1948. Per effetto del referendum dell’ 8 novembre 1987, niente più Commissione inquirente (“la grande insabbiatrice”, “il porto delle nebbie”); niente più Parlamento in seduta comune; niente più giudizio della Corte costituzionale. La cognizione dei reati ministeriali spetta oggi ai giudici ordinari, previa autorizzazione a procedere delle Camere. Quel referendum ebbe il valore abrogativo evidente, proprio del referendum, ed un valore propositivo schiettamente politico: l’elettorato reclamava per i ministri una giustizia eguale agli altri cittadini. Le ragioni della scelta operata dalla legge costituzionale 1/ 1989 furono dunque sia politiche che giuridiche. Quanto alle prime, furono almeno tre: depoliticizzare il giudizio sui ministri; parificare quanto più possibile le posizioni dei membri del governo a quelle dei cittadini comuni; abolire un privilegio particolarmente odioso che a taluni pareva essersi trasformato in impunità. Quanto alle seconde, furono almeno quattro: l’eterogeneità del giudizio sulle leggi e sugli uomini rendeva la Corte costituzionale, secondo molti, un giudice inidoneo a giudicare i ministri; il giudizio in unico grado per politici e laici violava il doppio grado di giurisdizione; la parzialità del giudice, considerato che ai quindici giudici costituzionali si aggiungevano i sedici laici; la Corte costituzionale doveva essere sollevata dagli impegni penali che intralciavano il sindacato delle leggi. I cardini del sistema sono due, fissati dagli articoli 1 e 9 della legge suddetta: il presidente del Consiglio e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione della Camera o del Senato; l’Assemblea competente può, a maggioranza assoluta dei componenti, negare l’autorizzazione ove reputi, “con valutazione insindacabile”, che l’inquisito abbia agito “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. Se l’autorizzazione a procedere è concessa, la cognizione dei reati spetta al giudice ordinario, che non è il c. d. “tribunale dei ministri” ( come troppi son malamente portati a credere da superficiali divulgatori). Questo collegio di tre magistrati estratti a sorte ogni due anni non è il tribunale vero e proprio perché non possiede la funzione giudicante, bensì i poteri del Pm e del Gip. Invece il giudizio spetta in primo grado al tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio. Per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio si applicano le comuni norme del codice di procedura penale. A parte la controversa natura del diniego dell’autorizzazione, la discussione parlamentare della riforma fu incentrata sui due presupposti, sui due motivi di diniego ( esimenti in senso atecnico per comodità espositiva). I contrari opposero tre argomenti: innanzitutto, le esimenti avrebbero finito per formalizzare, in una legge costituzionale così importante, la cosiddetta ragion di Stato. Inoltre, avrebbero contribuito alla protezione di abusi governativi. Infine, violerebbero lo Stato di diritto. I favorevoli replicarono che, senza tali presupposti, la discrezionalità parlamentare sarebbe scivolata fatalmente nell’arbitrium merum cioè nella totale libertà di scelta. Pertanto, definire le esimenti, serviva a restringere, non già ad allargare la potestà delle Camere di negare l’autorizzazione. E, in effetti, così è. Un acuto studioso osservò che la maggioranza assoluta qui serve a sottrarre il ministro al processo, non a sottoporvelo. Differenza di un certo peso. Fu detto nella discussione che “l’interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” farebbe riferimento a valori ed interessi scritti nella Costituzione o direttamente tutelati da norme costituzionali, mentre “il preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo” richiamerebbe gli interessi pubblici non immediatamente contemplati in Costituzione, ma, evidentemente, tutelati in via indiretta. Il punto cruciale della legge costituzionale 1/ 1989 sta nella valutazione delle Camere circa i presupposti dell’insindacabilità. Il legislatore costituzionale volle affermare, chiaro e tondo, che la Camera competente è l’unico giudice, di fatto e di diritto, dell’esistenza dei presupposti. Tuttavia, a chi reputa incostituzionale l’insindacabilità della valutazione parlamentare, si contrappone chi considera tale insindacabilità come la riaffermazione della sovranità politica che, a determinate condizioni, può o deve poter sottrarre allo Stato di diritto la potestà d’imperio, sebbene possa apparire una reviviscenza della teoria e della pratica del governo illimitato. La Corte costituzionale, chiamata a decidere nei conflitti d’attribuzione insorti a riguardo tra magistratura e Camere, sembra inclinare a riconoscere l’insindacabilità purché congruamente motivata e rispettosa dei diritti inalienabili. In conclusione, la riforma costituzionale del 1989, e le fonti ordinarie e regolamentari che la completano, non hanno portato all’auspicata certezza del diritto su un punto cruciale dell’ordinamento. La responsabilità dei reati ministeriali resta sospesa e contesa tra maggioranze parlamentari, inchieste della magistratura, conflitti di attribuzione, giudizi della Corte costituzionale.

·         "Il denaro ha sostituito la politica".

Tremonti: "Il denaro ha sostituito la politica". L'ex Ministro dell'Economia ci spiega il capitalismo globale, citando Marx. Intervista di Luca Telese del  - 3 maggio 2019 su Panorama.

Professor Tremonti, come sta?

«Bene, grazie».

In tutto questo ciclo di interviste per Panorama di solito dedico le prime domande alla storia personale.

«(Sorriso). Mi deve scusare ma sono costretto a declinare questa domanda: non parlo mai di me. Non l’ho mai fatto, figuriamoci ora».

Sono curioso di sapere cosa pensa del governo gialloverde. Cominciamo dalla Lega o dal M5s?

«(Sospiro). Mi perdoni se posso sembrare scortese, ma non parlo neanche di politica nazionale. Me lo sono imposto da tempo».

E non posso chiederle nemmeno di fare un pronostico sulla crisi e sulla manovra?

«(Occhiataccia). Guardi, non parlo di Italia. Ho scritto un libro proprio per dire che l’origine e dimensione dei problemi che affrontiamo è molto, molto più grande! Almeno se si vuole capire davvero cosa sta accadendo».

Sono venuto a intervistarla proprio sul suo ultimo libro.

«E allora saprà che la parola «Italia» nelle 172 pagine del mio ultimo saggio non compare una sola volta! Se è così, c’è un motivo».

Le tre profezie è un libro sul mondo di oggi, sulla crisi delle élites, sul fenomeno del populismo...

«È vero. Ma proprio per poter spiegare cosa accade, anche da noi, per poter comprendere, è necessario allargare lo sguardo alla dimensione globale. Altrimenti non si capisce più nulla».

I tre «profeti» di cui lei parla nel suo libro servono da spunto per parlare dei tre grandi problemi del terzo millennio.

«Ricorro a Marx, per spiegare cosa sta accadendo al capitalismo globale, a Goethe per spiegare il potere mefistofelico del mondo digitale, a Leopardi per indagare la crisi della società cosmopolita».

Un filosofo e due letterati dell’Ottocento per spiegare la crisi della società contemporanea?

«(Sorriso). E perché no?»

Ah.

«Ho cominciato a fare riflessioni su quello che stava succedendo mettendo esperienze diverse, e un punto di vista originale e inedito nel lontano 1993».

Con il primo saggio di questa serie: Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione.

«Ma se vogliamo partire da quando sono uscito per la prima volta da argomenti giuridici e accademici, iniziando a camminare su questo terreno di ricerca originale, devo risalire al luglio del 1989 con un articolo sul Bicentenario della Rivoluzione pubblicato sul Corriere sella sera».

Parliamo di un percorso di trent’anni dunque?

«Esatto. Allora, osservando come il 1789 fu l’avvio delle rivoluzioni parlamentari, ipotizzavo che fossimo alla viglia di un processo contrario. Cosa che poi si è verificata».

E cosa le suggeriva questa riflessione?

«I primi passi della globalizzazione, anche se allora nessuno ancora la chiamava così».

Quali?

«I segnali che captavo con la mia particolare lente di osservazione sulla politica, sull’economia, e soprattutto sulle leggi».

Quali erano questi primi passi?

«Immaginavo che presto si sarebbero svuotati i parlamenti. Stava iniziando a spezzarsi quella che era stata la catena politica di trasmissione più importante del secolo: Stato-Territorio-Ricchezza».

Sostituita da cosa?

«La ricchezza stava entrando nella «Repubblica internazionale del denaro», e lì avrebbe perso per sempre la sua base nazionale».

Mi dica un’altra intuizione che è stata confermata.

«(Sorriso). Un cambio di dimensioni e rapporti di forza. Scrivevo: «Non saranno più gli Stati a scegliere come tassare le compagnie, ma le compagnie a scegliere dove farsi tassare a seconda della loro convenienza». Le dice niente?»

Sembra il dibattito contemporaneo sulla Web tax.

«Appunto. Ne Il fantasma della povertà - e siamo nel lontano 1995! - spiegavo che avremmo dovuto fare di nuovo i conti con questo fenomeno. E anche che l’immagine dell’Occidente trasmessa dalle tv sarebbe diventata causa e motore di un nuovo ciclo dell’immigrazione».

Era già ministro e non ha più smesso di scrivere.

«Nel 2007, con La paura e la speranza ho spiegato il bivio di fronte a cui si trovava la storia dell’Occidente, e nel 2016 con Mundus furiosus ho preso in prestito a Giansonio una espressione con cui si definiva l’Europa del Cinquecento per descrivere quella di oggi».

Secondo lei la prima globalizzazione del Cinquecento è paragonabile alla seconda, che stiamo vivendo?

«Dal tracollo della finanza alle migrazioni di massa, dalle macchine digitali che distruggono il ceto medio rubandogli il lavoro alle nuove guerre «coloniali», alla rete che mina le basi della democrazia: Le tre profezie è solo l’ultimo capitolo di una lunga ricerca».

Lei rivendica, quasi con pignoleria, questo percorso intellettuale.

«Mi rendo conto che molti hanno capito un bene un singolo frammento di questo complicato processo, e altri ne hanno intuito un esito».

E invece?

«Per avere una visione di insieme di cosa ha rappresentato la globalizzazione era necessario combinare economia e diritto, esperienza professionale e civile, testimonianza diretta e lavoro di analisi».

Sta parlando anche di sé. Ma lei per vent’anni è stato più che testimone, un protagonista che ha partecipato direttamente ai grandi vertici internazionali.

«(Sguardo. Pausa. Battuta folgorante Tremontiana). Sì, sì, lo so. Ogni volta devo rispondere a una domanda che in anglosassone suona più o meno così: «Ma tu dove cavolo eri?»».

Non osavo essere così prosaico.

«Invece capisco il dubbio, e voglio rispondere. Quando ti trovi in prima linea hai il dovere di dire e scrivere quello che pensi. Ma non hai il potere di determinare un cambiamento nella storia. Non da ministro. Forse lo si può fare da premier».

Non si può imporre il cambiamento anche da una posizione così importante?

«La paura e la speranza fu tradotto in Giappone, addirittura a mia insaputa. E quella edizione era accompagnata da una prefazione del governatore della Banca centrale giapponese che scrisse: «Tremonti queste cose nei vertici le diceva». Non era una attenuante, ma un fatto».

Se è per questo lei è finito anche in un «cable» del 2008 di Wikileaks, con questa presentazione: «Tremonti ha sempre espresso forti dubbi in merito ai benefici della globalizzazione, e ha una filosofia economica eclettica».

«Devo dire che in questa sintesi io mi riconosco. Potrei aggiungere che il fondo Salva-Stati è una proposta italiana, mia, non certo dei miei colleghi. Potrei parlare degli Eurobond... qui però non mi interessano gli obiettivi che ho raggiunto o meno da politico, ma il filo di questa ricerca».

Anche Mundus Furiosus, partiva da quel titolo di Giansenio del 1596, per parlare degli scenari contemporanei.

«È uscito nel 2016, ma già prevede la fine politica della globalizzazione: non c’erano state ancora la vittoria di Donald Trump e quella del No nel referendum sulla Brexit!»

Prima di passare alle Tre profezie parliamo di cattedrali?

«Nel libro spiego che la globalizzazione è stata presentata al mondo come una grande e luminosa cattedrale».

Nel tempo di Notre-Dame in fiamme è un simbolo inquietante.

«Ho trovato incredibile che in questi giorni si parli di Notre-Dame definendolo «un sito visitato da 13 milioni di turisti». Non di credenti, di fedeli, o di viaggiatori. Ma di «turisti», come se si trattasse di un itinerario per guide e non di un monumento alla spiritualità e alla radici cristiane d’Europa».

La cosa la infastidisce?

«Lei sa come erano posizionate le cattedrali medievali? Da est ovest per raccogliere l’alba e il tramonto. Erano concepite architettonicamente, dal basso, il luogo del buio, verso l’alto, il luogo della luce: per poter accompagnare l’ascensione dell’uomo verso Dio».

Quindi la cattedrale della globalizzazione è stato un inganno?

«Doveva essere il tempio dell’uomo nuovo e del mondo nuovo, un radicale reset della storia. È durato vent’anni. Adesso la navata sta crollando».

Perché?

«In questo periodo si è pensato al mercato sicut deus, come Dio».

Una guerra combattuta senza armi, con gli spread e con la finanza?

«È stato un tempo di Magia applicata all’economia. Avevano pronosticato la Fine della geografia e la Fine della storia, ci hanno regalato una corte di tribuni, ciarlatani, imbonitori, di novelli cagliostri con l’algoritmo, di predicatori...»

Lei parla quasi con disprezzo di coloro che sono stati gli entusiasti della globalizzazione.

«Una folla che mentre la finanza arriva ovunque e le macchine ci rubano lavoro e pensiero proseguendo la loro marcia trionfale verso la sostituzione dell’uomo».

Lei dice che il nuovo imperatore del mondo è Creso.

«Per la prima volta nella storia Creso, ovvero il denaro, ha battuto l’imperatore, diventando egli stesso imperatore: i simboli e gli strumenti del denaro hanno sostituito quelli della politica».

È un Giulio Tremonti che non mi aspetto, quello che intervisto nel suo studio professionale di via della Scrofa a Roma. Apparentemente lo stesso di sempre: elegante, ironico, a tratti persino divertito dalla cronaca. Ma quando esce dai panni dell’avvocato, dell’ex ministro e dell’ex senatore per iniziare a parlare del suo libro diventa pacatamente apocalittico, e descrive un mondo in guerra, in cui la cattedrale della globalizzazione in fiamme produce miserie rovina. Le tre profezie (Solferino, 172 pagine., 16 euro) parla di questo.

Lei nelle prime pagine se la prende con gli «illuminati» che hanno progettato la globalizzazione.

«Sì, perché non si è trattato di un evento spontaneo. Ma di un processo pianificato e diretto da un gruppo di pensatori, politici, finanzieri e accademici».

E chi erano?

«Un misto fra un’oligarchia, una setta e un comitato d’affari».

Hanno svegliato una belva?

«Si erano illusi che il congegno mercatista potesse funzionare. Solo alla fine qualcuno aveva parlato dei rischi dei «subprime», ma nessuno immaginava che la cattedrale potesse venire giù per dei mutui. Vedevano gli effetti ma non avevano capito le cause».

Ricostruiamo la sequenza storica.

«Nel 1989 cade il Muro di Berlino. Nel 1992 c’è Maastricht. Nel 1994 si fa il Wto. E nel 1996 la presidenza Clinton inventa la finanza globale».

Cioè?

«Abroga la legge di Roosvelt che impediva alle banche che raccoglievano i risparmi di speculare, i derivati cessano di essere considerati strumenti assicurativi per diventare speculativi, chi specula non rischia più con il suo patrimoniale personale».

E poi?

«Nel 2001 la Cina entra nel Wto. La crisi inizia nel 2008. Tutto inizia e finisce in un pugno di anni».

Chi guida questo processo?

«Lo capii da avvocato, proprio osservando come cambiano le leggi. Vidi politici di sinistra entrare nelle sale cambi in ginocchio. E non erano casi isolati».

Cioè?

«Cresceva il potere del denaro e scendeva quello della politica. Alla fine non solo i politici cedevano ai finanzieri, ma volevano diventarlo essi stessi: le sliding doors di queste carriere hanno fatto il resto».

Comincia con Margaret Thatcher e con Ronald Reagan?

«Niente affatto: era un altro mondo in cui la politica contava tantissimo. La Thatcher era una sovranista assoluta, pensi alla guerra della Falklands. È stata piuttosto una combinazione di ideologie di fede diversa, di interessi diversi fuse in una nuova religione».

Si è rotto il meccanismo del consenso?

«La crisi, prima finanziaria e poi economica, ha posto termine alla fede nella nuova religione. Gli sciamani non garantiscono più la pioggia e il raccolto».

Quando inizia il crollo della cattedrale globale?

«Quando la crisi di manifesta, nel 2008, il mondo che era globale per un istante diventa super globale. Il G20 per due anni gestisce la crisi, primo caso di governo mondiale della storia. Tra Washington e Londra sembra che si possa aprire una nuova stagione».

Lei propone il Global legal standard.

«Ed è la prima volta che viene accolto e votato la proposta italiana di un trattato mondiale. Poi i protagonisti si dividono, i controlli saltano, e la costruzione vacilla».

Cos’altro salta?

«Il problema sono le élite. I popoli hanno fiducia nei governi finché i governi intercettano i sentimenti dei popoli, ma se l’Europa diventa burocrazia e globalizzazione chi può riconoscercisi? L’Europa è entrata nelle vite della gente in modo invasivo producendo regole su tutto».

Sta parlando di populismo?

«Lo sto spiegando. Se lei entra in un bar e dice: «Vorrei più Europa, quindi piu Unione bancaria» non va a finire bene».

Direi di sì.

«Ma se entri in quel bar e spieghi che vuoi più Europa perché serve un esercito comune per difendersi dalle nuove minacce la stanno a sentire».

È questa la ricetta?

«Un primo passo. Io introdurrei la componente militare e ridurrei le funzioni della macchina burocratica. Ha provato a confrontare le foto dei vertici?»

Quali?

«La foto di Roma del 1957 è in bianco e nero ma è una foto di uomini. Che puoi vedere, capire, indagare nei volti e nelle espressioni».

Con quale vertice la vuole paragonare?

«Uno qualsiasi degli ultimi anni. Sono a colori, in campo largo, una folla di manichini, animati solo per un pic-nic!»

Parliamo dei tre profeti.

«Marx e Goethe non avevano un iPad, ma avevano premonizione del futuro. Marx intuisce per primo l’età dell’interdipendenza, cioè la globalizzazione. E prevede gli stregoni».

Lei cita la «vecchia talpa» del 18 Brumaio.

«Sì, perché la talpa populista si è sostituita a quella rivoluzionaria e ha scavato sotto la cattedrale facendo crollare il nuovo tempio».

Di che culto?

«Quello della nuova religione globale di cui parliamo: pagano, monoteista, totalitario e prodigioso: il divino mercato».

«La seconda profezia» è il Faust di Goethe, che secondo lei prefigura e spiega addirittura la rete.

«Mefistofele ruba l’anima a Faust per regalargli un modo «organico». Un ibrido tra realtà e fantasia pervasivo e avvolgente. E cosa c’è di più vicino alla dimensione virtuale della rete?»

È un mondo che porta alla dannazione, quello faustiano.

«Nel libro scrivo che bisogna guardarsi dai sette vizi digitali che ci minacciano, a partire dall’illusione che le macchine ci liberino dal lavoro e ci portino in un nuovo Eden».

E come ci si può salvare?

«Solo evitando che l’abbaglio della tecnologia ci faccia perdere il nostro umanesimo, proiettandoci in un futuro post-umano».

La «terza profezia» è Leopardi.

«Leopardi è il giusto mezzo. Ha per primo l’intuizione della crisi delle civiltà cosmopolite».

Lei cita lo Zibaldone.

«Il cosmopolitismo come il senso di appartenenza all’intero, che viene meno».

Qui conviene citare Leopardi in modo testuale.

««Quando Roma fu lo stesso che il mondo, i cittadini romani avendo per patria il mondo non ebbero nessuna patria e lo mostrarono con il fatto». Non è il rischio che corriamo anche noi?»

La profezia è sulla debolezza di chi perde identità.

«E non solo. Leopardi racconta la crisi di una civiltà globale come la nostra, ma prevede anche la caduta della Maastricht del suo tempo: che era l’ordine del Congresso di Vienna».

Dopo tanto pessimismo servirebbe un barlume di ottimismo sulle classi dirigenti.

«(Sospiro). Qualche tempo fa sono stato invitato a parlare in un convegno sulle classi dirigenti».

Cosa c’entra?

«I partecipanti sono stati invitati a una visita a un museo del Risorgimento».

Era in Veneto.

«Sì. La galleria si apriva con un grande quadro che raffigurava l’esplosione del forte di Marghera».

E qui si arriva al suo avo.

«Aveva preso parte alla Repubblica di Venezia, con Daniele Manin, e aveva combattuto contro l’ordine di Vienna, partecipando a quell’attentato».

Ovvero uno dei più importanti avamposto austro-ungarici in Italia.

«Era nella guardia civica. Ma gli austriaci lo condannarono come terrorista».

E cosa gli accadde?

«Dovette andarsene per due anni a Parigi, da latitante, e poté tornare solo con l’amnistia di Josef Radetzky».

Storia bellissima, ma cosa c’entra con quel convegno?

«Ho chiesto a loro: secondo voi questo mio avo può essere considerato classe dirigente? Giro la stessa domanda a voi»

·         Come parla la politica.

COME PARLA LA POLITICA. Da Matteo Salvini a Donald Trump così la nuova lingua del potere mescola realtà e verità

Violenta, volgare, elementare. Con toni autoritari e frasi semplificate. Ecco perché la comunicazione cambia codici. Pier Aldo Rovatti  il 30 ottobre 2019 su L'Espresso. Non c’è bisogno di chiamare in causa la filosofia per rendersi conto che si sta diffondendo una lingua del potere la cui caratteristica è quella di mescolare realtà e verità. Una miscela abbastanza inedita, dove certo la parola “menzogna” è di casa, ma non è sufficiente per farci capire quali siano il luogo e il senso della “verità”. Occorre innanzi tutto osservare come questa lingua funzioni sulla bocca dei grandi “ego” che oggi impersonano il potere politico. Prendiamo i due esempi che ciascuno di noi ormai conosce bene: Donald Trump come esempio globale e Matteo Salvini come caso locale. Su Trump abbiamo ora a disposizione anche l’acuta cronaca di una traduttrice professionale (Bérengère Viennot, “La lingua di Trump”, Einaudi), dalla quale possiamo ricavare molte informazioni, e cioè che il potente (l’“egosauro”, come potremmo chiamarlo) costruisce un “sistema di verità parallele” e riesce a imporlo a chi l’ascolta. C’è chi si è preso la briga di contare quante volte Trump ha concluso con un «Credetemi» affermazioni pubbliche in cui enunciava cose palesemente contrastanti con le idee a lui del tutto abituali tipo «Non sono sessista» o «Non sono mai stato razzista». Quel «Credetemi» avrebbe  dunque il potere di istituire una verità parallela rispetto alla verità comunemente circolante sulla base dei fatti. Un’“altra verità” e al tempo stesso un’“altra realtà” che essa rispecchierebbe.

Tra due litiganti “asfaltare” è d’obbligo. E non è una bella notizia. Scompare la discussione, il confronto, la possibilità di scegliere tra due opinioni prima di farsi un’idea. C’è solo un vincitore e un vinto. E l’umiliazione, vera o presunta, dell’interlocutore, sta diventando l’unico obiettivo del discorso politico. Dino Amenduni il 24 ottobre 2019 su L'Espresso. Per tanto tempo l’asfalto è stato un emblema iconico del progresso, e in certi casi lo è ancora: una strada che passa dalla terra al bitume rappresenta spesso il passaggio dall’isolamento all’arrivo delle persone, e in alcuni casi dei capitali. Più di recente, il significato della parola ha perso il suo portato universalmente positivo: l’asfalto rimanda all’eccesso di auto, di camion, di inquinamento, di consumo di suolo, di grande opera non sempre utile. Oggi l’asfalto conosce una nuova ondata di popolarità, e non è una buona notizia. In verità il sostantivo sta lasciando spazio, in quanto a frequenza di utilizzo, al verbo: si è passati dalle distese di asfalto del secondo dopoguerra agli abusi della parola “asfaltare” della presunta Terza Repubblica. Basta dare un’occhiata alla grande quantità di video su Youtube o di post su Facebook in cui la discussione politica è ridotta al titolo “X asfalta Y”: non c’è il confronto, la messa in evidenza di posizioni diverse, la possibilità di scegliere tra due opinioni prima di farsi un’idea. C’è solo un vincitore e un vinto, una lotta a somma a zero, un match di pugilato, e non un’occasione di arricchimento per gli elettori. Questa febbre è ormai universale: il verbo “asfaltare” è usato dai giornalisti, dai politici e (tendenza ancor più grave) dalle frange più acritiche dei loro sostenitori. In alcuni casi - lo abbiamo visto di recente durante il dibattito tv tra Renzi e Salvini - c’è stata anche una specie di gara delle rispettive claque digitali a produrre il maggior numero di evidenze digitali al fine di dimostrare le capacità del proprio beniamino di asfaltare l’interlocutore. Se questa è la misura del successo, sarà inevitabile la china: l’avversario sarà sempre più percepito come un nemico, il diverso da sé sempre più come qualcuno da spingere in un angolo. L’umiliazione, vera o presunta, dell’interlocutore, sta diventando davvero l’unico obiettivo del discorso politico? Il sospetto c’è, e non riguarda solo l’Italia. Nella puntata più riuscita di “The Politician”, serie da poco disponibile su Netflix, un giovane elettore indeciso si ritrova (letteralmente) in mezzo a una discussione feroce tra due candidati alla presidenza del comitato scolastico di un liceo californiano. Alla fine l’indeciso decide di non votare «perché tanto non cambia mai niente». Lo scambio di accuse tra politici inconcludenti non aiuta di certo a cambiare idea sull’inutilità della politica, la conta di quanti cazzotti sono arrivati al volto dell’avversario nemmeno. Forse l’asfalto è più utile a costruire strade che a distruggere ponti.

I politici piacioni sono la rovina di questo paese: dateci un leader antipatico. Il paese richiede cure impegnative, molto lontane dal racconto sorridente e accattivante che fanno i vari capetti di partito. Marco Follini il 29 ottobre 2019. È scomparsa la zitella, dal quadretto familiare della politica italiana. Quella signorina un po’ attempata, non troppo felice di sé, non proprio di buonissimo umore, e tuttavia capace di distillare rimbrotti e consigli che con il tempo si sarebbero rivelati di una certa utilità. Una volta la zitella ci avrebbe ammonito a non spendere risorse che non avevamo, a non litigare più di tanto, a non fare promesse che non si sarebbero potute mantenere e via sermoneggiando. Il tutto con una sorta di accigliata disapprovazione verso i costumi più disinvolti dei parenti, pronti invece a scialacquare il proprio denaro (meglio ancora, quello altrui) in cambio dell’effimero entusiasmo della propria traballante base elettorale. Ora, pensare che la politica possa assumere con disinvoltura posture impopolari suona più che ingenuo. Tanto più al tempo del populismo. Ma il fatto che sia scomparsa dal nostro panorama pubblico ogni e qualunque voce che sappia evocare la pochezza delle risorse, la durezza dei compiti e la fatica dell’azione di governo fa capire quanto si sia impoverita la cultura civile del paese. Non è tanto il tramonto dell’idea di sacrificio, che ovviamente non può piacere a nessuno. Semmai, è la scomparsa dell’idea di investimento, del prezzo che si paga oggi per trarne un beneficio l’indomani. Un’idea che era connaturata a culture politiche che sapevano guardare un po’ più avanti perché erano figlie di una storia e alla storia avrebbero finito per rispondere. Le “prossime generazioni”, per l’appunto. Si dirà che questo andazzo non è proprio nuovissimo. E che fin dai tempi di fondazione della Seconda Repubblica l’ottimismo più immediato e affrettato è apparso come il requisito fondamentale del ceto di governo. L’elogio delle domeniche a piedi ai tempi, causa embargo petrolifero, all’epoca del governo Rumor, o l’opposizione tenacemente riservata da Ugo La Malfa all’avvento della televisione a colori, appaiono come esempi di una cultura di governo che sembrava trattenere il paese e frenare il suo percorso verso una scintillante modernità. E infatti, anche allora i partiti di massa avevano l’accortezza di indicare obiettivi di sviluppo più arditi e meno rassegnati. Adesso, però, siamo finiti per così dire all’estremo opposto. E non c’è più occasione che venga trascurata per offrire al proprio elettorato la prospettiva di un futuro immaginifico, tutto rose e fiori, privo di ogni severità. Un futuro piuttosto improbabile, che qualunque zitella d’altri tempi avrebbe fustigato con tutta la doverosa riprovazione del caso. Così, in attesa che venga negato agli anziani il diritto di voto (proposta Grillo), si finisce per negare loro anche il diritto al rimbrotto, alla predica, all’ammonimento. Come a dire che la politica può solo dispensare ottimismo, e sorrisi, in virtù delle sorti magnifiche e progressive che la accompagnano. Cosa che ovviamente farebbe anche piacere. A patto di trovare poi un minimo - solo un minimo- di corrispondenza tra i proclami e la realtà. Il fatto è che ci stiamo avvitando in una spirale assai pericolosa. Poiché l’economia richiede cure impegnative che mal si conciliano con il racconto che ne viene fatto. E la politica invece si nutre sempre più di narrazioni immaginifiche che non trovano riscontro nella vita vissuta delle persone. Così, si mette al bando Cassandra, fino a quando non si dovrà cercare una spiegazione nel vedere le mura di Troia divelte e in fiamme. Insomma, servirebbe recuperare il valore dell’antipatia, dato che il tentativo di rendersi simpatici a ogni costo sembra nascondere un tratto di falsità. Un tratto peraltro sempre più evidente, e forse anche, a questo punto, assai meno simpatico e accattivante di quanto non si pensi.

·         In principio c’era la tribuna politica.

Massimo Rebotti per il “Corriere della sera” il 13 Novembre 2019. Non è il primo politico che viene «remixato» e non sarà l' ultimo, ma Io sono Giorgia , montaggio rap del comizio che la leader di Fratelli d' Italia tenne in piazza San Giovanni a Roma il 19 ottobre, veleggia verso i 5 milioni di visualizzazioni ed è destinato a diventare, a suo modo, un caso di scuola. Se del brano parlano le trasmissioni tv generaliste - da Che tempo che fa alle Iene - ma viene suonato anche da cantanti «alternativi», come la milanese Miss Keta, significa che il tormentone ha travalicato qualsiasi «bolla», per diventare trasversale a ogni età e a ogni pubblico. Ricapitolando: il comizio di Giorgia Meloni di quel sabato romano - sarà per la verve , sarà per i contenuti - è da subito molto condiviso sul web. Per un meccanismo classico della rete, viene sminuzzato, rimontato, rilanciato, fino a quando arriva la «genialata» di due dj ventenni che trovano la «base giusta»: e il rap decolla. L' intento dei due - come hanno raccontato al Corriere - era critico: «Tutto avremmo voluto tranne che diventasse un inno per lei». E infatti il remix - che trasforma il discorso della leader di destra in un pronunciamento a favore delle comunità gay - all'inizio circola in ambienti web lontanissimi dalle sue idee. L' efficacia del brano e la prontezza di Meloni ad accogliere l' onda imprevista di popolarità, trasformano l' intento critico in una involontaria (ma impetuosa) operazione simpatia. Per Meloni non è la prima volta: un suo bellicoso discorso contro una nave delle ong che trasportava migranti - «O l' Olanda mi dice che sta facendo un atto ostile contro di noi, o l'Olanda mi dice che non riconosce la Sea Watch e allora si fanno sbarcare queste persone e la nave si affonda» - viene riprodotto in forma di samba e diventa a Propaganda live su La7 un ritmatissimo Ollolanda . Anche qui l' intento è inizialmente critico - si punta al contrasto stridente tra musica ballabile e contenuti veementi - ma la leader sta al gioco e, come per Io sono Giorgia , si confeziona pure una maglietta a tema. «La politica di oggi si presta ampiamente a questo incontro con le nuove forme di cultura popolare: i video, i remix, i meme» dice Edoardo Novelli, docente di Comunicazione politica e sociologia dei media all' università Roma Tre. «I politici - aggiunge- hanno ormai compreso che diventare protagonisti di questi tormentoni gli permette di entrare in contatto con pubblici che altrimenti non incontrerebbero mai». Per questo, probabilmente, Matteo Salvini non se la prese quando remixarono come un ipnotico rap un suo comizio contro «l' invasione dei clandestini»; e nemmeno Matteo Renzi fece una piega quando un suo discorso, in un inglese un po' acrobatico, fu utilizzato per creare Shish is the world, presa in giro su travolgente base surf rock anni Sessanta. Volendo vedere, il meccanismo di «rigirare» a proprio vantaggio uno sberleffo, per i politici non è una novità: «Quando per le elezioni del 2001 - ricorda Novelli - Berlusconi lanciò lo slogan "meno tasse per tutti", le parodie fiorirono: "Meno tasse per Totti", "Meno tasse per Titti". A un certo punto lo stesso Berlusconi indisse un concorso per la più originale...». I remix di oggi, comunque, sono solo un aspetto di un campo più vasto che riguarda i canali, anche i più insoliti, che prende la comunicazione politica sul web. L' equipe di Novelli ha curato per il Parlamento Ue una ricerca sulla campagna elettorale delle ultime Europee da cui è emerso che l' Italia è in testa (con Lega e M5S a farla da padroni) per quantità di materiale rilanciato in rete. «I partiti sovranisti e populisti - spiega - sono di gran lunga quelli che producono di più: sia contenuti propri sia rimaneggiando contenuti di altri». Notizia di ieri: il leader della Lega Salvini è il primo politico italiano ad aprire un profilo su Tik Tok, la app più usata dai ragazzini.

«Io sono Giorgia», sorpresi gli autori del tormentone: «Per lei è diventato un inno, non volevamo». Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 da Corriere.it. «Tutto avremmo voluto fuorché diventasse una sigla per la Meloni». Così MEM & J commentano il successo della loro hit «Io sono Giorgia», che nel giro di due settimane è diventata un vero e proprio tormentone da oltre 4 milioni di visualizzazioni sul web. I due dj milanesi, 27 e 24 anni, preferiscono rimanere anonimi: da tre anni producono musica trash, da ridere, ma in questo caso con un risvolto anche sociale e politico. «Com’è nata l’idea? Il video di Giorgia Meloni al comizio in piazza San Giovanni a Roma del 19 ottobre era già tristemente virale per quello che diceva: noi abbiamo voluto girarlo in chiave ironica e trasformarlo in un discorso a favore della comunità Lgbt. Adesso questa cosa si è persa, tanto la leader di Fratelli d’Italia lo ha rigirato a suo favore: però, d’altronde, fa parte del gioco. Comunque, il pubblico ha capito che volevamo prenderla per i fondelli». Oltre alla questione politica, hanno scelto lei anche perché «è una brava comunicatrice, ha un tono di voce energico e cadenzato: “Io sono Giorgia” ricorda l’urlo delle vocalist in discoteca che incitano il pubblico ad alzare le mani!». Il tormentone è stato realizzato nel giro di un’ora, su una base musicale creata apposta da MEM & J: «Lo abbiamo fatto sentire per la prima volta alle 2.30 di sabato 26 ottobre al Toilet, club gay friendly dove siamo di casa, e contemporaneamente lo abbiamo pubblicato su Youtube». Il resto è storia: il video diventa virale, nascono meme, remix e nuove versioni, da Myss Keta a Luciana Littizzetto, al grido di «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana», alimentando il tam tam. E anche il successo di MEM & J. «Non ce lo aspettavamo», commentano i dj, già richiestissimi per serate in giro per l’Italia: «Se inviteremo la Meloni? Non in discoteca, ma magari a bere un caffè per parlare e confrontarsi, perché no. Sicuramente “Io sono Giorgia” sarà l’inno del prossimo Gay Pride», concludono.

Salvini- Renzi, se il loro match riporta il dibattito di moda. Ma sono tanti gli scontri “memorabili”. Pubblicato giovedì, 17 ottobre 2019 da Corriere.it. In principio c’era la tribuna politica. Con la tv di Stato, e un solo canale, i leader che si presentavano agli elettori avevano il proprio spazio, e i confronti diretti non esistevano. Poi arrivò «Braccio di ferro»: alla trasmissione condotta nel 1994 da Enrico Mentana, dopo molte indecisioni, parteciparono Silvio Berlusconi, che allora guidava il Polo della libertà, e Achille Occhetto, leader dell’Alleanza dei progressisti. Non fu un confronto molto vivace: tutti e due erano piuttosto testi e ingessati. Ma qualcuno disse che anche il vestito marrone di Occhetto, poco telegenico, avesse decretato la sua sconfitta. A distanza di tanti anni, il dibattito tra leader inn tv ha cambiato significato, modalità, interesse: ma resta ancora di moda, come dimostra quello andato in onda tra Matteo Salvini e Matteo Renzi.

Matteo contro Matteo: le lusinghe del salotto di Vespa. Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 su Corriere.it da Aldo Grasso. Renzi voleva rottamare il vecchio, ma ha sempre frequentato il salotto di Vespa. Non parliamo della Lega: nel concetto di Roma ladrona era compresa anche la Rai. Chi ha vinto nel duello televisivo fra Matteo Renzi e Matteo Salvini? Chi dei due ha messo in campo una migliore strategia comunicativa? Chi ha saputo compiacere maggiormente il proprio elettorato? Difficile trovare una risposta anche perché era un dibattito personale, fra due leader, uno show abbastanza indifferente alla situazione politica attuale, un duello di narrazioni e non di progetti di governo. Poteva essere uno scontro fra Amadeus e Carlo Conti, per capire chi dei due fosse più affascinante e popolare. Dunque, ancora una volta, il vero vincitore è stato Bruno Vespa. Complimenti! Quando è apparso sulla scena politica Renzi voleva rottamare il vecchio, ma ha sempre frequentato volentieri il salotto di Vespa. Non parliamo della Lega: nel concetto di Roma ladrona era compresa anche la Rai e i suoi più illustri rappresentanti, ma Salvini è stato ospite assiduo di Vespa. E i pentastellati? Mai e poi mai avrebbero messo piede in un salotto televisivo, meno che mai nel «terzo ramo del Parlamento», ma poi il loro leader carismatico, stufo dei vaffa, si è presentato con il cappello in mano da Vespa. Non c’è dubbio, mentre i duellanti cercano un format televisivo attraverso cui rappresentarsi soccombono al Format per eccellenza, quello che raffigura il Potere, inteso come la capacità di esercitare influenza sulla condotta degli altri esseri. «La natura del potere — osservava Thomas Hobbes nel Leviatano — è simile alla fama, che va aumentando man mano che avanza, o è anche simile al moto dei corpi pesanti, che acquistano tanta maggior velocità quanto più a lungo si muovono». Esiste una definizione migliore del salotto di Vespa? Porta a porta non è il Potere in senso stretto: è una traccia, è un segno, è un avvertimento, vuole sopravvivere a tutti, affinché nessuno gli sopravviva, come ci ha spiegato molto bene Elias Canetti. Per questo dura nel tempo ed è inscalfibile.

Veleni e battute fulminanti, Renzi e Salvini lottano come se fossero sui social (e il governo non esistesse). Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 da Corriere.it. «A chi mette le mani addosso alle donne... Zac». Dove quello «zac» - e questo Matteo Salvini riesce a farlo intendere solo quando è inquadrato - va interpretato alla luce delle forbici che sta mimando con l’indice e il medio della mano destra, e quindi della «castrazione chimica che abbiamo votato solo della Lega». Poco prima il leader della Lega aveva esclamato il suono «trac», accompagnandolo all’inequivocabile gesto che si fa dischiudendo quattro dita di una mano (pollice escluso) sul palmo della stessa, segno di un eufemistico «fregare». Lì parlava proprio del suo avversario, Renzi, abituato a fregare i compagni di strada, compreso l’arbitro del confronto Bruno Vespa, «le direbbe “Bruno stai sereno” e via da un’altra parte». «Questo non è Instagram», aveva tentato di spiegare il leader di Italia viva dopo aver dato per l’ennesima volta del bugiardo all’ex ministro dell’Interno, questa volta scandendo che «se cambiare idea fosse segno di intelligenza, lei, Salvini, avrebbe già vinto il premio Nobel per la fisica». In realtà, il confronto andato in scena ieri chez Vespa assomigliava, a tratti, a una disputa tra utenti di un social network. Con Renzi più calato nella parte di quello che ha studiato per benino ed è pronto a brandire l’arma del fact-checking; e Salvini a replicare un po’ impacciato, apparendo però maggiormente sintonizzato sulle attuali onde medie dell’elettorato. «Ha usato i 49 milioni sottratti dalla Lega per finanziare le sue campagne su Facebook?», chiedeva l’ex premier. E l’ex ministro, passando dal lei al tu: «Ma secondo te, se ci avessi tutti quei milioni, starei qui a discutere con te del Papeete?». Già, il Papeete. L’immagine del vicepremier in costume che sorseggia mojito invece di stare al Viminale è l’arma del primo attacco diretto alla persona, che parte da Renzi e arriva a Salvini. «Era segnato in missione, come se stesse lavorando». E quando il leader della Lega tenta di vestirli lui, i panni del fact-checker , il leader di Italia viva azzanna: «Oh, finalmente qualche numero, anche se Salvini ha chiesto l’aiuto da casa». In certi momenti, l’atmosfera che si respira negli studi Rai di via Teulada sembra quella di un film di fantascienza che disegna un futuro distopico. Conte viene praticamente ignorato dai contendenti, Di Maio evocato solo in qualche frangente, Zingaretti si guadagna l’unica menzione come governatore della Regione Lazio e non come segretario del Pd. Come se la realtà circostante del governo Pd-M5S non esistesse o fosse magicamente scomparsa. Che sia il futuro che immaginano i due leader per sé stessi, un ring dove gli altri scompaiono come per magia, è un dato acquisito. Fosse stata l’edizione sanremese del 2019, Renzi sarebbe il preparatissimo Mahmoood che vince la sfida grazie alla giuria di qualità, Salvini invece l’Ultimo (nel senso della popstar) che ancora eccita le masse. Non sarebbe disputa da social network seria senza il convitato di pietra che a un certo punto, come nella celeberrima scena di Vacanze di Natale, dice all’altro «levateje er vino». Si parla di turnover nella Pubblica amministrazione, Renzi dice che l’aveva iniziata a fare Tremonti, Salvini replica: «Ma sicuro che ci sia solo acqua nel bicchiere che hai davanti?». E l’altro a rispondere: «Fossi in lei non parlerei di alcol».

Giampiero Mughini per Dagospia il 16 ottobre 2019. Caro Dago, ti confesso che pur non essendo un consumatore spasmodico _ tutt’altro _ di talk politici, ieri sera ho visto con gran piacere il duello tra i due Mattei a “Porta a Porta”. E’ vero ahimè che in Italia non esiste un vero e maturo bipolarismo, uno schieramento che ha un’identità contro un altro schieramento che ha un’identità opposta, e che invece il pane della politica viene cotto in tre forni distinti e separati (5 Stelle, Lega, Pd) e addirittura in due sottoforni (Berlusca e il partito di Renzi). E tuttavia quello di ieri sera era una specie di duello bipolare, il Matteo Salvini ricco di formidabili pronostici elettorali a suo favore, e il Matteo Renzi che ai miei occhi continua a rappresentare il centro democratico, liberale, europeista, e cose così nelle quali si identifica un borghese repubblicano come il sottoscritto. La mappa politica in Italia non funziona così, ma ieri sera in casa del patron Bruno Vespa ha funzionato così. E naturalmente io sono felice che il Matteo da me prediletto abbia surclassato quell’altro Matteo, le cui uniche frecce al suo arco erano che lui vuole parare a tutti i costi gli sbarchi dei migranti clandestini e il suo vanto indefesso che 33 “italiani” su cento lo voterebbero, argomento quest’ultimo da due soldi e forse meno. Al contrario il Matteo quello buono parlava di conti pubblici da salvaguardare, di pensioni che non possono essere anticipate perché il costo sulla collettività è strabordante, di buoni rapporti con l’Europa il cui primo sintomo è l’abbassamento dello spread, di asili nido da offrire gratis specificando che chi lo ha già fatto sarà all’incontro della Leopolda. Argomenti sani, insomma, non blaterazioni da talk-show. Non vorrei mi fraintendeste, lo so che il Matteo da me prediletto tocca a stento il 5 per cento e che con quella cifra fai poco in una democrazia pluripartitica. Ci fai poco, sì ma qualcosa lo fai: ad esempio dire che è una puttanata la decisione di ridurre a 1000 euro l’uso massimo del contante. Comunque figurati se voglio fare propaganda per l’ex presidente del Consiglio. Quello che mi stupiscono sono i commenti al duello televisivo di ieri. Nei confronti di Renzi c’è un’antipatia diffusa che si taglia con l’accetta. Mi pare che alcuni commentatori si farebbero bruciare vivi anziché dire una parola a suo favore. Tu stesso, caro Dago, sei animato da un’avversione viscerale contro Renzi. E’ come se l’ex sindaco Firenze avesse compattato una massa enorme di antipatizzanti, e del resto è questa massa enorme di gente di destra e altrettanta di sinistra che buttò giù il pasticciatissimo referendum costituzionale da lui proposto. Che l’uomo abbia dei difetti e delle fisime è talmente evidente, non c’è da spenderci sopra una sola parola. Come ha scritto magnificamente Michele Salvati è un uomo che rifulge piuttosto nella “politics”, ossia nella lotta politica corpo a corpo, che non nelle “policies”, nell’elaborazione di politiche coerenti e credibili a medio termine. Tutto vero, ma che lui sia una delle poche risorse della nostra claudicante democrazia è semplicemente fuori discussione.

Salvini contro Renzi, Marcello Sorgi dalla Merlino: "Chi ha vinto, con largo vantaggio". Badilata a sorpresa. Libero Quotidiano il 16 Ottobre 2019. Il confronto a Porta a porta tra Matteo Salvini e Matteo Renzi "se l'è aggiudicato Renzi con largo vantaggio". La sentenza a sorpresa è di Marcello Sorgi, editorialista di spicco della Stampa, che in studio da Myrta Merlino a L'Aria che tira motiva così il suo giudizio: "Renzi è andato lì preparato, Salvini no". Secondo Sorgi il leader della Lega "cercava di rimediare in corso d'opera ma mi ha colpito il fatto che fosse impreparato". Di sicuro, il capo di Italia Viva e il Capitano hanno una cosa in comune, "Un elemento narcisistico nei due che supera quello di qualsiasi altro leader". Secondo Pietro Senaldi, direttore di Libero, alla fine però il vincitore è uno solo: "Bruno Vespa, che ha fatto il 25% di share".

Matteo Salvini contro Renzi, il video con tutti gli insulti a Porta a Porta. Libero Quotidiano il 17 Ottobre 2019. Il duello a Porta a Porta è ormai concluso da un giorno e mezzo, ma si continua a parlare di quanto accaduto da Bruno Vespa su Rai 1 tra Matteo Renzi e Matteo Salvini. A tornare alla carica, nella mattinata di giovedì, è il leader della Lega. Lo fa sui social, dove posta un video piuttosto emblematico, che mostra in modo abbastanza inequivocabile quale fosse l'atteggiamento del leader di Italia Viva nel corso del confronto televisivo. Già, perché Salvini posta una clip in cui raccoglie tutti gli insulti che gli ha rivolto Renzi, con tanto di conteggio. Alla fine, ne mette insieme addirittura 18. Sul video campeggia la scritta: "Le proposte di Renzi? Solo insulti". A corredo, Salvini ha aggiunto: "Ieri sera da Vespa si potevano fare due cose: offendere per un'ora o parlare agli Italiani per spiegare la propria idea di Italia".

Matteo Renzi, Lucio Presto lo ha "allenato" in vista del duello a Porta a Porta con Matteo Salvini. Libero Quotidiano il 16 Ottobre 2019. Si torna ancora al duello televisivo tra Matteo Renzi e Matteo Salvini, andato in scena nello studio di Porta a Porta martedì 15 ottobre, arbitro sul ring Bruno Vespa, padrone di casa a Rai 1. Si torna per svelare un dettaglio sul fu rottamatore, di cui dà conto Repubblica. Si parla della persona che lo ha "allenato" in vista del faccia a faccia col leader della Lega, ovvero Lucio Presta, nuovo guru della comunicazione renziana nonché ora vicinissimo all'ex premier, anche e soprattutto nelle giornate che lo hanno accompagnato al duello televisivo. Agente televisivo e del mondo dello spettacolo, tra i suoi assistiti Lucio Presta ha annoverato Paolo Bonolis, Lorella Cuccarini, Roberto Benigni, Michele Santoro e Paola Perego, con cui è sposato dal 2011. Alle amministrative del 2016, l'agente televisivo si era candidato come sindaco nella sua città natale, Cosenza, appoggiato dal Pd e da altre 16 liste (fu però costretto a ritirare la candidatura ad aprile per ragioni familiari). Sempre Repubblica ha dato conto di altri piccoli particolari che hanno preceduto la sfida televisiva. Per esempio su Salvini, che si è presentato mezz'ora prima del via alla registrazione, insieme al deputato e amico fraterno, Nicola Molteni, e ai responsabili della comunicazione, Matteo Pandini e Iva Garibaldi. Con lui anche il segretario particolare, Andrea Paganella. Renzi, al contrario, è arrivato con qualche minuto di ritardo rispetto a quanto stabilito, insieme a lui il fedelissimo Francesco Bonifazi, mentre il portavoce Marco Agnoletti già lo aspettava alla Rai. E, ovviamente, prima dell'apertura delle danze, si è manifestato anche l'allenatore, il guru: Lucio Presta.

Salvini contro Renzi a Porta a Porta, Antonio Noto: "Perché i duelli non servono a nulla". Libero Quotidiano il 16 Ottobre 2019. Il duello a Porta a Porta tra i due Mattei, Matteo Salvini contro Matteo Renzi, non ha portato a un vincitore assoluto, almeno all'apparenza. Per il sondaggista Antonio Noto, però, ad avere la meglio nello studio di Bruno Vespa è stato seppur di misura il leader di Italia Viva: "Matteo Renzi è stato capace di gestire il confronto, era più preparato, ha saputo mettere in difficoltà l'avversario nei suoi punti deboli". Diversamente Salvini "si è dimostrato impreparato a rispondere su quei temi che rappresentavano il suo tallone d'Achille e sui quali l'avversario ha scelto appunto di colpirlo". Poco importa però perché il sondaggista - all'Adnkronos - sostiene che i faccia a faccia non siano strumenti utili per far crescere il consenso: "È anche vero che nella storia italiana confronti come questo non spostano voti. Certo, sono passati tredici anni dall'ultimo duello televisivo tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi nel 2006, ma allora rilevammo che chi tifava Berlusconi disse che era andato meglio Berlusconi e chi tifava Prodi disse che era andato meglio Prodi. È passato tantissimo tempo, ma occorre aggiungere che le elezioni non sono dopodomani e quindi da questo punto di vista il confronto di ieri sera è ininfluente". 

Lettera di Maria Giovanna Maglie a Dagospia il 16 ottobre 2019. Caro Dago, Ero contraria all'idea di un confronto tra Matteo Renzi e Matteo Salvini in TV, perché pensavo che non ha senso che uno che ha più del 30% abbondantissimo si incontri con uno che si arrampica al 5, e il cui partito neo costituito viene vissuto come un'operazione di Palazzo da tutti. Mi dicevo che a rapporti di forza rovesciati il Matteo toscano non avrebbe mai accettato un confronto. Sostenevo che quello dei due in sofferenza di numeri e pure di argomenti, visti i fallimenti di quando ha governato, referendum napoleonico compreso, per compensare l'handicap avrebbe fatto il fenomeno agitandosi e magari insultando. Tutto rivelatosi vero. Eppure aveva ragione lui, Salvini, e avevano ragione i suoi consiglieri di comunicazione, che sono i migliori che si possano trovare sul mercato, perché proprio come in una serata altrettanto sgangherata, quella dalla d'Urso, la faccia, la voce, le espressioni mimiche, I movimenti del corpo e gli inevitabili cartelli con i numeri che Salvini ha proposto ieri sera non sono stati solo utili, sono stati utilissimi, una straordinaria contaminazione che fotografa una volta di più chi sta con gli italiani e chi sta con se stesso. Alla fine, il leader della Lega ha pure comunicato di essere pronto al prossimo confronto, quando vuole e dove vuole, con Giuseppi, cioè con uno che di voti proprio non ne ha e che senza voti fa per due volte il premier, in perfetto stile Fregoli. Popcorn e posti in prima fila. Certo, ha aiutato Salvini la concomitanza del dibattito con la manovra finanziaria più impopolare della storia del west. Tasse e manette, parola d'ordine 'evasione' invece che 'sviluppo', controllo poliziesco sul contante, balle clamorose sul "nero", abbattimento sul campo della flat tax esemplificata per le piccole partite IVA messe nel mirino, ecologia da strapazzo, e una bella stangata sul diesel come quella che ha fatto nascere i gilet gialli in Francia. Una roba così miserabile, che puzza così tanto di stagnazione e recessione, e pure in deficit, da costringere Renzi, che si sente il padrino di questo governo, a prenderne le distanze in sprezzo di qualunque contraddizione. Di fatto il rappresentante del nuovo, nato a suo dire per fermare la destra eversiva e dell'odio, ogni volta che ha parlato del nuovo, lo ha dovuto criticare. E il contante, e la Raggi... Di fronte a questa Caporetto l'evocazione del tentativo del governo passato di sfidare le regole più inique europee, di tornare a testa alta, di provare a esemplificare almeno un po' la vita quotidiana degli italiani, ricordato da Salvini, sembrava non solo una agenda politica, sembrava anche pietas nobilissima perché la condizione di molti richiede pietas oggi. È quella la differenza tra un partito di popolo e il partito della ZTL o dei banchieri. E l'evocazione della scelta di chiudere l'esperienza, rinunciando ai posti di governo, una volta appurato che non si andava più avanti in quel processo – invece del colpo di sole al Papeete o della tracotanza o del suicidio perfetto descritto tante volte negli ultimi due mesi – sembrava una scelta obbligata e necessaria per chi non voglia tirare a campare sulla pelle degli italiani. I presunti sgarbi all'Unione Europea, le richieste sugli sbarchi dei clandestini, il non voto a Ursula Von der Leyen, fatti passare per un dannoso irrigidimento che il nuovo governo avrebbe sanato?

Com'è che ha detto Renzi ieri sera con sussiego da grande tessitore?  "Io non volevo fare l'accordo con 5 stelle ma siccome che c’era di mezzo l'interesse del Paese, allora lo abbiamo fatto. Per tre motivi: il primo abbassare lo spread, secondo non aumentare l'Iva e terzo per tornare protagonisti in Europa. Non si fa la guerra a Francia e Germania per un like in piu'". Non per un like in più. Ci hanno preso a pesci in faccia a Malta, il capo della polizia deve ammettere che il 10% degli stranieri commette un reato su 3, la signora ministro dell'Interno fa appelli con la lacrimuccia all'Europa sorda, l'hotspot di Lampedusa è al collasso e sbarcano gloriosamente a Taranto le navi delle ong; sul deficit il solito ricatto perché vogliono l'Italia come la Grecia, e in più litigano furibondamente e non riescono a completare le nomine della Commissione. Ah, dimenticavo, a Erdogan gli immigrati l'Europa li ha comprati a peso d'oro, a botte di miliardi di euro, roba da risanare un pezzo d'Africa, e ora se lo critichi, minaccia di scaricarceli tutti addosso. Al cattivone Putin invece embargo e sanzioni, e sopraccigli sollevati, gomitate allusive sul perché la Lega fosse invece dell'idea di togliere quelle sanzioni. Peccato che mentre noi al sultano Erdogan continuiamo a vendere armi stracciandoci contemporaneamente le vesti per le sorti del popolo curdo, l'unico che stia difendendo i curdi, mandando ad Ankara dei segnali molto chiari e minacciosi, sia proprio il cattivone di Mosca. 

Chi aveva ragione? La verità? Idee per il futuro zero, e per il passato, di Renzi ricordiamo una riforma costituzionale per fortuna fallita che avrebbe eliminato qualunque camera di compensazione, e probabilmente dato il potere assoluto ai 5 stelle, una riforma del lavoro mediocre, un esercito di nuovi asfittici insegnanti pubblici, una mancia di €80 e un canone RAI odiato da pagare in bolletta. Alla fine nel confronto tv di ieri era Salvini soltanto a parlare di futuro anche se sta all'opposizione e all'altro non è rimasto che l'insulto personale, il mojito, il papeete, i 49 milioni, i 65 milioni, tutte miserabili accusette personali non dimostrate e non dimostrabili, una roba che assomiglia al Russiagate ed all' impeachment eterno e mai realizzato di Trump, e alle quali Salvini ha scelto di non rispondere mai né con Banca Etruria, né con la Boschi, né con i genitori di Renzi condannati, né con molti collaboratori a processo. Nemmeno contestando frasi famose come quella del 2014: Mai al governo senza passare dalle urne, o quella del 2016: Se perdo il referendum lascio la politica.

Su un altro canale TV Rai quasi contemporaneamente davano i risultati dell'ultimo sondaggio. Cito dal Fatto quotidiano: "Il Pd tocca i minimi dall’inizio di settembre. Il M5s per la prima volta va sotto al 20 per cento dalla nascita del governo. Insieme le due principali forze di maggioranza, stanche, sono cadute di oltre 5 punti rispetto al 3 settembre. E dall’altra parte, dopo un periodo di rallentamento, la Lega rilancia il suo primato oltre il 30 per cento e tutta insieme la coalizione del centrodestra è cresciuta di due punti in un mese e mezzo. Sono questi i risultati in sintesi del sondaggio di Ixè per Cartabianca, su Rai3. Un quadro, sottolinea l’istituto diretto da Roberto Weber, che “si rifletterà probabilmente sulle imminenti elezioni regionali“, a partire da quelle in Umbria, l’ultima domenica di ottobre. “I dati trovano conferma nei giudizi sulla manovra economica accolta con molta tiepidezza dall’opinione pubblica – spiegano ancora da Ixè – scontando probabilmente un deficit di radicalità; colpisce che lo scarso entusiasmo contagia sia l’elettorato del Pd che quello del M5s”. Perciò non risponderò alla domanda su chi abbia vinto il confronto TV tra Matteo Salvini e Matteo Renzi, non c'è storia tra er cavaliere bianco e er cavaliere nero.

Aldo Grasso per il “Corriere della sera” il 17 ottobre 2019. Chi ha vinto nel duello televisivo fra Matteo Renzi e Matteo Salvini? Chi dei due ha messo in campo una migliore strategia comunicativa? Chi ha saputo compiacere maggiormente il proprio elettorato? Difficile trovare una risposta anche perché era un dibattito personale, fra due leader, uno show abbastanza indifferente alla situazione politica attuale, un duello di narrazioni e non di progetti di governo. Poteva essere uno scontro fra Amadeus e Carlo Conti, per capire chi dei due fosse più affascinante e popolare. Dunque, ancora una volta, il vero vincitore è stato Bruno Vespa. Complimenti! Quando è apparso sulla scena politica Renzi voleva rottamare il vecchio, ma ha sempre frequentato volentieri il salotto di Vespa. Non parliamo della Lega: nel concetto di Roma ladrona era compresa anche la Rai e i suoi più illustri rappresentanti, ma Salvini è stato ospite assiduo di Vespa. E i pentastellati? Mai e poi mai avrebbero messo piede in un salotto televisivo, meno che mai nel «terzo ramo del Parlamento», ma poi il loro leader carismatico, stufo dei vaffa, si è presentato con il cappello in mano da Vespa. Non c'è dubbio, mentre i duellanti cercano un format televisivo attraverso cui rappresentarsi soccombono al Format per eccellenza, quello che raffigura il Potere, inteso come la capacità di esercitare influenza sulla condotta degli altri esseri. «La natura del potere - osservava Thomas Hobbes nel Leviatano - è simile alla fama, che va aumentando man mano che avanza, o è anche simile al moto dei corpi pesanti, che acquistano tanta maggior velocità quanto più a lungo si muovono». Esiste una definizione migliore del salotto di Vespa? Porta a porta non è il Potere in senso stretto: è una traccia, è un segno, è un avvertimento: vuole sopravvivere a tutti, affinché nessuno gli sopravviva, come ci ha spiegato molto bene Elias Canetti. Per questo dura nel tempo ed è inscalfibile.

Renzi contro Salvini a Porta a Porta, Enrico Mentana: "Nessuna invidia, io voglio una sfida vera". Libero Quotidiano il 17 Ottobre 2019. "Nessuna invidia per il confronto Salvini-Renzi da Vespa". Parola di Enrico Mentana che commenta il duello a Porta a Porta tra i due leader: "Di confronti tv ne abbiamo fatti tanti sia io che Bruno. E poi ho dovuto rivedere persino nella riproduzione scenica il mio Berlusconi-Occhetto di 25 anni fa... Avevo 14 anni la prima volta che vidi Vespa in televisione, posso invidiarlo?". E ancora il direttore del tg La7: "Mi piacerebbe una sfida vera, questa è stata una splendida amichevole che Vespa ha arbitrato benissimo ma i match che contano sono quelli che si fanno in campagna elettorale per la leadership: o vinci tu o vinco io. Quelli non ci sono da 13 anni, anche perché un po' non c'è più il maggioritario. Un bel match sarebbe Conte contro Salvini o Zingaretti contro Di Maio. Cercando di avere delle figure che pesano più o meno uguale e che ambiscono più o meno alla stessa cosa". 

Matteo Salvini, il retroscena: "Giuseppe Conte in tv contro di lui? Matteo Salvini lo sfonda". Libero Quotidiano il 18 Ottobre 2019. È la settimana dei confronti televisivi. O meglio, del confronto televisivo: quello tra Matteo Salvini e Matteo Renzi che si è consumato martedì sera a Porta a Porta, arbitro su Rai 1 Bruno Vespa. Un duello tv che, in qualche misura, è al centro del retroscena tratteggiato da Augusto Minzolini su Il Giornale. Un lungo articolo in cui vengono narrate la manovre del "democristiano" Giuseppe Conte, impegnato a fare scouting tra i banchi di Forza Italia, obiettivo liberare la maggioranza M5s-Pd dal potere di veto che Renzi può esercitare creandosi una sorta di gruppetto parlamentare. Ad oggi, infatti, Italia Viva ha i numeri per far crollare il governo quando e come vuole. E il duello tv torna al centro del retroscena perché Renzi, secondo quanto riportato da Minzolini, commentando le manovre in salsa azzurra di Conte, si sarebbe lasciato andare con i suoi. Parole pesantissime, quelle dell'ex rottamatore: "Conte così disegna la sua morte - premette riferendosi agli abboccamenti con Forza Italia -. E determina l'avvento di un altro governo. Se lui diventa il capo di un gruppetto (con i forzisti, ndr), come me, si mette a mio pari. E in tv Matteo Salvini lo sfonda", conclude Renzi. Già, "Salvini in tv lo sfonda". Queste le parole che avrebbe detto ai suoi fedelissimi. Parole con le quali demolisce Conte e, in controluce, esalta proprio la figura del leader della Lega. Lo stesso Salvini con cui, si sussurra (ma è molto più di un sussurro), ha un punto in comune: voler far fuori il premier-bis Giuseppe Conte...

·         I Rapporti Gay in politica.

GLI AMORI ETERO NON FANNO STORIA NELLA DC. BEN PIÙ IMPORTANTI SONO I RAPPORTI GAY. Repubblica.it il 15 ottobre 2019. - Il leader Fiorentino Sullo, classe 1921, fu uno dei leader della sinistra Dc. Nato a Paternopoli, nell’Avellinese, fu eletto alla Costituente. Poi parlamentare per 6 legislature consecutive, fino al 1976, quando - passato al Psdi dopo la rottura con la sua Dc - non si ripresentò. Nel 1979 tornò alla Camera, poi il rientro nella Dc dove il suo delfino, Ciriaco De Mita, lo aveva sostituito come capocorrente irpino. Nel 1983 l’ultima elezione alla Camera. Tra i suoi incarichi ministeriali, i Trasporti nel governo Tambroni da cui si dimise per il sostegno Msi all’esecutivo. È morto nel 2000. Ma gli amori etero non fanno storia nella Dc. Ben più importanti sono i rapporti gay. Emilio Colombo proprio per questo non sarà mai candidato alla presidenza della Repubblica, pur avendo le carte in regole per aspirare alla carica. Nessuno, mai, si incaricherà di opporsi alla sua candidatura, semplicemente nessuno, mai, lo candiderà (la Dc era così, per chi non se lo ricordasse). Emilio Colombo, Mariano Rumor e Fiorentino Sullo erano soprannominati le “Sorelle Bandiera” e neanche tanto riservatamente, se in un famoso congresso Dc i delegati hanno apertamente applaudito alle “Sorelle Bandiera”. Il vicentino Mariano Rumor arriva a fare il Presidente del consiglio e si narra che nel suo studio privato romano avesse un balcone con una splendida vista sulla città e che invitasse i giovani virgulti ad affacciarsi per poterne poi contemplare le forme. Fiorentino Sullo, originario della provincia di Avellino, diventa più volte ministro, ma l'ostracismo di Amintore Fanfani verso di lui si fa talmente forte che abbandona la Dc per passare al Psdi. Ma la censura è continuata almeno fino agli anni ‘70. Le uniche pubblicazioni che parlavano regolarmente del tema erano testate di destra, segnatamente “Il Borghese" e "Lo specchio", che quasi ad ogni numero sceglievano un omosessuale che fosse anche una figura pubblica e lo massacravano. Successe a Fiorentino Sullo, ministro Dc che fu costretto a sposarsi... per poi scoprire che il matrimonio combinato era una trappola mediatica, grazie alla quale "Il Borghese" – insufflato dai colleghi di partito dello stesso Sullo – lo fece a pezzi. Il deputato Fiorentino Sullo è oggetto, tra il 1960 e il 1964, di una violenta campagna a stampa che insinua o addirittura afferma apertamente la sua omosessualità, cosa all'epoca quasi inaudita. Gianna Preda, nei suoi Appunti proibiti del 12 maggio 1960 su "Il Borghese" scrive: « "Ho rivisto il basista Fiorentino Sullo, dopo le sue dimissioni. Aveva ritrovato la consueta scontentezza che però, nel suo viso di latte e di rose, non riesce mai a sembrare ribellione. Soltanto per un attimo ho visto ravvivarsi quel volto corrucciato. E' accaduto quando l'autista, un giovanotto bruno e piacente, gli si è avvicinato chiamandolo confidenzialmente per nome. In quel momento, notai che gli occhi di Sullo brillavano, teneri e vivi. Rievocando quel fuggevole episodio, provo ancora oggi un senso di imbarazzo: come se fossi stata testimone di qualcosa che non avrei dovuto vedere»". » Per Emiliano Di Marco la campagna era "basata su un vecchio dossieraggio del SIFAR che risaliva al periodo in cui (Sullo, ndr.) era stato Ministro dei Trasporti del governo Tambroni, nel 1960".

Le sorelle Bandiera. Da Mussolini alla Dc, il sesso ai tempi del potere. L'Inkiesta 22 maggio 2011. Il sesso compulsivo dei potenti non è certo una novità: la storia rigurgita di personaggi che badano solo alla quantità, che praticano un sesso onanistico mirato all'autosoddisfazione e che non ha alcun riguardo per la donna in quel momento coinvolta. Una contessa veneziana racconta di esser stata un sera portata (consenziente) nella stanza occupata in quel momento da Napoleone Bonaparte, al tempo semplice generale, che aveva appena messo fine alla millenaria storia della Serenissima. Bonaparte è assiso alla sua scrivania, quando la donna entra nemmeno si volta, le dice di spogliarsi e sistemarsi nel letto, cosa che la tapina fa. A un certo punto il generale corso si alza, si congiunge per un tempo brevissimo (minuti? Più probabilmente secondi) con la contessa, si riassetta, si rimette alla scrivania e invita la nobildonna a rivestirsi e a levarsi dai piedi. La scena si ripeteva più o meno ogni sera. Un vero e proprio malato di sesso è Vittorio Emanuele II. Non passa giorno senza che il primo re d'Italia grugnisca in piemontese di portargli una donna, cosa che gli efficienti servizi di sicurezza di Casa Savoia fanno. Gli consegnano una donna purchessia con la quale re Vittorio ha un velocissimo rapporto e poi, saziato all'istante, la paga e la manda via. Ma chi fa giungere al parossismo questo tipo di bulimia sessuale è Benito Mussolini. Come andassero le cose lo spiega Mimmo Franzinelli, storico del fascismo, a Gorizia per èStoria, che ha curato l'edizione dei diari di Claretta Petacci 1939-40 appena uscita con Rizzoli. «La novità di Mussolini – spiega – è il culto della personalità. Non aveva bisogno che la polizia segreta gli procurasse le donne, perché gli si offrivano spontaneamente. L'Archivio centrale dello Stato, a Roma, conserva una quantità di lettere di femmine in delirio che gli chiedono un incontro». A gestire il traffico è il segretario del duce, Quinto Navarra, che conoscendo gusti e attitudini del capo sceglie tra le lettere le donne che più si avvicinino alle sue esigenze. Gli incontri avvenivano a Palazzo Venezia, spesso truccati da udienze. Le donne venivano introdotte nell'ufficio del capo del governo, dove veniva consumato un rapporto di natura conigliesca sulla scrivania, sul tappeto, sul divano. In questo modo Mussolini vedeva rassicurata la sua mascolinità con donne che non avrebbe mai più rivisto. E cambia anche il rapporto delle donne con lui: sono soddisfatte di esser state toccate, di averlo visto da vicino, di aver subito una sorta di imposizione taumaturgica da parte del maschio più maschio d'Italia. Erano donne di tutte le classi sociali, dalla popolana alla principessa, in deliquio per aver soddisfatto le voglie del simbolo della virilità. Tutto ciò accadeva mentre Mussolini aveva Claretta Petacci come amante e Rachele come moglie. «Nemmeno una donna giovane e desiderabile come la Petacci lo soddisfaceva», sottolinea Franzinelli. In compenso non disdegnava di prendersi ulteriori extra, come la giornalista francese (e spia tedesca) Magda de Fontanges che, ammaliata dal maschio latino, gli si concede durante un'intervista. La Petacci è gelosissima, nonostante questo (o forse proprio per questo) Mussolini la informa regolarmente delle altre, facendola infuriare. Claretta scrive nei suoi diari che Mussolini continua ad avere rapporti, seppur molto diradati, con Rachele. La moglie ogni tanto lo cerca, imponendogli di adempiere ai doveri coniugali e lui si concede purché lei si levi di torno e lo lasci in pace. «Avevano anche un gergo», osserva Franzinelli, «Mussolini diceva alla Petacci: “Oggi ho pagato il tributo”, lei capiva, lo insultava, piangeva, si disperava perché lo voleva tutto per lei». Nel dopoguerra, con i democristiani cambia tutto. Nelle zone più bianche, tipo Veneto, se un politico diccì si fa l'amante viene convocato in Curia e il vescovo in persona gli impone di tornare all'ovile. Questo testimonia due cose: che si stava ben attenti alla non ricattabilità dei politici e che i veri capi della Dc erano i vescovi. C'erano eccezioni, naturalmente: Mario Scelba ha per amante una signora romana dalla quale ha avuto anche una figlia segreta. Ma quando il “ministro di polizia” non è più in posizione tale da poter far saltare qualche testa e si oppone al neonato centrosinistra, si vede recapitare in busta chiusa una foto di lui con l'amante al tavolini di un bar. Sono i servizi segreti: gli vogliono far capire che sanno e che è meglio se ne stia buono. Ma gli amori etero non fanno storia nella Dc. Ben più importanti sono i rapporti gay. Emilio Colombo proprio per questo non sarà mai candidato alla presidenza della Repubblica, pur avendo le carte in regole per aspirare alla carica. Nessuno, mai, si incaricherà di opporsi alla sua candidatura, semplicemente nessuno, mai, lo candiderà (la Dc era così, per chi non se lo ricordasse). Emilio Colombo, Mariano Rumor e Fiorentino Sullo erano soprannominati le “Sorelle Bandiera” e neanche tanto riservatamente, se in un famoso congresso Dc i delegati hanno apertamente applaudito alle “Sorelle Bandiera”. Il vicentino Mariano Rumor arriva a fare il Presidente del consiglio e si narra che nel suo studio privato romano avesse un balcone con una splendida vista sulla città e che invitasse i giovani virgulti ad affacciarsi per poterne poi contemplare le forme. Fiorentino Sullo, originario della provincia di Avellino, diventa più volte ministro, ma l'ostracismo di Amintore Fanfani verso di lui si fa talmente forte che abbandona la Dc per passare al Psdi. Ormai da qualche anno non è più un segreto che Bettino Craxi abbia a lungo avuto per amante Ania Pieroni, un'attrice romana, e che abbia avuto una più breve relazione con la pornostar Moana Pozzi. Ben più misteriosa è invece la storia di un politico della Seconda repubblica che avrebbe avuto una crisi dovuta a un'overdose di Viagra durante un rapporto con una show girl.

Felice chi è diverso. Regia: Amelio Gianni. Soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio; fotografia: Luan Amelio; montaggio: Cecilia Pagliarani; interpreti: Giorgio Bongiovanni, Nicola Calì, Francesco Cocola, Pieralberto Marchesini, Roberto Pagliero, Claudio Mori, Alba Montori, Aldo Sebastiani, Corrado Levi, Ciro Cascina, Agostino Raff, Ninetto Davoli, John Francis Lane, Fernando Nigiro, Mosè Bottazzi, Paolo Poli, Lucy Salani, Roberto David, Glauco Bettera; produzione: Istituto Luce Cinecittà, Rai Cinema, in collaborazione con Cubovision di Telecom Italia; distribuzione: Istituto Luce Cinecittà; origine: Italia, 2014; durata: 93’.

Trama: Viaggio in un'Italia segreta, raramente svelata dalle cineprese: l’Italia del mondo omosessuale così com’è stato vissuto nel Novecento, dai primi del secolo agli anni ‘80, quando si sono diffusi sulla scia di certi movimenti americani, i primi tentativi di “liberazione”.

Critica Alberto Crespi, l’Unità, 11/2/2014): (…) Felice chi è diverso, nuovo lavoro di Gianni Amelio, (…) parla di un tema importante come l'omosessualità, e lo fa in modo al tempo stesso spietato e tenero: spietato nei confronti di tutti coloro che dal fascismo in poi hanno demonizzato gli omosessuali richiudendoli in un ghetto culturale ed esistenziale, chiamandoli di volta in volta «invertiti», «capovolti», «finocchi»; tenero per lo sguardo solidale con cui dà la parola a 19 persone, di cui solo due o tre famose o relativamente note, che raccontano la propria esperienza. Di queste persone, 18 sono anziane, raccontano un'Italia in cui ci si doveva nascondere, fingere un «machismo» che non c'era, rifugiarsi nel matrimonio di facciata e nel segreto; l'ultimo è un ragazzo bello e coraggioso, che costruisce un ponte verso un futuro – si spera – migliore. Il titolo viene da una poesia di Sandro Penna: «Felice chi è diverso essendo egli diverso / ma guai a chi è diverso essendo egli comune». La legge, nel film, Paolo Poli: ed è obbligatorio spendere due parole su questo uomo stupendo, che racconta un'omosessualità serenamente accettata e, quasi, «aiutata» da un padre incredibile, che non ha mai trattato Paolo e sua sorella Lucia con nemmeno un grammo di rifiuto o di condiscendenza. Poli incarna letteralmente, nel film, il primo dei due versi di Penna. Quasi tutti gli altri intervistati, purtroppo, si riconoscono loro malgrado nel secondo: i disperati tentativi di essere insieme «diversi» e «comuni», di cercare un'accettazione salvando le apparenze, provocano inevitabilmente storie dolorose. Uno di loro, addirittura, arriva a dire: «Ho superato la mia disgrazia "grazie" a una disgrazia ancora peggiore: essendo orfano non ho mai dovuto confessare a mio padre e a mia madre di essere omosessuale». (…) Partiamo dall'idea del film, e dagli straordinari spezzoni dl repertorio che hai ritrovato. «L'idea è molto lineare: un resoconto su come l'omosessualità è stata vista dai media italiani nel ‘900, alternato alle parole di alcuni omosessuali che raccontano se stessi. Per il repertorio è stato decisivo l'aiuto di Francesco Costabile, un diplomato del CSC, assieme al quale ho avuto una sorpresa negativa: c'è pochissimo materiale disponibile. Me l'aspettavo negli anni del fascismo, quando l'ordine del silenzio arrivava dall'alto. Ma la censura è continuata almeno fino agli anni ‘70. Le uniche pubblicazioni che parlavano regolarmente del tema erano testate di destra, segnatamente “Il Borghese" e "Lo specchio", che quasi ad ogni numero sceglievano un omosessuale che fosse anche una figura pubblica e lo massacravano. Successe a Fiorentino Sullo, ministro Dc che fu costretto a sposarsi... per poi scoprire che il matrimonio combinato era una trappola mediatica, grazie alla quale "Il Borghese" – insufflato dai colleghi di partito dello stesso Sullo – lo fece a pezzi. Ritagli di stampa, comunque, pochi; spezzoni tv ancora meno. Per la Rai degli anni ‘50 e ‘60 era un argomento tabù. Due brani Rai inclusi nel film, uno sketch di Raimondo Vianello e una confessione amara di Umberto Bindi, in realtà non andarono in onda. Furono censurati. Al cinema si comincia a parlarne negli anni '60. Allora era molto popolare il sarto Schuberth, e nei film italiani c'erano spesso piccoli ruoli di sarti effeminati».

Veniamo agli intervistati. Molti di loro rifiutano la definizione di «gay». «Non piace neanche a me, poi vedremo perché. Fra coloro che oggi viaggiano intorno agli 80 anni c'è un pensiero diffuso che potrei semplificare così: si stava meglio quando si stava peggio. Non esporsi era più protettivo, favoriva un'attività sessuale proibita ma intensa. Sono quelli che Paolo Poli definisce i rapporti "alla cosacca", dietro un portone, senza che nessuno sapesse e vedesse. Secondo me chi pensa questo parla di omosessualità ma non di omoaffettività, che è la parola chiave. Prima ancora dell'orgoglio gay, prima del matrimonio fra omosessuali, dovrebbe essere ribadita ad alta voce la possibilità di amare e di essere amati. La parola "gay", dicevamo: la trovo ingiusta perché cementifica una diversità che deve rimanere tale, perché tutti – etero, omo, lesbiche – siamo individui diversi gli uni dagli altri. Sì, "gay" ha azzerato la sfumatura di insulto che c'era in altre parole, come "frocio" e simili. Però ha fatto di ogni erba un fascio, cancellando le individualità. Sandro Penna, sentendo parlare di "gay", si rivolterebbe nella tomba. Come Pasolini, credo. Per capire cosa significa questa parola mi piace ricordare una barzelletta napoletana: un figlio va dal padre e gli dice, papà, sono gay. E il padre comincia a chiedergli: ma ce l'hai un bel lavoro? Ce l'hai una bella macchina? Hai dei bei vestiti? Hai un attico a Posillipo? Il figlio risponde sempre no, e il padre conclude: allora, figlio mio, non sei gay, si' solo nu' ricchione!».

Hai scoperto, nel corso di questo viaggio, qualcosa che non conoscevi?

«L'acqua calda».

In che senso?

«Ho scoperto che tutti, uomini e donne, omo ed etero, abbiamo gli stessi problemi. Un ragazzo lasciato dal suo compagno soffre come un ragazzo lasciato dalla fidanzata. Tutti dobbiamo imparare ad amare senza essere incasellati. Se c'è un atto politico, nel film, è un atto di solidarietà. Sogno un mondo in cui un documentario simile non sia più necessario, dove le istituzioni imparino ad essere meno crudeli. Papa Francesco sta regalando speranza. Prima, da lì, venivano solo anatemi. Anche dal suo predecessore».

Alberto Crespi, l’Unità, 11/2/2014

Servizi segreti e omosessualità. Da wikipink.org. Testo di Stefano Bolognini, liberamente editabile.

In Italia. Non esistono analisi complessive in Italia sul rapporto tra servizi segreti e omosessualità. A partire dalla fine dell'Ottocento, però, in numerose occasioni sono emerse testimonianze dirette o documenti sull'uso da parte dell'intelligence italiana dell'omosessualità (o della pedofilia) per screditare, ricattare o, al contrario, proteggere dagli scandali personalità pubbliche. E' inoltre provata l'attività di dossieraggio e raccolta d'informazioni dei servizi segreti, con schedature relative alle preferenze sessuali di politici e uomini di potere.

Il campo di studio è ancora inesplorato, ad eccezione di un'intervista del mensile "Pride" allo storico Aldo Giannuli pubblicata nel marzo 2016. In questa voce sono raccolti alcuni casi che aiutano a fare luce sui metodi dei servizi italiani e nei quali il coinvolgimento delle attività di intelligence risulterebbe diretto.

Il caso Lobbia (1869). Il 5 giugno 1869 il deputato Cristiano Lobbia denuncia, nel corso di una seduta del Parlamento, di essere in possesso di documenti sullo scandalo e la corruzione nella concessione sui monopoli dei tabacchi alla “Regia manifattura dei tabacchi”. Nella notte fra il 15 e il 16 giugno 1869 Lobbia subisce dapprima, in via dell'Amorino a Firenze (all'epoca capitale d'Italia), un'aggressione con tentativo di accoltellamento. Dopo l'attentato Lobbia è continuamente pedinato e spiato: « "strani figuri sparivano dietro gli angoli delle strade, o sbucavano improvvisamente sulle scale. La magistratura tentava in tutti i modi di demolire l'attentato di via dell'Amorino, mettendo sotto accusa Lobbia e i suoi amici, che avevano costretto il Parlamento a votare l'inchiesta".» Successivamente, con una montatura ben congegnata, Lobbia è accusato di omosessualità e, dopo un processo che ebbe ampia eco sulla stampa, messo a tacere stroncando definitivamente la sua carriera politica.

Il metodo Giolitti (fine Ottocento). Massimo Consoli spiega che la prassi di screditare personaggi politici scomodi facendoli passare per omosessuali o per pedofili era tutt'altro che rara nell'Italia repubblicana: « “Giorgio Bocca, bravissimo come sempre ed altrettanto come sempre informatissimo, nella sua rubrica “Il Cittadino e il Potere”, che cura settimanalmente su "L’Espresso", ci informa di una particolare “strategia politica” giolittiana (n. 14 del 6 aprile 1975). Giovanni Giolitti, capo del governo dal maggio 1892 al novembre 1893, poi leader della corrente non-interventista agli albori della Prima Guerra Mondiale, ancora al governo nel giugno del 1920 fino al 1 luglio dell’anno successivo, il “grande” Giolitti, dunque, quando non riusciva a contrastare con i fatti e con la dialettica un proprio avversario politico, gli metteva alle calcagna i propri scagnozzi fin quando il malcapitato entrava, per necessità fisiologiche, in una toilette pubblica, o di un ristorante, o di un vagone letto. All’improvviso, gli veniva infilato nella “ritirata” un ragazzino sui dieci anni preventivamente istruito, che urlava, sbraitava, chiedeva aiuto, fino a far accorrere gente e, naturalmente, il commissario di polizia che si trovava “stranamente” nei paraggi, proprio lì vicino, che prendeva atto del “fattaccio”, delle testimonianze, della situazione “evidentemente” scabrosa, e relazionava a chi di dovere, a chi se ne sarebbe servito per rovinare l’uomo politico, per ricattarlo, per imbavagliarlo”. » Il caso in oggetto è povero di documentazione a supporto ed è qui riportato per attestare che la prassi risulterebbe continuativa nella recente storia italiana. Andrebbe però provato il coinvolgimento diretto dei servizi segreti.

Umberto II di Savoia e l'OVRA. Umberto II nel 1944. Durante il fascismo i servizi segreti raccolgono un dossier sulle relazioni omosessuali dell'erede al trono Umberto II di Savoia, sospettato d'essere antifascista. Mussolini intendeva servirsene nel caso la monarchia gli si fosse rivelata ostile. Il dossier era fra quelli che egli portò con sé a Salò, e secondo il diario dell'uomo politico monarchico Falcone Lucifero esso fu recuperato durante l'arresto di Mussolini, e consegnato a lui, che provvide personalmente a bruciarlo.

Il dossieraggio del SIFAR (1959). Il Servizio informazioni forze armate (SIFAR), il servizio segreto militare italiano attivo dal 1949 al 1996, aggiorna gli schedari e, nel febbraio 1959, avvia un dossieraggio esteso a tutti i parlamentari. Secondo Mimmo Franzinelli, che richiama una direttiva: « Di ogni deputato e senatore si registrano "note sulle qualità intellettuali e di carattere; precedenti penali e politici; cenni sul servizio militare; attività; contratti; incarichi ricoperti ed ogni altra notizia che possa comunque interessare l'Ufficio". La direttiva non tiene conto delle garanzie parlamentari. Lo spionaggio riguarda più la sfera provata della vita pubblica, con la solerte raccolta di vociferazioni - più o meno fondate - su relazioni extraconiugali, figliolanze illegittime, frequentazioni omosessuali, episodi di nepotismo, casi di corruzione e quant'altro. »

Il Caso Laconi (Anni Cinquanta?) Lo storico Aldo Giannuli dichiara di aver reperito, nel corso delle sue ricerche, una nota confidenziale al Ministero dell'Interno sull'omosessualità dell'onorevole del PCI Renzo Laconi, che rivestì anche il ruolo di segretario di Presidenza della Camera a Montecitorio. Secondo un'agenzia stampa diffusa da "Il Velino" nel 2007: « L’esponente del Pci aveva una grande capacità oratoria. La periferia del partito se lo contendeva. Per Togliatti quel deputato era scomodo. Così furono fatte girare strane voci sul suo conto. La “colpa” di Laconi era quella di vivere da solo con la madre e di fare una vita ritirata. I dirigenti del partito gli fecero il vuoto intorno. E Laconi fu nominato segretario del Pci in Sardegna per toglierlo dal circolo della grande politica romana. »

I controlli sul Generale di Corpo d'Armata (1962). Nella Relazione sulla documentazione, concernente gli «omissis» dell'inchiesta SIFAR[10] della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, trasmessa il 28 dicembre 1990 al Presidente del Consiglio dei ministri ai Presidenti delle due Camere e alla Commissione stessa, emerge come l'attività di spionaggio in Italia, tra il 1956 e il 1962, si concentrasse anche nella ricerca di "notizie scandalistiche sulle massime cariche militari" relative all'omosessualità. In particolare il generale Giovanni de Lorenzo, « "sia come Capo del SIFAR dal 1956 al 15 ottobre 1962, sia come Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri, ha impiegato direttamente i Centri C.S. di Roma e periferici per il controllo sistematico della vita privata di taluni Ufficiali Generali di Corpo d'Armata in servizio, con il preciso intento di scoprire notizie scandalistiche da sottoporre al Capo di Staio Maggiore della Difesa e dell'Esercito e direttamente al Ministro della Difesa" giustificando l'attività "con la doverosa preoccupazione di salvaguardare il prestigio delle massime cariche militari". » Tra i casi ritenuti rilevanti ("gravi", ndr.) dalla Commissione quello di "un anziano Generale di Corpo d'Armata che ricopriva una delle massime cariche militari, alla quale aspirava lo stesso Capo Servizio": « Questi , nel 1962,"incaricava personalmente un sottufficiale dei Carabinieri di un Centro C.S. periferico di effettuare delle ricerche presso un alto comando ed individuare gli indirizzi degli ex attendenti di quel Generale nel periodo-1954/1957; quindi vedere di rintracciarli presso le loro abitazioni e cercare di raccogliere e registrare occultamente eventuali confidenze che si potevano ricavare su presunti rapporti omosessuali del loro superiore. (Omissis). A malgrado [sic] lo zelo del sottufficiale, che si preoccupava di non deludere l'aspettativa del Capo Servizio, i risultati furono negativi in quanto nemmeno l'intervento di un ufficiale tecnico altamente qualificato riuscì a far trarre notizie concrete dalle registrazioni raccolte. » Secondo la Commissione "quest'episodio è stato assai significativo, perché era più che mai evidente l'intenzione di trovare comunque dei gravi motivi di scandalo tali da rendere impossibile la permanenza di quel rispettabile Generale nella carica che ricopriva con tanta serietà e dignità".

L'Ufficiale di stato maggiore (Anni '60). Nel 1961 Giò Stajano, tra i primi omosessuali visibili in Italia, è coinvolto dai servizi segreti per far dimettere un ufficiale dello Stato maggiore dell’esercito. Fu sufficiente che alloggiasse nello stesso albergo del generale senza mai incontrarlo, per raggiungere l’obiettivo. Stajano racconta: « (un capo di stato maggiore dell'esercito, ndr.) era inviso a un altro graduato che ambiva a prendere il suo posto, per cui un parente di questo generale mi avvicinò tramite un amico gay, eravamo intorno al '62 '63, proponendomi un compenso di 500 000 lire se avessi alloggiato per due giorni a Verona nello stesso albergo in cui era ospite questo generale, cosa che io feci. Dovevo soltanto cercare di avvicinarlo - mi avevano fatto vedere una sua foto (...). Dopo qualche giorno a Roma mi contattarono uomini dei servizi segreti, io ero stata preavvisata, per domandarmi se fosse vero che avevo avuto rapporti con questo generale... e io ovviamente negai, così come mi era stato suggerito, per far loro credere invece che era vero! Mi vennero a prendere a casa un mattino (...) e là c'era un tavolo lungo con un sacco di gente seduta, alcuni in divisa, e cominciarono a chiedermi se conoscevo questo generale L.R., però il nome non lo mettere... Io dissi che non lo conoscevo che ero stata in quell'albergo per motivi miei, che era stata una combinazione (...) e alla fine mi fecero firmare una dichiarazione. Fatto sta che la settimana dopo i giornali pubblicarono la notizia che il generale L.R. aveva dato le dimissioni e che al suo posto era succeduto il generale A. Adesso sono morti tutti e due. Ero diventata un elemento destabilizzante. »

Il caso Sullo (Anni Sessanta). Il deputato Fiorentino Sullo è oggetto, tra il 1960 e il 1964, di una violenta campagna a stampa che insinua o addirittura afferma apertamente la sua omosessualità, cosa all'epoca quasi inaudita. Gianna Preda, nei suoi Appunti proibiti del 12 maggio 1960 su "Il Borghese" scrive: « "Ho rivisto il basista Fiorentino Sullo, dopo le sue dimissioni. Aveva ritrovato la consueta scontentezza che però, nel suo viso di latte e di rose, non riesce mai a sembrare ribellione. Soltanto per un attimo ho visto ravvivarsi quel volto corrucciato. E' accaduto quando l'autista, un giovanotto bruno e piacente, gli si è avvicinato chiamandolo confidenzialmente per nome. In quel momento, notai che gli occhi di Sullo brillavano, teneri e vivi. Rievocando quel fuggevole episodio, provo ancora oggi un senso di imbarazzo: come se fossi stata testimone di qualcosa che non avrei dovuto vedere»". » Per Emiliano Di Marco la campagna era "basata su un vecchio dossieraggio del SIFAR che risaliva al periodo in cui (Sullo, ndr.) era stato Ministro dei Trasporti del governo Tambroni, nel 1960".

L'Onorevole Emilio Colombo (1971). Il generale Gianadelio Maletti durante la sua audizione davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, il 3 marzo 1997, relativa a fatti occorsi nel 1971, dichiara: « Il nostro paese non era politicamente sano. I Servizi venivano usati per schedare, per – diciamolo pure – ricattare; di quei circa 100.000 fascicoli, forse un po’ meno, che sono stati bruciati, molti riguardavano beghe personali, “corna” di uomini politici, di cardinali, di professionisti e così via. Ora, in un clima del genere, un Servizio che con il generale De Lorenzo si era già orientato a un impiego politico più che ad un impiego professionale, di intelligence, non ha fatto che scendere lungo una china di adesione alla domanda politica, di resa alle pretese di alcuni uomini politici. Non è per un caso, per esempio, che poco dopo l’arrivo al Servizio fui convocato dal mio caposervizio, il quale mi chiese se potevamo far pubblicare delle fotografie, nelle quali si vedeva un noto ed importante personaggio democristiano in costume da bagno sul terrazzo della sua casa (credo in un quartiere alto di Roma) accanto ad un efebo, in carne e ossa. La domanda fu questa: “possiamo far pubblicare questa fotografia?”. Risposi al generale che quella fotografia era chiaramente un collage. Sono state appiccicate insieme due fotografie: un signore che sta facendo un bagno di sole in terrazzo e un giovanotto nudo o seminudo che gli sta di fronte in piedi. (...) Questo era il Servizio nel 1971, quando i due episodi si sono verificati a breve distanza di tempo l'uno dall'altro. Mi dispiace parlarne qui perché sono pettegolezzi. Ne parlo a una Commissione di signori parlamentari e ritengo che sia mio dovere dire che il Servizio non era un vero servizio informazioni all'epoca: era un servizio di pettegolezzi, purtroppo abbandonato a se stesso, senza un appoggio politico, senza un avallo politico, lasciato andare per i fatti suoi e, qualora avesse sbagliato, colpito duramente per questa sua autonomia e queste sue iniziative.» Il deputato Grimoldi, di Rifondazione Comunista, replica: "Lei ha affermato precedentemente che i Servizi erano, in un certo senso, subalterni ai politici e ai servizi di altri paesi. Generale, questa non è una novità perché l'esempio da lei presentato di un uomo politico fotografato con un giovane nudo era noto a tutta l'Italia e tutta l'Italia rideva di questo, come del fatto che la moglie di un importante uomo politico avesse delle relazioni addirittura con degli autisti. Ma i servizi non si potevano servire di queste notizie, generale, perché qui non siamo in America; in America, il candidato alla Presidenza che ha una "scappatella" con una segretaria ci rimette la candidatura, mentre in Italia, fortunatamente, non siamo mai arrivati a questo livello.". Aldo Giannuli, nel 2009, riconosce nell'onorevole Emilio Colombo (1920-2013), allora presidente del Consiglio della Democrazia Cristiana, l'uomo oggetto dell'interesse dei servizi segreti: « Ancora, l'ex capo dell'Ufficio D, Gianadelio Maletti, durante la sua audizione davanti alla Commissione Stragi dichiarò tranquillamente che il servizio controllava un Presidente del Consiglio democristiano notoriamente omosessuale e, un giorno, fotografò «un giovane in tenuta adamitica» sulla terrazza del suo attico. » Questa interpretazione sarà ripresa successivamente da numerose testate[16] e, al di là della veridicità del coinvolgimento del politico nella vicenda (Meletti parla solo di "un noto ed importante personaggio democristiano "), le dichiarazioni del generale gettano luce, in questo caso, sui metodi ricattatori dei servizi segreti italiani in relazione all'omosessualità dei personaggi pubblici.

Il caso Marrazzo (2009). Il 23 ottobre 2009 è diffusa la notizia che il Presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo sarebbe stato sorpreso e ricattato da quattro carabinieri perché filmato durante un "rapporto mercenario" con una transessuale. Un video ritrarrebbe l'incontro tra il politico e la trans in un appartamento di via Gradoli con ben visibili, su un tavolino, alcune dosi di cocaina. Il 27 ottobre Marrazzo si dimette da Presidente della Regione a seguito dell'enorme scandalo scatenato dalla notizia. Il 20 novembre Brenda, una delle due transessuali coinvolte nello scandalo, viene trovata morta, soffocata dal fumo di un incendio scoppiato nel suo appartamento. Anche Gianguerino Cafasso, uno dei testimone-chiave del ricatto, era già stato trovato morto per overdose di cocaina il 12 settembre precedente. Il 19 aprile 2010 la Corte di Cassazione ha dichiarato Marrazzo vittima di un complotto organizzato da Carabinieri infedeli che avrebbero organizzato accuratamente "riprese le cui finalità non erano certo quelle di assicurare, a fini di giustizia, le tracce di reati, o di individuare i colpevoli di condotte delittuose, ma solo di registrare situazioni scabrose per ottenere indebiti vantaggi". Aldo Giannuli nota: « "Una cosa è certa: l’appartamento dove è avvenuta la retata, in via Gradoli 96 è allo stesso numero civico che aveva ospitato, trent’anni prima, un covo dei brigatisti coinvolti nel caso Moro. Ora, è vero che ci sono indirizzi sfigati dove se deve succedere qualcosa sempre là succede. Il sospetto che sorge legittimamente è che quello fosse un appartamento usato dai servizi per lavori di questo tipo. E che le trans che erano lì fossero spie del servizio militare". »

Il caso Regeni (2016). Giulio Regeni, un dottorando in commercio e sviluppo internazionale al dipartimento di politica e studi internazionali dell’università di Cambridge, scompare a Il Cairo, dove si trova per lavorare alla sua tesi, il 25 gennaio 2016 ed è trovato assassinato, il 3 febbraio, all'estrema periferia della città. Il cadavere si presenta semi nudo e con segni di tortura. Le circostanze della morte, la reticenza delle autorità egiziane nel fornire informazioni agli inquirenti italiani, lo scontro tra Governo italiano e egiziano susseguente all'omicidio e il coinvolgimento (ipotizzato dai commentatori) degli apparati di sicurezza civili e militari e della polizia egiziana nel sequestro del giovane, rimandano a una responsabilità diretta dei servizi segreti egiziani nell'omicidio. Immediatamente dopo la scoperta del cadavere incominciano a circolare voci sulla presunta omosessualità di Regeni, che lasciano intendere che l'omicidio possa avere un movente sessuale o legato all'omofobia islamica. Questa non è però l'unica spiegazione della morte che cortocircuita sui media: si passa, versione dopo versione, dall'incidente stradale, all'omicidio a sfondo omosessuale, all'atto criminale fino all'uccisione per mano di spie dei Fratelli Musulmani compiuto per creare imbarazzo al governo di Al Sisi. Una fonte anonima (ritenuta non credibile), il 6 aprile 2016, rivela al quotidiano "La Repubblica" l'uso strumentale dell'omosessualità nel caso Regeni come depistaggio: «  Dopo la sua morte, sempre secondo quello che sostiene l'anonimo, "Giulio viene messo in una cella frigorifera dell'ospedale militare di Kobri al Qubba, sotto stretta sorveglianza e in attesa che si decida che farne". La "decisione viene presa in una riunione tra Al Sisi, il ministro dell'Interno, i capi dei due Servizi segreti, il capo di gabinetto della Presidenza e la consigliera per la sicurezza nazionale Fayza Abu al Naja", nelle stesse ore in cui il ministro Guidi arriva al Cairo chiedendo conto della scomparsa di Regeni. "Nella riunione venne deciso di far apparire la questione come un reato a scopo di rapina a sfondo omosessuale e di gettare il corpo sul ciglio di una strada denudandone la parte inferiore. Il corpo fu quindi trasferito di notte dall'ospedale militare di Kobri a bordo di un'ambulanza scortata dai Servizi segreti e lasciato lungo la strada Cairo-Alessandria". »