Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2019
IL GOVERNO
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
IL GOVERNO
SECONDA PARTE
PARTE PRIMA E-BOOK
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
I neoborbonici tra sovrani e sovranisti.
I Borbone da sempre sotto attacco sulle spinte straniere.
Garibaldi, dalla spedizione dei Mille ai partigiani.
Alla ricerca dei garibaldini scomparsi.
11 Maggio 1860, mille avanzi di galera, comandati da un bandito, sbarcarono a Marsala.
L’esercito piemontese d’invasione del Meridione d’Italia: razzista ed analfabeta.
Battaglie e sofferenze degli italiani: un secolo di guerre.
Sud, un errore lungo 70 anni.
I predoni stranieri dell'Italia.
La Cina alla conquista dell'Italia.
Venezuela, la Russia accusa gli Stati Uniti all'Onu: "Un golpe contro Maduro".
La retorica degli Europeisti.
Italia trattata come la vacca da mungere.
Francia e Germania, ecco il patto d’acciaio.
Italia, colonia Franco-Tedesca.
La grande globalizzazione? Cose già viste.
L’Ordine Liberale.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
Fatta l’Italia si sarebbero dovuti fare gli italiani.
I Fobo, ossia: gli indecisi. Cioè: gli italiani.
Italia. La Repubblica umiliata, fondata sui brogli al referendum Repubblica-Monarchia.
L’imprudenza dei socialisti.
Il Piano Marshall ha salvato gli Stati Uniti.
Giugno 1944: gli Italiani in Normandia nei giorni dello sbarco.
Prigionieri militari italiani in Russia: Il Pci nascose tutto.
Così l'Italia è entrata nella Grande guerra contro nemici e alleati.
4 novembre 2018: una data divisiva. Una inutile carneficina o una grande vittoria per l’Unità d’Italia?
Quando Calamandrei voleva collegare politica e magistratura.
11 gennaio 1948, Mogadiscio: la strage degli Italiani.
C'era una volta uno Stato.
Lo Stato che non rispetta i patti (senza sensi di colpa).
La Società signorile? Comunisti e non Capitalisti.
Sfaticati e contenti.
Italiani sfiduciati.
Senza prospettive, sogni, giovani e anziani (che se ne vanno).
E’ un paese per vecchi.
La memoria del criceto. Le amnesie italiane.
Le code ed il richiamo del mare.
Gli impegnati.
SOLITA LADRONIA.
Italia, terra di scandali dimenticati.
I pirati della strada.
I Topi d’appartamento.
Test del portafoglio.
I Furbetti del Cartellino.
I furbetti della bolletta fanno sparire 10 miliardi.
I falsi invalidi.
Le pensioni eterne.
Le 11 truffe online più sofisticate in giro in questo momento.
Il Paese della corruzione percepita. Gli italiani e il senso civico: per uno su tre è giustificabile non pagare le tasse e farsi raccomandare.
Evasori ed indigenti.
Viaggio nelle feste dei collettivi: un cocktail a 5 euro (in nero).
La mancia per gli evasori.
Il governo dei condoni: ecco tutti i regali a evasori e furbetti.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
Dai tiranni al popolo: radiografia del potere.
Il costo della democrazia: se la politica diventa un passatempo per ricchi.
Perché la democrazia rappresentativa è in crisi.
In che giorno si vota?
I Picconatori.
Ma cos'é la destra, cos'é la sinistra?
Democrazie mafiose. «La sinistra è una cupola».
1, 2, 3… Politica: a quale repubblica siamo arrivati.
L'Astensionismo al voto.
Le colpe dei padri non ricadano sui figli e viceversa.
Benedetto Croce riannodò i fili dell’Italia ferita e divisa in due.
Prima Repubblica, le due anime dei «partiti laici».
Dal civilizzato Civil Law al barbaro Common Law. Inadeguatezza Parlamentare e legislazione giudiziaria.
Un Parlamento di "Coglioni" voterà leggi del "Cazzo".
La maledizione dei Presidenti della Camera dei Deputati.
Il Governo del rinvio e del posticipo.
Il Governo “Salvo Intese” e “Varie ed eventuali”.
Le Metafore della Politica.
La politica degli strafalcioni.
Mattarella agli studenti: "La politica non è un mestiere.
Governi la Regione e poi vai in galera…
Gli Assessori alla "Qualunque".
Comuni in fallimento.
Da Citaristi a Centemero e Bonifazi, il rischioso mestiere del tesoriere di partito.
Maledizione quaranta per cento…
Referendum Propositivo. Perché questo silenzio?
Rissa di Stato. Nel 1994 toccò a Tatarella, oggi a Conte. Ed i media, con l'opposizione, sono sempre contro le istituzioni.
Parlamento: Guerra, Peace e Love.
Paese che vai, guerriglia che trovi.
Perché il populismo?
Basta sparare sulle élites.
L’élite: La Politica con le Facce da Culo.
L'Italia non è per gli Uomini soli al Comando.
Prove tecniche di ribaltone.
Le Querele portano bene...al Governo.
Il Governo Calabrone.
Conflitto d'interessi e memoria corta.
La Perdita di Sovranità.
E la chiamano Democrazia...
Quando i ribaltoni erano una cosa seria.
Don Sturzo ed il Partito popolare. I “liberi e forti” cent’anni dopo.
Il Contropotere: I Dorotei.
Sui reati dei Ministri non c’è certezza.
"Il denaro ha sostituito la politica".
Come parla la politica.
In principio c’era la tribuna politica.
I Rapporti Gay in politica.
PARTE SECONDA
SOLITA APPALTOPOLI.
La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».
Consip e la sindrome del ricorso e dell’indagine.
Gli Iter farraginosi dei malpensanti provocano ad ogni appalto una tangente.
5 ragioni per cui la corruzione blocca l'economia italiana.
Caselli: ''Cene e nomine di giudici: una rogna preoccupante''.
Corruzione: Cananzi (magistrato) “il peggior peccato è l’omissione”.
Appalti puliti, cantieri chiusi.
L'Italia è un paese fondato sulla mazzetta. Micro corruzione, la vera piaga italiana: ogni otto ore un caso di mazzette e favori illeciti.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
I moralizzatori di sinistra anti Trump.
Test di medicina: ecco le ricerche Google degli studenti furbetti!
Le lungaggini dei concorsi pubblici.
La beffa del concorso per anestesisti annullato perché «i quiz erano sbagliati».
Il Futuro a Numero Chiuso.
Scandalo doppio ai concorsi Inps.
Il Concorso in Polizia e gli aspiranti poliziotti.
I concorsi pubblici dei Presidenti del Consiglio dei Ministri.
Concorsi su Misura: Ad Personam.
I bandi per addetti stampa, «fatti su misura».
I Navigator nominati.
Un concorso truccato per aspiranti magistrati.
Processati 6 noti avvocati. Avrebbero truccato il loro esame di Stato per l’abilitazione alla professione.
Avvocatura: “Assegnazioni clientelari”.
Polizia Penitenziaria, concorso truccato: 3 arresti e ben 160 indagati.
Concorsi truccati nella sanità.
L’Università dei Baroni.
Università, si uccide per un concorso truccato.
In Ateneo. Tra moglie e marito non mettere il concorso.
Concorso dirigenti scolastici: «troppe differenze nei voti».
Concorso prof 2018: gli ultimi saranno i primi.
Lauree facili per i poliziotti.
La maturità (a buon mercato).
La grande menzogna della meritocrazia.
Per i magistrati i figli e gli amici so’ piezz’ ‘e core.
Competizioni sportive truccate.
SOLITO SPRECOPOLI.
Mose, la storia infinta.
Rimini, ecco la questura mai nata.
Addio (d'oro) dei commissari Ue.
Le polemiche d'aria fritta sui voli di Stato.
Governo che va, Auto Blu che resta.
Alitalia, in due anni erogati 900 milioni di prestito pubblico.
L’Europa Matrigna ed i soliti coglioni.
Le Scorte. Sprechi presidenziali emeriti.
Forze dell’ordine: si spende in statue e scorte ma mancano le divise.
La voragine nell’Erario: tra ticket, doppi lavori e truffe sulle pensioni.
Quanto costano gli europarlamentari?
Si tagliano un po' di parlamentari, ma non si toccano i dipendenti di Camera e Senato.
Sei milioni in avvocati. Puglia sotto inchiesta.
Beppe Grillo è lapidario: "La Tav? È morta..."
Lo spreco degli ammortizzatori sociali per foraggiare l’elettorato comunista.
I Finanziamenti ai Kompagni Comunisti.
L’Unità. Un giornale sul groppone.
Finanziamenti agli amici sportivi.
Legge di Bilancio- Legge Omnibus- – Legge Marchetta.
Il Costo della Politica.
Il Costo della Burocrazia.
Il Costo delle Opere Incompiute.
Fondazioni, lo spreco è all'Opera.
Ancitel: un carrozzone pubblico.
Dipendenti pubblici, in Valle d'Aosta quasi uno ogni dieci abitanti.
Gli imboscati e la guerra agli sprechi.
La voragine consulenze: in fumo 27 milioni l'anno.
Pensioni: gli sprechi dell'Inps.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
Keynes fece rinascere l’economia perché la restituì all’umanesimo.
La Questione Industriale Italiana.
Dove si ruba il TFR.
Lo Stato moroso.
Gettoni d'oro mai coniati, truffa da 700mila euro.
I tesori di lady Eni.
Signoraggio: "Su che libri avete studiato?"
Quando la Dc ordinò l’assalto a Bankitalia.
Il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità).
Quell’errore di Bruxelles che ha fatto fallire le banche italiane.
Quando le banche truffano ed i truffati ci stanno.
Banche e Fisco. Lasciate ogni speranza voi che versate...
Mediobanca, così conquistò il Belpaese.
38 assicurazioni fallite: 500 mila in coda per i rimborsi.
La dolce vita dei Bancarottieri.
Il debito che piace ai partiti.
La Tassa Rossa. Tassa patrimoniale: la storia dell'imposta che colpisce i risparmi.
Fisco e presunti evasori. Italia prima in Europa per evasione fiscale. E’ vero?
Il business delle lezioni private: vale quasi un miliardo ed è quasi tutto in nero.
La Tassa sulla Fortuna.
Slot, lotto, gratta e vinci: gli italiani giocano tanto.
IL GOVERNO
PARTE SECONDA
SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi».
La Cassazione: «I corrotti non vanno trattati come i mafiosi». Errico Novi il 19 luglio 2019 su Il Dubbio. La Suprema corte contro lo stop alle misure alternative. Depositata l’ordinanza con cui la prima sezione ha rimesso la legge “spazza corrotti” alla Consulta.
La Cassazione. Si può con una certa soddisfazione notare come il circuito fra dottrina e Corti superiori funzioni bene. E cioè come vi sia un dibattito giuridico molto dinamico attorno a temi di diritto che la politica tratta a volte con una certa sbrigatività.
Lo si può dire a proposito di un’ordinanza, la numero 1992 del 2019, emessa lo scorso 18 giugno dalla Cassazione e che ieri è stata depositata. Si tratta della decisione che ha rimesso d’ufficio alla Consulta la questione di legittimità costituzionale della legge “spazza corrotti” per la parte in cui la riforma preclude l’accesso alle misure alternative persino per il peculato. Da ieri sappiamo che le ragioni della scelta compiuta dalla Cassazione sono ancora più sorprendenti, e incoraggianti, di quanto si fosse inteso. Prima di tutto perché hanno a che vedere con la violazione non del principio di irretroattività ma del principio di ragionevolezza, e silurano dunque le nuove norme in assoluto, non solo rispetto alla loro applicabilità ai reati commessi prima che la riforma entrasse in vigore. Inoltre le motivazioni dell’ordinanza si agganciano addirittura alle tesi affermate dall’accademia negli Stati generali dell’esecuzione penale.
L’irragionevolezza. Certo, a essere presa di mira è l’ostatività ex articolo 4 bis estesa a una fattispecie specifica qual è il peculato. Ma la Cassazione afferma la generale necessità di un «fondamento logico e criminologico» delle «scelte legislative» che riguardano la sanzione dei comportamenti illeciti. In sostanza, assimilare i “corrotti” a mafiosi e terroristi è, per la Suprema corte, irragionevole. Vi è quanto meno il sospetto che la “spazza corrotti” violi il principio costituzionale di ragionevolezza ( come aveva già segnalato, con ordinanza analoga, la Corte d’appello di Palermo), ed è per questo che il giudice di legittimità ha deciso di rimettere la questione alla Consulta. Dopo l’udienza con cui proprio un mese fa, la prima sezione, presieduta da Giuseppe Santalucia e con Raffaello Magi relatore, aveva assunto la decisione depositata ieri, si era dato per scontato che l’avesse voluto affermare il principio di irretroattività. L’ordinanza infatti riguarda il caso di un condannato in via definitiva per peculato, Alberto Pascali, che si è visto negare la possibilità di chiedere la messa alla prova ed è stato costretto a valicare la soglia del carcere di Bollate. In particolare, la Cassazione è intervenuta sulla successiva scarcerazione di Pascali, ordinata l’ 8 marzo dalla gip di Como Luisa Lo Gatto, convinta della inapplicabilità della norma che estende l’articolo 4 bis ai reati di corruzione, peculato compreso, anche per le condotte precedenti l’entrata in vigore della “spazza corrotti”. A chiamare in causa la Suprema corte è stata la Procura di Como, che ha impugnato l’ordinanza della gip. Nella decisione depositata ieri dalla Cassazione ci sono aspetti di straordinario interesse. Senz’altro quello della probabile irragionevolezza della “spazza corrotti” nella parte in cui estende il 4 bis a reati come il peculato, e assimila così i “corrotti” a mafiosi e terroristi. Vizio energicamente denunciato nella memoria difensiva predisposta, per Pascali, dal professor Vittorio Manes e dall’avvocato Paolo Camporini. «In particolare la condotta di peculato», afferma la Cassazione, «non appare contenere — fermo restando il suo comune disvalore — alcuno dei connotati idonei a sostenere una accentuata e generalizzata considerazione di elevata pericolosità del suo autore, trattandosi di condotta realizzata senza uso di violenza o minaccia e difficilmente inquadrabile — sul piano della frequenza statistica — in contesti di criminalità organizzata». In altre parole, non si può trattare il peculato come la mafia.
Il carcere e la riforma. Non è finita qui. Perché nel ritenere irragionevole precludere l’accesso immediato, per i corrotti, a misure alternative come la messa alla prova, la Cassazione “resuscita”, per così dire, la riforma del carcere in realtà mai venuta alla luce. Lo fa con un omaggio ai principi di quella rivoluzione incompiuta, pure contenuti, sotto forma di delega, in una legge entrata in vigore: «Va segnalato come nella scorsa legislatura», ricorda la Cassazione, «siano stati approvati in Parlamento più punti di legge delega — la n. 103 del 2017 ( la riforma penale dell’ex ministro Orlando, ndr) — tendenti alla riconsiderazione complessiva delle preclusioni legali di pericolosità in sede di accesso alle misure alternative, con riaffidamento al giudice del compito di valutare la sussistenza delle condizioni di ammissione». E, aggiunge la prima sezione persino con un certo “coraggio politico”, «il mancato esercizio, su tali aspetti, della delega, non ridimensiona la valenza obiettiva di una ampia convergenza di opinioni circa la necessaria riconsiderazione organica del sistema delle presunzioni, tradottasi», appunto, «in legge nel 2017». Nel sospettare l’incostituzionalità dell’estensione al peculato del regime ostativo ex articolo 4 bis, la Cassazione insomma si riconnette alla lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale. Quanto meno rispetto alla necessità di affidare al giudice la valutazione dell’effettiva, persistente pericolosità del soggetto. Una rivoluzione nella rivoluzione. Che non potrà certo far vivere una riforma penitenziaria lasciata morire, ma che almeno può eliminare le parti più irragionevoli della spazza corrotti.
· Consip e la sindrome del ricorso e dell’indagine.
Da Il Fatto Quotidiano il 3 ottobre 2019. Il complotto contro la famiglia Renzi non esisteva. Quello per bloccare le indagini sulla Centrale acquisti della pubblica amministrazione forse sì: sarà un processo a stabilirlo. Sono i cinque i rinvii a giudizio decisi dal gup di Roma, Clementina Forleo, sul caso Consip. A processo l’ex ministro e attuale deputato del Pd, Luca Lotti, l’ex consigliere economico di Palazzo Chigi Filippo Vannoni, l’ex comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette, il generale Emanuele Saltalamacchia e Carlo Russo, l’imprenditore amico di Tiziano Renzi. Prosciolti, invece, il maggiore Gianpaolo Scafarto e il colonnello Alessandro Sessa. La procura di Roma aveva chiesto il rinvio a giudizio degli imputati il 14 dicembre scorso. Contestualmente anche una serie di archiviazioni erano state respinte: compresa quella del padre dell’ex premier. L’ufficio inquirente capitolino intende comunque impugnare davanti alla Corte d’Appello il proscioglimento di Scafarto e Sessa. Le accuse a Luca Lotti – Il nome più noto che adesso dovrà affrontare un processo è ovviamente quello dell’ex sottosegretario di Matteo Renzi: gli inquirenti romani lo accusavano di favoreggiamento per aver rivelato l’inchiesta a Luigi Marroni, ex amministratore delegato dell’azienda che gestisce gli appalti pubblici. L’iscrizione nel registro degli indagati di Lotti – come rivelato da Marco Lillo sul Fatto Quotidiano – risale al 21 dicembre del 2016, il giorno dopo l’audizione, davanti agli inquirenti di Napoli, dello stesso Marroni, che aveva ammesso di aver saputo dal ministro dell’indagine aperta dalla procura partenopea. Il fascicolo passò subito a Roma per competenza e il 27 dicembre Lotti si presentò a Piazzale Clodio per essere sentito dagli investigatori. Poi il 14 luglio del 2017 era stato interrogato dei pm sostenendo la totale estraneità. La procura, però, quei fatti ha continuato a contestarglieli. Lo scorso 24 giugno l’ex ministro proprio al gup Forleo ha ribadito la sua versione: “Non sapevo dell’indagine. Non potevo riferire a Marroni ciò che non conoscevo”. Le contestazioni a Saltalamacchia, Del Sette e Vannoni – Favoreggiamento è il reato contestato dalla procura anche il generale Emanuele Saltalamacchia: per l’accusa invitò Marroni a essere prudente perché la procura di Napoli stava indagando. Viene contestata invece la rivelazione di segreto d’ufficio al generale Tullio Del Sette che, stando alla procura di Roma, rivelò a Luigi Ferrara, presidente della Consip, l’inchiesta a carico dell’imprenditore di Alfredo Romeo. Sempre favoreggiamento – per aver avvertito Marroni – è il reato contestato a Filippo Vannoni, già presidente di Publiacqua Firenze ed ex consigliere di Palazzo Chigi ai tempi in cui il premier era Renzi. Questo era il capitolo delle cosiddette “soffiate” che nei fatti sabotarono l’inchiesta aperta dalla procura di Napoli sugli appalti Consip. Il caso Scafarto e Sessa – L’ufficio inquirente all’epoca guidato da Giuseppe Pignatone, però, aveva chiesto il rinvio a giudizio anche di Scafarto, ex capitano del Noe dei carabinieri – poi promosso maggiore – per violazione di segreto, falso in atto pubblico e depistaggio: l’ultima accusa è contestata in concorso con Sessa. Secondo i pm Scafarto svelò al vicedirettore del Fatto Quotidiano, Marco Lillo, il contenuto delle dichiarazioni di Marroni e Ferrara agli inquirenti di Napoli e l’iscrizione di Del Sette, atto coperto da segreto. Al militare veniva contestato anche il falso relativo all’informativa in cui attribuiva la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato” a Romeo. In realtà a pronunciare quella frase (senza che si riferisse a Tiziano Renzi) era stato l’ex parlamentare Italo Bocchino. Scafarto ha sempre ribadito di non aver “mai taroccato” alcuna informativa. Ma, stando all’accusa, nell’informativa aveva inserito anche il presunto coinvolgimento di “personaggi asseritamente appartenenti ai servizi segreti, ometteva scientemente informazioni ottenute a seguito delle indagini esperite”. Nell’informativa scrisse che aveva “il ragionevole sospetto di ricevere attenzioni da parte di qualche appartenente ai servizi”. Per gli inquirenti Scafarto aveva anche omesso una serie di particolari sull’auto e la targa del sospetto che in realtà risultava essere un cittadino italiano residente in zona. Anzi per la procura di Roma sarebbe stato proprio Scafarto a rivelare a ex carabinieri, ora in servizio all’Aise, l’indagine di Napoli. Sempre al militare, in concorso con Sessa, viene contestato il depistaggio per aver disinstallato whatsapp dallo smartphone del colonnello e impedire quindi agli inquirenti di ricostruire le loro conversazioni. Il gup però ha deciso di prosciogliere i due investigatori. Secondo il giudice da parte di Scafarto non ci fu l’alterazione di una informativa con l’obiettivo di arrestare Tiziano Renzi_ Si tratta di errore sicuramente involontario – afferma il giudice nella sentenza – presumibilmente dovuto a una omessa correzione dell’informativa al momento della sua ultima stesura a meno di non voler attribuire all’imputato comportamenti del tutto illogici e anzi schizofrenici”. Il passaggio dell’informativa finito agli atti dell’indagine è quello in cui la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato” viene attribuita all’imprenditore napoletano, Alfredo Romeo, mentre a parlare è l’ex deputato di An Italo Bocchino. “Se Scafarto avesse comunque voluto inchiodare Renzi – prosegue Forleo – avrebbe sicuramente avuto gioco facile nella correzione dell’errore che era stato da altri compiuto e non avrebbe ripetutamente sollecitato tutti i suoi collaboratori a risentire le conversazioni, a chiedere di eventuali incontri tra Tiziano e Romeo e soprattutto a invitare tutti i predetti a una rilettura dell’informativa, evidentemente finalizzata a scongiurare errori”. Carlo Russo, il millantato credito e Tiziano Renzi – La procura contestava il millantato credito Russo, imprenditore amico di Tiziano Renzi. Il padre dell’ex premier era stato in un primo momento indagato per traffico di influenze e poi solo per millantato credito in concorso con lo stesso Russo nei confronti di Alfredo Romeo. Inoltre chi indaga è convinto che sia stato Tiziano Renzi a mettere in contatto Russo con Marroni, e che il padre dell’ex premier abbia effettivamente incontrato Alfredo Romeo nel 2015, a Firenze, in un periodo ritenuto, però, troppo lontano dai fatti in indagine. Stando al capo di imputazione l’imprenditore si faceva promettere da Romeo, 100mila euro all’anno, “come prezzo della propria mediazione” nei confronti di Daniela Becchini, all’epoca dei fatti dg del patrimonio Inps, Silvio Gizzi, all’epoca amminstratore delegato di Grandi Stazioni rail, Monica Chittò, all’epoca sindaca del comune di Sesto San Giovanni e infine Marroni, ex ad di Consip. Stando alle indagini le mediazioni dovevano riguardare commesse e appalti. Russo, avrebbe millantato con l’imprenditore napoletano (per cui la Cassazione aveva annullato l’arresto per corruzione il 9 marzo) anche il tramite dell’attuale sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, per fargli ottenere un appalto indetto dal comune di Sesto. Era stato sempre Russo a “prospettare” a Romeo la mediazione – tramite Renzi senior – che doveva consistere nell’ottenere aggiudicazioni di appalti della Consip. Tutte mediazioni inesistenti, secondo gli investigatori. La procura però aveva chiesto l’archiviazione per “assenza di riscontri sull’ipotesi di reato” per il padre dell’ex premier anche se ritenuto “ampiamente inattendibile”. Le richieste di archiviazione respinte – Il gip di Roma ha però respinto la richiesta di archiviazione per Tiziano Renzi, l’ex parlamentare del Futuro e Libertà, Italo Bocchino, e dell’imprenditore napoletano, Alfredo Romeo, indagati per traffico di influenze. Quindi il giudice aveva fissato la camera di consiglio per il 14 ottobre anche per l’ex ad di Consip, Domenico Casalino, per l’ex dirigente Francesco Licci e per l’ex ad di Grandi Stazioni Silvio Gizzi, cui era inizialmente contestata la turbativa d’asta e anche per l’ex presidente di Consip, Luigi Ferrara, accusato di false dichiarazioni al pm. Il 3 marzo 2017 papà Renzi dichiarò di non aver “mai preso soldi”, che si trattava “di un evidente caso abuso di cognome”, di non aver mai incontrato Alfredo Romeo. Ma due anni dopo erano emersi nuovi elementi sull’incontro come scritto in esclusiva sul Fatto Quotidiano.
(ANSA il 3 ottobre 2019) - "La mattina del 23 dicembre 2016 ho letto la prima pagina del Fatto Quotidiano: il titolo d'apertura era "Indagato Lotti". È così che ho scoperto di essere indagato, leggendo un giornale. Non ho mai ricevuto l'avviso di garanzia, perché chiesi immediatamente di essere ascoltato dagli inquirenti. Da quella mattina sono passati oltre mille giorni: 1014 per l'esattezza". Lo scrive su Facebook Luca Lotti. "In questo lungo periodo il mio nome legato all'inchiesta Consip è stato tirato in ballo in oltre 2600 articoli sui giornali italiani (cui vanno aggiunti migliaia di lanci d'agenzie e un numero incalcolabile di servizi televisivi). Sempre nello stesso periodo io ho rilasciato solo tre dichiarazioni, per confermare la mia innocenza e la mia fiducia nella giustizia: da un punto di vista della comunicazione è come tentare di fermare uno tsunami con l'ombrello. Ma da parte mia, sia chiaro, non c'è rabbia o rancore per nessuno, neanche verso chi si è divertito a sbattere il mostro in prima pagina senza assumersi nessuna responsabilità, aggiunge.
(ANSA il 3 ottobre 2019) - "Oggi, 3 ottobre 2019, il giudice per le udienze preliminari ha deciso che dovrà esserci un processo per accertare definitivamente la verità dei fatti. Il reato di cui devo rispondere è favoreggiamento di un 'non indagato'. Come ho fatto finora, affronterò tutto questo a testa alta. Ero e resto convinto che i processi si fanno nelle aule dei Tribunali e non sui giornali. Dimostrerò in quelle sedi la mia innocenza".
(ANSA il 3 ottobre 2019) - Da parte del maggiore del Noe, Gian Paolo Scafarto, non ci fu l'alterazione di una informativa con l'obiettivo di arrestare Tiziano Renzi. E' quanto afferma, in sostanza, il gup Clementina Forleo nella sentenza di proscioglimento anche dall'accusa di falso emessa oggi per Scafarto. "Si tratta di errore sicuramente involontario - afferma il giudice nella sentenza - presumibilmente dovuto a una omessa correzione dell'informativa al momento della sua ultima stesura a meno di non voler attribuire all'imputato comportamenti del tutto illogici e anzi schizofrenici". Il passaggio dell'informativa finito agli atti dell'indagine è quello in cui la frase "Renzi l'ultima volta che l'ho incontrato" viene attribuita all'imprenditore napoletano, Alfredo Romeo, mentre a parlare è l'ex deputato di An Italo Bocchino. "Se Scafarto avesse comunque voluto 'inchiodare' Renzi - prosegue Forleo - avrebbe sicuramente avuto gioco facile nella correzione dell'errore che era stato da altri compiuto e non avrebbe ripetutamente sollecitato tutti i suoi collaboratori a risentire le conversazioni, a chiedere di eventuali incontri tra Tiziano e Romeo e soprattutto a invitare tutti i predetti a una rilettura dell'informativa, evidentemente finalizzata a scongiurare errori".
(ANSA il 3 ottobre 2019) - La Procura di Roma impugnerà alla Corte d'Appello la sentenza con cui il gup di Roma, Clementina Forleo, ha prosciolto dalle accuse l'ex maggiore del Noe, Gian Paolo Scafarto, e il colonnello dell'Arma, Alessandro Sessa. E' quanto si apprende da fonti giudiziarie.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 4 ottobre 2019. Ci voleva il gup Clementina Forleo per sistemare in un colpo solo la Procura di Roma, il sistema renziano e i sottostanti giornaloni. Chi legge il Fatto non ne sarà stupito, visto che il caso Consip l'abbiamo sempre raccontato per quello che è: una doppia, gigantesca trama per pilotare il più grande appalto d'Europa in cambio di tangenti promesse al padre di Renzi e al suo galoppino; e poi, scoperti quei traffici dai pm napoletani Woodcock e Carrano e dal Noe, per rovinare l'indagine con fughe di notizie dal Giglio Magico ai trafficoni che smisero di trafficare e persino di parlare, facendo sparire le microspie da Consip. Chi invece seguiva lo scandalo sui tg e i giornali, si era fatto l'idea che pm e carabinieri eversivi avessero cospirato col Fatto per rovesciare il governo Renzi a colpi di false accuse, false intercettazioni, falsi verbali e false notizie contro quel martire di babbo Tiziano. Ora l'ordinanza del gup, che rinvia a giudizio i renziani Lotti, Vannoni, Russo e i generali Del Sette e Saltalamacchia per le soffiate sull' inchiesta, ma soprattutto proscioglie l'ex capitano Scafarto dalle accuse di falso e depistaggio, spazza via la più colossale fake news politico-giudiziaria mai vista dai bei tempi di Ruby nipote di Mubarak. Lo scandalo Consip, come aveva ben capito la Procura di Napoli, erano le trame sugli appalti e le soffiate sull' indagine, non certo gli errori in buona fede di Scafarto né gli scoop di Marco Lillo, come volevano far credere la Procura guidata da Pignatone e i suoi house organ, più impegnati a indagare su chi aveva indagato e informato che su chi aveva trafficato. Ora qualcuno, se proprio non riesce a vergognarsi, dovrebbe almeno scusarsi. Scafarto, che coordinava l' indagine del Noe, fu scippato dell' inchiesta, poi indagato e addirittura interdetto dall' Arma: tutto perché, in un'informativa con migliaia d' intercettazioni, aveva invertito i nomi dell' imprenditore Romeo e del consulente Bocchino. Quella svista, che ora il gup giudica "sicuramente involontaria" (le trascrizioni erano corrette e l'ufficiale raccomandò ai suoi di rileggerle per evitare errori), gli costò l'accusa di falso e depistaggio e la fama di taroccatore di prove per "incastrare" direttamente Tiziano e indirettamente Matteo. I giornaloni abbandonarono i condizionali sempre usati per Lotti e babbo Renzi (anche su fatti assodati) e passarono all' indicativo, dando per certo il dolo del capitano. Repubblica titolò: "Due carte truccate", "Così hanno manipolato le carte per coinvolgere Palazzo Chigi". Ed evocò addirittura "la sentina dei giorni peggiori della storia repubblicana". Tipo il piano Solo, il golpe Borghese, la strategia della tensione, la P2 . Carlo Bonini sentenziò che Scafarto "ha costruito consapevolmente due falsi", una "velenosa polpetta" per incastrare i Renzis e "alimentare una campagna di stampa che, con perfetta sincronia e sapiente "fuga di notizie" (lo scoop del Fatto, ndr)" doveva costringere la povera Procura di Roma a seguire quella deviata di Napoli. Le stesse fandonie uscirono quando Lillo fu indagato per violazione di segreto in combutta con Woodcock e la Sciarelli (poi prosciolti con tante scuse, anzi senza). Non contenta, Repubblica (col Corriere e il Messaggero) pubblicò un verbale taroccato del procuratore di Modena Lucia Musti contro Scafarto e il capitano Ultimo, che le avrebbero intimato di "far esplodere la bomba" Consip per "arrivare a Renzi". Poi si scoprì che la Musti aveva detto tutt' altro. Da allora Renzi grida alla congiura contro il suo governo (peraltro caduto da solo, dopo la disfatta referendaria del 4 dicembre 2016, due settimane prima dello scoop del Fatto): "Lo scandalo Consip è nato per colpire me e credo che colpirà chi ha falsificato le prove per colpire il premier. Io lo so bene chi è il mandante". E i migliori cervelli del Pd a ruota. Orfini: "Questo è il Watergate italiano, un caso di eversione, un attacco alla democrazia". Zanda, Fassino, Nencini e il duo Andrea Romano-Mario Lavia: "Complotto". E l'allora direttore di Repubblica, con grave sprezzo del ridicolo: "L'idea che sia possibile disarcionare un primo ministro o chiudere una carriera politica attraverso la manipolazione di intercettazioni e un uso sapiente delle rivelazioni ai giornali è sconvolgente Resta la necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d'Italia, agiscono in modo deviato ed eversivo". Parole degne di Sallusti, Feltri e Belpietro sui processi a B.: dalle "intercettazioni a strascico" alla giustizia a orologeria di Woodcock e Scafarto che nel "dicembre 2016, un mese politicamente decisivo per il Paese decidono i tempi" e imbeccano il Fatto, che "avvisa della tempesta che sta per succedere perché la bomba scoppi". Poi la bomba si rivela un'autobomba del Bomba. Il Watergate, un Water closed. Il Piano Solo, un Piano Sòla. E ora il gup scrive che gli unici depistaggi "volti a impedire il regolare corso delle indagini" sono quelli di "ambienti istituzionali vicini all' allora presidente del Consiglio Matteo Renzi". Ma intanto il polverone ha sortito i suoi effetti, dirottando l'attenzione generale dal vero scandalo Consip a quello falso, consacrando i dogmi dell'Immacolato Pignatone e del peccato originale napoletano, e fiancheggiando la sterilizzazione dell' indagine. Che, per fortuna, è stata sventata dai due gip: la Forleo ha prosciolto Scafarto (salvo ricorsi dei pm in appello); e Gaspare Sturzo ha respinto la richiesta d'archiviazione per Tiziano e Romeo. Intanto si son persi tre anni: l'ordinanza di ieri riporta le lancette dell' orologio al Natale 2016, quando l' indagine passò da Napoli a Roma. Tutto quel che è stato fatto, detto e scritto da allora è carta straccia. Come ha sempre sostenuto il Fatto, in beata solitudine.
Consip e la sindrome del ricorso. L'ente al centro di inchieste famose detiene il record dei contenziosi nelle gare bandite. Ecco cause e conseguenze. Fabio Amendolara l'11 luglio 2019 su Panorama. La sindrome da ricorso si scatena ogni qual volta un ufficiale giudiziario romano si presenta nella sede legale di Consip, la centrale unica degli appalti pubblici, per la notifica di un procedimento giudiziario. La cadenza? Un giorno sì e l’altro pure. Tar, Consiglio di Stato e Tribunali civili sono zeppi di procedimenti contro la Concessionaria dei servizi informativi pubblici. Il risultato è questo: i grandi appalti sono impaludati. Ogni lotto un ricorso. Tanto che la Sezione di controllo della Corte dei conti nell’ultima relazione depositata (maggio 2019) ha rilevato che «i grandi appalti Consip giungono a far registrare un tasso di impugnazione che sfiora il 30 per cento, a fronte del 2,7 per cento nazionale». Ossia: la media dei ricorsi per gli appalti banditi dagli altri enti non arriva al 3 per cento. Le contestazioni contro Consip superano il dato di dieci volte. La statistica analizzata è ufficiale ma non è completa, perché riguarda solo i dati che possiede l’Ufficio studi, massimario e formazione del Consiglio di Stato. Mancano all’appello i ricorsi cautelari d’urgenza presentati in sede civile. Un esempio da record: la sola gara numero 1.460, relativa a servizi di pulizia del Servizio sanitario nazionale, dell’importo di un miliardo e mezzo di euro, è stata interessata da 13 ricorsi. E i tempi, quando c’è la giustizia di mezzo, si fanno lunghi. I ricorsi totali ancora pendenti sono 210. Dal 2012 a oggi, su un totale di 806 ricorsi notificati, ne sono stati definiti 596, di cui 370 di primo grado e 226 in quelli successivi. Nel solo primo semestre del 2019, sono arrivati 63 ricorsi freschi freschi. Tre riguardano la pulizia delle caserme, tre la pulizia dei musei, due il Polo museale della Lombardia e il Cenacolo vinciano, uno il Parco archeologico di Paestum. Quelli pendenti, invece, al primo trimestre 2019, sono 51. Alcuni procedimenti sono tortuosi e complicati. Quello per la pulizia delle caserme militari, per esempio. In considerazione delle clausole contrattuali che consentivano di valutare l’intesa anticoncorrenziale accertata, il 16 giugno 2017 la Consip si determinò a escludere i due operatori che l’avevano vinta per violazione dei regolamenti. E questo è un tema su cui Consip è molto rigida, anche perché tra gli obiettivi della Centrale appaltante c’è quello di riqualificare la spesa pubblica e renderla più efficiente e trasparente, fornendo alle amministrazioni strumenti per gestire i propri acquisti, stimolando proprio le imprese al confronto competitivo. Come in questo caso, però, non tutto è filato liscio. Il contenzioso pende ancora davanti ai giudici amministrativi, nonostante il Tar del Lazio abbia già dato ragione a Consip. Le società hanno impugnato la sentenza al Consiglio di Stato, richiedendo le sospensioni. E il Consiglio di Stato ha sospeso la sentenza di primo grado. Effetto generato: Consip ha dovuto riammettere alla gara le due società escluse. Situazione risolta? Manco a dirlo. Tutto congelato fino alla decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea che dovrà pronunciarsi sulla questione dell’illecito anticoncorrenziale. Che, di fatto, è il tema principale dei giudizi in cui inciampa la Centrale unica degli appalti. Nell’attesa, e per prevenire ulteriori contenziosi, considerata la complessità della questione, Consip ha richiesto al Consiglio di Stato dei chiarimenti, delle linee guida per indirizzare in modo corretto le attività legate all’aggiudicazione della gara e per evitare altri contenziosi. Le controversie più frequenti ma anche più spinose riguardano soprattutto i servizi di pulizia e il cosiddetto facility management, termine entrato nello slang dell’«appaltologia» italiana e che indica la gestione dei servizi integrati: a partire dalla sanificazione all’energia elettrica, fino ad arrivare alla manutenzione e alla vigilanza. La corona da re dei contenziosi se la sono guadagnata sul campo due cartelli: al primo posto c’è il colosso delle cooperative rosse Manutencoop che nel 2017 ha avviato ben 21 contenziosi verso la Consip e nel 2018 (ultimo dato disponibile), insieme alla Rekeep, ne ha presentati 39; seconda sul podio è la Romeo gestioni (22 ricorsi in sei anni) e nel 2018 si è arrivati a quota 34. La Romeo gestioni è famosa anche per l’indagine penale che ha coinvolto il vecchio management e il ministro Luca Lotti, accusato di favoreggiamento perché avrebbe rivelato all’allora amministratore delegato della società di appalti pubblici Luigi Marroni l’esistenza dell’inchiesta coordinata dal pm anglonapoletano Henry John Woodcock. La questione contenziosi, comunque, è una brutta gatta da pelare. Si traduce in una crescita di costi per lo Stato, per colpa dei ritardi e per le proroghe tecniche. I servizi, infatti, non si fermano. Continuano in regime di proroga all’impresa che già deteneva l’appalto. Molti dei ricorsi, poi, si rivelano pretestuosi e a spesso infondati. Il totale dei giudizi favorevoli a Consip è pari a circa il 77 per cento. Bene che vada, però, le questioni si chiudono con semplici rallentamenti nelle procedure e con oneri economici per l’ente. Fino a qualche tempo fa l’ufficio legale si avvaleva di consulenze di primo piano e, ovviamente, le parcelle erano salate. Tanto che è arrivato più di qualche rimbrotto dalla Corte dei conti. Soprattutto per gli affidamenti «in via diretta e continuativa». La cerchia era ristretta: e i fascicoli finivano sempre agli stessi quattro avvocati (tra i quali spicca il nome di Alberto Bianchi, famosissimo avvocato del renzismo, fondatore della Fondazione Open e difensore del rottamatore Matteo Renzi) pur avendo a disposizione una trentina di legali interni con idoneo titolo di abilitazione. Il danno erariale, come riporta in un servizio su Il Tempo Valeria Di Corrado, stimato dai giudici contabili era coincidente con l’ammontare degli incarichi conferiti: 4,3 milioni di euro. Una cifra decisamente non irrisoria. Per correre ai ripari Consip si è rivolta all’Avvocatura dello Stato e, ad aprile, è stato siglato un protocollo che porta la firma dell’amministratore delegato Cristiano Cannarsa e dell’avvocato generale dello Stato Massimo Massella Ducci Teri. Gli scatoloni con i fascicoli sono già in fase di trasloco.
Più che un “caso Consip” esiste un “caso indagine Consip”. Il lavoro della procura ha portato ad alcune richieste di archiviazione, in particolare per il padre di Matteo Renzi, e a una serie di rinvii a giudizio. Che però non riguardano la corruzione. Massimo Bordin il 19 Febbraio 2019 su Il Foglio. Su una cosa, a proposito della vicenda dell’inchiesta Consip, al Fatto Quotidiano hanno ragione. Questa storia delle querele incrociate causate dal recente libro di Matteo Renzi ha la consistenza della panna montata. Solo per avere un quadro preciso di chi annuncia di querelare chi, viene il mal di testa. Se tutti poi dovessero sul serio tenere fede ai loro bellicosi propositi giudiziari ne uscirebbe un guazzabuglio inestricabile che avrebbe l’unico effetto di non chiarire nulla. Sin qui si può convenire. C’è però un dato incontrovertibile che riguarda l’indagine della procura romana che comprensibilmente al Fatto non apprezzano. Il lavoro della procura ha portato ad alcune richieste di archiviazione, in particolare per il padre di Matteo Renzi, e a una serie di rinvii a giudizio che però mostrano come più che un “caso Consip” esista, secondo i pm, un “caso indagine Consip”. I rinvii a giudizio riguardano non la corruzione ma una fuga di notizie sull’inchiesta oppure reati gravi come il falso e il depistaggio imputati al maggiore Scafarto. Resta accusato Carlo Russo, incontestabilmente amico di Tiziano, ma l’imputazione di millantato credito mostra che i pm pensano al massimo che Tiziano Renzi da certi amici avrebbe fatto meglio a guardarsi. Resta infine una mail di Scafarto in cui l’allora capitano invita un ex collega del Noe passato ai servizi segreti a informare “il capo” dello stato delle indagini su Consip. Il Fatto ha trattato il capitano Ultimo, non può che essere lui “il capo”, come un pasticcione o un poco di buono per la vicenda del covo di Riina ma in questo caso lo difende. Qui non si vuol fare lo stesso percorso al contrario ma un chiarimento pare necessario.
A che punto è il caso CONSIP. Il Post martedì 30 ottobre 2019. La procura di Roma ha concluso l'indagine sulla vicenda che riguardava il padre di Matteo Renzi, e che nel tempo è diventata un'inchiesta su come si fanno le inchieste in Italia. Dopo più di due anni la procura di Roma ha concluso le indagini sul cosiddetto “caso CONSIP“, la complicata vicenda giudiziaria partita da una sospetta di fuga di notizie e trasformatasi in un’inchiesta sugli ambigui rapporti tra stampa, politica, magistratura e forze dell’ordine. Le indagini si sono concluse con la richiesta di archiviazione per quello che ne era diventato il principale protagonista, Tiziano Renzi, padre dell’ex presidente del Consiglio. Secondo i magistrati non ci sono sufficienti prove che Tiziano Renzi abbia utilizzato le sue relazioni e le sue parentele per ottenere favori che non gli erano dovuti, nemmeno per andare a processo. Per altri importanti protagonisti dell’inchiesta la procura chiederà invece il rinvio a giudizio: i generali dei carabinieri Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia, accusati di aver rivelato notizie riservate su indagini in corso; Luca Lotti, ex segretario alla presidenza del Consiglio, accusato di aver rivelato quelle stesse notizie riservate alla persona oggetto delle indagini (cioè Luigi Marroni, l’ex ad di CONSIP, la società che si occupa di appalti per la pubblica amministrazione che dà il nome all’inchiesta). La procura chiederà il rinvio a giudizio anche per diversi altri ex manager di CONSIP e altri dirigenti pubblici, tutti accusati di aver avuto un ruolo nella fuga di notizie. Altre richieste di rinvio a giudizio riguarderanno probabilmente altri due carabinieri: il maggiore Gianpaolo Scafarto e il suo diretto superiore, il colonnello Alessandro Sessa, accusati di aver falsificato verbali e intercettazioni per cercare di incastrare Tiziano Renzi e alzare così il profilo politico dell’indagine. I due sono anche accusati di aver rivelato ai loro superiori dettagli sulle indagini sui quali erano invece tenuti alla riservatezza. All’epoca delle indagini Scafarto e Sessa erano due uomini di fiducia di Henry John Woodcock, il primo magistrato a occuparsi del caso, sospettato e poi prosciolto per alcune fughe di notizie ricevute dai giornali e ora sotto processo da parte del CSM per il trattamento brutale a cui avrebbe sottoposto uno degli indagati. L’inchiesta CONSIP iniziò nell’estate del 2016, quando Woodcock cominciò a sospettare che l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo avesse corrotto dei funzionari di CONSIP per ottenere alcuni appalti nella sanità campana. La procura di Napoli piazzò alcune microspie negli uffici di Luigi Marroni, amministratore delegato di CONSIP, ma qualcuno lo avvertì dell’indagine e Marroni fece “bonificare” i suoi uffici. Quando fu interrogato dai magistrati, Marroni fornì l’elenco di chi lo aveva avvertito delle indagini: i generali Del Sette e Saltalamacchia (il primo comandante in capo dei Carabinieri, proveniente dalla Toscana, il secondo comandante dei carabinieri toscani), il presidente di CONSIP Luigi Ferrara, il presidente della società idrica toscana Filippo Vannoni e infine l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti. Alla fine del 2016 l’inchiesta venne divisa per ragioni di competenza territoriale: la parte che riguardava CONSIP e Marroni passò alla procura di Roma, mentre a Woodcock rimase la parte che riguardava l’imprenditore Romeo. Proprio in quei giorni ci fu una fuga di notizie a favore del giornalista del Fatto Quotidiano Marco Lillo. In una serie di articoli a fine dicembre, Lillo rivelò per primo l’esistenza dell’indagine. Lillo sarà al centro di numerose altre fughe di notizie dell’indagine i cui autori non sono mai stati identificati. Per esempio fu sempre Lillo a pubblicare il testo di un’intercettazione telefonica tra Matteo Renzi e suo padre realizzata per ordine di Woodcock nel marzo del 2017 (Woodcock continuò a intercettare Renzi nonostante il filone che lo riguardava fosse stato spostato a Roma oltre tre mesi prima). Quando nel dicembre 2016 Lillo pubblicò i suoi articoli fece un accenno anche a Tiziano Renzi, che però all’epoca non era ancora indagato. Il coinvolgimento del padre dell’allora presidente del Consiglio è secondario rispetto alla vicenda principale, cioè la fuga di notizie sulle microspie nell’ufficio dell’amministratore di CONSIP Luigi Marroni. Secondo Woodcock, Renzi e un suo “amico di famiglia” (l’imprenditore Carlo Russo) avrebbero promesso a Romeo (l’imprenditore che avrebbe corrotto funzionari CONSIP per ottenere appalti nella sanità campana: quello da cui è partito tutto) di usare la loro influenza su Marroni per facilitare i suoi affari in cambio di denaro. Quando però la procura di Roma ricevette le carte dell’inchiesta scoprì una serie di errori e irregolarità che riguardavano proprio la posizione di Renzi, e che erano stati compiuti dai carabinieri che avevano svolto le indagini per conto di Woodcock. Alcuni verbali di intercettazioni erano stati alterati, mentre altri episodi erano stati nascosti o esagerati, all’apparenza con lo scopo di incastrare Tiziano Renzi e alzare così il profilo politico dell’indagine (che fino a quel momento era un’inchiesta su un importante imprenditore napoletano, ma di interesse soprattutto locale). Negli anni l’inchiesta – partita come un caso di corruzione – si è profondamente trasformata ed è finita con il diventare un’inchiesta sull’inchiesta stessa. Il filone principale oggi riguarda infatti un reato “generato” dalla stessa inchiesta, ossia la fuga di notizie sulle microspie installate nell’ufficio di Marroni. Questa fuga di notizie proveniva da chi stava realizzando le indagini ed è poi arrivata agli ambienti politico-amministrativi toscani, in particolare quelli vicini al centrosinistra di Matteo Renzi. Secondo i magistrati qualcuno fece arrivare informazioni sull’indagine CONSIP ai capi dei carabinieri toscani, che a loro volta ne informarono il sottosegretario Lotti e un buon numero di alti dirigenti pubblici toscani. Il filone secondario su Tiziano Renzi e i suoi ipotetici traffici di influenze sembra invece essersi esaurito per mancanza di prove (uno degli elementi più bizzarri in mano all’accusa era un biglietto trovato in una discarica con le iniziali “TR”). Il terzo filone ancora aperto riguarda di nuovo l’inchiesta stessa più che i fatti che l’hanno prodotta, ossia i depistaggi e le fughe di notizie ai danni di Tiziano Renzi, compiute secondo i magistrati dai due carabinieri che condussero la fase più importante delle indagini.
Tutte le tappe della vicenda Consip: l'infografica. L'inchiesta si è chiusa con sette domande di rinvio a giudizio. Ecco tutte le tappe che hanno portato alla richiesta di processo. La Repubblica il 14 dicembre 2018. Per il caso Consip la procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di sette persone: Luca Lotti, ex ministro dello Sport, accusato di favoreggiamento; Tullio Del Sette, ex comandante dei carabinieri, cui è contestata anche la rivelazione del segreto. E poi Emanuele Saltalamacchia, ex comandante della Legione Toscana, accusato di favoreggiamento. Giampaolo Scafarto, l'ufficiale che guidava le indagini, accusato di reati che vanno dal falso alla rivelazione del segreto d'ufficio. Alessandro Sessa, colonnello e numero due del Noe, cui è contestato il depistaggio; Filippo Vannoni, ex consulente di Palazzo Chigi: nei suoi confronti si procede per favoreggiamento; Carlo Russo, faccendiere amico di Tiziano Renzi: la procura lo accusa di millantato credito.La timeline
Novembre 2016. La Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Napoli indaga su presunti appalti truccati all’ospedale Cardarelli. Nel mirino la società di Alfredo Romeo: alcuni dipendenti sono sospettati di avere dei contatti con la camorra.
Dicembre 2016. L’inchiesta si allarga a Roma e coinvolge la Consip, centrale unica per i servizi della pubblica amministrazione. In particolare si indaga sulla gara per il “Facility management”, del valore di 2,7 miliardi di euro, di cui Romeo si è aggiudicato tre lotti (valore 600 milioni), per la gestione dei palazzi delle istituzioni a Roma.
23 dicembre 2016. Trapela la notizia che il ministro allo Sport Luca Lotti (già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Renzi) è indagato per rivelazione di segreto istruttorio. Indagato anche il comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette. Secondo l’accusa, i due hanno avvisato i vertici Consip dell’esistenza di un’indagine e della presenza di microspie.
27 dicembre 2016. Luca Lotti viene interrogato a Roma dal pubblico ministero Mario Palazzi e respinge le accuse: “Non sapevo dell’esistenza di un’inchiesta, quindi non avrei potuto rivelare a qualcuno circostanze dell’indagine in corso”.
16 febbraio 2017. Tiziano Renzi, padre di Matteo, riceve un avviso di garanzia dalla procura di Roma per “traffico di influenze illecite”: secondo l’ipotesi di accusa, insieme all’imprenditore toscano Carlo Russo, si sarebbe dato da fare per facilitare Alfredo Romeo e fargli ottenere gli appalti Consip.
1 marzo 2017. Arrestato a Napoli Alfredo Romeo, con l’accusa di corruzione nei confronti di Marco Gasparri, dirigente Consip (a sua volta indagato): secondo l’accusa, Romeo gli avrebbe versato somme per 100 mila euro, a partire dal 2012.
03 marzo 2017. Tiziano Renzi interrogato per 4 ore a Roma dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. “Quello di cui stiamo parlando – dice il suo legale Federico Barattini – è un classico caso di abuso di cognome. Qualcuno ha abusato del nome di Tiziano Renzi. Lui non è mai stato in Consip e non ha mai preso un soldo, non ha mai avuto rapporti con Alfredo Romeo. Non lo ha mai visto”.
03 marzo 2017. Tra le carte dell’inchiesta spunta “Mister X”: un uomo che Tiziano Renzi ha incontrato nel parcheggio dell’aeroporto di Fiumicino il 7 dicembre. Ma lo stesso Renzi smonta il caso, sostenendo che si tratta di una persona con la quale ha rapporti di lavoro e ne fa il nome agli inquirenti.
06 marzo 2017. Mister X esce allo scoperto: si tratta di Alessandro Comparetto, direttore generale della società di poste private Fulmine Group: “Sono stato io a incontrare Tiziano Renzi a Fiumicino”. L’uomo è estraneo all’inchiesta.
06 marzo 2017. Alfredo Romeo, interrogato dal giudice delle indagini preliminari Gaspare Sturzo nel carcere di Regina Coeli dove è detenuto dopo l’arresto, non risponde alle domande, avvalendosi della facoltà concessa agli indagati. I suoi legali depositano una memoria: “L’immagine di Romeo come grande corruttore non è corretta”.
15 marzo 2017. I pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano hanno disposto perquisizioni nell'ufficio del direttore generale per la gestione e manutenzione degli edifici giudiziari napoletani, Emanuele Caldarera, e presso gli uffici della Romeo Gestioni al Centro direzionale e presso il Palazzo di Giustizia.
29 marzo 2017. Consip, Emiliano ascoltato in procura a Roma per gli sms ricevuti da Lotti e Tiziano Renzi.
10 aprile 2017. Il capitano del Noe, Giampaolo Scafarto, è indagato dalla procura di Roma per falso. Autore di un'informativa, avrebbe accreditato erroneamente la tesi della ingerenza dei servizi segreti nel corso degli accertamenti e avrebbe poi falsamente attribuito ad Alfredo Romeo e non al suo collaboratore Italo Bocchino la frase intercettata: "...Renzi l'ultima volta che l'ho incontrato". Interrogato si è avvalso della facoltà di non rispondere.
16 maggio 2017. Le intercettazioni delle telefonate tra l'ex premier e il padre alla vigilia dell'interrogatorio sull'inchiesta Consip pubblicate dal Fatto, contenuta nel nuovo libro di Marco Lillo Di padre in figlio. Tiziano Renzi nega la cena con Alfredo Romeo in un ristorante "ma potrei averlo incontrato al bar".
27 giugno 2017. La procura di Roma iscrive per rivelazione del segreto il pm Henry John Woodcock, la sua compagna Federica Sciarelli (volto di “Chi l'ha visto") e il giornalista de Il Fatto Marco Lillo.
16 settembre 2017. A Woodcock i colleghi romani contestano anche il falso per le informative "sbagliate" del Noe.
2 ottobre 2017. Viene chiesta l’archiviazione per Woodcock e Sciarelli (il gip la dispone il 17 gennaio 2018).
29 ottobre 2017. I pm notificano la conclusione indagini a 7 indagati. Per gli altri, tra i quali Tiziano Renzi e Italo Bocchino, viene chiesta l'archiviazione.
· Gli Iter farraginosi dei malpensanti provocano ad ogni appalto una tangente.
Saul Caia per ilfattoquotidiano.it il 13 novembre 2019. Un progetto da quasi 15 milioni di euro alla raffineria di Gela, finanziato dall’Eni nel 2013, a un’azienda che in precedenza aveva ricevuto appalti “per somme non superiori ai 300 mila euro”. Nei numerosi atti d’inchiesta sul cosiddetto “sistema” di Antonello Montante, condannato in primo grado (in abbreviato) a 14 anni per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, la squadra mobile di Caltanissetta descrive i “personali e diretti interessi” dell’ex presidente di Confindustria Sicilai in “attività gestite dall’Eni”. In una comunicazione di notizie di reato del 2018 gli investigatori citano la “gara d’appalto per il trattamento dei rifiuti”, vinta dalla Petroltecnica Spa, dell’imprenditore romagnolo Mario Pompeo Pivi, specializzata nel settore bonifiche e trattamento rifiuti, che operava anche nei poli petrolchimici di Priolo e Milazzo. A “fiutare” l’affare per “veicolare i lavori”, sarebbe stato proprio “l’apostolo dell’antimafia”, come era chiamato Montante ai tempi in cui era considerato un paladino della legalità. “Avevo già un contratto alla raffineria di Gela per la gestione dei rifiuti, quindi ho proposto all’ingegnere Bernardo Casa, che conoscevo, di realizzare un impianto per trattarli in modo da non farli uscire dal territorio – spiega Pivi a Il Fatto -. Cercavo un partner locale, mi è stato suggerito di rivolgermi a Confindustria Caltanissetta e ad Antonello Montante”. Sono gli anni dell’ascesa di Montante, “indicato – si legge negli atti – come referente per l’area di Gela dal personale della raffineria”. “Una strettissima vicinanza ai vertici di Eni” documentata dai lui stesso in un file excel, trovato nel pc della sua casa a Serradifalco, in cui annotata incontri, pranzi e cene, tra il 2010 e il 2015, con la futura presidente Emma Marcegaglia, i manager Claudio Descalzi, Salvatore Sardo, Claudio Granata, Domenico Noviello, Bernardo Casa e molti altri. “Era l’estate 2013 quando alla raffineria di Gela ho incontrato Montante accompagnato da Ivan Lo Bello – spiega Pivi -, gli ho fatto vedere il progetto e siamo diventati soci”. Lo Bello è l’ex “gemello” di Montante nel mondo dell’antimafia: i due imprenditori percorrono insieme la scalata ai vertici degli industriali, iniziata dalla camera di commercio a Confindustria, fino alla vicepresidenza nazionale. A Ivan, banchiere con un’azienda nel settore dolciario, la delega all’education, mentre per Antonello, che produce biciclette e ammortizzatori, quella della legalità. In mezzo le inchieste giudiziarie. Lo Bello era finito indagato per associazione per delinquere a Potenza, poi archiviata a Roma, sugli sviluppi della vicenda Petrolgate e il giacimento Tempa Rossa in Basilicata: era accusato di aver influito nella gestione di alcuni affari al porto di Augusta. Montante, già condannato lo scorso maggio a Caltanissetta, è indagato anche per concorso esterno in associazione mafiosa e per i presunti fondi neri legati alle sue aziende. Pivi, Montante e Lo Bello si uniscono nella Terranova di Sicilia Srl, suddividendo le quote tra Petroltecnica Srl e Calta Srl. In realtà la società era stata costituita nel 2010 a Caltanissetta, ma diventa attiva solo tre anni dopo. Per gli inquirenti, la “Calta è riconducibile a Montante”, perché amministrata da Claudio Contarelli, suo uomo di fiducia, con un capitale di 10mila euro, sottoscritto da Massimo Meoni (2%) e dalla società “Compagnia Fiduciaria e di Trust Spa – Melior Trust Spa” (98%). Gli inquirenti non hanno dubbi, Montante e Lo Bello erano i “soci occulti”. “In buona sostanza – scrivono – fiutando la possibilità di veicolare i lavori per la realizzazione e la gestione della piattaforma, Montante e Lo Bello hanno utilizzato una società apparentemente a loro non riconducibile”. “All’inizio la cosa un po’ mi puzzava, avevo chiesto perché non volessero essere presenti e mi diedero una spiegazione plausibile, dicendomi che era per evitare problemi contro tutti quelli che avevano contro – racconta Pivi -. Mi fidavo, contavo molto sul loro supporto in zona, si presentavano come l’élite, l’antimafia che lottava contro il pizzo”. “Stiamo parlando di cose assurde, non ho mai fatto niente e non c’è nulla – precisa Lo Bello -. Certo che conosco Pivi, mi ricordo di aver partecipato all’incontro, mi hanno proposto questo progetto, ho visto che la cosa non era piacevole e ho fatto subito un passo indietro”. L’Eni conferma che i loro “dirigenti locali” sapevano che c’erano Montante e Lo Bello dietro la Terranova, “circostanza appresa dopo l’aggiudicazione della gara a Petroltecnica” e alla “presentazione del piano industriale della società”. Sarà Montante a farla associare a Confindustria nel febbraio 2014, presentandola all’assemblea del consiglio direttivo del Centro Sicilia. La “gara appalto – precisa Eni – per la gestione e lo smaltimento di rifiuti gestita dalla Raffineria di Gela (Ra.Ge. Spa)” è vinta “tra 12 partecipanti”, “nel gennaio 2013 dalla società Petroltecnica”. Appena un anno dopo, la società ha “chiesto ed ottenuto la voltura del contratto al Raggruppamento Temporaneo di Impresa Petroltecnica/Terranova di Sicila S.r.l”, e “il valore residuo dell’appalto era di circa 15 milioni di Euro”. “Parliamo di 5-6 milioni di euro, non di quelle cifre, Terranova non ha diviso utili – dice Pivi -, Montante e Lo Bello non ci hanno guadagnato un euro”. La Calta (oggi in liquidazione) nel 2016 cede la sua parte di quote alla Petroltecnica, che subito dopo decide di chiudere la Terranova. Dopo aver ricevuto tutte le autorizzazioni regionali, il prossimo marzo entrerà in funzione l’impianto a Gela per trattare i rifiuti, realizzato dalla società romagnola. “Sull’atto pratico, Montante e Lo Bello non hanno fatto assolutamente niente, con loro ho solo perso tempo – aggiunge Pivi -, è stata una brutta esperienza, quando nel 2015 ho letto sulla stampa di Montante, mi sono preoccupato e ho chiesto di essere ascoltato dalla Procura di Caltanissetta”.
Venezia, decine di milioni di tangenti e una ventina di condanne: perché non c’è il Mose a proteggere la città. L'ex governatore Galan, l'ex assessore Chisso: la lunga lista di politici e imprenditori responsabili del sistema di tangenti scoperto tra il 2013 e il 2014 che tra arresti, indagini e processi ha bloccato lo sviluppo dell'opera. Secondo i magistrati attorno al Mose sarebbero state emesse 33 milioni di euro di fatture false: almeno la metà - 16/17 milioni - sarebbero servite a pagare mazzette. Ma altre stime portano a una stima di quasi cento milioni. Il Fatto Quotidiano il 13 Novembre 2019. Un numero preciso sull’ammontare delle tangenti non c’è. E questo la dice lunga sul livello di corruzione che ha caratterizzato la storia del Mose, acronimo di Modulo Sperimentale Elettromeccanico che rimanda direttamente al profeta capace di far separare le acque del Mar Rosso. È questo che dovrebbe fare il Mose, senza accento: proteggere Venezia dall’acqua alta. Ideato negli anni ’80, cominciato nei duemila, il progetto non ha ancora visto la luce. Colpa, sopratutto, di un sistema di tangenti scoperto tra il 2013 e il 2014 e che tra arresti, indagini e processi ha bloccato lo sviluppo dell’opera. Secondo gli inquirenti attorno al Mose sarebbero state emesse 33 milioni di euro di fatture false: almeno la metà – 16/17 milioni – sarebbero servite a pagare tangenti. Altre stime, invece, portano a ipotizzare quasi cento milioni di euro di mazzette. La data spartiacque (è proprio il caso di dirlo, nonostante il gioco di parole) nella storia dell’opera è il 4 giugno del 2014: quel giorno Venezia viene travolta da un’ondata d’alta marea partita dalla procura. Vengono arrestate 35 persone, un centinaio gli indagati. In quell’elenco di nomi ci sono imprenditori, politici, amministratori, di centrodestra e centrosinistra, che negli anni sono entrati nel libro paga di Giovanni Mazzacurati, a lungo direttore generale del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per le opere di salvaguardia della Laguna dalle acque alte. Mazzacurati voleva assicurarsi di non avere ostacoli nei finanziamenti pubblici per il Mose. Per questo pagava politici e imprenditori. Un giro colossale di mazzette, all’inizio calcolato in cento milioni di euro per cinque anni, che aveva colpito l’ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan, l’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, l’ex ministro dei Trasporti, Altero Matteoli. L’indagine era nata dagli accertamenti sui fondi neri creati all’estero da alcuni imprenditori legati al Consorzio Venezia Nuova: Piergiorgio Baita, ex amministratore delegato della Mantovani, Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan diventata imprenditrice e poi lo stesso Mazzacurati. I tre decisero di patteggiare e sulle loro dichiarazioni è nata l’inchiesta che ha travolto Venezia. Il nome principale finito nella bufera era quello del “doge” Galan, potente ex governatore, che ha patteggiato due anni e dieci mesi per corruzione continuata. Gli hanno confiscato la villa sui Colli Euganei, per un controvalore di due milioni e 600mila euro. L’ex governatore, poi deputato di Forza Italia e poi ministro dell’Agricoltura, è stato anche condannato a risarcire lo Stato per 5 milioni 808 mila euro, di cui 5 milioni 200 mila euro per danno all’immagine e 608 mila euro per danno da disservizio. Ha patteggiato sempre per corruzione anche l’allora assessore regionale alle infrastrutture Renato Chisso: per lui due anni e mezzo di pena. Si è accordato a due anni l’ex magistrato delle Acque, Patrizio Cuccioletta. In totale il 16 ottobre del 2014 furono 19 gli indagati che patteggiarono davanti al giudice di Venezia. A Milano, invece, si accordarono con la procura – in uno stralcio dell’inchiesta – l’ex generale della Guardia di Finanza Emilio Spaziante e l’ex ad di Palladio Finanziaria Roberto Meneguzzo, rispettivamente a 4 anni di carcere con una confisca di 500 mila euro e a 2 anni e mezzo di reclusione. Provò a patteggiare anche l’ex sindaco di Venezia, Orsoni, ma il gup respinse l’istanza. Si aprì dunque un processo col rito ordinario: l’ex sindaco è stato assolto in appello nel luglio scorso per alcuni capi d’accusa di finanziamento illecito e prescritto per altri. La stessa decisione emessa per l’ex presidente del Magistrato alle acque, Maria Giovanna Piva. Sempre i giudici di secondo grado hanno dichiarato il non doversi procedere per l’ex ministro dei Trasporti, Altero Matteoli, ritenendo “il reato estinto per morte dell’imputato” e revocando “le corrispondenti situazioni civili”. In primo grado l’esponente del Pdl era stato condannato a 4 anni per corruzione. Condanna a 4 anni confermate in appello anche per Erasmo Cinque, con confisca di beni ridotta 9 milioni di euro. All’ex presidente di Adria infrastrutture, Corrado Crialese, è stata rideterminata la pena a un anno e otto mesi. Prescritte tutte le accuse a carico dell’imprenditore veneziano Nicola Falconi, in primo grado condannato a 2 anni e 2 mesi oltre che a un maxi risarcimento di 3 milioni di euro, poi ridotto a circa 100 mila euro. I grandi accusatori della vicenda Mose, invece, hanno patteggiato solo il 28 febbraio 2019: Baita, Minutillo, Mirco Voltazza, Nicolò Buson, ex direttore finanziario di Mantovani, e Pio Savioli. I primi tre hanno patteggiato 2 anni per corruzione e frode fiscale, mentre hanno chiusa la propria vicenda giudiziaria con un anno e otto mesi Buson e Savioli, quest’ultimo solo per reati fiscali. Il gup ha disposto confische per circa 24 milioni, per la maggior parte a carico di Baita e Buson, per i ruoli che avevano in Mantovani. Un primo tentativo di patteggiamento era fallito perché Baita e Buson non avevano dimostrato la possibilità di saldare le richieste economiche.
Sara Monaci per ilsole24ore.com il 14 Novembre 2019. L’inchiesta “Mensa dei poveri” fa un salto di qualità con l’arresto ai domiciliari di Lara Comi, l’eurodeputata che la scorsa primavera era stata accusata di finanziamento illecito e corruzione. Le indagini, coordinate dalla Dda della procura di Milano, dal nucleo tributario della Gdf di Milano, dalla Gdf di Busto Arsizio e di Varese, che già lo scorso 7 maggio aveva portato a 43 misure cautelari eseguite, tra gli altri, nei confronti dell’ex coordinatore di Forza Italia a Varese Nino Caianiello, del consigliere lombardo “azzurro” Fabio Altitonante e dell’allora candidato alle Europee e consigliere comunale in quota FI Pietro Tatarella. Sono state proprio le dichiarazioni ai pm di Caianiello, presunto “burattinaio” del sistema e interrogato molte volte nei mesi scorsi, a confermare un quadro accusatorio già emerso dai primi racconti di imprenditori e indagati in Procura dopo il blitz.
Gli «schemi criminosi». Nell’ordinanza il Gip scrive che l’ex europarlamentare di Forza Italia «nonostante la giovane età» ha mostrato «nei fatti una non comune esperienza nel fare ricorso ai diversi, collaudati schemi criminosi volti a fornire una parvenza legale al pagamento di tangenti, alla sottrazione fraudolenta di risorse pubbliche e all’incameramento di finanziamenti illeciti». È stato arrestato anche l’ad dei supermercati Tigros Paolo Orrigoni, ai domiciliari, e il dg di Afol Metropolitana Giuseppe Zingale (in carcere). In un filone dell’indagine “Mensa dei Poveri” l’ordinanza è stata firmata dal gip Raffaella Mascarino e chiesta dai pm Silvia Bonardi, Luigi Furno e Adriano Scudieri per accuse, a vario titolo, di corruzione, finanziamento illecito e truffa.
«Mense dei poveri». L’operazione è un nuovo filone della maxi indagine che il 7 maggio portò a 43 misure cautelari eseguite, tra gli altri, nei confronti dell’ex coordinatore di Forza Italia a Varese Nino Caianiello, del consigliere lombardo “azzurro” Fabio Altitonante e dell’allora candidato alle Europee e consigliere comunale in quota FI Pietro Tatarella. Sono state proprio le dichiarazioni ai pm di Caianiello, presunto “burattinaio” del sistema e interrogato molte volte nei mesi scorsi, a confermare un quadro accusatorio già emerso dai primi racconti di imprenditori e indagati in Procura dopo il blitz.
Le tre accuse a Comi. Inizialmente Comi era stata coinvolta perché avrebbe finto consulenze (copiando tra l’altro una tesi di laurea per simulare un lavoro mai fatto) per ottenere finanziamenti illeciti. Caianello ne parla approfonditamente nelle intercettazioni che ha subito. Coinvolto nel finanziamento illecito a suo carico anche il presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti. Ora il quadro è diventato più preciso. Dagli elementi indiziari «emerge la peculiare abilità che l’indagata Comi ha mostrato di aver acquisito nello sfruttare al meglio la sua rete di conoscenze al fine di trarre» dal ruolo pubblico «di cui era investita per espressione della volontà popolare il massimo vantaggio in termini economici e di ampliamento della propria sfera di visibilità», scriveva già a primavera il gip.
Tre episodi. Lara Comi risponde in particolare di tre episodi. Il primo riguarda due contratti di consulenza ricevuti dalla sua società, la Premium Consulting Srl, con sede a Pietra Ligure (Savona), da parte di Afol, «dietro promessa di retrocessione di una quota parte agli stessi Caianiello e Zingale (dg di Afol, ndr)». Circostanza messa a verbale da Maria Teresa Bergamaschi, avvocato e stretta collaboratrice dell’ex eurodeputata in un interrogatorio. L’esponente di FI è accusata anche di aver ricevuto un finanziamento illecito da 31mila euro dall’industriale bresciano titolare della Omr holding e presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti. Il versamento sarebbe stato effettuato in vista delle ultime elezioni europee e per una consulenza basata su una tesi di laurea scaricabile dal web dal titolo “Made in Italy: un brand da valorizzare e da internazionalizzare per aumentare la competitività delle piccole aziende di torrefazione di caffè”. Nel terzo episodio (truffa aggravata al Parlamento europeo) è coinvolto anche il giornalista Andrea Aliverti, che collaborava con Comi come addetto stampa, con compenso di mille euro al mese, rimborsati dall’Europarlamento. Qui l’accusa sarebbe di aver organizzato un finto contratto: dei tremila euro che Comi pagava, due venivano restituiti.
Il ruolo di Caianiello. Il perno dell’inchiesta è Nino Caianiello, Forza Italia, di fatto il capo nascosto del partito in regione, pur partendo da Gallarate. Il suo ruolo era il coordinamento dei faccendieri di FI tramite l’associazione Agorà. Attraverso questa associazione riuniva le persone “amiche” e riusciva a decidere consulenze e nomine per le candidature. La forza di Caianiello secondo le ricostruzioni dell’indagine sarebbe la sua capacità di fare rete. L’inchiesta ha più dossier, che girano tutti intorno a lui. Non c’è infatti un solo episodio di corruzione o truffa o finanziamento illecito, ma ci sono più fatti non collegati fra loro: di fatto una ricostruzione dei rapporti che Caianiello aveva. Per esempio il consigliere comunale Tatarella, adesso ai domiciliari dopo mesi di carcere preventivo, è accusato di avere un rapporto di consulenza presso una società di servizi, garantendo così aiuti nelle relazioni nel Comune di Milano. Il consigliere regionale Altitonante, ora libero dopo mesi di domiciliari, avrebbe invece chiesto denaro per la sua campagna elettorale e tramite Tatarella chiesto un aiuto per sbloccare la pratica di una casa, ferma a Palazzo Marino, per ricambiare il favore. Caianiello, nell’inchiesta, coinvolge anche il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. È in questa vicenda che anche Fontana finisce indagato per abuso di ufficio (dossier stralciato su richiesta del legale). Caianiello, intercettato, chiede aiuto per “sistemare” Luca Marsico, non eletto in Forza Italia, ex socio dello studio legale in cui Fontana lavorava. Il governatore prende tempo. Poi Marsico diventa consulente di un ente di valutazione degli investimenti della Regione. Per la difesa l’incarico poteva essere ad personam, su base fiduciaria, pur essendoci stata una sorta di selezione aperta a tutti.
Lara Comi arrestata, Gioacchino Caianiello ai pm: "Assunto a mia insaputa". Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. Finisce agli arresti domiciliari per un giro di tangenti Lara Comi, ex europarlamentare di Forza Italia. Il tutto nell'ambito dell'inchiesta Mensa dei poveri, su un giro di tangenti che vede al centro Gioacchino Caianiello, ex Forza Italia nel varesotto, arrestato lo scorso maggio dalla procura di Milano e ritenuto dall'accusa il burattinaio del giro di tangenti e incarichi in Lombardia. In alcune intercettazioni, l'ex coordinatore azzurro a Varese, insultava Lara Comi: "Con questa cretina della Lara a che punto stiamo? Perché io la vedo stasera, così gli faccio lo shampoo...". E con il passare delle ore emergono ulteriori dettagli sull'indagine: si scopre per esempio che Caianiello sarebbe stato "assunto a sua insaputa" proprio dall'ex europarlamentare. Nel dettaglio, nell’interrogatorio dello scorso 2 settembre, i pm milanesi informano Caianiello dell’esistenza di un contratto, durata dall’1 novembre al 31 dicembre 2016, in cui risulta assunto come collaboratore dell’esponente politico di Forza Italia. Un incarico da 40 ore settimanali a fronte di un corrispettivo di 2.450 euro lordi mensili. Eppure lui smentisce di aver ricoperto quel ruolo: "Riconosco la firma mostratami come la mia, ma non ricordo di avere svolto questo incarico e, comunque, nego di avere svolto un’attività in relazione a questo contratto diversa da quella che già da dieci anni svolgevo in favore del partito e quindi della Comi quale coordinatrice provinciale", ha risposto ai magistrati. Dunque, ha aggiunto: "Tuttavia, come ho già riferito, da più persone la Comi veniva pressata affinché trovasse un modo per riconoscermi dei sussidi economici per l’attività che, di fatto, ho continuato a svolgere dopo la formale dismissione della carica di coordinatore provinciale", aveva concluso.
Lara Comi arrestata, "ecco chi è davvero". Il magistrato scatenato: cosa diceva l'ex eurodeputata. Libero Quotidiano il 14 Novembre 2019. Arrivano le intercettazioni di Lara Comi, ex eurodeputata di Forza Italia arrestata nell'ambito dell'inchiesta "Mensa dei poveri": "Oggi io dirò che non ho mai preso 17k (17mila euro, secondo l'accusa, ndr), e che non ho mai avuto consulenze con Afol né a società a me collegate che non esistono... Se mi chiedono perché dicono questo posso dire che eri tu che facevi loro consulenza". Queste le sue parole in una conversazione mentre parla con l'avvocato Maria Teresa Bergamaschi. Nel gennaio scorso poi le consiglia di utilizzare "Telegram che è più comodo". La Comi suggerisce anche di non rispondere a telefonate sospette: "Se dovessero chiamarti non rispondere né al telefono, né agli sms poi ti spiego". In altre intercettazioni Nino Caianiello, ex coordinatore di Fi a Varese e secondo l'accusa presunto burattinaio di tutta la rete di mazzette, parla al telefono dell'ex eurodeputata in modi non proprio lusinghieri: "Con questa cretina della Lara a che punto stiamo? Perché io la vedo stasera, così gli faccio lo shampoo...", diceva Caianiello intercettato il 29 novembre 2018 parlando con il dg di Afol Metropolitana Giuseppe Zingale agli arresti anche lui.
Le chat di Lara Comi con l’avvocato: «Ma i pm mi possono indagare?» Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. Le ultime parole famose: «Secondo te mi possono indagare?», chiede lo scorso 10 maggio Lara Comi alla sua esperta di fondi pubblici europei, l’avvocato Maria Teresa Bergamaschi, presidente della Camera penale di Savona, che le risponde: «Per potere possono, ma sarebbe una porcheria: in una giustizia corretta non dovrebbero, ma se vogliono crearti danni per la campagna elettorale…». Dopo appena 4 giorni, però, va a finire che proprio l’avvocato, inizialmente sulla negativa nel primo interrogatorio da teste, quando il 13 maggio diventa indagata (e l’atto istruttorio viene sospeso), l’indomani 14 maggio ritorna in Procura e consegna il proprio telefono cellulare contenente in memoria le chat di Whatsapp che inguaiano definitivamente l’allora ancora europarlamentare. Questa consegna spontanea consente ai pm di ritenere quei messaggi «prova documentale» (sulla scorta di una Cassazione del 2017), e quindi di aggirare il rischio di inutilizzabilità di messaggi vocali o chat altrimenti coperti dall’immunità dell’allora europarlamentare in carica rispetto sia a intercettazioni sia a sequestri di corrispondenza. Un appunto del 2018 mostra lo schema della corruzione contestata al patron della catena Tigros, Orrigoni. Viene così ricostruita la già affiorata storia dell’accordo tra Nino Caianiello (vero referente di Forza Italia varesina) e Giuseppe Zingale (direttore generale di Afol-Agenzia metropolitana per il lavoro) affinché Afol attribuisse consulenze alla consulente di Lara Comi in cambio del fatto che lei poi retrocedesse una parte del compenso a Caianiello per i costi del partito a Varese di cui Comi coordinatrice. Retrocessione che avviene montando un’altra consulenza fittizia, da Comi a Bergamaschi, per mascherare 5.000 euro dei 10.000 che devono tornare indietro, venendo regolati gli altri 5.000 dal mancato pagamento di Comi a Bergamaschi di un libro sui fondi europei, che Comi finge di scrivere ma che in realtà le viene redatto da Bergamaschi. Pesano così, per i pm, le chat dove Comi con «emoticon» sorridente anticipa a Bergamaschi che «Zingale vorrà il suo regalo di Natale», alludendo al fatto che vorrà la parte di retrocessione illecita. E quelle dove Comi ingenuamente preannuncia come vorrebbe sviare stampa e pm («Comunque oggi io dirò che non ho mai preso 17k (17mila euro, ndr), non ho mai avuto consulenze con Afol né società a me collegate che non esistono...»), e all’amica raccomanda per prudenza di non telefonare («Se dovessero chiamarti non rispondere, poi ti spiego»), e di usare le «chat di Telegram che è più comodo» e permette la distruzione immediata dei messaggi. Proprio quelli però poi portati da Bergamaschi ai pm. Due mesi fa si aggiungono le ammissioni Caianiello, nelle intercettazioni certo non avaro di epiteti da gossip politico verso «questa cretina della Lara» alla quale «faccio uno shampoo», «una pazza scatenata» che «pensa di prendere in giro tutti»: ai pm dirà poi che «Comi era recalcitrante a retrocedere una parte del suo stipendio per finanziare le strutture del partito di Forza Italia», e allora «anche in vista delle imminenti elezioni europee escogitammo lo stratagemma di far maggiorare lo stipendio del giornalista Aliverti», per il cui ruolo di portavoce Comi prendeva dal Parlamento Europeo un legittimo rimborso di circa 1.000 euro più Iva. Lo stipendio viene alzato per finta a 3.495 più Iva, ma con l’accordo che 1.500 siano retrocessi a un uomo di Caianiello. Che all’inizio aveva in realtà esplorato un’altra copertura dietro un finto contratto a un commercialista, fatto però così male (come badante della Comi) che non a caso costui era lui il primo a ironizzarne: «Mi hanno fatto un contratto come badante, tipo filippina, io sono il filippino della Comi…sono una forma finta del filippino della Comi!». E tra le accuse spunta anche un altro schema analogo nel 2016, ma con altro buffo finto collaboratore dell’europarlamentare a spese dell’Europarlamento, 40 ore settimanale per 2.450 euro mensili: proprio Caianiello, talmente impensabile che ai pm riconosce la propria firma sul contratto, ma quasi gli sembra fatto a sua insaputa. Già da mesi è contestato a Comi anche un altro illecito finanziamento mascherato da finta consulenza, per di più copiata da una dozzina di fonti tra cui tesi di laurea, siti specializzati e in qualche riga persino il blog di Beppe Grillo: 30.000 euro dal pure indagato Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, patron della multinazionale di famiglia OMR (3.000 dipendenti, 600 milioni di fatturato, la Ferrari come primo cliente). E anche qui è Caianiello a spiegare il contesto dei rapporti. «A seguito della mancata candidatura alle elezioni politiche nazionali cui aspirava», Comi ha «iniziato a spaventarsi fortemente per la sua rielezione al Parlamento Europeo» (da cui poi pur con 32.000 voti rimase fuori perché il plurieletto Berlusconi optò per altra circoscrizione), e «ha iniziato ad andare spasmodicamente alla ricerca di finanziamenti e alleanze politiche. Tra fine 2018 e inizio 2019 a casa dell’on. Gelmini a Milano, dove conobbi Marco Bonometti, Comi voleva che io intercedessi in suo favore nei confronti della Gelmini», e «anche Bonometti si spese con la Gelmini in favore della Comi».
Luigi Ferrarella per il “Corriere della sera” il 15 Novembre 2019. Le ultime parole famose: «Secondo te mi possono indagare?», chiede lo scorso 10 maggio Lara Comi alla sua esperta di fondi pubblici europei, l' avvocato Maria Teresa Bergamaschi, presidente della Camera penale di Savona, che le risponde: «Per potere possono, ma sarebbe una porcheria: in una giustizia corretta non dovrebbero, ma se vogliono crearti danni per la campagna elettorale». Dopo appena 4 giorni, però, va a finire che proprio l'avvocato, inizialmente sulla negativa nel primo interrogatorio da teste, quando il 13 maggio diventa indagata (e l' atto istruttorio viene sospeso), l' indomani 14 maggio ritorna in Procura e consegna il proprio telefono cellulare contenente in memoria le chat di Whatsapp che inguaiano definitivamente l'allora ancora europarlamentare. Questa consegna spontanea consente ai pm di ritenere quei messaggi «prova documentale» (sulla scorta di una Cassazione del 2017), e quindi di aggirare il rischio di inutilizzabilità di messaggi vocali o chat altrimenti coperti dall'immunità dell' allora europarlamentare in carica rispetto sia a intercettazioni sia a sequestri di corrispondenza. Viene così ricostruita la già affiorata storia dell'accordo tra Nino Caianiello (vero referente di Forza Italia varesina) e Giuseppe Zingale (direttore generale di Afol-Agenzia metropolitana per il lavoro) affinché Afol attribuisse consulenze alla consulente di Lara Comi in cambio del fatto che lei poi retrocedesse una parte del compenso a Caianiello per i costi del partito a Varese di cui Comi coordinatrice. Retrocessione che avviene montando un'altra consulenza fittizia, da Comi a Bergamaschi, per mascherare 5.000 euro dei 10.000 che devono tornare indietro, venendo regolati gli altri 5.000 dal mancato pagamento di Comi a Bergamaschi di un libro sui fondi europei, che Comi finge di scrivere ma che in realtà le viene redatto da Bergamaschi. Pesano così, per i pm, le chat dove Comi con «emoticon» sorridente anticipa a Bergamaschi che «Zingale vorrà il suo regalo di Natale», alludendo al fatto che vorrà la parte di retrocessione illecita. E quelle dove Comi ingenuamente preannuncia come vorrebbe sviare stampa e pm («Comunque oggi io dirò che non ho mai preso 17k (17mila euro, ndr), non ho mai avuto consulenze con Afol né società a me collegate che non esistono...»), e all' amica raccomanda per prudenza di non telefonare («Se dovessero chiamarti non rispondere, poi ti spiego»), e di usare le «chat di Telegram che è più comodo» e permette la distruzione immediata dei messaggi. Proprio quelli però poi portati da Bergamaschi ai pm. Due mesi fa si aggiungono le ammissioni Caianiello, nelle intercettazioni certo non avaro di epiteti da gossip politico verso «questa cretina della Lara» alla quale «faccio uno shampoo», «una pazza scatenata» che «pensa di prendere in giro tutti»: ai pm dirà poi che «Comi era recalcitrante a retrocedere una parte del suo stipendio per finanziare le strutture del partito di Forza Italia», e allora «anche in vista delle imminenti elezioni europee escogitammo lo stratagemma di far maggiorare lo stipendio del giornalista Aliverti», per il cui ruolo di portavoce Comi prendeva dal Parlamento Europeo un legittimo rimborso di circa 1.000 euro più Iva. Lo stipendio viene alzato per finta a 3.495 più Iva, ma con l' accordo che 1.500 siano retrocessi a un uomo di Caianiello. Che all' inizio aveva in realtà esplorato un' altra copertura dietro un finto contratto a un commercialista, fatto però così male (come badante della Comi) che non a caso costui era lui il primo a ironizzarne: «Mi hanno fatto un contratto come badante, tipo filippina, io sono il filippino della Comi sono una forma finta del filippino della Comi!». E tra le accuse spunta anche un altro schema analogo nel 2016, ma con altro buffo finto collaboratore dell' europarlamentare a spese dell' Europarlamento, 40 ore settimanale per 2.450 euro mensili: proprio Caianiello, talmente impensabile che ai pm riconosce la propria firma sul contratto, ma quasi gli sembra fatto a sua insaputa. Già da mesi è contestato a Comi anche un altro illecito finanziamento mascherato da finta consulenza, per di più copiata da una dozzina di fonti tra cui tesi di laurea, siti specializzati e in qualche riga persino il blog di Beppe Grillo: 30.000 euro dal pure indagato Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, patron della multinazionale di famiglia OMR (3.000 dipendenti, 600 milioni di fatturato, la Ferrari come primo cliente). E anche qui è Caianiello a spiegare il contesto dei rapporti. «A seguito della mancata candidatura alle elezioni politiche nazionali cui aspirava», Comi ha «iniziato a spaventarsi fortemente per la sua rielezione al Parlamento Europeo» (da cui poi pur con 32.000 voti rimase fuori perché il plurieletto Berlusconi optò per altra circoscrizione), e «ha iniziato ad andare spasmodicamente alla ricerca di finanziamenti e alleanze politiche. Tra fine 2018 e inizio 2019 a casa dell'on. Gelmini a Milano, dove conobbi Marco Bonometti, Comi voleva che io intercedessi in suo favore nei confronti della Gelmini», e «anche Bonometti si spese con la Gelmini in favore della Comi».
C.Gu. per “il Messaggero” il 15 Novembre 2019. L'ascesa e il declino della vita politica di Lara Comi sono condensati nelle 125 pagine di ordinanza, che spaziano da collaborazioni fittizie, consulenze copiate male, caccia ai finanziamenti per la campagna elettorale. «Mi hanno fatto un contratto come badante, tipo filippina. Io sono una forma finta del filippino della Comi», sbotta a giungo 2018 un commercialista assunto come falso assistente. Ma poi arrivano le europee del maggio 2019 e la stella di Forza Italia, nonostante il bottino di 32.000 voti, prende in un colpo solo il seggio e l'immunità. Pareva quasi se lo sentisse che sarebbe andata male. Come racconta nell'interrogatorio di giugno 2019 Nino Caianiello: «Dopo la mancata candidatura alle politiche a cui fortemente aspirava e la mancata rielezione in regione di Luca Marsico», ex socio del governatore Fontana indagato per la sua nomina in una commissione, la Comi «ha iniziato a spaventarsi, andava spasmodicamente alla ricerca di finanziamenti e alleanze politiche che potessero garantirle la rielezione» a Bruxelles. Così viene organizzato un incontro a casa di Mariastella Gelmini, capogruppo di FI alla Camera, ospite anche il presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti. «La Comi voleva che intercedessi in suo favore con la Gelmini per un sostegno alla sua candidatura. Anche Bonometti si spese con la Gelmini in favore della Comi. Registrai in quella occasione un rapporto molto stretto tra la Comi e Bonometti, oltre che tra quest'ultimo e l'onorevole Gelmini». Il presidente degli industriali lombardi, a detta di Caianiello, non si formalizzò per le difficoltà economiche del «burattinaio» derivanti dalla condanna per concussione. «Anzi, la Comi aggiunse che Bonometti avrebbe potuto affidarmi una consulenza per far fronte ai miei problemi finanziari». Il proprietario della Omr, del resto, si dimostra generoso con l'ex europarlamentare, affidandole due consulenze: una sul made in Italy, l'altra sul settore automotive in Italia e Cina. Per il gip «la più completa inutilità, la mancanza di un reale valore scientifico del contenuto delle asserite consulenze, l'assenza di originalità, l'eccentricità della scelta imprenditoriale di un gruppo leader in Italia, se non a livello europeo», con 3.300 dipendenti nel mondo e 770 milioni di euro, «di commissionare consulenze di così basso profilo scientifico» è la dimostrazione che si tratti di «prestazioni intellettuali fittizie». Le relazioni, infatti, non vanno oltre «l'accostamento di brani tratti da siti internet che si occupano dello specifico settore, in alcuni casi lievemente elaborati». Il giudice riporta l'elenco delle scopiazzature con relative fonti: pagine internet degli industriali, di motori, pezzi della tesi dell'ignaro Antonio Apuzza, fino a pagina 12, capitolo 5, «copiato integralmente dall'articolo La Cina vuole diventare leader mondiale dell'auto elettrica, pubblicato il 3 gennaio 2019 sul sito di Beppe Grillo». La ricerca di soldi della Comi, stando agli atti, è incessante. Tanto che anche uno come Caianiello, che in fatto di tangenti spadroneggiava da un bar di Gallarate ribattezzato «l'ambulatorio», a un certo punto si impressiona: «Questa è matta! Questa è fuori controllo eh! Capisco la frenesia elettorale ... porti a casa 25 mila euro al mese, so' 11 anni, io non ho visto un euro!». Alla fine la difesa della Comi è disperata: «Comunque oggi io dirò che non ho mai preso 17k (17 mila euro, secondo l'accusa), non ho mai avuto consulenze con Afol né di società a me collegate che non esistono...», dice intercettata due giorni dopo il maxi blitz a Maria Teresa Bergamaschi. Già lo scorso gennaio l'ex deputata azzurra consiglia all'amica con cui tesse affari di utilizzare «Telegram che è più comodo» e permette di distruggere i messaggi. E anche di non rispondere a telefonate sospette: «Se dovessero chiamarti non rispondere né al telefono, né agli sms poi ti spiego». Dalle indagini su Comi, Orrigoni e Zingale, scrive il gip, emerge un quadro in cui «modalità mercantili», «spregiudicatezza e disinvoltura» hanno consentito ai «manovratori» remunerazioni «a spese dei contribuenti».
Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 15 novembre 2019. «Brava, preparata, simpatica, capace di piacere» ma pure «interessata, presenzialista, una che sgomitava» o addirittura «avida, cattiva, litigava con tutti». Nel giorno più nero Lara Comi divide il suo partito, Forza Italia, lasciato a giugno dopo il voto delle Europee, e che oggi preferisce dimenticarla, non dedicandole nemmeno una dichiarazione di vicinanza, o un invito alla cautela nel giudizio, ma piuttosto un silenzio imbarazzato: «Comunque con noi non aveva più a che fare». Nessuno vuole parlare in pubblico dei rapporti con la giovane e rampante ex europarlamentare che per anni ha rappresentato la faccia carina, pulita e sveglia dei giovani azzurri, con piacere ospitata nelle tivù come sui palchi dai quali parlava Berlusconi lodandone le virtù. Classe 1983, nata a Garbagnate Milanese, approdata giovanissima - a 19 anni - già a ruoli chiave nel partito (era portavoce azzurra a Saronno), la Comi alternava studio e politica: «Sin dal liceo ha fatto parte del mio Dna». Una laurea triennale in Economia alla Cattolica di Milano, la specializzazione alla Bocconi, l' impegno «totale» che - questo lo riconoscono tutti - metteva nella politica non passavano inosservati. Fu rapidissima quindi la sua ascesa: assistente di Mariastella Gelmini per quattro anni, responsabile del movimento giovanile lombardo nel 2004, Lara Comi fa il grande salto nella politica alle Europee del 2009. Sotto l' ala protettiva di Silvio Berlusconi, con 63 mila preferenze, vola a Bruxelles mentre infuria a Roma la polemica sulle candidate veline e si prepara lo scandalo Ruby. Ma lei no, non ne fu mai sfiorata. Bella, simpatica, grande lavoratrice, capace di districarsi nei meandri complessi della burocrazia europea e insieme di rappresentare la faccia fresca del partito, con durezza (come quando si gettava all' assalto dei centri sociali) o con un pizzico di malizia (quando rivelava di essersi lasciata col suo fidanzato annunciando che «Adesso sono di nuovo sul mercato») la Comi sapeva come essere protagonista. Lo fu sicuramente alle elezioni, quelle che nel 2014 videro la sua rielezione in Europa con un boom di preferenze: ben 83 mila, stavolta facendo «tutto da sola», un successo oltre le aspettative (sorpassò anche la collega Licia Ronzulli, con la quale i rapporti erano tesi), che la portò a diventare vicecapogruppo del Ppe e responsabile del partito a Varese, sotto l' ala del potente «ras» locale Nino Caianello. Poi, il primo grosso inciampo: nel 2017 finì nei guai per aver assunto nel 2009 e per un anno come assistente parlamentare sua madre. Si scusò e restituì a rate i 126 mila euro percepiti, e ottenne comunque la ricandidatura nel 2019, e ben 32 mila voti, nonostante fosse finita sotto inchiesta proprio in campagna elettorale. Berlusconi fiutò l' aria e decise di optare per il collegio del Nord-Ovest, impedendone la rielezione, lei contestualmente si sospese dal partito. Ed è stato l' inizio della fine, suggellato ieri con l' arresto. Accolto appunto con l' indifferenza dei colleghi ma dal grido sdegnato dei social. Proprio ieri, ha fatto sapere il suo avvocato, il papà di Laura Comi ha dovuto subire una delicata operazione, e lei nei giorni scorsi su Facebook gli aveva dedicato un post: «Forza papà. Combatteremo insieme». Un invito a nozze per i 600 e più che in calce al saluto la accusano di «buttarla sul patetico», di essere «cinica», esplodono di «godimento», le augurano di «marcire in galera». «Terribili», è il commento finale di Lara Comi, nella giornata più lunga della sua vita, in cui c' è posto solo per il silenzio, o la gogna.
Gianluca Roselli per "il Fatto Quotidiano” il 15 novembre 2019. Era anche lei nella squadra delle ragazze che B. voleva candidare alle Europee 2009. Una nutrita truppa di almeno una decina. Alcune vennero escluse per la reazione di Veronica Lario, che all' Ansa definì la carica delle giovanissime "ciarpame senza pudore". Ma lei no: insieme a Licia Ronzulli e Barbara Matera si salvò e venne eletta a Strasburgo con 63.158 preferenze alla tenera età di 26 anni. Lara Comi, però, si è sempre considerata diversa dalle cosiddette "veline" dell' ex Cavaliere. Siamo nel 2009 e l' impero berlusconiano è al suo apice: nonostante le voci su presunte serate allegre, il Caimano domina incontrastato la politica italiana. Ha pure deciso, quell' anno, di festeggiare per la prima volta il 25 aprile facendosi immortalare a Onna, comune terremotato in Abruzzo, col fazzoletto da partigiano al collo. Le Europee, però, sono alle porte e il Pdl è in cerca di giovani leve. Ne vengono selezionate un tot, cui i big del partito accettano di dare lezioni. Ci sono Franco Frattini, Mario Mauro, Gaetano Quagliariello e Renato Brunetta. "Ho fatto lezione per 4 ore, sono esausto. Per andare in bagno alzavano la mano. Una l' ho sgridata perché masticava la gomma. La più brava? Lara Comi", disse all' epoca Brunetta (come racconta Marco Travaglio in Papi, uno scandalo politico). Libero in quei giorni titola sereno: "Il piano di Silvio per piazzare tutte le veline". Poi Comi viene intervistata dal Giornale: "Io, superlaureata, difendo le veline che fanno politica". Veronica Lario, però, non pare essere d' accordo tanto da sferrare un primo attacco, il 28 aprile, seguito poi da quello definitivo, la conversazione con Repubblica del 3 maggio in cui, annunciando la richiesta di divorzio, parla di "figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere successo, notorietà e crescita economica". E da lì fu l' inizio della fine. Lara Comi, dicevamo, ha sempre rifiutato questo identikit. E in effetti nella mole di intercettazioni e verbali su Bunga Bunga e dintorni il suo nome non c' è. Spunta, però, una foto che la ritrae in vacanza con Roberto Formigoni, con cui ha un forte legame. Nata a Garbagnate Milanese nel 1983, inizia a fare politica a 19 anni, come portavoce di Forza Italia a Saronno, hinterland di Milano. Da qui entra nelle grazie di Mariastella Gelmini che la prende come sua assistente. A 21 anni è già alla guida dei giovani forzisti della regione. Nel frattempo si laurea due volte: alla Cattolica in Scienze economiche e alla Bocconi in Economia dei mercati internazionali. Ma riesce pure a lavorare, diventando "brand manager" della Giochi Preziosi. "Ho conosciuto Berlusconi nel 2004, a San Siro, dopo Milan-Brescia: fu scudetto!", raccontò lei. "Lara Comi ha due lauree, ha coordinato i giovani azzurri, è dirigente della Giochi Preziosi e non è mai andata in tv", disse di lei Silvio per giustificarne la repentina ascesa e la candidatura. Prima ci prova alle Politiche del 2008 alla Camera, ma non ce la fa. L'anno dopo è in Europa. Ma siccome Strasburgo è lontana e a 26 anni ci si può sentire soli, decide di assumere sua madre come assistente parlamentare nonostante la legge lo vieti. Quando scoppia lo scandalo, nel 2017, deve restituire 126 mila euro, la cifra incassata dalla genitrice. A Strasburgo, però, verrà riconfermata nel 2013 con 83.987 preferenze. Mentre nel 2019 risulterà la prima dei non eletti. Appassionata giocatrice di calcio femminile, il suo viso angelico da brava ragazza della porta accanto le ha però procurato anche un doloroso problema personale: uno stalker (tale Giovanni Bernardini, imprenditore veneto, ex candidato sindaco a Jesolo per Sel) l' ha perseguitata per mesi tanto da essere arrestato e condannato. "Ho vissuto un incubo che non auguro a nessuno", ha dichiarato Comi sulla vicenda. Ora agli arresti è finita lei.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 16 novembre 2019. La delicata operazione che attendeva suo padre è andata bene, e questo è ciò che a Lara Comi stava più a cuore. Ma per l' ex eurodeputata di Forza Italia ora si aprono altre ore difficili, quelle in cui deve preparare l' appuntamento cruciale del primo interrogatorio con il giudice che ha ordinato il suo arresto. Sono ore in cui, leggendo e rileggendo le 120 pagine dell' ordinanza di custodia eseguita all' alba di giovedì, la Comi deve prendere atto di una circostanza dolorosa: ad accusarla, a scaricarle addosso responsabilità di ogni tipo facendola finire agli arresti, sono stati due suoi amici. Un uomo e una donna che ha cercato in ogni modo di aiutare, e che davanti all' avanzare dell' inchiesta hanno deciso di cavarsi d' impiccio fregandola. Il primo si chiama Giovanni Caianiello, ed è stato a lungo il coordinatore di Forza Italia in provincia di Varese. Anche quando il partito lo ha esonerato dopo una condanna per concussione, ha continuato a fare il bello e il cattivo tempo. Il 5 maggio, nella retata «Mensa dei poveri», è finito in cella. Per un po' ha fatto il duro, poi ha capito che per uscire doveva dare ai pm qualche testa. Gli ha dato quella della Comi e la settimana scorsa è tornato a casa. Il 2 settembre, interrogato in carcere, Caianiello accusa l' europarlamentare di essersi fatta dare un contratto di consulenza dalla azienda pubblica Afol: «La Comi disse a Zingale (dirigente Afol, ndr) che avrebbe potuto collaborare con Afol in relazione a progetti europei pur precisando che non lo avrebbe fatto lei direttamente, non potendolo fare per motivi di incompatibilità ma che avrebbe potuto farlo per il tramite di una persona». Ottenuto l' incarico, la Comi era comunque insoddisfatta: «La Comi - dice Caianiello - si lamentava che l' emolumento riconosciuto era troppo esiguo e tale da non riuscire neanche a coprire i costi della consulenza». Nei verbali, trasuda il rancore di Caianiello nei confronti della compagna di partito, «restia a retrocedere somme di denaro in nostro favore anche a fronte del fatto che conosceva le mie precarie condizioni economiche». Nello stesso interrogatorio l' ex ras azzurro va giù pesante anche sulle spese elettorali della Comi: «A seguito della mancata candidatura alle elezioni politiche nazionale ha iniziato a spaventarsi fortemente per la sua rielezione al Parlamento europeo, per cui ha iniziato ad andare spasmodicamente alla ricerca di finanziamenti». Ed è lui a rivelare di una cena in casa di Mariastella Gelmini in cui insieme alla Comi c'era l' imprenditore Marco Bonometti: ora accusato di avere finanziato in nero la sua campagna elettorale. Ancora più brusca la rottura per via giudiziaria della amicizia tra la Comi e Maria Teresa Bergamaschi, giovane e brillante avvocato ligure, già presidente della Camera penale di Savona. Le due sono amiche da dodici anni, si frequentano, la Bergamaschi le chiede spesso favori. E quando a maggio scorso esplode l' inchiesta si dà da fare insieme a lei per nascondere le tracce dei favori ricevuti e di quelli restituiti. Ma dopo un po' il terrore di finire nei guai è tale che la Bergamaschi si presenta spontaneamente agli inquirenti, consegna loro il proprio cellulare con tutti i dialoghi con la Comi. Viene interrogata, prima si barcamena, poi davanti alle contestazioni crolla e accusa l' amica Comi di averla costretta a versare diecimila euro in cambio di una consulenza: «Io c' ero rimasta molto male perché era la prima volta che mi trovavo ad affrontare una richiesta illecita». Ma poi si rassegna: salvo ora accusare l' amica.
Comi dal gip per 5 ore: «È convinta di non aver commesso reati». Pubblicato lunedì, 18 novembre 2019 da Corriere.it. «La Comi non si riconosce nella rappresentazione che le è stata fatta di soggetto che non ha rispetto delle regole, ha risposto a tutto, è convinta di non avere commesso nessun reato». Così Giampiero Biancolella, l’avvocato dell’ex eurodeputata azzurra Lara Comi, ai domiciliari da giovedì nell’inchiesta «Mensa dei poveri» e interrogata lunedì dal gip per circa 5 ore. «L’interrogatorio di garanzia non sarà certamente breve - aveva previsto l’avvocato -, la dottoressa Comi intende respingere le accuse che le sono state mosse e dimostrerà utilizzando anche documentazione che è stata acquisita nel corso dell’indagine, che i reati contestati sono inesistenti». Lara Comi, ha aggiunto l’avvocato Biancolella, «ha cercato di difendersi documentando, argomentando, spiegando, siamo convinti che ci siano tutti gli estremi per revocare la misura cautelare ma anche per una declaratoria di insussistenza degli elementi accusatori. È ovvio che è un processo complesso, agiremo nel migliore dei modi». L’interrogatorio si è svolto davanti al gip Raffaella Mascarino. Lara Comi è agli arresti domiciliari da giovedì scorso nell’ambito dell’inchiesta «mensa dei poveri». «Lara Comi desidera altresì dimostrare - aveva anticipato il legale - che le considerazioni sulla sua presunta propensione a non rispettare le regole sono completamente senza fondamento». Biancolella ha precisato, al termine dell’interrogatorio di garanzia: «Non abbiamo chiesto la revoca della misura domiciliare allo Stato». Il difensore ha spiegato di avere prodotto al gip Raffaella Mascarino la «documentazione» necessaria alla difesa della Comi, anche se «abbiamo ancora tempo per decidere e valutare se chiedere la revoca direttamente al giudice». Si è avvalso invece della facoltà di non rispondere Giuseppe Zingale, ex direttore generale di Afol, società specializzata in servizi di formazione e lavoro, detenuto in carcere. Il difensore ha chiesto la revoca dell’arresto e in subordine i domiciliari. Sempre in giornata è in programma l’interrogatorio dell’amministratore delegato della catena di supermercati Tigros Paolo Orrigoni. Corruzione, false fatturazioni, finanziamento illecito ai partiti e truffa aggravata al Parlamento europeo sono le accuse al centro dell’indagine in cui gli indagati con «spregiudicatezza e disinvoltura» avrebbero beneficiato «di favori in ragione della funzione pubblica esercitata» per soddisfare interessi personali. Un quadro di «grave allarme sociale» dove l’ex europarlamentare, 36 anni, refrattaria al rispetto delle regole, avrebbe avuto, a dir dell’accusa, due obiettivi: «il massimo vantaggio in termini economici» e ampliare «la propria sfera di visibilità».
Cristina Bassi per “il Giornale” il 19 novembre 2019. Lara Comi arriva a Palazzo di giustizia poco prima delle 11.30. Sorride, indossa scarpe da ginnastica e piumino blu. Il difensore, l' avvocato Giampiero Biancolella, le fa da scudo e rilascia una prima dichiarazione: «La dottoressa Comi intende respingere le accuse e dimostrerà, utilizzando anche la documentazione che è stata acquisita nel corso dell' indagine, che i reati contestati sono inesistenti. L' interrogatorio di garanzia non sarà breve». Infatti la ex europarlamentare di Forza Italia risponderà al gip Raffaella Mascarino per quattro ore e mezza. Giovedì scorso è finita ai domiciliari (come l' ad dei supermercati Tigros Paolo Orrigoni, l' ex dg di Afol Giuseppe Zingale invece è in carcere). Risponde di corruzione, false fatture, finanziamento illecito ai partiti e truffa aggravata al Parlamento europeo nell' ambito dell' inchiesta della Dda milanese «Mensa dei poveri». Alla fine dell' interrogatorio fiume è sempre il difensore a rispondere alle domande dei cronisti, mentre Comi lascia il palazzo. Biancolella fa una premessa: «La mia assistita è convinta di non aver commesso alcun reato. Soprattutto non si riconosce nel ritratto che è stato fatto di lei come di una persona che non rispetta le regole». Il riferimento è alla definizione dell' ordinanza di custodia cautelare: l' indagata è «refrattarietà in merito al rispetto delle regole» e mostra una «non comune esperienza nel far ricorso ai diversi collaudati schemi criminosi». Poi l' avvocato affronta le contestazioni dei pm Silvia Bonardi, Luigi Furno e Adriano Scudieri ed espone la «linea difensiva». Spiega che Lara Comi ha «fornito al gip chiarimenti e ampia documentazione. Abbiamo portato all' attenzione del giudice alcuni atti già acquisiti dalla Procura durante l' inchiesta, ma non presi nella dovuta considerazione al momento di formulare le accuse, che secondo noi dimostrano l' insussistenza dei reati contestati». Si parte dalla presunta mazzetta dietro una consulenza pagata da Afol e incassata dalla società della ex eurodeputata, la Premium Consulting srl. Qui la grande accusatrice di Comi è l' avvocato savonese Maria Teresa Bergamaschi, anche lei indagata. Spiega Biancolella: «La corruzione è totalmente insussistente. Abbiamo portato al gip la registrazione dei messaggi vocali che si sono scambiate le due professioniste, comunque già acquisiti, che dimostrano che è stata costruita una rappresentazione che confligge con la realtà. In quegli audio Bergamaschi afferma chiaramente che è stato sottoscritto un regolare contratto». Il legale sottolinea che le fatture sotto la lente degli inquirenti sono relative a reali attività svolte dalla Premium e a compensi professionali dovuti: «Nessuna provvista corruttiva». Significa che Bergamaschi davanti ai pm contraddice sé stessa? «Andrebbe chiesto conto a lei», continua l' avvocato. Di tenore simile la versione della difesa sulla presunta truffa all' Ue in relazione al compenso per l' addetto stampa Andrea Aliverti: «Il contratto con il giornalista è stato oggetto di verifica da parte del Parlamento europeo, che ha concluso in una mail che era tutto regolare e che il compenso era congruo». Retrocessioni di denaro a Nino Caianiello, il presunto «burattinaio» di tutta la vicenda? «Nessuna». Inoltre, aggiunge il difensore, «Caianiello è stato assistente parlamentare di Comi per due mesi alla fine del 2016 per svolgere attività sul territorio, c' era un contratto. Chiedete a lui come mai ha detto il contrario ai pm...». Infine il denaro arrivato dalla Omr holding del presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti: «Nessun finanziamento illecito, si tratta di compensi per l' attività professionale svolta da Comi in base, anche qui, a un contratto tra privati». La difesa, per ora, non chiede la revoca dei domiciliari.
Lara Comi torna libera, “Non andava arrestata”. Redazione Web Il Riformista 6 Dicembre 2019. Foto LaPresse – Matteo Corner 18/11/2019 Milano, Italia Cronaca Lara Comi arriva al tribunale per l interrogatorio di garanzia. L’ex eurodeputata di Forza Italia Lara Comi torna libera. Infatti, il tribunale del Riesame ha accolto il ricorso per la revoca degli arresti domiciliari nei confronti della Comi, secondo quanto reso noto dal suo difensore Gian Piero Biancolella.
LA VICENDA – Lara Comi era stata arrestata per presunta corruzione. Per giustificare la misura cautelare degli arresti domiciliari a carico dell’ex europarlamentare di Forza Italia, la gip di Milano, Raffaella Mascarino, aveva scritto che “se è vero che Lara Comi all’esito delle consultazioni elettorali europee del 2019 non è stata riconfermata nel proprio incarico pubblico, è altrettanto indiscutibile come la stessa abbia una rete relazionale tra alti livelli politici ed imprenditoriali, che potrebbe costituire un utile “volano” per ulteriori attività illecite“.
Lara Comi: hanno preparato le manette poi cercato il reo, infine il reato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Novembre 2019. Lara Comi «gode di una rete relazionale di alto livello» e «può contare sulla sua visibilità politica»? Inoltre ha fondato ben quattro associazioni (di cui una si chiama Popolo delle libertà, il che ricorda qualcosa di politico)? Meglio rinchiuderla in casa, in modo che, privata dei suoi rapporti prestigiosi e della sua comunità politica, non possa più commettere reati. È questo il senso dell’ordinanza di custodia cautelare che, a sei mesi dall’inizio dell’inchiesta “Mensa dei poveri” e con gli altri indagati ormai tutti liberi (tranne uno), ha dato un colpo di coda a un’inchiesta ormai morente. Per lo meno rispetto a come si era presentata quel giorno. Quel 7 maggio 2019 a Milano. Sembravano due mitragliate di kalashnikov, si sono ridotte a due colpi a salve, quelli sparati a Milano il 7 maggio scorso, quando la Direzione distrettuale antimafia, con una pomposa conferenza stampa dello steso procuratore capo Francesco Greco, sanciva che «da tempo in Lombardia politica e imprenditoria locale sono colluse con le cosche del territorio. C’è una sinergia tra le cosche della ‘ndrangheta e imprenditori del luogo». E del resto come dargli torto di fronte a un’inchiesta con 95 indagati e un blitz con 43 provvedimenti di custodia cautelare di cui 12 in carcere? La prima mitragliata, che ha portato in galera politici e imprenditori con questo grave sospetto di “mafiosità” non era però seconda all’altro colpo, la caccia al pesce grosso, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. Non è un caso che il Corriere della sera il giorno dopo abbia dedicato all’evento le prime cinque pagine nazionali, oltre a quelle locali, una delle quali interamente riservata proprio al governatore. Tra notizie e commenti non mancava niente: l’associazione a delinquere con l’aggravante di aver favorito le mafie, la corruzione, il finanziamento illecito dei partiti, la turbativa d’asta, la spartizione negli appalti pubblici. Effetto mediatico spaventoso, molto efficace. Chi potrebbe infatti mai contestare anche un uso eccessivo delle manette se a Milano e in Lombardia c’è la mafia? Il punto di partenza aveva riguardato piccoli appalti sulla raccolta dei rifiuti piuttosto che il “piano neve” e un imprenditore che era in contatto con un altro. È cominciata proprio così. Solo che questo altro, Daniele D’Alfonso, ha due caratteristiche che fanno rizzare le antenne agli inquirenti: è di Corsico, zona sospetta per le infiltrazioni mafiose, ed è in contatto con alcuni politici milanesi di Forza Italia. Siamo alla vigilia delle elezioni del 2018 e qualunque conversazione diventa sospetta, qualunque attività lavorativa sembra una finzione, qualunque passaggio di denaro è una mazzetta. Il tutto con lo sfondo della mafia. Perché D’Alfonso è la stessa persona che offre un lavoro al giovane consigliere comunale Pietro Tatarella e lo retribuisce con 5.000 euro al mese, ma anche quello che, nella sua attività di imprenditore nei servizi ambientali, assume come lavoratori delle persone di Corsico e Buccinasco considerate vicine alle storiche famiglie mafiose del luogo. Lo snodo è tutto lì. Ma poi, in una sorta di catena di S.Antonio che va da Milano a Varese, si arriva a un altro personaggio chiave, Nino Caianiello, un ex socialista passato a Forza Italia, molto abile in relazioni e trattative. E da lì a incontri in quel ristorante “Berti” vicino alla Regione Lombardia, dove si dice che Gorbaciov gradisse l’ossobuco e Craxi il bollito, mentre Formigoni preferiva il riso al salto, ma che Caianiello un giorno definì, proprio al telefono con Fontana, “mensa dei poveri”. Forse ironicamente, e non immaginando di aver dato il nome a un’inchiesta giudiziaria fondata anche su intercettazioni in quel ristorante tutt’altro che per nullatenenti. La storia del presidente della Lombardia sarebbe ridicola, se non fosse tragica. Prima è sospettato di corruzione, poi di essere vittima della tentata corruzione e infine indagato per abuso d’ufficio. Tipico caso di caccia al pescecane finita con pesca di sardine. La mafia nel frattempo è sparita dall’inchiesta, se non nel reato per cui è indagato D’Alfonso, che è per questo ancora agli arresti domiciliari (deve essere davvero pericoloso, visto che non è neppure in carcere) perché i termini di custodia cautelare scadono nel prossimo maggio. Tutto il resto si è trasformato in una piccola, triste, non sappiamo ancora quanto fondata, parodia di quel che fu la Tangentopoli degli anni Novanta. Dalla Milano da bere alla Milano da mangiucchiare? E il gran finale dell’arresto di Lara Comi? “Il solito meccanismo del tipo d’autore, o della colpa d’autore”, dice Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano. E mai definizione fu più indovinata: prima individuo il colpevole, poi gli cucio addosso i reati. E sparo ancora qualche colpo a salve, visto che con il kalashnikov mi è andata male.
Lara Comi, i retroscena dell’inchiesta. Giovanni Altoprati su Il Riformista il 15 Novembre 2019. Se Lara Comi si fosse dedicata al giardinaggio o ai corsi di cucina, probabilmente, ieri mattina all’alba non sarebbe stata arrestata dai finanzieri di Busto Arsizio, in provincia di Varese. Per giustificare la misura cautelare degli arresti domiciliari a carico dell’ex europarlamentare di Forza Italia, la gip di Milano, Raffaella Mascarino, scrive infatti che «se è vero che Lara Comi all’esito delle consultazioni elettorali europee del 2019 non è stata riconfermata nel proprio incarico pubblico, è altrettanto indiscutibile come la stessa abbia una rete relazionale tra alti livelli politici ed imprenditoriali, che potrebbe costituire un utile “volano” per ulteriori attività illecite». E su cosa si baserebbe questa “rete relazionale”? La risposta la fornisce sempre la gip Mascarino: «Lara Comi risulta rappresentante legale dell’associazione “Siamo Italiani”, dell’associazione “We Change”, dell’associazione “Il Popolo della Libertà, coordinamento provinciale di Varese». Si tratta, come specificato nella stessa ordinanza di custodia cautelare, di «associazioni non riconosciute e comitati» che svolgono attività di «organizzazioni con fini culturali e ricreativi». Tanto basta, dunque, per essere spediti ai domiciliari per accuse risalenti nel tempo e per la quale Lara Comi era da tempo indagata. Dallo scorso maggio, per l’esattezza. L’operazione, infatti, è un nuovo filone della maxi indagine “Mensa dei poveri” condotta dall’antimafia milanese che la scorsa primavera terremotò i vertici di Forza Italia in Lombardia. La Dda di Milano, alla vigilia delle elezioni europee, arrestò 28 persone, indagandone una quarantina. Fra cui, appunto, Lara Comi. Le principali accuse? Associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al finanziamento illecito. Tra gli arrestati, Piero Tatarella, capogruppo di Forza Italia a Palazzo Marino e Fabio Altitonante, coordinatore azzurro a Milano e sottosegretario in Regione Lombardia. I pm avevano chiesto anche l’arresto, respinto dalla Camera, del deputato forzista Diego Sozzani. Gli arrestati delle retata di primavera sono tutti liberi da tempo. Chi scarcerato perché il capo d’imputazione è stato riqualificato, chi per scadenza dei termini di custodia cautelare. Nel caso di Altitonante, che ha già ripreso il suo posto al Pirellone, il Riesame ha smontato gran parte delle accuse. Tornando a Lara Comi, le contestazioni a suo carico riguardano la correttezza di due contratti di consulenza, un finanziamento illecito da 31 mila euro dal presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, per una ricerca basata su una tesi di laurea scaricata da internet, e una truffa aggravata al Parlamento Europeo in quanto, secondo quanto riferito dal suo ex ufficio stampa Andrea Aliverti, quest’ultimo avrebbe ricevuto un aumento stipendiale di tremila euro con l’obbligo di restituirne duemila a FI per pagare le spese della sede che Comi non pagava. «Lara Comi ha mostrato una non comune esperienza nel far ricorso a collaudati schemi criminosi», evidenzia il gip, secondo cui questi “schemi criminosi” sarebbero stati «volti a fornire una parvenza legale al pagamento di tangenti, alla sottrazione fraudolenta di risorse pubbliche e all’incameramento di finanziamento illeciti». Dove sia la mafia, però , non è dato saperlo. Quelli che hanno portato all’arresto di Lara Comi «sono fatti vecchi e documentati». È stato il commento dell’avvocato Giampiero Biancolella, difensore dell’ex europarlamentare forzista. «C’è da valutare – puntualizza Biancolella – se ci siano le esigenze cautelari che legittimino i domiciliari dal momento che ipotizzare dei contatti col mondo politico e industriale per giustificare una possibile reiterazione del reato mi sembra una tesi infondata». A dare nuova linfa all’indagine, che pare puntare anche alla Lega, le dichiarazioni fatte da Nino Caianiello, ex coordinatore azzurro di Varese. Fra gli arrestati di maggio e ora “gola profonda” della Procura di Milano.
· 5 ragioni per cui la corruzione blocca l'economia italiana.
5 ragioni per cui la corruzione blocca l'economia italiana. Meno investimenti, meno concorrenza, meno produttività e quindi meno lavoro. Ecco perché le tangenti frenano la crescita del nostro Paese, scrive Laura Ghisellini il 25 agosto 2015 su riparteilfuturo.it. Secondo un recente studio svolto dal think tank europeo Bruegel, ci sono almeno 5 comprovate ragioni per cui la corruzione in Italia è da considerarsi una delle principali cause dello stallo economico. Il ricercatore italiano Alessio Terzi, autore del report ripreso anche dal World Economic Forum, ha isolato i canali attraverso cui la corruzione influisce sul potenziale di crescita di medio-lungo termine di una economia come la nostra basandosi sulla letteratura esistente sul tema e sui dati. Non è dunque solo un problema di perdite dirette di capitale (che la Corte dei Conti stima in via del tutto approssimativa dell'ordine di grandezza di 60 miliardi di euro l'anno, ovvero circa il 4% del Pil) ma anche di una vera e propria distorsione del mercato.
1) Come diciamo fin dal giorno 1 della nostra mobilitazione, la corruzione disincentiva gli investimenti sia interni che stranieri bloccando ogni opportunità di crescita e lavoro. La certezza del diritto è infatti un requisito indispensabile perché uno Stato possa guadagnarsi la fiducia degli investitori ma l'Italia, ultima in Europa per livello di corruzione percepito secondo Transparency International, tiene lontano qualsiasi iniziativa virtuosa. Quale investitore di buon senso metterebbe a rischio le proprie risorse in un Paese in cui la normativa anticorruzione è ancora così farraginosa, in cui la burocrazia nasconde nelle sue spire le zone grigie e - solo per citare un dato - i detenuti per corruzione e altri reati connessi sono circa 440?
2) Nello specifico - osserva Bruegel - la corruzione non solo riduce l’efficacia di profitto di un investimento, ma genera anche incertezza nei ritorno all’investimento inficiando la produttività e la produzione. Questo avviene sia per gli investimenti interni che per i Foreign Direct Investment (FDI), ma nel secondo caso la perdita è anche in termini di trasferimento internazionale di tecnologie e know-how. La scarsità di FDI comporta una diminuzione dell'indice di progresso tecnico che è un punto fondamentale della crescita a lungo termine.
3) In termini di competitività poi, la corruzione è capace di indebolire le norme antitrust, impedire l'accesso di nuovi soggetti e in generale favorire i privilegi dei soliti noti creando ostacoli alla concorrenza. Vien da sé che la mancanza di competitività agirà negativamente sulla crescita della produttività e sull'innovazione.
4) Gli imprenditori, dal loro canto, non trovano ragioni valide per mettere a frutto il proprio capitale e il proprio talento in un Paese che non lo valorizza e decidono più spesso di intraprendere attività rivolte al guadagno immediato senza una visione a lungo raggio volta a portare ricchezza e miglioramento sociale nel Paese.
5) E ovviamente la corruzione ha un impatto deleterio sulla spesa pubblica perché aumenta il costo di beni e servizi acquistati dal settore pubblico con una conseguente riduzione dei fondi disponibili per l'efficienza della macchina statale. Inoltre influisce sulla qualità della spesa stessa dirottando le risorse nelle direzioni in cui la corruzione può essere più facilmente occultata.
Tirando le somme, meno investimenti, meno produttività, meno progresso tecnico, meno competitività, meno innovazione, meno impresa e di conseguenza meno lavoro. L'ultimo anello di questa catena disgraziata sono i disoccupati, soprattutto i giovani, che pagano il prezzo più consistente delle tangenti e del malaffare. Mentre l'inefficienza, i servizi scadenti, il peso della crisi economica, l'assenza di opportunità toccano a tutti.
"Lotta alla corruzione? Basta il buonsenso": le parole di Siri e il rischio di archiviare Tangentopoli. Il sottosegretario Siri presenta la linea sulle opere pubbliche: "Cancellare il Codice degli appalti, via l'Autorità anticorruzione". Perché sono loro la malattia e non le tangenti. Una posizione che traspare anche nelle nuove misure del governo, scrive Gianluca De Feo il 28 Febbraio 2019 su La Repubblica. "Siamo l'unico Paese che ha un ente ulteriore contro la corruzione, sembra che diamo per scontato che siamo tutti corrotti e dobbiamo curarci, io penso che sia il contrario: siamo tutti persone corrette fino a prova contraria". Con parole illuminanti sulla linea del governo, il sottosegretario leghista Armando Siri ha espresso le sue idee sulla gestione degli appalti pubblici. Un inno alla fiducia, perfettamente sintonizzato sulla "cultura del fare" tanto cara alla Lega: per combattere la corruzione, secondo lui, basta "il buonsenso". "Smettiamola di prendere medicine per curare una malattia che ha bisogno invece di buonsenso e di meno burocrazia". Siri si dichiara pronto a spazzare via il Codice degli appalti e anche l'Anac, l'Autorità anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone. Dimentica la lunga catena di scandali che hanno portato alla nascita delle nuove regole. Le tangenti sull'Expo e quelle sul Mose, la cricca delle grandi opere e la recentissima inchiesta sullo stadio della Roma - con finanziamenti concessi pure al suo partito - tutte vicende che si potevano evitare con "buonsenso". Perché nella visione di Siri i controlli sono il male. Li definisce "una malattia autoimmune": "Per cuore la malattia della corruzione abbiamo scatenato degli anticorpi che non solo non riescono a curare la malattia, ma hanno distrutto l'organismo, quindi è stata una reazione eccessiva".
Ignorando i dati ufficiali, che registrano come tra maggio e agosto 2018 gli appalti siano cresciuti del 23 per cento con un aumento di oltre dieci miliardi di euro, il sottosegretario ritiene che siano i meccanismi di sorveglianza a paralizzare il settore. Il problema quindi sono i controlli. Non la lentezza della burocrazia e delle procedure che sicuramente necessitano miglioramenti. Più facile invece smantellare la sorveglianza: "Questo codice va cancellato e totalmente riscritto". La stessa posizione teorizzata tre settimane fa dal vicepremier Luigi Di Maio: il Codice degli appalti si può buttare via, perché con la legge spazzacorrotti le tangenti scompariranno. Affermazioni che sorvolano su una questione fondamentale. Le procure e i processi avvengono dopo che i reati sono stati commessi, spesso con ritardo di anni. E dal 1992 non sono riuscite a spaventare i baroni della bustarelle, che hanno proseguito nelle loro razzie. Il Codice e l'Anac invece hanno uno scopo diverso: prevenire il malaffare, garantendo gare trasparenti ed evitando quelle anomalie che hanno alimentato ruberie gigantesche e cantieri dai tempi infiniti. Lega e M5S oggi si trovano concordi nel preparare una grande deregulation. Traspare nelle prime indiscrezioni della delega affidata al governo proprio per riscrivere il Codice degli appalti. Dove per ridurre i tempi si "mira a promuovere discrezionalità e la responsabilità delle stazioni appaltanti".
Discrezionalità è la parola chiave di tutti gli intrallazzi: la bacchetta magica che decide chi vince le gare e avrà in mano i cantieri. Il governo Berlusconi l'aveva concretizzata nel sistema dei general contractor, nato per velocizzare e morto dopo avere riempito l'Italia di opere inconcluse e inchieste giudiziarie. La bozza inoltre parla di "assicurare maggiore flessibilità nell'utilizzo delle procedure di scelta del contraente". Una formulazione sibillina, perché in passato la "flessibilità" è servita a sfornare gare su misura per l'imprenditore più vicino alla politica. E gli organismi di controllo sembrano venire ridotti al rango di suggeritori "fornendo - come recita il testo - alle medesime stazioni appaltanti misure e strumenti di supporto attraverso il potenziamento dell'attività di vigilanza collaborativa e consultiva delle competenti autorità amministrative indipendenti nonché delle altre amministrazioni pubbliche". "Vigilanza collaborativa e consultiva", senza il potere di dire no. Senza il potere di fermare gli illeciti. Almeno sul fronte della corruzione, poi, la maggioranza giallo-verde promuove l'Italia a livello europeo. Non ritiene - come dimostrano sia la cronaca che gli indicatori internazionali - che da noi il male sia più forte. No, nella bozza si scrive che bisogna limitare "i livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive europee". Abbassiamo quindi le verifiche. Come se fossimo la Germania o l'Olanda, anche in questo caso chiudendo gli occhi sulla nostra lunga tradizione di malaffare nella gestione della cosa pubblica. Tutto dimenticato. Perché il "buonsenso" ci renderà un Paese modello.
Domenica scorsa su Repubblica il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia aveva chiesto una "cura shock per l'economia". Ma se i miliardi pubblici verranno elargiti discrezionalmente, il rischio è che si possa trasformare anche in uno shock per la legalità. Parola completamente scomparsa dal lessico dei ministri pentastellati che si occupano della materia.
No, la corruzione non si combatte così. Le misure proposte dal M5s sono illiberali e inefficaci, e pure pericolose, scrive il 3 Settembre 2018 Il Foglio. La campagna contro la politica corrotta quasi per definizione è stato uno dei più fortunati cavalli di battaglia del Movimento 5 stelle, anche per il clima giustizialista che si era già largamente diffuso ben prima dell’irruzione di Beppe Grillo. E’ quindi comprensibile che una delle prime proposte legislative del nuovo governo riguardi la repressione della corruzione, obiettivo naturalmente di per sé condivisibile. Le misure proposte, però, hanno due difetti non certo secondari: sono illiberali e probabilmente inefficaci. E’ illiberale l’estensione retroattiva delle pene accessorie (come l’esclusione a vita dei rapporti con la Pubblica amministrazione) per reati commessi quando la normativa era meno punitiva. E’ illiberale mettere in campo agenti provocatori che inducano a commettere reati. E’ illiberale in generale dimenticare che uno dei caratteri della pena deve essere la riabilitazione. Queste e altre considerazioni garantiste probabilmente non interessano una compagine politica che dovrebbe avere come simbolo le manette. Forse può creare qualche interrogativo invece il dubbio sull’efficacia di misure punitive generalizzate, che trascurano di esaminare le radici concrete dei fenomeni corruttivi, connesse alla farraginosità dei sistemi autorizzativi e all’esistenza di troppi soggetti in grado di intralciare anche i progetti e i lavori lecitamente assegnati. Individuare i gangli della amministrazione in cui nasce il fenomeno corruttivo, semplificare le procedure e migliorare le capacità ispettive sarebbero operazioni forse meno clamorose ma sicuramente più efficaci nella lotta contro la corruzione, che è cosa diversa dalla propaganda basata sulla denuncia della corruzione.
Il consigliere economico di Salvini? Un bancarottiere. Chi è l'uomo della Flat Tax. Gli scheletri nell'armadio di Armando Siri, fedelissimo del leader della Lega e teorico dell'aliquota unica al 15 per cento che tanto piace agli imprenditori del Nord, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine l'8 marzo 2018 su L'Espresso. Una condanna patteggiata per bancarotta fraudolenta. Due società con sede legale in un paradiso fiscale. Un socio indagato per corruzione in un'inchiesta dell'antimafia di Reggio Calabria. È questo il palmares imprenditoriale di Armando Siri, l'ideologo della flat tax targata Lega, l'uomo scelto da Matteo Salvini come consigliere economico. L'Espresso, in edicola da domenica 11 marzo, ha indagato sugli affari privati del neo senatore leghista considerato il padre della riforma fiscale promessa da Salvini: un'aliquota unica al 15 per cento, che nelle speranze degli elettori del Carroccio riuscirà a rivitalizzare l'economia italiana senza mandare a picco i conti pubblici. Responsabile della “Scuola di formazione politica” della Lega, Siri in pochi anni è diventato uno dei fedelissimi del segretario federale, che lo ha infatti nominato responsabile economico di Noi con Salvini. Mister flat tax ha però qualche scheletro nell'armadio, a partire dalla condanna a 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta. Condanna comminata tre anni e mezzo fa dal tribunale di Milano in sede di patteggiamento per il fallimento della Mediatalia, società che ha lasciato debiti per oltre 1 milione di euro. Cosa è successo dopo il voto, quali fenomeni profondi della società italiana hanno prodotto le elezioni e cosa accadrà ora: a queste domande cerchiamo di rispondere nel numero del giornale in edicola domenica 11 marzo. Dal racconto di Massimo Cacciari sul popolo perduto della sinistra italiana ed europea ai "Grillini del Golfo", nuovi padroni del Sud; dalla Leganomics e i suoi ideologi a quel che rimane dopo il terremoto elettorale nell'analisi di storici e politologi, riuniti in un forum dell'Espresso. Infine, la pagina dedicata ai 40 anni dal sequestro di Aldo Moro, per capire meglio l'Italia di oggi. Secondo i magistrati che hanno firmato la sentenza, prima del crack Siri e soci hanno svuotato l'azienda trasferendo il patrimonio a un'altra impresa la cui sede legale è stata poco dopo spostata nel Delaware, paradiso fiscale americano.
Lega, L’Espresso: “L’ideologo della Flat Tax Armando Siri patteggiò per bancarotta fraudolenta”. Ex giornalista, 46 anni, eletto al Senato ha patteggiato una pena per bancarotta fraudolenta. Tre anni e mezzo fa quindi un giudice ha accolto l'accordo tra accusa e difesa per il fallimento della MediaItalia, società che avrebbe lasciato debiti per oltre 1 milione di euro, scrive Il Fatto Quotidiano il 12 Marzo 2018. Prima della campagna elettorale Matteo Salvini, segretario della Lega, pensava per lui a un ruolo di governo, magari un ministero economico. Eppure, stando a quanto riporta L’Espresso, Armando Siri, 46 anni, eletto al Senato, ideologo della flat tax, ha patteggiato una pena per bancarotta fraudolenta. Tre anni e mezzo fa un giudice ha accolto l’accordo tra accusa e difesa per il fallimento della MediaItalia, società che avrebbe lasciato debiti per oltre 1 milione di euro. Nelle motivazioni, riporta il settimanale, i magistrati che hanno firmato la sentenza scrivono che, prima del crack, Siri e soci hanno svuotato l’azienda trasferendo il patrimonio a un’altra impresa la cui sede legale è stata poco dopo spostata nel Delaware, paradiso fiscale Usa. La società, secondo quanto ricostruito nell’articolo, aveva iniziato l’attività nel 2002 nel settore della produzione di contenuti editoriali per media e aziende: oltre Siri, già giornalista Mediaset, altri due soci. Nel 2005 però il rosso è già di un milione di euro. Il patrimonio viene trasferito a un’altra società, la Mafea Comunication: i creditori rimangono a bocca asciutta anche perché MediaItalia viene chiusa e viene nominata liquidatriceuna cittadina dominicana, che fa la parrucchiera. Per i giudici una testa di legno. Ci sono poi due società italiane in cui il neosenatore ha avuto ruoli importanti che hanno trasferito la sede legale in Delaware e hanno lo stesso indirizzo. In un caso ricompare anche la parrucchiera dominicana. Responsabile della “Scuola di formazione politica” della Lega, Siri in pochi anni è diventato uno dei fedelissimi del segretario federale, che lo ha infatti nominato responsabile economico di Noi con Salvini. Della tassa che con aliquota fissa negli ultimi giorni ha continuato a dire: “È un progetto necessario al Paese, finora abbiamo curato per anni una polmonite con la tachipirina. In questa campagna elettorale si sono aggregati intorno alla proposta della flat tax altri partiti; gli stessi Padoan e Renzi, prima della campagna elettorale, dichiararono che la flat tax può essere un’idea interessante”. Quindi ha aggiunto: “Inutile cercare di spremere un limone secco” a proposito della possibilità di una rottamazione delle cartelle di Equitalia a sostegno della ‘flat tax’ spiegandone i dettagli. “Il condono sarà di 60 miliardi – continua Siri – in passato abbiamo fatto la ‘voluntary disclosure’ dando la possibilità a chi aveva portato i capitali all’estero di riportarli in Italia con uno sconto che può sembrare un paradosso per i poveri cristi che sono rimasti qui, magari hanno le cartelle, hanno chiuso l’attività ed hanno lo Stato che li insegue per farsi dare 40mila euro quando non hanno i soldi per vivere”. Chissà se, quando diceva queste parole, pensava anche alla sua esperienza di imprenditore fallito.
Esclusivo: la flat tax di Matteo Salvini è un'idea di un bancarottiere. Armando Siri, l’ideologo dell’aliquota unica al 15 per cento, ha patteggiato una condanna a un anno e 8 mesi per un crac. Due società in cui il guru del leader leghista ha avuto ruoli di spicco hanno trasferito la sede legale in un paradiso fiscale. E uno dei suoi soci è indagato dall'antimafia di Reggio Calabria, scrivono Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 12 marzo 2018 su L'Espresso. Mettereste un condannato per bancarotta fraudolenta a gestire il vostro conto corrente? Fatte le debite proporzioni, è proprio quello che ha fatto Matteo Salvini. L’uomo scelto dal leader felpato come responsabile economico del suo partito (Noi con Salvini, fondato per creare proseliti leghisti nel centro e sud Italia) è infatti Armando Siri, condannato tre anni e mezzo fa dal tribunale di Milano in sede di patteggiamento per il crac della MediaItalia, società che ha lasciato debiti per oltre un milione di euro. È a questo 46enne di Genova, giornalista che vanta un passato nella gioventù socialista e un’amicizia personale con Bettino Craxi, che il capo del Carroccio ha affidato il compito di ridisegnare il sistema fiscale italiano: Siri è infatti l’ideologo della flat tax, l’aliquota unica al 15 per cento, la tassa piatta che nelle speranze dei leghisti riuscirà a rivitalizzare l’economia italiana senza mandare a picco i conti pubblici. Responsabile della “Scuola di formazione politica” della Lega, autore di parecchi saggi politico-economici come “La Beffa” e “Il Sacco all’Italia”, in pochi anni Siri è diventato uno dei fedelissimi di Salvini. Che infatti gli ha garantito un posto da senatore piazzandolo in cima alla lista dei candidati nell’Emilia appena conquistata dal Carroccio. Un’elezione ottenuta grazie all’idea della flat tax che tanto piace ai piccoli imprenditori seguaci di Matteo. Ma non è solo questo il merito di Siri. Salvini gli ha affidato anche il compito di stringere relazioni con aziende, banche e governi stranieri. È l’ex giornalista di Mediaset che ha organizzato nel gennaio scorso un viaggio a New York in cui “il capitano” avrebbe dovuto incontrare esponenti dell’amministrazione Trump. Ed è sempre Mister flat tax ad aver tenuto conferenze finanziarie come quella organizzata a Londra da Mediobanca nel dicembre di due anni fa, o ad aver pianificato riunioni tra il segretario leghista e i rappresentanti diplomatici della Russia in Italia. Una ricerca di agganci a Oriente che interessa molti imprenditori nostrani alle prese con le sanzioni imposte a Mosca. Tanto che sempre Siri, come risulta all’Espresso, sarebbe riuscito a organizzare un incontro con Luigi Cremonini, proprietario dell’omonima azienda che in Russia ha realizzato investimenti milionari. Siri angelo custode di Matteo, dunque: suo consigliere economico, finanziario e diplomatico. Con qualche scheletro nell’armadio, primo fra tutti il fallimento della sua MediaItalia e la condanna patteggiata a 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta. Una macchia finora rimasta segreta, che L’Espresso è in grado di raccontare basandosi sulla sentenza e una serie di documenti societari. La MediaItalia nasce a Milano nel 2002 per iniziativa di Siri e di due soci di minoranza, Ciro Pesce e Fabrizio Milan. Si occupa di produrre contenuti editoriali per media e aziende, tanto da diventare poco dopo responsabile della produzione del giornale di bordo della Airone, la compagnia aerea creata dall’imprenditore Carlo Toto. Gli affari vanno bene, il fatturato cresce di continuo. Ma a salire vertiginosamente sono anche i debiti, che nel 2005 superano il milione di euro. È a quel punto che le cose cambiano. Siri e soci trasferiscono tutto il patrimonio della MediaItalia a un’altra azienda, la Mafea Comunication, che in cambio non paga nemmeno un euro. Meno di un anno dopo Siri decide di chiudere la MediaItalia e nomina come liquidatrice Maria Nancy Marte Miniel, immigrata in Italia da Santo Domingo e oggi ufficialmente titolare di un negozio di parrucche e toupet a Perugia. «Una vera e propria testa di legno», la definiranno i giudici nella sentenza di condanna. Già, perché la donna non ha le competenze per gestire un’azienda né i mezzi per pagare i debiti. E così a rimanere con il cerino in mano sono i creditori della MediaItalia: fornitori, banche e lo Stato italiano. Lo stesso che adesso Siri vuole rappresentare in qualità di uomo di governo. La sentenza del tribunale di Milano parla chiaro: l’ideologo della flat tax e i suoi soci, Fabrizio Milan e Andrea Iannuzzi, hanno provocato il fallimento della società con operazioni dolose, svuotando l’azienda e omettendo di pagare alle amministrazioni dello Stato 162 mila euro tra tasse e contributi previdenziali. Avevano pure tentato di rendere la vita difficile agli inquirenti spostando nel Delaware, paradiso fiscale statunitense, la sede legale e i libri contabili della Mafea Comunication, l’azienda a cui erano stati trasferiti gli asset della MediaItalia. Una strategia - hanno ricostruito le indagini giudiziarie - architettata insieme al gruppo di commercialisti a cui si erano rivolti Siri e compagni. Fra questi spicca il nome di Antonio Carlomagno, professionista milanese già coinvolto nell’indagine giudiziaria sulla Perego Strade, la società di Lecco scalata e spolpata dalla ’ndrangheta lombarda tra il 2008 e il 2010. Carlomagno è uno dei commercialisti finiti sotto accusa - e poi assolto - per il fallimento delle aziende del gruppo Perego. Ed è lo stesso arrestato nel 2011 dalla guardia di finanza di Como perché considerato la mente di un vorticoso giro di società cartiere usate per frodare l’Iva. Scatole piene di debiti fiscali, spesso basate proprio nel Delaware, dove le tasse sono basse e la trasparenza societaria è praticamente nulla. Per questo colpisce ritrovare più volte il piccolo Stato affacciato sull’Oceano Atlantico nella parabola imprenditoriale di Siri. Non solo nella vicenda MediaItalia. Altre due società italiane in cui il guru economico di Salvini ha avuto ruoli di spicco (socio di maggioranza e amministratore unico) hanno infatti trasferito la sede legale nella piazza offshore a stelle e strisce. È successo negli stessi anni in cui la MediaItalia andava a picco. Le aziende in questione si chiamano Top Fly Edizioni e Metropolitan Coffee and Food. Due imprese simili, almeno così pare guardando i bilanci. Nate nei primi anni 2000, iniziano a fatturare sempre di più, ma contemporaneamente aumentano a dismisura i debiti. Finché Siri e gli altri soci italiani escono, al loro posto entrano azionisti e amministratori stranieri (tra cui la stessa dominicana Maria Nancy Marte Miniel) e la sede legale viene spostata nel Delaware. Un caso, forse. Di certo colpisce un particolare. Top Fly Edizioni, Metropolitan Coffee and Food e Mafea Comunication hanno sede allo stesso indirizzo: Barksdale Road, civico 113, comune di Newark.
C’è poi un’altra questione che potrebbe imbarazzare il consigliere economico di Salvini. Uno degli uomini che ha fondato insieme a lui la Top Fly Edizioni - presente insieme a Siri nell’azionariato dell’impresa fino alla cessione di tutte le quote alla testa di legno dominicana Marte Miniel - è Luigi Patimo, responsabile del mercato italiano per il gruppo Acciona, colosso spagnolo delle infrastrutture che in Italia porta l’acqua nelle case di 2,5 milioni di famiglie. Ebbene, un anno e mezzo fa Patimo è stato indagato dall’antimafia di Reggio Calabria insieme a Marcello Cammera, responsabile dei lavori pubblici nel municipio dello Stretto, oggi imputato per concorso esterno alla ’ndrangheta nel processo Gotha. Nel dibattimento che vede alla sbarra la zona grigia della mafia calabrese, impastata di massoneria e colletti bianchi, Patimo non è imputato, ma il filone che lo riguarda resta ancora aperto. Secondo i pubblici ministeri, che si sono avvalsi della collaborazione del nucleo investigativo dei carabinieri di Reggio, il manager della multinazionale iberica è coinvolto in un caso di corruzione: avrebbe promesso al dirigente comunale in odore di clan (Cammera) assunzioni e consulenze. Storiaccia intricata, nella Calabria di oggi in cui la Lega ha collezionato un risultato che nessun padano avrebbe mai immaginato. Se gli affari comuni di Siri e Patimo nella Top Fly Edizioni sono ormai ufficialmente acqua passata, c’è una società in cui i due compaiono ancora come azionisti e amministratori. Si chiama Profilo ed è attiva ufficialmente nel commercio di abbigliamento per adulti e bambini. Di bilanci depositati alla Camera di commercio non c’è nemmeno l’ombra, nonostante l’impresa sia stata fondata quattordici anni fa. D’altronde Mr flat tax lo ripete di continuo: garantiremo agli italiani meno tasse e meno burocrazia. Lui, evidentemente, si è già portato avanti.
POLITICI E MAGISTRATI, UN PO’ PIÙ DI UMILTÀ (E DI BUON SENSO). LA TENSIONE TRA LE DUE PARTI SAREBBE UTILE SE INDUCESSE CIASCUNA A OCCUPARSI DELLE PIAGHE DI CASA PROPRIA DI PIÙ E PRIMA CHE DI QUELLE DELL’ALTRA. Editoriale telegrafico di Pietro Ichino per la Nwsl n. 389, 23 aprile 2016. Da una parte quelli che “tutti i politici sono ladri” (nessuna migliore assoluzione per i politici ladri!). Dall’altra parte quelli che “tutti i magistrati sono inefficienti, politicizzati e affetti da protagonismo” (una botta in testa ai tanti giudici che fanno in silenzio il loro prezioso lavoro con sacrificio, imparzialità e dedizione). I primi alimentano l’aggressività dei secondi; e viceversa. Non una parola, da parte dei primi, sulle intollerabili disfunzioni e ritardi dell’amministrazione giudiziaria italiana, sulle enormi disparità di impegno e di risultati che si registrano tra i giudici di uffici diversi e di uno stesso ufficio, sull’impunita indisponibilità dei peggiori ad allinearsi almeno alla media. Da parte dei secondi, non una parola sull’incapacità del ceto politico di dotarsi, e dotare le amministrazioni che da esso dipendono, degli anticorpi indispensabili per ridurre il fenomeno endemico della corruzione ai livelli dei Paesi a nord delle Alpi. Un appello a entrambe le parti: ciascuna faccia precedere ogni invettiva contro l’altra dall’indicazione di almeno una misura concretamente attuabile subito per correggere almeno uno dei propri difetti. Per esempio, mi piacerebbe un presidente dell’A.N.M. che esordisse dicendo: “il modo in cui funziona la giustizia civile è insopportabile: dobbiamo imparare a trattare i procedimenti in modo sequenziale, concentrando istruttoria e discussione e programmandone fin dall’inizio i tempi con gli avvocati: ci sarebbe lo strumento operativo per farlo, che colpevolmente lasciamo nel cassetto”; poi aggiunga pure il suo ceterum censeo contro i politici corrotti. E mi piacerebbe un leader dei politici iper-garantisti che esordisse dicendo: “stiamo sbagliando a insabbiare o depotenziare la legge sulla trasparenza totale e quella sulla cooperazione civica nella lotta alla corruzione (il cosiddetto whistleblowing), entrambe mutuate dalle migliori esperienze straniere”; poi aggiunga pure il suo ceterum censeo contro i giudici politicizzati e manettari. Così si respirerebbe un’aria decisamente migliore.
· Caselli: ''Cene e nomine di giudici: una rogna preoccupante''.
Caselli: ''Cene e nomine di giudici: una rogna preoccupante'', di Gianni Barbacetto. Intervista Tratta da: ilfattoquotidiano.it del 31 Gennaio 2019. L’indagine su 15 magistrati in Calabria pare delineare un “groviglio perverso”, dice l’ex procuratore di Torino. Magistrati indagati in Calabria per corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento mafioso. Toghe che partecipano a riunioni convocate in nome del “garantismo” insieme a un variopinto parterre di personaggi (da Flavio Briatore a Matteo Salvini, passando per Maria Elena Boschi). Polemiche sul ministro della Giustizia che va ad accogliere in aeroporto il latitante Cesare Battisti e poi posta un video su Facebook. E festeggiamenti per i cento anni di Giulio Andreotti. Gian Carlo Caselli, una vita da magistrato tra Torino e Palermo, osserva con pacatezza quello che sta succedendo. “Dell’inchiesta sui magistrati calabresi posso ovviamente parlare solo in astratto”, dice. “Ma se le prime notizie risultassero vere e fossero poi confermate dalle indagini in corso, per la magistratura (non solo calabrese) sarebbe un brutto colpo”.
Quindici toghe di vari uffici sono sospettate di reati gravi, legati all’esercizio delle loro funzioni. Sì, sarebbe - sottolineo sempre il condizionale - una macchia velenosa. Ma c’è anche il risvolto della medaglia: è la stessa magistratura che ha individuato la macchia, che ha scoperchiato quello che potrebbe risultare un groviglio perverso. Prova inequivocabile che la magistratura rimane un’istituzione affidabile e solida, perché (e non tutte le pubbliche amministrazioni possono vantarsene) dimostra di saper applicare la legge con giusto rigore anche al suo interno. Senza indulgenze che contrasterebbero con il principio della legge uguale per tutti. In un momento difficile, non è poco. Comunque, oltre al lavoro del magistrato penale, bisognerà seguire con attenzione anche quello del Csm, perché ferite come queste vanno suturate bene e in fretta.
Catanzaro, 15 magistrati indagati per inchieste manipolate. Il fascicolo è stato aperto dopo che la procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, nel luglio scorso, aveva trasmesso gli atti per competenza ai magistrati di Salerno. Tra i reati contestati quello di favoreggiamento mafioso, corruzione e corruzione in atti giudiziari, scrive Giovanna Pavesi, Giovedì 17/01/2019, su Il Giornale. Erano tutti in servizio nel distretto giudiziario di Catanzaro, con diversi incarichi. Ma oggi, secondo quanto riportato da Il Fatto Quotidiano, quindici magistrati sono indagati dalla procura di Salerno per favoreggiamento mafioso, corruzione e corruzione in atti giudiziari. Il giornale indica fra gli indagati il procuratore capo di Cosenza, Mario Spagnuolo, il procuratore di Castrovillari (Cs), Eugenio Facciolla, e il procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto.
L'inchiesta. Al centro dell'inchiesta ci sarebbero episodi di favoreggiamento, a beneficio di indagati, e rivelazione di segreto d'ufficio, in relazione a operazioni di polizia, ma anche manipolazione di atti relativi a indagini. Al momento, comunque, non risulterebbero provvedimenti a carico dei magistrati coinvolti.
La testimonianza di Carchidi. Tra le persone ascoltate dai magistrati salernitani ci sarebbe il giornalista Gabriele Carchidi, direttore del sito "Iacchitè", autore di alcuni articoli sulla gestione della procura cosentina. La sua testimonianza sarebbe stata ascoltata l'11 dicembre dai carabinieri del Ros di Salerno, in missione nella città calabrese, per avere informazioni sull'inchiesta in corso.
Il legale di Facciolla: "Solo temi organizzativi". "A Salerno, per quanto riguarda la posizione del procuratore Facciolla, è in corso un approfondimento su temi amministrativi e organizzativi della procura di Castrovillari. Soltanto questo", ha spiegato all'Agi Antonio Zecca, avvocato del procuratore capo, in riferimento all'inchiesta della procura campana. Il legale ha aggiunto: "Ho letto l'articolo che riguarda un grappolo di magistrati calabresi per reati associativi o per collusioni con reati associativi, ma assolutamente nulla ha a che vedere l'indagine che riguarda Facciolla con questi temi. Il dottor Facciolla ha già ampiamente chiarito il suo ruolo e il suo comportamento ma, ripeto, sotto l'aspetto amministrativo e organizzativo dell'ufficio. È a dir poco sorprendeten che ci sia una fuga di notizie su questi temi, mi sembra un vero e proprio salto nel passato, quando negli anni Novanta le informazioni di garanzia, gli interessati le ricevevano dalle testate giornalistiche".
L'apertura del fascicolo. Il fascicolo sarebbe stato aperto dopo che la procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, nel luglio scorso, aveva trasmesso gli atti per competenza ai magistrati della città campana. Secondo le prime ricostruzioni, gli uffici coinvolti sarebbero quelli del capoluogo calabrese, di Cosenza e di Crotone.
Dal Sistema Siracusa al Sistema Italia: 31 indagati per corruzione in atti giudiziari. C’è anche il giudice Santoro del Consiglio di Stato, scrive il 24 gennaio 2019 Siracusa news. Un'inchiesta alla quale lavorano sia i pm capitolini sia quelli messinesi e per la quale, a febbraio del 2018, sono finite in carcere 15 persone e molte altre sono state indagate. Avvocati, imprenditori e magistrati sono accusati di aver aggiustato processi in favore dei clienti dello studio di Amara e Calafiore. L’inchiesta sul Sistema Siracusa si allarga sempre più, fino al Consiglio di Stato, fino a diventare un Sistema Italia dove le menti sembrano essere gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Il giudice del Consiglio di Stato, Sergio Santoro, è indagato per corruzione in atti giudiziari dalla Procura della Repubblica di Roma nella maxi inchiesta sulla presunta compravendita di sentenze nel massimo organo della giustizia amministrativa. Un’inchiesta alla quale lavorano sia i pm capitolini sia quelli messinesi e per la quale, a febbraio del 2018, sono finite in carcere 15 persone e molte altre sono state indagate. Avvocati, imprenditori e magistrati sono accusati di aver aggiustato processi in favore dei clienti dello studio di Amara e Calafiore. Nell’indagine risultano altri 30 indagati, tra i quali Francesco Saverio Romano, l’ex presidente della Regione Siciliana Raffaele Lombardo e Filippo Paradiso, dirigente del ministero dell’Interno. E figurano – come rivela il Sole 24 ore – anche altri giudici: l’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio, l’ex presidente della Giustizia amministrativa siciliana Raffaele De Lipsis, il giudice Nicola Russo e l’ex direttore generale del Consiglio di Stato Antonio Serrao, attualmente procuratore federale aggiunto della Figc. “Quello che dispiace è constatare la spiacevole coincidenza tra la notifica della proroga, e la diffusione della notizia, e lo svolgimento del plenum del Consiglio di Stato, fissato per venerdì mattina e da cui sarebbe uscito Santoro presidente aggiunto – ha commentato il legale di Santoro, Pierluigi Mancuso, a il Fatto Quotidiano – Non conosciamo la contestazione ma sono certo che c’è qualcuno che ha calunniato Santoro, uomo onesto e magistrato inflessibile”. Si attende per domani, infatti, la nomina per il presidente aggiunto del Consiglio di Stato e Santoro è favorito per ottenere il ruolo di numero due.
Sentenze pilotate al Consiglio di Stato: scattano le manette per giudici e politici, scrive il 7/02/2019 la Redazione de lasicilia.it. L'ipotesi è di presunta corruzione delle toghe di Palazzo Spada, tra gli indagati risultano anche avvocati, professionisti e uomini d’affari. Sono in totale quattro le ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip di Roma nell’ambito dell’inchiesta della Procura su sentenze pilotate al Consiglio di Stato. Ai domiciliari sono finti il giudice Nicola Russo, già coinvolto in altre vicende giudiziarie, l’ex presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia Raffaele Maria De Lipsis, l’ex giudice della Corte dei Conti, Luigi Pietro Maria Caruso e il deputato dell’assemblea regionale siciliana Giuseppe Gennuso. Per quest’ultimo l’ordinanza non è stata eseguita in quanto risulta al momento all’estero. Il reato contestato è corruzione in atti giudiziari. Questo nuovo colpo di scena con arresti eccellenti dovrebbe essere legato alle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara, figura-chiave del procedimento e ritenuto il regista della rete che puntava a pilotare le sentenze, che da alcuni mesi sta collaborando con gli inquirenti. L’ipotesi investigativa gira intorno a presunte corruzioni di giudici di Palazzo Spada per pilotare alcune sentenze. Tra gli indagati risultano anche avvocati, professionisti e uomini d’affari. Tra le persone coinvolte come detto anche Nicola Russo (già coinvolto in una vicenda giudiziaria con l’imprenditore Stefano Ricucci), l’ex ministro Francesco Saverio Romano accusato di rivelazione del segreto d’ufficio, l’ex governatore della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, l’imprenditore Ezio Bigotti e l’avvocato Giuseppe Calafiore. I pm romani nei mesi precedenti hanno cercato di ricostruire la rete e le aderenze su cui potevano contare gli indagati. Il 26 settembre scorso è stato arrestato un maresciallo dei carabinieri, ex Aisi, per l’accusa di falso in atto pubblico. Il militare era informato, in tempo reale, da una talpa sugli sviluppi della maxindagine. Un informatore che è stato in grado di propalare notizie in tempo reale, anche su informative della Guardia di Finanza non ancora depositate negli uffici di piazzale Clodio. I pm in particolare vogliono capire a chi sono finiti i 30mila euro che gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, coinvolti nella maxi indagine hanno erogato in almeno due tranche, con incontri fissati presso un convento di suore, allo stesso maresciallo dell’Arma. Ma in realtà nell'indagine ci sarebbe traccia di circa 150mila euro di tangenti versate per comprare sentenze nell’ambito della giustizia amministrativa per un totale di circa cinque episodi di corruzione contestati dai magistrati di piazzale Clodio, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. Delle sentenze pilotate tre episodi sono contestati al giudice del Consiglio di Stato (ora sospeso) Nicola Russo e due all’ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa (Cga) della Sicilia, Raffaele Maria De Lipsis. In base a quanto raccontato da Amara, Russo avrebbe ottenuto da lui circa 80 mila euro (e altri 60mila promessi), per aggiustare sentenze di tre procedimenti. A svolgere un ruolo di "mediatore", in base a quanto accertato dagli inquirenti, sarebbe stato anche l’avvocato Stefano Vinti oggetto questa mattina di una perquisizione. Il suo nome spunta in una vecchia intercettazione nell’ambito del caso Consip, finita agli atti dell’indagine, tra Alfredo Romeo e Italo Bocchino, in cui i due parlando dell’avvocato affermano che «comprava cause a blocchi». Per quanto riguarda De Lipsis, avrebbe ottenuto tangenti per 80 mila euro per intervenire su alcune sentenze. Tra queste anche quella relativa ad un contenzioso che la società Open Land, rappresentata da Amara, aveva con il comune di Siracusa. De Lipsis, attraverso la nomina di consulenti graditi ad Amara e Calafiore, fa ottenere alla società un risarcimento dal comune siciliano di 24 milioni euro. Di questi ne verranno elargiti due prima dell’esplosione del caso giudiziario. Per questa operazione De Lipsis ha ottenuto 50 mila euro di tangenti. Infine l’ex presidente del Cga è intervenuto, in qualità di presidente del collegio, nella vicenda relativa al ricorso presentato da Giuseppe Gennuso dopo la sua mancata elezioni alle amministrative del 2012. Il tribunale amministrativo annullò quel risultato elettorale di Siracusa favorendo Gennuso che venne rieletto alla nuova tornata. In cambio il giudice ha ottenuto 30 mila euro. Denaro che Gennuso consegnò attraverso l'ex giudice della Corte di Conti, Luigi Pietro Maria Caruso.
Il libro mastro delle sentenze truccate: sotto inchiesta venti magistrati, scrive l'11 giugno 2018 Alessandro Ziniti su La Repubblica. Le nuove accuse dei magistrati di Roma e Messina, al centro anche processi su appalti Consip. Di che cosa stiamo parlando. Sentenze amministrative comprate e un’azione di dossieraggio per inquinare e depistare importanti inchieste penali. A febbraio una grossa indagine delle procure di Roma e Messina ha portato all’arresto di 15 persone per corruzione in atti giudiziari. In manette anche un pm della procura di Siracusa e il regista di questo giro di mazzette, l’avvocato siciliano Piero Amara con una grossa clientela internazionale. Tra gli indagati anche l’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato Virgilio. Sono partiti da un elenco di 35 sentenze trovato a casa di uno dei faccendieri e sono arrivati lì dove non avrebbero mai voluto arrivare, per di più consapevoli di essere solo sull'uscio di una porta che spalanca la strada a quella che potrebbe essere una delle più esplosive inchieste italiane sulla corruzione degli ultimi anni. Ci sono più di venti magistrati iscritti per corruzione in atti giudiziari nel registro degli indagati delle procure di Roma e di Messina per un giro enorme di processi aggiustati nell'ambito della giustizia amministrativa. Lo scenario che si apre, gravissimo e desolante al tempo stesso, è quello di un Consiglio di Stato e di un Consiglio di giustizia amministrativa fortemente condizionati dall'attivismo di un numero molto consistente di giudici a libro paga che avrebbero preso mazzette per favorire i clienti più importanti rappresentati dallo studio legale Amara-Calafiore, i due avvocati siciliani arrestati tre mesi fa e che da alcune settimane stanno facendo importantissime ammissioni riempiendo decine di pagine di verbali davanti ai pm romani coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e messinesi diretti dal procuratore Maurizio de Lucia. Alcuni atti, che coinvolgono seppure in maniera marginale un magistrato del penale di Roma il cui nome emerge dagli atti per alcune cointeressenze in società, sono stati mandati per competenza alla procura di Perugia ma l'indagine promette di allargarsi e interessare altri uffici giudiziari italiani. L'inchiesta è quella che, a febbraio, ha visto finire agli arresti quindici persone (e tra questi anche l'ex pm di Siracusa Giancarlo Longo) per un giro di corruzione allora valutato in 400 milioni di euro. Bazzecole rispetto al vorticoso passaggio di mazzette, molte delle quali estero su estero, che gli investigatori della Guardia di finanza stanno faticosamente ricostruendo in questi mesi. Partendo da questa sorta di libro mastro delle sentenze aggiustate, ma grazie anche alle dichiarazioni fatte dai due avvocati accusati di aver costruito questo fittissimo reticolo di relazioni capace di condizionare le sentenze della giustizia amministrativa in favore dei loro facoltosi clienti, tutti interessati ad appalti milionari, molti dei quali affidati dalla Consip. L'altra ma non meno importante faccia della medaglia era l'ingegnoso metodo, quello dei procedimenti cosiddetti "a specchio", che il pm amico di Amara, Giancarlo Longo, apriva a Siracusa con l'obiettivo o di entrare a conoscenza di elementi riservati di inchieste delicatissime (come quella milanese sulle tangenti Eni in Niger) condotte da altre procure o addirittura di inquinarle o rallentarli con atti appositamente compiuti. Un'attività di depistaggio e dossieraggio che viaggiava tra Roma, Milano, Siracusa e Trani e che resta al centro di un capitolo tra i più delicati dell'inchiesta. Il primo a parlare, dopo tre mesi in carcere, è stato il rampantissimo Piero Amara, 48enne avvocato originario di Augusta ma con una importante clientela internazionale e amicizie nelle stanze dei bottoni. Messa da parte la linea di difesa iniziale, quando aveva negato di aver pagato magistrati per indirizzare le sentenze, ha finito con spiegare, almeno in parte, qual era il meccanismo messo in piedi per facilitare i suoi clienti: ricorso al Tar se la gara andava male e da lì verdetto sicuro o in primo o in secondo grado. Di cose interessanti ne ha raccontate diverse ma avrebbe in parte cercato di spostare le responsabilità sul collega di studio Calafiore. Il quale non l'avrebbe presa benissimo. E così, quando i pm gli hanno contestato le dichiarazioni di Amara, anche Calafiore ha deciso di rompere il silenzio contribuendo a sua volta a mettere tanta carne al fuoco delle due procure. E alla fine, due settimane fa, anche lui si è "guadagnato" i domiciliari. Nomi su nomi di magistrati amministrativi "avvicinati" e una lettura, adesso ovviamente al vaglio degli inquirenti, dell'elenco delle sentenze aggiustate (qualcuna con relativa cifra accanto) custodito da uno dei faccendieri che lo studio legale Amara-Calafiore utilizzava per sbrigare i suoi affari. Almeno quindici i nomi dei componenti del Consiglio di Stato finiti sotto indagine a cui si aggiungono quelli iscritti a Messina tra giudici del Consiglio di giustizia amministrativa e dei Tar di Palermo e Catania. Un "cerchio magico", quello messo su negli ultimi anni da Amara e Calafiore, del quale facevano parte anche diversi avvocati (anche qui molti nuovi indagati) rappresentanti delle imprese favorite nei contenziosi amministrativi: tra i più importanti il contenzioso Ciclat e quello della Exitone. Anche Fabrizio Centofanti, imprenditore anello di questa catena, haottenuto i domiciliari. Ma lui continua a tacere.
· Corruzione: Cananzi (magistrato) “il peggior peccato è l’omissione”.
Corruzione: Cananzi (magistrato) “il peggior peccato è l’omissione”, scrive agensir.it il 6 dicembre 2018. “Non ci si può fermare alla frustrazione. Occorre avere fiducia e speranza davanti alla mafia e alla corruzione. Il nostro compito è valorizzare chi si comporta bene”. Lo ha detto Francesco Cananzi, magistrato, in occasione della presentazione del libro “Corrotti, no”, edito da Ave, nell’ambito della manifestazione “Più libri più liberi”. Il volume raccoglie gli scritti di Papa Francesco riguardo al tema della corruzione. “C’è una voracità che fa paura – ha aggiunto Cananzi, giudice delle indagini preliminari di Napoli -. Quando i nostri desideri li facciamo diventare nostri diritti è logico che si arriva anche alla corruzione. Davanti a questo c’è bisogno di sporcarsi le mani. La vera sfida è mettere in campo persone che mettano al servizio degli altri il proprio potere. Nel libro – ha ricordato – Francesco dice chiaramente che bisogna mettersi in gioco mentre il peggior peccato secondo me è l’omissione”. “Un’altra parola che Francesco cita – ha proseguito – è la ‘fraternità’. Il dovere di solidarietà è nella nostra Costituzione ma lo abbiamo dimenticato. La sfida è sapere impegnarsi per far capire che c’è un modo diverso in cui vivere una situazione di benessere. Il problema è che oggi tutti vogliono tutto. La sfida è educativa e si vince con il buon senso. Ciascuno di noi si deve interrogare sul valore del piccolo potere che ha per fare giustizia”. “Possiamo continuare – ha doncluso – a fare leggi e indagini ma dobbiamo lavorare sulla crescita collettiva delle persone del senso civico”.
Avv. Parrotta (Dir. ISPEG): “Sul tema corruzione servono misure precise di prevenzione”. Intervista di Simone Ciloni su New Notizie del 25/01/2019.
Buon pomeriggio Avv. Parrotta e la ringraziamo di essere qui con noi. Nel giornale ‘Il Dubbio’ lei ha scritto un articolo riguardante la corruzione; ci indichi quali sono a suo giudizio i modi per contrastarla efficacemente e quanto è profondo questo male in Italia…
«Ritengo, come già esposto a Il Dubbio, che la normativa sia parziale ed incompleta proprio perché agisce solo sul trattamento sanzionatorio, inasprendo le pene e ponendo più incisive regole per godere dei benefici in esecuzione di pena, ma non prende in alcun modo in considerazione la prevenzione al male corruttivo. Non è sufficiente un sistema di pene più severo ma occorre valutare l’introduzione di nuovi incentivi a fronte dei quali si possano ricevere benefici. Tra tutti: un rafforzamento ed un’attualizzazione generalizzata della UNI ISO 37001, lo strumento preventivo anticorruzione che aiuta le imprese a dotarsi di un sistema di legalità volto a ridurre il rischio di commissione del reato e che – all’Estero – è considerata la condizione basilare per intraprendere rapporti di natura economici con altri soggetti. Occasione mancata per mettere mano al D. Lgs. 231/01 in modo più sostanziale, il quale – come noto – prevede una responsabilità per “colpa in organizzazione” che si basa proprio sul concetto di prevenzione. La nuova legge introdurre – a livello societario – un nuovo reato che può dar luogo alla responsabilità dell’ente in caso di traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.) ma non si sofferma su altro se non sul sistema sanzionatorio.Il Sistema Italia è davvero un unicum, in senso positivo, per la prevenzione della corruzione. A livello governativo v’è in corso una fitta attività di diplomazia giuridica volta a portare nei Paesi extra-UE i nostri modelli gestionali. Occorre solo farli funzionare, sancendo la loro obbligatorietà. È bene ricordare che è proprio tramite l’introduzione di norme di questo tipo che si crea e si sviluppa nella società, a tutti i livelli, una cultura di trasparenza, conformità ed integrità nei rapporti. A parere di chi scrive, la battaglia alla corruzione va compiuta proprio sul terreno della prevenzione, attraverso l’adozione di precise ed incisive misure di prevenzione».
Come Professore di diritto della cooperazione internazionale cosa pensa del recente provvedimento del Tribunale di Catania al Ministro Salvini?
«Proprio oggi su La Notizia ho rilasciato alcune mie – tecniche – impressioni. Mi occupo di diritto della cooperazione internazionale da anni come docente a Giurisprudenza presso l’Università degli Studi eCampus e volendo – da tecnico – tralasciare le impressioni politiche mi permetto di invitare ad una riflessione. Il Procuratore Zuccaro negli scorsi mesi aveva ribadito che le scelte del vice premier fossero riconducibili esclusivamente ad una sfera politica e per questo non sindacabile dal giudice penale a fronte del fondamentale principio della separazione dei poteri. Nel caso dei c.d. reati ministeriali la competenza a decidere se archiviare o richiedere l’autorizzazione alla camera di appartenenza spetta al Tribunale dei Ministri, sentito il parere dei Procuratori. Conseguentemente, l’ultima decisione è del Tribunale. Tuttavia, tenendo a mente le regole procedurali ordinarie, occorre osservare, come in genere, a seguito di una richiesta di archiviazione il Giudice competente, se ritiene di non dar seguito alla richiesta stessa, non dispone ex officio l’archiviazione ma procede ad indicare quali nuove indagini e mezzi istruttori debbano essere esperiti a fondamento della notizia di reato ovvero formulare l’imputazione coattiva dandone motivazione.Qui mi pare di aver inteso che il Tribunale dei Ministri respinga immotivatamente ben due richieste di archiviazione, non dando seguito ai pareri e alle – pesanti – dichiarazioni dei Procuratori e prosegua, dunque, l’iter giudiziario trasmettendo gli atti per la richiesta a procedere. Perché? Ogni risposta credo debba essere ricercata nella Costituzione che va osservata, sempre, da tutti gli interlocutori politici e non». Simone Ciloni
“ORA BASTA!”, PARLA SIMON PIETRO SALINI DELLA SALC, scrive Dimitri Buffa il 19 febbraio 2019 su L’Opinione. Simon Pietro Salini ormai da anni ha sostituito il fratello Claudio (deceduto tragicamente in un incidente automobilistico su una delle tante buche della Cristoforo Colombo il 31 agosto 2015) alla guida della Salc – Società appalti lavori e costruzioni – che è l’impresa numero 18 tra quelle italiane del settore, con un portafoglio opere di oltre 450 milioni di euro e un miliardo di euro di giro d’affari. A oggi ha ultimato circa 25 di quelle che si definiscono “grandi opere”, e il verbo “ultimare” va sottolineato in un paese che apre cantieri e non li chiude. La Salc, a tal proposito, ne ha altri 12 aperti sparsi in giro per l’Italia. Non è inutile dire che direttamente impiega 298 persone e indirettamente dà da lavorare a migliaia di persone in Italia e nel mondo. Salini in questa intervista della serie di “Ora basta!” ci spiega la sua adesione al manifesto dei costruttori italiani che lottano disperatamente contro la burocrazia e il senso dell’iniziativa in sé.
Architetto Salini, il presidente dell’Anac Raffele Cantone nega che il Codice degli appalti sia un problema per l’aggiudicazione degli stessi e parla di polemiche inventate. Lei che ne pensa?
«Diciamo che ha ragione forse sulla semplice aggiudicazione dei singoli appalti, però i cantieri non si aprono e a volte la procedura di varo dura più a lungo che la successiva fase di ultimazione dell’opera stessa».
Cosa non va allora secondo lei in questo Codice degli appalti?
«Oramai c'è una minore professionalità e minore preparazione nella Pubblica amministrazione. E questo porta a non prendersi responsabilità e a non correre rischi. In questo quadro il Codice degli appalti è venuto a complicare più che a semplificare le cose, con queste pretese di avere progetti esecutivi che nessuno è in grado di perfezionare nei tempi dati e con queste commissioni che giudicano sugli appalti che stentano a decollare».
E le imprese? Come mai negli anni Sessanta si costruiva in pochi mesi e oggi ci vogliono anni?
«Sicuramente ci sono state tante colpe anche da parte delle imprese. Che risentono del clima generale. Le opere pubbliche andrebbero rimesse al centro dello sviluppo economico e contemporaneamente andrebbe limitata la responsabilità erariale dei pubblici funzionari solo ai reati di malversazione, corruzione e in genere al dolo e alla colpa grave. Sia del pubblico funzionario sia dell’imprenditore. Tenendo però fuori tutto il resto.che altrimenti la situazione è destinata a bloccarsi per sempre».
Un discorso che oggi in Italia verrebbe giudicato eversivo vista la generale situazione di pensiero unico forcaiolo...
«Beh, anche in quell’ottica andrebbe valutato, in una ipotetica analisi costi e benefici, che il tenere tutto fermo provoca un danno erariale ben superiore. Se un’opera entra in funzione nei tempi previsti o quattro anni dopo – mettiamo un ospedale – si rischia addirittura di costruire qualcosa che al momento della sua inaugurazione è già divenuta obsoleta. Non mi pare che sia sostenibile. In mancanza del dolo o della colpa grave, bloccare tutto per irregolarità formali o cose lievi io credo che provochi danni ben superiori».
Rispetto al Codice degli appalti – nel dettaglio tecnico – cosa non funziona?
«Guardi, sono uno dei firmatari dell’appello “Ora basta!”, come lei saprà, e l’errore principale è stato quello di non prevedere una normativa transitoria in attesa che il codice e i suoi istituti andassero a regime. E questo ha bloccato proprio il numero degli appalti. Hanno messo la pubblica amministrazione nelle condizioni di non potere lavorare perché i bandi per progetti esecutivi non esistevano e non ne era pronto neanche uno. E quindi per due anni hanno dovuto dedicarsi esclusivamente a questo mentre le opere pubbliche attendevano di potere partire. La società di mio fratello che adesso gestisco io è passata in tre anni da gare per oltre tre miliardi di euro a gare per seicento milioni. Con tutto l’annesso di una ricaduta occupazionale drammatica, visto che nel settore dal 2011 a oggi si sono persi seicentomila posti di lavoro, e questo grazie alle scelte dei vari governi che si sono succeduti. Non ci sono più bandi cui partecipare perché per due anni hanno dovuto bloccare tutto per fare i progetti esecutivi e ancora non si è colmato il cosiddetto gap».
Lei sta fornendo notizie drammatiche e le sta comunicando in maniera semplice. Perché di queste cose non se ne parla nelle aperture dei Tg della sera visto che riguardano così tante famiglie?
«Questo forse va chiesto ai suoi colleghi...Il sospetto è che sia meglio parlare di altro drammatizzando le notizie di cronaca per non dovere interrogarsi sulla criminalizzazione ideologica del settore appalti...E’ anche un po’ il mio sospetto. Ma adesso l’Italia avrebbe bisogno di una robusta cura di buon senso se non vuole tornare indietro invece che andare avanti».
E quale sarebbe la cura contro questa stasi?
«Lo ha spiegato bene il professor Sabino Cassese, questo codice nasce sul pregiudizio. Le imprese sono tutte imbroglione, i funzionari pubblici tutti in cerca della mazzetta e così via. Bisognerebbe – ripeto – tornare al buon senso».
Ad esempio?
«Coordinarlo questo benedetto codice anche con la normativa sui fallimenti. Non è possibile che ci siano imprese che da fallite o in concordato preventivo partecipino agli appalti, magari con il vantaggio di non pagare subito - o mai - i fornitori. Sennò oltre al problema della concorrenza sleale con chi nell’appalto è arrivato secondo o terzo c’è anche il rischio di provocare una filiera di fallimenti determinati dal fatto che il pesce grosso non paga quello piccolo».
E quindi?
«Quando un’impresa che ha vinto un appalto fallisce o non è in grado di portarlo a termine ci vorrebbe lo scivolo automatico al secondo classificato nella gara. Lo capirebbe anche un bambino. Ma con questa cultura del sospetto, da una parte, e dell’arrangiamento, dall’altra siamo arrivati al paradosso che è tutto fermo e il settore sta morendo».
Una riflessione sulle grandi opere e sull’urgenza delle stesse?
«Se ogni volta che ci sta una grande urgenza, dal crollo del ponte a Genova a un terremoto nel Centro Italia, va nominato un commissario per procedere in deroga al codice degli appalti allora significa che è meglio far si che la deroga stessa diventi legge. E’ intuitivo. Inutile fare leggi inapplicabili e complicate. Una volta per una grande opera pubblica il tempo medio di realizzazione non superava i tre anni, ora ce ne vogliono dieci, se ce la si fa. Così non si può andare avanti. Per questo “Ora basta!” è diventato un manifesto condiviso per tutto il nostro settore».
· Appalti puliti, cantieri chiusi.
Appalti puliti, cantieri chiusi. In 10 anni i lavoratori dell'edilizia si sono dimezzati Colpa della crisi, ma anche di un Codice dei contratti pubblici che si è rivelato un inedito autogol istituzionale, scrive Angelo Allegri, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". Per gli addetti ai lavori è semplicemente il Codice degli appalti: la raccolta delle norme da seguire in materia di contratti pubblici, il testo che detta le regole di un settore che nel 2017 valeva 140 miliardi di euro. Un documento a cui è legata una bella fetta di economia italiana, ma che è diventato anche l'esempio di un corto circuito istituzionale con pochi uguali perfino nel malandato Belpaese. Per rendersene conto basta passare in rassegna la sua storia: l'approvazione è del 2016, ma pochi mesi dopo deve intervenire un decreto per correggere decine e decine di errori materiali contenuti nei vari articoli. Nel 2017, un anno dopo il varo, un altro decreto «correttivo», questa volta più sostanziale, e alla fine sono più della metà le disposizioni che finiscono in qualche modo per cambiare. A questo punto, tutto a posto? Macché. Uno dei primi atti della legislatura iniziata nel 2018 è il via a una serie di audizioni parlamentari per avviare la riforma della riforma. «Il Codice ha fallito, è troppo complicato, farraginoso, così non (...) (...) si può andare avanti», dicono praticamente tutte le associazioni professionali coinvolte. Le nuove norme sono così diventate l'esemplificazione concreta di un vecchio adagio: i posti di lavoro non si creano per legge, ma per legge si possono distruggere. Nelle intenzioni si ispiravano a criteri di flessibilità e trasparenza, ma hanno avuto l'effetto di contribuire a una frenata dei contratti pubblici, gettando sale sulle ferite di chi sugli appalti vive. In prima fila le imprese di costruzioni che negli ultimi 10 anni hanno vissuto una vera e propria Caporetto: 500mila posti di lavoro persi, 120mila aziende fuori mercato, più della metà dei grandi gruppi in fallimento o in conclamata crisi finanziaria. Sulla catastrofe del settore ha pesato soprattutto la crisi della finanza pubblica con una riduzione degli investimenti nell'ultimo decennio superiore al 50% (in questo campo il governo del cambiamento non ha cambiato proprio nulla: erano attese nuove risorse per 3,5 miliardi, alla fine sono arrivati solo 550 milioni). Ma nell'ultimo paio d'anni anche il Codice degli appalti, secondo i molti detrattori, ha fatto la sua parte.
«BULIMIA» LEGALE. La spinta verso un intervento legislativo organico nel campo dei contratti pubblici è nata dalla necessità di recepire nella legislazione italiana una serie di direttive europee. Ma non ci si è fermati qui. «I provvedimenti di Bruxelles stabiliscono principi generali», spiega Ginevra Bruzzone, vice direttore generale di Assonime, l'associazione delle società per azioni. «Ma da noi, dove spesso i comportamenti degli amministratori o delle imprese lasciano a desiderare, l'approccio è quello dell'iper-regolazione, si vuole prevedere e regolare tutto». Di «bulimia normativa» parla Vittorio Barosio, avvocato e docente universitario, un atteggiamento motivato dal fatto che «il legislatore non si fida della pubblica amministrazione, considerata, non a torto, inaffidabile e incompetente». Il risultato è che nel nuovo codice si sono fissate regole così stringenti da risultare paralizzanti e in qualche caso perfino in contrasto con la stessa normativa europea che si voleva attuare. Un esempio è quello dei subappalti, sottoposti a una serie rigidissima di paletti: bisogna tra l'altro indicare in sede di gara una terna di imprese a cui si potranno affidare in un secondo tempo i lavori. «E mi starebbe anche bene se si parlasse di procedure che durano settimane», spiega Edoardo Bianchi, vice presidente dell'Ance, associazione dei costruttori. «Ma qui si parla di anni. Che cosa ne so io che cosa succederà sul mercato tra 24 mesi?». Un'altra novità è l'introduzione del principio della soft law. Di solito dopo l'approvazione di una norma con valore di legge, un regolamento amministrativo si occupa di definire i dettagli. In questo caso si sono voluti affiancare ai provvedimenti ministeriali le linee guida dell'Anac, l'Autorità anti-corruzione guidata da Raffaele Cantone, che è anche autorità dei contratti pubblici. Nelle intenzioni si opponeva la rigidità del regolamento alla flessibilità delle linee guida, in grado di fare da riferimento per la pubblica amministrazione che conservava la sua, in molti casi opportuna, discrezionalità. «La novità, però, ha aumentato la produzione normativa e introdotto una complicazione ulteriore», spiega l'avvocato Barosio. «Le linee guida sono regolatorie e cioè vincolanti, o semplicemente esplicative. Ma alla fine la distinzione non è chiara e alimenta la confusione».
DECRETI IN RITARDO. In termini quantitativi l'Anac ha fatto il suo dovere, tenendo conto anche del fatto che dopo il decreto «correttivo» del 2017 alcune linee-guida già emanate hanno avuto bisogno di una correzione: delle 10 linee-guida obbligatorie sette sono già stati pubblicate. Tutt'altro discorso vale, invece, per i compiti affidati alla burocrazia ministeriale. Nel complesso erano previsti 62 provvedimenti, ma solo un terzo circa ha visto fino ad ora la luce. «Mancano ancora misure fondamentali come la cosiddetta qualificazione delle stazioni appaltanti», dice Andrea Mascolini, direttore generale dell'Oice, l'associazione delle società di ingegneria. La novità era considerata una delle più importanti del nuovo codice: quelle che i tecnici chiamano stazioni appaltanti sono gli enti pubblici autorizzati a avviare delle gare pubbliche; tenendo conto di tutto (dalle Asl fino ai piccoli comuni), in Italia ce ne sono più di 30mila. Il Codice prevede una serie di criteri per fare in modo che dimensioni e caratteristiche dell'ente pubblico determinino il tipo di gare che questo può avviare. Per capirsi: un piccolo comune in cui l'ufficio tecnico è formato da un paio di geometri non dovrebbe assegnare appalti per milioni, visto che gli mancano le capacità per gestire adeguatamente procedure di questo tipo, e deve fare riferimento a enti più strutturati in termini di competenze e organizzazione. Principio sacrosanto che, però, si è inabissato nei corridoi ministeriali. E anche questo dà la misura delle resistenze della burocrazia alle nuove regole: gli appalti, dai piccoli ai grandi, sono soldi e potere.
SENZA RETE. «L'errore principale del Codice è stato però quello di non aver previsto una disciplina transitoria», aggiunge Mascolini. Nel 2016 gli uffici pubblici hanno dovuto, subito e senza rete, adeguarsi alle nuove regole, che prevedevano, tra l'altro, che la gara non potesse effettuarsi più sulla base del progetto definitivo, ma su quello esecutivo (la fase ulteriore, quella immediatamente precedente all'apertura del cantiere). Il rallentamento nelle aggiudicazioni è stato brusco. Anche se già per il primo semestre del 2018 una ricerca Cresme-Anac segnalava che per gli appalti superiori al milione di euro la crescita è stata del 43% in numero e del 75% in valore (dai 6,1 miliardi del primo semestre 2017 ai 10,1 dell'anno scorso). Ma secondo gli esperti non basta. I provvedimenti in discussione in questi giorni, compreso quello già approvato in sede di legge di bilancio, che alza da 40mila a 150mila euro la soglia degli appalti assegnabili senza gara, hanno come obiettivo quello di rimettere in moto il settore. Una riforma del Codice era stata annunciata dal vice premier Salvini per il mese di novembre, poi tutto è slittato, anche se qualche misura dovrebbe essere inserita nel cosiddetto decreto semplificazioni.
IL GIRO RICOMINCIA. Ma pure la riforma porta con sé alcuni rischi: quello di ricominciare da zero, ripetendo l'errore del 2016, se le modifiche saranno troppo radicali e non graduate nel tempo; e, soprattutto, quello di buttare il bambino con l'acqua sporca. I costruttori spingono per esempio, per la reintroduzione dell'appalto integrato, in cui in gara vengono assegnati insieme progetto esecutivo e lavori. Ma proprio la fase del progetto esecutivo è stata quella in cui spesso, attraverso le ormai famigerate «varianti», le imprese hanno cercato di rientrare dai ribassi a cui erano state costrette per ottenere l'appalto, facendo lievitare l'ammontare complessivo dei lavori. In discussione c'è anche la reintroduzione di un istituto tra i più controversi: l'incentivo del 2% sull'importo dei lavori ai dipendenti pubblici che svolgono in proprio la progettazione. Tra i progetti, quanto meno della Lega, c'è anche il ridimensionamento dell'Anac con le sue linee-guida e il ritorno ai tradizionali regolamenti. Bisognerà vedere che cosa ne pensano i grillini.
· L'Italia è un paese fondato sulla mazzetta. Micro corruzione, la vera piaga italiana: ogni otto ore un caso di mazzette e favori illeciti.
Micro corruzione, la vera piaga italiana: ogni otto ore un caso di mazzette e favori illeciti. Dal professore universitario che obbliga il ricercatore a versare una somma per garantirsi il rinnovo della collaborazione al sindaco che cambia destinazione ai terreni per aiutare l’amico imprenditore. Sull'Espresso in edicola da domenica 6 gennaio vi raccontiamo la Mala Italia delle mini-mazzette, scrive Giovanni Tizian il 04 gennaio 2019 su "L'Espresso". Anche il 2018 lascia in eredità una scia di grandi e piccole corruzioni. Passano i governi, si susseguono leggi anti corrotti, ma la malattia resiste, immune a qualunque antibiotico. Uno studio di Transparency international del 10 dicembre scorso ha rivelato che nell’anno appena concluso i giornali hanno riportato 983 casi di corruzione. Quasi il doppio del 2017. E chissà quanti sono rimasti fuori da questo censimento. L'Espresso in edicola da domenica 6 gennaio pubblica un servizio sulla corruzione quotidiana, che molti considerano spicciola, in confronto alle grandi mazzette e ai grandi appalti. Ma che in realtà è capillare e i cui effetti sono devastanti per la comunità. Quelle citate da Transparency sono storie per lo più ignote all’opinione pubblica di micro corruzione. Divise per tutti i giorni dell’anno producono il dato più allarmante: tre casi al giorno, che coinvolgono almeno - la stima è al ribasso - 6 cittadini italiani ogni 24 ore. Dal professore universitario che obbliga il ricercatore a versare una somma per garantirsi il rinnovo della collaborazione fino al sindaco che cambia destinazione ai terreni per fare una “cortesia” all’amico imprenditore. Non c’è settore immune: sanità, istruzione, giustizia, sociale, edilizia. Ogni ambito ha la sua cricca. Non mancano le mafie, che alla lupara preferiscono le bustarelle per convincere gli indecisi. La fotografia della mazzetta italiana è impietosa: da sud a nord, non c’è regione, provincia, comune, esente dal desiderio di crearsi una scorciatoia pagando un dazio non dovuto. A scapito delle collettività, danneggiata enormemente dalle innumerevoli cricche locali, più o meno stabili nel tempo o che si aggregano di volta in volta per raggiungere lo scopo prefissato: procurarsi un ingiusto vantaggio personale, lucrando sulle risorse di tutti, giovani e meno giovani. I pirati in doppiopetto, i colletti bianchi della corruzione, considerano il territorio alla stregua di una preda da scarnificare. L’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone dal 2014 al 2018 ha esaminato 171 ordinanze di arresto in cui erano presenti reati contro la pubblica amministrazione. L’accusa di corruzione è presente quasi ovunque. E solo l’anno scorso l’ufficio diretto da Cantone ha proposto 19 commissariamenti di appalti pubblici, tutti macchiati da vicende di corruzione. La Commissione europea nel 2017 ha svolto un’indagine sulla percezione della corruzione nei singoli paesi membri dell’Unione. Il risultato più significativo è che in Italia il 15 per cento delle imprese ha risposto di aver ricevuto richieste di favori o di mazzette per almeno uno dei sei servizi rivolto alle aziende: permessi di costruire e commerciali, cambio d’uso dei terreni, permessi ambientali, aiuti di Stato e fondi strutturali. La differenza con la Spagna è enorme. Qui solo l’1 per cento ha rivelato di aver subito richieste di questo tipo. In generale il dato italiano è superiore dieci punti la media dell’Unione Europea. Di corruzione e non solo abbiamo parlato con il comandante generale della Guardia di Finanza, Giorgio Toschi. Nel numero in edicola da domenica, L'Espresso pubblicherà l'intervista al generale delle Fiamme Gialle. Al centro del colloquio evasione, nuova legge anti corrotti, riciclaggio e traffico di droga. «L’evasione fiscale “consapevole”, ossia da mancata o sotto-dichiarazione dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo, è pari a circa 74,6 miliardi di euro», ha spiegato Toschi all'Espresso. Che sull'uso degli agenti sottocopertura nelle inchiesta sulla pubblica amministrazione ha risposto: ««La Guardia di Finanza ha avuto modo di esprimere le proprie valutazioni nel corso dell’iter parlamentare del disegno di legge. Pertanto, l’estensione di tale strumento ai reati contro la Pubblica Amministrazione la valutiamo positivamente. La figura dell’operatore sotto copertura è sempre distinta da quella, non prevista dal nostro codice, dell’agente “provocatore”, la cui condotta è orientata a istigare o a suscitare la commissione di un reato altrimenti non realizzabile».
L'Italia è un paese fondato sulla mazzetta. Da Nord a Sud, il linguaggio della "stecca" è riconosciuto ovunque. Viaggio nel Paese che si lascia comprare per poche centinaia di euro: tanto a pagare è sempre la collettività, scrive Giovanni Tizian l'11 gennaio 2019 su "L'Espresso". Cara vecchia piccola mazzetta. Anche il 2018 è stato un anno di grandi e piccole corruzioni. Passano i governi, si susseguono leggi anti corrotti, ma la malattia resiste, immune a qualunque antibiotico. Uno studio di Transparency international del 10 dicembre scorso ha rivelato che nell’anno appena concluso i giornali hanno riportato 983 casi di corruzione. Quasi il doppio del 2017. E chissà quanti sono rimasti fuori da questo censimento. Quelle citate da Transparency sono storie per lo più ignote all’opinione pubblica di micro corruzione. Divise per tutti i giorni dell’anno producono il dato più allarmante: tre casi al giorno, che coinvolgono almeno - la stima è al ribasso - 6 cittadini italiani ogni 24 ore. Dal professore universitario che obbliga il ricercatore a versare una somma per garantirsi il rinnovo della collaborazione fino al sindaco che cambia destinazione ai terreni per fare una “cortesia” all’amico imprenditore. Non c’è settore immune: sanità, istruzione, giustizia, sociale, edilizia. Ogni ambito ha la sua cricca. Non mancano le mafie, che alla lupara preferiscono le bustarelle per convincere gli indecisi. Chi pensa però che si tratti di un fenomeno concentrato solo in alcune aree del Paese, limitato a zone antropologicamente votate alla tangente, si sbaglia di grosso. Corrotti e corruttori non si nasce ma si diventa, si impara l’arte negli uffici pubblici e di imprese private. I pirati delle mazzette si muovono abili tra le pieghe, i cavilli e le disfunzioni della burocrazia. Più lunghi sono i tempi di attesa per una autorizzazione maggiore è il rischio di imbattersi in stimati professionisti che offrono soluzioni alternative (e illegali) per ridurre i tempi. La fotografia della mazzetta italiana è impietosa: da sud a nord, non c’è regione, provincia, comune, immune dal desiderio di crearsi una scorciatoia pagando un dazio non dovuto. A scapito delle collettività, danneggiata enormemente dalle innumerevoli cricche locali, più o meno stabili nel tempo o che si aggregano di volta in volta per raggiungere lo scopo prefissato: procurarsi un ingiusto vantaggio personale, lucrando sulle risorse di tutti, giovani e meno giovani. I pirati in doppiopetto, i colletti bianchi della corruzione, considerano il territorio alla stregua di una preda da scarnificare. L’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone dal 2014 al 2018 ha esaminato 171 ordinanze di arresto in cui erano presenti reati contro la pubblica amministrazione. L’accusa di corruzione è presente quasi ovunque. E solo l’anno scorso l’ufficio diretto da Cantone ha proposto 19 commissariamenti di appalti pubblici, tutti macchiati da vicende di corruzione. I commissari sono figure utilissime che garantiscono il prosieguo dei lavori, evitando così di chiudere e licenziare. Allo stesso tempo, però, l’indagato non continua a trarre profitto.
Dalle Madonie alle Alpi. La Commissione europea nel 2017 ha svolto un’indagine sulla percezione della corruzione nei singoli paesi membri dell’Unione. Il risultato più significativo è che in Italia il 15 per cento delle imprese ha risposto di aver ricevuto richieste di favori o di mazzette per almeno uno dei sei servizi rivolto alle aziende: permesso di costruire e commerciali, cambio d’uso dei terreni, permessi ambientali, aiuti di Stato e fondi strutturali. La differenza con la Spagna è enorme. Qui solo l’1 per cento ha rivelato di aver subito richieste di questo tipo. In generale il dato italiano è superiore dieci punti la media dell’Unione Europea. L’ultimo rapporto 2018 di Confartigianato è l’amara istantanea di quanto già emerso nelle ricerche sia della Commissione europea sia di Transparency international: elaborando i dati Istat, l’ufficio studi dell’associazione degli artigiani è arrivata alla conclusione che il 7,9 per cento della famiglie italiane nel corso della vita ha ricevuto richieste di denaro, favori, regali o altro in cambio di servizi o agevolazioni. Segue a questa constatazione suffragata dai dati una classifica regionale. C’è il Lazio che svetta, con il 17,9 per cento, poi l’Abruzzo con l’11,5 per cento di famiglie che hanno subito i metodi della corruzione. A seguire Puglia, Basilicata, Molise e Campania, che vanno dall’11 al 8,9 per cento. Subito dopo si piazza la Liguria, 8,3 per cento. A pari merito due regioni che per ricchezza si trovano agli antipodi e che invece sono unite dalla corruzione: Calabria e Emilia Romagna. Il 7,2 per cento delle famiglie di entrambe ha dichiarato di aver avuto richieste illecite per soddisfare ciò che invece gli sarebbe spettato per diritto. In questa speciale classifica troviamo tutte le altre: anche le insospettabili Friuli-Venezia Giulia e Marche, il Piemonte, la Valle d’Aosta, la Provincia Autonoma di Bolzano e la Provincia Autonoma di Trento. Lombardia e Veneto (luoghi di mastodontici scandali su appalti Expo e Mose) si piazzano a metà classifica, dopo Calabria, Emilia Romagna.
Veglione coi carabinieri. E proprio dall’Emilia arriva uno degli ultimi casi del 2018. A Carpi, in provincia di Modena, era tutto pronto per salutare l’anno vecchio in grande stile. E invece l’ultimo Capodanno sarà ricordato a lungo da queste parti. Una storiaccia di corruzione, bandi cuciti su misura e favori sta scuotendo la giunta Pd della città. Nel mirino della procura di Modena una serie di affidamenti senza gara, tra i quali quello dato a una società che avrebbe dovuto organizzare la festa di San Silvestro. Il maggiore indiziato è il vicesindaco e assessore Pd Simone Morelli. Nell’assessorato che dirige si sono recati i carabinieri per raccogliere documenti utili alle indagini coordinate dal procuratore capo di Modena Lucia Musti. Intanto, nell’attesa di capire l’evoluzione dell’inchiesta (dove emergono anche lotte di potere all’interno del partito e legami con la potente diocesi locale) una cosa è certa: il festone di fine anno è stato annullato dalla giunta di cui è assessore Morelli. Irregolarità nell’assegnazione dell’appalto. A subire, dunque, sono sempre i cittadini. Come al solito il prezzo di vere o presunte corruzioni lo paga la collettività, costretta a rinunciare al suo giorno di festa. Le indagini ci diranno quanto è robusta l’ipotesi dei magistrati. Di certo, però, sono fatti come quelli di Carpi che hanno ricadute dirette sulla vita delle persone. Possono sembrare ipotesi di corruzione spicciola in confronto ai grandi appalti milionari, ma è corruzione quotidiana, i cui effetti si riverberano ogni giorno sui destini di famiglie e imprese.
Furbetti ad alta quota. Anche nell’insospettabile Valle d’Aosta non mancano i furbetti della mazzetta. A finire nei guai a novembre, per esempio, è stato il responsabile dell’ufficio tecnico del comune di Valtournenche. Lui, secondo gli investigatori, sfruttando la sua posizione ha favorito la cerchia di imprenditori amici in cambio di denaro. Chi in qualche modo si è opposto ha dovuto incassare le ritorsioni. Molto più clamore ha suscitato nella stessa regione il caso dell’ex governatore Augusto Rollandin, indagato nell’ambito di un giro di corruzione insieme a un manager e un imprenditore. Si attende la fine di febbraio, per capire se verrà o meno rinviato a giudizio. Rimanendo sulle Alpi ma spostandoci verso est arriviamo in Trentino. Nell’ultimo anno qui sono accaduti due fatti degni di nota. Entrambi riguardano settori cruciali per la vita delle persone: sanità e istruzione. Beni comuni usati come cosa privata. La procura di Trento, con la Guardia di finanza, a giugno ha messo sotto inchiesta 17 persone, tra professori e personale amministrativo dell’Università per appalti irregolari, incarichi esterni pilotati e doppi lavori. Pochi mesi prima della bufera sull’Ateneo è stata la sanità la pietra dello scandalo. Tecnici, professionisti, imprenditori, i protagonisti della vicenda. A vincere gli appalti erano le imprese più fortunate di altre che sapevano in anticipo le offerte dei concorrenti. Così i furbetti riuscivano a sbaragliare gli onesti. Un servizio di soffiate che aveva un suo prezzo. Anche in Alto Adige il fenomeno è tutt’altro che assente. Una ricerca dell’Astat (l’istituto provinciale di statistica) ha rivelato che l’anno scorso il 3,1 per cento delle famiglie è stato direttamente coinvolto in episodi corruttivi, mentre cinque altotesini su dieci conoscono qualcuno che ha ricevuto una richiesta illecita in almeno un settore tra sanità, istruzione, uffici pubblici, lavoro e assistenza. Del resto la Guardia di finanza sei mesi fa ha reso noti alcuni dati significativi dul Trentino-Alto Adige: «Negli ultimi 17 mesi sono stati recuperati 210 milioni di euro di imposte evase. Denunciate per reati contro la pubblica amministrazione 134 persone e sequestrati 3,4 milioni».
Furbetti con la fascia. Il corrotto a volte può indossare la fascia tricolore di un sindaco. Succede di continuo, ma le tante storie di malapolitica locale non escono dai confini provinciali. Eppure messe assieme tratteggiano un quadro in cui il municipio, simbolo più prossimo della democrazia, viene svenduto a interessi privati. Prendiamo il caso di Acireale. Roberto Barbagallo del Pd è stato sindaco finché la procura di Catania - il pm Fabio Regolo- lo ha indagato per corruzione elettorale. Si è dimesso e ora è sotto processo. È accusato di aver disposto dei controlli amministrativi nei confronti di due ambulanti con l’obiettivo metterli in difficoltà, così da spingerli a chiedere aiuto al sindaco, che in cambio ha chiesto i voti per un suo compagno di partito candidato alla scorse Regionali. A nord, invece, lo scorso anno ha patteggiato una pena a 4 anni Danilo Rivolta, l’ex sindaco Forza Italia di Lonate Pozzolo, provincia di Varese. Secondo l’accusa, Rivolta ha ricevuto denaro per cambiare la destinazione d’uso di alcuni terreni. Favori, insomma, a imprenditori amici tramite anche lo studio di architettura del fratello. Sempre in Lombardia, a Seregno, a finire nei guai per una storiaccia di corruzione e abuso d’ufficio sono stati l’ex primo cittadino Edoardo Mazza (Forza Italia) e il due volte sindaco e poi vice di Mazza Giacinto Mariani, leghista della prima ora, mr preferenze, devoto a Matteo Salvini. Di Mariani campeggia una foto su Facebook dell’11 novembre 2018 di fianco al ministro del Viminale, «il mio ministro preferito», ha scritto Mariani. Quella visita non gli ha portato particolarmente bene: 30 giorni dopo è stato rinviato a giudizio. La sua colpa sono le irregolarità commesse, sostengono i pm, su una pratica edilizia viziata dalla corruzione dell’allora sindaco di Forza Italia, Mazza. Da Seregno a Torre del Greco cambia poco. Se non i nomi. In questo caso nel paese vesuviano è finito a processo Ciro Borriello, sindaco fino all’inchiesta, con l’accusa di corruzione: le indagini hanno evidenziato un legame «malsano» tra il sindaco e alcuni imprenditori. Negli atti si parla di 20 mila euro al mese per Borriello. Saranno i giudici a giudicare le indagini della guardia di finanza e della procura. Intanto però Ciro Borriello per quell’inchiesta ha dovuto rinunciare al sogno di fare politica in grande nella Lega di Salvini. Già, l’ex amministratore di Torre del Greco aveva aderito al Carroccio sovranista, per tutti era diventato il primo sindaco leghista della Campania. Anche Borriello può vantare una foto ricordo con l’attuale ministro dell’Interno, Matteo Salvini. I casi, però, non finiscono qui. Si contano a centinaia in pochi anni. Da Brindisi, a Sperlonga, fino ai piccoli comuni dell’Abruzzo o del Molise. Storie sconosciute di democrazia infettata dal germe della mazzetta. Di diritti soppiantati dalla cultura del favore. È il caso delle numerose inchieste sparse nel Paese sull’assegnazione degli alloggi popolari. Veri e propri canali paralleli, dove non conta chi ne ha diritto ma chi può pagare di più. È accaduto a Roma, dove sono stati scoperti corrotti tra dipendenti del Comune e dell’Ater (ente che si occupa delle case popolari). E a Lecce, dove la procura sospetta che alcune assegnazioni siano state fatte in cambio di voti. Tra gli indagati, un altro leghista, il parlamentare Roberto Marti. A lui i pm contestano di aver concesso al fratello del boss l’uso di un bene confiscato.
Per un pugno di spiccioli. Le megatangenti miliardarie ai tempi della lira o quelle milionarie di oggi catalizzano l’attenzione mediatica. C’è tuttavia un mondo di sotto della corruzione in cui si muovono professionisti e imprenditori, dirigenti e impiegati, che si vendono per molto poco. Tra Roma e Torre del Greco, per esempio, è stato scoperto non molto tempo fa un giro di tangenti nel mondo delle assicurazioni. Avvocati, giudici di pace, periti, forze dell’ordine. Nel registro degli indagati sono finiti profili di ogni categoria. Gli inquirenti hanno parlato di “sistema oliato”, con i legali che dettavano le sentenze ai giudici di pace e stabilivano a chi dovesse essere riconosciuta la responsabilità di un incidente. È facile comprendere la portata del danno per chi, invece, era tagliato fuori dal giro. Durante le perquisizioni a casa del giudice sono stati ritrovati 30 mila euro, secondo gli investigatori sono le mazzette accumulate. Non proprio una cifra sbalorditiva. Del resto non ha fatto un grosso affare neppure l’impiegato dell’Agenzia delle Entrate di Cosenza che per accelerare una pratica di successione ha chiesto in cambio 300 euro. C’è poi chi, come un dirigente dell’ufficio tecnico di una Asl laziale, per garantire l’appalto a ditte amiche, ha chiesto in cambio non cash ma servizi di giardinaggio e traslochi da effettuare nelle sue abitazioni. E che dire delle sentenze comprate per 500 o mille euro in Puglia? Le ha scoperte l’anno scorso la Guardia di finanza a Foggia. Un prezzo alla portata di tutti. Nell’indagine sui verdetti a misura di corruttore è emerso un altro particolare: un commercialista indagato aveva a libro paga un funzionario tributario. Per una spesa mensile di soli 400 euro il professionista si era comprato una pedina cruciale nel meccanismo sanzionatorio. Illuminanti le parole del colonnello dell’epoca che ha condotto le indagini: «La funzione pubblica giudiziaria era stata trasformata in una sorta di giustizia privata». In poche parole il senso della corruzione quotidiana. Saccheggio perpetuo ai danni della collettività.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto dei saggi dedicati)
· I moralizzatori di sinistra anti Trump.
Università e raccomandati: lo scandalo dei "moralizzatori" anti-Trump, scrive il 14 Marzo 2019 Libero Quotidiano. I protagonisti incriminati per frode nello scandalo delle ammissioni fraudolente ad alcuni dei colleges più prestigiosi d’America sono stati descritti sui media come il “Who’s who” dell’America facoltosa e amorale. Vero. Ma ciò che non è stato sbattuto in prima pagina è la perfetta coincidenza tra l’essere disposti a truffare personalmente il sistema in segreto per un tornaconto privato, e il presentarsi in pubblico come modelli di superiore moralità politica, aperti sostenitori di Obama e dei Democratici, e fustigatori di Trump. Cinquanta individui sono stati incriminati, e alcuni arrestati. Trentatrè sono genitori ricchi che pagavano da decine di migliaia a 6 milione di dollari (per un totale di 25 milioni). Il resto sono funzionari degli esami esterni (SAT e ACT) che falsificavano i test di ammissione innalzando il voto ai candidati, e allenatori che costruivano curriculum sportivi fittizi per farli entrare come atleti di qualità che non avevano: tutto pur di dare a rampolli incapaci dei posti che venivano sottratti ad altri meritevoli, visto che nelle università USA di elite c’è il numero chiuso. Al centro della trama c’è il consulente William Singer, che ha creato una Fondazione che formalmente doveva fare servizi onesti di assistenza e che serviva invece come sua cassaforte privata con cui pagare i funzionari dei test e gli allenatori corrotti perchè facessero il lavoro sporco. Ad alimentare il “fondo”, che appariva “senza scopo di lucro”, erano i genitori che versavano le somme richieste per il “servizio” e che, vergogna nella vergogna, potevano a fine anno metterle nella dichiarazione dei redditi come contributi di beneficenza. Singer ha confessato tutto, e rischia 20 anni per la truffa. Nessuna università è stata coinvolta come parte della truffa, e nessuno studente è stato incriminato. Singer collabora da settembre con l’FBI e il Dipartimento di Giustizia nell’indagine chiamata “Operation Varsity Blues” e ha fatto per ora, pare, solo una parte dei nomi del suo giro. In totale avrebbe “aiutato” 800 ragazzi e ragazze, gran parte ignari della cospirazione dei genitori, a entrare nei colleges desiderati. Quelli resi noti finora sono Yale, Stanford, USC, Georgetown, Ucla (colleges che hanno un tasso ufficiale di “accettati” rispetto al numero di quelli che fanno domanda che va dal 5% di Stanford al 7% di Yale e al 16% delle altre 3). Poi ci sono pure scuole meno prestigiose, ma che erano nel network di Singer: Wake Forest (tasso di ammissione del 28%), Texas Austin (36%) e San Diego (50%). Se un genitore paga e truffa per far entrare il figlio in un college dove normalmente c’è il 50% di chance di entrare senza trucco vuol dire che ha proprio una bella stima di lui.
Ecco qualche nome della galleria dei ricchi & amorali, la quasi totalità di sinistra.
Felicity Huffman è una attrice molto famosa (protagonista della serie le “Mogli Disperate”) e una abituale finanziatrice dei DEM, da Obama alla senatrice DEM Kamala Harris. In un articolo di fine 2016 appare combattiva e virtuosa sotto il titolo “Ultima star che conferma la sua partecipazione alla Marcia delle Donne di Washington per protestare la Inaugurazione di Donald Trump, appena eletto”. “Andrò alla marcia con le mie due figlie Sophia Grace di 16 e Georgia Grace di 14”, disse a testa alta. “Sento che questa elezione è diventata una questione da femminista. Sento che il meglio di noi sia stato battuto”, aveva pontificato . Era proprio eticamente già matura per costruire un paese migliore, e per dare alle sue bambine l’educazione giusta. A qualunque costo.
Jane Buckingham, autrice di vari libri tra cui una “Guida per le ragazze moderne in situazioni scabrose”, è stata una collaboratrice di Cosmopolitan e un guru del marketing. Nei suoi articoli e testi, dice la pubblicità del libro citato, “dispensa sagge soluzioni per le miriadi di piccole problematiche che angustiano la vita con calore, grande umorismo e saggezza impeccabile”. Nello scambio con Singer, finito negli atti processuali, ha detto, non senza ironia: “So che è una pazzia… ma io ho bisogno che mio figlio entri alla USC…. E poi ho bisogno che tu trovi la cura per il cancro e che tu faccia la pace in medio oriente”.
Gordon Caplan, co-chairman dello studio legale Willkie Farr & Gallagher LLP, ha donato a Hillary Clinton e alla senatrice DEM Kirsten Gillibrand.
Agustin Huneeus è un imprenditore vinicolo californiano: ha dato 33mila dollari a Hillary nel 2016, 150mila dollari al Comitato Nazionale Democratico e 66mila a Nancy Pelosi.
Robert Flaxman, padrone della Crown Realty and Development, ha donato alla campagna di Hillary nel 2016. Essendo un immobiliarista è un donatore seriale, e ha contribuito negli anni sia ai DEM sia al GOP (come ha fatto Trump in carriera, peraltro).
Gordon Ernst, allenatore di tennis alla Georgetown University quando falsificò le credenziali di alcuni candidati senza capacità, è tra le persone incriminate. Nella capitale, diciamo che “frequentava bene”. Infatti, è stato il trainer privato di tennis di Michelle Obama e della figlia Malia. “Michelle ha un gran rovescio”, disse Ernst al New York Times. Tra il 2012 e il 2018 ha accettato oltre 2,7 milioni in mazzette in cambio dell’inserimento nel team femminile di quel college di almeno 12 studentesse, comprese “alcune che non giocavano a livello competitivo”, e quindi non avevano titolo. Malia è ora ad Harvard, e sicuramente nessuno può pensare che abbia avuto qualche implicazione nello scandalo. Con quel cognome non ne aveva certo bisogno. Ciò che si può dire su Ernst è che la familiarità e la frequentazione della famiglia Obama non gli ha elevato il carattere etico.
Tangenti per far entrare i figli ai college: attrici e top manager coinvolti nello scandalo Usa. Pubblicato martedì, 12 marzo 2019 da Corriere.it. Ci sono le attrici Felicity Huffman (la Bree di «Casalinghe Disperate») e Lori Loughlin (protagonista della serie tv «Summerland»), oltre a vip e amministratori delegati tra le decine di persone coinvolte nello scandalo delle ammissioni ai college che scuote il mondo delle accademie Usa. Secondo il procuratore generale di Boston i sospettati avrebbero pagato ciascuno tangenti fino a sei milioni di dollari per garantire ai loro figli l’accesso a università prestigiose come Yale, Georgetown, Stanford e Usc (University of Southern California). Le autorità federali hanno parlato di un vero e proprio racket e di un giro d’affari da 25 milioni di dollari. Tra gli arrestati, anche allenatori e amministratori degli atenei, che avrebbero accettato di far fittiziamente figurare gli studenti come atleti (che notoriamente hanno un accesso privilegiato) o di falsificare i risultati dei test di ammissione. Secondo i funzionari, le bustarelle andavano da poche migliaia di dollari fino a sei milioni e venivano versate a un mediatore californiano - William Rick Singer, 58 anni - che attraverso la sua società College & Career Network si occupava di «aggiustare» le application e le graduatorie. Per quanto riguarda Felicity Huffman, secondo i media americani gli inquirenti sarebbero in possesso di registrazioni che proverebbero che l’attrice e il marito (l’attore William H. Macy) avrebbero corrisposto una «regalia» di 15mila dollari per spingere la candidatura della figlia maggiore; avrebbero poi avviato trattative anche per la secondogenita, ma senza portare a termine il piano. Lori Loughlin e il marito, un noto stilista, avrebbero invece accettato di pagare 500mila dollari per far inserire le due figlie in una squadra sportiva della Usc e così facilitarne l’ammissione al college, senza che poi avessero mai partecipato ad alcuna attività specifica.
Università Usa nella bufera: 50 incriminati per scandalo tangenti milionarie nelle ammissioni, scrive Marco Valsania il 12 marzo 2019 su Il Sole 24 ore. Un vasto scandalo di corruzione scuote nel profondo il mondo universitario americano, con ramificazioni anche nello sport, nello spettacolo e nel mondo aziendale americano. Procuratori federali hanno incriminato decine di persone, quasi 50 in tutto tra le quali allenatori di prestigiosi centri accademici, attori di Hollywood e leader di business, in una vasta truffa che vedeva di fatto la compravendita dell’ammissione degli studenti in cambio di ingenti bustarelle e tangenti, per un totale di svariati milioni di dollari. Gli studenti venivano accettati quali “atleti” sotto mentite spoglie, cioè senza avere alcun reale merito sportivo o accademico. I nomi delle università nella bufera sono da shock: ci sono Yale, Stanford e la University of Southern California. Vale a dire la “crema” dell’accademia. Di rilevo anche i nomi degli attori coinvolti: tra questi Felicity Huffman e Lori Loughlin (entrambe arrestate), che avrebbero pagato le tangenti per ottenere in cambio l’ammissione dei propri figli. Nel mirino anche un noto avvocato e uno stilista di moda. Allenatori e dipendenti delle università in questione hanno intascato milioni di dollari in cambio della falsificazione del sistema di ammissioni. A far esplodere lo scandalo è stata la procura federale di Boston. Il suo responsabile Andrew Lelling ha definito la vicenda come il più grave e ampio scandalo nell’ammissione universitaria mai indagato e perseguito dal Dipartimento della Giustizia. Al cuore del caso è una società privata di gestione delle procedure e pratiche di ammissione con sede a Newport Beach in California. Genitori abbienti pagavano forti somme affinchè i loro “pargoli” potessero truccare i test di ammissione e inventare credenziali sportive. Il proprietario dell'azienda, William Rick Singer, è stato incriminato di una lunga serie di reati, da associazione a delinquere a riciclaggio di denaro, da ostruzione della giustizia a truffa ai danni degli Stati Uniti. L'impresa era nata nel 2007 e si chiama “The Edge College and Career Network”. Con un soprannome, però, forse rivelatore: “The Key”, la Chiave. Di ingresso nelle università, si intendeva, ma questa volta forse in prigione. Il sistema universitario americano è oltretutto già attraversato da forti polemiche e crisi di credibilità che lo vedono accusato di perpetuare e rafforzare un clima sociale di elitismo e discriminazione, rischiando di minare alla radice la vantata meritocrazia americana. In discussione sono aspetti quali i costi sempre più elevati delle rette universitarie - oltre 50-60.000 dollari l’anno per gli istituti privati di maggior prestigio, parte della cosiddetta Ivy League e non solo. Sotto accusa è anche il fatto che gli studenti di fasce sociali meno abbienti, anche quando ammessi, spesso si trovano poi oppressi da impossibili ammontari di debito. Le università americane, uniche al mondo, mantengono oltretutto in vita una pratica di cosiddetta “legacy”, che favorisce apertamente i figli di chi già ha frequentato quelle istituzioni, e che rimane in vigore nonostante sia stata denunciata da più studi e libri.
Mazzette per l’ammissione dei figli ai college Usa: la lista di famiglie e allenatori accusati. Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 da Corriere.it. La procura di Boston ha incriminato una cinquantina di persone per aver pagato mazzette di denaro in cambio dell’ammissione dei figli in prestigiosi college come Yale, Stanford e la University of Southern California. La lista degli imputati comprende 33 genitori, 13 tra coach e dirigenti scolastici e un imprenditore californiano che avrebbe fatto da tramite incassando 25 milioni di dollari dal 2011. Si tratta William Rick Singer fondatore di «The Edge College and Career Network», una società di consulenza per l’ammissione ai college fondata nel 2007 e con sede a Newport Beach, in California. Singer è anche l’amministratore delegato della Key Worldwide Foundation, una ong che aiutava gli studenti a superare i test con metodi non leciti. Insieme a Singer lavorano Steven Masera e Mikaela Sanford. I genitori sono accusati di aver pagato mazzette che variavano tra i 100 mila dollari e i 6,5 milioni di dollari per assicurare ai pargoli un posto in un’università prestigiosa.
Tra questi Gamal Abdelaziz, manager di un resort.
Gregory e Marcia Abbott, lui è il fondatore e il presidente di una compagnia di packaging di cibo e bevande.
Diana e Todd Blake, lei è l’amministratrice delegata di una compagnia di merchandising e lui è investitore e imprenditore.
Jane Buckingham, a capo di una compagnia di marketing.
Gordon Caplan, avvocato e co-presidente dello studio legale internazionale Willkie Farr&Gallagher.
I-Hsin «Joey» Chen, lavora nell’industria navale.
Amy and Gregory Colburn. lui è un medico.
Robert Flaxman, a capo di una compagnia immobiliare basata a Los Angeles.
Mossimo Giannulli, celebre designer di moda, e Lori Loughlin, che ha recitato nella nota serie tv Full House (Gli amici di papà) ed è stata la protagonista di Summerland, telefilm statunitense arrivato anche in Italia nell’estate del 2005.
Elizabeth e Manuel Henriquez. lui è il fondatore e il presidente di una compagnia finanziaria.
Douglas Hodge, ex amministratore delegato di Pimco.
Felicity Huffman, attrice, resa famosa dalla serie tv «Casalinghe disperate», dove interpretava Lynette Scavo.
Agustin Huneeus, possessore delle vigne di Napa, Calif.
Bruce and Davina Isackson. Bruce è il presidente di un’azienda immobiliare ed edilizia.
Michelle Janavs, ex dirigente di un’azienda alimentare.
Elisabeth Kimmel, imprenditrice a capo di una compagnia editoriale.
Marjorie Klapper, co-proprietaria di un’azienda di gioielli.
Toby MacFarlane, un ex dirigente di una compagnia di assicurazioni.
William E. McGlashan Jr., dirigente alla TPG, una delle più grandi equity firm.
Marci Palatella, amministratore delegato di un’azienda che distribuisce liquori.
Peter Jan “P.J.” Sartorio, imprenditore.
Stephen Semprevivo, dirigente in un’azienda di outsourcing.
David Sidoo.
Devin Sloane, fondatore e amministatore delegato di una compagnia che si occupa di acqua potabile.
John Wilson, fondatore e amministratore delegato di un’azienda di costruzioni.
Homayoun Zadeh, professore associato di odontoiatria alla University of Southern California.
Robert Zangrillo, fondatore di un’agenzia immobiliare e di costruzioni basata a Miami.
I soldi venivano usati per corrompere i coach, in particolare di calcio, tennis e pallavolo, e indurli a reclutare i rampolli di famiglie ricche come atleti anche se non avevano capacità sportive: una strada che, negli Stati Uniti, aumenta le possibilità di entrare in un college. Per questo venivano create false storie di successo, manipolando foto di competizioni e falsificando le partecipazioni a vari programmi sportivi.
Ecco la lista degli allenatori accusati di aver preso mazzette:
Michael Center, allenatore di tennis alla University of Texas di Austin.
Gordon Ernst, ex allenatore di tennis a Georgetown.
William Ferguson, allenatore della squadra di pallavolo femminile di Wake Forest.
Donna Heinel, direttrice associata di atletica alla University of Southern California.
Laura Janke, ex vice allenatrice della squadra di calcio femminile della University of Southern California.
Ali Khosroshahin, ex allenatore della squadra di calcio femminile della University of Southern California.
Rudolph Meredith, ex allenatore della squadra di calcio femminile a Yale.
Jorge Salcedo, ex capo allenatore della squadra di calcio maschile alla University of California, a Los Angeles.
John Vandemoer, ex allenatore di vela Stanford.
Jovan Vavic, ex allenatore di polo alla University of Southern California.
Complici della grande truffa anche istruttori privati e esaminatori.
Igor Dvorskiy, esaminatore del College Board e A.C.T., è accusato di aver preso tangenti per facilitare il passaggio di alcune persone al West Hollywood Test Center Niki Williams, insegnante alla high school di Houston esaminatore del College Boarde A.C.T.
Mark Riddell, sorvegliante durante i test è accusato di aver aiutato gli studenti per far loro ottenere un voto migliore.
Martin Fox, presidente dell’accademia privata di tennis a Houston.
COME SI DICE "FAMILISMO AMORALE" IN CINESE? Giuseppe Sarcina per il “Corriere della sera” il 3 maggio 2019. Nella lista dei «clienti» del faccendiere William Singer c' è anche Tao Zhao, co-fondatore e presidente della Shandong Buchang, gruppo farmaceutico con sede nel Nord della Cina e quotato alla Borsa di Shanghai. L' imprenditore cinese avrebbe versato 6,5 milioni di dollari a Singer per ottenere l' ammissione della figlia Yusi Zhao nell' Università di Stanford, in California. È l' ultimo sviluppo dello «scandalo degli atenei». La procura di Boston, titolare del dossier, ha già ordinato l' arresto di 33 persone, tutti personaggi facoltosi, manager in vista o celebrità come le attrici Lori Loughlin e Felicity Huffman. Singer, 59 anni, l' architetto dello schema criminale, ha confessato tutto. Operava con una società di preparazione ai test universitari, «The Key» e con una fondazione non profit, «The Key Worldwide Foundation». Il sistema era a suo modo flessibile. Singer poteva falsificare i risultati delle prove di ammissione, gonfiare il curriculum degli studenti o, alla vecchia maniera, distribuire mazzette agli allenatori dei diversi istituti, spacciando per atleti formidabili anche i giovani meno dotati nelle discipline sportive. Alla fine del 2016, scrivono il Los Angeles Times e lo Stanford Daily , il tycoon Tao Zhao sta cercando di iscrivere la figlia Yusi in uno dei college più prestigiosi degli Usa. Chiede un consiglio a Michael Wu, consulente finanziario della filiale di Morgan Stanley a Los Angeles. Wu risponde segnalando lo studio «The Key» di William «Rick» Singer che figurava tra i contatti della banca dal 2015. Parte l' operazione. «Rick» allunga una tangente di 500 mila dollari al coach della squadra di vela a Stanford, John Vandemoer ed ecco che, nel marzo del 2017, Yusi «Molly» Zhao viene ammessa nell' istituto, come velista prodigio, anche se dagli accertamenti non risulta tutta questa passione per le imbarcazioni. L' intervento della magistratura di Boston ha disintegrato il meccanismo: Morgan Stanley ha licenziato Wu, l'Università di Stanford ha cacciato l'allenatore Vandemoer e ha fatto sapere di non aver incassato un dollaro dei 6,5 milioni versati dagli Zhao. E Yusi? Aveva iniziato a frequentare i corsi sull' Asia Orientale, ma nel marzo di quest' anno avrebbe lasciato il campus californiano. Anche un' altra famiglia cinese, secondo il Wall Street Journal , avrebbe consegnato 1,5 milioni di dollari a Singer per spingere la figlia ventunenne Sherry Guo nelle aule di Yale. Colpisce il doppio standard del broker: di solito la sua tariffa, a obiettivo raggiunto, arrivava fino a 250 mila dollari. Ma per l' élite cinese d' esportazione si passava ai milioni. Forse perché i controlli delle Università sono diventati più severi con le domande in arrivo dalla Cina. In ogni caso i posti a disposizione sono contesi in modo feroce dall' establishment americano. Qualche numero: nelle otto Università della Ivy League, a cominciare dalle tre stelle Harvard, Yale e Princeton, il 70% degli studenti proviene da quella che i sociologi chiamano «upper class», il 20% dalla «middle class» e solo il 10% dalla «bottom class». Chi esce da qui entra direttamente nella classe dirigente degli Stati Uniti e non solo.
· Test di medicina: ecco le ricerche Google degli studenti furbetti!
Test di medicina: ecco le ricerche Google degli studenti furbetti! Le Iene l'11 ottobre 2019. Fabio Agnello ci ha raccontato tutti i trucchi degli studenti durante i cento minuti del temutissimo test di ingresso a Medicina. Ecco il report con tutti i dettagli sulle ricerche effettuate su Google durante la prova e, in maniera parecchio sospetta, anche prima. “Ho visto dei ragazzi che usavano il telefono, altri avevano lo smartwatch”. Nella puntata di giovedì 10 ottobre vi abbiamo raccontato dei furbetti del test di medicina. Fabio Agnello, nel servizio che vedete qui sopra, ci ha raccontato tutti i trucchi adottati dagli studenti che affrontano la temutissima prova d’ingresso alla facoltà di Medicina, dai micro auricolari allo smartwatch fino al classico cellulare. Tutti apparecchi naturalmente vietati durante il test. E che qualcosa durante i cento minuti del test non vada proprio secondo le regole come ci ha spiegato Agnello, lo dimostrerebbero anche le ricerche effettuate su Google. In relazione al test di medicina dell’anno 2018/2019, che si è svolto il 4 settembre 2018 dalle 11 alle 12:40, gli avvocati Francesco Leone, esperto in ricorsi universitari che abbiamo intervistato nel nostro servizio, e Simonia Fell hanno commissionato a Roberto serra, esperto di motori di ricerca Seo, un report sulle parole più cercate su Google proprio durante i 100 minuti in cui si svolgeva il test. Dal report, che potete scaricare integralmente cliccando qui, emerge proprio come alcune parole chiave del test siano finite tra quelle più cercate su Google proprio nei 100 minuti in cui si svolgeva il test. Parliamo di termini come “glucogenesi”, “nanismo acondroplastico”, “enzima”, “frattale”, come dire di solito non cercatissime. Il dato forse più interessante che emerge dal report è che tra le ricerche effettuate in quei 100 minuti c’è anche quella relativa a una serie numerica di 5 numeri, connessa al test. Quante probabilità ci sono che persone che non stanno svolgendo il test cerchino proprio quella serie numerica? “Le probabilità sono 1 su 622 milioni”, commenta l’esperto Roberto Serra. “Era più facile vincere il superenalotto che cercare casualmente quella serie numerica”. E questa specifica ricerca, come evidenzia il report, è un esempio lampante: “Durante l’intera giornata è stato rilevato un interesse di ricerca, un picco nelle ricerche Google, alle 11.21, con evidenti picchi”. Ovvero, da quando il test è iniziato. Un esempio utile è inoltre quello sul termine “Frattale”. Il report rileva che la prima ricerca del termine “risale alle ore 10:28 (quindi prima dell’inizio del test, ndr) ma procede per l’intero svolgimento del test per un totale di 488 momenti di interesse di ricerca nei quali Google registra un’alta frequenza di ricerca”. E ci sarebbe un altro indizio del fatto che a cercare questo termine fossero persone legate al test: i termini che Google ha indicato come correlati a “frattale” erano altri termini chiave del test. “Questa grande mole di ricerche ha permesso alle reti neurali di Google di individuare i related topics e le Related queries. Gli argomenti correlati a ‘Frattale’ sono: costituzione (argomento trattato nella domanda successiva); Gluconeogenesi (argomento affrontato in un’altra domanda); Enzima. Le domande correlate sono state: "frattale significato", cioè esattamente la risposta alla domanda e "Enzima di restituzione", argomento trattato nella domanda numero 34”. Nelle conclusioni del report si legge infine che “le statistiche di Google riportano una evidente fuga di informazioni durante le ore 11 e le ore 12:40”. Per escludere dalle ricerche tutti gli studenti che hanno chiesto di uscire 30 minuti prima della fine del test (prevista per le 12:40), il report sottolinea che “la maggioranza delle ricerche avviene durante le ore 11:00 e le ore 12:10”. Inoltre, secondo Roberto Serra, esperto e autore del report, “dati alla mano una considerevole percentuale degli ammessi, avendo di fatto effettuato ricerche pertinenti tramite Google, ha avuto un vantaggio sul restante dei partecipanti, tale assunto è dunque sufficiente per inficiare il test di ammissione”. Il report si riferiva al test del settembre 2018, ma come ci ha raccontato Fabio Agnello quest’anno le cose non sembrano essere andate molto diversamente! “Non è cambiato niente”, ci ha detto l’avvocato Francesco Leone, esperto di ricorsi universitari. “Anche quest’anno le parole chiave del test sono state cercate su Google durante i cento minuti della prova”. Insomma, è proprio il caso di dire che chi di Google ferisce di Google perisce!
· Le lungaggini dei concorsi pubblici.
Paghe in lire e lungaggini. Il caos dei concorsi statali. Il ministro Bongiorno denuncia: «Due anni per le correzioni, ora le faranno i pensionati». Lodovica Bulian, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. Due anni e mezzo per un concorso. Con le prove che ancora vengono corrette integralmente a mano. Ma non è il solo inghippo di una macchina ferma a vent'anni fa. Le poche persone che correggono decine di migliaia di test, per farlo sono pagate in lire. Giura che è tutto vero, Giulia Bongiorno, ministro della pubblica amministrazione in un'intervista a Tpi in cui racconta ciò che si è trovata di fronte una volta insediata. Altro che pubblica amministrazione digitale. «Appena sono entrata in carica mi sono trovata di fronte al paradosso di concorsi che non finivano mai. Abbiamo ribaltato il meccanismo dei controlli, abbiamo sveltito le procedure, ma quando mi sono messa a studiare la catena per capire dove si perdeva tempo ho scoperto un paradosso incredibile». Racconta la titolare della pa che ci sono interi concorsoni dove le prove, i test, «sono ancora corrette integralmente a mano. I risultati, in questo modo arrivavano anche dopo due anni e mezzo. Non solo - dice il ministro - Spesso buona parte del ritardo accumulato nella proclamazione dei vincitori è dovuto al fatto che mancano le persone per correggere materialmente i test». Una carenza dovuta al fatto che molti correttori rinunciano e non danno la loro disponibilità per via di un gettone di presenza considerato misero. Ma a quanto ammonta? Ed ecco la sorpresa: «Ho chiesto ai funzionari del ministero a quanto ammontasse esattamente - riferisce Bongiorno - e ho scoperto che, per quanto legato a tante variabili intuibili, come il numero delle prove da verificare, il costo base era ancora stimato in lire!». Quanto? 500mila lire. Già. Scoperte al limite del surreale nei palazzi dove si governa la pubblica amministrazione italiana. Il ministro annuncia rimedi non più rinviabili: «Il gettone che si percepisce per un concorso con molti candidati da scrutinare adesso passa da 500mila lire a 5.000 euro. Non solo». Per sveltire la pachidermica macchina dei concorsi della Pa i rinforzi saranno attinti direttamente tra i pensionati italiani: «Abbiamo rimosso un vincolo che impediva ai pensionati di fare questo lavoro. I pensionati hanno più tempo libero, molto rigore, sono perfetti per questo compito, perché dovevano essere esclusi in linea di principio? Ho detto Sono pensionati, non sono mica morti!. Così avremo più mani e più occhi e andremo più veloci. In attesa di digitalizzare tutto». Le cure della Bongiorno, ammette lo stesso ministro, faranno lievitare i costi «del singolo concorso. Ma Tria non è tipo che risparmia su questi costi, non mi ha fatto problemi perché condivide questo principio. Come si calcola quanto costa alla collettività e ai singoli il tempo di chi deve attendere due anni per capire se ha vinto no? Per me il concorso veloce è un simbolo. L'avevo promesso. Un modo per dire che tutta la macchina dello Stato deve ricominciare a correre». Appena in tempo per i nuovi concorsi che con quota 100, giura il ministro, produrranno un ricambio «uno a uno» negli apparati della pubblica amministrazione. Intanto una nuova direttiva firmata dal ministro della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, e dal sottosegretario con delega alle Pari Opportunità, Vincenzo Spadafora, invita a «utilizzare in tutti i documenti di lavoro (relazioni, circolari, decreti, regolamenti, ecc.) termini non discriminatori»: al posto di «uomini», meglio usare «persone».
· La beffa del concorso per anestesisti annullato perché «i quiz erano sbagliati».
La beffa del concorso per anestesisti annullato perché «i quiz erano sbagliati». Pubblicato martedì, 16 luglio 2019 da Valentina Santarpia su Corriere.it. Domande con risposte inesatte, o incongruenti. Sembra essere questa la motivazione che ha spinto la commissione d’esame ad annullare la prova preselettiva del concorso pubblico per anestesisti bandito dall’università di Tor Vergata. Ma naturalmente si tratta solo di una prima ipotesi: quello che è certo è che l’attesissimo concorso per rianimatori è saltato: tutto da rifare, hanno sentenziato i commissari di fronte alla platea incredula dei 130 vincitori della prova preselettiva, che lunedì scorso hanno aspettato invano tre ore nell’aula magna di Economia che iniziasse la seconda prova. Ma andiamo con ordine. Venerdì scorso si svolge la prova preselettiva del più grande concorso per rianimatori degli ultimi dieci anni a Roma, a cui potevano partecipare anche gli specializzandi dell’ultimo anno. Si presentano in circa 500 per 59 posti, di cui molti sono destinati a mobilità e trasferimenti, per cui di fatto quelli disponibili sono meno di 20. Ma è un’occasione unica per chi vuole provare anche solo a inserirsi in una graduatoria pubblica e sognare di lavorare in ospedale. Sono quattro le prove previste, e la prima è una sorta di scrematura. «Già durante la prova furono fatte alcune osservazioni alla commissione inerenti la dubbia esattezza di alcune delle possibili risposte a scelta multipla», scrive uno specializzato che preferisce rimanere anonimo. «Al termine della prova il confronto è diventato sempre più acceso come sempre più dubbi emergevano su alcune delle domande somministrate». Nel pomeriggio vengono pubblicati i risultati: sono solo 130 quelli ammessi alla seconda prova scritta. Che avrebbe dovuto svolgersi ieri mattina: appuntamento alle 8.30. Ma «passano i minuti, le mezz’ore, le ore, ma della commissione non vi è traccia, arriverà solo intorno alle 11 per annunciare che la preselezione è stata annullata, la seconda non si farà ed è tutto da rifare per evitare una pioggia di ricorsi». Lo sgomento è inevitabile: «E’ normale in un concorso di tale caratura somministrare un compito con domande a cui non è possibile dare una risposta tra quelle presenti? E’ normale che le domande con risposte inesatte o errate siano addirittura più di una? E’ normale tenere 130 professionisti, alcuni con anni di esperienza alle spalle, senza nemmeno accennare al perché la prova non comincia? E’ normale influenzare turni, ferie e impegni familiari di centinaia di medici non garantendo lo svolgimento ineccepibile delle prove?», si chiede l’anestesista scoraggiato. Ovviamente ora ci sarà un’indagine interna per capire cosa è successo e perché. L’università non si è ancora pronunciata (sul sito c’è ancora il calendario delle prove) ma il pasticcio sembra evidente.
· Il Futuro a Numero Chiuso.
Il Futuro a Numero Chiuso. Numero chiuso compie vent’anni la legge che lo ha istituito. Pubblicato martedì, 28 maggio 2019 da Paolo Fallai su Corriere.it. L’introduzione del «numero chiuso» in alcune facoltà universitarie in Italia, compie vent’anni. E’ stato introdotto per la prima volta con la Legge 264 del 1999 del Ministro Ortensio Zecchino, legittimata della sentenza numero 383/98 della Corte Costituzionale che richiedeva la valutazione delle modalità di accesso al mondo universitario. La facoltà di Medicina è una delle più antiche, è presente per esempio nell’ordinamento della Sapienza fin dalla fondazione da parte di papa Bonifacio VIII nel 1303. La prima donna a laurearsi in medicina in Italia è stata Maria Montessori, nel 1896. Fino al 1923 potevano accedere alle facoltà di Medicina soltanto coloro che avevano frequentato il liceo classico, dopo quella data furono ammessi anche quelli dello scientifico. Solo nel 1969, l’ingresso alla facoltà venne garantito a tutti i possessori di un diploma di maturità. La prima introduzione di un «numero chiuso» a Medicina risale al 1997, quando lo stesso ministro Zecchino lo istituì con un decreto ministeriale. Ma già alla fine degli anni Ottanta, molti atenei iniziarono a limitare l’accesso ad alcune facoltà, mediante decreto rettorale. Decisioni fortemente contestate con numerosi ricorsi per incostituzionalità (in particolare con riferimenti agli articoli 3, 33, 34 e 97), accolti dai Tribunali Amministrativi Regionali. La sentenza n. 383 del 27 novembre del 1998 della Corte Costituzionale, giudice relatore Gustavo Zagrebelsky, stabilì tra l’altro che «L’accesso ai corsi universitari è materia di legge». La disposizione di legge sottoposta al controllo di costituzionalità attribuisce al Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica il potere di disciplinare con proprio atto l’accesso alle scuole di specializzazione e ai corsi universitari, «anche a quelli per i quali l’atto stesso preveda una limitazione nelle iscrizioni». Ma la Corte sottolineava che «l’intera materia necessita di un’organica sistemazione legislativa, finora sempre mancata: una sistemazione chiara che, da un lato, prevenga l’incertezza presso i potenziali iscritti interessati e il contenzioso che ne può derivare e nella quale, dall’altro, trovino posto tutti gli elementi che, secondo la Costituzione, devono concorrere a formare l’ordinamento universitario». Così nel 1999, sempre con la firma del Ministro Zecchino, fu promulgata la legge n. 264/1999 intitolata «Norme in materia di accessi ai corsi universitari», composta da cinque articoli e che definì non solo la programmazione a livello nazionale per Medicina e Chirurgia, Medicina Veterinaria, Odontoiatria e protesi dentaria e Architettura, ma anche la possibilità di programmare il numero degli iscritti a livello locale valutando attentamente alcuni parametri quali posti nelle aule, attrezzature e laboratori scientifici, personale docente e tecnico.
· Scandalo doppio ai concorsi Inps.
SCANDALO DOPPIO AI CONCORSI INPS. Dagonews il 22 giugno 2019. Scandalo doppio ai concorsi INPS. I tecnici dell'era Boeri, oggi sotto la gestione Tridico, colpiscono ancora. Qualche mese fa uscivano due avvisi pubblici INPS con i quali Tridico tentava di risolvere temporaneamente l'annoso problema delle commissioni di invalidità civile, passaggio utile alla risoluzione definitiva della condizione critica; venivano perciò bandite 1404 posizioni aperte per medici e 407 per operatori sociali. L’ultimo termine utile per inviare la domanda di partecipazione alle selezioni era il 2 maggio 2019, termine perentorio entro il quale inoltrare il proprio curriculum ed esprimere le proprie preferenze. La graduatoria era prevista per il 20 giugno, con presa di servizio al 1 luglio. E qui casca l’asino? No Il mammut! La procedura on line il 18 giugno 2019 risultava riaperta e funzionante e con un nuovo termine di presentazione domanda: il 2 luglio 2019. Si è mai visto un avviso pubblico arbitrariamente riaperto senza alcun avviso a chi aveva già inoltrato la domanda? Il direttore generale dell'Inps si giustifica parlando di “mero errore generato dal sistema informatico” in due righe di comunicato stampa. Benissimo, tutto chiaro. Ma è possibile che lo stesso “mero errore del sistema” si verifichi nello stesso modo e allo stesso momento per due avvisi di selezione pubblica diversi? È possibile che una cosa così grave possa essere risolta con questa stitica spiegazione e che la locuzione “mero errore” possa essere sufficiente a rassicurare più di 10mila professionisti? Una cosa è certa: se uno dei pretendenti, per caso, non si fosse accorto di questa (chiamiamola) anomalia, l’INPS avrebbe pubblicato le sue graduatorie il 24 giugno, aggiornate a che data? Si avrà mai il nome delle ennesime manine, quelle manine in grado di dar luogo a ''meri errori'' contemporanei, identici, ripetuti? Non è che forse il medico X, amico di Y, cugino di Z, voleva cambiare la destinazione prescelta, correggere Roma per Latina, Firenze per Milano... del resto in quella città ormai lo sa, ci sono meno domande rispetto a quella che aveva indicato nella domanda precedente... cambiare destinazione vorrebbe dire una meta sicura. Ma sicuramente non sarà stato così.
· Il Concorso in Polizia e gli aspiranti poliziotti.
Il caso. «Noi, aspiranti poliziotti. Vincitori del concorso, restiamo fuori per colpa della Lega». La nipote dell'agente uccisa nella strage di via D’Amelio. Il volontario dei vigili del fuoco. E molti altri, quasi tutti laureati. Hanno passato con ottimi voti il primo esame per diventare agenti ma sono stati fermati in corsa da un emendamento voluto dalla Lega che ha abbassato l’età. E ora danno battaglia al Tar. Fabio Salamida l'11 dicembre 2019 su L'Espresso. Emanuela sogna da sempre la divisa di agente della polizia, quell’uniforme per cui sua zia, di cui porta lo stesso nome, ha perso la vita mentre prestava servizio a via D’Amelio il 19 luglio 1992. Emanuela è stata a un passo dall’indossarla, quella divisa, perché è tra i 455 “idonei con riserva” che hanno partecipato al concorso per assumere 1.148 allievi agenti della polizia di Stato, indetto a maggio 2017 e aperto a candidati sia civili che militari. Chiamata mai arrivata: un emendamento fortemente voluto dalla Lega ha cambiato i requisiti richiesti per accedere al corso di formazione e ha messo fuori dalla graduatoria Emanuela e tante altre ragazze e ragazzi che come lei avevano superato le selezioni con ottimi punteggi. Tutti loro attendono con fiducia la sentenza definitiva del Tar del Lazio, che però arriverà solo nell’aprile del prossimo anno. Nel frattempo, hanno creato una chat su whatsapp dove si scambiano notizie e informazioni: una piccola e agguerritissima comunità, intenzionata ad andare fino in fondo. La nipote della prima donna agente di scorta nella storia della polizia, medaglia d’oro al valor civile per aver dato la vita a 24 anni mentre proteggeva il giudice Paolo Borsellino, ha oggi 26 anni: troppi secondo i nuovi requisiti richiesti per vestire la divisa della zia-eroe: «Mi sento vittima di un’ingiustizia che va a ledere la persona nella sua integrità. Non voglio pensare che in uno stato di diritto il legislatore possa cambiare le norme in corso d’opera. Ho iniziato a partecipare alle commemorazioni in onore di mia zia sin da piccola; è da allora che vedo la polizia come una grande famiglia di cui voglio entrare a far parte. Quello che è successo ha fatto crescere in me la voglia di combattere in nome della giustizia». Emanuela è mamma di una bambina di 4 anni e sa bene che l’uniforme è anche un rischio, che talvolta indossarla può far paura: «L’importante è saper gestire la paura, non farsene condizionare. Per me questo è il coraggio, altrimenti sarebbe incoscienza». Emanuela vuole ripercorrere i passi di sua zia e quelli di suo padre, anche lui poliziotto. E sa già che quella divisa, addosso a lei, sarà un po’ più pesante. Antonio Fasci fa l’istruttore di karate a Caserta; 27 anni, ha una laurea in giurisprudenza: «La passione per questa divisa? Nasce molti anni fa, quando ogni mattina al mio risveglio vedevo mio padre abbottonare la giacca di ordinanza per andare al lavoro. La mia è una vocazione, una spinta inevitabile. E vedermi escluso dalla graduatoria per una mera questione di età mi provoca tanta amarezza». Il padre è commissario di polizia. Ha una causa aperta con il Ministero per un blocco degli scatti di carriera, ma quando vede il figlio perdersi d’animo lo esorta a non mollare: «Mi sostiene molto nei momenti difficili», racconta Antonio, «non nascondo che è dura restare in questo limbo di promesse e di chiacchiere. Dalla politica arrivano rassicurazioni (a riguardo, è stato depositato un emendamento al Senato, ndr), ma al momento è tutto un “forse”. L’iter giudiziario sembra darci ragione, purtroppo è lungo e potrebbe durare più di due anni. A quel punto molti di noi avranno trenta o trentacinque anni e saremo ancora più vecchi». A Noemi Fedele, figlia di carabiniere, il concorso in polizia è costato il matrimonio: 29 anni, addestratore cinofilo, è laureata in economia aziendale e management e vive in provincia di Taranto: «Da ragazzina, per assecondare la mia passione per la polizia, mio padre mi portava a visitare le caserme; ogni volta che vedevo una volante mi ci immaginavo dentro. Quando è uscito il concorso, ho studiato notte e giorno e ho ottenuto un risultato più che soddisfacente. Eppure mio marito, che porta la divisa della marina, mi ha posto un aut aut: non sopportava l’idea di vedermi poliziotta, perché per lui è un mestiere troppo pericoloso e non adatto a una donna. Non ho esitato neppure un attimo e ci siamo separati ancor prima che iniziassi le prove di selezione». C’è chi il poliziotto lo farebbe anche gratis, come Antonio Maiello, trentunenne di Afragola: «Da volontario in Croce Rossa, ti rendi conto di quanto sia importante donare un sorriso a chi è in difficoltà, senza badare a nulla, né a turni massacranti né alle festività». Figlio di vigile urbano, Antonio è un arbitro di calcio a 5 in serie C1. «Dopo aver aver arbitrato sui campi di calcio, soprattutto quelli di certe zone dove i “tifosi” sono le “bande” degli amici dei giocatori, ti rendi conto di quanto sia complicato far rispettare le regole. Tra noi, per motivarci prima delle partite ci diciamo: “siamo uomini giusti portatori di regole giuste”. E per me entrare in polizia avrebbe quello stesso significato». Laureato in giurisprudenza, Antonio ha fatto pratica nello studio di un avvocato penalista: «Una delle mie aspirazioni era quella di diventare pubblico ministero. Durante il praticantato, mi sono trovato in situazioni in cui si difendevano dei criminali e in alcuni casi, grazie all’ottimo lavoro della difesa, sono stati assolti. Era contro i miei ideali, ma rientra nelle regole». Gabriele Petrozzi, invece, quando ha fatto il concorso era istruttore di nuoto, ma ha lasciato le piscine in attesa di una chiamata ormai certa che però non è mai arrivata: «Ho totalizzato un punteggio di 9,5, ma mi sono visto escludere come tanti altri. Sono senza un lavoro e con un’incertezza del futuro che penso perseguiti un po’ tutti noi. Pur essendo tra i più stimati nell’ambiente dove lavoravo, non mi sono fatto rinnovare il contratto e ho iniziato a fare consegne per un magazzino di tovagliato per ristoranti in attesa di partire per il corso». Proprio tra gli agenti che frequentano la palestra dove lavorava ha sentito la sua vocazione: «Persone allegre e positive che amano il proprio mestiere malgrado le difficoltà. Ascoltando le loro storie ho capito che mi sarei trovato in una grande famiglia. Mi dicevano che ovunque sarei andato avrei trovato persone che mi avrebbero accolto in una comunità. Per questo mi sono innamorato dell’idea di indossare quella divisa. A casa sono rimasti tutti stupiti dell’impegno messo per superare il concorso. Non sono mai stato un grande studioso, ma in questo caso mi sono dedicato anima e corpo per riuscirci tanto che mia madre, quando ha visto il punteggio raggiunto, mi ha detto che aveva conosciuto un altro figlio, mai visto in tutti gli anni passati». Mirella Occhipinti, 30 anni e una laurea in tecniche della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, viene da Corleone, tristemente nota frazione palerimitana, dove ha vissuto per 25 anni prima di trasferirsi in provincia di Enna. Qui vive col compagno, anche lui poliziotto. Ottenuta l’idoneità, per indossare la divisa ha lasciato un lavoro a tempo indeterminato: «Crescere in un posto come Corleone ti fa sentire dentro, come un pugno, il valore di parole come giustizia e coraggio. Il coraggio di guardare il mondo a testa alta, con gli occhi di chi non si è lasciato piegare dall’illegalità e dalle ingiustizie». La divisa, anche per Mirella, è una vocazione: «Crescendo in un ambiente difficile come quello in cui sono nata e vissuta, spesso hanno storto il naso quando ho detto di voler entrare in polizia. Eppure ho conosciuto tanti ragazzi per bene, tante associazioni antimafia che hanno lavorato sodo, tante persone che non hanno avuto mai paura di dire che la mafia fa schifo. Quando sei piccola e senti dire che hanno sterminato una famiglia per una faida, ti cova dentro la rabbia e la voglia di cambiare tutto». Arriva dal Piemonte Antonio Federico Trunfio, un posto nel settore meccanico dei mezzi pesanti dove ripara gli autobus. A 18 anni si iscrive al comando provinciale dei vigili del fuoco e da allora guida i camion da volontario: «Nelle selezioni interne dei vigili del fuoco non sono riuscito a rientrare per poca anzianità. Poi ho partecipato al concorso per la polizia totalizzando un ottimo punteggio. Come è andata a finire lo sappiamo: con i nuovi requisiti richiesti ho superato i limiti d’età. Sembra una beffa: troppo giovane per i pompieri, troppo vecchio per i poliziotti». Di Scampia, 27 anni, Antonio Rinaldi ha perso suo padre per una grave malattia quando aveva 15 anni e mantiene la sua famiglia da appena diplomato: «Tra il 2004 e il 2006, gli anni più bui della faida tra clan, ho visto coi miei occhi l’impegno costante degli agenti. Dopo qualche anno, le Case dei Puffi, la piazza di spaccio più grande d’Europa, erano tornate dei luoghi quasi normali, gli “zombie” (i tossicodipendenti in cerca di dosi, ndr) non c’erano più, i bambini tornavano a giocare nei giardini, le famiglie potevano camminare tranquille per le strade. È questo che mi ha fatto ammirare tanto i poliziotti e desiderare di fare quel lavoro. Il bando di concorso è stato pubblicato all’una di notte: alle due già stavo compilando la richiesta». Oggi, Antonio è senza lavoro. «Ho preparato l’esame lavorando dieci ore di seguito e rinunciando alle due di pausa per uscire prima e andare a casa a studiare. Ho passato sui libri anche i quindici giorni di ferie. Quando sono partito per i cinque giorni delle selezioni, al lavoro mi hanno fatto molti problemi, malgrado fosse nei miei diritti. Così, ottenuta l’idoneità, mi sono licenziato. Sono cresciuto in una famiglia umile, di operai. A casa non vedevano bene l’idea che lasciassi il lavoro per qualcosa di incerto, ma era l’occasione che aspettavo da sempre. Il giorno che è arrivata la notizia è stato il più bello della mia vita; adesso quella data significa l’inizio di una lunga agonia». Il sogno, per tutti e 455, resta quello di servire lo Stato, avere un lavoro non precario, anche se pagato poco, indossando una divisa per cui darebbero anche la vita e non per apparire in qualche selfie o in qualche diretta Facebook. Altri ragazzi a cui l’Italia sta negando un futuro, altri ragazzi da piangere se decideranno di emigrare in posti migliori.
· I concorsi pubblici dei Presidenti del Consiglio dei Ministri.
Premier Conte, concorso universitario e rapporti con Guido Alpa: ha mentito? Le Iene il 2 dicembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, nel servizio in onda a Le Iene martedì sera dalle 21.15, mostrano una serie di documenti inediti e clamorosi, secondo i quali Giuseppe Conte nella vicenda del concorso all’università e del suo rapporto professionale col maestro e mentore Guido Alpa, non avrebbe detto tutta la verità. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha mentito agli italiani sul concorso con il quale nel 2002 è diventato professore ordinario di diritto privato all’Università di Caserta “Luigi Vanvitelli” (qui sopra potete vedere l'ultimo servizio andato in onda)? Il professor Guido Alpa, già mentore e amico di Giuseppe Conte, era incompatibile nel ruolo di commissario d’esame di Giuseppe Conte? Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, nel servizio in onda martedì a Le Iene su Italia1, tornano sulla vicenda del concorso universitario sostenuto da Giuseppe Conte a Caserta, nel quale uno dei commissari era proprio il professore Guido Alpa. Lo fanno mostrandovi in esclusiva una serie di documenti clamorosi che smentiscono tutte le versioni date sinora dal premier su questa storia. Nelle precedenti puntate della loro inchiesta, Antonino Monteleone e Marco Occhipinti si erano chiesti se si fosse trattato di un concorso universitario regolare, dato che un’eventuale comunanza di interessi economici tra commissario d’esame e candidato avrebbe fatto scattare l’incompatibilità di Alpa come esaminatore di Conte. Il premier ha mentito, quando ha parlato dei suoi rapporti di lavoro con Alpa? Se i documenti di cui Le Iene sono entrati in possesso fossero autentici, si può sostenere che la sua nomina a professore ordinario di diritto privato sarebbe avvenuta irregolarmente? Dei rapporti con Alpa aveva già parlato lo stesso Conte nel suo curriculum vitae: “Dal 2002 ha aperto con il prof. avv. Guido Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al diritto civile, diritto societario e fallimentare”. Per stessa ammissione di Conte si sarebbe trattato di uno studio a Roma, a via Cairoli, dislocato su due piani, in cui il giovane Conte occupava il piano superiore, ma aveva in realtà un unico numero di telefono e una stessa segretaria, pagata da entrambi. Giuseppe Conte, in una lettera al quotidiano La Repubblica dell’8 ottobre 2018, si era giustificato spiegando che all’epoca Conte e Alpa erano “coinquilini”, trattandosi di una semplice condivisione della segreteria e del numero telefonico, ma con distinte attività professionali e in spazi diversi, Alpa al primo piano e Conte al secondo, per cui ognuno avrebbe pagato il suo affitto separatamente. Nulla di più. Vi abbiamo poi raccontato della causa del 2002, nella quale Guido Alpa e Giuseppe Conte hanno entrambi difeso l’Autorità garante della privacy. Una causa per la quale, aveva tenuto a precisare Giuseppe Conte, per stroncare i dubbi su una eventuale comunanza di interessi economici tra i due, ognuno aveva fatturato per conto suo. Le Iene hanno fatto ben due diverse richieste di accesso agli atti per verificare che quanto dichiarato dal premier fosse vero, ma l’Autorità per la Privacy le ha sempre respinte. E avevano anche chiesto a Conte di mostrare, all’insegna della massima trasparenza, almeno la sua fattura relativa a quell’incarico presso il Garante della Privacy, relativamente al primo grado. Il premier però non ci ha mai mostrato la sua fattura o qualsiasi altra cosa dimostrasse che quanto da lui dichiarato fosse vero, ma oggi siamo in grado di anticiparvi un documento esclusivo, che potete leggere qui. È il 29 gennaio del 2002 quando l’Autorità garante per la protezione dei dati personali invia una lettera di incarico per fare assumere la propria difesa nell’ambito di quella causa, una controversia tra Rai, Garante e Agenzia delle entrate, aperta al Tribunale civile di Roma. La lettera ha un unico numero di protocollo, è inviata a un unico studio legale, presso un unico indirizzo e indovinate a chi è indirizzata? “Al Prof. Guido Alpa e al Prof Avv. Giuseppe Conte, Via Sardegna, 38, Roma”. La lettera di incarico recita così: “Con riferimento alla controversia in oggetto, e a seguito dell’indisponibilità manifestata dall’Avvocatura dello Stato che ha assunto la cura degli interessi della controparte, il garante prega le SS.VV., ai sensi dell’art. 17 del reg. n. 1/2000 del garante e dell’art. 43 del r.d. del 30 ottobre 1993, n.1611, di assumere la difesa di questa Autorità come da procura che verrà sottoscritta dal Presidente”. A questo punto ci chiediamo: perché mandare un’unica lettera ai due professionisti se, come ha sostenuto Giuseppe Conte, si trattava di due incarichi distinti e non c’era un’associazione né di diritto nè di fatto e soprattutto se quell’incarico fu pagato con due fatture separate? E perché Conte non ci ha mai mostrato, come più volte da noi richiesto, la fattura intestata a lui? Questa lettera di incarico, lo ricordiamo ancora una volta, è arrivata a gennaio 2002, cioè sei mesi prima che si concludesse il concorso universitario di Caserta. Stando a questa lettera, inoltre, emerge un’altra cosa che non torna rispetto alle versioni precedenti e non è di poco conto: Giuseppe Conte nel 2002 non avrebbe aperto un nuovo studio con Guido Alpa come indicato sul suo curriculum, e non sarebbe neanche stato in affitto al piano superiore dello stesso stabile a via Cairoli, dove Alpa aveva al piano di sotto un suo studio separato, come sostenuto in una lettera al direttore di Repubblica l’8 ottobre 2018. Al contrario come si evince dal documento mostrato in esclusiva dalle Iene, l’avvocato Conte era domiciliato presso lo studio Alpa in via Sardegna, dove lo stesso Guido Alpa in un’intervista mai smentita racconta che il giovane Conte fosse suo ospite. Antonino Monteleone è andato allora a chiedere spiegazioni al Premier Giuseppe Conte, con in mano la lettera di incarico del Garante della Privacy e con altri documenti esclusivi che smentiscono quanto dichiarato sulla vicenda finora dal presidente Giuseppe Conte. Le fatture riguardo all’assistenza legale fornita al Garante per quella causa di primo grado erano davvero due, distinte e separate, come sempre sostenuto dal Presidente? Questa cosa avrebbe escluso un comune interesse economico tra esaminato ed esaminando. Oppure era una sola, cosa che costituirebbe grave motivo di imbarazzo per il professore Giuseppe Conte? L’avvocato più famoso d’Italia ha confermato quanto dichiarato ormai un anno fa, oppure ha cambiato versione ancora una volta?
Scoprite cosa ha risposto il premier alla Iena nel servizio in onda martedì sera su Italia1, dalle 21.15.
Conte e il concorso universitario: ecco la parcella fumante. Le Iene il 3 dicembre 2019. Nella puntata di questa sera de Le Iene, Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci mostrano altri documenti esclusivi che dimostrerebbero che il Premier Conte avrebbe mentito sui suoi rapporti di lavoro con il Prof. Guido Alpa e che quest’ultimo non avrebbe potuto esaminarlo nel concorso che lo nominò professore di diritto privato a Caserta. Un nuovo documento esclusivo confermerebbe che il premier Conte e il professor Alpa erano legati da interessi economici e professionali e quindi quest'ultimo non sarebbe potuto essere il commissario d'esame al concorso universitario di Caserta del 2002, con il quale Conte è diventato professore ordinario di diritto privato. E' la nuova clamorosa scoperta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, che spiegheranno stasera nel corso della puntata de Le Iene, e che vi anticipiamo qui. Pubblichiamo infatti il progetto di parcella per la causa civile nella quale il primo ministro Conte e il professor Alpa difesero il Garante per la privacy. E' su carta intestata a entrambi, con la richiesta di pagamento dell’intera cifra di 26.830,15 euro su un unico conto corrente di una filiale di Genova di Banca Intesa, il tutto firmato da entrambi, Guido Alpa e Giuseppe Conte. È ancora possibile a questo punto sostenere, come ha fatto Giuseppe Conte nell’ultimo anno ai microfoni delle iene, che non vi fossero interessi economici in comune e che non vi fosse incompatibilità del professor Alpa nel giudicare Conte al concorso universitario? Il primo ministro ha mentito sul fatto che ognuno avesse fatturato per conto suo? Il presidente del Consiglio ha sempre negato il rapporto professionale con Guido Alpa, nonostante nel suo curriculum vitae lui stesso avesse scritto così: “Dal 2002 ha aperto con il prof. avv. Guido Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al diritto civile, diritto societario e fallimentare”. Si sarebbe trattato di uno studio a Roma, a via Cairoli, dislocato su due piani, in cui il giovane Conte occupava il piano superiore, uno studio che aveva in realtà un unico numero di telefono e una stessa segretaria, pagata da entrambi. Giuseppe Conte in una lettera al quotidiano La Repubblica aveva detto che lui e Alpa erano solo “coinquilini”, uniti da una semplice condivisione della segreteria e del numero telefonico, ma con distinte attività professionali in spazi diversi e con contratti di affitti diversi. Nell’articolo pubblicato ieri vi abbiamo mostrato in esclusiva un altro documento, una lettera di incarico del Garante per la privacy in cui si chiede a Guido Alpa e a Giuseppe Conte di assumere la difesa dell’Ente in una controversia legale con Rai e Agenzia delle entrate, aperta al Tribunale civile di Roma. Giuseppe Conte, per stroncare i dubbi su un'eventuale comunanza di interessi economici tra i due, ha sempre sostenuto che ognuno aveva fatturato per conto suo. Il documento però sembra raccontare un’altra storia: la lettera ha un unico numero di protocollo, è inviata a un unico studio legale, presso un unico indirizzo. E indovinate a chi è indirizzata? “Al Prof. Guido Alpa e al Prof Avv. Giuseppe Conte, Via Sardegna, 38, Roma”. Ci siamo chiesti perché mandare un’unica lettera ai due professionisti se, come ha sostenuto Giuseppe Conte, “si trattava di due incarichi distinti e non c’era un’associazione né di diritto né di fatto e soprattutto se quell’incarico fu pagato con due fatture separate”. Quel documento conferma anche un’altra circostanza su Giuseppe Conte non avrebbero detto la verità. Prima del concorso universitario, da quanto riferito da Alpa, Conte era ospite in via Sardegna e non come aveva detto il premier alle Iene e a Repubblica con un contratto d’affitto separato per il suo studio al piano di sopra di quello di Alpa, in piazza Cairoli, dove si trasferirà alcuni anni dopo. Questa sera, insieme ai nuovi documenti esclusivi, vi mostreremo anche i verbali di udienze di quel processo al tribunale civile di Roma, da cui si evince che Conte partecipò sempre, tranne una sola volta in cui fu sostituito, mentre Guido Alpa non andò mai. È legittimo dunque pensare al “dominus” che manda a udienza il suo “giovane allievo”? Non perdete questa sera, su Italia1 dalle 21.15 a Le Iene, la nuova puntata dell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla vicenda del concorso universitario più importante della sua vita, per l’avvocato Giuseppe Conte, presidente del Consiglio. Il confronto con la nostra iena è tutto da vedere. Alla fine dell’accesa disputa il Presidente ammetterà l’esistenza per quell’incarico di una sola fattura?
Guardate qui sotto l'ultimo servizio di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sulla vicenda del concorso universitario di Giuseppe Conte
Conte, le Iene e il progetto di parcella a doppia firma con Alpa. Pubblicato martedì, 03 dicembre 2019 da Corriere.it. «Questa è la “parcella fumante”. La prova che il premier Giuseppe Conte ha mentito». Le Iene rilanciano l’accusa al presidente del Consiglio di non aver detto la verità sulla sua collaborazione professionale ed economica con l’avvocato Guido Alpa, lo stesso che lo giudicò nel concorso universitario di Caserta del 2002 per la cattedra di diritto privato. E a riprova mostrano un documento «su carta intestata a entrambi, con la richiesta di pagamento dell’intera cifra di 26.830,15 euro su un unico conto corrente di una filiale di Genova di Banca Intesa, firmato da entrambi, Guido Alpa e Giuseppe Conte». Palazzo Chigi in una nota precisa: «Si tratta di un progetto di parcella ma non una fattura unica». La puntata delle Iene di martedì 3 dicembre, Antonino Monteleone e Marco Occhipinti», parte dall’interrogativo scottante: «È ancora possibile sostenere, come ha fatto Giuseppe Conte nell’ultimo anno, che non vi fossero interessi economici in comune e che non vi fosse incompatibilità del professor Alpa nel giudicare Conte al concorso universitario?». Un interrogativo che viene più volte chiesto di fugare allo stesso presidente del Consiglio, a margine di una visita a Vallo della Lucania. «Non c’è mai stata una fattura unica» ripete Conte. Nel documento cointestato però, rimarcano le Iene, «c’è un riepilogo del compenso dovuto per un unico importo complessivo di 26.830,15 da saldare su un solo conto corrente a me intestato, documento, e seguono le coordinate bancarie di una filiale di Banca intesa di Genova».
Parcella fumante, le Iene inchiodano Conte: "Difesa di Palazzo Chigi aggrava la sua posizione". Giuseppe Conte si trova nei guai fino al collo. Le Iene lo hanno smascherato e ora è difficile mentire. Serena Pizzi, Mercoledì 04/12/2019, su Il Giornale. La puntata di ieri sera de Le Iene ha messo in luce una parte del passato oscuro del premier Giuseppe Conte. La parcella "fumante" - così ormai la chiamano tutti - ha creato non poche difficoltà all'ex avvocato del popolo. Quella fattura che non c'è, quella carta intestata (doppia), quei possibili favoritismi all'esame, tutto crea qualche dubbio intorno alla figura del "candido" premier. E se da una parte Conte si giustifica e cerca di avere la risposta a tutto, dall'altra la iena lo inchioda. Antonino Monteleone ha messo in difficoltà il premier. Gli ha portato i documenti (che lui pensava che mai sarebbero venuti fuori) e gli ha mostrato che qualcosa non torna. Intervistato dall'Adnkrons, il giornalista ha dato la sua versione dei fatti. "Una storia italiana, molto italiana, sia nell'evoluzione che nell'epilogo - dice -. La difesa di Palazzo Chigi, secondo me, aggrava la posizione del presidente del Consiglio, che replica dicendo che sostanzialmente ha lavorato gratis per la persona che lo ha giudicato al concorso per la cattedra di professore ordinario". La iena è consapevole che questa "non sia la questione del secolo", ma ha la sua importanza: stiamo dicendo che "Conte ha consentito al professor Alpa di fatturare anche il suo lavoro, perché ricordiamo che Alpa in Tribunale al primo grado non ha mai messo piede, andava sempre l'avvocato Conte". Perché Conte va a lavorare in udienza e poi dice che fattura tutto Alpa? Perché mette la sua firma in calce ad un progetto di parcella comune?, si chiede la Iena, secondo cui "se due avvocati sono distinti e separati non hanno la carta intestata in comune". Monteloene si fa parecchie domande, vuole capire. In questa storia, qualcosa che non va c'è. È evidente. "Mi chiedo - continua all'Adnkrons - il fatto che non si sia fatto pagare da uno dei commissari che lo ha giudicato al concorso, vi sembra una bazzecola? Secondo me no". E in effetti non è proprio una cosa da niente. Anzi. La iena, quindi, nel ricostruire il tutto mette in evidenzia le varie contraddizioni, le diverse versioni dei fatti (prima le due fatture, poi il giornalista trova i documenti e Conte, invece, dice di non averli trovati) e come il premier abbia cercato di galleggiare senza sprofondare. "La realtà è che Conte cambia versione tre volte nel giro di poco più di un anno, che le fatture divise che aveva annunciato non esistono, perché ha fatturato Alpa, e che quindi il presidente Conte ha lavorato gratis per uno dei commissari del concorso per la cattedra di professore ordinario - conclude -. Il presidente Conte ha poi pubblicato l'intervista integrale su Facebook, ma qualche secondo lo ha tagliato. Noi eccetto qualche taglio necessario per così dire per la “punteggiatura”, abbiamo mandato le interviste integrali". Diciamo che questo non è proprio un bel momento per il premier. Si trova inguaiato fino al collo. Ci mancava questa fattura, il concorso e l'amico. E ora c'è pure il Mes.
C.Gu. per “il Messaggero” il 5 dicembre 2019. Un «progetto di parcella» redatto «su carta intestata a entrambi, con la richiesta di pagamento dell'intera cifra di 26.830,15 euro su un unico conto corrente di una filiale di Genova di Banca Intesa, il tutto firmato da entrambi, Guido Alpa e Giuseppe Conte». È questo il documento, mostrato ieri nel servizio delle Iene Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, che incastrerebbe il premier: secondo i giornalisti conferma che Conte e il professor Alpa erano già legati da interessi economici e professionali e quindi quest'ultimo non poteva svolgere il ruolo di commissario d'esame al concorso universitario di Caserta del 2002, con il quale Conte è diventato professore ordinario di diritto privato. «Assolutamente scorretto», la replica di palazzo Chigi, che confuta punto punto il servizio tv. La firma congiunta apposta sull'atto riguarda la causa civile nella quale Conte e Alpa hanno difeso il garante per la privacy. «È ancora possibile a questo punto sostenere, come ha fatto il premier nell'ultimo anno, che non vi fossero interessi economici in comune e che non vi fosse incompatibilità del professor Alpa nel giudicare Conte al concorso universitario? Il primo ministro ha mentito sul fatto che ognuno avesse fatturato per conto suo?», si domandano le Iene. Quel documento, affermano i giornalisti, conferma anche un'altra circostanza sulla quale il presidente del Consiglio non avrebbero detto la verità. Prima del concorso universitario, ha riferito Alpa, Conte era ospite in via Sardegna e non, come ha sostenuto il premier, con un contratto d'affitto separato per il suo studio al piano di sopra di quello di Alpa, in piazza Cairoli, dove si trasferirà alcuni anni dopo. Non solo. Rileggendo i verbali delle udienze di quel processo al tribunale civile di Roma, si evincerebbe che Conte sia stato sempre presente in aula, tranne una volta in cui fu sostituito, mentre Alpa non andò mai. «È legittimo dunque pensare al dominus che manda a udienza il suo giovane allievo?», si chiedono i giornalisti. «È un progetto di parcella ma non una fattura unica», è, nella sostanza, la replica di Conte. «Questo non preclude che poi ciascun professionista emetta la propria fattura. All'epoca del concorso e anche successivamente non c'è mai stata associazione professionale, formale o anche solo sostanziale, tra il professor Alpa e l'allora avvocato Conte».
(Adnkronos il 5 dicembre 2019) - E' diventato il caso del giorno. Alcuni quotidiani hanno data la notizia della parcella del premier come prima notizia, altri hanno fatto approfondimenti. Come sempre la pubblica opinione si è divisa, e sui social c'è chi si fa notare come Conte alla fine dell'intervista trasmessa dalle Iene ieri sera se la sia cavata bene e chi invece sottolinea come la bugia sia venuta a galla. Conte, già ieri sera, aveva messo su Facebook l'integrale del servizio delle Iene, come a dimostrare di non temere nulla. La iena Monteleone, ovviamente, ha un'idea ben chiara di come sono andare le cose. "Una storia italiana, molto italiana, sia nell'evoluzione che nell'epilogo. La difesa di Palazzo Chigi, secondo me, aggrava la posizione del presidente del Consiglio, che replica dicendo che sostanzialmente ha lavorato gratis per la persona che lo ha giudicato al concorso per la cattedra di professore ordinario". Così all'Adnkronos la 'Iena' Monteleone, ritorna sul caso sollevato dall'inchiesta della trasmissione di Italia Uno all'indomani della messa in onda e della replica di palazzo Chigi. "Capisco che non è la questione del secolo - aggiunge la Iena -, però qui si sta dicendo che Conte ha consentito al professor ALPA di fatturare anche il suo lavoro, perché ricordiamo che ALPA in Tribunale al primo grado non ha mai messo piede, andava sempre l'avvocato Conte". "Perché Conte va a lavorare in udienza e poi dice che fattura tutto ALPA? Perché mette la sua firma in calce ad un progetto di parcella comune?", si chiede la Iena, secondo cui "se due avvocati sono distinti e separati non hanno la carta intestata in comune". "Sto aspettando qualche avvocato che mi smentisca in tal senso, visto che il professore-avvocato Conte mi ha rimproverato di essere ignorante in tema giuridico e di dinamiche di assistenza legale", dice ancora Monteleone, sottolineando che a suo avviso "ogni avvocato per dovere deontologico si fa pagare il suo lavoro, non esiste il patrocinio pro bono, esiste il patrocinio dello Stato per chi non se lo può permettere. Poì mi chiedo: il fatto che non si sia fatto pagare da uno dei commissari che lo ha giudicato al concorso, vi sembra una bazzecola? Secondo me no". Quanto all'altro argomento usato dal premier, che ha spiegato di aver vinto il concorso di Caserta con l'unanimità della Commissione, "questo non vuol dire nulla - dice ancora Monteleone - perché basta che anche un solo commissario sia incompatibile per rendere l'intera procedura irregolare". Dunque, è un "argomento un po' deboluccio". "La verità è che per un anno ci hanno detto che ognuno aveva fatturato per conto suo. Poi, dopo che abbiamo trovato i documenti, Conte ha detto effettivamente di non aver trovato la fattura", sottolinea la Iena, ricordando che "a gennaio 2019 abbiamo chiesto al presidente di mostrare la sua fattura" e che "il garante della privacy prima e il Tar dopo ci hanno detto no", con "una sentenza, tra l'altro, quest'ultimo, che ha demolito la legge sull'accesso civico agli atti della pubblica amministrazione, stabilendo criteri che renderanno impossibile per i giornalisti avvantaggiarsi della normativa". "La realtà è che Conte cambia versione tre volte nel giro di poco più di un anno, che le fatture divise che aveva annunciato non esistono, perché ha fatturato Alpa, e che quindi il presidente Conte ha lavorato gratis per uno dei commissari del concorso per la cattedra di professore ordinario", evidenzia ancora Monteleone, che conclude: "Il presidente Conte ha poi pubblicato l'intervista integrale su facebook, ma qualche secondo lo ha tagliato. Noi eccetto qualche taglio necessario per così dire per la "punteggiatura", abbiamo mandato le interviste integrali".
La parcella "equivoca" tra il premier Conte e l'avvocato Alpa. Il Corriere del Giorno il 4 Dicembre 2019. Le Iene mostrano un nuovo documento: “Avevano interessi comuni”. Palazzo Chigi ancora una volta nega: “Non è una fattura comune ma solo un progetto”. “Un nuovo documento esclusivo confermerebbe che il premier Conte e il professor Alpa erano legati da interessi economici e professionali e quindi quest’ultimo non sarebbe potuto essere il commissario d’esame al concorso universitario di Caserta del 2002, con il quale Conte è diventato professore ordinario di diritto privato”. E’ quanto è stato pubblicato ieri dal sito de Le Iene, che anticipava “la nuova clamorosa scoperta di Le Iene che è stata svelata nel corso della puntata di ieri sera. Il programma “Le Iene” (Italia 1) ha esibito una parcella “su carta intestata a entrambi, con la richiesta di pagamento dell’intera cifra di 26.830,15 euro su un unico conto corrente di una filiale di Genova di Banca Intesa, il tutto firmato da entrambi, Guido Alpa e Giuseppe Conte“. “È ancora possibile a questo punto sostenere, come ha fatto Giuseppe Conte nell’ultimo anno ai microfoni delle Iene, che non vi fossero interessi economici in comune e che non vi fosse incompatibilità del professor Alpa nel giudicare Conte al concorso universitario? Il primo ministro ha mentito sul fatto che ognuno avesse fatturato per conto suo?“, si domandano Le Iene. Palazzo Chigi respinge questa accusa, rispondendo che “si tratta di un progetto di parcella ma non una fattura unica“. Le Iene ricordano inoltre che “il presidente del Consiglio ha sempre negato il rapporto professionale con Guido Alpa, nonostante nel suo curriculum vitae lui stesso avesse scritto così: «Dal 2002 ha aperto con il prof. avv. Guido Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al diritto civile, diritto societario e fallimentare“. Per essere precisi, si sarebbe trattato di uno studio ubicato a Roma, in via Cairoli, dislocato su due piani, dei quali il giovane Conte occupava il piano superiore, in uno studio legale che in realtà aveva un unico numero di telefono e la stessa segretaria che veniva retribuita da entrambi. Il premier Conte aveva invece sempre sostenuto che non c’è mai stata un’associazione professionale, formale o anche solo sostanziale, tra il prof. Alpa e l’allora avv. Conte sia all’epoca del concorso che successivamente , e smentisce che ci sia mai stato un conto corrente unico utilizzato da entrambi. All’epoca del concorso (2002) il prof. Alpa aveva uno studio professionale associato con un avvocato genovese e comunque non avrebbe potuto avete due differenti studi associati. A conferma di quanto sostenuto – secondo l’ufficio stampa di Palazzo Chigi – non è mai esistita una partita iva comune o anche solo un conto corrente cointestato o comunque utilizzato per proventi in comune. Secondo i portavoce di Conte è quindi scorretto affermare che ci sia o ci possa essere una fattura in comune tra Guido Alpa e Giuseppe Conte sostenendo che “Il documento mostrato dalle Iene non vale a dimostrare il contrario ed è una chiara sciocchezza che esso smentisca la ricostruzione sin qui fornita dal Presidente Conte”. Il premier Conte ribadisce: “Non abbiamo mai fatto una fattura insieme, cioè avevamo conti separati. Guardi io ho controllato, questo chiariamolo, allora io ho controllato per il primo grado, in realtà la mia fattura non l’ho trovata, invece ho trovato la fattura del secondo grado e del terzo grado della Cassazione”. A Monteleone ha detto: “Lei non sa nulla di diritto, si fidi e le hanno spiegato male come funzionano i processi… È normale che se ci sono 10 avvocati al collegio difensivo non vanno tutti e 10. Basta che vada uno a coprire l’udienza, in rappresentanza di tutti”. Secondo la versione di Conte è quindi normale che due professionisti, autonomi ma coinquilini, e quindi dotati di una segreteria comune, abbiano emesso un unico progetto di parcella, a firma congiunta, con riferimento alla causa per la quale facevano parte del medesimo collegio difensivo. Questo non preclude in alcun modo che, sulla base di quel singolo, complessivo progetto di parcella, poi ciascun professionista emetta autonomamente e distintamente la propria fattura, per ottenere il pagamento dei propri compensi. Alla fine in circa mezz’ora di intervista il premier ha cambiato più volte la sua versione: “si è passati da non esiste una fattura unica”, al “io la mia fattura per il primo grado non l’ho trovata“, all’ultima versione “sì effettivamente per quel lavoro fatturò solo Alpa“. E se fatturò solo Alpa, con Conte che partecipò a quasi tutte le udienze, mentre Alpa mai! Ne è la riprova la circostanza che la fattura emessa da Guido Alpa in relazione al processo di primo grado nella causa Garante Privacy/Rai è la fattura del solo Guido Alpa. I relativi compensi sono stati erogati sul conto corrente personale di quest’ultimo, e non su un conto corrente comune relativo a una presunta società di professionisti. La decisione di Conte di non farsi pagare è dettata dal fatto che, nel primo grado di giudizio, il suo apporto all’istruzione e alla conduzione della causa era stato marginale rispetto a quello del professor Alpa. Del resto, come riconoscono correttamente anche gli inviati delle Iene, vi sono stati altri incarichi che il professor Conte ha svolto per il Garante, anche senza il coinvolgimento professionale di Alpa, decidendo poi di non farsi pagare. Ma le Iene insistono nel sostenere che “il premier Conte e il professor Alpa erano legati da interessi economici e professionali e quindi quest’ultimo non sarebbe potuto essere il commissario d’esame al concorso universitario di Caserta del 2002, con il quale Conte diventò professore ordinario di diritto privato“. Il documento in realtà sembra raccontare una storia differente: la lettera inviata allo studio ha un unico numero di protocollo, è inviata a un unico studio legale, presso un unico indirizzo. E soprattutto è indirizzata “al Prof. Guido Alpa e al Prof Avv. Giuseppe Conte, Via Sardegna, 38, Roma”. Ci siamo chiesti, dicono Le Iene, perché mandare un’unica lettera ai due professionisti se, come ha sostenuto il premier Giuseppe Conte, “si trattava di due incarichi distinti e non c’era un’associazione né di diritto né di fatto e soprattutto se quell’incarico fu pagato con due fatture separate“. “Se la collaborazione era in corso, il premier Conte non sarebbe potuto essere valutato dal professor Guido Alpa. Ma se il rapporto di lavoro era stato interrotto almeno due anni prima il problema non si pone” è l’opinione di Umberto Fantigrossi, presidente uscente degli avvocati amministrativisti, il quale per chiarire la problematica sollevata dal programma tv Le Iene ha spiegato che “non esistono regole precise, ci muoviamo nell’ambito dei principi poiché per orientarci in questo campo dell’incompatibilità si applicano alle commissioni di concorso, per via analogica, le norme che valgono per i giudici in base al codice di procedura civile”. Quindi secondo il professor Fantigrossi “l’incompatibilità tra esaminando ed esaminatore, tra allievo e maestro, sussiste qualora la collaborazione sia in atto, ma se invece è passata il vantaggio cessa di esistere“. Per l’avvocato Fantigrossi “è tutta una questione di tempi, se tra la collaborazione e il concorso è trascorso un tempo congruo, il problema non esiste”.
Maurizio Belpietro per ''la Verità'' il 03 dicembre 2019. Le Iene azzannano in tv l' avvocato del popolo, che adesso deve difendere sé stesso. La notizia è arrivata alla fine di una giornata in cui era stato Giuseppe Conte ad azzannare. In Parlamento, dove era andato a rispondere sul caso del Fondo salva Stati, il presidente del Consiglio aveva accusato Matteo Salvini di spregiudicatezza e scarsa cultura delle regole, perché il capo della Lega si era azzardato a «insinuare» un tradimento del governo sul Mes, il meccanismo economico di stabilità. Ma prima ancora che arrivasse la replica dell' ex ministro dell' Interno alle bordate, è arrivata una nota della trasmissione tv in onda su Italia 1. Il comunicato della rete Mediaset annunciava che Le Iene avrebbero messo in onda un servizio con documenti inediti sulla carriera del professor Giuseppe Conte. In pratica, una lettera d' incarico dell' Autorità garante della privacy risalente al 2002, un testo che rappresenterebbe la prova del conflitto d' interessi del capo del governo quando salì in cattedra. La storia in parte era già stata raccontata quando Conte fece il suo ingresso a Palazzo Chigi. All' epoca Repubblica tirò fuori la notizia che il premier era stato promosso docente ordinario da una commissione di cui faceva parte Guido Alpa, docente che con Conte divideva lo studio di Roma. Il neo premier replicò sostenendo di non essere mai stato socio del professore e di non aver mai fatto parte del suo studio. Una difesa un po' fragile, ma supportata del formalismo dell' assenza di cointeressi professionali, ossia dalla mancanza di parcelle in comune per attività forensi svolte dai due. A consolidare la tesi giunse poi un parere dell' Anac, l' autorità anticorruzione, che certificò il mancato intreccio professionale fra i due avvocati. Dunque, anche se avevano una stanza nel medesimo edificio, a pochi passi l' uno dall' altro, Alpa e Conte non erano soci e il primo non aveva giudicato l'altro in una situazione di oggettivo conflitto d' interessi. Fine? No, perché adesso Le Iene hanno trovato la lettera d' incarico della causa già oggetto di dubbi. Il documento risale agli inizi del 2002, cioè sei mesi prima del concorso che consentì a Conte di diventare professore ordinario all' età di 38 anni. Nel testo ritrovato dal programma Mediaset il Garante della privacy chiede ad Alpa e al futuro presidente del Consiglio di patrocinare una causa a difesa dell' Authority. Per le Iene sarebbe la prova che i due avvocati avevano in qualche modo interessi comuni e dunque il più anziano e noto, cioè il professor Alpa, mesi dopo avrebbe giudicato il più giovane, promuovendolo. L' inviato di Italia 1 ha gioco facile nel puntare il dito, perché nonostante sia stato sollecitato a farlo, finora il presidente del Consiglio non ha mostrato la prova che taglierebbe la testa al toro, ovvero la fattura per le prestazioni professionali prestate al Garante. Se fosse intestata solo a lui e non anche al professor Guido Alpa si dimostrerebbe la separazione fra i due, ma senza non si può mostrare nulla, se non i dubbi verso una situazione di fatto che certo appare piuttosto anomala. Sappiamo come vanno - e soprattutto come andavano - certe cose nelle università italiane, dove la scelta dei prof da premiare non sempre risponde al criterio dell' oggettività. Perciò, nel caso del presidente del Consiglio, appare un po' curioso che nella commissione che lo giudicò idoneo a ricoprire l' incarico di professore ordinario ci fosse Guido Alpa, cioè un coinquilino di studio, anche se un po' più grande e più famoso. Inquilino che poi, dopo l' elevazione di Conte al soglio di Palazzo Chigi, lo gratificherà di un' intervista in cui lo definisce un suo allievo. Solo che gli allievi di regola poi non vengono messi in cattedra dai maestri. Al momento non è nota la reazione di Conte, anche se sull' argomento il premier ritiene di aver già detto tutto, giudicando chiuso il caso. La lettera però oggettivamente lo riapre, perché anche se le formalità sono rispettate e non si può sostenere l' esistenza di un' associazione professionale che impedisse la presenza di Alpa in quella commissione, l' inopportunità resta. I due si conoscevano, dividevano lo stesso ufficio e, anche se ciascuno operava per conto proprio, sei mesi prima di quel concorso furono entrambi incaricati dallo stesso cliente e per di più con la stessa lettera. L' avvocato dirà che la legge è rispettata e le insinuazioni provvederà a perseguirle quando non sarà più a capo del governo. Ma a chi lamenta spregiudicatezza e scarsa cultura delle regole agli altri, è richiesto un supplemento di cautela, perché la forma sarà anche rispettata, ma la sostanza rimane. Le stanze quelle sono. Così come i dubbi.
Alessandro Rico per ''La Verità'' il 03 dicembre 2019. Dopo la clamorosa smentita della tesi di Giuseppe Conte, che s' era detto non al corrente di essere un papabile premier quando firmò il parere per Fiber 4.0 (la sera prima di consegnarlo era a un vertice con Matteo Salvini e Luigi Di Maio), si prospetta un' altra grana per la reputazione del presidente del Consiglio. Stavolta, non nelle sue vesti di avvocato del popolo, ma di avvocato privato, per clienti di prestigio, come l' Autorità garante per la protezione dei dati personali. La vicenda rischia di proiettare ombre inquietanti sul rapporto di Conte con il suo mentore Guido Alpa e sulla legittimità del concorso da professore ordinario, che il premier vinse nel 2002 e nella cui commissione figurava proprio il giurista piemontese. La storia la racconteranno Antonino Monteleone e Marco Occhipinti questa sera, alle Iene, su Italia 1, alle ore 21.15. E ovviamente andranno a raccogliere anche la versione di Conte. I due già l'anno scorso avevano messo sotto la lente d' ingrandimento la relazione professionale del presidente del Consiglio con il professore, titolare di una cattedra di diritto civile alla Sapienza. Le iene avevano indagato sullo studio legale che lo stesso Giuseppi, nel proprio curriculum, dichiarava di aver aperto con Alpa a Roma, in via Cairoli, zona Esquilino. Secondo le spiegazioni fornite dal premier in una lettera a Repubblica dell' 8 ottobre 2018, si trattava in realtà di un appartamento in cui gli inquilini condividevano solamente numero di telefono e segretaria, pagando però due affitti diversi e soprattutto fatturando ciascuno per conto proprio. Alpa era al piano di sotto, Conte al piano di sopra, ma i professionisti lavoravano separatamente. Sullo sfondo, c' era il concorso del 2002 da professore ordinario per l' università casertana Luigi Vanvitelli, con cui Conte ottenne l' abilitazione e nella cui commissione sedeva anche Alpa. Chiaramente, se fosse provato che i due avvocati erano effettivamente associati, ne deriverebbe che quel concorso era viziato. Le Iene ritengono di aver raccolto un nuovo indizio che farebbe sospettare che il premier abbia mentito sulla vicenda. Il 29 gennaio del 2002, ovvero sei mesi prima che si concludesse il concorso a Caserta, l'Autorità garante per la protezione dei dati personali invia una lettera d' incarico per la propria difesa nell'ambito di una controversia con la Rai e l' Agenzia delle entrate, aperta al tribunale civile di Roma. La missiva, rilevano Monteleone e Occhipinti, «ha un unico numero di protocollo, è inviata a un unico studio legale, presso un unico indirizzo»: via Sardegna 38, Roma. Destinatari, proprio Guido Alpa e Giuseppe Conte. Ma allora, se i due avvocati lavoravano e fatturavano indipendentemente, che senso aveva spedire un' unica lettera a entrambi? E soprattutto, perché nel suo curriculum Giuseppi alludeva a uno studio in via Cairoli, se questa lettera d' incarico mostrerebbe che Conte era domiciliato presso lo studio Alpa in via Sardegna, a due passi da via Veneto, a mezz' ora di camminata dall' Esquilino? D'altra parte, la redazione delle Iene ricorda di aver presentato due richieste di accesso agli atti per verificare che le dichiarazioni del presidente del Consiglio fossero vere. L' Autorità, però, le ha respinte entrambe. E Conte non ha mai mostrato la fattura di questa prestazione legale: se fosse intestata solo a lui, il premier fugherebbe ogni dubbio su un eventuale rapporto professionale con Alpa e, conseguentemente, sulla sua carriera accademica. L' avvocato del popolo si avvarrà ancora della facoltà di non rispondere al popolo?
TRAVAGLIO IN DIFESA DI CONTE. Estratto dall'articolo di Marco Travaglio per ''il Fatto Quotidiano'' il 5 dicembre 2019. (…) L' altroieri è fallito miseramente l' ennesimo tentativo delle Iene di sbugiardare il premier Conte sui suoi rapporti con lo studio Alpa nel 2002, ai tempi della sua promozione, decisa da una commissione presieduta da Alpa, a professore di Diritto privato: la fattura che doveva smentirlo non era una fattura, ma un progetto di parcella; riguardava Alpa e non Conte, che in quella causa sostituì Alpa in alcune udienze senza farsi pagare; e non può inficiare il concorso del 2002 per conflitti d' interessi perché risale al 2009, sette anni dopo il concorso, in cui peraltro Conte fu promosso da 5 commissari su 5. Ieri naturalmente il Giornale e La Verità hanno rilanciato la bufala ("La bugia di Conte", "La parcella che inchioda Conte"). E tal Renzi ha dichiarato al Messaggero: "Se quello che viene contestato a Conte fosse stato contestato a me, i 5Stelle chiederebbero le dimissioni e scatenerebbero i social contro di me. Non so cosa sia successo tra Conte e Alpa. Penso che sarà Conte il primo ad aver interesse a chiarire". A parte che Conte l'ha fatto per l' ennesima volta con un' intervista alle Iene, è curioso che Renzi dica di "non sapere quel che è successo tra Conte e Alpa": se non lo sa, come può fare paragoni con quello che viene contestato a lui? E quando mai ha chiarito quel che viene contestato a lui, infinitamente più grave di quel che veniva contestato a Conte, visto che Conte, Alpa e nessun loro amico o parente sono indagati, mentre Renzi ha padre e madre condannati in primo grado e tutti i fedelissimi indagati e/o imputati (Lotti, Carrai, Bianchi, Bonifazi, i coniugi leopoldi Donnini-Mammoliti, Vannoni, Del Sette, Saltalamacchia, ecc.). (…)
Dagospia il 5 dicembre 2019. La replica di Antonino Monteleone, autore con Marco Occhipinti del servizio delle ''Iene'' sul rapporto tra Conte e Alpa: «La fattura che doveva smentirlo non era una fattura, ma un progetto di parcella; riguardava Alpa e non Conte, che in quella causa sostituì Alpa in alcune udienze senza farsi pagare; e non può inficiare il concorso del 2002 per conflitti d'interessi perché
risale al 2009, sette anni dopo...». Non è un messaggio del portavoce del Presidente del Consiglio, ma l'editoriale apparso su un quotidiano italiano. C'è molta confusione. Mettiamo alcuni punti in chiaro.
1) Nessuna coppia di professionisti che svolge incarichi "distinti" e "separati" firma progetti di parcella su carta co-intestata e doppia firma.
2) Riguardava solo Alpa? Urge visita dall'optometrista. Perché qui qualcuno ha scritto senza vedere né l'intestazione né le firme in calce al documento.
3) Conte si presenta a TUTTE le udienze tranne una. Alpa non si presenta MAI.
4) Esaminatore (ALPA) ed esaminato (CONTE) avevano "interessi economici e professionali" comuni prima dell'avvio delle procedure per il concorso da professore ordinario, durante e successivamente. Per restringere il campo: la causa di primo grado del Garante Privacy contro la RAI si incardina in tempi che quasi si sovrappongono col concorso. Scrivere il progetto di parcella insieme sette anni dopo annullerebbe questa incontrovertibile circostanza di fatto?
Solo alla luce di queste circostanze si comprende perché Conte a ottobre 2018 e a gennaio 2019 fosse spinto dalla necessità di sottolineare che "ognuno ha fatturato per conto suo". Ma si è rivelata un'affermazione F-A-L-S-A. Ne volete un'altra? Secondo il sito casertace.net Guido Alpa, nella sua sterminata carriera e nelle innumerevoli commissioni di concorso delle quali ha fatto parte, SOLO una volta sarebbe stato all'Università di Caserta. Al concorso da ordinario di Giuseppe CONTE. Uno dice... coincidenze.
Le Iene e il premier Conte. Una sola cosa era importante e l’abbiamo appurata noi: Guido Alpa commissario a S.MARIA C.V. solo una volta nella vita. Casertace.net il 3 Dicembre 2019. Stasera, tra pochi minuti Le Iene daranno del bugiardo al presidente del consiglio Giuseppe Conte. Mai puntata del popolare programma di Italia 1 era stata tanto annunciata, dettagliata, spiegata prima di andare in onda. Onestamente, in questa circostanza studiamo il problema del nostro mestiere, della lunga militanza in un territorio in cui la legalità reale è inesistente. Dunque, il disincanto si impadronisce dei nostri pensieri e ci fa accogliere queste cose con una scrollata di spalle. Non è che occorresse un supplemento di indagine per capire che Conte, con il professorone Guido Alpa avesse raccontato balle. Pensate un pò che quando uscì per la prima volta la notizia, il professorone, per anni e anni potentissimo presidente della Cassa forense nazionale, cioè del tesoro dell’Ordine degli avvocati, Conte disse che lui e Alpa non avevano mai collaborato professionalmente e che avevano due studi distinti, uno in un piano di uno stabile romano, l’altro nello stesso stabile ma al piano superiore. Ovviamente non ci ha creduto nessuno. Men che meno noi. Si sa che gli italiani sono molto indulgenti rispetto a queste cose, e la notizia pubblicata all’epoca da Repubblica perchè Conte era il premier della coalizione 5 Stelle-Lega, oggi viene rilanciata dalla rete di Berlusconi e dai giornali dell’area di centrodestra. In paesi come gli Stati Uniti e la Germania, non sarebbe stata necessaria la dimostrazione formale, palmare della bugia. Già quella storia del primo piano e del secondo piano sarebbe stata sufficiente per certificare l’inopportunità grave di un comportamento che aveva portato il professore Alpa ad essere il decisivo componente della commissione che a Santa Maria Capua Vetere aveva sancito l’idoneità di Giuseppe Conte, tradottasi poi in una chiamata per la cattedra di diritto privato all’università di Firenze. E invece stasera Le Iene mostreranno che esiste una sola fattura relativa all’incarico che Alpa e Conte hanno svolto quali avvocati del garante nazionale della privacy e quella sarà la prova provata che i due erano soci di fatto professionali. L’unica cosa che Le Iene avrebbero dovuto fare, con i mezzi che hanno sarebbe stato un gioco da ragazzi acquisire questa informazione, sarebbe stata quella di verificare se quella seduta di esame del 2002, quella commissione eletta con i voti di tutti i professori ordinari italiani di quella specifica materia, sia stata una tantum del professore Alpa. Al tempo preside della facoltà di Giurisprudenza, di quella che si chiamava Sun, cioè seconda università di Napoli, c’era il professore Franciosi. Ebbene, la verifica l’abbiamo fatta noi. Guido Alpa è stato commissario del concorso per professore ordinario di diritto privato alla facoltà di Giurisprudenza di Santa Maria Capua Vetere, una ed una sola volta, cioè quando al concorso partecipò Giuseppe Conte. Che altro dobbiamo dire? Un’altra cosa. Quando Guido Alpa ha lasciato la sua cattedra di ordinario di diritto privato a La Sapienza di Roma, è stato attivato il concorso. Ricordate quando un anno e mezzo fa tutti i telegiornali parlarono dell’impegno che Conte avrebbe dovuto affrontare partecipando ad un concorso? Si trattava esattamente di quello de La Sapienza. Va bè, ma in Italia non succederà niente, perchè funziona così. Se sei frescone, furbino, bugiardino, fai il premier.
Dagospia il 4 dicembre 2019. DA “Un Giorno da Pecora - Radio1”. Se il rapporto con Giuseppe Conte inficia il fatto che il professor Alpa fosse un commissario del suo esame per la cattedra di Caserta? “Se si parla di opportunità, probabilmente il professor Alpa avrebbe potuto non farne parte, per un estremo scrupolo. Se Alpa ne faceva parte si vede che era assolutamente tranquillo. I problemi della politica comunque mi pare siano altri, questo è un tema secondario”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1 è Andrea Mascherin, Presidente del consiglio Nazionale Forense, che oggi è stato ospite della trasmissione condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro.
Conte, duro botta e risposta con Monteleone: "Al limite dovrebbe dire 'lei è un frescone'". Le Iene 6 dicembre 2019. Nel corso di una conferenza stampa a palazzo Chigi il presidente del Consiglio ha attaccato Antonino Monteleone: “Lei dice menzogne, non ho lavorato gratis per Alpa”. Poi lo difende per i vergognosi attacchi subiti sui social. Con Marco Occhipinti la Iena torna sul concorso del 2002 che ha nominato Conte professore ordinario, mostrando nuovi documenti esclusivi. “Perché dice che ho lavorato gratis per Alpa? Al limite dovrebbe dire: ‘lei è un frescone, ha lavorato gratis per il Garante’. Questa è diffamazione”. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha apostrofato così Antonino Monteleone durante una conferenza stampa a palazzo Chigi insieme al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il premier è tornato sul caso del concorso universitario che nel 2002 ha nominato Conte professore ordinario di diritto privato ancor prima che la Iena facesse la sua domanda. Domenica 8 dicembre durante la puntata de Le Iene vi mostreremo le nuove scoperte che abbiamo fatto sul caso del concorso universitario del premier. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci hanno mostrato nuovi documenti esclusivi. Ve ne abbiamo parlato in questo articolo anticipandovi il primo di una serie, che sembrano testimoniare che Giuseppe Conte avrebbe mentito sui suoi rapporti professionali con Guido Alpa, e che dunque quest’ultimo fosse incompatibile per legge nel suo ruolo di esaminatore al concorso. “Lei sta studiando questo caso da molto tempo”, ha detto il premier a Monteleone durante la conferenza stampa. “Ha acquisito tutte le carte possibili e immaginabili, le ho risposto più volte nelle interviste. L’ultima volta per mezz’ora (come potete vedere cliccando qui)”. Poi arriva l’attacco alla Iena: “C’è rimasto male, perché ho visto che ha fatto dei post su Facebook in cui scrive delle cose offensive”. “Impossibile, cose offensive è impossibile”, replica Monteleone. “Io le dico, ma come può scrivere "il presidente Conte ha lavorato gratis per uno dei commissari del suo concorso"?”, ribatte il premier. “Sono venuto a farle una domanda su questo tema presidente”, gli risponde Monteleone. Qui però non c’è spazio per la domanda della Iena, e il presidente del Consiglio dice: “Diciamolo ai cittadini perché credo che ormai tutti sappiano di questo caso”, ha detto Conte. “Se lei si è procurato la lettera di conferimento dell’incarico e ha visto che l’incarico è stato conferito ad Alpa e a Conte… abbiamo sviscerato che un collegio difensivo può essere composto anche da venti avvocati nel civile. Lei ha constatato che eravamo io e Alpa: perché lei dice che io ho lavorato gratis per Alpa? Se l’incarico mi è stato conferito dal Garante, e io non mi faccio pagare come in questo caso perché ritengo di aver svolto attività difensiva non di rilievo, evidentemente non me la sono sentita di fatturare essendo il Garante un ente pubblico. Lei stesso si è fatto dire dal Garante che anche qualche altra volta, dove sono io solo nel collegio difensivo, non mi sono fatto pagare. Anche in famiglia sono sempre stato tacciato di essere poco venale. Anche con altri clienti è capitato di aver lasciato lì qualche fattura e non essermi fatto pagare. Perché dice che ho lavorato gratis per Alpa? Al limite dovrebbe dire: “lei è un frescone, ha lavorato gratis per il Garante”. Questa è diffamazione. Non dovete approfittarvi del fatto che da quando sono presidente del Consiglio ho detto che non avrei mai querelato i giornalisti, perché continuate a scrivere menzogne su menzogne.” “Sono venuto qui per farle solo una domanda”, prova a intervenire Monteleone ma il premier lo interrompe subito senza farlo parlare: “Gliela faccio io la domanda, perché ha scritto questo nel post su Facebook dopo l’intervista di mezz’ora? Lei fa solo domande ma può offendere!”. Il presidente del Consiglio è poi tornato sulle vergognose offese ricevuti sui social network dalla Iena, arrivando persino ad augurargli il cancro, e si è rivolto a questi hater: "Voi potete anche ritenere di difendere la mia posizione, ma offendere Monteleone e i familiari quello no, perché non aggiunge nulla alla civiltà del dibattito". Finalmente c’è spazio per la domanda di Antonino Monteleone, che però è stata tagliata dal sito de La Repubblica che invece aveva riportato il botta e risposta e che quindi vi proponiamo qui: “Siccome è cambiata più volte la sua versione…”. “No, è stata sempre la stessa” replica immediatamente Conte. “Anche questo è offensivo. Quello è un progetto di parcella, non è una fattura. La fattura l’ha emessa solo Alpa perché abbiamo appurato che io al Garante non ho mai fatturato. Quindi non c’è una fattura in comune. Quello che lei tendenziosamente cerca di insinuare potrebbe avere un rilievo se Alpa avesse raddoppiato il suo compenso e quindi si fosse fatto pagare anche per conto di Conte. Quella fattura però prevede solo il compenso di Alpa, Conte ha rinunciato. Se ne faccia una ragione”. “A noi risulta che lei non abbia lavorato gratis per il Garante”, risponde Monteleone. “Ci risulta dai documenti, che ha chiesto all’Autorità di versare anche i suoi compensi sul conto di Alpa, che è stato il suo esaminatore…”. “Ma questa è diffamazione, lei sta insistendo”, ribatte immediatamente Conte. “A noi risulta così”. “Lei è fuori di testa”, sbotta il premier. “Io non ho fattura e non ho chiesto il raddoppio della fattura”. “Le sto chiedendo se Alpa, quando ha fatturato, aveva nelle sue voci delle parti che gli spettavano”, chiede Monteleone. “Lei vuole dimostrare una comunanza di interessi attraverso un progetto di parcella che risale al 2009, e attraverso questo vorrebbe dimostrare una comunanza d’interessi che riguarda il 2002, l’anno del concorso. Dopo sette anni poteva cambiare il mondo, ma non dimostrerebbe mai l’esistenza di una cointeressenza economica del 2002. È un fatto logico: un documento del 2009 non potrà mai dimostrare la cointeressenza di un fatto concorsuale del 2002. Se ne faccia una ragione”. A questo punto Conte si alza e fa per andarsene, mentre Monteleone sta ancora provando a formulare una domanda per lui: “A noi risulta che tra le voci che ha presentato Alpa ci fossero anche la presenza in udienza, che era solo sua. Le chiedo: se Alpa ha incassato i compensi per la presenza in udienza è un problema o no?”. “Il fatto che io abbia partecipato non ha alcun rilievo economico, perché nel processo civile le memorie difensive sono quelle che contano”, risponde Conte che poi se ne va per davvero. Potrete vedere le nuove scoperte di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti nella puntata de Le Iene di domenica 8 dicembre.
Dagospia il 6 dicembre 2019. Il premier Conte non ci sta alle accuse della Iena sulla fatturazione in comune con Guido Alpa, nell'ambito del concorso universitario di Caserta nel 2002. "Lei è fuori di testa", dice l'inquilino di Palazzo Chigi al giornalista in conferenza stampa. "Monteleone, se ne faccia una ragione: non riuscirà a dimostrare una fatturazione in comune con Alpa", ha aggiunto Conte rispondendo alla provocazione dell'inviato della trasmissione di Italia Uno.
Marco Billeci per fanpage.it il 6 dicembre 2019. C’è un passaggio nell’arringa difensiva dell’avvocato Giuseppe Conte di fronte alle polemiche sul concorso con cui l’attuale premier è diventato professore ordinario che rischia di rivelarsi un boomerang. “L’Anac ha detto che non c’è nessun conflitto d’interessi”, ha affermato più volte il premier per ribattere alle accuse circa la presenza del suo mentore Guido Alpa nel collegio che nel 2002 gli assegnò una cattedra all’università di Salerno. I documenti visionati da Fanpage.it, che riportiamo in questo articolo, dimostrano che le cose non stanno proprio così. La vicenda – scoperchiata per la prima volta da Repubblica nell’ottobre 2018 – è stata riportata alla ribalta negli ultimi giorni dalla trasmissione televisiva “Le Iene”. L’innesco del caso, come detto, è la presenza del professor Guido Alpa nel collegio dei docenti chiamati a giudicare i candidati del concorso vinto dall'attuale Presidente del Consiglio. Alpa è considerato il maestro professionale di Conte e ha condiviso per anni con lui l’indirizzo dello studio professionale. I due hanno anche lavorato insieme in diverse occasioni. Secondo “Le Iene”, la collaborazione tra Conte e Alpa andava al di là della condivisione degli spazi e degli incarichi e si configurava invece come un vero e proprio sodalizio economico e professionale. Di conseguenza, Alpa non sarebbe potuto essere uno dei commissari chiamati a giudicare il premier nel suo concorso universitario. Falso, replica Conte che sottolinea innanzitutto come la sua promozione sia avvenuta all’unanimità, per cui il giudizio di Alpa non sarebbe stato decisivo. Ma soprattutto, il premier rivendica che la sua attività professionale e quella di Alpa si siano sempre svolte in parallelo, senza alcun tipo di associazione professionale che avesse potuto gettare l’ombra di conflitto d’interessi sul concorso sostenuto nel 2002 dall’avvocato del popolo. Per avvalorare la sua tesi, Conte nella sua difesa sui media ha citato più volte i pareri sul tema dell’Autorità Nazionale Anticorruzione che lo assolverebbero. L’ultima volta lo ha fatto rispondendo alle domande dell’inviato delle Iene, come documentato nella versione integrale dell’intervista pubblicata sul profilo Facebook ufficiale del premier. “L’Anac ha già detto che non c’è nessuna cointeressenza d’interessi”, dice Conte nel video. L’autorità guidata all’epoca da Raffaele Cantone è stata chiamata a pronunciarsi sul caso a seguito dell’esposto dell’avvocato pesarese Silvio Ulisse. Nel maggio 2019, l’Anac risponde all'avvocato Ulisse, con una lettera che ricalca le conclusioni a cui è giunta l'istruttoria in merito al concorso universitario sostenuto da Conte. Nella lettera, che pubblichiamo integralmente, si sottolinea come la vicenda riguardi “fatti molto risalenti nel tempo e, in quanto tali, nemmeno modificabili in autotutela”. In pratica, si prende atto dell’impossibilità di intervenire sull’esito di un concorso che si è tenuto ormai 17 anni fa. Di conseguenza, l’autorità riguardo al procedimento “ritenendo preclusa qualunque possibile valutazione nel merito, ne ha disposto l’archiviazione”. L’Anac dunque non ha mai detto che tra Conte e Alpa non c’era conflitto d’interessi. Più semplicemente, l’organismo anticorruzione ha valutato come sia ormai impossibile modificare il corso degli eventi e quindi si è fermato prima di pronunciarsi sul merito della questione. Se parlassimo di un processo, si tratterebbe di prescrizione e non di assoluzione. Conte nella sua difesa chiama in causa in realtà anche un'altra delibera dell’Anac. Si tratta di un documento del marzo 2017 in cui Raffaele Cantone afferma che “ai fini della sussistenza di un conflitto di interessi fra un componente la commissione di concorso e un candidato, la collaborazione professionale o la comunanza di vita […] deve presupporre una comunione di interessi economici o di vita tra gli stessi di particolare intensità e tale situazione può ritenersi esistente solo se detta collaborazione presenti i caratteri della sistematicità, stabilità, continuità tali da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale.” Questo parere, tuttavia, si limita a fissare dei criteri generali di incompatibilità fra esaminante ed esaminato, riguarda una vicenda distinta da quella che ha coinvolto il premier ed è comunque precedente allo scoppio della vicenda Conte-Alpa. L’unico pronunciamento dell’Anac sul caso specifico è quello rivelato adesso da Fanpage.it. Non condanna Conte, ma nemmeno lo assolve. Sul caso del concorso grazie al quale Conte è diventato professore ordinario si era espresso, nell’ottobre del 2018, anche il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone. Che affermava: “Conte dà una spiegazione plausibile. Il fatto che un soggetto possa scrivere un libro insieme o si trovi a essere co-difensore in un procedimento non integra di per sé gli estremi della comunione di interessi”. Un giudizio, quello di Cantone, che è diverso dal parere dell’autorità, che sostanzialmente non entra nel merito. Cantone sottolinea ancora: “Abbiamo provato a spiegare che non basta l’esistenza di un rapporto fra maestro e discente, c’è bisogno di una comunione di interessi economici”. Un concetto ribadito qualche giorno dopo: “Una collaborazione sporadica e l’ufficio condiviso non bastano per stabilire che vi sia comunanza di interessi tra lui e il prof Guido Alpa”.
Concorso universitario di Conte e caso Alpa: nuovo documento esclusivo. Le Iene il 10 dicembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sul concorso universitario del 2002 che ha fatto diventare Giuseppe Conte professore ordinario di diritto privato. Guido Alpa, suo commissario d’esame, ma anche avvocato incaricato insieme a Conte in una causa civile, era incompatibile nel giudicarlo e promuoverlo? Ecco due nuovi documenti che smentirebbero la versione del premier e confermerebbero l’incompatibilità di Alpa. Con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti torniamo a chiederci se il concorso universitario del 2002 che ha nominato Giuseppe Conte professore ordinario di diritto privato sia stato viziato dall’incompatibilità di uno dei suoi esaminatori, il professor Guido Alpa. E se il premier non abbia mentito più volte da un anno a questa parte per difendere la regolarità di quel concorso.
Lo facciamo nel servizio in onda a Le Iene stasera a Le Iene dalle 21.15 su Italia 1. Un servizio nel quale vi mostriamo in esclusiva due nuovi documenti, la seconda parte del progetto di parcella con la lista delle prestazioni svolte in una causa civile del 2002 e l'unica parcella emessa per quell'incarico, che dimostrerebbero ulteriormente l’incompatibilità di Guido Alpa a giudicarlo in quel concorso. Ve ne abbiamo parlato nelle precedenti puntate della nostra inchiesta, nella quale vi abbiamo raccontato che Guido Alpa, oltre che commissario d’esame di Giuseppe Conte, sarebbe stato incaricato di difendere insieme a lui il Garante della Privacy in una causa civile al Tribunale di Roma contro la Rai. E che a causa di questo incarico comune quindi sarebbe stato incompatibile nel giudicarlo al concorso universitario, che ha portato Conte a salire sul gradino più alto della carriera universitaria. Qualche giorno fa vi abbiamo mostrato un documento esclusivo, la prima parte del progetto di parcella di quella causa civile del 2002, in cui difendevano il Garante della Privacy. Una causa nella quale, lo ricordiamo, sono stati incaricati per la difesa, l’avvocato Giuseppe Conte e il professor Guido Alpa, con un'unica lettera d'incarico, un unico protocollo e indirizzata allo stesso indirizzo dello studio Via Sardegna 38 di Guido Alpa, fatto che smentirebbe le dichiarazioni del premier che aveva sostenuto che all'epoca avrebbe avuto uno studio con locali e affitti separati, al piano di sopra da quello di Alpa a piazza Cairoli. Mentre poi Alpa avrebbe raccontato che nel 2002 l'allora giovane di belle speranze Giuseppe Conte era suo ospite nel suo studio a via Sardegna. Avevamo pubblicato in esclusiva un progetto di parcella compilato su carta intestata e firmata da entrambi, con la richiesta di pagamento dell’intera cifra di 26.830,15 euro su un unico conto corrente, di una filiale di Genova di Banca Intesa. Il tutto appunto firmato sia da Alpa che da Conte. Perché mai, ci siamo chiesti, l’avvocato Conte avrebbe dovuto firmare questo progetto di parcella se, come ha sostenuto ai nostri microfoni, lui con quelle prestazioni non aveva niente a che fare e se in più lui dal Garante alla Privacy non intendeva farsi pagare? Oggi pubblichiamo un nuovo documento esclusivo che potete leggere qui, ovvero la seconda parte di quel progetto di parcella, clamoroso per il suo contenuto perché smentisce la ricostruzione dei fatti data dal premier dopo il nostro servizio della scorsa settimana. Tra qualche ora poi pubblicheremo in esclusiva la testimonianza di una figura di rilievo delle istituzioni, che smentirà anche lui le dichiarazioni del premier. Anche il documento che vi mostriamo adesso, ancora una volta, parla chiaro ed elenca nel dettaglio le voci delle prestazioni per le quali è stato richiesto il pagamento: c’è la partecipazione alle udienze dal valore di 416 euro, la precisazione conclusioni, stimata 103 euro, l’assistenza all’udienza conteggiata per 2.160 euro e la discussione in pubblica udienza valutata 1.392,50. Oltre che tante altre voci, che tutte insieme sembrano essere il totale delle prestazioni fornite al cliente dai due avvocati. Non a caso l'elenco delle competenze si trova su una carta intestata a nome di Alpa e Conte e come dicevamo è firmata da entrambi. L'altro documento che vi mostriamo è la parcella poi emessa da Guido Alpa, importante come prova, perché ci consente di notare come il totale fatturato da Alpa corrisponda con il totale delle voci delle prestazioni indicate nel progetto di parcella cofirmato da Alpa e Conte. Secondo tutti gli esperti del settore interpellati dalle Iene, il progetto di parcella sembra dare un'indicazione chiara al Garante: paga tutte le competenze qui elencate su uno stesso conto corrente. La lettura di questi due documenti va incrociata con un'altra documentazione esclusiva trovata dalle Iene: i verbali di 5 udienze di quella causa del 2002, dai quali si evinceva che in primo grado avesse presenziato in aula quasi sempre Giuseppe Conte, mentre tutte le volte in cui il giovane avvocato era presente, non lo era invece il suo collega anziano e già molto affermato Guido Alpa. Il presidente del Consiglio aveva sostenuto come nel corso del primo grado della causa a cui si riferisce quella parcella, lui non avesse svolto attività difensiva di rilievo e aveva deciso dunque di non farsi pagare dal suo cliente, l'Autorità per la Protezione dei dati Personali. Ma se è vero che non si è fatto pagare, allora come si spiega la seconda pagina di quel progetto di parcella, che contiene voci di prestazioni svolte durante le udienze a cui partecipò solo Giuseppe Conte? Perché quelle prestazioni sono state inserite nella lista delle competenze da pagare, con tanto di corrispettivo economico determinato per ognuna di quelle voci? E se non fossero state prestazioni da lui eseguite perché mai anche Giuseppe Conte firmò anche lui quel progetto di parcella? Come avrà giustificato ai microfoni di Antonino Monteleone questi due nuovi documenti esclusivi che abbiamo trovato?
Conte e il concorso universitario: Cantone smentisce il premier. Le Iene il 10 dicembre 2019. Torniamo sul caso del concorso universitario con cui Giuseppe Conte è diventato professore ordinario di diritto privato: pubblichiamo la nostra telefonata con Raffaele Cantone, ex presidente dell’Anac, che smentisce la versione di Conte sul parere dato dall’Autorità anti corruzione. E vi mostriamo anche quel parere di Anac. Tutto nel servizio di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Torniamo sul concorso universitario di Caserta, che nel 2002 ha affidato a Giuseppe Conte la cattedra di professore ordinario di diritto privato. Vi mostriamo un nuovo documento esclusivo e con la telefonata a Raffaele Cantone, ex presidente di Anac, che di fatto smentisce la versione di Giuseppe Conte. Quel concorso, come vi abbiamo raccontato durante le precedenti puntate dell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, potrebbe essere stato viziato da incompatibilità. A giudicare Conte, infatti, tra i commissari d’esame, c’era il suo mentore e amico Guido Alpa. E proprio il professor Alpa, abbiamo scoperto, poco prima di quell’esame avrebbe lavorato a una causa civile, insieme a Giuseppe Conte, per difendere l’Autorità garante della Privacy. Vi avevamo mostrato un primo documento esclusivo, il progetto di parcella per quella causa: su carta intestata a entrambi e con la richiesta di pagamento dell’intera cifra di 26.830,15 euro su un unico conto corrente intestato ad Alpa di una filiale di Genova di Banca Intesa. Il tutto firmato da entrambi. Sull’importo della fattura, Conte aveva detto, nel corso di una infuocata conferenza stampa: “Lei forse non lo sa, ma gli enti pubblici devono farsi pagare ai minimi tariffari. Quella quindi è una fattura sicuramente ai minimi tariffari che prevede solo il compenso di Alpa. Conte ha rinunciato, se ne faccia una ragione”. Avevamo allora pubblicato anche la seconda parte di quel progetto di parcella, un documento in cui compare la lista delle prestazioni che i due professionisti indicano come svolte e che chiedono all’autorità di pagare su un unico conto corrente. Nella lista delle prestazioni da fatturare sono indicate le voci che riguardano sicuramente anche il lavoro svolto da chi ha partecipato alle udienze. A proposito di queste ultime vi avevamo mostrato anche i verbali di 5 udienze, dai quali risultava evidente che in primo grado Conte avesse quasi sempre presenziato in aula, tranne una volta in cui era stato sostituito. Giuseppe Conte, a proposito di quell’incarico legale e della presenza in udienza, aveva però dato un’altra versione: “Dico la verità ero in un periodo particolarmente impegnativo, per altri fronti, perché mi stavo consolidando nel mondo universitario della ricerca eccetera e quindi l’attività difensiva se l’è fatta, intendo dire quella seria, più solida, quella più impegnativa, se l’è fatta Alpa… e io ho fatto l’udienza quando ero libero, io non credo di essere stato a tutte le udienze, comunque diciamo quando davo una mano…”. Nella seconda parte del progetto di parcella le voci pagate sono indicate con chiarezza: c’è la partecipazione alle udienze dal valore di 416 euro, la precisazione conclusioni, stimata 103 euro, l’assistenza all’udienza conteggiata per 2.160 euro e la discussione in pubblica udienza valutata 1.392,50. Che in generale si tratti di prestazioni svolte anche da Giuseppe Conte sembra certificato dal fatto che c’è la sua firma sul progetto di parcella. Perché mai allora, ci chiediamo, l’avvocato Conte avrebbe dovuto firmare un progetto di parcella con l’elenco delle prestazioni fornite da un altro avvocato, se lui con quelle prestazioni non aveva niente a che fare? Ma c’è ancora un altro punto molto importante da chiarire, ovvero il presunto parere di Anac, l’Autorità nazionale anti corruzione, sul caso del concorso universitario del 2002. Giuseppe Conte a questo proposito ci aveva detto: “A parte che questo l’ha valutato già l’Anac, ha detto che non c’è nessuna, cointeressenza di interessi… io avevo la mia attività professionale, Alpa aveva la sua attività professionale, Alpa aveva uno studio professionale a quell’epoca…” Antonino Monteleone e Marco Occhipinti hanno deciso allora di sentire proprio Raffaele Cantone, all’epoca presidente dell’Anac, per cercare di fare chiarezza una volta per tutte (la telefonata con il presidente Cantone potete ascoltarla nel video che pubblichiamo in alto). Monteleone chiede: “La chiamavo perché sto cercando di capire se l’autorità quando ai tempi in cui lei era presidente fu formalmente incaricata di esprimere un parere sulla questione del concorso dell’avvocato conte prima di diventare presidente del consiglio”. Raffaele Cantone risponde così: “Sì, ci fu un esposto, mi pare di un’associazione di consumatori. Noi facemmo un intervento di carattere procedurale, dicemmo che in realtà si trattava di una vicenda non recente per i quali il nostro intervento di qualunque tipo sarebbe stato irrilevante visto che nei confronti di quel concorso nessun atto amministrativo poteva essere fatto”. Lo potete giudicare voi stessi, leggendo il parere di Anac, a questo link. Appare quindi evidente, almeno stando alle parole di Cantone e al documento esclusivo che pubblichiamo, che Giuseppe Conte non avrebbe detto il vero quando ha affermato che l’Anac si era pronunciata “escludendo la comunanza di interessi economici”. Monteleone prosegue: “Lei fece anche un’intervista a Radio Capital nell’ottobre del 2018, nella quale disse ‘effettivamente è plausibile la spiegazione del presidente Conte, se è vero come lui sostiene che hanno, emesso fatture separate per l’incarico del 2002’”. “Io avevo detto semplicemente che mi sembrava plausibile la spiegazione che aveva dato”, aggiunge Cantone. La Iena lo incalza: “L’unica cosa che volevo capire è se due professionisti che usano una carta intestata comune che firmano entrambi un progetto di parcella possono definirsi due professionisti che svolgono incarichi distinti e separati”. La risposta di Raffaele Cantone è assolutamente inequivocabile: “Certamente i fatti emersi sono diversi da quelli che erano stati rappresentati all’epoca, però io non me la sento di esprimere un giudizio. L’unica cosa che mi sento di dirle è che ovviamente rispetto alla situazioni che io vissi all’epoca le cose sono cambiate, quindi all’epoca lui aveva dato una giustificazione. Oggi le cose sono cambiate”.
· Concorsi su Misura: Ad Personam.
Dalle mazzette al lavoro, così è cambiato il sistema delle tangenti. Stefano Elli ilsole24ore.com il 16 Maggio 2019. La raccomandazione, in Italia, non è certo una novità. La Treccani la definisce come: «Intercessione in favore di una persona, soprattutto al fine di ottenerle ciò che le sarebbe difficile conseguire con i mezzi e i meriti propri o per le vie ordinarie». Vecchio, inossidabile, vizio nazionale. Dagli atti giudiziari delle ultime inchieste per corruzione (l'ultima, ma non solo, quella della Procura di Milano che ha coinvolto alcune municipalizzate lombarde e il sistema degli appalti in Regione) sembrano emergere alcune novità. Ai potenziali corrotti non vengono più soltanto versate le celebri «mazzette», quelle classiche, avvolte in carta di giornale, quelle che, per intenderci, fecero scoppiare il caso Tangentopoli. Oggi si offre lavoro. Non solo per sé, ma per i propri cari: figli, mogli, amanti, consanguinei. Oppure consulenze inesistenti, mascherate in modi più o meno maldestri. Tangente come segno tangibile di un abbruttimento epocale che vede piegarsi un diritto, anzi, Il Diritto Fondativo della Repubblica, in un mero strumento di pagamento: come a dire: «io ti offro i miei servigi e il mio prezzo è il lavoro dei miei cari». Oppure, ancora, come nell'ultimo caso di cronaca che ha portato agli arresti domiciliari il sindaco leghista di Legnano, Gianbattista Fratus, la neo assessore alle Opere Pubbliche Chiara Lazzarini e in carcere il vicesindaco (e assessore al bilancio), Maurizio Cozzi, entrambi di Forza Italia, lavoro offerto per pilotare affari. In questo caso si è trattato di “piazzare” ai vertici apicali di aziende municipalizzate strategiche, dei “vertrauensmenschen”, degli uomini di stretta fiducia. Come? Semplice: truccando i bandi per le loro assunzioni. Una degenerazione che non è soltanto penalmente rilevante ma pure socialmente avvilente. Una modalità già vista, per fare un altro esempio, negli atti del «caso Montante», in Sicilia, dove i magistrati sospettano che funzionari dello Stato considerati “infedeli” nulla abbiano chiesto per sé, se non un lavoro per le consorti. Del resto un modo per pagare deve pur esserci: procurarsi contanti con la normativa antiriciclaggio in vigore è sempre più complicato. A uno degli indagati dell'inchiesta milanese che chiede denaro al suo presunto corruttore (per andare in ferie), questi risponde che 2.000 euro deve «prenotarli» e al posto dei contanti gli consegna la carta di credito. Accanto a queste forme, certo, permangono quelle classiche dazioni ambientali che transitano su conti esteri cifrati verso paradisi penali che resistono inossidabili a qualunque pressione internazionale, nonostante tutte le modifiche normative a cominciare dallo scambio automatico di informazioni. Ma il lavoro come «mazzetta», certo, è un cambio di passo.
Tangenti e assunzioni in cambio di voti: arrestato il sindaco leghista a Legnano e due assessori di FI. Azzerata la giunta. Giambattista Fratus e due assessori di Forza Italia sono stati arrestati con l'accusa di turbativa d'asta e corruzione elettorale. Nominato un commissario. Carmelo Schininà TGla7 il 17 maggio 2019. C'è il comune di Legnano, storica roccaforte leghista, al centro dell'inchiesta della procura di Busto Arsizio che ha travolto la giunta comunale, già scossa a marzo dalle dimissioni di 13 consiglieri, di minoranza e dissidenti leghisti. Arrestati il primo cittadino Giambattista Fratus, il vicesindaco e assessore al bilancio Maurizio Cozzi in quota Forza Italia e l'assessore forzista alle opere pubbliche Chiara Lazzarini. Sindaco e assessore sono ai domiciliari, in carcere invece il vicesindaco. Sono accusati di aver modificato bandi di gara su misura per candidati selezionati ad hoc. Un'amministrazione che più che fare gli interessi pubblici avrebbe curato i propri attraverso un sistema che - scrive il giudice per le indagini preliminari "individuava persone gradite e manovrabili e verosimilmente riconoscenti in futuro della scelta operata". Undici le persone indagate per tre episodi di gare, secondo i magistrati, turbate, come l'assunzione del nuovo direttore generale della municipalizzata Amga che si occupa di rifiuti, strade pulite e infrastrutture. "Un volta che si individua la persona, basta. Fa La Gara, finito!" dice intercettato il vicesindaco Cozzi che insieme alla Lazzarini avrebbe selezionato parallelamente alla gara ufficiale gente che reputava di fiducia. Cozzi avrebbe anche tentato di favorire la nomina del suo commercialista per una consulenza contabile in un'altra municipalizzata, la Europa Service, chiedendo al direttore generale di modificare il bando di concorso su misura. nel faldone delle intercettazioni c'è anche una telefonata in cui la Lazzarini riporta frasi pronunciate dal sindaco, nelle quali spunta il nome del vicepremier Salvini. Fratus è indagato anche per un episodio di corruzione elettorale: l'ipotesi di un baratto, un pacchetto di voti per un posto nel cda di un'altra municipalizzata per la figlia di un candidato alle amministrative del 2017 che era stato escluso al primo turno.
Concorsi pubblici: lo scandalo dei presunti bandi "ad personam" e la lista nera. Dalla giustizia alla sanità, fino alla PA, le conseguenze di un controsenso tutto italiano. it.blastingnews.com il 12 marzo 2017. Chi partecipa ad un concorso lo fa generalmente per superarlo dopo il consapevole sacrificio di dover studiare e prepararsi per molti anni, nella speranza di conquistare l’agognato posto fisso. Le aspettative dei concorsisti si scontrano però con una inequivoca dura realtà: il bando il più delle volte è perfettamente calibrato per reclutare esclusivamente determinati concorrenti. Trattasi di un fenomeno che incarna un’anormalità tutta italiana. Un recente esempio viene proprio dalle diverse selezioni pubbliche delle Forze armate : quelle dei 559 agenti di polizia di Stato, quello per allievi agenti della Polizia Penitenziaria, quello per marescialli del ruolo ispettori dell’Arma dei carabinieri, il concorso per allievi marescialli della guardia di finanza, dei carabinieri in ferma breve. La lista è assai lunga proprio perché il solito bando all’italiana incarna un’occasione perfetta per sistemare parenti e amici o tutti quei fortunati che hanno la sfrontatezza di pagare il commissario di turno corruttibile.
Quasi tutti i concorsi pubblici, come recentemente evidenziato anche dal presidente dell’ANAC Cantone sono ginepraio di corruzione, affari di famiglia e sospetti di malaffare. In questi casi a nulla servono le commissioni per la trasparenza, i comitati e movimenti che dovrebbero preservare e garantire l’integrità, la legittimità, il corretto svolgimento del concorso. Se a monte i requisiti oltremodo specifici impediscono di fatto l’accesso a chi non li ha, a valle l’effetto che ne consegue non può essere che quello di una procedura selettiva che preclude ai più bravi e meritevoli l’opportunità di partecipare e vincere. Basti ricordare come non sono pochi i concorsi indetti da molte università Italiane che regalano puntualmente cattedre al nipote o parente di turno, in spregio alla legge ed alle procedure concorsuali in ambito sanitario volti a procurare un ingiusto vantaggio ad alcuni concorrenti “pre-selezionati”. Ancora una volta dunque una disparità di trattamento tra tutti i potenziali candidati. Fra le motivazioni nascoste dietro ai bandi pubblici c’è soprattutto la stabilizzazione del personale precario, vuoi che si tratti di dirigenti, di dipendenti, semplici impiegati o funzionari. Un recente articolo del Quotidiano.it ha infatti denunciato la situazione dei precari idonei, ma anche dei vincitori non ancora assunti, che ammonta a quota oltre 151mila. Un esercito di giovani e meno giovani, che per ora grazie ad un emendamento alla legge di bilancio 2001 si è visto congelare le graduatorie fino al termine dell’anno 2017. Fra i precari ci sono però anche quelli che lavorano negli enti pubblici per più anni spesso senza aver neppure partecipato ai concorsi. Per intendersi quelli che dopo aver svolto il perfezionamento nell’ufficio del processo (circa 1500) si vedono attribuire 6 punti, alla fine del superamento di tutte le prove concorsuali come previsto dal recente bando per 800 assistenti giudiziari nel quale si richiede il solo diploma come titolo di partecipazione. Che sia anche questo un bando ad hoc volto a stabilizzare gli ex 1500 tirocinanti una volta per tutte? Bando 800 cancellieri e CONSOB: i vincitori saranno tutti precari? Infine come non segnalare il recente bando della Consob rivolto solo a chi ha un diploma di maturità ed ha maturato un’esperienza pregressa non inferiore a 7 anni, nelle PA, presso la Banca d’Italia o presso altre Autorità amministrative indipendenti. Anche qui è forte il sospetto di un concorso ad hoc per sistemare definitivamente la ridottissima platea di chi per 7 anni ha già svolto mansioni esecutive nella PA. Benché non è sempre ovvio che chi indice il concorso lo faccia esclusivamente a immagine e somiglianza di uno o pochi candidati, prima o poi deve arrivare il momento della pubblicazione della graduatoria finale. Solo allora si saprà se si è trattato solo di una coincidenza o se invece i dubbi erano fondati.
Concorsi su misura, le università ignorano le sentenze che ordinano di rifarli daccapo. Il Tar contro l'ateneo di Pescara: "Riformulate il bando o arriva il commissario". Unical difende il vincitore dopo tre interventi del tribunale amministrativo. I casi di Firenze, Pisa, Tor Vergata, Catania. Corrado Zunino il 7 maggio 2018 su La Repubblica. Cresce il contenzioso nelle università italiane. Lo segnala l’Autorità nazionale anticorruzione, lo confermano le sentenze in calendario nei Tribunali amministrativi regionali. Sale la ribellione di dottorandi e ricercatori, umanisti e medici nei confronti della gestione dei concorsi negli atenei, della prassi che offre corsie preferenziali agli interni: i bandi cuciti su misura di un candidato voluto dal Dipartimento, gradito al presidente di commissione. “Da una parte c’è una presa di coscienza più forte degli studenti e dei professionisti migliori”, ha già detto Raffaele Cantone, presidente dell’Anac, “dall’altra qualcuno usa il ricorso come mantello alla propria impreparazione”. La risposta di molte università alla contestazione crescente è quella di disattendere le sentenze dei Tar e dei Consigli di Stato. Lasciarle in sonno. Gli atenei, di fronte a indicazioni precise dei giudici amministrativi, non fermano i risultati dei concorsi censurati in tribunale, non riformulano i giudizi sui vincitori, non rifanno le commissioni. Lo scorso 28 aprile il Tar di Pescara, all’ennesimo rinvio silenzioso dell’Università di Pescara e Chieti su un concorso in Medicina, ha inviato l’ultimatum: “Avete 15 giorni di tempo per provvedere al riesame dei titoli dei candidati e formare una commissione diversa, fatta di docenti esterni ed estratti a sorteggio”. Pena, l’arrivo di un commissario. L’ultimatum scade tra cinque giorni. La questione ha visto il Tribunale annullare la selezione per Pediatria organizzata nel 2016: il presidente di commissione aveva redatto il verbale post-concorso in solitudine facendolo approvare agli altri due membri successivamente, via mail. Il Tar ha ordinato una nuova prova, che l’università non ha mai messo in piedi. Il presidente si è limitato a trascrivere i vecchi verbali e a riproporli. Scrive il Tar: “Nelle nuove carte sono stati integralmente riprodotti i criteri precedentemente formulati e i giudizi attribuiti sulla base di quei criteri. È del tutto inverosimile che la commissione abbia proceduto, anche questa volta, a un riesame in modo collegiale”. Di fronte “a una palese violazione del giudicato della prima sentenza”, il Tar ha chiesto all’ateneo di verbalizzare “gli interventi di ciascuno nelle riunioni collegiali”, di stilare “una tabella in cui per ciascun criterio debbano essere indicati i titoli di entrambi i candidati e le proposte motivate di ciascun commissario” e, quindi, di rinominare i giudici. “Tutti i membri dovranno essere sostituiti e la nuova commissione dovrà essere composta da tre professori di prima fascia esterni all’ateneo e individuati tramite sorteggio”. L’Università in queste ore ha scritto al ministero dell’Istruzione: dateci voi i tre nomi per rifare il concorso, “poi procederemo spediti”. La denuncia del chirurgo Pierpaolo Sileri, sfociata in un processo per tentata corruzione nei confronti del rettore dell’Università di Roma Tor Vergata, Giuseppe Novelli, poggia anche su un verdetto del Tar del Lazio non rispettato. Il concorso per un posto da associato in Chirurgia del febbraio 2015 era stato trasformato silenziosamente in una chiamata diretta, visto che non era stato reso pubblico. È dovuto intervenire il Consiglio di Stato per sancire in seconda istanza: “La funzione delle norme è quella di rendere edotti dell’esistenza della procedura anche soggetti diversi da quelli individuati autonomamente dagli organi universitari, al fine di accordare loro una chance di partecipazione”. Il vecchio concorso è stato fermato, il nuovo non è stato neppure calendarizzato. Oggi Sileri è senatore dei 5 Stelle. Nel caso del ricercatore di Storia contemporanea Giambattista Scirè, l’Università di Catania – e questa è un’altra strategia di un ateneo che non accetta il candidato imposto dal Tar o, semplicemente, non vuole rivedere le proprie decisioni – ha interpretato la sentenza del Consiglio di giustizia siciliano in modo parziale, conveniente: non ha assunto il vincitore di Storia secondo legge, Scirè appunto, né ha allontanato l’architetta maldestramente premiata. L’ateneo ha concesso al contestante quattro mesi di lezioni, poi lo ha rimesso su strada. Kafkiana la storia del concorso di Economia aziendale all’Università di Pisa. Giulia Romano, con l’aiuto del marito docente, ha registrato la combine organizzata per un posto da professore ordinario, il Tribunale amministrativo ha chiesto il dietrofront e imposto una nuova selezione. L’Università ha avviato il bando bis, ma fin qui ha incassato otto rinunce: docenti con altri impegni. Ad oggi, integrazione dopo integrazione, la nuova, scottante prova non vede la luce. E l’avvocato della Romano moltiplica le diffide all’ateneo. L’Università della Calabria ha provato a risolvere in maniera gattopardesca il concorso di Storia della Filosofia in cui era stato riammesso un candidato che già aveva presentato titoli falsi. Unical ha avviato il terzo rifacimento della selezione: la seconda in classifica è stata retrocessa al terzo posto e il terzo è stato spinto al secondo. Il vincitore contestato, Christian Vassallo, è rimasto il vincitore. Il Tar locale ha annullato il terzo tentativo di sartoria applicata, ma il candidato straordinariamente voluto dal Dipartimento resta in Dipartimento. Dopo la denuncia del dottore di ricerca Andrea Bulleri, il Tribunale amministrativo di Firenze – come si legge nella lettera inviata dall’Osservatorio indipendente dei concorsi universitari anche al presidente della Repubblica - ha sottolineato “la manifesta illogicità e travisamento” della valutazione dei titoli da parte del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze. Il ruolo era da ricercatore in Progettazione architettonica. Il Dipartimento ha preso atto, ha riconvocato la stessa commissione (compresi i due membri andati in pensione), ma sostanzialmente ha riconfermato i punteggi. Al Consiglio nazionale delle ricerche si è andati oltre. Il Tar del Lazio ha disposto il riesame dei titoli di fronte al ricorso della chimica Clara Maria Silvestre. La commissione ha formalmente accettato, ma quando è passata alla rivalutazione per il posto da dirigente di ricerca ha introdotto nuovi criteri. E, quindi, ha riproposto la graduatoria che ha escluso la ricorrente Silvestre. “È da sottolineare”, scrive l’Osservatorio indipendente, “che la commissione ha assegnato ad alcuni candidati vincitori punteggi superiori ai limiti da essa stessa fissati e ha valutato positivamente titoli non posseduti, ma semplicemente autocertificati”.
Come funzionano i "concorsi su misura" nelle università. L. Evangelista il 13 luglio 2018 su orientamento.it. Un articolo pubblicato oggi su Il Corriere della Sera spiega in che modo le commissioni vi valutazione riescono ad aggirare le procedure e ad assumere candidati che sono già stati scelti. Ad esempio (cito dall’articolo): "Nel 2015 l’Università di Roma 3 bandisce un concorso di II fascia (professore associato) nel settore di filosofia morale. La cosiddetta legge Gelmini sul reclutamento permette di specificare il profilo del docente esclusivamente tramite uno o più settori disciplinari. Se vuoi assumere un traduttore, non puoi cioè specificare «deve aver tradotto Guerra e pace» ma soltanto la lingua richiesta. Filosofia morale, dicevo. All’articolo 1 del bando, però, spunta il «particolare riguardo» alla cittadinanza, al confine, allo spazio e perfino al potere della filosofia francese, tedesca e italiana contemporanea (sic). L’università è un microcosmo e i settori disciplinari sono dei quartieri in cui più o meno si conoscono tutti o è facile risalire ai residenti. Tra gli abilitati, ce n’è uno che ha pubblicato libri come Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida e Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica. Suonano familiari? L’autore è il predestinato. Il concorso è stato cucito su di lui. Alcune settimane più tardi, trionferà sugli altri sventurati che hanno fatto domanda." L’autrice dell’articolo suggerisce, vista la situazione, di permettere la chiamata diretta abolendo i concorsi (semplice "perdita di tempo e soldi") e creare meccanismi punitivi per università che reclutano personale inadeguato. Una soluzione è abolire il valore legale del titolo di studio, il fatto cioè che una laurea presa alla Bocconi valga a fini legali quanto una laurea presa in una università agli ultimi posti per qualità dell’insegnamento. E ugualmente, subordinare la gran parte dei finanziamenti pubblici a ogni università alla qualità della didattica e della produzione scientifica.
· I bandi per addetti stampa, «fatti su misura».
Aeroporti di Puglia, polemiche su bando per addetti stampa, «fatto su misura». Il consiglio dell'Ordine chiede la revoca del bando. La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Ottobre 2019. Il consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Puglia chiede «l'immediata revoca del bando" per l’assunzione a tempo determinato di due addetti stampa pubblicato da Aeroporti di Puglia «e la redazione di uno nuovo che elimini le discriminazioni», ritenendo «inaccettabili» i requisiti previsti «che tradiscono l’ennesimo bando sartoriale di una società a totale controllo pubblico». La società aeroportuale pugliese ha pubblicato nei giorni scorsi un bando per 12 mesi destinato alla selezione di due giornalisti professionisti iscritti all’Albo da almeno 5 anni e richiedendo, tra gli altri requisiti, l’età inferiore ai 50 anni e lo stato di disoccupazione certificato da almeno 6 mesi. «Non si possono discriminare i colleghi - scrive l’Odg in una nota - in base all’età anagrafica o se iscritti nell’elenco pubblicisti o professionisti».
MARMO (FI): PROCEDURA OPACA - Sulla vicenda del bando degli Aeroporti di Puglia per l’assunzione a tempo determinato di due addetti stampa è intervenuto anche il presidente del gruppo consiliare di Forza Italia, Nino Marmo, che parla di «criteri decisamente opachi» nel bando perché «rivolto a chi è iscritto nelle liste di disoccupazione dell’Inps». «Peccato, però - dice Marmo - che si richiedano due giornalisti, regolarmente iscritti nell’elenco dei professionisti: i giornalisti senza lavoro, infatti, non si iscrivono all’Inps, ma nell’istituto della loro categoria, ovvero l’Inpgi. Nessun giornalista si iscriverebbe all’Inps, a meno che non lo sappia in tempo utile». Marmo continua rilevando che «tra i requisiti preferenziali c'è quello di aver fatto esperienze in società ed enti che svolgono attività nell’ambito dei trasporti pubblici, specie aeroportuali» e ricorda che «quest’estate due giornaliste hanno fatto un tirocinio proprio in Aeroporti di Puglia. Uno stage estivo di cui nessuno ha mai saputo niente perché non se ne è data notizia». «Vogliamo vederci chiaro - conclude Marmo - anche perché una delle due giornaliste è la moglie di persona nota per aver collaborato con il sindaco di Bari, Antonio Decaro, alle ultime elezioni comunali».
M5S CHIEDE CHIAREZZA - «Chiarezza» sul bando per l'assunzione a tempo determinato di due addetti stampa pubblicato da Aeroporti di Puglia viene chiesta dalla consigliera regionale del M5S Antonella Laricchia, che annuncia "una richiesta di audizione» e la «revoca dello stesso, come fatto anche dall’Ordine dei Giornalisti». «I requisiti preferenziali - spiega Laricchia - ci lasciano più di un dubbio. Non vorremmo trovarci davanti all’ennesimo caso di un bando cucito su misura. Purtroppo, le precedenti esperienze in fatto di nomine non ci possono far stare tranquilli». Laricchia evidenzia alcuni dei requisiti sospetti, come «l'iscrizione ai Centri per l’Impiego invece che alle liste dei giornalisti disoccupati dell’Odg o dell’Assostampa», «una premialità a chi ha avuto un’esperienza pregressa in una società o ente che svolge attività nell’ambito dei trasporti pubblici, preferibilmente aeroportuali», «l'iscrizione all’elenco dei professionisti da almeno 5 anni, l’età non superiore ai 50 anni, la redazione di articoli su giornali online, agenzie di stampa e quotidiani nazionali. Non si capisce l’esclusione di quotidiani locali e tv». «Sappiamo - conclude la consigliera pentastellata - che AdP non è tenuta a seguire le norme per i concorsi che si applicano agli enti di diritto pubblico in quanto SPA, ma essendo una società interamente controllata dalla Regione pretendiamo la massima trasparenza. Vigileremo sui risvolti di questo bando e auspichiamo, intanto, che non finisca per premiare persone vicine alla vecchia politica».
ADP: CERCHIAMO GIORNALISTI DI VALORE - «Con riferimento alla nota diffusa dal Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia circa le modalità di selezione di due giornalisti», Aeroporti di Puglia precisa che «i requisiti richiesti sono esclusivamente riferiti alla necessità di avvalersi di professionalità di alto valore e comprovata esperienza; che il limite di età indicato risponde alla necessità di selezionare risorse che a giudizio di Aeroporti di Puglia possano garantire la più ampia disponibilità in ordine alle particolari esigenze di mobilità e articolazione del servizio; che la scelta di indicare tra i requisiti richiesti l’iscrizione all’elenco dei professionisti risponde unicamente alla volontà di avvalersi di giornalisti che svolgano in esclusiva tale attività professionale». Nel «ribadire la correttezza del proprio operato», Aeroporti di Puglia, «in linea con la trasparenza e correttezza cui sono sempre stati improntati i rapporti con l’Ordine, l’Assostampa e gli Organi di informazione, comunica la propria disponibilità a valutare una riapertura dei termini di presentazione delle domande finalizzata a chiarire con l’Ordine dei Giornalisti di Puglia e Assostampa i criteri di selezione di cui al bando in oggetto».
· I Navigator nominati.
Concorso navigator al via, ma è già a rischio per la raffica di ricorsi. Pubblicato lunedì, 17 giugno 2019 da Michele Schinella su Corriere.it. Era uno dei 20 mila candidati a cui è stato impedito di partecipare al concorso per navigator in base al voto di laurea, ma il giudice del lavoro del Tribunale di Catania, proprio alla vigilia delle prove che vedranno impegnati a Roma il 18, 19 e 20 giugno circa 60mila candidati, lo ha rimesso in gioco. È solo un provvedimento cautelare d’urgenza, ma potrebbe far scivolare nel caos il concorso per reclutare i 3.000 esperti fortemente voluti dal Movimento 5 Stelle e dal ministro del Lavoro e vice premier Luigi Di Maio per aiutare i destinatari del reddito di cittadinanza a cercare e trovare il lavoro. Davanti ai giudici del Lavoro della penisola, infatti, pendono decine di ricorsi, il cui esito ormai arriverà a prove svolte, mentre tutti gli altri esclusi sono ancora in tempo a imitarli e affidare la possibilità di guadagnarsi un posto di lavoro alla carta bollata. Trentamila euro all’anno lordi per due anni avevano indotto 80 mila persone munite di laurea in diverse specialità (unico titolo richiesto dal bando) ad avanzare domanda di partecipazione al concorso organizzato e gestito dall’Anpal, Agenzia nazionale politiche del lavoro, società pubblica interamente partecipata dallo Stato italiano. Circa un quarto di aspiranti navigator, però, sono stati privati della possibilità di cimentarsi nelle prove e di mostrare il loro valore in base al voto di laurea, che è divenuto una sorta di requisito specifico e ulteriore di ammissione. Il fine? Limitare il numero dei partecipanti all’unica prova selettiva e velocizzare la procedura, che già di per sé per come è stata strutturata è velocissima: un test a risposta multipla di 100 domande, chi totalizza il punteggio più alto vince. Legando la possibilità di partecipare al concorso al voto di laurea, di fatto la si è affidata al caso. Poiché ciascun candidato all’atto della domanda poteva concorrere solo per una provincia e gli ammessi al concorso sono stati definiti a livello provinciale in proporzione al numero dei posti messi in palio (20 ammessi per ogni posto bandito), è accaduto che azzeccando la provincia «giusta», alcuni candidati sono stati ammessi pur avendo un voto di laurea più basso di altri che avendo beccato la provincia «sbagliata» sono rimasti tagliati fuori. Il giudice del Lavoro di Catania, Giuseppe Tripi, ha valorizzato quest’ultimo paradosso: «La concreta ammissione dei singoli candidati finisce per dipendere da fattori casuali, aleatori e non predeterminabili, quali sono quelli dipendenti dal numero di candidati che avranno richiesto di partecipare in relazione a ciascuna provincia, con conseguente svilimento del requisito del più alto voto di laurea, diversamente valorizzato a seconda del contesto provinciale di riferimento», ha motivato nel decreto adottato inaudita altera parte. Gli avvocati Santi Delia e Michele Bonetti, autori del ricorso al momento vincente, commentano: «Il giudice ha accolto in pieno le nostre argomentazioni. Qui è accaduto qualcosa di più grave e clamoroso ma già solo il voto di laurea non può tagliare fuori dalle prove i candidati». Che l’uso del voto di laurea a fini preselettivi potesse minare la tenuta dello stesso concorso non era rischio del tutto imprevedibile. Di recente (nel febbraio del 2019), ma prima ancora che il bando per navigator fosse pubblicato, era stato il Tar del Lazio a bocciare il voto di laurea quale criterio di limitazione alla partecipazione ai pubblici concorsi. Lo aveva fatto giudicando della legittimità di un concorso per ingegnere bandito dall’Enac, l’ente nazionale aviazione civile: «La previsione di un ulteriore requisito di accesso alla relativa procedura selettiva (oltre alla laurea, ndr), non può dunque fondarsi sulla semplice volontà dell’ente di limitare preventivamente il numero dei partecipanti al concorso. È, infatti, evidente che l’Enac abbia inteso introdurre un illegittimo indice selettivo, correlato ad un predeterminato obiettivo di preparazione culturale degli aspiranti concorrenti, con il fine precipuo di escludere dalla partecipazione al concorso i soggetti che abbiano ottenuto risultati meno brillanti nel corso degli studi universitari, per di più adottando un parametro (il voto di laurea) che, a ben vedere, potrebbe non rappresentare un indice attendibile di preparazione del candidato, dipendendo esso da un rilevante numero di variabili (tra gli altri, il tipo di laurea conseguito e presso quale Università)», scrissero i giudici amministrativi. I legali Delia e Bonetti aprono scenari non del tutto rassicuranti per coloro che usciranno vittoriosi dalle prove: «Poiché in questa vicenda è il giudice del Lavoro a dover decidere se è legittimo che il solo voto di laurea consenta o meno la partecipazione alla selezione, non opera il termine di decadenza (di 60 giorni) per la proposizione dell’azione al Tar ed il concorso avrà, ove i ricorsi vengano accolti, delle code importanti di prove suppletive per i 20.000 soggetti esclusi». Insomma, al termine delle tre giornate di concorso i vincitori non si potranno sentire pienamente vincitori e gli esclusi potranno ancora nutrire speranze da giocarsi in eventuali prove suppletive. Tutto questo per non aver voluto organizzare un’altra giornata di prove, da aggiungere alle tre già in programma.
Fiorisce il grande business per un posto da navigator. Al via oggi il «concorsone»: fra corsi di formazione e spese per l'alloggio può costare 1.500 euro ai candidati. Giuseppe Marino, Martedì 18/06/2019, su Il Giornale. Quanto vale il sogno di un lavoro? Tanto, a giudicare dal business che si è sviluppato intorno al concorsone per i navigator al via oggi alla Fiera di Roma. C'è chi ha speso fino a 1.500 euro. Può sembrare paradossale che un'offerta di impiego così specifica, sulla carta, e per di più a tempo determinato, sia riuscita ad attirare un numero così alto di potenziali concorrenti (ben 79mila). Il punto è che l'Anpal, l'agenzia del ministero del Lavoro a guida 5 Stelle che gestirà la selezione, ha individuato requisiti molto ampi: una nutrita serie di lauree, da Economia a Pedagogia. E ancora: l'esperienza non solo non è richiesta, ma è sconsigliata, perché a parità di merito, passa il più giovane. E infine i posti a disposizione sono stati suddivisi su base provinciale, lasciando pensare agli aspiranti navigator che non si renderà necessario nemmeno lasciare la propria città, o perlomeno la provincia. La fretta con cui è stata gestita la selezione, la vaghezza dei criteri e dei temi dei 100 quiz e l'abbondante partecipazione intanto hanno generato gli appetiti di una collaudata macchina che vive a ricasco dei concorsi pubblici sebbene da un punto di vista legale e organizzativo, la prova per i navigator, bandita dall'Anpal che è una società per azioni, sebbene al 100 per cento pubblica, sia ben diversa da un vero e proprio concorso. Buona parte dei cento quiz sono piuttosto vaghi: prove attitudinali, cultura generale, logica, informatica. Poi c'è una sezione sul reddito di cittadinanza, alcune altre sulle politiche del lavoro e lo scoglio economia aziendale. Con un programma così vasto, e generico, società di formazione serie e altre più improvvisate si sono lanciate sulla torta della speranza. Fioccano i corsi on line con costi abbastanza contenuti, dai 100 ai 150 euro. Sono stati dati frettolosamente alle stampe anche manuali appositi, sebbene rimanga il dubbio di come si possa condensare un simile vasto campo del sapere in un solo volume. Eppure c'è chi ha sborsato la bellezza di cinquanta euro per aggrapparsi alla solidità della carta stampata. E per chi invece ha voluto investire sul serio, sono nati anche una miriade di corsi di formazione. Il costo è decisamente più elevato, da 250 a 500 euro. Una mazzata per molti giovani speranzosi ma anche disoccupati più cresciuti che hanno voluto tentare la sorte spinti dal miraggio di uno stipendio che, con i rimborsi spese, potrà arrivare ai duemila euro al mese. In zona Fiera di Roma, lungo la strada per Fiumicino, c'è chi lucra anche sull'alloggio. Nonostante la struttura sia ben lontana dal centro di Roma, i prezzi per una stanza sono lievitati a 200 euro a notte. C'è già un ampio plotone di delusi: 25mila candidati scartati per il voto di laurea troppo basso. Ed è nato il business intorno a chi non si rassegna. Avvocati che offrono ricorsi individuali o collettivi a prezzi tra i 500 e i 1.500 euro. E qualcuno ha già sbattuto contro il muro del Tar. «Alcuni colleghi si sono rivolti ai tribunali amministrativi che si sono dichiarati non competenti perché la società è una Spa - dice l'avvocato Francesco Leone, noto specialista di Palermo - noi abbiamo scelto di rivolgerci al tribunale ordinario. È stato tutto organizzato con una gran fretta: a me una prova preselettiva basata solo sui titoli di studio non è mai capitata».
"Io, in coda sotto al caldo per...Io, in coda sotto al caldo per diventare Navigator, in mezzo a un'Italia perduta". Giovani laureati, perfino con master all'estero. Cinquantenni da sempre precari. Mamme con neonati. Padri e figli insieme. Tutti a fare il concorsone per due anni di co.co.co., in un immenso padiglione romano dove si misura il fallimento di questo Paese. Tommaso Ederoclite il 21 giugno 2019 su L'Espresso. Tra le oltre 70 mila domande inviate per partecipare al concorso per i cosiddetti Navigator c’era anche la mia. Circa due settimane fa ho letto l’elenco delle persone ammesse alla prova e sono stato convocato per i quiz che hanno come scopo quello di selezionare coloro che dovrebbero in futuro “aiutare” i fruitori del reddito di cittadinanza a trovare lavoro. Non pensavo che per un co.co.co di nemmeno due anni arrivassero tante domande. Possibile che per un contratto precario ci siano 70 mila laureati pronti a litigarsi un ulteriore percorso lavorativo incerto? A quante pare sì.
Sono le nove, ci sono due turni per le prove, quello della mattina e quello pomeridiano. Il mio turno è quello delle 14:30. Prima di partire apro il cellulare e giro un po’ sulle decine di gruppi e forum che sui social in queste settimane si sono confrontati sul concorso. È impressionante il numero di persone che ogni minuto postaun commento, un pensiero, una paura, una spiegazione o pone una domanda sul contenuto della prova. Dividono i soldi della benzina o del pedaggio autostradale, si mettono d’accordo sul pranzo, condividono le stanze di un B&B o di un albergo. Tanti selfie di ragazzi in partenza, sorridenti come se stessero andando in gita. Dai treni, dalle auto, negli autogrill.
Decido anche io di mettermi in auto. Arrivo all’uscita nord della Fiera di Roma intorno alle 11:30. Appena imbocco la via del parcheggio vedo le auto in fila per entrare. Il parcheggio è interamente al sole. Oggi la giornata è torrida. La temperatura della macchina segnala 36 gradi. C’è gente che aspetta nel parcheggio e cerca refrigerio come può. Ci sono alcuni ragazzi che si sono organizzati con un lenzuolo tenendo gli sportelli di due auto aperti pur di fare ombra. Vado verso l’entrata e attraverso il parcheggio vedo da lontano una piccolissima piazzola di erba all’ombra sotto il cavalcavia che porta verso l’entrata principale della Fiera. Affollatissima. Ci sono persone sedute sull’erba con testi e appunti appoggiati sulle gambe. Alcuni ragazzi riposano sdraiati su un plaid. Altri seduti in cerchio discutono e ognuno di loro ha il suo testo tra le mani. In questo gruppo intravedo una carrozzina, seduta a terra di lato c’è la mamma. Mentre dondola il piccolo legge delle domande dal cellulare e il ragazzo seduto di fronte a lei, presumibilmente il suo compagno, cerca di rispondere ai quesiti che gli vengono posti.
Salgo il cavalcavia, le scale mobili sono rotte. Centinaia e centinaia di ragazzi seduti a terra sui lati a formare un corridoio umano attorno a quelli a che stanno uscendo dal turno precedente. Gli appunti sono ormai diventati dei ventagli, e qualcuno inizia a lamentarsi ad avere paura di malori per la troppa afa. Il caldo sul cavalcavia è aumentato dal tetto in plexiglass. Una gabbia di calore. I cancelli sono ancora chiusi. Decido di parlare con qualcuno e mi avvicino a un uomo sulla cinquantina in piedi davanti a me. Gli chiedo se sta aspettando da molto, mi risponde che è lì dalla mattina presto. Sento un accento meridionale, gli chiedo di dov’è. Mi risponde orgoglioso «siciliano». Gli chiedo chi ha accompagnato. Lui sorride e mi risponde che è lui a essere lì per il concorso. Mi scuso mortificato, lui mi poggia la mano sulla spalla e mi risponde sorridendo: «Nemmeno tu sei più così giovane». Due lauree, una in lettere ed una in psicologia. Lavoro precario come professore, e altre attività presso associazioni. Mai un posto fisso. Ecco chi ho davanti. Perché un uomo più che maturo, con una alta formazione, una preparazione culturale e titoli di ogni genere è lì, a cinquant’anni, su un cavalcavia in plexiglass, sotto un sole che sfiora i 40 gradi a competere per un biennio da precario?
Aprono i cancelli e, scendendo le scale, dall’alto vedo un fiume di persone infinito. I flussi del primo turno che escono e del secondo turno che entrano creano un colpo d’occhio di una folla che non ricordo di aver mai visto, se non al concerto dei Depeche Mode, forse. Mentre scendo le scale ascolto una conversazione tra un padre ed una figlia. Lei 25 anni, lui è poco più grande di me. Sono entrambi qui per il concorso. Discutono sulle strategie per rispondere al meglio ai quiz. Inizia l’estenuante fila per il primo ingresso. Dopo circa venti minuti riesco a passare ed entro in un enorme padiglione dove si fanno i riconoscimenti delle carte d’identità e delle domande informatizzate. In questo padiglione incontro un ragazzo che non vedevo dai tempi dell’università. Quarant’anni, una laurea in Sociologia. In questi anni ha fatto prima il coordinatore di una comunità per minori difficili, oggi invece è docente di sostegno privato per ragazzi disabili. Gli chiedo come mai partecipa a l concorso. Mi risponde secco: “sai, il posto fisso”. Gli faccio notare che un semplice co.co.co di due anni. Mi risponde speranzoso “per ora meglio di niente”. Poco più avanti mi si avvicina un giovane sorridendo, mi saluta calorosamente ma non lo riconosco subito. Poi metto a fuoco. Era un allievo a qualche mia lezione all’università di Napoli. Oggi con la sua laurea lavora presso un bene confiscato alla Camorra nelle zone di Casal di Principe. Tra le conversazioni nella fila ascolto una ragazza che racconta di essere partita in pullman il giorno prima da Reggio Calabria e di aver lasciato la bambina di 6 mesi ai nonni. Racconta che è laureata in Scienze dell’Educazione e che ora ha un contratto a tempo indeterminato in un centro commerciale. «E tu lasci un lavoro a tempo indeterminato per uno precario?», le chiede una. «Certo», risponde lei, «meglio questo che finire a piegare magliette dopo aver studiato tanti anni». Mentre insieme a questi due amici ritrovati, continuiamo a fare la fila per arrivare al padiglione dove si terrà la prova. Il mio disagio, il senso di inquietudine inizia a fondersi con la rabbia. Una rabbia livida, intensa. Ho intorno a me migliaia di persone che tra lauree, dottorati, master, perfezionamenti ed esperienze all’estero rappresentano il meglio del nostro Paese, sotto tutti gli aspetti. Sono qui, tutti a camminare lentamente, seguendo le indicazioni degli organizzatori sul dove andare. Tutti in maniera silenziosa, tesa, nevrotica, quasi spaventata. Sono davanti alla dimostrazione plastica che in questi decenni trascorsi intere generazioni hanno vissuto in una sorta di limbo lavorativo, senza una strada precisa, cercando di costruire il proprio futuro attraverso le strade più disparate, il più delle volte lontane dalla loro reali competenze e senza sicurezze di nessun tipo. Né economica e né sociale, né emotiva e né affettiva. Cosa è successo a queste persone? Come mai quasi due e più generazioni sono rimaste indietro?
Arriviamo finalmente nel padiglione della prova. A occhio ci sono circa 3 mila persone, mentre altre continuano ad entrare. Si sente una voce che parte da un microfono che invita le persone al silenzio e ad accomodarsi ai posti indicati dagli organizzatori.
Dopo circa un’ora tra preparazione, spiegazione, consegna dei plichi e dei questionari, inizia la prova. L’intero padiglione entra in un silenzio inquietante. Si sente solo il rumore degli enormi condizionatori. E i passi degli organizzatori che camminano lentamente, tra i banchi, a controllare che non ci siano furbi a copiare o sbirciare risposte da qualche foglio. 100 minuti, 6000 secondi per rispondere a 100 domande che vanno dal mercato del lavoro al Jobs Act, dal reddito di cittadinanza alla logica, fino ad arrivare a chiederti dove si trovano Melfi o Empoli. Finita la prova, la voce dello speaker lentamente dà le indicazioni per l’uscita. Inizia il flusso di ritorno.
La fila per l’uscita è diversa. È inquieta e più silenziosa. Dalle facce si riesce a capire chi era soddisfatto della prova e chi meno. C’è una ragazza che piange, altre cercano di consolarla. «Ho sbagliato tutto», dice lei. Un altro ragazzo invece urla «’ho indovinata» alzando il pugno dopo aver guardato il cellulare. La cosa per uscire è talmente lunga che non riesco a vederne l’inizio e la fine. Mi rivedo nelle file in bianco e nero del film “La folla” di King Vidor, o in quelle ancora più inquietanti di “1984” di Orwell. E mi sento come Moretti in “Ecce Bombo”, ammaccato. Non faccio altro che ripetermi: come ci siamo ridotti così? E non parlo delle persone in fila, loro sono le vittime. Parlo di un mercato del lavoro che ha creato una marginalità sociale, economica, psicologica, emotiva. Un sentimento collettivo che taglia e incide su una fascia di età che va dall’uomo di 50 anni al neo-laureato di meno di 25. Queste generazioni avrebbero dovuto ribellarsi, dire che è un loro diritto avere “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del proprio lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”, come recita l’art. 36 della Costituzione, e che il destino beffardo e cinico ha voluto che fosse una delle domande del quiz. C’è qualcosa di profondo che non ha funzionato nei decenni trascorsi. Intere generazione di professionisti e lavoratori intellettuali che hanno fatto sacrifici, speso soldi, investito in risorse umane e personali non hanno avuto e non hanno ancora le opportunità che meritano. È un allarme sociale enorme. Che è sfuggito non alle analisi ma alla politica. Mentre abbandoniamo il padiglione re incontro i due amici visti prima di entrare. Gli chiedo come ritornano a casa. Entrambi rispondono “in treno”. Offro un passaggio. Accettano entrambi. Prendere un regionale è molto più scomodo di un viaggio in auto, vale la pena perdere il biglietto. Ci mettiamo in auto, perdiamo un’ora solo per uscire dal Grande Raccordo Anulare.
In auto si parla di figli, di politica, di futuro, ma la rabbia e l’incertezza restano. Accendo la radio, c’è un ministro che parla del concorso Navigator come la svolta per il lavoro in Italia. Spengo la radio, in auto cala il silenzio, inizia a fare buio.
Tommaso Ederoclite, 42 anni è dirigente locale del Pd a Napoli in Campania e blogger dell'Espresso.
Domenico Parisi, l'inventore dei "navigator". Intervista all'uomo che in un solo anno rivoluzionerà il mondo dell'occupazione in Italia, partendo da un'app e dai CPI. Luca Telese il 16 agosto 2019 su Panorama.
«Guardi qui!».
Il suo cellulare?
«No, non il cellulare: questa applicazione».
Al centro dello schermo c’è un numero molto grande, 44 mila e rotti. Cosa è?
«(Sorriso). Sono i posti di lavoro disponibili, in questo preciso momento, in Missisippi. Domani potrebbero essere di più o di meno».
E come funziona?
«Come quando cerchi una pizzeria dove ordinare una cena su una app di consegne. Solo molto più sofisticato».
Facciamo una prova.
«D’accordo: tu sei legato con il tuo nome, diciamo che sei Mimmo Telese».
La app ha il tuo curriculum e i tuoi dati anagrafici, professionali e lavorativi.
«Ovviamente. Diciamo che Mimmo Telese vuole fare il saldatore. E lo vuole fare a Jackson.
Metto il mio nome, indico la località e...
«Vede? Gira una clessidra, passa meno di un minuto e abbiamo il nome di cinque ditte».
Incredibile.
«La app è profilata in modo tale da dirti: dove è il posto di lavoro, quali sono le condizioni contrattuali, quanto è il monte ore che devi lavorare e - soprattutto - quanto è lo stipendio che viene offerto».
In questa prima opzione 2 mila dollari, l’ultima arriva a 3 mila.
«(Sorriso solare). È il mercato del lavoro! Allora il nostro Mimmo Telese manda una mail, riceve una risposta con un appuntamento, va a farsi i colloqui e sceglie».
Sembra troppo bello.
«Funziona così. L’80 per cento dei lavoratori del Mississippi che usa questa app ha trovato un impiego».
È il suo famoso software! Quello per trovare lavoro.
«(Allarga le braccia). Proprio lui».
Hanno detto che lei è venuto dall’America in Italia, a dirigere l’agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro, per vendere questo brevetto.
«Grazie per la domanda, che mi permette di rispondere subito a questa diceria: è una sciocchezza colossale, una balla».
Perché non è vero che lei lo vuole vendere?
«Ma si figuri! Venire in Italia è stata per me una perdita economica. Ma al tempo stesso una arricchimento d’esperienza professionale impagabile».
E quindi?
«Uno che torna in Italia perché vuole essere utile e restituire qualcosa al Paese dove è nato si mette a vendere il software alla società per cui lavora come presidente? È una follia solo pensarlo. E poi c’è un’altra cosa».
Me la dica.
«Il software non è nulla. Non è un brevetto. Il fattore rivoluzionario di questo sistema sono i dati».
Ma lei pensa davvero che si può ripetere tutto questo in Italia?
«E perché non dovrei? Qui ci sono più soldi, più risorse, più ricchezza».
Non si sente troppo ottimista? I centri per l’impiego sono a pezzi.
«Non è vero».
No?
«Senta, io li sto girando uno a uno. Non tutti sono disorganizzati come si dice. Molti funzionano già, altri hanno bisogno di essere riorganizzati. Ma partiamo da un’ottima base».
Quanti anni pensa che serviranno?
«(Sorriso). Anni? Noi non abbiamo tutto questo tempo. Ci dobbiamo mettere mesi».
È serio?
«Ho già riorganizzato Anpal servizi. Adesso mi occuperò dei centri. E ora sono arrivati i navigator».
La grande polemica. De Luca dice che non li vuole.
«Spero che il governatore della Campania ci ripensi presto. I navigator sono forze giovani, entusiasmo, cultura. Li abbiamo scelti così. E adesso li formiamo».
Lei riuscirà a ripetere il miracolo del Mississippi?
«(Sorriso). Dobbiamo riuscirci».
Mimmo Parisi, professore ed esperto di lavoro. Luigi Di Maio lo ha scelto, corteggiato, strappato allo Stato più povero d’America, il Mississippi, dove partendo da zero - e grazie al software di cui avete letto - ha costruito il modello di domanda e offerta che ha rivoluzionato il mercato del lavoro. Adesso vuole replicare in Italia. Di Maio, con un lapsus simpatico lo definì «italo pugliese». In realtà, è un italo americano con alle spalle una storia da romanzo d’altri tempi. Orfano, emigrato, uomo pervaso di ottimismo incredibile e prodotto di un mix fra orgoglio terrone e spirito reaganiano. Solo la sua biografia spiega il suo ottimismo e la sua ambizione. La scorsa settimana ha riunito per la prima volta i suoi navigator, tra musiche dei Queen, discorsi e fiducia incrollabile nel metodo: «Saranno le persone che andranno a cercare i lavoratori per ricongiungerli al lavoro. Saranno la scintilla che accende il circuito».
Cosa faceva suo padre?
«(Sospiro). Mio padre? Non lo conosco».
Davvero?
«Nulla, zero: non so cosa facesse, non l’ho mai incontrato in vita mia, non so se lui sappia che esisto».
Ma come è possibile?
«Mia madre non mi ha mai raccontato nulla di lui, è stata una sua scelta. Mi diceva soltanto, quando ero bambino: «Tu sei frutto di questo mio amore. Il primo grande amore di tua madre».
Sembra la parafrasi della canzone di Lucio Dalla, 4 marzo 1943: «Diceva che era un uomo/veniva dal mare». È stato un dramma per lei?
«Lasciamo perdere. È troppo complesso. È la chiave di tutta la mia vita. È un nodo con cui mi confronto da tutta la vita».
Come e quando ha trovato il modo di convivere con questa assenza?
«(Sorriso). Mai.
Mai?
«È stata la prima grande lezione che ho avuto dalla vita. Quello che non puoi controllare devi imparare a gestirlo. Nel bene o nel male, ma devi».
Si riesce?
«Ma guardi che la mia infanzia non è una storia lacrimevole. Per me, nel mio ricordo, è un periodo bellissimo e felice. Oggi posso dire che questa esperienza mi ha anche arricchito».
Cosa vuol dire prima di tutto essere «orfano», per lei.
«Apprezzare più di chiunque altro il valore della famiglia».
Però lei non riesce a vivere la sua infanzia neanche con sua madre.
«No. Si immagini una ragazza madre, negli anni Sessanta, senza soldi, al Sud».
Cosa fa?
«Sceglie di emigrare, a vent’anni. E se ne va al Nord».
Come si chiama?
«Lucia: oggi lei ha 74 anni. E fece una scelta per lei importante, che ha cambiato la mia vita».
Quale?
«Capì che non avrebbe potuto mantenermi e crescermi da sola, a Milano, e nel frattempo lavorare. E così mi mise in un orfanotrofio, dopo aver cercato una struttura in cui sarei stato accolto nel miglior modo possibile».
Quanti anni aveva?
«Appena nato. Poi all’età tre anni sono stato trasferito nel Villaggio Sos a Ostuni».
E com’era?
«Per un’incredibile coincidenza fui il primo bambino a entrare in questo progetto innovativo, che si discostava dagli istituti tristi che abbiamo in mente tutti».
In che senso?
«Era un modello basato sulle case famiglia, su un clima familiare, su istitutrici che erano molto simili a dei genitori per l’amore e per la cura che ci dedicavano».
Funzionò?
«Pensi che ancora oggi c’è una targa in quel villaggio dedicata a quel primo bambino: «La casa Mimmo». Diventai mio malgrado un modello».
E che ricordo ha di quegli anni?
«Una delle esperienze più belle, più formative e più felici della mia vita».
Chi era la donna che si prese cura di lei?
«Si chiama Lina. Io la considero a tutti gli effetti una madre. Ed ecco il primo paradosso della mia vita: ho due madri».
E c’è stata anche una figura maschile di riferimento?
«Sì, si chiama Giancarlo Corrado. Era uno degli «amici del villaggio» di cui le parlavo, quello che si è preso cura di me. Oggi a 76 anni. Non è curioso? Nato senza un genitore importante, oggi me ne ritrovo tre».
Per lei quest’uomo è stato come un padre?
«Oh sì! È stato il primo navigator della mia vita. Le basti sapere che quando faccio la scelta più importante di tutte, ed emigro in America, ci vado accompagnato da lui. È il genitore che mi ha portato per mano in una nuova vita».
E cos’è un navigator?
«È qualcuno che ti rende comprensibile la complessità del mondo».
Che scuola superiore sceglie?
«(Sospiro). Ecco il punto. Io avrei voluto fare il liceo classico. Ma la scuola in cui ero, il contesto del Sud...»
Pensano che per un orfano fosse troppo?
«Pensano che quella sia la scuola giusta per i figli della borghesia. Mentre io devo studiare qualcosa che mi garantisca un lavoro subito. E così mi iscrivono all’istituto tecnico agrario».
Ha sofferto per questa scelta?
«No, era destino. Quella formazione mi ha dato tante cose che hanno fatto di me l’uomo che sono».
Per esempio?
«Il senso concreto della vita, lo spirito pragmatico».
Con quanto si era maturato?
«(Ride). Col massimo: 60 sessantesimi. Io vorrei trasmetterle lo spirito con cui studiavo. Pensavo già a cosa avrei fatto dopo. Pensavo che non potevo permettermi di sbagliare perché non avevo nessuna rete protettiva».
E va lavorare presto?
«Per tutto quello che le ho detto, inizio a 16 anni, mentre sono a scuola».
E cosa fa?
«Prima imbianchino e manovale, poi muratore, ma anche agricoltore e poi pizzaiolo».
Per qualche mese?
«Per sei anni. E immodestamente posso dirle che ero bravo».
Quale è il segreto del mestiere?
«Una cosa molto importante, per tutto quello che ho fatto dopo. Il pizzaiolo lavora sulla preparazione. Quando inforni le pizze sei già alla fine del tuo lavoro».
Perché?
«Perché il segreto di una pizza è nell’impasto.
E come le piace di più? Grossa o fina?
«A me piace fina. Ma ho avuto un maestro napoletano, la so fare grossa, buonissima e ben lievitata».
Dove lavorava?
«Al ristorante Il Castello, vicino a Piacenza. Ma questo viene dopo».
Tuttavia lei sceglie di iscriversi all’università.
«Era un desiderio troppo grande, per me. Il mio riscatto sociale. In questo Giancarlo mi sostiene e mi aiuta».
E che facoltà sceglie?
«Agraria: mi laureo con una tesi sullo sviluppo delle comunità, e festeggio con una serata memorabile in pizzeria».
Al Castello?
«Glielo ho detto: ho trovato molte famiglie lungo la mia strada».
Che anno era?
«Il 1992: era agosto, avevo 26 anni».
E qui lei decide di emigrare, perché? Laureato, in un’università del Nord, si era ricongiunto a sua madre. Perché?
«Non è che non trovassi un impiego... come spiegarle?»
Ci provi?
«Diciamo così. Il modo in cui io mi volevo porre nella vita, non era quello che l’Italia degli anni Novanta mi offriva».
Perché lei era già «americano» nelle sue aspirazioni?
«Sì, io ero cresciuto nel mito dell’American dream».
E come lo tradurrebbe, se lo dovesse spiegare a un giovane di oggi?
«Il sogno americano è l’idea che nulla e nessuno, tranne te stesso, può mettere un limite alla tua vita.
Ci crede ancora?
«Io sono una delle prove che questo è possibile. È l’essenza della democrazia americana, ed è un valore in cui io mi riconosco».
In Italia lei non aveva particolari simpatie politiche, in America sì. Come è possibile?
«In America sono conservatore. Sono repubblicano».
E cosa significa?
«Decidi come individuo se veramente vuoi contribuire a cambiare le cose. E poi fallo».
Come definirebbe tutto questo?
«In due parole. È lo spirito reaganiano».
Arriva in America da studente?
«Con una borsa internazionale di 30 mila dollari».
E le bastano?
«Nooo! Non scherziamo. Porto con me i risparmi della mia vita».
Lei aveva risparmiato così da tanto da studente imbianchino pizzaiolo? Non ci credo.
«Deve crederci. Non avevo speso nulla per me.
Non un cinema? Non una vacanza?
«Glielo ho detto. Ero figlio di nessuno e avevo un obiettivo».
Nell’università americana fa subito carriera.
«Vengo assunto come ricercatore a sociologia, nel 1998, a 35 mila dollari l’anno».
E sua madre?
«Veniva a trovarmi ogni anno».
E Giancarlo?
«Come le ho detto mi ha portato negli Stati Uniti. Faceva il direttore amministrativo di una Usl».
Lei diventa sociologo, esperto di demografia.
«La persona esiste perché esiste un sistema».
Il giovane Mimmo entra nel sistema americano, e trova anche moglie.
«Michelle, la fortuna della mia vita. È lei che mi ispira tutti i giorni a fare quello che faccio».
Come l’ha conosciuta?
«(Risata). È imbarazzante! Nel più classico dei riti americani, l’happy hour.
Lo racconti.
«Finisce la settimana lavorativa e alle 17 ci troviamo tutti a bere e a chiacchierare. È quello che facciamo negli Stati Uniti, ogni venerdì».
E in un happy hour lei trova Michelle?
«L’ho vista. Sono rimasto folgorato. Non le ho mai tolto gli occhi di dosso. Dopo una settimana eravamo usciti insieme».
E inizia a lavorare però il governo.
«Vengo coinvolto in un programma di ricerca sul lavoro, per elaborare dati sullo sviluppo economico».
Perché il Mississippi vuole scrollarsi di dosso la sua povertà.
«Ho la fortuna di conoscere due grandi governatori: Barbour e Bryan. Inizio a lavorare sui dati, la mia specialità».
Cos’ha imparato?
«I dati sono una ricchezza non sono uno scarto. Sono come il petrolio. La società del terzo millennio sarà guidata da una unica bussola, un unico potere: la produzione e dal consumo dei dati».
E all’epoca cosa le dicevano?
«Mi prendevano per matto!
Come si fa a portare nello Stato più povero d’America la Nissan?
«È stata una scommessa. Che poi abbiamo ripetuto con la Toyota. Il Mississippi è uno Stato piccolo che ha solo 3 milioni di abitanti e una economia essenzialmente agricola. Poteva competere con New York e con la Florida?»
Dire di no.
«E invece sì. Sa come? Grazie ai dati».
Mi spieghi con un esempio.
«Eccolo. C’è un’equazione nei processi aziendali: per ogni assunto devi avere esaminato almeno 30 persone qualificate per quel lavoro.
Certo».
Se tu però hai i dati, questa equazione, che ovviamente ha anche un costo, può essere abbattuta.
«Ma dietro i dati ci devono essere le persone. E noi le abbiamo trovate! Il cuore del mio sistema è la formazione: ti preparo, ti connetto e ti sostengo».
Cosa ha imparato in quegli anni?
«Un’altra grande lezione della mia vita: «Devi sempre dimostrarti più grande di quello che sei»».
E cosa devono diventare i centri per l’impiego italiani?
«I pilastri di questo sistema: i nuclei contenitori del capitale umano. Il lavoro c’è sempre. Ma deve trovare la sua strada.
Come può pensare di riuscire a ripetere il miracolo in Italia?
«Perché ho iniziato con una ricognizione. Perché sto girando ovunque. E le dico che pochi giorni fa ero a Prato. E quel centro già funziona».
Cosa abbiamo in Italia da cui partire?
«Tutto. Abbiamo le risorse e i saperi. Abbiamo la cultura, la creatività, l’intelligenza».
Cosa ci manca?
«Fino a ieri? La volontà e la certezza di poter riuscire. Se lei ora gira con me per i corridoi di Anpal tutto questo lo trova».
In quanto vedremo i primi risultati?
«In meno di un anno. È una promessa».
Ma come è arrivato sulla poltrona che ricopre oggi?
«Una coincidenza del tutto fortuita».
Racconti...
«Avevo fatto un intervento in un convegno alla «Sapienza», dove raccontavo questo modello...»
Finisce tra gli applausi.
«E qualcuno mi dice: «È il futuro, devi parlare con Luigi»».
E lei capisce che era Di Maio?
«(Risata sonora). Io non avevo mai sentito nominare Di Maio. Non sapevo neanche che cosa fossero i Cinque stelle. Le uniche stelle che conoscevo erano quelle degli alberghi, ah ah ah».
In che periodo siamo?
«Settembre 2018. Mi presentano Di Maio».
E cosa le dice?
««Quello che hai fatto in America tu lo devi venire a fare qui da noi»».
E lei gli crede?
«No. A ottobre mi richiama e mi dice: «Mimmo, vuoi diventare presidente dell’Anpal? Ci devi aiutare»».
E lei?
«Io fino all’ultimo non lo volevo fare.
Come ha fatto a convincerla?
«Mi ha detto: questa è la tua restituzione. Questo è quello che puoi fare per il tuo Paese. E poi: «Mi dai un anno della vita»».
E a questo punto?
«C’erano di mezzo una bandiera e il mio orgoglio. È stata una sfida. E io l’ho accettata».
Michelle cosa le ha detto?
««Se lo vuoi fare, devi farlo»».
Ha avuto dei dubbi?
«Dopo tutte le accuse che io ho subito, secondo lei sarei rimasto, se non credessi in quello che faccio?»
Crede ai navigator, assunti con un contratto precario?
«Certo. Quei ragazzi vogliono lavorare, essere protagonisti, raccogliere la sfida, crescere».
Ma non li ha scelti lei.
«Abbiamo costruito il modello selettivo con cui sono stati selezionati. Ho detto: «Voglio persone capaci di pensare». E questi sono giovani, intelligenti, laureati. Sono l’energia che cambia il mondo».
E adesso?
«Me li formo uno a uno».
Non mi ha risposto sulla precarietà.
«È una sciocchezza. Tutti siamo precari in questa vita».
Lo dice proprio lei?
«Certo. Non esistono posti di lavoro garantiti nel tempo della crisi. Sono le carriere che garantiscono il futuro!»
Quanto lavora?
«Dalle 5 e 30 alle 22, ogni giorno».
Ha usato la musica dei Queen per le sue convention.
«(Sorriso). Yes: We will rock you!
Quale l’ultimo segreto del sistema Parisi che vuole rivelare?
«Aprire gli occhi. Tutto è già davanti a noi solo che in questo Paese, molto spesso, anche le persone intelligenti non trovano le soluzioni».
E perché?
«(Sospiro). Perché guardano sempre nel posto sbagliato. Quando avremo imparato dove cercare, grazie ai dati, saremo già a metà dell’opera».
· Un concorso truccato per aspiranti magistrati.
Un concorso truccato per aspiranti magistrati. Un avvocato svela la “truffa” subita nel 1992, scrive il 28 Settembre 2017 Il Corriere del Giorno. Era il 23 maggio 1992 e all’Hotel Ergife sulla via Aurelia a Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. C’era anche Francesca Morvillo la compianta moglie del giudice Falcone, la quale alle 16 salutò tutti andando via. Doveva prendere quel maledetto aereo che la portò a Palermo dove venne uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia. Un concorso così particolare da essere finito in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè Editore. Scoprire il dietro le quinte di quel concorso, svelato 25 anni dopo, è stato possibile alla tenacia un avvocato di Asti, Pierpaolo Berardi all’epoca dei fatti un giovane legale candidato a quel concorso, il quale racconta che allorquando lesse il titolo del tema di diritto penale era più che soddisfatto: proprio quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico, oggetto del concorso, lui lo aveva appena affrontato in Tribunale. La successiva prova di diritto amministrativo andò anche lei bene; quella di diritto privato e romano era stata oggetto di un seminario che aveva seguito poco prima del concorso. Ma passato un anno dopo quel concorso, allorquando vennero resi noti i risultati degli esami scritti, l’ avvocato Berardi esito a poter credere ai suoi occhi. Era stato bocciato. Fu in quel momento che iniziò la sua battaglia legale. Il Tar ed Consiglio di Stato gli dettero ragione, mentre il Ministero di Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura alzarono il loro solito muro di gomma “politico”. L’avvocato Berardi chiese legittimamente di potere vedere i suoi scritti e il verbale, ma – come racconta oggi al quotidiano LA STAMPA – “Mi dissero al telefono che il verbale non c’era“. Dopo un ennesimo ricorso vittorioso al Tar, il legale piemontese ottenne le prove ed i verbali del suo esame, da cui arrivò l’ennesima sorpresa: “I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no”. Berardi non si fermò ed andò avanti, infatti la Legge gli consentiva di poter di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scoprì tante altre anomalie ed illegalità. I temi erano facilmente riconoscibili perché una volta scritti su una sola facciata, altre volte in stampatello, alcuni persino pieni di macroscopici errori giuridici, altri idonei come il suo, ma sui cui non era stato apposto alcun voto. Addirittura un candidato elaborò il tema su una traccia diversa da quella indicata nell’esame. Qualcuno scrisse con una calligrafia doppia (per far riconoscere il suo elaborato a chi doveva esaminare; un altro () aveva riportato copiando pagine e pagine copiate da manuali di Diritto, mentre si potevano solo consultare i codici. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al Tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del Tribunale dei Ministri. Il Ministero di Giustizia con estremo imbarazzo è costretto a risponde a Berardi ammettendo l’inverosimile e cioè che le sue prove non sono in archivio. Uno scandalo o una vergogna ? Probabilmente entrambi. Partono i ricorsi. L’ avvocato Berardi viene ascoltato a Perugia da un sostituto procuratore della Repubblica alla presenza come uditrice, di una magistrata che aveva vinto proprio quel concorso. Ma non è finita. Infatti quando il Tar ed il Consiglio Superiore della Magistratura ordinano di ricorreggere i suoi temi, invece di nominare una nuova commissione, incredibilmente viene chiamato a valutarlo la stessa che lo aveva bocciato ! Dopo aver sempre affermato che era tutto regolare, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 2008 è costretto a riconoscere all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non erano mai stati esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna. E poi parlando di indipendenza della magistratura… In realtà si sentono degli “intoccabili”.
· Processati 6 noti avvocati. Avrebbero truccato il loro esame di Stato per l’abilitazione alla professione.
Inchiesta “Favori&Giustizia”, l’avvocato Ciardo potrà tornare a Lecce. Revocato il divieto disposto il 6 dicembre. Per l’accusa, su pressione del pm Arnesano, il legale avrebbe indicato a un’aspirante avvocatessa la traccia di una materia per superare l’esame di Stato. V.Val. il 25 gennaio 2019 su Lecce Prima. Potrà tornare nel Palazzo di giustizia di viale de Pietro per svolgere la sua professione, il penalista Mario Ciardo, colpito un mese e mezzo fa dal divieto di dimora nel Comune di Lecce, nell’ambito dell’inchiesta su presunti scambi illeciti di favori tra il pubblico ministero Emilio Arnesano, pezzi grossi della Asl e alcuni avvocati. Il giudice del Tribunale di Potenza Amerigo Palma ha accolto la richiesta di revocare la misura, avanzata da Ciardo attraverso i difensori Ladislao Massari e Gabriele Valentini, essendo venute meno le esigenze cautelari. Ciardo è indagato per abuso d’ufficio perché, secondo l’accusa, in qualità di componente della Commissione dell’esame di Stato (sessione 2017) di avvocato avrebbe indicato la traccia di una materia per il superamento della prova orale di Federica Nestola, 32enne originaria di Leverano (sospesa per un anno dalla professione). Lo avrebbe fatto su pressione del pm Arnesano, a sua volta sollecitato da un’amica di Nestola, l’avvocatessa 32enne di Copertino Benedetta Martina, accusata nella stessa inchiesta di aver avuto rapporti sessuali col magistrato proprio in cambio di favori e alla quale, proprio nei giorni scorsi, il gip ha revocato i domiciliari.
«Lei era disposta a tutto il giudice raccomandava». Interdizione a due avvocati. Erasmo Marinazzo Giovedì 27 Dicembre 2018 su quotidianodipuglia.it. Interdetto per due mesi l'avvocato Augusto Conte, 77 anni, di Ceglie Messapica, da componente del Consiglio distrettuale di disciplina. Per l'ex presidente del Consiglio dell'Ordine di Brindisi, la misura arrivata dal Tribunale di Potenza dice che «si mostra servile verso Arnesano (il pubblico ministero della Procura di Lecce, Emilio Arnesano, ndr) verso la sua proposta: ha trovato il modo di farselo amico e si pone nella condizione di potergli chiedere in futuro un favore. E' evidente che essendo Conte un avvocato e lui un pubblico ministero, l'occasione si porrà presto». Un anno, invece, la sospensione disposta per l'avvocatessa Federica Nestola, 32 anni di Copertino, dall'esercizio dell'attività forense: «Ha dimostrato di essere un soggetto disposto a tutto, pur di fare carriera: costei tanto timorosa di affrontare la prova orale dell'esame di avvocato, peraltro per non aver studiato nulla, non ha alcun timore di presentarsi nella stanza di un giudice per accordarsi con lo stesso». Questo uno dei passaggi dell'interdittiva. Che entra anche nel merito della professione legale per motivare la sospensione dell'avvocatessa: «...attesa la impreparazione professionale e la possibilità di esercitare la professione forense, ovvero di partecipare a concorsi pubblici dopo avere conseguito illegittimamente l'iscrizione all'albo». Le misure sono quelle dell'ordinanza del giudice per le indagini preliminare, Amerigo Palma, e riguardano due episodi dell'inchiesta che con il blitz del 6 dicembre ha colpito i vertici della Asl di Lecce e il magistrato salentino: la raccomandazione che l'avvocato Conte avrebbe accettato dal pm Arnesano per non dare seguito al procedimento disciplinare a cui è sottoposta l'avvocatessa Manuela Carbone. E ancora una raccomandazione: consistente - questa l'accusa dell'inchiesta del pubblico ministero Veronica Calcagno e della Guardia di finanza di Lecce - nell'avvicinare i componenti della Commissione della prova orale per l'abilitazione forense (sessione 2017) per ottenere la promozione dell'avvocatessa Federica Nestola alla sua ultima chanche dopo cinque bocciature (la prova non può essere più ripetuta dopo la sesta volta). Perché il magistrato si sarebbe mostrato tanto benevole con la giovane avvocatessa? Perché avrebbe posto sempre come condizione quella di avere favori sessuali. Dunque, infligge, ancora un duro colpo alla deontologia professionale di alcuni esponenti dei fori di Lecce e di Brindisi (nonché ancora al pm Arnesano) la seconda ordinanza del giudice Palma. Un atto che arriva dopo quello che il 6 dicembre ha visto finire in carcere il pm Arnesano, 61 anni di Carmiano (difeso dagli avvocati Luigi Corvaglia e Luigi Covella); e il direttore del dipartimento di Medicina del lavoro dell'ospedale Vito Fazzi, Carlo Siciliano, 62 anni di Lecce (difeso dall'avvocato Luigi Rella, giovedì scorso ha ottenuto i domiciliari). Ai domiciliari sono finiti il direttore generale della Asl, Ottavio Narracci, 59 anni, di Fasano (avvocati Ubaldo Macrì e Gianni De Pascalis); i dirigenti Asl Giorgio Trianni (avvocati Luigi Suez e Stefano Chiriatti) e Giuseppe Rollo (avvocati Marcello Pennetta e Donato Vergine), 66 e 58 anni, di Gallipoli e di Nardò; e l'avvocatessa Benedetta Martina, 32 anni, di Copertino (avvocato Stefano Prontera). Divieto di dimora a Lecce per l'avvocato Mario Ciardo, 55 anni, di Tricase (avvocato Ladislao Massari). Il pm Arnesano e gli avvocati Augusto Conte e Manuela Carbone rispondono di tentato abuso di ufficio nel capo di imputazione sul procedimento disciplinare. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, l'avvocato Conte è stato avvicinato dal magistrato dopo che l'avvocatessa Carbone gli chiese di intercedere per bloccare il procedimento disciplinare. In quella circostanza il magistrato avrebbe fatto presente di aver cercato di parlare anche con il pubblico ministero facente parte del Consiglio di disciplina: con tatto largo largo. Primo contatto con l'avvocato Conte il 12 settembre. Il 25 settembre l'incontro in un bar non lontano dal Tribunale, con i finanzieri in servizio di osservazione muniti di telecamere e di macchine fotografiche. L'ordinanza racconta ancora di incontri e scambi di telefonate: come quella del 28 settembre scorso. Il magistrato viene messo al corrente dall'avvocatessa della fissazione della data del procedimento disciplinare, il 6 dicembre. E, allora, chiama l'avvocato Conte. «La conversazione si concludeva con l'anticipazione da parte dell'avvocato Conte che egli aveva già affrontato l'argomento con uno dei commissari e che, comunque, si sarebbe incontrato nuovamente con il dottore Arnesano a ridosso dalle data fissata per la nuova udienza», dice testualmente l'ordinanza.
L'udienza disciplinare non si tenne per assenza di alcuni componenti del consiglio di disciplina. Era fissata per il 6 dicembre, giorno del blitz e della prima ordinanza in cui erano riportati gli stessi fatti approfonditi poi nell'interdittiva. L'avvocato Conte difeso da Aldo Morlino e Federica Nestola difesa da Alberto ed Arcangelo Corvaglia, valutano ora di chiedere l'annullamento delle interdittive al Tribunale del Riesame.
Napoli, ombre sull'esame avvocati: sequestrate le prove scritte. Leandro Del Gaudio Martedì 22 Ottobre 2019 su Il Mattino. Sono entrati in punta di piedi o quasi. Coscienti della sacralità del luogo, hanno agito con rispetto e con determinazione. E hanno acquisito tutte le prove scritte dell’esame di avvocato tenuto a Napoli nel dicembre del 2017. Blitz dei carabinieri a Castelcapuano, indagine sugli aspiranti avvocati, o meglio, su un presunto accordo corruttivo per condizionare la prova scritta - decisamente la più complessa - per l’accesso alla professione forense. Indagine per corruzione, ci sono i primi soggetti a finire sotto inchiesta. In questi giorni sono stati infatti perquisiti due impiegati presso la Corte di appello di Napoli, uno dei quali ha per altro svolto un ruolo negli anni scorsi nell’allestimento dell’esame di Stato per avvocato. Ma andiamo con ordine, a partire dagli esiti più visibili di una inchiesta finora tenuta rigorosamente sotto traccia. Indagine condotta dal pm anticamorra Ida Teresi, magistrato in forza al pool coordinato dall’aggiunto Giuseppe Borrelli, alcuni giorni fa la visita dei carabinieri nel tempio laico della giustizia napoletana, tra volte e scaloni antichi di Castelcapuano. Cosa cercano i militari dell’arma? In poche righe, c’è la storia di un’indagine per molti versi ancora top secret: gli inquirenti hanno chiesto tutte le prove scritte del 2017, nel tentativo di verificare alcuni elementi raccolti finora con quanto messo nero su bianco. Possibile che vogliano analizzare la parte iniziale e quella finale di ogni elaborato, per raffrontarlo con frasi raccolte nel corso di altre indagini. Ed è questo il probabile retroscena dell’inchiesta, una vicenda nata nel corso di indagini anticamorra, alla luce di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Parole captate con sofisticati mezzi di contrasto al crimine organizzato, che spingono gli inquirenti a stralciare quelle frasi e alcuni nomi, per aprire un fascicolo in cui compare una sola accusa: l’ipotesi di corruzione. È in questo scenario che vengono notificati alcuni decreti di perquisizione ad un gruppo di indagati, che ora devono difendersi dall’accusa di aver provato a combinare prove scritte blindate, destinate ad ottenere un giudizio positivo. Tra gli indagati, dunque, due impiegati del Palazzo di giustizia, ma anche alcuni potenziali beneficiari delle presunte combine. Sotto inchiesta finiscono candidati, ma anche il genitore di uno degli aspiranti avvocati, che evidentemente organizza una trama di contatti con il funzionario indagato. Probabile che, nel corso di questa vicenda, siano finiti anche espliciti riferimenti a dazioni di denaro, con il classico schema di «soldi in cambio di favori». Ed è anche possibile immaginare che qualcuno si sia lamentato ad alta voce, dopo aver versato somme di denaro, senza ottenere la promozione del figlio (o di uno stretto congiunto) alla prova orale. Una vicenda che ora attende l’analisi del materiale informatico e dei documenti finora finiti sul tavolo degli inquirenti. Non è la prima volta che la Procura di Napoli decide di aprire un’inchiesta sull’esame di avvocato, accendendo i riflettori su una prova che ogni anno tiene impegnati migliaia di candidati. E non è un caso che, nella nuova organizzazione della Procura di Napoli, è stato formato un pool ad hoc che deve occuparsi di prove concorsuali, di test che riguardano potenzialmente migliaia di candidati. Ma torniamo al blitz dei carabinieri a Castelcapuano. Stando alle statistiche, quasi il quaranta per cento dei candidati ottenne il superamento della prova scritta. Tra questi, c’è chi ha avuto rapporti con il funzionario finito sotto inchiesta. Contatti, ipotesi di accordo, che emergono solo in parte dalle verifiche condotte finora, che hanno comunque giustificato il blitz a sorpresa dei giorni scorsi. Esiste un mercimonio all’ombra delle prove per diventare avvocato? Basta una simile domanda a giustificare un blitz, con l’acquisizione di carte e supporti informatici. Alcuni anni fa, nel corso di un’altra inchiesta, alcuni avvocati furono costretti a rifare l’esame di abilitazione professionale, dopo essere stati coinvolti in indagini penali sulla fatidica prova scritta che si tiene a pochi giorni da Natale, nei saloni della Mostra d’oltremare.
Esame di avvocato 2017: Procura di Napoli apre indagine per corruzione su prova scritta. La Procura ha avviato un’indagine per corruzione relativa alle prove scritte del 2017. Sconforto fra chi vuole sostenere l'esame.I. M.V. il 25 ottobre 2019 su Blasting News Italia. La Procura di Napoli vuole vederci chiaro. Questa volta a finire nell’occhio del mirino è proprio l’esame di avvocato. L’inchiesta per corruzione, così com’è stata catalogata, vede come protagonisti diversi aspiranti avvocati campani che due anni fa sostennero le prove scritte per l’esame di avvocato. Un traguardo oggi molto difficile da raggiungere. L'indagine è stata aperta con un blitz dei carabinieri a Castelcapuano, al termine della quale gli stessi hanno acquisito tutte le prove scritte dell’esame di avvocato tenutosi a Napoli nel lontano dicembre del 2017. L’ipotesi principale al momento è un presunto accordo corruttivo fra impiegati del Ministero della Giustizia che organizzavano l’esame e qualche partecipante che dietro la promessa di superare gli scritti ha deciso di ricompensare gli indagati con diverse migliaia di euro. Dunque soldi (che a volte non sarebbero stati nemmeno sufficienti ) in cambio dell’agognato conseguimento del titolo di avvocato. Da segnalare che non è la prima volta che la Procura di Napoli apre un’inchiesta sull’esame di avvocato, forse sempre per colpa del fatto che nel 2017 il 40% dei candidati ottenne il superamento della prova scritta. A questo proposito si è anche formato un pool ad hoc per occuparsi di varie prove concorsuali fra cui anche l’esame di procuratore legale. Intanto al gruppo di indagati, fra cui gli stessi candidati sono stati notificati i decreti di perquisizione. Anche i 2 impiegati del Palazzo di giustizia sono stati perquisiti. I carabinieri vogliono verificare e analizzare la parte iniziale e quella finale di ogni elaborato, per confrontarlo con frasi raccolte nel corso di altre indagini, grazie alle intercettazione telefoniche. Lo schema anche in questo caso era sempre lo stesso soldi in cambio di favori. Dietro le prove per diventare avvocato potrebbe dunque nascondersi un mercimonio di denaro anche in virtù del fatto che il numero dei promossi ogni anno diminuisce drasticamente a livello nazionale, salvo vistose eccezioni. Al momento le persone sospettate sono 5 in totale, ma l’indagine è ancora aperta e ciò non toglie che si estenda anche ad altre Corti d’Appello.
Drastica riduzione del numero di aspiranti avvocati: i motivi. E se da un lato aumento la percentuale di bocciati, dall’altro lato diminuisce il numero di aspiranti che decidono di intraprendere il percorso di abilitazione all’esercizio della professione forense. Fra i principali motivi le pessime condizioni di svolgimento del praticantato e non solo dal punto di vista economico), il carico complessivo di lavoro, le responsabilità certamente non parametrate alle competenze acquisite nel corso degli anni universitari. Ecco dunque che i sacrifici, le abnegazione e i ritmi frenetici mal si conciliano con la strada della precarietà cui va avviandosi la professione forense. Chissà che l’accesso meritocratico alla professione non avvenga in parte proprio con l’introduzione dell’obbligo di utilizzare i soli codici non annotati con la giurisprudenza durante le prove. Sicuramente le forze politiche e gli esperti del settore invocano una nuova formazione giuridica e una rivisitazione dei criteri di accesso ed aggiornamento dei professionisti forensi.
Processati 6 noti avvocati. Avrebbero truccato il loro esame di Stato per l’abilitazione alla professione, scrive il 28 Maggio 2018 casertace.net. Chi ha fatto gli esami di scuola superiore ricorda, in base alle varie epoche in cui li ha sostenuti, sistemi a dir poco avventurosi, sicuramente ingegnosi, per far arrivare temi già scritti, versioni già tradotte, problemi matematici già risolti, dove si teneva la prova scritta. Nell’era dei telefonini e poi degli smartphone tutto è cambiato. Certo, è vietato portarli, ma possono essere utili come testa di ponte affinché questi contenuti arrivino in maniera rapida. Se lo fanno gli studenti, il fatto è riprovevole ma non ci sono conseguenze di diritto penale. Se invece lo fanno gli avvocati durante una prova per l’accesso alla professione, allora il reato c’è. Oddio, non è che il corpo delle leggi abbia incrociato, su questa materia, l’interesse dei parlamenti da più di 90 anni a questa parte, visto che, a suo tempo, la richiesta di rinvio a giudizio per 6 avvocati dell’agro aversano fu formulata ai sensi degli articoli 1 e 2 della Legge 475 del 1925. A farne le spese sono stati Generoso Grasso, Giuseppe Massimo, Fabio Della Corte, Marco Carleo, Antonio Cantile e Lorenzo Caruso. In breve, durante la prova scritta denominata “parere di diritto penale” per l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense, svoltasi a Napoli il 15 dicembre 2010, Generoso Grasso fece redarre da un terzo il compito che rispondeva alla seconda traccia, poi lo inviò all’indirizzo email di Giuseppe Massimo, che in quel momento sosteneva l’esame, il quale girò poi l’elaborato – sempre via mail – ad altri partecipanti alla stessa prova scritta.
Spagna, indagati 500 neolaureati italiani in giurisprudenza. “Hanno pagato 11mila euro per l’iscrizione all’albo”. Il 28 maggio 2016, otto pullman carichi di giovani neolaureati sono arrivati alla facoltà di Giurisprudenza della capitale spagnola. Obiettivo: permettere ai passeggeri di sostenere l'esame di abilitazione professionale che permette l'esercizio della professione in tutta Europa, scrive Il Fatto Quotidiano il 21 Settembre 2018. Un pellegrinaggio organizzato con otto pullman che trasportavano neolaureati italiani all’università Rey Juan Carlos di Madrid e 11mila euro a testa pagati per ottenere l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato. Per questo 500 aspiranti avvocati sono finiti, come riportano Repubblica e La Stampa, nel registro degli indagati di un giudice istruttore del tribunale di Madrid. Frode nella validazione di titolo di diritto è l’accusa rivolta agli aspiranti avvocati italiani, dopo la denuncia di “colleghi” spagnoli impressionati dal numero di stranieri presenti nell’aula dell’università per sostenere la prova d’esame del 28 maggio 2016. La via spagnola per l’abilitazione all’esercizio della professione d’avvocato, valida in tutta Europa, era già nota. Migliaia di neolaureati italiani in giurisprudenza hanno varcato, negli ultimi anni, la frontiera per sostenere l’esame che avrebbe evitato loro il tirocinio e il test in patria, facilitando e velocizzando il processo d’iscrizione all’albo, tanto che l’Ordine degli avvocati era corso ai ripari introducendo regole più stringenti: in Italia non può essere riconosciuto alcun titolo di studio ottenuto all’estero che non sia una laurea o un master. In entrambi i casi, i giovani italiani non avrebbero potuto scavalcare l’iter del tirocinio e del successivo esame di abilitazione professionale. Quest’ultimo caso, però, ha aggiunto un particolare che, oltre ad aggirare le nuove norme, ha giustificato l’avvio di un’indagine. Il 28 maggio 2016, otto pullman con circa 500 giovani neolaureati a bordo sono arrivati alla facoltà di Giurisprudenza della capitale spagnola. Obiettivo: permettere ai passeggeri di sostenere l’esame per l’iscrizione all’albo degli avvocati spagnoli che permette l’esercizio della professione in tutta Europa. Il viaggio sarebbe stato organizzato da una società che ha permesso agli aspiranti avocati di frequentare un master in “abogacia” e sostenere otto esami sufficienti per ottenere i crediti necessari ad affrontare il test di abilitazione. Una via rapida di accesso alla professione al costo di 11 mila euro. Ma la massiccia presenza di italiani alla sessione d’esame del maggio 2016 ha fatto insospettire i colleghi spagnoli che hanno presentato un esposto all’osservatorio spagnolo della corruzione. Scelta che ha fatto aprire un’indagine a carico dei giovani arrivati all’università Rey Juan Carlos. Non è la prima volta che l’ateneo deve fronteggiare dei guai giudiziari, dopo lo scandalo delle lauree rilasciate con eccessiva facilità ad alcuni esponenti politici.
Avvocati, la laurea è in vendita. Ecco le prove del grande bluff. Esami scritti (già fatti) e i master offerti da agenzie ad hoc I diplomi sono rilasciati in Spagna e riconosciuti in Italia, scrive Manila Alfano, Sabato 30/09/2017, su Il Giornale. Un faldone di pagine, una quarantina, test complessi, quesiti tecnici, formulati in spagnolo. Diritto penale, diritto costituzionale, civile. Domande approfondite sulla costituzione spagnola. C'è di tutto perché superato questo mastodontico test si ottiene il «grado en derecho». La laurea. È il primo grande passo per il traguardo: aggiudicarsi il titolo di abogado. Avvocato in spagnolo che però in questo caso è una conquista che avviene tutta in Italia, senza mai o quasi, mettere piede in Spagna. Un procedimento apparentemente complicato ma rodato e che ha funzionato già per migliaia di abogados di nazionalità italiana. Almeno quattro sessioni all'anno, centinaia di aspiranti abogados alla volta. Un esercito dove nessuno cade mai. Dove per tutti è un successo. Questa volta l'appuntamento è per oggi a Roma, dove si aspettano 300 persone. In una mattina l'impresa che ha dell'incredibile: il superamento di ben nove esami in lingua spagnola e il conseguimento razzo del master. In aula la commissione universitaria che arriva direttamente da Madrid e un paio di addetti delle agenzie che fanno da tramite tra gli allievi e l'università. Agenzie che si occupano di aiutare gli studenti italiani a orientarsi nel mondo universitario spagnolo. Si preoccupano di sbrigare le pratiche con l'ateneo, evitano agli iscritti fastidiosi viaggi, inviano i documenti per posta, addirittura organizzano voli charter per trasportare carichi di abogados a iscriversi negli albi spagnoli. Tutor che si assicurano che tutto vada a buon fine. Tanto da inviare ai candidati persino le domande dell'esame con le risposte giuste già cerchiate. Un aiuto decisivo, in effetti. C'è da sperare nella memoria. Un passo che ti cambia la vita, ti apre le porte al «Ilustre Colegio de Abogados». Un giuramento e poi via a trascrivere il prestigioso titolo all'albo degli avvocati stabiliti in Italia. Certo, per i primi tre anni, l'abogado in Italia, deve agire in concerto con un avvocato, ma può esercitare, firmare atti. Trascorsi i termini, davanti alla legge, si è tutti uguali. Tutti avvocati, ma vuoi mettere aver aggirato la seccatura del rognosissimo esame di Stato dalla riuscita tutt'altro che certa? È così che è nato un vero e proprio esaminificio. Un sistema che Il Giornale può documentare, esami al limite della farsa, uno scandalo. Succede tutto in Italia, a Roma, Milano, Bologna. Investimenti di denaro consistenti. Circa ventimila euro da pagare all'università spagnola, diecimila per ottenere la laurea, altri dieci per il master. Con loro l'allievo dovrebbe prepararsi, seguire corsi e approfondimenti per poi sostenere questa grande prova finale composta da nove esami, tutto ovviamente in spagnolo; sviluppare anche competenze linguistiche oltre a quelle giuridiche. Le due condizioni imprescindibili richieste dal ministero spagnolo per ottenere il titolo. Ma di lavoro con gli studenti futuri abogados ce n'è ben poco. In teoria dovrebbero esserci piattaforme on line, corsi web, materiale didattico. Una giungla in cui districarsi è difficilissimo. Per questo sorgono le agenzie, disseminate un po' in tutta Italia con un piede in Spagna. A loro va un'altra grossa percentuale, dai 5 ai 10 mila euro. Un titolo che a conti fatti, ti porti a casa con trentamila euro. Poi c'è chi si pente, chi dopo aver pagato, accede a un portale pressoché vuoto, si sente preso in giro e vuole tornare indietro, chi punta a fare il prima possibile, chi chiede lumi, chi impreca. Si leggono decine di pagine di chat, c'è di tutto. Un grande dubbio su tutti: «Ma ci daranno le domande e le risposte prima dell'esame?», altri spiegano: «Comunque sta piattaforma è un bordello, manco riesco a scaricare il materiale» un altro che concorda: «Il corso di diritto tributario faceva ridere, le ho inviato il caso pratico esponendo dubbi e mi ha messo 9 e manco risposto!!!». Poi c'è chi riesce a calmare i timori di tutti. «Tranquilli, conosco uno che lo ha passato senza problemi e senza studiare». Avvocati che ci troveremo nelle aule di giustizia.
· Avvocatura: “Assegnazioni clientelari”.
Regione Lazio, debiti per 26 milioni verso legali esterni. Il capo dell’Avvocatura: “Assegnazioni clientelari”. Attive 1156 cause. Rodolfo Murra riferisce al governatore una situazione "disastrosa" all'interno dell'ufficio legale dell'Ente, con molti avvocati "reclutati secondo modalità singolari" senza "il superamento di un concorso bandito ad hoc", quadro che ha determinato negli anni il "conferimento di incarichi professionali all'esterno". E ora i professionisti esterni cui sono state girate le pratiche interne, attendono il pagamento di oltre 26 milioni di euro. La Corte dei Conti chiede di rimediare, mentre la Regione replica: "Abbiamo già posto dei paletti agli incarichi". Vincenzo Bisbiglia il 2 agosto 2019 su Il Fatto Quotidiano. Gli avvocati della Regione Lazio sono stati “reclutati secondo modalità piuttosto singolari“, senza “il superamento di un concorso bandito ad hoc” e “non tutti” sono dotati di “concreta esperienza nel campo forense”. Situazione che ha determinato negli anni il “conferimento di incarichi professionali all’esterno” a legali “individuati a volte per soddisfare esigenze clientelari” oppure grazie “a mere conoscenze personali“. A questi avvocati esterni la Regione deve ancora versare parcelle per oltre 26 milioni di euro. Lo mette nero su bianco il capo dell’Avvocatura regionale, Rodolfo Murra, in una missiva protocollata il 28 dicembre scorso e inviata al governatore Nicola Zingaretti. La lettera è giunta agli atti della Corte dei Conti, da cui ha preso spunto il procuratore generale del Lazio, Andrea Lupi, che martedì scorso ha criticato – sotto questo aspetto – la gestione dell’Ente sottolineando una “scollatura fra l’avvocatura e gli uffici”. Anche se proprio dall’arrivo di Murra – nel giugno 2017 – le assegnazioni sono drasticamente calate. Il problema del debito, però, rimane. Murra è arrivato a via Cristoforo Colombo dopo l’esperienza a capo dell’Avvocatura capitolina iniziata con Ignazio Marino e conclusasi a pochi mesi dall’elezione di Virginia Raggi. A dicembre 2018, il legale restituiva a Zingaretti un quadro dell’ufficio legale definito “disastroso“, con l’assenza di un “ruolo” (una normativa interna, ndr) che “rende pericolosamente permeabile la struttura destinata allo svolgimento delle attività forensi”. I 19 legali, come si legge nel documento, sono stati reclutati secondo modalità “singolari” e “senza un concorso ad hoc“, situazione che ha creato una “disomogenea preparazione ed attitudine”. La condizione descritta dall’attuale capo dell’avvocatura ha portato all’esterno numerosi fascicoli, “una pratica che ha determinato conseguenze per certi versi disastrose, a partire dal profilo del rispetto delle procedure selettive” e “di controllo successivo sul relativo operato” fino a “squilibri evidentissimi sul piano economico finanziario”. Ad oggi, si legge nella nota allegata “l’esposizione debitoria che l’Amministrazione ha maturato, come somme non ancora pagate e reclamate a titolo di compensi professionali, ammonta a 26.314.101 euro“. Senza contare, scrive ancora Murra “che questi massicci affidamenti hanno prodotto disfunzioni anche in ambito amministrativo”. Non solo. “V’è da dire che le esternalizzazioni non sono state affatto avversate dai legali interni” i quali “si sono visti sgravati di consistente lavoro”. Un carico “che può dirsi significativo ma giammai eccezionale“. Il procuratore regionale della Corte dei Conti del Lazio, Andrea Lupi, nella requisitoria sul rendiconto generale dell’Ente ha rilevato che “nel passato il ricorso all’esternalizzazione degli incarichi legali aveva grande diffusione. Ne costituiscono testimonianza le moltissime parcelle presentate da un cospicuo numero di legali che chiedono il pagamento di crediti professionali“. E ancora: “Sono ancora molti gli incarichi di domiciliazione presso legali di altri fori. Si concorda con la sezione circa la necessità di regolamentare il fenomeno costituendo un albo di fiduciari“. Gli incarichi esterni sono stati assegnati nel corso degli ultimi 20 anni e sono drasticamente calati dopo il 2017, con l’arrivo proprio di Murra in Regione Lazio. Secondo i dati forniti dall’ufficio stampa di via Cristoforo Colombo, nel 2012 gli affidamenti esterni erano ancora 477 e nel 2015 circa 200. Nel 2019 sono stati appena 4. Sempre la Regione precisa che il costo delle parcelle è basato inevitabilmente sul tabellare ministeriale” e “quelle che pervengono con riferimento agli incarichi assegnati dalle gestioni precedenti vengono vagliate secondo un parametro di congruità“. Andando a spulciare la sezione “trasparenza” del sito dell’Ente, troviamo l’elenco completo degli incarichi ancora attivi. Si tratta di 1.156 assegnazioni, in gran parte avvenute dal 2012 in poi – ma ce ne sono anche del 2009 e del 2006 – per l’ammontare di circa 4,7 milioni di euro. Un importo monstre se si pensa che la Regione Lombardia, ad esempio, nel 2017 ha assegnato un solo caso all’esterno. E per essere ricorso a un patrocinio presso un legale non presente nell’avvocatura pubblica, l’ex governatore lombardo Roberto Formigoni sempre nel 2017 fu condannato dalla Corte dei Conti. E pensare che la sede dell’Avvocatura, ha rilevato Murra, non prevedeva nemmeno l’ingresso con cartellino. “Nei prossimi giorni – scriveva il coordinatore a dicembre – vedrà la collocazione del cosiddetto ‘tornello’ all’ingresso, dispositivo che a quanto è dato sapere l’amministrazione non è mai riuscita ad installare prima, sebbene tutte le altre sedi decentrate lo prevedano ed in effetti lo abbiano come perfettamente funzionante“, tutto ciò per far sì che “l’ufficio legale inizi a somigliare sempre di più alle altre strutture regionali”. La requisitoria di Lupi ha messo sul chi va là la Lega in Regione. “Zingaretti si attivi per dare mandato agli uffici di mettere in atto quanto indicato dalla magistratura contabile“, hanno affermato i consiglieri Orlando Tripodi, Laura Corrotti e Daniele Giannini. “Questo modus operandi – hanno detto – non è accettabile, a meno che non si voglia favorire qualche amico dell’amico”.
· Polizia Penitenziaria, concorso truccato: 3 arresti e ben 160 indagati.
Polizia Penitenziaria, concorso truccato: 3 arresti e ben 160 indagati, scrive Luigi Maria Mormone su 2anews il 16 Febbraio 2019. Per concedere in anticipo le soluzioni dei test per un posto nella Polizia Penitenziaria i destinatari dei provvedimenti chiedevano tra i 10mila e i 30mila euro. I militari del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Napoli e personale del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria (Nic) hanno eseguito tre misure cautelari degli arresti domiciliari emesse dal gip presso il Tribunale di Napoli e numerosi decreti di perquisizione, per un totale di 160 indagati. I destinatari della misura cautelare sono accusati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata in danno dello Stato e altri gravi reati commessi in relazione alle procedure per il reclutamento, nel 2016, di 400 allievi agenti del corpo di Polizia Penitenziaria. Vista la gravità dei fatti concernenti il concorso in questione, il Capo del Dipartimento della Polizia penitenziaria aveva annullato la relativa prova scritta disponendone la ripetizione nel luglio 2017.Le indagini, coordinate dal procuratore della Repubblica di Napoli Giovanni Melillo e dal sostituto Giancarlo Novelli, hanno scoperto gravi indizi sulla divulgazione di materiale concorsuale riservato ad opera di un soggetto legato da rapporti di lavoro alla Intesistemi spa di Roma, società che si era aggiudicata l’appalto per l’elaborazione, la stampa e la fornitura dei questionari per la prova scritta. I destinatari dei provvedimenti, come le persone già colpite da misura restrittiva il 17 ottobre 2018 e altri loro stretti collaboratori, avevano poi venduto questo materiale a un numero consistente di candidati: per ottenere le soluzioni dei test in anticipo si sborsavano dai 10mila ai 30mila euro.
Polizia Penitenziaria, concorsi truccati: auricolari, braccialetti e Whatsapp. Come riporta “Il Mattino”, alcuni concorrenti erano stati scoperti durante lo svolgimento della prova scritta con sistemi di comunicazione a distanza (come auricolari e telefoni cellulari), cover di telefonini, braccialetti che riproducevano le sequenze di risposte esatte ai questionari, t-shirt sulle quali erano state impresse risposte esatte sotto forma di simboli matematici.A tradire gli indagati è stato anche Whatsapp, su cui si scambiavano informazioni e consigli su come superare le prove scritte: da un lato i concorrenti, e dall’altra gli organizzatori della truffa, i quali avevano già in tasca le soluzioni ai quiz. Sono stati inoltresequestrati un autoveicolo e uno scooter di grossa cilindrata, che si ritiene siano stati acquistati con i proventi delle attività delittuose contestate.
Concorsi truccati nella Penitenziaria: 3 arresti e 160 avvisi chiusura indagini, scrive Venerdì 15 Febbraio 2019 Il Messaggero. I militari del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Napoli e personale del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria (Nic) hanno dato esecuzione a tre misure cautelari degli arresti domiciliari emesse dal gip presso il Tribunale di Napoli nei confronti di Dario Latela, Carolina Caiazzo e Daniele Caruso, e a numerosi decreti di perquisizione. I destinatari della misura cautelare sono accusati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata in danno dello Stato e altri gravi reati commessi in relazione alle procedure per il reclutamento, nel 2016, di 400 allievi agenti del Corpo di polizia penitenziaria. Le indagini, svolte nel contesto di differenti aperti presso le procure di Napoli e Roma e poi riunificati, procedenti, hanno consentito di acquisire gravi indizi sulla divulgazione di materiale concorsuale riservato ad opera di un soggetto legato da rapporti di lavoro alla Intesistemi spa di Roma, la società che si era aggiudicata l’appalto per l’elaborazione, la stampa e la fornitura dei questionari da utilizzare per la prova scritta, tenuta a Roma dal 20 al 22 aprile 2016. I destinatari dei provvedimenti, come le persone già colpite da misura restrittiva il 17 ottobre 2018 (Sabato Vacchiano, Giuseppe Fastampa, Luigi Masiello, Ciro Fiore e altri) e altri loro stretti collaboratori, avevano poi venduto questo materiale a un numero consistente di candidati. Alcuni concorrenti erano stati scoperti durante lo svolgimento della prova scritta con sistemi di comunicazione a distanza (auricolari, telefoni cellulari, ecc), cover di telefonini, braccialetti che riproducevano le sequenze di risposte esatte ai questionari, tshirt sulle quali erano state impresse risposte esatte sotto forma di simboli matematici. Il quadro indiziario, ritenuto dal giudice idoneo all’adozione dei provvedimenti oggi eseguiti, dovrà naturalmente ricevere la conferma dal contraddittorio già nella fase cautelare. Sono stati poi eseguiti due decreti di sequestro preventivo di un autoveicolo Hummer e di uno scooter di grossa cilindrata che si ritiene siano stati acquistati con i proventi delle attività delittuose contestate. Completate le operazioni connesse alla esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare, si procedeva alla notifica di circa 160 avvisi di conclusione delle indagini nei confronti dei concorrenti che avevano fatto uso del materiale riservato, nonché di intermediari e di altri soggetti emersi in rapporti illeciti afferenti alla divulgazione dello stesso materiale con i principali indagati. Si ricorda che, in ragione della gravità dei fatti concernenti il concorso in questione, con suo provvedimento in data 22 giugno 2017, il Capo del Dipartimento della Polizia penitenziaria aveva annullato la relativa prova scritta disponendo la rinnovazione della medesima, espletata poi a luglio 2017. «Sono ottimi e proficui i rapporti di collaborazione fra l'Amministrazione Penitenziaria e la Procura della Repubblica di Napoli, come dimostra l'operazione di oggi. Il mio personale ringraziamento va al Procuratore e ai magistrati che hanno coordinato l'inchiesta, nonchè agli uomini del NIC della Polizia Penitenziaria e della Guardia di Finanza che l'hanno portata a termine con successo»: così il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Francesco Basentini in merito all'operazione sul concorso truccato.
· Concorsi truccati nella sanità.
Medicina, specialità più brevi e formazione on line. Così potremo assumere giovani dottori. Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Giuseppe Remuzzi. Il problema dell’esodo dagli ospedali. Una proposta per eliminare le liste d’attesa Ospedali, è allarme turnover: un medico su due ha più di 55 anni. i«I taly calls on retired doctors to fill health worker gap» titola il Lancet di qualche settimana fa. Insomma l’Italia chiede ai medici in pensione di tornare al lavoro, e lo hanno fatto già venti regioni. Cosa sta succedendo? Vediamo. L’età media dei nostri dottori è fra le più alte d’Europa e nel giro di dieci anni più di 33.000 medici di medicina generale e quasi 50.000 medici ospedalieri lasceranno l’attività. Molti andranno via con «quota cento» ad appena 64 anni, salvo poi sentirsi chiedere «dottore ci scusi non ce la facciamo, sarebbe disponibile a tornare in Ospedale? Anche solo qualche giorno la settimana...». Se non fosse vero se ne potrebbe sorridere, ma avere una perforazione intestinale e non trovare un chirurgo che ti operi sarà un dramma e lo sarà per tanti. Intanto i nostri giovani medici vanno all’estero, in Francia, Inghilterra, Germania, qualcuno in Svizzera; quanti? Mille ogni anno secondo i dati ufficiali ma potrebbero essere molti di più (se ne sono già andati in 30.000, lì trovano condizioni di lavoro più favorevoli e sono pagati meglio). Da noi per i ragazzi certezze non ce ne sono. Qualche guardia medica, qualche sostituzione, per i più fortunati un contratto libero professionale. E dopo? Dopo non si sa, il tuo concorso sembra sempre sul punto di essere bandito ma non sai quando, e comunque bisogna aspettare che si esauriscano le graduatorie degli altri ospedali... A questo punto il Lancet chiede al ministero cosa pensa di fare, gli rispondono che da qui al 2023 ci saranno 100 milioni in più per le scuole di specialità. «Ma non basterà» dichiara Carlo Palermo, presidente dell’associazione dei medici ospedalieri «servono molte più risorse e organizzare la formazione dei medici in modo diverso». È vero, purché sia fatto nell’ambito di un tentativo di riordino dell’intero Servizio Sanitario che comprenderà la messa in sicurezza e l’ammodernamento degli edifici, degli arredamenti, delle apparecchiature e si dovrà basare soprattutto sull’entusiasmo, la dedizione e le competenze dei giovani medici. Ne abbiamo 50.000, dei quali 30.000 in specialità e probabilmente 20.000 che vorrebbero lavorare e intanto si arrangiano in qualche modo. Non va bene, questi ragazzi, che sono dottori fatti e finiti, dovrebbero entrare a far parte dell’organizzazione degli ospedali o della medicina del territorio presto (all’inizio saranno contratti a tempo determinato, ma con qualche garanzia, almeno per i migliori, di quello che verrà dopo). Lavoreranno sotto la guida di medici esperti, s’intende, ma assumere quei ragazzi e farlo subito vuol dire trasformare il problema dell’esodo dei medici, che non sappiamo come risolvere, in una opportunità unica per rilanciare il nostro Servizio Sanitario Nazionale. Un po’ si è già cominciato a dire il vero — per lo meno in Lombardia — dove gli specializzandi del quarto e quinto anno potranno finalmente visitare, prescrivere farmaci e operare, come succede già negli altri Paesi dell’Europa e negli Stati Uniti. «Ma non finiremo — potrebbe obiettare qualcuno — con l’affidare la nostra salute e quella dei nostri figli a dei ragazzini?». No, quelli che si laureano oggi sono quasi tutti bravissimi, assai più della maggior parte dei loro colleghi di venti o trenta anni fa. Sarà per via dell’esame di ammissione a medicina con le sue brave domande di logica che tutti abbiamo criticato? Chi lo sa, fatto sta che quel test con tutti i suoi difetti però funziona: i ragazzi di oggi non solo sanno di medicina ma sanno anche stare vicino agli ammalati più e meglio di quanto non sapessimo fare noi. Ai giovani medici chiederemo di lavorare solo per il Servizio Sanitario Nazionale e di farlo a tempo pieno e di considerare il sabato come gli altri giorni; in questo modo non ci saranno più liste d’attesa né per gli esami né per gli interventi e nemmeno corsie preferenziali per chi paga. E i soldi? Si trovano. Si tratta di trasformare il nostro modo di fare formazione e adeguarlo alle moderne tecniche di apprendimento. Pensate che il più grande giornale di medicina del mondo mette a disposizione di chi vuole specializzarsi un sistema di apprendimento online, «NEJM Resident 360» — è solo un esempio, ce ne sono altri — dove puoi trovare tutto quello che serve, dalle basi teoriche della scienza medica, alle conoscenze più sofisticate per ciascuno degli ambiti specialistici. E non crediate che siano solo nozioni teoriche, ti mettono di fronte ai problemi di tutti i giorni, ti chiedono di trovare la soluzione e poi vogliono sapere se l’hai trovata, ti aiutano a individuare le opzioni possibili (ti assistono persino nelle procedure manuali con dei video semplicemente fantastici che le descrivono in ogni dettaglio). Non ti senti ancora sicuro? Grazie a questo sistema puoi parlare via Skype con i migliori specialisti del mondo. Se risolvi almeno l’ottanta per cento dei problemi in un tempo ragionevole, ti considerano uno specialista e si può stare sicuri che a quel punto lo sei davvero. Per qualcuno ci vorranno sei mesi per altri molti di più, anche anni, non siamo tutti uguali. A questo punto la specialità, quella dell’Università con le sue belle lezioni frontali, potrebbe durare anche solo un anno, al massimo due, il tempo che serve per inquadrare i grandi problemi dell’area di interesse. Poi i ragazzi potranno cominciare a lavorare, negli ospedali o con i medici di famiglia, il resto sarà e-learning, non solo per gli anni della specialità ma per sempre. Con «NEJM Resident 360» imparano i giovani e nel frattempo i medici esperti cui è affidata la loro formazione scopriranno cose che oggi non sanno o che avevano dimenticato. Insomma, si impara insieme, ci guadagnano tutti — e specialmente gli ammalati — e si risparmia. In questo modo potremo finalmente dare ai nostri giovani medici uno stipendio adeguato e qualche certezza. Così forse non avranno più bisogno di cercare un lavoro all’estero anche perché, con loro, il nostro Servizio Sanitario Nazionale tornerà a essere fra i migliori del mondo.
Cosenza, finti concorsi per operatore sanitario: suicida uno dei candidati truffati. «Era disperato». Pubblicato mercoledì, 23 ottobre 2019 da Corriere.it. Uno dei giovani che avevano partecipato ai corsi per operatore sanitario rivelatisi finti, per i quali i carabinieri del Nas di Napoli hanno arrestato questa mattina sei persone, si è suicidato quando si è reso conto di essere stato vittima di una truffa. A rivelarlo, nel corso della conferenza stampa sull’operazione, è stato il comandante del Nucleo, Vincenzo Maresca. «Il giovane, disoccupato da anni — ha aggiunto Maresca — è stato sopraffatto dalla disperazione». «La misura della custodia cautelare in carcere per le persone coinvolte nell’operazione — ha aggiunto il colonnello Maresca — può sembrare forte, ma noi la riteniamo giusta. Il caso del suicidio del giovane allievo dei corsi, d’altra parte è emblematico della gravità dei fatti. Stiamo parlando di una persona che, venuta a conoscenza dell’illiceità dell’iniziativa cui aveva partecipato, sborsando 2.500 euro, si è reso conto dell’inutilità dell’impegno che aveva profuso visto che non poteva utilizzare il titolo professionale che aveva acquisito, rivelatosi carta straccia, per uscire dal dramma della disoccupazione che stava vivendo». Sulla vicenda del giovane suicida il Procuratore della Repubblica di Castrovillari, Eugenio Facciolla, nel corso della conferenza stampa, ha detto che «le indagini sono ancora in corso. Stiamo verificando — ha aggiunto — anche l’ipotesi di un’istigazione al suicidio. La morte del giovane risale ad un’epoca antecedente l’avvio delle indagini. Stiamo approfondendo e verificando tutto, comunque».
Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano” il 24 ottobre 2019. Partecipare ad un corso che gli avrebbe assicurato una carta in più da spendere nella caccia (perché in Italia di caccia si tratta) di un posto di lavoro. Scoprire di essere stato raggirato, che i signori così attenti al futuro in realtà non erano altro che truffatori. E uccidersi. È la storia tristissima di un disoccupato che ha preferito la morte ad un futuro fatto di umiliazioni, raggiri, inutili e pesantissimi esborsi di soldi col miraggio di un lavoro che gli avrebbe restituito quella dignità per avere un posto e un ruolo nel mondo. Siamo a Castrovillari, in Calabria, profondo sud, dove un tempo i giovani e le proprie famiglie venivano truffate con fantomatici corsi di computer: uomini e donne si presentavano a casa con tanto di cravatta e tacchi a spillo a proporre la "tangente" per il futuro. Si pagava, il corso iniziava. Una, due, tre lezioni e poi il nulla. E siccome oggi il computer lo sanno usare più o meno tutti e in Italia c'è carenza di operatori socio-sanitari, perché non promuovere dei corsi e rilasciare tanto di attestato da spendere nelle strutture sanitarie sparse per l' Italia? Una occasione da non perdere, avrà pensato Antonio (nome di fantasia), che per «crescere» e vedere la luce ha pure sborsato 2.500 euro. Un mese di lavoro per chi è fortunato, due per chi lo è meno. Una vincita al superenalotto per chi è disoccupato e decide di investire i propri risparmi, o quelli della propria famiglia, per avere poi uno stipendio a fine mese e garantirsi una vita dignitosa.
Gli avvoltoi. Antonio, però, non aveva fatto i conti con gli avvoltoi. «Il giovane, disoccupato da anni, è stato sopraffatto dalla disperazione quando si è reso conto dell'inutilità dell' impegno che aveva profuso», ha raccontato Vincenzo Maresca, comandante dei Nas di Napoli. Quelle lezioni non gli sarebbero mai servite a nulla. Era stato truffato e se ne è accorto prima che venisse aperta una inchiesta sui falsi corsi per diventare Operatori socio-sanitari. La sua storia ora è racchiusa nei faldoni dell'inchiesta che ieri ha portato a sei misure cautelari in carcere emesse dal gip di Castrovillari su richiesta della locale Procura della Repubblica. Si tratta di quattro imprenditori operanti nel settore degli istituti di formazione professionale (due residenti nel Cosentino e due nel Napoletano), e di due dipendenti dell' Asp di Cosenza. Tutti fanno parte, per l'accusa, di una associazione per delinquere finalizzata al rilascio di falsi diplomi di Operatore Socio Sanitario. I Nas hanno anche sequestrato 291 titoli di qualifica professionale illecitamente rilasciati ad altrettante persone.
Scuola professionale. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, i sei avrebbero organizzato, negli anni 2015/2017, più di 30 corsi specifici in una scuola professionale ad Altomonte (Cosenza), chiamata «Sud Europa», senza alcun accreditamento alla Regione Calabria. I giovani desiderosi di trovare un lavoro, e «reclutati» tutti in Calabria, pagavano tra i 2mila e i 2mila e 500 euro per frequentare corsi inutili, fatti male e lontani anni luce da quanto invece dispone la normativa nazionale, che prevede mille ore di corsi con 450 ore di tirocinio. Al contrario, le persone ammanettate offrivano una didattica superficiale, tenevano le pseudo-lezioni all' interno di un ex ospedale a Trebisacce (in provincia di Cosenza), sede di lavoro di due degli arrestati. Il tutto per dare una parvenza di ufficialità alla faccenda. Non si conosce il numero esatto delle persone che vi hanno preso parte. Eugenio Facciolla, procuratore della Repubblica di Castrovillari, ha fatto sapere che le «indagini sono ancora in corso» e che «stiamo verificando anche l' ipotesi di un' istigazione al suicidio» per quanto riguarda la vicenda di Antonio, il disoccupato.
Sanità Lazio, candidato escluso “indovina” 16 vincitori su 20 del concorso al San Camillo. L’Asl si difende: “Tutto regolare”. Uno dei partecipanti al concorso per dirigenti ha inviato a se stesso una pec con i nomi di coloro che, secondo lui, sarebbero entrati fra i primi 20 in graduatoria. Un mese e mezzo dopo, alla pubblicazione, i primi due sono esattamente quelli pronosticati dal candidato, mentre nelle altre 18 posizioni ci sono 14 dei 20 nomi inseriti in elenco. Fra loro ci sono ex candidati e il coordinatore del comitato a sostegno della rielezione di Nicola Zingaretti a governatore del Lazio. Alla selezione hanno partecipato 160 persone. Luca Teolato il 28 agosto 2019 su Il Fatto Quotidiano. Ha indovinato 16 dei 20 vincitori di un concorso per dirigenti di un concorso per dirigenti delle professioni tecniche sanitarie all’ospedale San Camillo di Roma. Addirittura centrando i primi due nominativi in graduatoria. Tutto ciò un mese e mezzo prima della proclamazione dei vincitori. È riuscito a Antonio Di Nicola, uno dei candidati che ha partecipato alla selezione, alla quale hanno partecipato in totale 160 persone. Nella graduatoria ufficiale stilata lo scorso metà giugno dall’azienda ospedaliera San Camillo di Roma, luogo dove si è svolto il concorso, i primi due classificati coincidono esattamente con i primi due vincitori previsti dal concorrente. Le altre 18 posizioni sono state conquistate, in ordine non esattamente coincidente con le previsioni del candidato, da altri 14 esaminandi che risultano anche nella classifica dei primi 20 stilata a fine aprile da Di Nicola. Nello specifico il terzo previsto da Di Nicola si è piazzato al 12° posto, il quarto all’ottavo, il quinto al settimo, il sesto al quinto e via discorrendo. “Parliamo di incarichi dirigenziali con stipendi di circa 130 mila euro lordi cadauno”, sottolinea il candidato ‘medium’ che ora sta preparando due esposti che depositerà alla Procura di Roma e al Tar del Lazio. “Non sto accusando nessuno – ci tiene a sottolineare Di Nicola – ma esigo quantomeno che venga fatta piena luce su questa vicenda”. L’ospedale San Camillo ha ribadito al Ilfattoquotidiano.it che “il concorso si è svolto correttamente”. La speciale top 20 è stata compilata dal candidato perché “durante le prove scritte – spiega Di Nicola – ho notato degli episodi che mi hanno insospettito. Uno su tutti quello di un concorrente trovato con foglietti di carta che anziché essere allontanato è stato spostato in prima fila davanti alla commissione d’esame. Oltre ad alcune modalità anomale, inerenti le prove scritte, ho trovato inusuale anche il fatto che la presidente della commissione del nostro concorso inizialmente era stata nominata membro di altre due commissioni d’esame per incarichi simili”. “A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina”, avrà pensato Di Nicola, che in attesa dell’ultima prova orale prevista per fine maggio, ha iniziato ad informarsi sugli altri candidati per cercare di capire quali sarebbero stati i vincitori del concorso. E la pec che lui stesso si è inviato il 2 maggio, con i nominativi dei primi 20 in graduatoria, è quasi coerente con il risultato finale. “Tramite le notizie recuperate sui circa 60 candidati ammessi all’ultima prova orale – dice Di Nicola – ho stilato la mia personale classifica dei vincitori del concorso. I posti a disposizione erano 14, ma visto che gli istituti sanitari del Lazio in futuro potranno attingere dalla graduatoria, in caso di necessità, per ricoprire i posti vacanti, mi sono spinto fino al 20° classificato, dato che anche arrivare a ridosso del 14° classificato sarebbe stato comunque molto importante”. Ed in base ad “appartenenze partitiche o sindacali dei candidati”, ed anche “in relazione a presunti rapporti con membri della commissione d’esame di altri concorrenti”, Di Nicola dice di essere arrivato vicino alla perfezione nella sua previsione. I primi due nominativi in graduatoria coincidono esattamente con i due previsti dal candidato. “La prima classificata era alle dirette dipendenze del presidente di commissione” evidenzia Di Nicola. Poi andando avanti tra i vincitori ci sono “ex candidati del Pd alle amministrative passate – racconta il candidato – alcuni eletti altri no, un ex presidente di municipio, un coordinatore del comitato per ‘Zingaretti presidente‘, rappresentanti sindacali vari e membri di primo piano dell’ordine professionale della nostra categoria”.
Milano, al concorso 439 aspiranti radiologi: tutti bocciati. Policlinico, nessuno riesce ad accedere agli orali. La «sufficienza» si ottiene con 21 punti su 30 nel primo test e con 14 su 20 nel secondo, nessuno li ha superati entrambi. Gallera: «Chiederò chiarimenti», scrive il 14 febbraio 1029 Sara Bettoni su Il Corriere della Sera. Dei quattrocento e passa in concorso, al traguardo non s’è visto nessuno. Università Statale, 4 febbraio scorso. In risposta a un bando del Policlinico per assumere tecnici di radiologia a tempo indeterminato, si presentano in 439. Gli esaminatori in realtà hanno in mano elenchi con oltre 760 iscritti, ma più del 40 per cento non si presenta. Forse perché impegnato in altre selezioni o perché nel frattempo ha già trovato un buon posto. Ma torniamo in quelle aule della Statale. L’azienda incaricata della selezione valuta i candidati in base a una prova scritta e una pratica. La «sufficienza» si ottiene con 21 punti su 30 nel primo test, con 14 su 20 nel secondo. A fine giornata, gli esaminatori tirano le somme. E nessuno dei 439 passa entrambe le prove. Saltano gli orali, tutto da rifare. Non è il primo caso in Italia, dicono dall’ospedale, ma al Policlinico non era mai successo. Perché tutti questi bocciati? In parte gli aspiranti tecnici radiologi, in arrivo anche da fuori Lombardia, potrebbero essere stati disorientati da alcune domande sul Sistema sanitario regionale, a loro poco noto. In parte, la preparazione richiesta dall’ospedale è piuttosto elevata. Non da tutti. L’episodio tuttavia preoccupa l’assessore lombardo alla Sanità Giulio Gallera, che chiederà «delucidazioni e chiarimenti» alla direzione generale. A breve, promette il Policlinico, sarà bandito un nuovo concorso.
Concorsi sospetti nella sanità, arrestati assessore e segretario del Pd dell’Umbria. Pubblicato venerdì, 12 aprile 2019 su Corriere.it. Il segretario del Pd dell’Umbria Gianpiero Bocci e l’assessore regionale alla Salute e coesione sociale Luca Barberini sono stati arrestati dalla Gdf nell’ambito dell’indagine della procura di Perugia su alcune irregolarità che sarebbero state commesse in un concorso per assunzioni in ambito sanitario. Nei confronti dei due sono stati disposti i domiciliari. Stesso provvedimento per il direttore generale dell’Azienda ospedaliera Emilio Duca e per il direttore amministrativo della stessa azienda. Sempre la Guardia di Finanza ha eseguito delle perquisizioni nei confronti della presidente della Regione Catiuscia Marini. Nell’indagine sarebbero coinvolti anche 6 dirigenti di una azienda ospedaliera.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2019. Un'associazione a delinquere per truccare e condizionare le assunzioni negli ospedali, piegandole alle richieste dei politici locali. L'avevano messa in piedi, secondo l'accusa della Procura di Perugia, il direttore generale della Azienda ospedaliera umbra Emilio Duca, il direttore amministrativo Maurizio Valorosi e altri complici. Ma dietro ci sarebbero state le pressioni della presidente della Regione Catiuscia Marini, dell' assessore alla Salute Luca Barberini e del segretario del Partito democratico umbro (nonché ex deputato e sottosegretario al ministero dell' Interno) Giampiero Bocci. Barberini e Bocci sono ora agli arresti domiciliari come Duca e Valorosi, mentre la presidente Marini è indagata per concorso in abuso d' ufficio, rivelazione di segreto e falso. Un terremoto giudiziario che fa tremare il governo della Regione e la politica del Pd in Umbria. Ieri gli ufficiali della Guardia di finanza hanno perquisito gli uffici della presidente Marini che si è detta «tranquilla e fiduciosa nell' operato della magistratura». Il neo-segretario del Pd, Nicola Zingaretti, ha già commissariato la federazione locale. In attesa delle versioni degli inquisiti, le carte dell' accusa raccontano di un «efficiente e solido sistema clientelare», fondato su una «prolungata e abituale attività illecita» per pilotare i concorsi dell'azienda ospedaliera. Almeno 8 sono i concorsi manipolati individuati dagli investigatori delle Fiamme gialle e dai pm guidati dal procuratore Luigi De Ficchy, che grazie a intercettazioni telefoniche e ambientali hanno seguito quasi in diretta le assegnazioni dei posti ai candidati indicati dai politici Bocci, Barberini e Marini. Grazie ai dirigenti ospedalieri che li informavano prima sul contenuto delle prove d'esame e poi aggiustavano i punteggi a loro favore. «Gli porto su le domande, sennò come fa?», diceva, prima di andare in consiglio regionale, il direttore Duca. Al quale una componente della commissione d' esame confidava: «Quelli che mi hai dato te (i nomi dei candidati, ndr) li ho dati tutti il massimo...». Dopodiché si giustificava con un primario dispiaciuto per il piazzamento di due infermiere: «Ma non te sto a dire... erano tanti da sistema'». Per l'assunzione di quattro assistenti contabili, Duca e Valorosi si sono trovati a dover assecondare le raccomandazioni dell'assessore Barberini e di Bocci, ma anche della nipote di un dirigente regionale del Pd e della presidente Marini. Dalle intercettazioni del 9 maggio 2018, infatti, risulta che il direttore abbia promesso di consegnare le tracce della prova scritta al vicepresidente del consiglio regionale Alvaro Mirabassi e a Bocci, dopodiché incontra la presidente della Regione: «Qui ce so le domande, tra quelle lì... sta tranquilla», le dice, e secondo gli inquirenti «consegna un foglio al di lei segretario, Valentino Valentini, al quale viene affidato il compito di portarlo a una donna». Era la favorita della governatrice, che assieme ai nomi dei segnalati dagli altri politici figurerà nelle prime quattro posizioni. Gli stessi aiuti vengono garantiti anche per le prove pratiche e orali, in particolari alla candidata di Bocci. «Era andato da Bocci per scrivergli un po' d' appunti per 'sta ragazza», dice Duca, mentre Valorosi riferisce: «Messaggio da Bocci: vuole gli orali, le domande orali». Alla presidente della commissione Duca raccomanda di «portare avanti le persone raccomandate da Bocci, Barberini e Marini, e dunque di "gonfiare" in particolare la valutazione di una delle candidate». Per un candidato meritevole ma «non segnalato» si riserva un posto futuro, mentre per la nomina del direttore della Struttura di anestesia vengono abbassati i punteggi di un «esterno» sperando che non si presenti (come avverrà), e alzati quelli del favorito da Bocci: «Ci puoi anche mettere mezzo punto in più per avvicinarlo a questo, che tanto non ci sarà, e dopo lo porti a 39!». Conclusione del giudice: «L' intera procedura verrà svuotata di ogni valenza in quanto gli indagati ne decideranno le sorti in maniera del tutto indipendente da ogni valutazione di merito».
Umbria, inchiesta Sanità: arrestati segretario Pd e assessore regionale. Indagata anche la presidente della Regione Catiuscia Marini nell'inchiesta su un concorso. "Massima collaborazione, sono tranquilla e fiduciosa nell'operato della magistratura", scrive La Repubblica il 12 aprile 2019. Il segretario del Pd dell'Umbria Gianpiero Bocci e l'assessore regionale alla Salute e coesione sociale Luca Barberini sono stati arrestati dalla Gdf nell'ambito dell'indagine della procura di Perugia su alcune irregolarità che sarebbero state commesse in un concorso per assunzioni in ambito sanitario. Nei confronti dei due sono stati disposti i domiciliari. Stesso provvedimento per il direttore generale dell'Azienda ospedaliera Emilio Duca e per il direttore amministrativo della stessa azienda. Anche il presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini, Pd, è indagata nell'inchiesta. Al momento non si conoscono gli addebiti nei suoi confronti. Dall'insieme degli elementi raccolti nell'indagine sulle assunzioni all'ospedale di Perugia deriva "un chiaro quadro di prolungata e abituale attività illecita". E' quanto emerge dall'ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip di Perugia. Secondo il giudice da parte degli indagati sono state "condizionate e sostanzialmente falsate le procedure di selezione del personale dell'Azienda ospedaliera". Undici i concorsi al centro dell'inchiesta e 35 le persone indagati. La Guardia di Finanza ha eseguito decreti di perquisizione nei confronti del presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini, del segretario regionale del Pd ed ex sottosegretario all'Interno Gianpiero Bocci e dell'assessore regionale alla Sanità Luca Barberini. L'inchiesta della procura di Perugia riguarda un concorso di una delle aziende sanitarie umbre. Nell'indagine sarebbero coinvolti anche sei dirigenti dell'azienda ospedaliera. L'indagine è seguita direttamente dal procuratore Luigi De Ficchy e ipotizza, a vario titolo, i reati di abuso d'ufficio, rivelazione del segreto d'ufficio, favoreggiamento e falso. I finanzieri, secondo quanto si apprende, hanno perquisito oltre che le abitazioni e gli uffici dei destinatari dei decreti, anche la sede dell'assessorato alla Sanità. "Quest'oggi mi è stata notificata dalla procura della Repubblica di Perugia una richiesta di acquisizione di atti nell'ambito di una indagine preliminare relativa a procedure concorsuali in capo ad una Azienda sanitaria umbra": lo ha reso noto la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini. "Ho offerto la mia massima collaborazione personale e istituzionale - ha sottolineato Marini - all'attività dei rappresentanti dell'autorità giudiziaria. Sono assolutamente tranquilla e fiduciosa nell'operato della magistratura, nella certezza della mia totale estraneità ai fatti e ai reati oggetto di indagine" - Nelle carte dell'inchiesta sulla sanità umbra spunta anche Giampiero Bocci, "all'epoca dei fatti deputato e sottosegretario al ministro dell'Interno, oggi segretario regionale del Partito democratico". A lui il gip fa riferimento per due conversazioni intercettate all'indagato Duca, dg dell'ospedale di Perugia. Nella prima, del 9 maggio 2018, Duca parla con Alvaro Mirabassi, vicepresidente del Consiglio Comunale di Perugia: "Anche il Mirabassi chiede di avere le tracce della prova scritta che si terrà il 16 maggio e il Duca lo rassicura aggiungendo inoltre che avrebbe dovuto darle anche a "Giampiero" (dovendosi intendere evidentemente l'onorevole Bocci)", si legge nell'ordinanza. Nella seconda intercettazione e in altre a seguire si conferma "la necessità avvertita da entrambi di far combaciare i diversi interessi clientelari, in particolare quelli segnalati dai predetti Barberini (assessore regionale alla Salute, ndr) e Bocci, al quale, ultimo, il Duca ripromette di consegnare le tracce scritte l'indomani". Il gip riporta l'intercettazione nella quale Duca dice: "Ah, anche Bocci è a Roma, me lo ha detto lui, ora gli mando un messaggio e domani pomeriggio, quando tornava su, gli porto le domande".
UMBRIA: SISTEMA PD…E I GIOVANI CHE NON RIENTRANO IN QUESTO SISTEMA? Scrive il 13 Aprile 2019 Antonio Massari e Valeria Pacelli per Il Fatto Quotidiano. “Non riesco a togliermi le sollecitazioni dei massimi vertici di questa Regione a tutti i livelli. Ecclesiastici – omissis – ecumenici, politici, tecnici. Se no a st’ora c’avevo messo le mani sulla gastro… altro che disposizioni di servizio dell’altra volta (…) Tra la massoneria, la curia e la giunta (…) non me danno tregua. E la Calabria Unita”. Così il 6 giugno 2018 parlava Emilio Duca, direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Perugia, l’uomo al quale – secondo le accuse dei pm di Perugia – si rivolgono politici e non solo per segnalare persone a loro vicine da inserire nelle graduatorie di selezione del personale nella sanità umbra. Ieri Duca è finito agli arresti domiciliari insieme al direttore amministrativo Maurizio Valorosi, all’ex sottosegretario all’Interno Gianpiero Bocci e all’assessore alla Salute Luca Barberini (che annuncia le sue dimissioni). Altri sei dirigenti dell’Azienda ospedaliera sono stati invece sospesi. Sono gli esiti di un’inchiesta in cui è indagata per abuso d’ufficio e rivelazione di segreto d’ufficio anche la governatrice umbra Catiusca Marini. Procediamo con ordine.
L’indagine, partita a fine 2017, ha svelato l’esistenza di un “sistema” clientelare in cui esisteva una “generalizzata disponibilità a commettere illeciti all’interno dell’azienda ospedaliera da parte di coloro che si occupano delle procedure di selezione”. Duca e Valorosi, in questo sistema, secondo il gip Valerio D’Andria, “interessati al soddisfacimento delle esigenze politiche”, facevano da tramite con alcuni componenti delle commissioni d’esame per ottenere le tracce che poi sarebbero state consegnate ai candidati “segnalati”. Secondo le accuse, Barberini avrebbe interferito in quattro concorsi e Bocci in tre. L’ex sottosegretario avrebbe anche passato agli altri indagati informazioni sull’indagine e per questo è accusato anche di favoreggiamento.
Sono otto le procedure, secondo l’accusa, “condizionate ”. Tra queste anche quella per l’assunzione di quattro assistenti contabili indetta nell’aprile del 2018.” Una procedura, secondo il gip, “condizionata dalle segnalazioni provenienti da esponenti politici, Catiuscia Marini, Luca Barberini, Gianpiero Bocci e Moreno Conti”, quest’ultimo “componente della direzione regionale del Pd”. “Al fine di raggiungere il fine prefissato di garantire a quattro candidati la vittoria del concorso – continua l’ordinanza – Duca e Valorosi ottengono dalla accondiscendente presidente della commissione le tracce delle prove scritte e del questionario, nonché, le domande della prova orale. I fogli che contengono tali preziose informazioni sono poi consegnati ai politici sopra indicati affinché li facciano avere ai candidati”. Le tracce del concorso, secondo quanto dice Duca intercettato, dovevano finire anche all’ex sottosegretario: “Anche Bocci è a Roma, me lo ha detto lui, ora gli mando un messaggio e domani pomeriggio… gli porto le domande”. Il 10 maggio quindi la presidente della commissione consegna “a Duca una busta” con i contenuti della prova. Quello stesso giorno il manager sanitario va in consiglio regionale dove incontra la governatrice Marini.
La conversazione tra i due viene intercettata: “Il Duca riferisce alla Marini di avere le ‘domande’in vista dello scritto (‘qui ce so le domande… sta tranquilla’) che ci sarà tra cinque giorni” e poi consegna un foglio al suo segretario “al quale viene affidato il compito di portarlo a una donna”, una delle “segnalate”. È poi in una intercettazione del 25 maggio che Duca “ribadisce la necessità di portare avanti le persone raccomandate da Bocci, da Barberini e dalla Marini e, dunque, di ‘gonfiare’ in particolare la valutazione di una delle candidate”. “Sono assolutamente tranquilla e fiduciosa nell’operato della magistratura – ha detto ieri la governatrice Marini –, nella certezza della mia totale estraneità ai fatti e ai reati oggetto di indagine”.
Sanità, inchiesta in Umbria: intercettati i cellulari, "Manipolata commissione a concorso". Ecco cosa si legge nell'ordinanza del gip, scrive il 12 aprile 2019 La Nazione. Telefonini intercettati e cimici negli uffici. Per captare le conversazioni tra gli indagati nell'inchiesta choc sulla sanità in Umbria la Guardia di Finanza si è avvalsa di diversi apparati tecnologici. E dei "trojan", quei "cavalli di Troia" virtuali, quei programmi-spia che captano tutte le attività di uno smartphone, compresi i messaggi. Questo emerge nell'ordinanza del gip di Perugia Valerio d'Andria riguardo agli arrestati. Il lavoro degli inquirenti "ha consentito di documentare il significativo contenuto di alcuni colloqui tenuti dall'indagato Emilio Duca, direttore generale dell'azienda ospedaliera di Perugia, al di fuori del suo ufficio", si legge nella stessa ordinanza. Sia Emilio Duca che Maurizio Valorosi, direttore amministrativo della stessa azienda, entrambi indagati nell'inchiesta, erano anche sottoposti a intercettazione ambientale in ufficio. Nell'ordinanza d'arresto del gip di Perugia che ha portato alla luce lo scandalo della sanità umbra si legge tra l'altro di una presunta "alterazione della procedura concorsuale consistita nella manipolazione dell'esito del sorteggio dei componenti della commissione esaminatrice".
Sesso e regali in cambio delle risposte ai concorsi: così medici e infermieri ottenevano il posto fisso a Perugia, scrive Simone Gussoni il 13/04/20190 su nursetimes.org. Emergono nuovi particolari in merito allo scandalo dei concorsi truccati per assumere medici, infermieri ed altri operatori sanitari e ausiliari presso alcuni ospedali di Perugia. “Una prolungata ed abituale attività illecita (…) mediante la quale sono state condizionate e sostanzialmente falsate le procedure di selezione del personale dell’azienda ospedaliera”. Con queste poche parole si può riassumere l’inchiesta portata avanti negli ultimi anni dalla Procura della Repubblica di Perugia, che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di 35 persone. Secondo le ultime indiscrezioni vi sarebbe stata una vera e propria concorsopoli. I candidati desiderosi di ottenere un posto fisso in ospedale avrebbero offerto soldi ma anche prestazioni sessuali a favore dei politici e dei dirigenti ospedalieri arrestati.
Scandalo sanità, sesso con la candidata dopo i suggerimenti, scrive il 13.04.2019 corrieredellumbria.corr.it. Spuntano anche rapporti sessuali in ufficio con una candidata nelle carte dell’inchiesta di Perugia sulla sanità umbra. In particolare, il gip fa riferimento al caso di uno degli indagati che «incontra la candidata e le dà suggerimenti sia sul curriculum che sulle condotte da assumere dopo la nomina della commissione esaminatrice. Alla fine del secondo colloquio - scrive il gip - inoltre i due interlocutori si scambiano effusioni e hanno un rapporto sessuale». La circostanza si ripete anche in successive occasioni, riporta l’ordinanza: «Anche dopo la procedura i due si incontrano presso l’ufficio (...) consumando in ogni occasione un rapporto sessuale». Il pm evidenzia come «i convegni amorosi si tengano proprio nel periodo in cui si svolge la procedura e senza che vi siano indici apparenti di una relazione sentimentale tra i due indagati» e ciò - sostiene - «indurrebbe a ritenere presente un vero e proprio accordo corruttivo fondato su uno scambio tra le prestazioni sessuali e la nomina». Tuttavia, il gip, evidenziando come il legame tra i due «quantomeno di amicizia, era ben precedente», sottolinea come più probabilmente si tratti di «una logica tipicamente clientelare che sfugge però all’inquadramento del delitto ipotizzato».
Umbria, intercettazioni. "Ho le domande, tranquilla". Inchiesta si allargherà. «Qui ce so le domande, tra quelle lì... sta tranquilla». Diceva così il direttore dell'azienda ospedaliera alla governatrice Pd. Bufera sulla sanità in Umbria, scrive Sabato, 13 aprile 2019 Affari italiani. E' un indagine "destinata ad allargarsi" quella condotta dalla Guardia di Finanza su una decina di concorsi per assunzioni all'ospedale di Perugia che sarebbero stati pilotati, secondo l'Ansa. L'inchiesta si incentra "principalmente" sull'ospedale del capoluogo umbro. Ma potrebbe estendersi - secondo quanto si e' appreso - anche ad altri settori della sanita' e della politica legata al Pd. «Qui ce so le domande, tra quelle lì... sta tranquilla». Diceva così il direttore dell'azienda ospedaliera alla governatrice Pd. Bufera sulla sanità in Umbria. Perquisizioni, arresti e tante polemiche politiche. Ai domiciliari sono finiti il segretario regionale del Partito democratico ed ex sottosegretario all'Interno, Gianpiero Bocci, l'assessore regionale alla Sanità, Luca Barberini, e il dg dell'ospedale, Emilio Duca. Stesso provvedimento per il direttore amministrativo. Indagata la presidente della Regione, Catiuscia Marini. L'inchiesta, condotta dalla guardia di finanza e coordinata dalla Procura di Perugia, è stata aperta con ipotesi di reato che vanno dall'abuso di ufficio alla rivelazione del segreto d'ufficio, dal favoreggiamento al falso. Nel mirino è finito un concorso per dirigenti nell'Azienda sanitaria di Perugia. Se Barberini si è dichiarato estraneo ai fatti e si è autosospeso dal Pd, oltre ad aver annunciato che si dimetterà dalla carica di assessore, la governatrice in una nota ha annunciato che "mi è stata notificata dalla Procura della Repubblica di Perugia una richiesta di acquisizione di atti nell'ambito di una indagine preliminare relativa a procedure concorsuali in capo ad una Azienda sanitaria umbra. Ho offerto - ha aggiunto Marini - la mia massima collaborazione personale e istituzionale all'attività dei rappresentanti dell'autorità giudiziaria".
Umbria, scandalo sanità: le intercettazioni. In attesa delle versioni degli inquisiti, le carte dell’accusa raccontano di un «efficiente e solido sistema clientelare», fondato su una «prolungata e abituale attività illecita» per pilotare i concorsi dell’azienda ospedaliera. Il Corriere della Sera riporta alcune intercettazioni del caso. «Gli porto su le domande, sennò come fa?», diceva, prima di andare in consiglio regionale, il direttore Duca. Al quale una componente della commissione d’esame confidava: «Quelli che mi hai dato te (i nomi dei candidati, ndr) li ho dati tutti il massimo...». Dopodiché si giustificava con un primario dispiaciuto per il piazzamento di due infermiere: «Ma non te sto a dire... erano tanti da sistema’». Per l’assunzione di quattro assistenti contabili, risulta che il direttore abbia promesso di consegnare le tracce della prova scritta al vicepresidente del consiglio regionale Alvaro Mirabassi e a Bocci, dopodiché incontra la presidente della Regione: «Qui ce so le domande, tra quelle lì... sta tranquilla», le dice, e secondo gli inquirenti «consegna un foglio al di lei segretario, Valentino Valentini, al quale viene affidato il compito di portarlo a una donna». Era la favorita della governatrice, scrive il Corriere della Sera, che assieme ai nomi dei segnalati dagli altri politici figurerà nelle prime quattro posizioni. Gli stessi aiuti vengono garantiti anche per le prove pratiche e orali, in particolari alla candidata di Bocci. «Era andato da Bocci per scrivergli un po’ d’appunti per ’sta ragazza», dice Duca, mentre Valorosi riferisce: «Messaggio da Bocci: vuole gli orali, le domande orali». Alla presidente della commissione Duca raccomanda di «portare avanti le persone raccomandate da Bocci, Barberini e Marini, e dunque di “gonfiare” in particolare la valutazione di una delle candidate». Dalle carte, riportate sempre dal Corriere della Sera, risulta anche che per per la nomina del direttore della Struttura di anestesia vengono abbassati i punteggi di un «esterno» sperando che non si presenti (come avverrà), e alzati quelli del favorito da Bocci: «Ci puoi anche mettere mezzo punto in più per avvicinarlo a questo, che tanto non ci sarà, e dopo lo porti a 39!». Insomma, secondo le parole del giudice riportate sempre dal Corriere della Sera: «L’intera procedura verrà svuotata di ogni valenza in quanto gli indagati ne decideranno le sorti in maniera del tutto indipendente da ogni valutazione di merito».
Arresti sanità: Marini, assoluta estraneità ad addebiti. La presidente umbra Catiuscia Marini in una conferenza stampa ha rivendicato la sua "assoluta estraneità" rispetto alla sua posizione di indagata. "Ho appreso grazie al puntuale lavoro degli inquirenti di una situazione sconcertante - ha detto - che se sarà confermata risulta molto grave per la nostra regione". "Tutelerò anche l'integrità morale della mia persona e della figura di presidente della Regione perchè se confermato, ho il dovere di difendere non solo Catiuscia Marini ma la Regione che rappresento", ha aggiunto.
13 Aprile 2019 Umbria On. «Gli porto su le domande sennò questo come fa?». «Quelli che mi hai dato te, li ho dati tutti il massimo». E ancora: «Erano tanti da sistema’, tanti… tanti»; «Messaggio da Bocci… vuole gli orali, le domandi orali». Sono solo alcuni frammenti, quelli più significativi, delle conversazioni captate dagli uomini della Guardia di Finanza di Perugia e contenute nelle 80 pagine dell’ordinanza del gip Valerio D’Andria che venerdì pomeriggio hanno portato ai domiciliari, nell’ambito dell’inchiesta sui concorsi ‘truccati’ all’ospedale Santa Maria della Misericordia, il segretario regionale del Pd ed ex sottosegretario al ministero dell’Interno, Gianpiero Bocci, l’assessore regionale alla sanità, Luca Barberini, il direttore generale dell’azienda ospedaliera di Perugia, Emilio Duca, e il direttore amministrativo della stessa struttura, Maurizio Valorosi. Un’inchiesta in cui è coinvolta, come indagata a piede libero, anche la presidente della Regione, Catiuscia Marini, insieme ad altre 30 persone, sei delle quali colpite da misure interdittive. Un vero e proprio terremoto giudiziario, che riguarda alti dirigenti del Santa Maria della Misericordia e dell’assessorato alla sanità, alcuni membri degli otto concorsi finiti sotto la lente, candidati e familiari, ma anche un sindacalista, un generale in congedo dell’Arma dei carabinieri e un brigadiere della Finanza. L’inchiesta non si ferma.
Il ‘sistema’. Intercettazioni telefoniche e ambientali, che hanno prodotto una grossa mole di contenuti audio-visivi, ma anche un captatore informatico (il cosiddetto trojan) inserito all’interno dell’utenza del dg Emilio Duca, hanno fatto emergere – si legge nell’ordinanza – «un chiaro quadro di una prolungata ed abituale attività illecita» (posta in essere in prima battuta dallo stesso Duca, promotore e coordinatore dell’associazione, con il direttore amministrativo Valorosi ma «unitamente agli altri»), «mediante la quale sono state condizionate e sostanzialmente falsate le procedure di selezione del personale dell’azienda ospedaliera», attraverso la comunicazione a terzi interessati delle tracce d’esame e indirizzando le varie commissioni in ordine alle valutazioni da assegnare ai candidati, in un caso – è il caso del concorso per dirigente sanitario biologo – anche attraverso la manipolazione dell’esito del sorteggio dei componenti della commissione. «Si è di fronte, senza dubbio, ad un ‘sistema’, termine che ritorna più volte nelle conversazioni intercettate» scrive ancora il gip.
Domande in ‘consiglio regionale’. Il primo a finire sotto la lente degli inquirenti è il concorso per l’assunzione a tempo determinato di collaboratore professionale sanitario-infermiere, svolto tra il gennaio e l’aprile 2018. Una conversazione tra Duca e Valorosi, intercettata il 30 gennaio 2018 (giorno precedente alla prova scritta) documenta chiaramente come «Duca avesse con sé le tracce e che fosse in procinto di consegnarle in ‘consiglio regionale’». «Gli porto su le domande se no questo come fa?» dice Duca. Qualche giorno dopo, il 13 febbraio, lo stesso dg fornisce un indizio significativo in ordine alla persona al ‘consiglio regionale’ interessata a ricevere le tracce: l’assessore alla Sanità, Luca Barberini. Dirà una delle indagate allo stesso Duca: «Quelli che mi hai dato te, li ho fati tutti il massimo», aggiungendo che «l’assessore poteva stare tranquillo».
Date di esame spostate. «Erano tanti da sistema’, tanti.. tanti». «Che bocialli, ce mancherebbe altro!…rischiamo il culo noi, eh?» è un’altra delle conversazioni captate dagli investigatori da una delle indagate, membro della commissione, che avrebbe ricevuto pressioni, nello stesso concorso, anche in merito all’assunzione di una parente del generale dei carabinieri. Una «persona dell’assessore» sarebbe stata raccomandata anche nel concorso per dirigente medico geriatria, avvenuto tra maggio e giugno 2017, durante il quale sarebbe stato addirittura deciso di spostare la data della prova orale, in maniera tale da consentire nel frattempo ad una candidata di fruire della procedure di di stabilizzazione e dunque di non partecipare alle altre prove concorsuali, a favore dei candidati che l’avrebbero seguita in graduatoria.
Gli ‘sponsor’. «Invece che 40 lo portamo a 30, per avvicinarlo a quell’altri 3 nostri… gestire un punto non è un problema» dice ancora Duca in un’intercettazione in merito ad un altro concorso, quello di direttore della struttura complessa di anestesia concluso a maggio 2018 con la nomina di uno degli indagati, concorso in cui emerge la necessità di far vincere «un candidato interno, anche per non scontentare gli interessi locali». «Ho parlato anche con l’assessore e gli ho fatto vede’ i punteggi» dice ancora Duca, parlando di assessorato come «sponsor» e riferendo di un colloquio avuto in proposito anche con la presidente della Regione, Catiuscia Marini.
Le pressioni della politica. È invece nel concorso per l’assunzione di 4 assistenti contabili, svolto nella primavera 2017, che sarebbero emersi gli interessi dell’assessore Barberini e dell’on.Giampiero Bocci, allora sottosegretario al Viminale. «Tocca farsi dare le domande» dice ancora Duca in una conversazione. Anche un politico locale chiede di avere le tracce della prova scritta e Duca lo rassicura aggiungendo inoltre che avrebbe dovuto darle «anche a ‘Gianpiero’». Duca rifersice poi alla stessa Marini di avere le ‘domande’ in vista dello scritto: «Qui ce so le domande, tra quelle lì… sta tranquilla». Per il gip è «decisiva intromissione dell’onorevole Bocci e dell’assessore Barberini», visto che Duca ribadisce la necessità di portare avanti le persone raccomandate da Bocci, Barberini e Marini, e dunque di ‘gonfiare’ in particolare la valutazione di una delle candidate. Afferma Valorosi in un’altra intercettazione: «Messaggio da Bocci… vuole gli orali, le domandi orali»). Sin dall’inizio, sempre secondo il gip, la procedura è dunque condizionata dalle segnalazioni provenienti da esponenti politici.
Tra sesso e ‘spionaggio’. Raccomandazioni in campo da Marini e Bocci sarebbero emerse anche per in un concorso da coadiutore amministrativo (cat. B). «L’altro ieri Giampiero mi ha dato due nominativi» dice ancora Valorosi in una conversazione intercettata, nel quale però una candidata ‘raccomandata’ dall’ex sottosegretario venne bocciata. Tra gli altri concorsi finiti nell’indagine, quello da dirigente medico anestesista e per collaboratore professionale (categoria D), quello da dirigente sanitario biologo – finito nelle carte dell’inchiesta per la procedura di nomina di uno dei componenti della commissione, persona «affidabile» – ed infine un concorso dirigenziale a tempo determinato in capo alla Regione: in questo caso dal capo d’imputazione emerge per Duca anche l’accusa mossa dalla procura – ma per i quali non ci sono profili da parte del gip – di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, avendo avuto rapporti sessuali con una delle candidate. C’è poi il capitolo peculato: Duca, Valorosi e Pacchiarini si erano accorti di essere intercettati – ma pensavano ad uno spionaggio ‘privato’ – e per questo hanno chiesto ad una ditta di eseguire una bonifica dei propri uffici attraverso risorse (1.342 euro) dell’azienda ospedaliera.
Gli indagati. Oltre ai nomi già emersi, risultano indagati anche Walter Orlandi (attuale dirigente responsabile regionale della Sanità), Diamante Pacchiarini (direttore sanitario), Roberto Ambrogi (responsabile Ufficio contabilità e bilancio), Domenico Barzotti (componente e segretario della commissione esaminatrice del concorso da infermiere), Lorenzina Bolli (presidente commissione di uno dei concorsi), Riccardo Brugnetta e Amato Carloni (componenti commissione riservata al personale della Regione), Gabriella Carnio (responsabile delle professioni sanitarie), Maria Cristina Conte (responsabile ufficio personale), Pasquale Coreno (generale dei carabinieri in congedo), Potito D’Errico (docente universitario e primario di Odontoiatria), Giuseppina Fontana (componente commissione riservata al personale della Regione), Rosa Maria Franconi (dirigente Ufficio acquisti e appalti), Antonio Tamagnini (responsabile attività amministrative e sperimentazioni cliniche), Maurizio Dottorini (presidente commissione di uno dei concorsi), Patrizia Mecocci (docente e direttore scuola di specializzazione in Geriatria), Paolo Leonardi (dipendente azienda ospedaliera), Marco Cotone (segretario regionale Uil-Fpl), Eleonora Capini (candidate), Vito Aldo Peduto (direttore di Anestesia e rianimazione), Simonetta Tesoro (dirigente medico Anestesia e rianimazione), Mario Pierotti (padre di una delle candidate), Francesco Oreste Domenico Riocci (brigadiere della Guardia di Finanza), Milena Tomassini (dipendente regionale), Serena Zenzeri (componente ufficio procedimenti disciplinari), Giampiero Antonelli, Moreno Conti, Fabio Gori, Alessandro Sdoga, Domenico Oristanio.
L’unità di crisi: «Via le mele marce». La bufera ha fatto scattato la convocazione di un’unità di crisi permanente. A dare l’indicazione il ministro della Salute, Giulia Grillo: «Il quadro della vicenda – commenta il ministro – è molto grave. Per la parte che attiene al mio ministero effettueremo ogni verifica che ci compete. Quando c’è di mezzo la salute dei nostri cittadini non possiamo permettere che gli abusi di una certa politica, di un cattivo modo di amministrare la sanità sporchino il lavoro di tanti operatori che ogni giorno con sacrificio sostengono il Ssn. Cacceremo le mele marce, subito, perché non può esserci salute senza legalità». La riunione ci sarà alle 16 nella sede del dicastero di Lungotevere Ripa: l’obiettivo è accertate se, e in che misura, siano stati commessi reati contro la pubblica amministrazione e impedimenti nell’erogazione dei servizi sanitari ai cittadini.
Attesi sviluppi. Ma l’inchiesta è solo alle battute iniziali e dunque destinata ad allargarsi, visto che dagli otto concorsi al momento finiti nel mirino potrebbero aggiungersene altri, non solo relativi all’ospedale di Perugia. Tante le persone informate sui fatti – dirigenti, politici, personale sanitario, vincitori ed esclusi dalle graduatorie – che sono e saranno ascoltate dalla procura per cercare eventuali nuovi elementi. Circostanza questa confermata anche nell’ordinanza, laddove si evidenzia che per il pm «l’attivismo degli indagati e l’utilizzo spregiudicato delle relazioni di potere emerse nel corso delle indagini, costituisce un serio pericolo anche in funzione della necessaria escussione delle persone informate sui fatti, tenuto conto del concreto rischio che costoro subiscano le pressioni degli indagati». Intanto, in attesa degli interrogatori – che dovrebbero svolgersi entro martedì -, i quattro arrestati hanno avuto modo di incontrare i loro legali, David Brunelli per Barberini, Bocci e Valorosi e Francesco Maria Falcinelli per Duca. «Immaginiamo che ci saranno sviluppi investigativi e che siamo al momento solo al punto di partenza – spiega il professor Brunelli -, dunque è ancora prematuro fare valutazioni. Ma i miei assistiti sono sereni e convinti di potersi difendere agevolmente». Richiesta di revoca del provvedimento al gip e/o istanza di riesame le due ipotesi sulle quali stanno lavorando le difese.
Le deleghe post dimissioni di Barberini. La Marini ha preso atto delle dimissioni dell’ormai ex assessore alla sanità, quindi ha firmato il decreto – fino a nuove determinazioni – per la distribuzione delle deleghe: a Fabio Paparelli vanno le politiche e programmi sociali (welfare), politiche familiari, per l’infanzia e per i giovani, politiche immigrazione, cooperazione, associazionismo e volontariato sociale; ad Antonio Bartolino tutela e promozione della salute, programmazione e organizzazione sanitaria, ivi compresa la gestione del patrimonio immobiliare sanitario, sicurezza sui luoghi di lavoro e sicurezza alimentare; infine a Fernanda Cecchini vanno i rapporti con l’assemblea legislativa regionale.
L’inchiesta sui concorsi truccati in Umbria, scrive Sabato 13 aprile 2013 Il Post. Sono stati arrestati il segretario locale del PD e l’assessore alla Salute, accusati di aver favorito alcuni candidati in concorsi in ambito sanitario: è indagata anche la presidente della regione. Il segretario del PD dell’Umbria Gianpiero Bocci e l’assessore regionale alla Salute e coesione sociale Luca Barberini sono stati arrestati nell’ambito di un’inchiesta della procura di Perugia su alcune irregolarità che sarebbero state commesse in concorsi per assunzioni in ambito sanitario. Nell’inchiesta è indagata anche la presidente della regione Catiuscia Marini, del PD, ma al momento non si conoscono le accuse nei suoi confronti. In tutto i concorsi al centro dell’inchiesta sono undici, mentre sono trentacinque le persone indagate. I fatti contestati sarebbero avvenuti nel 2018, quando Bocci era deputato del PD e sottosegretario del ministero dell’Interno. Per Bocci e Barberini sono stati disposti gli arresti domiciliari e, oltre a loro, sono stati arrestati anche Emilio Duca e Maurizio Valorosi, rispettivamente direttore generale e direttore amministrativo dell’azienda ospedaliera di Perugia. Gli imputati sono accusati a vario titolo di abuso d’ufficio, rivelazione del segreto d’ufficio, favoreggiamento e falso. L’inchiesta, condotta dal procuratore Luigi De Ficchy, riguarderebbe alcuni concorsi per assumere circa trenta tra medici, infermieri e personale ausiliario nell’ospedale di Perugia. I concorsi, secondo l’accusa, sarebbero stati truccati da Bocci e Barberini per favorire alcuni candidati, anticipando loro le domande che gli sarebbero state rivolte. Nell’ordinanza del Gip di Perugia si legge che Bocci e Barberini «hanno indicato i soggetti da favorire nelle selezioni pubbliche e hanno ricevuto una pronta risposta da parte del direttore generale e del direttore amministrativo, i quali hanno garantito loro la comunicazione di notizie riservate, nonché un costante impegno volto a monitorare le procedure e ad assicurare il risultato sperato». A Bocci sono contestate alcune intercettazioni telefoniche in cui Duca dice di dovergli consegnare le tracce della prova scritta di un concorso che si è tenuto nel maggio del 2018. Il Gip dice anche che gli indagati sarebbero venuti a sapere dell’indagine nei loro confronti e di essere sottoposti a intercettazioni telefoniche, e ha giustificato l’arresto di Bocci dicendo che l’imputato avrebbe comunicato a Valorosi l’esistenza delle indagini. Secondo il Gip ci sarebbe quindi stato un rischio elevato «che egli sfruttando conoscenze acquisite nell’ambito istituzionale e in particolare tra ufficiali di polizia giudiziaria, possa porre in essere altre condotte analoghe a quelle già approfondite con conseguente pregiudizio per le indagini». Dalle intercettazioni risulterebbe anche un video in cui Duca aveva con sé le tracce delle prove scritte del concorso da portare in consiglio regionale, per consegnarle all’assessore regionale Luca Barberini. Nell’ordinanza d’arresto si legge anche di una presunta “alterazione della procedura concorsuale consistita nella manipolazione dell’esito del sorteggio dei componenti della commissione esaminatrice” e di una presunta “alterazione della procedura concorsuale consistita nella manipolazione dell’esito del sorteggio dei componenti della commissione esaminatrice”. In un’altra intercettazione Duca, parlando degli appoggi politici che avrebbe trovato per aiutare un candidato in un concorso, avrebbe indicato un certo “assessorato”, aggiungendo che avrebbe avuto anche «un colloquio avuto in proposito con la Presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini». Marini, che è presidente della regione dal 2010, ha detto di aver ricevuto una richiesta di acquisizione di atti e di aver offerto la sua massima collaborazione nell’inchiesta. «Sono assolutamente tranquilla e fiduciosa nell’operato della magistratura, nella certezza della mia totale estraneità ai fatti e ai reati oggetto di indagine» ha detto commentando la sua iscrizione nel registro degli indagati.
L’inchiesta sui concorsi ospedalieri truccati della Regione Umbria, scrive Alessandro D'Amato il 13 Aprile 2019 su Next Quotidiano. Un “sistema che andava avanti da sempre” quello con cui sono stati “condizionati e sostanzialmente falsati”, come scrive il gip, da esponenti di primo piano del Pd umbro 11 concorsi per una trentina di assunzioni all’ospedale di Perugia per primari, medici, infermieri e ausiliari fino ad arrivare alle categorie protette. Ed Emilio Duca, direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Perugia, al telefono diceva: “Non riesco a togliermi le sollecitazioni dei massimi vertici di questa Regione a tutti i livelli. Ecclesiastici – omissis (forse si è sbianchettato il termine: Magistrati? Nda) - ecumenici, politici, tecnici. Se no a st’ora c’avevo messo le mani sulla gastro… altro che disposizioni di servizio dell’altra volta (…) Tra la massoneria, la curia e la giunta (…) non me danno tregua. E la Calabria Unita”. L’indagine ha portato agli arresti domiciliari l’assessore regionale alla Sanità Luca Barberini, il segretario regionale del Pd (ora commissariato da Nicola Zingaretti) Gianpiero Bocci, il direttore generale dell’Azienda ospedaliera Emilio Duca e quello amministrativo Maurizio Valorosi. La presidente della Regione Catiuscia Marini, anche lei del Partito democratico, è invece indagata a piede libero. Per la procura “in più occasioni” si sarebbe interessata ai concorsi. L’indagine, condotta dalla guardia di finanza, è andata avanti per mesi. Con intercettazioni telefoniche a attività d’indagine a riscontro. Complessivamente sono 35 le persone indagate. A chi doveva superare le prove – scrive ancora il gip nell’ordinanza di applicazione delle misure cautelari – venivano fornite “le tracce d’esame e gli indirizzi della commissione in ordine alle valutazioni da assegnare ai candidati”. L’accusa ritiene che Barberini abbia interferito in quattro concorsi e in tre Bocci (in passato sottosegretario all’Interno in tre Governi del Pd) che avrebbe anche passato agli altri indagati informazioni sull’indagine e per questo deve rispondere di favoreggiamento. Secondo il gip alla base delle esigenze cautelari per i due c’è “l’abile sfruttamento di un efficiente e solido sistema clientelare e la stabile utilizzazione delle funzioni e del ruolo istituzionale rivestito per finalità illecite”. Più in generale per il giudice che ha disposto le misure cautelari “dall’insieme degli elementi raccolti deriva un chiaro quadro di abituale attività illecita”. Delineato anche dalle intercettazioni agli atti. “Messaggio da Bocci… vuole gli orali, le domande orali”, dice il direttore amministrativo Valorosi al dg Duca. Quest’ultimo il 9 maggio del 2018 – scrive il gip – “si reca in consiglio regionale e ha un incontro con la presidente della regione Umbria Catiuscia Marini… il Duca riferisce alla Marini di avere le ‘domande’ in vista dello scritto (‘qui ce so le domande, tra quelle lì…sta tranquilla’)”.
Gli otto concorsi truccati. Almeno 8 sono i concorsi manipolati individuati dagli investigatori delle Fiamme gialle e dai pm guidati dal procuratore Luigi De Ficchy, che grazie a intercettazioni telefoniche e ambientali hanno seguito quasi in diretta le assegnazioni dei posti ai candidati indicati dai politici Bocci, Barberini e Marini. Grazie ai dirigenti ospedalieri che li informavano prima sul contenuto delle prove d’esame e poi aggiustavano i punteggi a loro favore. «Gli porto su le domande, sennò come fa?», diceva, prima di andare in consiglio regionale, il direttore Duca. Al quale una componente della commissione d’esame confidava: «Quelli che mi hai dato te(i nomi dei candidati, ndr)li ho dati tutti il massimo…». Scrive il Corriere: Per l’assunzione di quattro assistenti contabili, Duca e Valorosi si sono trovati a dover assecondare le raccomandazioni dell’assessore Barberini e di Bocci, ma anche della nipote di un dirigente regionale del Pd e della presidente Marini. Dalle intercettazioni del 9 maggio 2018, infatti, risulta che il direttore abbia promesso di consegnare le tracce della prova scritta al vicepresidente del consiglio regionale Alvaro Mirabassi e a Bocci, dopodiché incontra la presidente della Regione: «Qui ce so le domande, tra quelle lì… sta tranquilla», le dice, e secondo gli inquirenti «consegna un foglio al di lei segretario, Valentino Valentini, al quale viene affidato il compito di portarlo a una donna».
“Rischiamo di perdere la Regione”. Carlo Bertini sulla Stampa spiega le possibili ripercussioni dell’inchiesta sulla sanità umbra, che coglie il Partito Democratico durante la ricostruzione del neosegretario: Zingaretti si trova a gestire una forte scossa di terremoto proprio nel Day After del lancio delle liste per le europee in pompa magna. Con lo slogan del grande rinnovamento e dei nomi che parlano al paese. Un terremoto perché Bocci è stato pure sottosegretario agli interni, insomma una personalità di peso. Che alle primarie si è schierato con Martina dopo aver militato nell’area cattolica del partito fin dai tempi della Margherita. «E che evidentemente non si aspettava nulla, visto che ieri era tranquillamente in Direzione», raccontano dirigenti che erano ieri al terzo piano del Nazareno mentre parlava il segretario. Lo sconcerto insomma è grande, e sorge pure la domanda: ma non è che cade la giunta e si rischia di perdere pure l’Umbria? I renziani non aprono bocca, meno che meno la sfidante di Zingaretti in tandem con Giachetti, Anna Ascani, vicepresidente del partito eletta come capolista nella regione. «Preferisco non commentare», stop. Anche i suoi amici renziani non speculano, ma non sono teneri su come andrà alle urne. «Al di là di quello che si dice, non ci sono aspettative di grandi masse di voti in arrivo. Perché i capilista non parlano al paese, non c’è un progetto, c’è solo un calo di gradimento per partiti di governo». Tradotto, se il Pd andrà così così Zingaretti non se la potrà prendere solo con il caso Umbria.
Perugia, l’indagine sui concorsi pilotati in ospedale. Il dg Duca: «Giunta, curia e massoni non mi mollano». Pubblicato sabato, 13 aprile 2019 da Giovanni Bianconi Corriere.it. Nel sistema delle assunzioni pilotate, anche chi alla prova d’esame faceva «scena muta» poteva avere delle chance. Il direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera perugina Maurizio Valorosi s’era messo a disposizione del politico che aveva raccomandato la candidata da respingere, Gianpiero Bocci. «Gli ho detto “Gianpiero, io se tu dici che è una questione vitale... da quanto vedo c’ha delle difficoltà”», raccontava al direttore generale Emilio Duca. Ma Bocci non insisté: «Non è una questione di vita o di morte... Ho capito, insomma, che sì, interessava, però fino a un certo punto... e allora meglio prendere due buoni». Ora che sono tutti agli arresti domiciliari (Duca, Valorosi, l’ormai ex segretario regionale del Pd Bocci e l’altrettanto ex assessore regionale alla Sanità Luca Barberini), emergono i retroscena delle trame per truccare i concorsi raccontati dagli stessi protagonisti. Che si arrabattavano per «contemperare l’onestà intellettuale, l’attenzione ai nostri amministratori, ma anche il funzionamento dell’azienda», confidava Duca. Per il giudice che ha ordinato gli arresti è la dimostrazione di un «meccanismo clientelare diffusissimo», alimentato con «prassi illecite ben tollerate da tutto l’ambiente», del quale «gli stessi indagati sembrano essere dei semplici ingranaggi». Al punto che Duca quasi si lamentava di non riuscire a scrollarsi di dosso «le sollecitazioni dei massimi vertici di questa regione a tutti i livelli... ecclesiastici — omissis — ecumenici, politici, tecnici... Tra la massoneria, la giunta e la curia — omissis — non me danno tregua». Secondo la Procura dietro il «sistema» c’era una vera e propria associazione a delinquere, ma il giudice delle indagini preliminari non la vede allo stesso modo. Perché, sostiene, «dovrebbe ricomprendere i referenti politici, che incidono pesantemente nelle procedure di selezione sia del personale infermieristico che medico». I pubblici ministeri, invece, per ora li hanno lasciati fuori dalla presunta «consorteria criminale». Ma al di là dei reati contestati, l’indagine che scuote alle fondamenta la Giunta e il Partito democratico dell’Umbria ha scoperchiato un sistema di potere dentro il quale si specchiano due fazioni interne al Pd e al governo regionale, da sempre in lotta tra loro. Nel corso di Perugia se ne parla nei crocchi e ai tavolini dei bar. È come se la magistratura avesse gridato alla città che il re è nudo, e in questo caso la verità conosciuta da tutti ma da tutti taciuta è lo scontro intestino tra l’anima ex democristiana della Margherita (rappresentata da Bocci e Barberini) e quella ex comunista dei ds, di cui è espressione la presidente della Regione Catiuscia Marini. Con Bocci si scontrò alle primarie, lo sconfitto si trasferì alla Camera e al sottogoverno nazionale (sottosegretario all’Interno), ma qui è rimasto saldamente agganciato a un pezzo di governo e di amministrazione del consenso. Quando nel 2016 la presidente nominò Duca alla guida dell’Azienda ospedaliera di Perugia, il suo fedelissimo Barberini si dimise dall’assessorato: lui e Bocci sponsorizzavano Valorosi, rimasto nella carica di direttore amministrativo. Poi la protesta rientrò, e dalle intercettazioni sembrerebbe che la convivenza proseguì grazie alla gestione clientelare delle assunzioni, con la spartizione dei posti da assegnare grazie ai concorsi truccati. Quando s’è trattato di eleggere il segretario regionale, dopo la sconfitta alle elezioni politiche che ha contribuito a scolorire l’Umbria rendendola sempre meno rossa, Bocci s’è candidato alle primarie contro Walter Verini, il deputato scelto da Zingaretti per commissariare il partito dopo gli arresti. «Io e Bocci non siamo la stessa cosa — dichiarò Verini all’epoca —, io non ho mai avuto un candidato per una Asl, e quando sento dire “i miei” penso ai familiari, non alle truppe nel partito». Nei gazebo vinse Bocci, quattro mesi dopo è lui a guidare il Pd, ma ancora una volta sono arrivati prima i magistrati. «L’inchiesta farà il suo corso, però è chiaro che un sistema di governo che pure ha prodotto risultati positivi e importanti si mostra logoro, chiuso e autoreferenziale — dice Verini nella sede del partito dopo aver diretto la prima riunione di ciò che resta della segreteria —. Io credo che abbiamo gli anticorpi per risollevarci, ma se non lo facciamo in fretta lasceremo campo libero alla Lega, oltre che alla magistratura». Salvini ha già chiesto elezioni anticipate per la Regione, ma la ministra 5 Stelle Giulia Grillo lo ha stoppato: «Nessuno sciacallaggio». Il 26 maggio qui si voterà per il Parlamento europeo ma anche per il sindaco. Per provare a riprendersi la città ceduta cinque anni fa al candidato di Forza Italia Andrea Romizi, il Partito democratico ha evitato di dilaniarsi alle primarie scegliendo il giornalista tv Giuliano Giubilei, che ora per provare ad arrivare al ballottaggio dovrà saltare anche l’ostacolo di questa inchiesta giudiziaria. Che rischia di avere conseguenze pure su altri confronti e conflitti di potere e sottopotere, dove gli sfidanti fanno capo sempre agli stessi schieramenti. Come nella imminente scelta del rettore dell’università; i due candidati con maggiori possibilità si portano addosso le rispettive sponsorizzazioni di Bocci e Marini. Anche se c’entrano nulla con l’indagine, entrambi temono di uscirne azzoppati. Perché a prescindere dai reati, è un sistema di potere a ritrovarsi sotto accusa.
COSÌ SILURARONO LA PEDIATRA ONESTA: «A QUELLA DAREMO UNA BASTONATA». Luca Benedetti Michele Milletti per “il Messaggero” il 13 aprile 2019. Nell' inchiesta su sanità e favori che ha messo in ginocchio il Pd umbro e fatto vacillare la giunta regionale con arresti e indagati, c' erano i favoriti e i nemici. E i nemici sono quelli che si opponevano a quel sistema che per la Procura si basava su un «muro di omertà». «Una bastonata, di quelle forti, che si fa male», è l'indicazione che il direttore amministrativo dell' azienda ospedaliera perugina, Maurizio Valorosi (ai domiciliari) chiede di dare alla professoressa Susanna Esposito, primario di Clinica Pediatrica. Lo chiede a Diamante Pacchiarini (direttore sanitario, indagato). La Esposito nel maggio dell'anno scorso ha presentato un esposto in Procura per segnalare criticità e anomalie. L'anomalia era la presenza a reparto di un professore di geriatria medica parcheggiato a Pediatria dal 2015. Due anni dopo la scheda di valutazione firmata dalla Esposito è stata positiva, ma la professoressa ha spiegato in Procura che lo aveva fatto «solo perché pressata (anche con minacce di conseguenti provvedimenti disciplinari in caso contrario) dalla dirigenza amministrativa....». In effetti l'Esposito viene bastonata: sospesa per quattro mesi e multata di 350 euro. «Tu controlla i tabulati orari...Diamà, fatti mandare i tabulati orari dell' ultimo anno e mezzo», dice il direttore generale Emilio Duca (da venerdì mattina ai domiciliari) perché la Esposito viene inchiodata alla sospensione e alla multa controllando al millimetro le presenze a reparto. Ma, scrive il gip, facendo anche scadere i termini perentori di 30 giorni per iniziare il provvedimento disciplinare. Il sistema prevedeva l' aiutino ai segnalati, agli amici e anche alle amanti. Per farlo funzionare c' era un passaggio chiave: la formazione delle commissioni dei concorsi. Per esempio per il concorso di dirigente sanitario biologico un primario segnala un membro «affidabile». Il dg Duca spiega che il terzo membro della commissione va sorteggiato. E l' unica strada per mettere un amico è fare in modo che al sorteggio pubblico non si presenti nessuno. Ecco cosa ascolta da Duca la Finanza: «É stato detto che il giorno ultimo quando scade, presso i locali della Direzione del personale verrà praticato il sorteggio...di norma non viene nessuno...se non c' è nessuno e l'Ufficio personale se la sente dice: abbiamo sorteggiato...guarda caso è passato...». Anche un altro primario spinge per un membro di commissione amico. E Duca spiega: «Vediamo se io riesco, detto tra noi, a trovare una soluzione qua con l' estrattore». Il dg Duca è l'uomo chiave dell' inchiesta. Per la Procura l'uomo del sistema e l'uomo che non può dire no al sistema. C'è da scegliere il primario di Gastroenterologia e lui, al telefono, si sfoga così per una impasse ancora irrisolta: «La gastro va chiusa...vanno rinchiusi in galera tutti (omissis)...non riesco a togliermi le sollecitazioni dei massimi vertici di questa regione a tutti i livelli...ecclesiastici(omissis) ecumenici, politici, tecnici. Se no a st' ora c' avevo messo le mani sulla gastro altro che disposizioni di servizio dell' altra volta; tra la massoneria, la curia e la giunta-omissis-non me danno tregua. E la Calabria Unita...(omissis)». Duca si sfoga, ma dice di aver capito quando Valorosi lo richiama all' ordine per far ricapitare le domande per gli orali di un concorso. Valorosi: «Messaggio da Bocci...vuole gli orali, le domande orali. Duca: «Ho capito». Gianpiero Bocci al momento dell' intercettazione, maggio 2018, sta passando le ultime ore al Viminale come sottosegretario all' Interno del governo Gentiloni. Ai domiciliari finirà da segretario regionale del Pd.
«Le sistemiamo tutte e tre e abbiamo fatto tutti contenti». Pubblicato domenica, 14 aprile 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. Non soltanto gli indagati per le assunzioni pilotate negli ospedali di Perugia sapevano dell’inchiesta a loro carico, e di essere intercettati al punto di cercare e trovare le microspie in ufficio; avvertiti - secondo i pubblici ministeri - dall’ex sottosegretario al ministero dell’Interno Gianpiero Bocci. Nel «torbido sistema» messo in piedi per gestire i concorsi, potevano contare anche sulla «collaborazione» delle persone danneggiate in favore dei raccomandati, che appena interrogati come testimoni andavano a riferire agli interessati il contenuto delle loro dichiarazioni. È successo quando due donne escluse per fare posto all’amante dell’ormai ex direttore generale dell’azienda ospedaliera Emilio Duca hanno raccontato di essere state sentite dalla polizia giudiziaria proprio a Duca e alla sua amica. Per i pm si tratta di un episodio «grave e significativo», perché dimostra che due persone «penalizzate nell’ambito di una procedura selettiva per un incarico di prestigio, hanno temuto che le loro dichiarazioni fossero male accolte dal sistema di potere che gestisce con criteri non trasparenti il sistema sanitario». Nelle oltre 500 pagine dell’atto d’accusa con cui la Procura di Perugia aveva chiesto il carcere per quattro indagati e gli arresti domiciliari per altri dodici, ottenendo dal giudice solo quattro domiciliari e sei misure interdittive, è descritto «un quadro avvilente di totale condizionamento della sanità pubblica agli interessi privatistici e alle logiche clientelari politiche»; nonché «uno stabile e consolidato asservimento della dirigenza sanitaria agli interessi di parte della locale classe politica». L’obiettivo dei politici è il consenso elettorale; quello dei dirigenti «acquisire consenso presso i propri referenti politici e conseguentemente assicurarsi il mantenimento dell’attuale posizione lavorativa». Conclusione: «Il criterio della selezione per merito non esiste, o meglio è stato bandito dall’Ospedale di Perugia. E che ciò avvenga in un settore così nevralgico ed importante per la vita e la salute dei cittadini quale il servizio sanitario rende tali condotte ancora più odiose». In un colloquio registrato, Duca confessa che se fosse intercettato verrebbero fuori «cinque reati ogni ora» e gli inquirenti gli danno amaramente ragione. Hanno chiesto gli arresti alla vigilia delle elezioni, ma anche della scadenza per il rinnovo delle cariche nella Sanità umbra: secondo i pm era giunto per i dirigenti il momento «di incassare i “crediti” maturati con la politica» a suon di raccomandazioni giunte a buon fine. E dalle intercettazioni s’intuisce come il «sistema» non fosse limitato agli ospedali. Il 7 maggio 1028, Duca evocava con Moreno Conti, componente della direzione regionale del Pd e «factotum di Bocci», il «rischio di andarci a finì in galera, per cui cercamo de fà le cose prudenti». E Conti rassicura: «Io quando esco da qua manco mi ricordo di esserci venuto. Anche perché adesso devo andare all’Agenzia delle Entrate a portà a un altro... per Gianpiero (Bocci, ndr), perché c’è un concorso anche all’Agenzia delle Entrate». Duca dice che la cosa interessa pure sua figlia, «se c’ho bisogno me muovo», e Conti lo incita: «Ma tu diglielo che Gianpiero è messo bene lì... per le Entrate Gianpiero è messo molto bene». La assunzioni pilotate avvenivano secondo rigide spartizioni tra le diverse anime del partito egemone. Nel concorso per cui è indagata la presidente della Regione Catiuscia Marini, gli investigatori della Guardia di finanza hanno ascoltato in diretta l’incontro in cui la governatrice avrebbe ricevuto le domande per l’esame da recapitare alla sua candidata (circostanza che lei nega). «Tu ce l’hai tutte?» chiede la presidente, e Duca spiega: «Ci sono tre prove. La prima sarà la più selettiva, quindi è naturale che se non ci attrezziamo...». Poi si parla di una busta, e in un’altra circostanza Duca confessa a un diverso interlocutore: «Ho portato le domande alla Marini (...) Adesso vedemo com’è la situazione... su ‘ste cose è sempre un casino... a me m’ammazza, questo è il problema». Quando capisce di poter sistemare sia la candidata della Marini che quelli di Bocci e dell’ex assessore Barberini, Duca esulta con il direttore amministrativo Maurizio Valorosi: «Le sistemamo tutte e tre così abbiamo fatto contenti tutti... tanto bene è venuta, un bijoux». Anche Valori è contento, e in un’altra circostanza aveva spiegato il diverso valore delle raccomandazioni, a seconda della provenienza: «Se me lo chiede Barberini mi pesa eccetera, e qualcosa famo. Se lo chiede Mirabassi (vicepresidente del Consiglio comunale, ndr) non me ne frega ‘na sega».
DAMMELA UT DES. Eri.P. per La Nazione il 14 aprile 2019. «Il problema è che dico all’assessore. gli dico “guarda noi, io so’ riuscito a fa tutto sabato perché in verità mi sono dovuto anche prostituire perché, capisci anche l’imbarazzo visto dalla Mecocci (Patrizia, docente e direttore della Scuola di specializzazione in Geriatria, indagata) le ho detto “guarda è una persona dell’assessore… questa è quella che non è venuta gliè da da’ na mano». Le raccomandazioni di “Concorsopoli” viaggiavano sempre sulla direttrice politico-amministrativa. Quando era l’assessore Luca Barberini, quando l’ex sottosegretario Gianpiero Bocci, quando, ancora la presidente della Regione, Catiuscia Marini a segnalare i nominativi e a chiedere le tracce delle prove d’esame. Tutti interessati – ma non solo loro – a piazzare i propri candidati ai primi posti dei concorsi pubblici dell’Umbria. Un “sistema” ormai collaudato, secondo la procura. È l’aprile del 2018 – nel pieno di un’indagine ancora top secret –: Emilio Duca, parlando con Maurizio Valorosi chiarisce di aver avuto i temi dalla dottoressa Mecocci «la quale gestiva personalmente e direttamente il concorso con il consenso del dottor Dottorini (Maurizio, presidente della Commissione di uno dei concorsi, anche lui indagato, ndr)». Duca e Valorosi discutono addirittura – annota sempre il gip Valerio D’Andria – dell’esito della procedura, programmando quale debba essere l’ordine in modo da soddisfare tutte le esigenze in gioco: quelle della direttrice del Reparto, quelle dei medici interni che ambiscono a stabilizzare il loro rapporto di lavoro e quelle dei “raccomandati” dal politico”. In particolare l’assessore alla sanità ha condizionato quattro procedure concorsuali, l’allora onorevole, nonché sottosegrerario del Pd, Bocci è intervenuto illecitamente in tre procedure. Un «abile sfruttamento di un efficiente e solido sistema clientelare». Ma nell’inchiesta che ha provocato un terremoto politico senza precedenti spuntano anche rapporti sessuali in ufficio con una candidata poi selezionata per il posto da Dirigente a tempo determinato per il servizio programmazione Economica-finanziaria. È il capo di imputazione 28: l’unico in cui la procura contesta a Emilio Duca il reato di corruzione per aver «compiuto atti contrari ai propri doveri d’ufficio in cambio di utilità consistite in diversi rapporti sessuali. A fronte di questi ultimi Duca poneva in essere – è sempre il capo di imputazione – un’attività di intermediazione e di influenza presso i componenti della Commissione esaminatrice». Il riferimento è al caso di uno degli indagati che «incontra la candidata e le dà suggerimenti sia sul curriculum che sulle condotte da assumere dopo la nomina della commissione esaminatrice. Alla fine del secondo colloquio – scrive il gip – inoltre i due interlocutori si scambiano effusioni e hanno un rapporto sessuale». La circostanza si ripete anche in successive occasioni, riporta l’ordinanza: «Anche dopo la procedura i due si incontrano presso l’ufficio (...) consumando in ogni occasione un rapporto sessuale». Il pm evidenzia come «i convegni amorosi si tengano proprio nel periodo in cui si svolge la procedura e senza che vi siano indici apparenti di una relazione sentimentale tra i due indagati» e ciò - sostiene - «indurrebbe a ritenere presente un vero e proprio accordo corruttivo fondato su uno scambio tra le prestazioni sessuali e la nomina».
Più raccomandati che posti: «I curriculum? Strappali subito». Pubblicato lunedì, 15 aprile 2019 da Giovanni Bianconi, inviato a Perugia da Corriere.it. «E questo che è?», si domandò il 18 giugno scorso il direttore generale degli Ospedali di Perugia (da ieri dimissionario) Emilio Duca, scartabellando nel suo ufficio. «Ah, i curriculum... è meglio che li strappiamo così vengono qua e li sequestrano... fosse mai». Detto fatto. Quei fogli finirono in pezzi, ma tutto fu ascoltato e ripreso dalle microspie e telecamere della Guardia di finanza: così quel tentativo di distruzione di prove è divenuto un indizio che s’è aggiunto a quelli che hanno portato il manager agli arresti domiciliari, insieme ad altri tre dei 35 indagati dell’inchiesta sui concorsi truccati nella Sanità umbra. La paura di Duca di essere sotto inchiesta non l’ha salvato dalle sue stesse parole intercettate anche nei momenti di maggior timore. E più parlava, più forniva elementi a suo carico. Come quando, convinto di essere spiato, cercò di ricordare con il direttore amministrativo Maurizio Valorosi (arrestato anche lui) telefonate e incontri potenzialmente compromettenti: «Intanto m’ha chiamato Valentino (segretario della presidente della Regione Catiuscia Marini, ndr)... con la Marini, me ricordo... che sono andato su per tre volte... m’è toccato portare all’incontro... questa cosa mi preoccupa un po’...». Per la Procura di Perugia sono ammissioni che rafforzano il quadro accusatorio, come le altre precauzioni per cercare di sfuggire alle «cimici»: dalla ricerca di informazioni tramite lo zio medico di uno dei pubblici ministeri titolari dell’indagine (da cui non seppe nulla) alla decisione di affrontare certi argomenti fuori dall’ufficio: «Annamo sulla terrazza… che qua dentro, non so cosa sta succedendo». Ma è servito a poco, perché le carte dell’inchiesta traboccano di dialoghi registrati tra Duca, Valorosi e le altre persone coinvolte nel condizionamento delle prove d’esame in favore delle persone segnalate dai politici. A cominciare dall’ex assessore alla Sanità Luca Barberini e dall’ex segretario regionale del Partito democratico Gianpiero Bocci (finiti entrambi ai domiciliari), che fanno capo alla cordata interna al Pd avversa alla presidente della Regione Marini (indagata). Accomunati però dai magistrati, che denunciano un «consolidato e collaudato meccanismo per cui ogni singola fase concorsuale viene subordinata al soddisfacimento degli interessi della classe politica, con un’ingerenza centrale e prevalente da parte di Barberini, Marini e Bocci». Discutendo delle raccomandazioni per alcuni posti riservati alle «categoria protette» dei disabili, il 4 maggio 2018 Valorosi dice a Duca: «Devono fare un ordine di priorità». E Duca svela l’identità degli sponsor: «Io ce l’ho dentro la borsa perché c’ho anche i nomi; uno ce l’ha Barberini, ce l’ha la Marini...». Valorosi ne aggiunge altri: «Quella di Bocci, che so’ andati a cena, la nipote di Conti (esponente locale del Pd legato a Bocci, ndr)..». I due interlocutori a volte si lamentano per il numero eccessivo di richieste ricevute, e il 10 maggio 2018, parlando di Bocci, Duca sbotta ridendo: «Eh, gliel’ho detto, dico “i posti già son finiti!”». Poi aggiunge che gli stessi politici dovrebbero fare una selezione: «Anche loro devono dire “questo si e questo no!”», e riferendosi alla Marini: «Se mi chiama o mi manda giù Valentino... dopo che facemo?... Casomai tocca bocciarli! Con delle prove tocca farli fuori! Glielo dicemo!». Due mesi prima un dipendente dell’ospedale dice a Valorosi che un altro assessore — Antonio Bartolini, che non risulta indagato e ora ha avuto la delega alla Sanità — avrebbe «fatto qualche pressione» in favore di una concorrente (poi esclusa), e commenta: «Però Bartolini è al Bilancio, non ha la Sanità se Barberini dice... è un’altra cosa». E Valorosi concorda. La governatrice Marini, che si è già dichiarata estranea a ogni ipotesi di reato, oltre all’interrogatorio con i pm non ancora fissato dovrà affrontare in consiglio regionale tre mozioni di sfiducia. Il suo difensore Nicola Pepe invita alla «massima cautela e al più assoluto rispetto delle persone coinvolte e dell’autorità inquirente», mentre l’avvocato David Brunelli, che assiste Barberini, Bocci e Valorosi, esprime «forti dubbi sulla sussistenza di esigenze cautelari tali da giustificare gli arresti domiciliari».
“CE L'HAI TUTTE? HA DA FÀ LA SELEZIONE”. Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” il 16 aprile 2019. Dei quattro posti per assistenti contabili nella categoria C (le cosiddette categorie protette) messi a concorso nel 2018 dall' Azienda ospedaliera di Perugia, tre furono assegnati ai candidati segnalati da altrettanti «esponenti politici di elevata caratura», che comunicarono «tracce riservate» e poi «domande che dovevano restare segrete», e tra questi, secondo l'accusa della procura di Perugia contenuta nella richiesta dei pm, ci sarebbe stata anche la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini. Per gli altri candidati (97 le persone ammesse) nessuna chance. Ma anche il quarto fu pilotato. « Ce l' hai tutte? Ha da fà la selezione» chiede Marini, in un colloquio intercettato il 10 maggio - sei giorni prima della prova scritta - a Emilio Duca, direttore generale dell' azienda, riferendosi - scrivono i pm, - alle tracce che il manager si è appena procurato. Il dialogo è contenuto nel lungo atto d' accusa (500 pagine) firmato dal procuratore Luigi De Ficchy con i sostituti Paolo Abbritti e Mario Formisano, che il 12 aprile ha portato all' arresto di quattro persone (35 gli indagati). La persona alla quale la presidente si riferisce è A.C., nuora di un ex funzionario di rilievo della Legacoop Umbria che sarebbe stata segnalata alla governatrice dalla vedova di quest' ultimo. Duca, come documenta l'indagine con immagini riprese nel suo studio, ha ricevuto gli argomenti delle prove scritte da Rosa Maria Franconi, presidente della commissione d' esame al mattino. «La figlia di.... mettetela dentro, non lo so.» dice Marini. La presidente, sintetizzano i pm, «chiede a Duca se gli può mandare la Marisa a prendere le domande da consegnare alla candidata, ma Duca tentenna e così Marini chiama il suo consigliere politico» e gli chiede «di mettere le tracce della prova scritta in una busta e di portarle a Marisa, quella della Legacoop», in modo da farla avere alla candidata. La storia del concorso è già scritta: «I posti sono già finiti» dichiara Duca prima ancora delle prove d' esame. Un'affermazione che trova conferma nelle pagine successive. A essere nominati vincitori, il 25 giugno, saranno i candidati "sponsorizzati" secondo i pm oltre che da Marini, da Maurizio Valorosi, direttore amministrativo dell' azienda con Marco Cotone, segretario regionale Uil Fpl, da Giampiero Bocci, segretario regionale del Pd, e da Moreno Conti, componente della direzione regionale dem. «La delicatezza della vicenda induce alla massima cautela» commenta Nicola Pepe, difensore della presidente Marini, rinnovando fiducia negli inquirenti, e sottolineando che la governatrice non intende «alimentare strumentalizzazioni politiche che possano rappresentare un intralcio all' accertamento della verità, assai distante dalle rappresentazioni fornite da alcuni articoli giornalistici». La linea del Pd sull' inchiesta non cambia, ma l' imbarazzo aumenta nel timore di un allargamento dell' indagine in vista delle amministrative di maggio. Per uscire dal pantano, Catiuscia Marini lavora a tappe forzate. Ieri ha incontrato a Roma il ministro della Salute Giulia Grillo. «Abbiamo offerto alla regione Umbria la possibilità di essere appoggiati da un nucleo di esperti in questa fase delicata» ha detto Grillo al termine dell' incontro, sottolineando che per il vertice dell' azienda ospedaliera decapitata dall' inchiesta sono sul tavolo «un paio di nomi», mentre prosegue l' attività ispettiva. «Nelle prossime 24-48 ore avremo i nuovi vertici» ha annunciato Marini. Ieri il direttore generale Duca, finito ai domiciliari, si è dimesso. E a rimettere l' incarico è stato anche Bocci, anche lui agli arresti, che ha restituito la tessera «per tutelare il Pd».
Umbria, arresti nella sanità: si dimette la governatrice Marini Le intercettazioni: «Bocciali». Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 su Corriere.it. Si è dimessa la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini (Pd). L’annuncio è arrivato oggi pomeriggio al termine di una lunga riunione nel palazzo che ospita la sede della Giunta, nel centro di Perugia. Marini è indagata nell’inchiesta della procura di Perugia su alcuni concorsi per assunzioni che sarebbero stati pilotati all’ospedale del capoluogo umbro. «So così di fare la cosa più giusta e più coerente con i miei valori, quelli della mia famiglia e con quelli della comunità politica a me più vicina - scrive in una lettera inviata alla presidente dell’Assemblea Legislativa, Donatella Porzi -. Ringrazio chi in questi giorni difficili e complessi mi ha dato fiducia e attestati di stima. Mi pare importante mandare un saluto a tutti gli umbri ed alle popolazioni della Valnerina colpite dal sisma con le quali ho condiviso le fasi più difficili, ma umanamente più intense, del mio mandato istituzionale. So di fare la cosa più giusta per l’Umbria, questa mia bellissima terra, ricca di storia, cultura e valori di solidarietà», prosegue la missiva. «Io sono una persona perbene, per me la politica è sempre stata fare l’interesse generale - conclude -, da sindaco della mia Città (Todi, ndr), da europarlamentare e in questi anni da presidente di Regione: quello che sta accadendo non solo mi addolora, ma mi sconvolge e sono sicura che ne uscirò personalmente a testa alta». Nicola Zingaretti, la ringrazia del gesto: «Ha scelto di mettere al primo posto il bene della sua Regione. Sebbene in presenza di un’indagine che è ancora allo stato preliminare», il segretario del Pd plaude alla «responsabilità di fare un passo indietro proprio allo scopo di evitare imbarazzi e strumentalizzazioni. Da garantisti - dichiara in una nota -, aspetteremo che la giustizia faccia il suo corso prima di emettere giudizi definitivi. Spero lo facciano tutti».
Sanitopoli umbra, Marini si dimette: «Io, costretta a lasciare perché sono donna», scrive Mercoledì 17 Aprile 2019 Simone Canettieri su Il Messaggero. «Mi sono dimessa da presidente della Regione Umbria per tutelare le istituzioni e per difendermi. Ma il Pd non può essere così giustizialista per inseguire il M5S: siamo ancora alla fase delle indagini, non si è celebrato nemmeno il processo. Ecco, alla fine non vorrei essere l'Ignazio Marino di Zingaretti. E comunque ho un dubbio».
Quale Catiuscia Marini?
«Se fossi stato un presidente uomo il mio partito si sarebbe comportato alla stessa maniera? Ho letto brutte dichiarazioni e ho notato atteggiamenti che non mi sono piaciuti».
Come ha maturato la decisione di dimettersi?
«Dopo un confronto con la giunta, la maggioranza e il mio avvocato ho deciso di lasciare per essere libera di difendere la mia onorabilità. Rimanere in carica non me lo avrebbero permesso in pieno. E poi, con questo clima, se fossi rimasta a capo della Regione la gogna sarebbe stata continua. Questa scelta, invece, mi permette di affrontare a testa alta l'indagine: non mi voglio vergognare ad andare in giro per la mia regione, per le città. Chi mi conosce lo sa: non sono attaccata alla poltrona e la mia storia lo testimonia».
L'inchiesta sulla sanità umbra che la vede coinvolta - e che ha portato agli arresti domiciliari di un suo assessore, del segretario del Pd e di due dirigenti dell'Asl - offre però uno squarcio inquietante.
«Per quanto mi riguarda sono tranquilla. Non ho mai parlato con nessuno del mio decreto per le assunzioni».
Le ha fatto effetto rileggere la sua intercettazione, premesso che tutti noi al telefono spesso parliamo in libertà e a volte fuori registro?
«A dire il vero, vorrei capire bene i contorni dell'inchiesta. Sono tranquilla, lo dico sul serio, voglio solo che emerga tutta la verità. Ecco perché ho deciso di fare un passo indietro».
Ma si è sentita scaricata dal Pd?
«No, questo no. Di sicuro non volevo essere un ingombro, ho grande rispetto per la comunità democratica e per i candidati sindaco delle prossime amministrative. La mia permanenza, forse, avrebbe potuto danneggiarli».
Ha subito pressioni per dimettersi?
«Per la modalità mediatica con la quale è stata raccontata questa storia e per certe dichiarazioni che ho visto voglio ribadire la mia idea: il Pd non può essere giustizialista, i processi non si fanno così».
Ma ce l'ha con il segretario Zingaretti?
«Ci siamo sentiti al telefono, ci conosciamo da trent'anni, ma se fossi stata un uomo si sarebbe comportato così? Sono molto perplessa».
Perché dice che il Pd insegue i grillini sul giustizialismo?
«Ho letto le dichiarazioni di Paola De Micheli, braccio destro del segretario, che si vanta di non aver mai chiesto le dimissioni di Virginia Raggi a Roma. Ma come si fa? Che politica è questa? Non vorrei che il Pd perdesse la bussola riformista che l'ha contraddistinto finora. Detto questo, rivendico di aver preso la decisione in autonomia. Ma c'è un clima che non mi piace».
La settimana scorsa l'ex sindaco di Roma Ignazio Marino è stato assolto per la vicenda degli scontrini che gli costò la sfiducia del Pd dal notaio. Lei si è fermata prima per non fare la stessa fine?
«Diciamo che spero di non essere il Marino di Zingaretti. Un amministratore pubblico, come me, parla con tante persone, sta in mezzo alla società, non si può usare questo approccio così giustizialista, insisto. In venti anni non ho mai avuto un provvedimento giudiziario a mio carico, ho una storia specchiata».
Oggi intanto Salvini sarà a Perugia. La Regione è persa?
«Mi auguro di no, abbiamo le risorse umane e politiche per reagire».
Rimarrà nel Pd?
«Certo, la mia è stata una decisione politica anche per non inficiare le Europee. Almeno nessuno potrà dire nulla...».
Zingaretti l'ha ringraziata?
«E' stato molto carino, diciamo che si è sentito sollevato».
Ha sentito Matteo Renzi?
«Sì, mi ha mandato un messaggio che ho molto apprezzato».
Cosa c'era scritto?
«Lo tengo per me».
“METTETELA DENTRO”. Marco Mensurati per “la Repubblica” il 17 aprile 2019. «Mettetela dentro», assumete quella ragazza. Così aveva ordinato la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini ai suoi referenti della Sanità. E quelli, senza dire una sola parola, avevano obbedito. Anche perché quella gara era già ampiamente truccata e una raccomandazione in più o una in meno, per loro, non faceva differenza. Poche cose possono spiegare meglio la vita quotidiana di certe amministrazioni pubbliche in Italia, come la cronaca del "concorso per quattro posti da assistente amministrativo di categoria C, riservato ai disabili", indetto dall' Azienda Ospedaliera di Perugia e ricostruito passo dopo passo dai pm che stanno indagando sulla sanità umbra. Il concorso, come detto, era truccato sin dall' inizio. E la Marini lo sapeva perfettamente visto che non ha avuto problemi a chiedere in prima persona a Emilio Duca e Maurizio Valorosi (direttore generale e direttore amministrativo dell' Azienda) di far arrivare le domande dello scritto alla sua protetta, Anna Cataldi, la nuora di un ex funzionario storico (deceduto) della Lega Coop. «Mettetela dentro». È il 10 maggio del 2018. Le domande vengono recapitate alla ragazza. Che però non è l' unica raccomandata di quel concorso. Duca lo spiega chiaramente a Rosi Francone, il presidente della commissione d' esame. «Cerqueglini e Pannacci (altri due candidati, ndr) sono roba di Bocci e Barberini», il segretario regionale del pd e l' assessore alla Sanità - entrambi ai domiciliari. Tifi, invece, è stato segnalato direttamente da Valorosi. Infine c' è la Cataldi. «La Presidente mi ha segnalato questa qui, sta Cataldi». Allo scritto, la prima delle tre prove, le cose vanno male, però. Spiega la Franconi: «La Cataldi ha fatto una bella prova; ma ce ne è un' altra che sta andando molto molto bene». Meglio della Cataldi. L' "altra" si chiama Cristina Saccia e, per qualche giorno, sarà l' incubo di Duca & co, preoccupati di non poter, a causa sua, accontentare i voleri della Marini. «Se non riusciamo - si sfogherà Duca con un amico - m' ammazza». Alla fine della prova pratica - la seconda in programma - il problema non è ancora risolto, la Saccia è ancora davanti alla Cataldi. Le pressioni sulla presidente Franconi aumentano e Duca cerca di rassicurarla: «Il concorso lo gestirà il sistema nel suo insieme e si cercherà di tutelare chi è dentro il sistema». Il sistema cercherà di dare il suo meglio in occasione dell' esame orale, l' ultimo, il decisivo. La situazione è disperata anche perché la Franconi ha spiegato a Duca che c' è un altro problema. Oltre ad essere più brava della candidata della Marini, la Saccia ha un' altra "colpa": «è pure laureata». Mentre la Cataldi ha un diploma all' istituto tecnico commerciale. Duca e Valorosi pensano di assumerla in un altro concorso, «ma il problema - dice sconsolato Duca - è che non c' ha una raccomandazione». La soluzione è quella di far arrivare ai quattro candidati «che devono vincere» le domande dell' esame orale. Alla Cataldi verranno inviate tramite Valentino Valentini, il consigliere politico della Presidente della Regione Umbria. A quel punto è tutto pronto. Così come ricapitola Duca a Valorosi: «Allora: alla Franconi ce sta una che l' ha segnalata la Marini e sta andando bene, poi c' è una che non è raccomandata da nessuno che però è brava e che però non c' è posto per metterla dentro, perché ci sono due persone di Bocci e quel Tifi». La prova orale nonostante i raccomandati conoscessero le domande in anticipo, riesce ugualmente ad andare male. Lo spiega la stessa Franconi. Tira fuori dalla borsa un foglio con la graduatoria finale e comincia a raccontare: «Allora: Tifi se non lo fermavo mi raccontava tutto il diritto amministrativo». Ma Duca va di fretta, a lui interessa sapere della Cataldi, la donna della Marini, ne indica il nome sul foglietto che la Franconi ha messo sul tavolo. Franconi: «La Cataldi o si è emozionata o non ho capito bene che cosa sia successo (...) Le Cerquiglini però è stata brava. (...) Invece chi è andata abbastanza bene a sto orale è stata la Saccia Ma siccome c' è la Cataldi qua, io». Il resto è tutto nel verbale n.4 della commissione esaminatrice. Al primo posto si piazza Tifi, al secondo Pannacci, al terzo Cerqueglini, al quarto la Cataldi. Il palazzo è servito. La Saccia, solo quinta. Questa la sua valutazione: «La candidata ha una sufficiente conoscenza e padronanza degli argomenti richiesti, una discreta capacità di analisi e professionalità». Nelle settimane successive, la donna decide di provare a fare ricorso e richiede l' accesso formale agli atti del concorso. Duca e Valorosi si agitano moltissimo, di tutti quelli che hanno truccato - la procura gliene contesta otto - quello era senza dubbio il più delicato, l' unico che poteva condurre direttamente alla presidente della Regione. Occorre parlarle. Promettergli un concorso tutto per lei «Effettivamente osserva Valorosi - ci sono diciassette scoperture nelle categorie protette...».
"Concorsi truccati nella sanità": arresti e indagati, ecco tutti i nomi. L'inchiesta in Umbria: un lungo elenco di dirigenti, funzionari, docenti e anche candidati, scrive Michele Nucci su La Nazione il 13 aprile 2019. La maxi indagine della Guardia di Finanza sui concorsi all’Azienda ospedaliera riguarda complessivamente 35 persone, tutte indagate, alcune agli arresti domiciliari e altre sospese dai pubblici uffici. Un elenco fatto di pagine e pagine in cui ci sono politici, dirigenti sanitari, docenti universitari, componenti delle commissioni e alcuni candidati. Tra in nomi di spicco naturalmente c’è prima di tutto la governatrice umbra, Catiuscia Marini (indagata), presidente della Giunta regionale dal 2010; l’assessore regionale alla Sanità, Luca Barberini (ai domiciliari), folignate e “bocciano doc”, titolare dell’assessorato dal 2015; Gianpiero Bocci (anche lui ai domiciliari), da poche settimane segretario regionale del Partito democratico e sottosegretario al Ministero dell’Interno fino al marzo 2018. Nell’elenco c’è poi Emilio Duca (agli arresti domiciliari), direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Perugia; Walter Orlandi, che è invece l’attuale dirigente responsabile regionale della Sanità umbra; Diamante Pacchiarini, direttore sanitario e Maurizio Valorosi (ai domiciliari), direttore amministrativo Azienda ospedaliera. Indagato anche Roberto Ambrogi, responsabile Ufficio contabilità e bilancio; Domenico Barzotti, componente e segretario della Commissione esaminatrice del concorso da infermiere; Lorenzina Bolli, presidente commissione di uno dei concorsi; Gabriella Carnio, resposabile delle professioni sanitarie; Maria Cristina Conte, reponsabile ufficio personale; Potito D’Errico, docente universitario e primairio di Odontoiatria; Rosa Maria Franconi, dirigente Ufficio acquisti e appalti; Antonio Tamagnini, responsabile attività amministrative e sperimentazioni cliniche; Maurizio Dottorini, presidente commissione di uno dei concorsi; Patrizia Mecocci, docente e direttore scuola di specializzazione in Geriatria; Paolo Leonardi, dipendente Azienda ospedaliera; Marco Cotone, segretario regionale Uil-Fpl; Eleonora Capini, una delle candidate; Vito Aldo Peduto, direttore di Anestesia e rianimazione 2; Simonetta Tesoro, dirigente medico Anestesia e rianimazione 2; Mario Pierotti, padre di una delle candidate; Milena Tomassini, dipendente regionale; Riccardo Brugnetta, Amato Carloni e Giuseppina Fontana, componenti della commissione riservata al personale della Regione. E ancora: Serena Zenzeri, componente ufficio procedimenti disciplinari; Pasquale Coreno, generale in congedo dell’Arma dei carabinieri. Gli altri indagati sono Giampiero Antonelli, Francesco Oreste Domenico Riocci, brigadiere della Guardia di Finanza; Moreno Conti, Fabio Gori, Domenico Oristanio, Alessandro Sdoga. Per i quattro agli arresti domiciliari (Barberini, Bocci, Duca e Valorosi) c’è il divieto di incontro e colloquio anche telefonico e tramite internet con persone diverse dai familiari. Per Ambrogi, Carnio, Conte, Franconi, Pacchiarini e Tamagnini è stata stabilita l’interdizione inerente l’esercizio di pubblica funzione.
Nomine truccate nella Sanità «Incontri segreti nell’obitorio». Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 su Corriere.it da Alberto Pinna. Arresti e indagati. Ai domiciliari anche il sindaco di Macomer, Antonio Succu. L’accusa: concorsi pilotati per ostetriche e infermieri. Concordavano come truccare i concorsi e pilotare le assunzioni anche nella camera mortuaria dell’ospedale o nelle sale operatorie: l’ambiente era schermato ed erano certi di non essere intercettati. Due medici, primari dell’Azienda Sanitaria Locale — uno ex consigliere regionale, l’altro attuale sindaco di Macomer — sono in custodia cautelare agli arresti domiciliari insieme al dirigente del servizio infermieristico, a un operatore sanitario e alla responsabile dell’agenzia interinale che reclutava i lavoratori. La bufera che ha investito la sanità sarda ha il suo epicentro nella ASL n.5 di Oristano e all’ospedale San Martino. Oltre alle misure cautelari ci sono altre 3 posizioni — di dirigenti e funzionari — all’esame del gip di Oristano (che deciderà se accogliere la richiesta di interdizione dagli incarichi dopo averli interrogati) e una quindicina di indagati: corruzione, frode nelle pubbliche forniture, omissione di atti d’ufficio, abuso d’ufficio, rivelazione di segreti d’ufficio. Ma la bufera può generare una valanga: la procura della repubblica ima allargato le indagini, contestando ad alcuni indagati il voto di scambio. Posti di lavoro in cambio di preferenze alle elezioni. Qualche candidato veniva anche «convinto» a candidarsi col Partito dei Sardi (Pds). Quasi tutti gli indagati sono esponenti di rilievo o comunque militanti di questo partito, una formazione che ha sostenuto a lungo la giunta regionale di centro sinistra, ma che poi nella tornata elettorale dello scorso febbraio — vinta dalla coalizione del centro destra — non è riuscita a eleggere alcun rappresentante. Dei quattro agli arresti domiciliari Augusto Cherchi è ex consigliere regionale e primario di anestesia a Oristano; Antonio Onorato Succu sindaco di Macomer e primario di ginecologia; Salvatore Manai operatore sanitario e candidato per il PDS alle comunali di Oristano; Gianni Piras, capo del servizio infermieristico, nel quale confluivano parte dei neoassunti. Agnese Canalis è invece responsabile della EWork, agenzia interinale che forniva il personale, e secondo le accuse si atteneva alle indicazioni di Cherchi, Succu e Manai. La Canalis è stata interdetta dall’incarico per un anno. La sede della EWork a Sassari è stata perquisita; potrebbero essere stati sequestrati documenti sui rapporti con altre aziende sanitarie sarde e da Oristano l’inchiesta pare destinata ad allargarsi ad altre ASL della Sardegna. È stato perquisito anche lo studio di un avvocato (che non risulta tuttavia fra gli indagati). «Le misure cautelari in questa fase dell’indagine ci hanno sorpreso» è il solo commento dell’avvocato Antonello Spada, che difende Manai. I magistrati avevano ricevuto segnalazioni dal 2016 su assunzioni sospette di lavoratori, molti dei quali residenti a Macomer. Le indagini della Guardia di finanza sono andate avanti per più di tre anni. «Abbiamo trovato riscontri alle segnalazioni — ha affermato il procuratore Ezio Domenico Basso — documentali, cartacei e informatici». Le mani sulla sanità, secondo le accuse, avevano una regia ad alto livello. Più di 30 le persone favorite nei concorsi: una ventina di infermieri, 6 ostetriche, una decina di operatori socio sanitari. Le selezioni venivano truccate con metodi semplici ma ingegnosi: firme sulle buste, nelle quali erano chiusi gli elaborati dei partecipanti, apposte dai componenti delle commissioni in posizioni particolari: di traverso o sui lembi, in modo da rendere riconoscibile l’identità della persona «raccomandata» e favorita.
Caso Pittella, Cassazione distratta. I punti oscuri della sentenza sulle accuse per i concorsi truccati, scrive Leo Amato su Il Quotidiano del Sud, Giovedì 13/12/2018. Anche la Cassazione, per la fretta, può inciampare. E' quanto commentano, a denti stretti, gli addetti ai lavori, il giorno dopo il deposito delle motivazioni per cui la Corte ha disposto una nuova udienza davanti al Tribunale del riesame di Potenza sulle accuse al governatore Marcello Pittella sui concorsi truccati nella sanità. Sono diversi, infatti, i punti interrogativi aperti nelle 18 pagine con cui il presidente della V sezione, Grazia Miccoli (già addetto alla segreteria generale del Consiglio superiore della Magistratura), ha accolto il ricorso presentato dai legali del governatore, i professori Franco Coppi e Donatello Cimadomo, contro l'ordinanza che a fine luglio aveva confermato gli arresti domiciliari disposti 3 settimane prima dal gip di Matera, Rosa Nettis. Interrogativi da cui nei prossimi giorni dipenderà la revoca del divieto di dimora per il governatore, che è anche sospeso dall'incarico per effetto della legge Severino, o la conferma della misura cautelare a cui resta sottoposto, solo “attenuata” a settembre per la chiusura delle indagini e il venir meno del rischio d'inquinamento probatorio.
GLI ATTI “STRALCIATI”. Il primo è senz'altro quello costituito dalle lacune in tema di indizi a carico di Pittella che si sono aperte nelle motivazioni del Riesame, nel momento in cui la Cassazione ha bocciato il richiamo integrale effettuato, «per la completa disamina dell'attività d'indagine» dal loro estensore, il presidente del Tribunale Aldo Gubitosi, all'ordinanza “madre” del gip: «in modo che essa costituisca parte integrante della presente». Uno stralcio deciso d'iniziativa dai giudici del “Palazzaccio” sulla base di un orientamento recente dei colleghi della VI sezione (marzo 2018), senza alcun rilievo in tal senso formulato dai difensori, che ha lasciato automaticamente “scoperti” proprio gli aspetti fondamentali della vicenda, dati per acquisiti dal Riesame in quanto già trattati dal gip, benché oggetto di specifica contestazione dei legali. «A questa Corte non è consentito (…) integrare o correggere la motivazione del provvedimento impugnato attraverso il riferimento alla motivazione dell'ordinanza applicativa della misura cautelare stessa». Così i magistrati di Trastevere, che si sono astenuti anche dall'esame delle rare intercettazioni telefoniche citate dal Riesame, sempre perché le altre erano state già ampiamente trattate nell'ordinanza del gip. «La ricerca del valore indiziante delle conversazioni – aggiunge la Cassazione - non può essere compiuta in sede di legittimità, tramite una lettura delle trascrizioni delle conversazioni».
LE LACUNE. Il risultato, pressoché inevitabile, è stato che l'ordinanza del Riesame, presa singolarmente, è risultata mancante rispetto all'«obbligo motivazionale», e caratterizzata dalla sottolineatura di «una serie di elementi indiziari, come indicati anche nell'ordinanza genetica, omettendo una reale e autonoma valutazione critica di tali elementi (…) e sostanzialmente aggirando le obiezioni difensive, sulla cui fondatezza non spetta certamente a questa corte esprimersi, neppure facendo ricorso – ribadiscono i giudici – a una lettura integrata». Di qui la censura, anche a livello stilistico, per la genericità di una «una serie di affermazioni che non superano il confine meramente congetturale», perché effettivamente sganciate dalla riproposizione di tutti gli elementi a loro sostegno, e le «letture “probabilistiche” del ruolo di Pittella».
LA LISTA VERDE. L'esempio più eclatante è quello riferito al concorso per l'assunzione di 8 funzionari di categoria protetta all'Asm, con l'«attribuzione al Pittella della cosiddetta “lista verde” dei raccomandati», e la ricostruzione dell'incontro con l'ex direttore amministrativo dell'Asm, Maria Benedetto, avvenuto nella residenza di Lauria del governatore, in cui quest'ultimo, secondo il Riesame: «con ogni probabilità, veniva informato dalla Benedetto proprio della insufficienza delle votazioni riportate dai candidati della cosiddetta lista verde». Nell'ordinanza annullata dalla Cassazione non viene ripetuto il contenuto delle intercettazioni in cui la Benedetto prepara la “lista” spiegando a una collaboratrice che «quelli verdi sono di Pittella», e poi spiega all'ex commissario Pietro Quinto la stessa cosa, concordando di andare di persona a Lauria per sottoporgli i punteggi ottenuti dai “suoi” nella prova scritta. Non viene contestualizzata, come fatto in precedenza dal gip, nemmeno un'altra intercettazione, immediatamente successiva all'incontro a Villa Pittella, in cui Benedetto rassegna a Quinto l'accaduto e gli spiega di dover effettuare dei «correttivi», per poi tornare in ufficio e rimettere mano alla graduatoria provvisoria della selezione “incriminata”, sotto l'occhio delle telecamere nascoste dalla Guardia di finanza. Ne si citano, ovviamente (perché giudicati superflui anche dal Riesame), l'interrogatorio di garanzia in cui Benedetto ha riconosciuto la paternità di quelle raccomandazioni («avevo messo un puntino io personalmente. Avevo mosso un puntino verde (…) Su quelli che mi aveva detto Quinto, eh sarebbero state le persone gradite a Pittella. Diciamo “gradite”. Un puntino avevo messo io verde»), o, ancora, l'acquisizione di un'altra “lista verde” (riferita a una selezione successiva) scoperta durante le perquisizioni nell’archivio di una dipendente Asm, che ha confermato i sospetti degli inquirenti. Così per la presidente della V sezione, che ha sostituito nella scrittura della sentenza la relatrice Caterina Mazzitelli, anche l'associazione “lista verde” - Pittella diventa «congetturale». Toccherà quindi al Riesame tornare sulla questione, ed eventualmente rimettere assieme certosinamente tutti i pezzi del puzzle, per motivare la sua seconda decisione sul ricorso dei legali di Pittella, adeguandosi ai criteri dettati dai giudici della Suprema Corte. Sempre che di qui a 10 giorni il governatore non abbia già ottenuto la revoca del divieto di dimora dal gip, a cui ieri è stata presentata un’istanza in tal senso. D'altro canto il collegio potentino, riprendendo in mano la vicenda, non dovrebbe avere difficoltà nel rispondere a un altro degli interrogativi aperti dalla pronuncia della Cassazione, rintuzzando il furore delle veementi critiche al suo operato.
ABUSO O FALSO? Si tratta di quello, sempre sul tema dei gravi indizi di colpevolezza a carico di Pittella, dell'atteggiamento psicologico attribuito al governatore rispetto ai reati che gli sono contestati e alle doglianze dei suoi difensori per l'addebito di una sua presunta istigazione in forma indeterminata («implicita o esplicita») dei commissari delle selezioni truccate a favorire i suoi raccomandati. Per i magistrati romani il Riesame, nell'ordinanza annullata, avrebbe attribuito a Pittella il «dolo eventuale» rispetto sia alla falsificazione delle graduatorie che agli abusi d'ufficio commessi dai commissari per pilotare l'esito dei concorsi finiti nel mirino dei pm («La condotta di istigazione viene ascritta al ricorrente a titolo di dolo eventuale»). In pratica Pittella non avrebbe voluto avvantaggiare ingiustamente nessuno, ma avrebbe soltanto accettato il rischio che qualcuno dei commissari lo facesse, anche facendo carte false, raccogliendo le sue raccomandazioni. Per questo evidenziano che «per la configurabilità dell'elemento soggettivo del reato di abuso d'ufficio è richiesto che l'evento sia voluto dall'agente e non semplicemente previsto e accettato come possibile conseguenza della propria condotta». «E’ del tutto ovvio - aggiungono - come tutto ciò finisca per riverberarsi anche sull’elemento soggettivo riferito al reato di falso ideologico, considerata la evidente strumentalità nella vicenda in esame di tale reato rispetto alla condotta in ufficio».
L’EQUIVOCO. Peccato che nell'ordinanza annullata il riferimento al «dolo eventuale», come pure all'istigazione «implicita o esplicita» dei commissari dei concorsi, sia limitato espressamente all'unico capo d'imputazione per un altro reato, peraltro più grave: quello di falso. Mentre sulle due contestazioni per abuso d'ufficio il Riesame sostiene perentoriamente che «nessun dubbio è possibile (…) sulla consapevolezza e sulla volontarietà delle condotte ascritte al ricorrente con riferimento alla manipolazione delle procedure del concorso». Quindi avrebbe agito proprio con quella precisa volontà di agevolare i suoi raccomandati evocata dalla Cassazione. Fin qui l'abuso d'ufficio. Poi avrebbe accettato il rischio che per assecondare le sue indicazioni i commissari di gara falsificassero le carte, dal momento che c'era una graduatoria da ritoccare. Dunque il falso e il riferimento al dolo eventuale («accettava il rischio che i commissari, per adeguarli al suo volere e in presenza di votazioni dei raccomandati ampiamente al di sotto della sufficienza, alterassero i punteggi assegnati»). Un equivoco di facile risoluzione, insomma. D'altronde è normale una svista durante la redazione di una sentenza in tempi record (meno di 3 settimane quando per un deposito in Cassazione – anche in caso di detenuti in carcere – possono volerci fino a tre mesi). Lo stesso Riesame, a fine luglio, aveva fatto prestissimo, depositando dopo soli 15 giorni (rispetto all'identico termine di legge di un mese), e una consuetudine che tende ad aggiungervi qualche settimana.
Basilicata, la “lista verde” di Pittella per i concorsi: “Tutti i raccomandati hanno fatto schifo. Sia fatta la sua volontà”. "Mezzucci", logiche clientelari anche per alimentare "il consenso elettorale" per cui i concorsi erano truccati a favore di candidati segnalati dal governatore. Il gip: "È il deus ex machina, nulla si muove senza il suo suggello". Nelle carte anche sponsor eccellenti: politici e anche religiosi come l'ex viceministro Bubbico (Leu), don Angelo Gallitelli (segretario del vescovo di Matera, l'ex sottosegretario De Filippo (Pd), il deputato Piepoli (Cd), e il questore di Matera, Paolo Sirna. Nelle intercettazioni anche l'ex senatrice Lucia Esposito, "la discepola della Campania", vicina a De Luca. Nessuno di loro risulta indagato, scrivono Giuseppe Pipitone e Giovanna Trinchella il 6 Luglio 2018 su Il Fatto Quotidiano. Una madre che si sente “un verme” perché sa di essere parte di un “sistema” in cui i “meritevoli” devono lasciare spazio ai raccomandati. Dove la sua stessa figlia potrebbe essere vittima di chi come lei aggiusta i concorsi. È esemplare l’intercettazione che il gip di Matera Angela Rosa Nettis riporta quasi alla fine dell 425 pagine con cui ha firmato trenta misure cautelari tra cui i domiciliari per il governatore della Basilicata Marcello Pittella. È lui il deus ex machina, che “detta le sue regole partitocratiche, trasmette i suoi elenchi, le sue liste verdi, le sue direttive”. Cioè i nomi dei raccomandati che devono vincere i concorsi, che se “hanno fatto tutti schifo”, come registrano gli investigatori in un’intercettazione. Poco importa. A contare è la volontà di Pittella: “Sia fatta la sua volontà”, è il refrain di religiosa ispirazione con cui i sottoposti eseguono le indicazioni del presidente. A parlare in una conversazione captata dagli investigatori delle fiamme gialle è Maria Benedetto, direttore amministrativo della Azienda sanitaria di Matera, finita in carcere come il commissario dell’Asm, Pietro Quinto (ex dg Asm) considerato dagli inquirenti “il collettore delle raccomandazioni che promanano” dal presidente Pittella. La donna, parlando con la sua segretaria, si lamenta del destino della sua brillante figlia, studentessa a Bologna, rispetto a quello del figlio di Quinto, neo laureato in giurisprudenza a Bari e già tirocinante in uno studio legale nel capoluogo pugliese grazie al padre: “Mia figlia senza voler essere…mia figlia…è dieci volte più brava e poi dico io i nostri figli, tu immagina quando aggiusto le cose nei concorsi e se capita a mia figlia? Che pur essendo più brava di…non può andare avanti … e allora mi sento un verme ... dico mi sa che faccio parte anche io di questo sistema! però veramente, se il figlio veramente … ma io provo ammirazione per le persone brave. Siccome lo so i mezzucci, mi … cioè una cosa alluci… cioè il mio cruccio… ma così, ma questo come farà… andrà sempre avanti così”.
Voti gonfiati anche per gli omonimi dei raccomandanti. – Mezzucci, raccomandazioni, favori, logiche clientelari per cui i concorsi erano truccati, anche quelli per i disabili: i candidati a ricoprire anche posti da dirigenti – segnalati da Pittella – avevano in anticipo le tracce “con domande facili“, “generiche“, anzi a uno dei raccomandati sarebbe stato anche chiesto quale argomento avrebbe voluto affrontare nelle tracce. C’è stato anche il caso di un candidato, essendo omonimo dello sponsorizzato che si era ritirato, si è visto attribuire un voto altissimo. Chi partecipava ai concorsi poteva sapere anche già in anticipo le domande che sarebbero state fatte all’esame orale. Tra i capi di imputazione c’è anche la distruzione dei verbali di correzione con “le reali votazioni“. Sì perché i voti (che in alcuni casi erano espressi anche in giudizi e non in punteggi), stando alla procura di Matera, venivano anche gonfiati o attribuiti a “tavolino” dai commissari in favore dei candidati con uno sponsor. E che gli inquirenti hanno individuato nell’ex viceministro dell’Interno Filippo Bubbico (Leu), in don Angelo Gallitelli, segretario del vescovo di Matera Antonio Caiazzo, nel deputato nonché ex sottosegretario alla Salute Vito De Filippo (Pd), nell’ex parlamentare barese Gaetano Piepoli (Cd).
“La discepola della Campania” vicina a De Luca – Nelle carte si parla anche di Lucia Esposito, vincitrice di un concorso il 28 giugno del 2017, indicata nelle intercettazioni come “della Campania…la discepola“. Esposito infatti è vicina al governatore della Campania, Vincenzo De Luca. Esponente del Pd è stata pure eletta al Senato, subentrando nel settembre del 2017 a Vincenzo Cuomo, eletto sindaco di Portici, per alcuni mesi titolare di un doppio incarico. Il gip annota anche il nome del questore di Matera, Paolo Sirna. Che avrebbero sollecitato Quinto a intercedere su altre vicende, come l’assunzione del figlio di Piepoli alla Fondazione Matera 2019 (mai avvenuta perché secondo il gip gli indagati erano stati informati dell’esistenza dell’inchiesta). Nessuno di loro risulta indagato. Anche perché come ricorda il giudice esiste una sentenza della Cassazione (la n° 32035 del 2014) che stabilisce che la mera “raccomandazione” o “segnalazione” non costituisce una forma di concorso morale nel reato di abuso d’ufficio in assenza di ulteriori comportamenti.
Pittella deus ex machina: “Sia fatta la sua volontà” – “Uno squallido e disarmante spaccato i cui protagonisti con disinvolta facilità si muovono con un malinteso senso di impunità“, scrive il gip nell’ordinanza. Anche perché stando alle indagini delle Fiamme Gialle proprio Quinto avrebbe saputo di essere intercettato dal senatore Salvatore Margiotta, appena rieletto dal Pd. Ma non solo: “Alla luce di quanto su esposto può fondatamente formularsi a carico di tutti gli odierni indagati una prognosi di pericolosità in considerazione della straordinaria gravità dei fatti loro ascritti aventi a oggetto la mercificazione della funzione pubblica, la spartizione partitocratica degli incarichi dei posti messi a concorso nel settore attenzionato della sanità pubblica, che offre uno squallido e disarmante spaccato”. Questo perché i protagonisti di questa ennesima storia di malaffare “agiscono nella consapevolezza di uno scambio di reciproci favori dimenticando di essere investiti di una pubblica funzione, interessati unicamente alla realizzazione del proprio tornaconto ed ingerendo – prosegue il giudice – anche nei soggetti privati che a vario titolo vengono in rapporto con loro la convinzione che il potere pubblico implichi prevaricazione e abuso, privilegio guarentigie e sottrazione a ogni regola di correttezza”. E in questo quadro che il numero uno della Regione “detta le sue regole partitocratiche, trasmette i suoi elenchi, le sue liste verdi, le sue direttive”. Anche se “non si sente molto nelle intercettazioni perché è accorto, le sue direttive sono sempre mediate… Ma è il deus ex machina, nulla si muove senza il suo suggello”. Anche come lui stesso ammette lo scambio deve essere biunivoco: “Dobbiamo accontentare tutti“. Del resto parlando di “Marcello” o “lui”, “come si fa – sottolinea il gip – riferimento quando lo si chiama in causa in un accezione che lo vede sovraordinato e vigile determinatore delle sorti e delle carriere: accezioni che tutti comprendono e per le quali ossequiosamente tacciono in un ‘sia fatta la sua volontà‘: il Quinto ‘nulla fa’ se non con il ‘placet‘ del suo referente politico Pittella”.
Pittella voleva ricandidarsi, gip: “Continuerà a garantire favori” - E per farlo esiste, anzi esisteva un “collaudato sistema attraverso il quale vengono pilotati i concorsi pubblici per l’assunzione di personale, specie amministrativo, e ciò anche al fine di dare sfogo alle segnalazioni che promanano da esponenti politici e non solo. E – chiosa il gip – Quinto ne è il dominus”. Un sistema che andava infranto perché secondo il giudice “il pericolo di reiterazione è quantomai attuale e concreto, solo se si considera che Pittella negli ultimi giorni ha manifestato la volontà di ricandidarsi come governatore della Basilicata e ciò fa ritenere che continuerà a garantire i suoi favori e imporre i suoi placet ai suoi accoliti pur di consolidare il suo bacino clientelare, potendo contare su appoggi locali, in uno scambio di utilità vicendevoli”. Come quando Pinto otteneva dall’imprenditore Gaetano Appia, che aspirava a ottenere convenzioni, “lavori di imbiancatura e muratura di casa”. I domiciliari per il presidente sono stati decisi anche perché c’era ancora una “questione in sospeso” che Pitella avrebbe voluto portare a termine: “Che se non riuscirà a realizzare fino alla fine della presente consiliatura la nuova candidatura – ragiona il gip – gli consentirà di raccogliere consensi da parte di coloro che sono i collettori delle esigenze e delle aspirazioni” che provengono dalla futura unificazione dell’ospedale Madonna della Grazie di Matera e il quello di Policoro per creare l’ospedale regionale San Carlo “e creare un’azienda ospedaliera unica con sede nel capoluogo e Quinto aspirava al ruolo di dg della Ausl Basilicata“.
Documenti distrutti, il gip: “Mondo delinquenziale” - Pittella e tutti gli altri “hanno manifestato consapevolezza e adesione a tale metodo di accapparramento e violazione delle regole di legalità e trasparenza, ancorché emersi nel ruolo di concorrenti morali o istigatori o anche beneficiari. A leggere le risultanze investigative emerge uno sconfortante scenario la dove i meritevoli non protetti, considerati inutile zavorra, viene negata ogni speranza che le regole vengano rispettare”. Ma non solo. Tutto sarebbe potuto essere considerato regolare se gli investigatori non avessero colto gli illeciti nel momento stesso in cui avvenivano: “Le procedure di concorso sarebbero apparse connotate da legalità, come detto, se la falsificazione, l’occultamento, la distruzione dei documenti, non fosse stata dimostrata da immagini e discorsi, se l’illecito non fosse stato documentato in presa diretta dai sussurri, dai pizzini (quando ormai era noto che ci fosse un’inchiesta, ndr), da una gestualità che appartiene davvero a un mondo delinquenziale di elevata caratura”. Non ci sono solo i comportamenti di coloro hanno una funzione pubblica a essere stigmatizzati: “Anche i privati che si interfacciano con i principali protagonisti sanno di poter contare su questo uso distorto della funzione pubblica e con l’ausilio e la complicità degli stessi funzionari infedeli di realizzare i loro interessi (come gli imprenditori Gaetano Appio o i quattro Lascaro, ndr). Reiterata poi è l’attività duplice e a doppio binario condotta dal professore universitario Agostino Meale, documentata ed emersa dai molteplici elementi a suo carico”.
Il professore universitario “corrotto” con le consulenze – L’ordinario dell’Università di Bari è infatti tra coloro per cui il giudice ha disposto i domiciliari con l’accusa di corruzione con Quinto, per aver ottenuto incarichi di consulenza e assistenza legale in cambio della disponibilità ad agevolare la carriera universitaria e professionale del figlio di Quinto, studente a Bari. Quel figlio di cui parlava Maria Benedetto. Il docente, stando all’accusa, avrebbe accettato di fare da relatore della tesi di laurea e lo avrebbe inserito per la pratica forense nello studio di un avvocato amico e, infine, avrebbe dato la sua disponibilità ad aiutarlo nel dottorato di ricerca presso la propria cattedra. Da Quinto avrebbe in cambio ottenuto, fra giugno 2017 e gennaio 2018, incarichi per 57mila euro circa in qualità di legale di volta in volta della Asm, della Asp e della Asl di Bari, in sette diversi procedimenti dinanzi ai Tribunali amministrativi di Matera, Potenza e Bari. C’è poi il pericolo di inquinamento probatorio “in considerazione della rete di conoscenza e di espansione del potere, a vario, titolo, esercitato dai soggetti indagati nell’odierno procedimento”. Nell’ordinanza si legge un episodio in particolare e si cita una intercettazione di una indagata: “O mi devo fare pure scannerizzare le carte, mi devo fare le fotocopie perché questi siccome sono delinquenti ancora quando io me ne sono andata, le fanno sparire, mica è la prima volta che hanno fatto queste cose capito?”.
Assunzioni e favori per alimentare “il consenso elettorale” - Questo perché “la politica” è “nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta, non più a servizio della realizzazione del bene collettivo ma a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di poteree condizionamento sociale”. Le assunzioni e i favori sarebbero servite ad alimentare “il consenso elettorale” e come merce di scambio per “politici di pari schieramento che governano regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania“. E proprio sul ruolo di Pitella il gip scrive anche che, relativamente a un concorso del 2015 “il cui esito ha vacillato fino alla fine“, tutto è stato poi “sopito con la mediazione del governatore Pittella, che avrebbe suggerito… di accontentare tutti”. Il paradosso è che l’inchiesta è iniziata un anno e mezzo fa dopo l’esposto di un ex dipendente della cooperativa “Croce verde Materana” che denunciava un tentativo di truffa proprio i danni della Asm, cuore di questo coacervo di illeciti, per le irregolarità contributive nell’ambito di un servizio di trasporto malati che sarebbe stato svolto da personale non assunto. Lì non c’era bisogno né di concorsi, né di sponsor, né di essere “nell’elenco del presidente”.
COME AL “PRONTO SOCCORSO”, UN CODICE PER OGNI RACCOMANDAZIONE: QUELLO DI PITTELLA ERA VERDE, scrive il 7 Luglio 2018 Cronache Lucane. Il governatore lucano, Marcello Pittella, è passato in pochi giorni dalla vacanza dorata all’Hilton di Matera, in occasione della festa della Bruna, agli arresti domiciliari a Lauria presso l’immobile di color amaranto, sito in via Rocco Scotellaro, dove c’è un cartello che riporta l’indicazione: “Villa Pittella”. Proprio Villa Pittella compare in più occasione nell’ordinanza del Gip Angela Rosa Nettis, e rappresenta, stando alle risultanze investigative, il fortino del “gladiatore” dentro il cui perimetro non arrivavano occhi e orecchie indiscrete, quali quelle degli investigatori. Un pò come Villa San Martino ad Arcore per Berlusconi. Un pò come se Villa Pittella fosse in acque internazionali o uno Stato nello Stato. Pittella durante l’attività investigativa attuava, come riportato nel faldone dell’inchiesta, strategie per fare in modo che le tracce si interrompessero pochi metri prima di condurre a lui. Gli inquirenti scrivono di lui: «Non si sente molto nelle intercettazioni perché è accorto, le sue direttive sono sempre mediate, da lui si reca la Benedetto per riceverle o le comunica attraverso altre persone, ad esempio la Berardi, direttore Amministrativo dell’Ospedale San Carlo di Potenza». Avvengono vari incontri a Villa Pittella di cui gli investigatori sanno per quale scopo vanno gli interlocutori del governatore e sanno poi, tramite intercettazioni, quali sono gli esiti, poi confermati dai risultati dei concorsi truccati. Nonostante le tattiche di difesa, comunque gli inquirenti ritengono di aver ricostruito fatti e ruoli tali da sostenere che: «Nella sanità lucana c’è un “sistema di corruzione e asservimento della funzione pubblica a interessi di parte di singoli malversatori”. Sistema al cui centro c’è «sempre la stessa ratio ispiratrice, la politica nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta».
IL RUOLO DI PITTELLA E LA “LISTA DEI VERDI”. I concorsi nella Sanità lucana veniva truccati con «l’attribuzione di punteggi artatamente “gonati”» nei confronti di quei candidati che risultavano «raccomandati dal Presidente Pittella», che segnava i nomi, suoi e di altri, «comprese autorità civili e religiose», nella sua personale «“Lista dei verdi”». Chi era in questa lista, «quelli verdi sono di Pittella», come emerge dalle indagini, passava qualsiasi concorso e in qualsiasi modo. Un insufficienza, come quella di Annuzo Eliana, per fare un esempio, ma i nomi sono molti, segnalata dal Presidente, valutata dalla commissione 18/30 diventava poi 25/30. Pittella per gli inquirenti è il «Deus ex machina della distorsione istituzionale nella sanità lucana». Pittella «influenza anche le scelte gestionali delle Aziende sanitarie ed ospedaliere lucane interfacciandosi direttamente con i loro Direttori Generali i quali sono stati tutti da lui nominati prima nel 2015 e poi a gennaio scorso in qualità di Commissari straordinari. Pittella faceva in modo di manipolare «le procedure selettive per assumere personale nella sanità e ciò al ne non solo di ampliare il consenso elettorale ma anche allo scopo di “scambiare” favori ai politici di pari schieramento che governano Regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania». Non è tutto. Pittella, insieme agli altri indagati, agisce « nella consapevolezza di uno scambio di reciproci favori dimenticando di essere investiti di una pubblica funzione, interessati unicamente alla realizzazione del proprio tornaconto ed ingenerando anche nei soggetti privati che a vario titolo vengono in rapporto con loro la convinzione che il potere pubblico implichi prevaricazione ed abuso, privilegio e guarentigie e sottrazione ad ogni regola di correttezza». E ancora: «Nel corso delle indagini è emersa la figura del Pittella Marcello, governatore che detta le sue regole partitocratiche, trasmette i suoi elenchi, le sue liste “verdi”, le sue direttive … nulla si muove senza i suoi dictat, senza il suo “’suggello”». Se non eri nella “Lista dei verdi” di Pittella ed eri comunque preparato al più venivi giudicato uno dei tanti «meritevoli non protetti», ma comunque considerati perentoriamente una «inutile zavorra» a cui «viene negata ogni speranza che le regole vengano rispettate».
PITTELLA E QUINTO. Quinto è tra coloro che «rientrano a pieno titolo tra i “fedelissimi” del governatore lucano» e la sua figura «assurge a quella di soggetto totalmente asservito al suo principale referente politico». Perchè Pittella puntava molto sull’Asm? Perchè il governatore lucano «ha ben individuato nell’Asm di Matera, per quel che qui interessa, una possibile proficua leva sociale di consenso elettorale in vista, altresì, di future e vicine elezioni nel prossimo autunno. E nulla è più efficace, allo scopo, della leva delle assunzioni nella pubblica amministrazione ed a tempo indeterminato, in una Regione, quale è la Basilicata, storicamente afflitta dalla piaga della disoccupazione». «La incondizionata vicinanza del Quinto al Presidente, «a Marcello» «a lui» come si fa solitamente riferimento quando lo si chiama in causa» fa si che svolga quasi un ruolo da notaio rispetto ai dicktat del governatore, dinanzi ai quali «ossequiosamente» tace rimettendosi «in un “sia fatta la sua volontà”». In pratica «Quinto “nulla fa” se non con il “placet” di Pittella».
IL CONCORSO AL CROB. La cabina di regia svolta da Pittella nel pilotare i concorsi, così come contestato dai pm di Matera, emerge con evidenza nel selezione indetta, nel 2015, dal Crob di Rionero per la copertura a tempo indeterminato di un posto da dirigente amministrativo. «Anche in tal caso, così come è emerso per i concorsi oggetto di indagine, la procedura selettiva è stata condizionata dalla politica, ed ancora una volta con il “suggello” del Governatore Pittella, con la particolarità che il candidato vincitore è un soggetto di fuori regione, esponente attivo, peraltro di recente proclamato Senatore, del Partito Democratico nonchè persona molto vicina al Governatore campano De Luca». «Ma in realtà – proseguono gli inquirenti – anche in questo concorso è lecito ipotizzare che vi saranno più vincitori atteso che il primo in graduatoria, acquisita la posizione dirigenziale, beneficerà della mobilità verso qualche azienda sanitaria campana, e di conseguenza, come peraltro è emerso nel concorso per dirigente Asm, si procederà a far scorrere la graduatoria e ad assumere i candidati raccomandati che sono stati collocati nelle prime posizioni». Chiarelli vedendo le prove scritte «esprime disappunto su come è stata eseguita la traccia, a suo avviso prevedibile, tanto che i candidati meriterebbero di essere “uccisi e cacciati tutti quanti”» Il fatto però è che, come emerso dalle intercettazioni che «confermano la manipolazione di tale concorso, le direttive ricevute dal Governatore Pittella» sorge un dilemma «… il problema è questo, e che Marcello ha detto che c’è un’esigenza qua, perché questa andrebbe portata da … lì purtroppo ci ha messo il suggello, il suggello». In sintesi, come ricostruito dagli inquirenti, doveva in primis doveva vincere «quella … della Campania … la discepola» di De Luca, poi bisognava piazzare Maria Carmela Varasano (funzionario amministrativo in servizio a Roma presso il Ministero della Salute). Varasano ed Esposito sono quel «qualcuno di fuori che se ne deve andare» e che, scorrendo la graduatoria, avrebbero fatto conferire l’incarico dirigenziale sarà a Patrizia Aloè. La graduatoria finale è risultata essere; Esposito, Varasano e inne Aloè. Per questo Chiarelli, Benedetto e Amendola sono accusati di aver «assegnando il voto dopo aver individuato l’autore dell’elaborato (senza anonimato) ed attribuendo “a tavolino” (“..dottò ma Aloè … metti 24″) i relativi punteggi che venivano all’occorrenza “gonfiati” per consentire il superamento della prova pratica da parte dei candidati segnalati dal Presidente della Regione Basilicata Pittella, nella specie Esposito, Varasano e Aloè al ne di procurare agli stessi un indebito vantaggio patrimoniale relativo al superamento del concorso e quindi all’assunzione a tempo indeterminato presso quell’ente pubblico ovvero altre aziende sanitarie beneficiando dell’istituto del cosiddetto “scorrimento delle graduatorie”»
· L’Università dei Baroni.
Sistema Baronale: un'associazione a delinquere con metodi paramafiosi.
Università truccata? Alessandro Bertirotti il 18 luglio 2019 su Il Dubbio. È tutta questione di… ipocrisia. Catania non è la perla della situazione, ma solo parte degli ingranaggi. Non è una novità, anzi, lo sappiamo da sempre che le cose procedono in questo modo, con una costante e continua opacità fra i vari gangli delle Istituzioni. Ognuno di noi, sia genitore oppure professore, vuole il meglio dei propri figli oppure allievi. Ogni docente, ad ogni livello e in qualsiasi processo educativo, individua i migliori, coloro che potrebbero davvero e bene interpretare la prosecuzione dei propri principi, siano essi pedagogici che scientifici. È del tutto naturale, quindi, fare il possibile perché allievi individuati come migliori possano diventare i propri eredi scientifici. Di fronte a due persone, una delle quali è conosciuta da tempo, perché l’ho vista crescere al mio fianco, rispetto ad un’altra a me sconosciuta, è giusto, ovvio e sano scegliere la prima. Così fa l’Uomo, per difendere se stesso, per la comunità nella quale vive. Dunque, sono i concorsi, in loro stessi e come sono strutturati, ad essere una vera e propria presa per i fondelli. E questo lo sanno tutti, persino i magistrati. E, per fare in modo che i propri allievi, quelli avuti accanto in anni di collaborazione e abnegazione, possano essere i vincitori, si fa di tutto. Ed è giusto, proprio per essere loro riconoscenti, per il denaro e il tempo spesi, per le ricerche e gli aiuti nelle ricerche senza che il loro nome venisse pubblicato. Si tratta di gavetta? Forse, ma certo si tratta di formazione, di educazione al mondo accademico internazionale, che è costituito da rapporti di forza e rapporti di stima. Proprio come accade ovunque, né più e né meno. Ecco dovrebbe dunque esistere un sistema di cooptazione diretta, di chiamata diretta, senza nessun concorso pubblico fasullo ed inutile, sia per coloro che sono in commissione, sia per coloro che vi partecipano. Una chiamata diretta, anche sulla base di lettere di referenze a favore del candidato alla chiamata, proprio come avviene nei Paesi anglosassoni. Ecco, questo sistema, certo competitivo e comunque basato sulla propria fama, affidabilità e storia personale, potrebbe certo eliminare quegli accordi nascosti, perché gli accordi ci sono, portando avanti, alla luce del sole, coloro che di volta in volta possono essere all’altezza di far parte dell’accademia, da tutti i punti di vista. Non si deve, infatti dimenticare, che per un docente educare e formare un giovane, possibile accademico, è sempre un investimento di tempo, energie e sapere. In questo modo, ogni docente fornirebbe a tutti le stesse opportunità di partenza, stando a guardare quali sono i migliori, e con il sistema della cooptazione li incoraggerebbe a diventare il preferito perché migliore, e non per altre motivazioni. Certo, si instaurerebbe una sorta di agonismo fra gli studenti, basato proprio sulla necessità di dimostrare al docente in cattedra che vale la pena spendersi per lui, in vista di una possibile carriera accademica, ma l’agonismo nell’ambito di situazioni lavorative può essere uno stimolo positivo. Questo penso, e questo ho scritto. E forse le cose andrebbero meglio.
Università, tempesta sullo strapotere dei "Baroni". L'ultima inchiesta coinvolge il rettore di Catania. Ma gli scandali hanno coinvolto anche Padova, Firenze, Bologna, segno di un malcostume che abbassa qualità e competenze. Fabio Amendolara il 18 luglio 2019 su Panorama. «Poi alla fine qui siamo tutti parenti… alla fine l’università nasce su una base cittadina abbastanza ristretta, una specie di élite culturale della città, perché fino adesso sono sempre quelle le famiglie». In queste parole del rettore di Catania Francesco Basile, il politologo statunitense Edward Banfield avrebbe potuto trovare la prova della sua teoria sul familismo amorale. L’intercettazione è finita nell’inchiesta che la Procura catanese, poco prima di chiedere l’arresto di Basile (poi rigettato dal gip), ha battezzato «Università bandita». Il piano di Basile, dell’ex rettore Giacomo Pignataro e dei docenti coinvolti era quello di bandire concorsi cuciti su misura per i loro candidati. Concorsi ad personam. Come in altre università italiane. La consuetudine, come raccontano le indagini che da varie procure si sono abbattute come una tempesta sugli atenei, è questa. «Che la cultura debba soggiacere al potere è la cosa più desolante», ha sentenziato il procuratore etneo Carmelo Zuccaro. Neanche un mese fa, per restare in Sicilia, sono stati condannati tre docenti universitari, Simone Neri Serneri, Luigi Masella e Alessandra Staderini, che componevano la commissione d’esame per il concorso di ricercatore di Storia contemporanea nella struttura didattica di Lingue, a Ragusa. Un anno di reclusione ciascuno, pena sospesa, per abuso d’ufficio e interdizione dai pubblici uffici e dagli uffici direttivi. I tre dovranno risarcire anche lo storico Giambattista Scirè che in quel concorso era stato bocciato, sostiene l’accusa, a vantaggio di un architetto che, pur non avendo i titoli, era arrivato primo. Il copione si ripete un po’ ovunque negli atenei. E ognuno aveva la sua ricetta per far quadrare i concorsi. A Firenze, per esempio, vigeva il principio dello scambio di piaceri, che in campo accademico, per darsi legittimità, era diventato do ut des. I prof intercettati non erano contenti, ma si adeguavano: «Perché la logica universitaria è questa, è un mondo di merda». L’intercettazione è finita nei faldoni dell’inchiesta di Firenze, la più importante finora mai condotta da una procura. Qui l’ipotesi è che con il classico do ut des, l’abilitazione di ben 26 docenti di diritto tributario in vari atenei italiani tra il 2013 e il 2015 avrebbe penalizzato la carriera accademica di almeno una dozzina di ricercatori. È lo scandalo più grande mai ipotizzato. Non solo per i numeri: 45 indagati di cui sette finiti agli arresti domiciliari, 22 interdizioni dall’insegnamento. Anche per estensione territoriale: sono stati colpiti tutti i principali atenei italiani, Roma, Firenze, Napoli, Bologna, Sassari e Palermo. E come ha ricostruito Claudia Fusani nelle news di Tiscali, al centro dell’inchiesta ci sono due associazioni, la Ssdt (Società studiosi diritto tributario) e la Aipdt (Associazione italiana professori diritto tributario), che raccolgono i migliori accademici della materia. Il top del diritto tributario. Che ha valutato l’abilitazione di decine di candidati. E infatti negli atti d’indagine è spiegato: «Ricevevano l’utilità di far abilitare i candidati sponsorizzati per conto della propria associazione e di non far abilitare i candidati ritenuti di ostacolo alle carriere dei propri allievi». La cosa più triste è che il tutto avveniva «a prescindere da ogni merito, ma esclusivamente in funzione della soddisfazione degli interessi personali e delle rispettive associazioni». Alcuni di loro si sono difesi davanti al giudice sostenendo che «era un modo per alzare l’asticella». Ma nell’aula in quel momento deve essersi sentito molto forte lo stridio di chi ha tentato di arrampicarsi sugli specchi. E a febbraio la Procura ha chiuso i conti con i prof, notificando a 45 di loro un avviso di conclusione delle indagini preliminari, atto che anticipa (se le cose non dovessero cambiare con interrogatorio difensivi e memorie) a una richiesta di rinvio a giudizio. Una delle intercettazioni è emblematica: far entrare le persone giuste nell’accademia significa anche gestire la materia. L’ex ministro Augusto Fantozzi, docente di diritto tributario, ex commissario straordinario di Alitalia e rettore dell’Università telematica «Giustino Fortunato» di Benevento, se lo fa scappare durante una cena intercettata in modo ambientale. «Bisogna trovare persone di buona volontà che di sopra e di sotto, di qua e di là, ricostituiscano un gruppo di garanzia che riesca a gestire la materia nei futuri concorsi». E qui, oltre al principio del do ut des, ne viene coniato un altro. Fantozzi parla di «trade off», che nel lessico finanziario è la «perdita di qualcosa in cambio di altro». E infatti l’ex ministro pronostica «il trade off di Maisto contro Tundo», due candidati. E qui spunta un altro big della politica di qualche anno fa: il professor Gianni Marongiu, genovese, avvocato con un passato da sottosegretario alle Finanze nel primo governo Prodi. Marongiu, nella ricostruzione dei magistrati, è indicato nella fase riguardante la mancata abilitazione di una candidata «le cui aspirazioni di carriera presso l’Università di Genova», ricostruisce l’accusa, «erano invise a Marongiu allo scopo di tutelare quelle della figlia». La palla, però, da Genova torna a Firenze, dove in un’altra indagine 16 persone sono indagate per l’ipotesi di aver pilotato concorsi della facoltà di Medicina. L’inchiesta è concentrata sul programma triennale di reclutamento di professori e ricercatori universitari e su un concorso per neurochirurgo. Tra gli indagati ci sono l’ex direttrice dell’Ospedale Careggi di Firenze e attuale direttrice dell’assessorato regionale alla Salute, Monica Calamai, e il manager dell’ospedale, Rocco Damone. La stampa locale l’ha battezzata la «Cattedropoli dei baroni di medicina» che decidevano a tavolino chi far vincere. Ed è stato uno dei penalizzati, il professor Oreste Gallo, a segnalare in procura le anomalie. In passato uno dei denuncianti, sui social è diventato addirittura un eroe: Philip Laroma Jezzi, ricercatore tributarista, con una registrazione fatta con il cellulare è stato capace di incastrare altri baroni dell’università di Firenze. A lui lo dissero in faccia: «Non è che non sei idoneo ma non rientri nel patto, non sei in lista. Ritirati». Le trame concorsuali nelle università italiane sono variegate, ma l’effetto è sempre il medesimo. A Palermo, per esempio, la tempesta ha colpito l’ex ordinario di Scienza delle finanze Andrea Parlato. L’hanno beccato a telefono mentre diceva: «Sono quattro più il nostro... sono tutti d’accordo». Secondo l’accusa, il prof spiegava come sarebbe finito il concorso per l’abilitazione all’insegnamento universitario. Era il marzo 2015. «Mariù passerà», diceva al telefono. Mariù, Maria Concetta, è la figlia di Parlato, ricercatrice a Scienze politiche. Una «cricca», invece, è stata definita quella che avrebbe truccato i concorsi a Torino: un posto da ordinario all’Università e l’assegnazione indetta dall’ateneo di tre borse di studio nel dipartimento di Neuroscienze «Rita Levi Montalcini». Dall’indagine è emerso che i profili venivano cuciti addosso ai candidati sponsorizzati e che i concorsi venivano chiamati a telefono con il nome del futuro vincitore. Ma i trucchetti non riguardano solo i «baroni» universitari. A Padova è finito sotto inchiesta il direttore generale, l’ingegnere Alberto Scuttari, per aver assegnato, sospetta la Procura, il posto di addetta alle relazioni esterne a una sua storica collaboratrice con un concorso che sarebbe stato creato ad hoc. Un esposto anonimo arrivato in Procura prima della selezione conteneva il pronostico sul nome. E ci ha azzeccato.
Università, la vergogna italiana: i baroni spadroneggiano, e ai giovani non resta niente. L’Inkiesta il 29 giugno 2019. Tre ricercatori tra cui Venezia e Pisa svelano il segreto di Pulcinella degli atenei pubblici italiani. Dai commissari interni che scelgono i colleghi esterni amici per far passare il pupillo, alle coppie di baroni nei dipartimenti fino a come escludere i candidati indesiderati all'orale. È il segreto di Pulcinella dell’Università italiana. Tutti lo conoscono, ma fanno come se nulla fosse. Fin quando non arriva un’inchiesta che per qualche giorno fa indignare l’opinione pubblica. E poi si ricomincia, nell’omertà generale. I "baroni" negli atenei non sono mai scomparsi, ma vivono e prosperano. Se ci si accoda al professore giusto e al suo "clan" si può fare carriera, sennò per avere una cattedra o un assegno di ricerca decente bisogna emigrare. O rispetti la consuetudine o non farai mai carriera. E a poco a poco vieni emarginato senza mai poter tenere il corso per cui avresti i titoli. Non tutti, ma tanti si comportano così: promuovono il discepolo fedele anche se al concorso si è presentato un altro più meritevole. Non importa se c’è un commissario esterno. Anzi, si adeguerà alla decisione presa dai "baroni" dell’ateneo per vedersi ricambiare il favore quando servirà. L’ultimo esempio sembra venire dall’indagine della procura di Catania. Dieci indagati per corruzione e turbativa d'asta tra cui il rettore dell’Università. Secondo l’accusa, i direttori di dipartimento avrebbero truccato 27 concorsi per professori ordinari, associati e ricercatori. Con loro sono indagati altri 40 professori da atenei provenienti da tutta Italia: Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona. Ovvero tutti i commissari esterni che venivano di volta in volta nell'Università di Catania. Chiariamoci: siamo garantisti fino all’ultimo grado di giudizio, ma non ingenui. Sono tante, tantissime le segnalazioni arrivate ieri di ricercatori pronti a raccontare come nella loro università funziona in modo simile. Forse non si viola sempre la legge, ma si consolida un sistema politico fatto di correnti, prescelti, parenti ed ostracismo. Ammettiamo che sia tutto legale, sarà la magistratura a dirlo. Ma la meritocrazia viene violentata ogni giorno. «Ci sono solo due modi per cui un candidato esterno riesce a vincere dottorato: se non ci sono candidati interni o se ce ne sono due appartenenti a “clan” diversi nel dipartimento. Per evitare di farsi male a vicenda si sceglie quello arrivato da fuori. Anche se non lo merita», rivela con poco stupore un ricercatore della Ca’ Foscari, che ha deciso di parlare in cambio dell’anonimato. «La storia di Catania era già nota da tempo agli addetti ai lavori. Il malcostume dei concorsi pilotati è sistematico. Nessun ateneo può dirsi esente da questo tipo di prassi. Qui alla Ca' Foscari era così fino a pochissimi anni fa. Poi è stato posto un vincolo che esclude candidati interni da alcuni concorsi importanti. Chissà perché poi quel vincolo è diventato opzionale».
Come il Consiglio superiore della magistratura e la politica anche il mondo universitario è fatto di correnti che mantengono il potere.
La lotta non è sempre quella macchiettistica tra candidato preparatissimo di un'altra università e lo stupido raccomandato cresciuto dai "baroni" dell'ateneo. Ma la certezza è che a parità di curriculum importanti si sceglie la persona più vicina al barone di riferimento. Il problema è che il giudizio è sempre discrezionale. «Le decisioni vengono prese a livello politico con accordi preconfezionati. Le commissioni sono composte da tre persone e i due membri esterni vengono selezionati con cura dal membro interno in modo che siano d'accordo con lui sull'esito finale del concorso» spiega il ricercatore della Ca Foscari. «Per evitare di essere scoperti ci si mette d'accordo prima su chi dovrà essere il vincitore del bando» . Ma perché uno o due esterni dovrebbero appoggiare un raccomandato? «Perché si fanno delle promesse reciproche: appoggi per concorsi che si dovranno tenere in avvenire nell'ateneo da cui l'esterno proviene. Ma in gioco c'è anche l'avanzamento di carriera. Perché spesso i commissari sono professori associati che aspirano a diventare ordinari. Oppure semplice ragioni di lobby, ed è questo che fa paura. Come il Consiglio superiore della magistratura e la politica anche il mondo universitario è fatto di correnti che mantengono il potere accademico».
Spesso la prima scrematura per far fuori i candidati indesiderati avviene prima dell'orale. Quando si fa una domanda di dottorato il candidato deve presentare il curriculum, le sue pubblicazioni e il progetto di ricerca su cui lavorerà negli anni. La commissione valuta e se ritiene pertinenti i titoli passano all’orale. E tra un candidato allevato dal barone e uno senza santi in paradiso vince sempre il primo. «Ho partecipato in contemporanea a tre bandi di dottorato in altrettanti atenei. Nell’università dove mi sono formato non sono passato neanche all’orale. Ma con gli stessi titoli ho vinto il bando negli altri due atenei più prestigiosi», spiega un ricercatore della Normale. «Nel mio ateneo è entrata li pupillo del professore interno della commissione. Voglio pensare sia solo un caso». Anche noi, pur notando che sono numerose le coppie di professori all'interno della stessa università. Nulla di male, anche la Corte Costituzionale ha chiarito che marito e moglie possono partecipare a un concorso nello stesso dipartimento, ma come si può tutelare uno aspirante dottorando che deve concorrere contro lo studente della moglie del commissario interno? Va bene che l'amore è cieco, ma nei dipartimenti universitari sembra vederci benissimo.
Un mio professore mi ha fermato tutto preoccupato dicendomi: ”Ma perché non mi hai detto che hai fatto la domanda in quell’ateneo? Se vuoi faccio la telefonata così stai tranquilla.
Alcuni "baroni" non si limitano a influenzare le vittorie solo nel loro ateneo, ma se hanno amici in altre università, cercano di piazzare il loro protetto. Ogni candidato deve consegnare alla commissione giudicante anche una lettera di presentazione da parte del suo professore che spesso aggiunge anche una telefonata per “galateo istituzionale”, non si sa mai. «Un mio professore mi ha fermato tutto preoccupato dicendomi: ”Ma perché non mi hai detto che hai fatto la domanda in quell’ateneo? Se vuoi faccio la telefonata così stai tranquilla”», confessa una ricercatrice di un'università del centro Italia. «Gli ho imposto di non farlo perché volevo farcela con le mie forze ed evitare casini». La soluzione? Eliminare la discrezionalità della composizione delle commissioni. Bisognerebbe definire una lista di candidati commissari a livello nazionale e che venissero sorteggiati per settore disciplinare. Ma l'organo principale che dovrebbe discutere di questa cosa è il Consiglio dell'università, un organo nazionale che riunisce tutte le università nazionali. Ma lì ci sono proprio i "baroni". Un cane che si morde la coda. La politica potrebbe forzare la mano ma già immaginiamo i cortei in cui si griderebbe all'attentato all'autonomia degli atenei. Sarebbe facile, facilissimo opporsi in nome della libertà. Oppure si potrebbe seguire il suggerimento del professore che nel film La meglio gioventù invitava uno studente ambizioso di medicina ad andarsene: «Vada a studiare a Londra, a Parigi, vada in America, se ha le possibilità, ma lasci questo Paese. L'Italia è un Paese da distruggere: un posto bello e inutile, destinato a morire». Qualcuno potrebbe obiettare che si è sempre fatto così. Anche il grande fisico Ettore Majorana, scomparso nel 1938 ha ottenuto una cattedra grazie a una raccomandazione. Majorana era uno dei ragazzi di via Panisperna, cresciuto sotto l'ala protettiva di Enrico Fermi. E proprio Fermi nel 1937 presiedette la Commissione che doveva assegnare tre cattedre di Fisica Teorica che andarono a tre suoi pupilli Gian Carlo Wick inviato a Palermo, Giulio Racah a Pisa)e Giovanni Gentile, figlio del filosofo a Milano. Non contento Fermi chiese di assegnare una cattedra anche a Majorana, nonostante il concorso ne prevedesse solo tre. Il ministro dell'Istruzione accolse la richiesta di Fermi e nominò Majorana professore ordinario di Fisica Teorica all'Università di Napoli. Ora in quel caso si trattava delle migliori menti della loro generazione. Non possiamo dire con certezza che lo siano anche i raccomandati di oggi.
Trasparenza e Merito. L'Università che vogliamo. L'Espresso: "E a Catania l'ateneo è cosa loro", 8 settembre 2019. L'articolo dal titolo "E a Catania l'ateneo è cosa loro", pubblicato domenica 8 settembre su L'Espresso, parla dell'inchiesta della Procura denominata "Università bandita" all'ateneo di Catania. E' evidente che di fronte ai gravi reati ipotizzati dopo le indagini dalla procura e alle interdizioni già inflitte ai vertici dell'ateneo da parte dei giudici, ancora prima dell'inizio del processo, non sono giustificabili minimizzazioni da parte del mondo accademico e non è possibile da parte del Miur andare di fioretto, occorre usare la sciabola: ne va dell'immagine stessa dell'istituzione universitaria e del paese.
"A volte bastava cambiare la data di scadenza di una abilitazione. Altre volta piazzare il criterio giusto che solo uno aveva. Oppure taroccare i verbali e magari fare qualche "favore" al commissario esterno, comunque sempre un amico fidato, per fargli chiudere un occhio al momento giusto. Ecco il grande "sistema" che ha consentito ai baroni nell'Università di Catania di trasformare l'ateneo più antico della Sicilia, fondato nel 1434, il più grande a Sud di Napoli, in "cosa loro". Ne sono convinti i magistrati della procura etnea , guidata da Carmelo Zuccaro che hanno indagato 60 docenti e sospeso i due rettori uscenti, Giacomo Pignataro e Francesco Basile. Entrambi molto amati dalla sinistra dem: Pignataro, ad esempio, è stato nominato dalla ministra Valeria Fedeli, il 22 febbraio 2018, pochi giorni prima del voto per le Politiche, a capo del nucleo di valutazione dei bilanci degli atenei. Carica che ricopre ancora, stando al sito del ministero dell'Istruzione. Per i pm sarebbero stati manovrati una trentina di concorsi interni, con un sistema capillare di gestione delle selezioni per la chiamata di professori associati, ordinari e ricercatori. Un terremoto che non ha avuto molta eco a livello nazionale, una mega indagine che ha alzato il velo su un metodo di cooptazione che, ci scommettono in molti, non cambia poi molto da ateneo ad ateneo. Per questo nessun docente e politico, né a Catania né nel Paese, ha commentato quanto denunciato dalla procura in questa mega Università del Sud. Per favorire il proprio allievo alcuni direttori di dipartimento facevano davvero di tuto, come ad esempio cercare di far nominare nella commissione un docente esterno amico e "riconoscente". Accade a Scienze politiche, dove il direttore Giuseppe Barone voleva piazzare il suo allievo Sebastiano Granata in una selezione per ricercatore. Barone, saputo da una sua collega che per questo concorso erano arrivate molte domande, chiama quindi il suo allievo e gli dice: "Il concorso è bello tosto". Aggiungendo di essere al lavoro per avere la disponibilità a far parte della commissione di una professoressa che a lui "deve molto". Nella stessa conversazione, intercettata dagli inquirenti, Barone chiede all'allievo di fare verifiche sugli altri concorrenti: "Vediamo chi sono questi stronzi che dobbiamo schiacciare...", dice. E pur di schiacciare "questi stronzi" sarebbe stato messo in scena, secondo i pm, perfino un seminario fasullo per anticipare le spese di viaggio, vitto e alloggio, alla commissaria desiderata. I pm hanno indagato Barone e alcuni dipendenti del dipartimento "per avere, con artifici e raggiri consistiti nel simulare, anche attraverso la predisposizione di una locandina, lo svolgimento di un convegno sul tema "I volontari in Russia durante la grande guerra", inducendo in errore gli uffici amministrativi dello stesso dipartimento di Scienze politiche che, confidando sull'effettivo svolgimento del convegno in realtà mai svoltosi, erogavano in favore della professoressa le somme di 460 euro per il volo di andata e ritorno da Napoli a Catania, di euro 300 per il vitto ed una somma non ancora determinata per l'alloggio". Al di là delle note dei pm, come è andato il concorso bandito alla fine del 2017. Manco a dirlo lo ha vinto Granata, che con un lungo sms ringrazia poi Barone: "Caro Prof, volevo solo dirle grazie perché anche ieri mi ha confermato, una volta di più, non solo di essere un maestro fantastico, ma anche un vero papà". Ma Barone ha anche un figlio "vero", che qualche anno fa è stato promosso, tra i dubbi dei suoi stessi colleghi, in un altro dipartimento. I dubbi emergono dalla ordinanza della procura, quando l'ordinario di Economia politica Roberto Cellini fa notare l'inopportunità di chiamare il figlio del direttore del dipartimento di Scienze politiche Barone, Antonio. Barone jr ha comunque ottenuto la cattedra di Diritto amministrativo, anche per l'intervento dell'ex rettore Pignataro, che Barone senior ringrazia poi con un sms: "Caro Giacomo, anche se gli atti del concorso non sono ancora perfezionati, l'esito positivo ormai noto mi spinge a non aspettare oltre per ringraziarti per quello che hai fatto per Antonio e per me". Come vincerà un'altra figlia e nipote d'arte: Alberta Latteri, il cui padre Ferdinando è stato rettore, e che diventerà ricercatrice il 29 agosto 2017 dopo un interessamento dell'ex rettore Antonino Recca. A Catania alcune volte per evitare problemi i rettori intervenivano per convincere i candidati a fare un passo indietro, come ha fatto Basile per la chiamata a ordinario di Biologia: la scelta ricadeva su Massimo Gulisano, ma a quel posto ambiva anche Luca Vanella, un figlio d'arte: il padre è Angelo, noto docente dell'ateneo. Basile convince quindi Vanella a non creare problemi: "Entro fine anno farai tu il concorso". E Vanella junior risponde: "Va bene, faccio un passo indietro". In altri casi per far vincere il nome scelto dal "sistema" bastava cambiare un criterio in corso, come accade al dipartimento di Scienze biologiche dove il direttore Carmelo Monaco in una conversazione diceva candidamente: "D'altronde cu spatti avi a megghiu parti", chi comanda si prende la parte migliore. E aggiungeva: "E' chiaro che avere una posizione di direttore è importante in queste occasioni... importante è che fai contento un po' tutti". Da direttore poteva gestire le chiamate dei concorsi e scrivono gli inquirenti: "Il 15 maggio 2017 Monaco informa Salvatore Saccone di avere predisposto le graduatorie per la programmazione delle chiamate di prima e di seconda fascia da proporre al Consiglio di dipartimento". Monaco gli racconta altresì di aver saputo che, in quella sede, Angela Messina esprimerà un voto contrario alla proposta. Gli chiede, pertanto, di intercedere con i colleghi del suo settore al fine di calmarli precisando che è sua intenzione "procedere a settembre con la chiamata da ordinario per lo stesso Saccone". Chi si mette di traverso paga le conseguenze. Un docente, Francesco Sciuto, fa ricorso al Tar su una selezione per la quale Monaco aveva individuato già un vincitore. "Monaco per rappresaglia, riferisce che toglierà a Sciuto alcune responsabilità e attività di insegnamento poiché, a suo dire, "ha pestato la merda e ora se la piange...vabbè lo distruggeremo... è un uomo finito", scrivono i pm. In ogni caso il metodo più diffuso era quello di taroccare i criteri: anche riscrivendo i verbali del concorso. Come per il concorso di Chirurgia generale. "Nella dichiarazione allegata al verbale sottoscritta dal professore Umberto Cillo si legge che la commissione si era riunita ed aveva predeterminato i criteri per la valutazione dei candidati con la presenza, -presso l'Università di Catania - dei commissari De Franciscis e Guglielmi e - presso l'Università di Padova - del commissario Cillo (asseritamente collegato per via telematica) mentre, al contrario, la riunione e la predisposizione dei criteri si svolgevano senza alcun intervento del Cillo (impegnato in sala operatoria tra le 12 e le 13.30) e nella stanza del rettore Basile che interveniva direttamente (e senza averne alcun titolo) nella formazione degli stessi criteri". I pm hanno indagato anche l'ex sindaco Enzo Bianco: Si sarebbe attivato con Basile per far istituire al dipartimento di Scienze umanistiche una cattedra di diritto romano, poi ricoperta dal suo assessore Orazio Licandro che insegnava a Catanzaro. "Università bandita": così i magistrati hanno chiamato l'indagine. Bandita, ma solo per chi non aveva nell'ateneo il padrino giusto. Dopo la sospensione, Basile si è dimesso. E in un clima a dir poco difficile comunque si sono appena svolte le elezioni per il nuovo rettore. Elezioni stravinte dal professore di Fisica Francesco Priolo, un nome nel settore a livello nazionale. Priolo non ha padrini politici e ha guidato la scuola superiore d'eccellenza, portando a Catania quattro premi Nobel, tra i quali John Ernest Walaker e Jean-Marie Lehn. Ma non è certo esterno all'ateneo e ha lavorato a stretto contatto con i rettori uscenti e molti docenti finiti nel mirino della procura. Riuscirà adesso a rompere davvero con il vecchio sistema, con quei colleghi che lui conosce bene e che secondo i pm consideravano l'università "cosa loro"?
Concorsi truccati all'Università, sospesi il rettore di Catania e 9 professori. La intercettazioni tra il rettore e il direttore amministrativo all'origine del caso, che ha portato a 40 docenti di 14 università indagati. Natale Bruno il 28 giugno 2019 su La Sicilia. L’hanno denominata "Università bandita" ed è l'inchiesta della polizia di Stato di Catania, su delega della locale Procura Distrettuale della Repubblica, per far luce sui concorsi che hanno riguardato le carriere universitarie. Un'inchiesta che si estende in tutta Italia. Intanto, nove professori dell’università etnea con posizione apicale e il rettore Francesco Basile sono stati sospesi con un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici emesso dal gip. I reati ipotizzati dall'ufficio inquirente presieduto dal procuratore Carmelo Zuccaro sono quelli di associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Tra i nove professori indagati ci sono l’ex rettore Giacomo Pignataro, Giuseppe Sessa (Medicina), Filippo Drago (Medicina), Carmelo Monaco (Agraria), Giancarlo Magnano di San Lio (Filosofia), Giuseppe Barone (Scienze Politiche), Michela Maria Bernadetta Cavallaro (Economia), Giovanni Gallo (Matematica) e Roberto Pennisi (Giurisprudenza). A tutti gli indagati - giunti stamattina in questura per la notifica del provvedimento - sono state fatte perquisizioni a casa, sequestrati i loro cellulari. L’inchiesta è coordinata dal procuratore Carmelo Zuccaro e affidata ai sostituti Bisogni, Vinciguerra e Di Stefano.
Le denunce dell'ex direttore amministrativo all'origine del caso. L'inchiesta '"Università bandita" è stata avviata nel luglio del 2015 e si è conclusa nel mese di marzo del 2018, ed è nata dalle denunce tra l'ex rettore Giacomo Pignataro e Lucio Maggio, ex direttore amministrativo generale dell'Ateneo. Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali è emersa l'esistenza di un'associazione a delinquere con a capo il rettore dell'Università Francesco Basile. Nel corso della conferenza stampa è stato rivelato un particolare che ha riguardato proprio il passaggio di consegne tra i due rettore e la bonifica da eventuali cimici nella stanza del "Magnifico" da parte del neoeletto Basile. La corruttela, secondo gli inquirenti, sarebbe avvenuta per il conferimento degli assegni, delle borse di studio e dei dottorati di ricerca, ma anche per l'assunzione di personale tecnico-amministrativo, per la composizione degli organi statutari dell'Ateneo (consiglio di amministrazione, nucleo di valutazione, collegio di disciplina) e per l'assunzione e la progressione in carriera dei docenti universitari. Il "sistema delinquenziale" secondo gli investigatori della polizia di stato, non è ristretto alla sola università di Catania, ma si estende ad altri atenei i cui docenti sono stati selezionati per fare parte delle commissioni esaminatrici: in particolare è emerso che questi ultimi si sarebbero sempre "preoccupati di non interferire sula scelta del futuro vincitore compiuta preventivamente favorendo il candidato interno che risultava prevalere anche nei Casi in cui non fosse meritevole".
Il codice "sommerso". Dalle indagini è emerso un vero e proprio codice di comportamento “sommerso” che veniva applicato nell'ambito universitario secondo il quale gli esiti dei concorsi dovevano essere predeterminati dai docenti interessati e nessuno spazio doveva essere lasciata selezioni meritocratiche e soprattutto neo doveva essere presentato alcun ricorso amministrativo contro le decisioni degli organi statutari.
"Macchia pesante". "C'è un sistema di nefandezza che purtroppo macchia in maniera pesante l'Università di Catania": è il quadro sconfortante tratteggiato dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro in conferenza stampa. "E’ un mondo desolante quello che emerge da questa inchiesta. Quando l’espressione della cultura Accademica che dovrebbe essere assolutamente non soggetta al potere si sottomette al potere... Il merito purtroppo non è il metodo di selezione dei candidati, ma una scelta che dall’alto viene calata. È il sistema corruttivo è quello per cui oggi un candidato accede a quel posto, non per merito, ma perché qualcuno lo ha già deciso. Se nel mondo accademico catanese queste cose avvengono sistematicamente, come siamo riusciti a provare, veramente il quadro è desolante. Bisogna fare i conti con quello che è emerso e poi voltare pagina". L’operazione della Digos ha accertato l’esistenza di 27 concorsi truccati in giro per gli atenei italiani: 17 per professore ordinario, 4 per professore associato, 6 per ricercatore. Sono in corso 41 perquisizioni anche nei confronti di ulteriori indagati. Nel procedimento sono complessivamente indagati 40 professori delle Università di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona.
Quaranta docenti indagati in tutta Italia per concorsi universitari truccati. Coinvolti professori delle Università di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona. Giuseppe Marinaro il 28 giugno 2019 su Agi. Sono 40 i professori indagati - delle Università di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona - nell'operazione della Digos di Catania denominata Università Bandita. L'inchiesta - nell'ambito della quale 9 professori dell'università di Catania con posizione apicale, e il rettore Francesco Basile, sono stati sospesi con procedimento di interdizione dai pubblici uffici - ipotizza i reati di associazione a delinquere, corruzione, turbativa d'asta ed altro. Sarebbe stata accertata l'esistenza di 27 concorsi truccati: 17 per professore ordinario, 4 per professore associato, 6 per ricercatore. Scattate decine di perquisizioni. Ulteriori particolari nella conferenza stampa convocata alle ore 10 alle procura di Catania. Un codice sommerso e un sistema sanzionatorio, in grado di pilotare concorsi e bandi. Una "associazione a delinquere", "con a capo il rettore dell'università di Catania ed il suo predecessore", rispettivamente Francesco Basile e Giacomo Pignataro, "finalizzata a commettere un numero indeterminato di reati". E che coinvolgeva docenti di 14 atenei italiani. Dieci professori sospesi a Catania, fra cui un rettore e un ex rettore, quaranta complessivamente gli indagati e decine le perquisizioni. La procura etnea ha disposto per nove professori dell'università cittadina con posizione apicale, e per il rettore Francesco Basile, la sospensione con procedimento di interdizione dai pubblici uffici, tutti ritenuti responsabili di associazione a delinquere nonché, a vario titolo, di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, corruzione per l'esercizio della funzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, falsità ideologica e materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, abuso d'ufficio e truffa aggravata. Un'associazione a delinquere, volta "ad alterare il naturale esito dei bandi di concorso" per il conferimento degli assegni, delle borse e dei dottorati di ricerca; per l'assunzione del personale tecnico-amministrativo; per la composizione degli organi statutari dell'Ateneo (Consiglio d'amministrazione, Nucleo di Valutazione, Collegio di Disciplina); per l'assunzione e la progressione in carriera dei docenti universitari. Su questo ultimo aspetto, spiegano gli inquirenti, il "sistema delinquenziale" non è ristretto all'università' etnea ma si estende ad altri atenei italiani, i cui docenti, nel momento in cui sono stati selezionati per fare parte delle commissioni esaminatrici, si sarebbero sempre preoccupati di "non interferire" sulla scelta del futuro vincitore "compiuta preventivamente favorendo il candidato interno che risultava prevalere anche nei casi in cui non fosse meritevole". Le regole del codice hanno un preciso apparato sanzionatorio e le violazioni sono punite con ritardi nella progressione in carriera o esclusioni da ogni valutazione oggettiva del proprio curriculum scientifico. Il gip parla di "estrema pericolosità'" e "piena consapevolezza" delle "gravi illiceità" commesse dal gruppo spinto "da finalità diverse dalla buona amministrazione e volto, al contrario, alla tutela degli interessi di pochi privilegiati che condividono le condotte criminali dell'associazione a delinquere". Emergono inoltre dalle raccomandazioni dei sodali di "non parlare telefonicamente" o dalla volontà palesata di effettuare delle preventive "bonifiche" degli uffici pubblici per ridurre il rischio di indagini e accertamenti nei loro confronti. Il provvedimento interdittivo è stato emesso sulla base della attività di indagine condotta dal giugno 2016 al marzo 2018 e interessa, oltre al rettore Basile e al predecessore Pignataro, i professori Giuseppe Sessa (Medicina), Filippo Drago (Medicina), Carmelo Monaco (Agraria), Giancarlo Magnano di San Lio (Filosofia), Giuseppe 'Uccio' Barone (Scienze politiche), Michela Maria Bernadetta Cavallaro (Economia), Giovanni Gallo (Matematica), e Roberto Pennisi (Giurisprudenza).
Catania, concorsi truccati all’università: sospesi rettore e 9 docenti. Indagati 40 prof in tutta Italia. L'inchiesta riguarda in particolare l’assegnazione di 17 posti per professore ordinario, quattro per professore associato e sei per ricercatore. Le accuse sono di associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Il Fatto Quotidiano il 28 Giugno 2019. Associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Sono queste le accuse nei confronti del rettore di Catania, Francesco Basile, e di altri nove professori, che sono stati sospesi dal servizio dal Gip. Al centro delle indagini su Università bandita della Digos coordinate dalla Procura etnea 27 concorsi che secondo l’accusa sono stati truccati. Sono complessivamente 40 i professori indagati degli atenei di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona. L’ordinanza applicativa della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio emessa dal Gip di Catania, su richiesta della locale Procura distrettuale, è stata eseguita da personale della polizia di Stato. I nove docenti destinatari del provvedimento sono professori con posizioni apicali all’interno dei Dipartimenti dell’università di Catania. Un vero e proprio “codice di comportamento sommerso” operante in ambito universitario secondo il quale gli esiti dei concorsi devono essere predeterminati dai docenti interessati. È quanto emerge dall’operazione ‘Università bandita’ della Polizia di Stato di Catania, secondo quanto ha raccontato in conferenza stampa il procuratore Carmelo Zuccaro. Le indagini hanno accertato come nessuno spazio doveva essere lasciato a selezioni meritocratiche e nessun ricorso amministrativo poteva essere presentato contro le decisioni degli organi statutari. Secondo quanto accertato, inoltre, le regole del codice avevano un un preciso apparato sanzionatorio e le violazioni erano punite con ritardi nella progressione in carriera o esclusioni da ogni valutazione oggettiva del proprio curriculum scientifico. La polizia di Stato sta eseguendo 41 perquisizioni nei confronti dei 40 professori indagati. L’inchiesta riguarda in particolare l’assegnazione di 17 posti per professore ordinario, quattro per professore associato e sei per ricercatore. L’ordinanza applicativa della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio emessa dal Gip di Catania, su richiesta della locale Procura distrettuale, è stata eseguita da personale della polizia di Stato. I nove docenti destinatari del provvedimento sono professori con posizioni apicali all’interno dei Dipartimenti dell’università di Catania. L’inchiesta della Digos di Catania è la terza che coinvolge l’Ateneo fiorentino, dopo le due avviate dalla procura del capoluogo toscano. La prima in ordine di tempo è quella sui presunti concorsi truccati relativi alle abilitazioni nella disciplina di diritto tributario, che nel 2017 portò a sette arresti e all’interdizione dalle università per 22 docenti. Poi c’è quella più recente che ha sconvolto la facoltà di Medicina di Firenze e che ipotizza presunte turbative nella programmazione dei concorsi per prof e ricercatori. L’udienza preliminare è prevista per i primi di settembre. Le accuse contestate, a vario titolo, sono quelle di induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione, turbata libertà del procedimento di scelta, abuso d’ufficio, frode in pubbliche forniture e truffa. Tra i nomi più in vista anche quello dell’ex ministro Augusto Fantozzi, che venne interdetto dalla docenza universitaria per nove mesi, provvedimento poi revocato dal tribunale del riesame su ricorso del suo difensore, avvocato Nino D’Avirro. Ancora aperta invece l’inchiesta sulla facoltà di medicina, coordinata dal pm Tommaso Coletta. Le indagini, partite nel 2017, avrebbero messo in evidenza, irregolarità nella programmazione dei concorsi e in una procedura concorsuale per l’individuazione di un professore associato.
Concorsi truccati, sospesi l’attuale rettore di Catania Basile e il suo predecessore Pignataro. Quotidiano della Sicilia venerdì 28 Giugno 2019. Quaranta professori di quattordici atenei indagati per associazione per delinquere, corruzione e turbativa d'asta. Indagini della Digos per l'assegnazione di diciassette posti da ordinario, quattro da associato e sei da ricercatore. Il procuratore Zuccaro, "Sistema di nefandezze". Il clientelismo "Disonore per il mondo della Cultura". Il rettore di Catania, Francesco Basile e altri nove professori etnei tra i quali il suo predecessore Giacomo Pignataro, sono stati sospesi dal servizio dal Gip dopo essere stati indagati per associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Al centro delle indagini dell’operazione denominata “Università bandita” della Digos coordinate dalla Procura della Repubblica di Catania sono 27 concorsi.
Quaranta docenti indagati. Sono complessivamente quaranta i professori indagati degli atenei di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona.
L’ordinanza applicativa della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio emessa dal Gip di Catania, su richiesta della Procura distrettuale, è stata eseguita da personale della polizia di Stato.
Basile – 61 anni, dal 1992 ordinario di Chirurgia generale nella Scuola di Medicina e oggi direttore dell’unità di Clinica chirurgica dell’ospedale Vittorio Emanuele di Catania – venne eletto nel febbraio del 2017 al posto di Giacomo Pignataro. Nel 2016 è stato eletto presidente della società Italiana di Chirurgia Day Surgery.
I nove docenti destinatari del provvedimento sono professori con posizioni apicali all’interno dei Dipartimenti dell’università di Catania. La polizia di Stato sta eseguendo perquisizioni nei confronti dei professori indagati. L’inchiesta “Università Bandita”, è scaturita da indagini avviate dalla Digos della Questura di Catania su concorsi che per l’accusa sono stati “truccati”. E in particolare riguardano l’assegnazione di diciassette posti per professore ordinario, quattro per professore associato e sei per ricercatore.
La conferenza stampa. Un vero e proprio “codice di comportamento sommerso” operante in ambito universitario secondo il quale gli esiti dei concorsi devono essere predeterminati dai docenti interessati. E’ quanto emerge dall’operazione ‘Università bandita’ della Polizia di Stato di Catania sfociata stamane nella sospensione dal servizio da parte del Gip del rettore Francesco Basile e altri nove professori, indagati per associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta. L’operazione è stata illustrata durante una conferenza stampa alla quale ha preso parte il procuratore della Repubblica Carmelo Zuccaro. Le indagini hanno accertato come nessuno spazio doveva essere lasciato a selezioni meritocratiche e nessun ricorso amministrativo poteva essere presentato contro le decisioni degli organi statutari. Secondo quanto accertato, inoltre, le regole del codice avevano un preciso apparato sanzionatorio e le violazioni erano punite con ritardi nella progressione in carriera o esclusioni da ogni valutazione oggettiva del proprio curriculum scientifico.
I nomi dei professori sospesi. Come detto c’è anche l’ex rettore dell’Università di Catania Giacomo Pignataro tra gli indagati e anche per lui è stata disposta la sospensione dal servizio. Gli altri docenti sono il prorettore Giancarlo Magnano di San Lio; l’ex direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Giuseppe Barone; il direttore del Dipartimento di Economia e Impresa Michela Maria Bernadetta Cavallaro; il direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologiche Filippo Drago; il direttore del Dipartimento di Matematica e Informatica Giovanni Gallo; il direttore del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali Carmelo Giovanni Monaco; il direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Roberto Pennisi; il presidente del coordinamento della Facoltà di Medicina Giuseppe Sessa.
Zuccaro, “Sistema di nefandezze”. “L’indagine – ha detto Zuccaro – ha consentito di svelare un sistema di nefandezze che purtroppo macchia in maniera veramente pesante il nostro Ateneo perché coinvolge tutti i personaggi di maggiore responsabilità al suo interno”. “Abbiamo accertato che questo sistema, che vedeva al vertice il precedente rettore e il rettore attuale – ha aggiunto – ha inquinato il sistema di votazione all’interno dell’Ateneo per la nomina del rettore e per la nomina degli organi più importanti. A cascata questo sistema si é perpetuato per condizionare numerosi concorsi di tutti i dipartimenti”.
Il sistema “baronale”. Quello descritto dal Procuratore è un sistema che un tempo sarebbe stato definito “baronale”. “Un sistema – ha affermato Zuccaro – che non esito a definire squallido perché le persone che vengono proposte non sono le più meritevoli per aggiudicarsi il titolo. Quando qualcuno ha il coraggio di proporsi come candidato per questo posto nonostante il capo del dipartimento abbia deciso che non sia venuto il suo momento, queste persone vengono fatte oggetto di critiche pesanti, addirittura di ritorsioni da parte del capo del dipartimento”. “Si è usata la parola, da parte di qualcuno, non da parte mia – ha aggiunto -, di metodi paramafiosi. Parto dal principio che se tutto è mafia, nulla è mafia. Io uso la parola mafia per sistemi effettivamente mafiosi. Però questi sono sistemi criminali e anche i sistemi criminali organizzati non mafiosi posso produrre effetti devastanti”.
Disonore al mondo della Cultura. “I fatti – ha concluso – sono estremamente gravi e certamente non fanno onore a persone che dovrebbero appartenere al mondo della cultura: cultura che non può soffrire l’adozione di sistemi clientelari e non basati sul merito per potersi perpetuare. Una cultura che si basa su questi sistemi è una cultura destinata a rimanere sterile e a perseguire più esigenze clientelari che non esigenze di progresso e di sviluppo della nostra società”.
Terremoto all'Ateneo, 40 indagati. Antonio Condorelli su Live Sicilia 28 giugno 2019. Ventisette concorsi truccati, diciassette per professore ordinario, sei per ricercatore e i vertici dell'Università sono stati decapitati dalla magistratura. Arriva come un ciclone l'ultima operazione della Procura di Catania sull'Ateneo, eseguita dalla Digos, gli indagati sono quaranta e spiccano i nomi eccellenti, a partire dall'attuale Rettore, Francesco Basile e dal suo predecessore, Giacomo PIgnataro. I NOMI - Oltre ai due Rettori, il Gip di Catania ha sospeso Giancarlo Magnano San Lio, prorettore dell'Università, Giuseppe Barone, ex direttore del dipartimento di Scienza Politiche, Michela Cavallaro, direttore del dipartimento di Economia, Filippo Drago, direttore del dipartimento di scienze biomediche, Giovanni Gallo, direttore del dipartimento di matematica, Carmelo Monaco, direttore del dipartimento di Scienze biologiche, Roberto Pennisi, direttore del dipartimento di Giurisprudenza e Giuseppe Sessa, presidente del coordinamento della Facoltà di Medicina dell'università di Catania. La Procura aveva richiesto per loro gli arresti domiciliari.
L'INDAGINE - L'inchiesta nasce dalle denuncie incrociate presentate dall'ex Rettore Giacomo Pignataro e da Lucio Maggio, direttore amministrativo. La Digos inizia a eseguire le intercettazioni e viene fuori un sistema di preconfezionamento dei concorsi universitari. Il 2 febbraio del 2016, dopo l'elezione di Basile, la prima domanda che ha posto al suo predecessore è stata emblematica: "La stanza l'hanno bonificata?". Il passaggio di consegne avviene mentre le cimici della Digos registrano. La Digos ha accertato che "il futuro vincitore dei concorsi veniva deciso a tavolino e i concorsi venivano costruiti ad hoc per chi dovesse vincere, stabilendo chi dovessero essere i commissari, i membri esterni, nei casi più gravi era il candidato stesso a elaborare i criteri del concorso".
"IL CAPO" - Francesco Basile è ritenuto il "capo" dell'associazione a delinquere finita nel mirino della Procura. Il Cda è stato eletto grazie a dei "pizzini", consegnati anche ai rappresentanti degli studenti "che - sottolinea la Digos - non si sono sottratti a questa logica". Tra gli indagati, Giuseppe Barone, è accusato anche per il concorso predisposto in favore del proprio figlio dai vertici dell'Università.
IL TRUCCO - Tutto sarebbe stato stabilito "a tavolino", anche il numero delle pubblicazioni che dovevano essere presentate. Il condizionamento da parte dei vertici universitari riguarderebbe anche il conferimento degli assegni, l'assunzione di personale tecnico amministrativo, la composizione degli organi statutari dell'Ateneo, l'assunzione e la carriera dei docenti universitari.
IL CODICE - Metodologie "paramafiose", e un codice basato sul "ricatto" e l'assenza del merito. I concorsi erano stati già prestabiliti per alimentare un sistema fatto da "figli dei figli", spiega la Procura di Catania, nel quale "si prescinde totalmente dalla meritocrazia". "Chi non accettava di dare qualcosa in cambio - continuano i magistrati - era escluso in partenza. La culla della cultura adottava gli stessi metodi delle associazioni mafiose. La cultura della forza e del ricatto".
L'INTERCETTAZIONE - "Dobbiamo soggiacere al potere". Tra gli indagati ci sono anche i beneficiari dei "concorsi", alcuni di questi pretendevano - spiega il Pm Santo Distefano - di vincere il concorso e si dolevano della presenza di altri candidati che non sottostavano alle regole e spingevano affinché il concorso fosse dedicato solo a loro, che stavano dentro il sistema. Gli stessi beneficiari del sistema sollecitavano il Rettore ad avere condotte ritorsive nei confronti degli altri candidati che continuavano a insistere per partecipare al concorso". È un sistema, "non c'è il pagamento di una mazzetta", spiega il procuratore Carmelo Zuccaro, "essere professore o meno cambia completamente i parametri economici".
ALTRI ATENEI - Nel sistema di gestione dei concorsi truccati sono coinvolti professori di altre Università italiane. I professori coinvolti farebbero parte di un sistema di scambio di favori.
Concorsi truccati all'Università, sospesi il rettore di Catania e 9 professori. Tra gli indagati anche l'ex procuratore D'Agata. La intercettazioni tra il rettore e il direttore amministrativo all'origine del caso, che ha portato a indagare 60 docenti di 14 università e altre sei persone. Natale Bruno il 28 giugno 2019 su La Repubblica. L’hanno denominata "Università bandita" ed è l'inchiesta della polizia di Stato di Catania, su delega della locale Procura Distrettuale della Repubblica, per far luce sui concorsi che hanno riguardato le carriere universitarie. Un'inchiesta che si estende in tutta Italia. Intanto, nove professori dell’università etnea con posizione apicale e il rettore Francesco Basile sono stati sospesi con un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici emesso dal gip. I reati ipotizzati dall'ufficio inquirente presieduto dal procuratore Carmelo Zuccaro sono quelli di associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Tra i nove professori indagati ci sono l’ex rettore Giacomo Pignataro, Giuseppe Sessa (Medicina), Filippo Drago (Medicina), Carmelo Monaco (Agraria), Giancarlo Magnano di San Lio (Filosofia), Giuseppe Barone (Scienze Politiche), Michela Maria Bernadetta Cavallaro (Economia), Giovanni Gallo (Matematica) e Roberto Pennisi (Giurisprudenza). A tutti gli indagati - giunti stamattina in questura per la notifica del provvedimento - sono state fatte perquisizioni a casa, sequestrati i loro cellulari. L’inchiesta è coordinata dal procuratore Carmelo Zuccaro e affidata ai sostituti Bisogni, Vinciguerra e Di Stefano.
L'inchiesta '"Università bandita" è stata avviata nel luglio del 2015 e si è conclusa nel mese di marzo del 2018, ed è nata dalle denunce tra l'ex rettore Giacomo Pignataro e Lucio Maggio, ex direttore amministrativo generale dell'Ateneo. Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali è emersa l'esistenza di un'associazione a delinquere con a capo il rettore dell'Università Francesco Basile. Nel corso della conferenza stampa è stato rivelato un particolare che ha riguardato proprio il passaggio di consegne tra i due rettore e la bonifica da eventuali cimici nella stanza del "Magnifico" da parte del neoeletto Basile. La corruttela, secondo gli inquirenti, sarebbe avvenuta per il conferimento degli assegni, delle borse di studio e dei dottorati di ricerca, ma anche per l'assunzione di personale tecnico-amministrativo, per la composizione degli organi statutari dell'Ateneo (consiglio di amministrazione, nucleo di valutazione, collegio di disciplina) e per l'assunzione e la progressione in carriera dei docenti universitari. Il "sistema delinquenziale" secondo gli investigatori della polizia di stato, non è ristretto alla sola università di Catania, ma si estende ad altri atenei i cui docenti sono stati selezionati per fare parte delle commissioni esaminatrici: in particolare è emerso che questi ultimi si sarebbero sempre "preoccupati di non interferire sula scelta del futuro vincitore compiuta preventivamente favorendo il candidato interno che risultava prevalere anche nei Casi in cui non fosse meritevole".
Il codice "sommerso". Dalle indagini è emerso un vero e proprio codice di comportamento 'sommerso' che veniva applicato nell'ambito universitario secondo il quale gli esiti dei concorsi dovevano essere predeterminati dai docenti interessati e nessuno spazio doveva essere lasciata selezioni meritocratiche e soprattutto neo doveva essere presentato alcun ricorso amministrativo contro le decisioni degli organi statutari.
"Macchia pesante". "C'è un sistema di nefandezza che purtroppo macchia in maniera pesante l'Università di Catania": è il quadro sconfortante tratteggiato dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro in conferenza stampa. "E’ un mondo desolante quello che emerge da questa inchiesta. Quando l’espressione della cultura Accademica che dovrebbe essere assolutamente non soggetta al potere si sottomette al potere... Il merito purtroppo non è il metodo di selezione dei candidati, ma una scelta che dall’alto viene calata. È il sistema corruttivo è quello per cui oggi un candidato accede a quel posto, non per merito, ma perché qualcuno lo ha già deciso. Se nel mondo accademico catanese queste cose avvengono sistematicamente, come siamo riusciti a provare, veramente il quadro è desolante. Bisogna fare i conti con quello che è emerso e poi voltare pagina".
Concorsi truccati nelle università: i nomi di tutti gli indagati. Natale Bruno su La Repubblica il 28 Giugno 2019. Nell’operazione della Digos sono state effettuate 41 perquisizioni. L'inchiesta ha accertato l’esistenza di 27 concorsi truccati in giro per gli atenei italiani: 17 per professore ordinario, 4 per professore associato, 6 per ricercatore. Ma si indaga su altre 97 procedure concorsuali. Gli indagati sono complessivamente 66: 40 professori dell'università di Catania e 20 degli atenei di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona, più altre sei persone collegate a vario titolo all'università del capoluogo etneo. E tra i nomi eccellenti c’è pure quello dell’ex procuratore di Catania Enzo D’Agata finito nel registro degli indagati assieme alla figlia Velia che avrebbe, secondo l’accusa, ottenuto una via preferenziale per una cattedra di professore associato. Ecco i nomi dei 62 indagati dell’inchiesta ‘Università bandita’ordinata dalla procura di Catania: Salvatore Cesare Amato (Unict), Massimo Antonelli (UniRoma), Marinella Astuto (Unict), Pietro Baglioni (UniFirenze), Laura Ballerini (Sissa Trieste), Antonio Barone (Unict), Giuseppe Barone (Unict), Francesco Basile (rettore Unict), Alberto Bianchi (Unict), Antonio Giuseppe Biondi (Unict), Paolo Cavallari (UniMilano), Michela Maria Bernadette Cavallaro (UniCt), Giovanna Cigliano (UniNapoli), Umberto Cillo (UniPd), Giorgio Conti (La Cattolica Roma), Agostino Cortesi (UniVe), Velia Maria D’Agata (Unict), Enzo D’Agata, Stefano De Francisci (UniCz), Francesco Saverio De Ponte (UniMessina), Santo Di Nuovo (Unict), Francesco Di Raimondo (Unict), marcello Angelo Alfredo Donati (Unict), Filippo Drago (Unict), Alessia Facineroso (Unict), Santi Fedele (UniMessina), Enrico Foti (Unict), Giovanni Gallo (Unict), Anna Garozzo (Unict), Eugenio Gaudio (UniRoma La Sapienza), Maria Giordano (Unict), Sebastiano Angelo Granata (Unict), Salvatore Giovanni Gruttadauria (Unict), Calogero Guccio (Unict), Alfredo Guglielmi (UniVr), Giuseppina La Vecchia (UniChieti-Pescara), Giampiero Leanza (Unict), Massimo Libra (Unict), Giancarlo Magnano di San Lio (Prorettore Unict), Luigi Vincenzo Mancini (UniRoma La Sapienza), Claudio Marchetti (UniBologna), Massimo Mattei (UniRomaTre), Paolo Mazzoleni (Unict), carmelo Giovanni Monaco (Unict), Maura Monduzzi (UniCagliari), Marco Montorsi (Rettore Humanitas Rozzano), Giuseppe Mulone (Unict), Paolo Navalesi (UniCz), Matteo Giovanni Negro (Unict), Ferdinando Nicoletti (Unict), Karl Jurgen Oldhafer (Barmbek Asklepios Hospital Amburgo), Giuseppe Pappalardo (Unict), Pietro Pavone (Unict), Roberto Pennisi (Unict), Vincenzo Perciavalle (Unict), Giacomo Pignataro (Già rettore Unict), Giovanni Puglisi (Unict), Stefano Giovanni Puleo (Unict), Maria Alessandra Ragusa (Unict), Antonino Recca (già rettore Unict), Romilda Rizzo (Unict), Salvatore Saccone (Unict), Giovanna Schillaci (Unict), Giuseppe Sessa (Unict), Luca Vanella (Unict) e Giuseppe Vecchio (Unict).
VOLETE FARE CARRIERA UNIVERSITARIA? DOVETE PAGARE! Lorena Loiacono per “il Messaggero” il 28 aprile 2019. Sono stati spesi quasi 2,5 milioni di euro per vedere pubblicate ricerche scientifiche che probabilmente, senza spendere un euro, non sarebbero andate da nessuna parte. Pubblicazioni praticamente fasulle, comprate, utili solo ad arricchire curriculum, indispensabili però per far carriera. Così migliaia di ricercatori universitari hanno tentato la scalata alla carriera accademica. Alcuni hanno cercato la scorciatoia, altri ci sono letteralmente cascati, pensando di pagare per una valutazione in piena regola. Accade in Italia, dove per accedere ai concorsi necessari alla carriera di professore ordinario bisogna aver acquisito l' Asn, l' Abilitazione scientifica nazionale. E per averla è necessario presentare nel proprio curriculum le pubblicazioni ottenute durante gli studi e la preparazione. Se le pubblicazioni non ci sono, l' abilitazione non arriva. C' è chi le ottiene con il proprio studio vantando ricerche di interesse notevole, chi si affida a gruppi di ricerca trainati da docenti dal nome importante e chi invece apre il portafogli per vedere il proprio nome pubblicato su pseudo riviste scientifiche, meglio note come riviste predatorie, che pubblicano tutto quel che arriva. Dietro compenso, ovviamente, e senza attivare i dovuti controlli: il peer review che un editore scientifico dovrebbe garantire. Ad aprire questo vaso di Pandora, che ora scuote il mondo accademico, è uno studio portato avanti da Mauro Sylos Labini, un ricercatore del dipartimento di Scienze politiche dell' Università di Pisa, da Manuel Bagues dell' Università di Warwick in Inghilterra e da Natalia Zinovyeva dell' Università di Aalto in Finlandia. I tre ricercatori hanno passato al setaccio i curriculum di 46mila tra ricercatori e professori che comparivano nelle candidature della prima edizione dell' Abilitazione Scientifica Nazionale dell' anno 2012-13. Che cosa emerge dalla ricerca? Circa il 5% dei partecipanti all' abilitazione scientifica nazionale ha utilizzato le riviste predatorie almeno una volta. Vale a dire oltre 2000 ricercatori universitari. «Una stima conservativa basata sulla nostra indagine - spiega Mauro Sylos Labini - suggerisce che per pubblicare circa seimila articoli, i ricercatori del campione hanno speso più di due milioni e mezzo di dollari. Con una media di 440 dollari ad articolo, circa 400 euro. Parte di questa cifra esce direttamente dalle tasche dei ricercatori, ma un' altra parte proviene dai loro fondi di ricerca pubblici, e si tratta comunque di una stima che non tiene conto delle spese per la partecipazione a conferenze predatorie, spesso associate a queste pubblicazioni. Un pacchetto completo, quindi, composto da pubblicazioni e convegni. Finalizzato a veder innalzare il punteggio utile per ottenere la certificazione necessaria a far carriera nell' Università. Tra i 2mila docenti ci sono anche i ricercatori che non sapevano di incappare in una scorciatoia poco professionale. I settori scientifici maggiormente interessati da questo escamotage sono Economia aziendale, Organizzazione e Finanza aziendale. Sono questi infatti i campi in cui sono state riscontrate maggiormente le pubblicazioni a pagamento. Ma, tenendo presente il tariffario delle riviste predatorie, lo spreco di risorse sembra essere maggiore per le pubblicazioni nel campo della Medicina dove una pubblicazione può arrivare a costare anche 2.500 dollari, circa 2200 euro. Più pubblicazioni si hanno, maggiore è la possibilità di veder aumentare il proprio hindex, il punteggio con cui si giudica l' attività di un ricercatore. Il fenomeno delle pubblicazioni a pagamento è ben noto all' estero tanto che esistono vere e proprie liste nere con i nomi delle riviste. Una delle più famose è quella messa a punto da un bibliotecario dell' Università del Colorado, Jeffrey Beall. Un esempio celebre è la pubblicazione della trama della puntata di Star Trek Vojager: un ricercatore dal nome fittizio Zimmerman, volendo svelare l' inganno, riuscì a farsi pubblicare la ricerca, passandola per buona, dall' American Research Journal of Biosciences che gli chiese 749 euro. Alla fine ne bastarono 50.
NON FATEVI PRENDERE PER IL CURRICULUM! DAGOREPORT il 29 aprile 2019. Come ha scritto Lorena Loiacono per il “Messaggero” (ripreso da Dagospia) “Sono stati spesi quasi 2,5 milioni di euro per vedere pubblicate ricerche scientifiche che probabilmente, senza spendere un euro, non sarebbero andate da nessuna parte. Pubblicazioni praticamente fasulle, comprate, utili solo ad arricchire curriculum, indispensabili però per far carriera”. “Per entrare in università bisogna pagare”. Ma anche se non si paga con moneta sonante i meccanismi che creano un curriculum ad hoc per far sì che venga poi bandito un “concorso profilato” per il candidato CHE SI VUOL FAR VINCERE passano attraverso logiche economiche (lavoro gratis e simili) o di controllo baronale (metodi di appartenenza e filiazione). “Concorsi profilati” vuol dire che nel bando si cerca un candidato con tali e tali caratteristiche che corrispondono a un solo essere vivente: quello che la “comunità scientifica”, il barone, ha deciso di far vincere perché ha ormai fornito i servizi richiesti (svolto esami al posto del docente, seguito tesine, impaginato riviste, fatto da segreteria tuttofare e altri, meno nobili, lavori, come fare la spesa…). Come fare? Molto semplice: se devo mettere in cattedra un ornitologo e il mio candidato ha studiato la cinciallegra e conosce, che so, il tedesco, il bando richiederà a un certo punto “… particolarmente gradita la conoscenza di uccelli come la cinciallegra... Si richiede la conoscenza del tedesco”. Quindi se un ha studiato il pettirosso, l’aquila reale e il gufo, sa inglese e francese e magari si è specializzato in veterinaria perde. Ora è nato un “Osservatorio” (vedi sotto) che denuncia tutto questo e sta mettendo a disposizione molte informazioni. Per prima cosa, qui un vademecum di come ti metto in cattedra, in quattro-cinque anni, il figlio di…, l’amante, l’amico, il mio tuttofare facendolo diventare il partecipante vincente di un concorso “profilato” bandito per lui. Molto semplice. Tengo per un annetto o due presso di me, docente, il giovane prescelto (figlio di un collega, amante, un ricco di famiglia che non ha bisogno di lavorare…) come semplice “Cultore della materia” con qualche rimborso dall’ateneo. Poi gli/le faccio vincere uno dei posti a disposizione per un Dottorato di ricerca, così per tre anni è pagato e se ne sta in università a fare il segretario tuttofare. Poi gli/le faccio vincere una delle numerose borse di studio all’estero dove, di solito, il borsista va assai poco ma scrive una tesina, in lingua straniera, a fine esperienza. Intanto gli/le ho fatto pubblicare articoli pseudo “scientifici” sulla rivista di Classe A che io docente dirigo e nessuno legge, l’ho fatto intervenire a convegni organizzati da me dove sono presenti solo i convegnisti e, infine, dall’editore universitario è arrivato il mio turno per scegliere un libro da pubblicare e scelgo quello del mio protetto. Questo, e non altro, è quanto sciaguratamente i concorsi universitari (criteri stabiliti da Anvur e Mibac) valutano. A questo punto siamo pronti: basta un “bando profilato” ed è in cattedra. E’ una competizione scorretta dall’inizio e che non si può poi raddrizzare. Né il rottamatore Renzi né gli homines novi dei Cinque Stelle e della Lega stanno mettendoci mano. Vediamo alcuni esempi per capire meglio e, in specifico, due “denunce” dell’”Osservatorio concorsi”.
RIVISTE DI CLASSE A, B… O A VANVERA? E CHI LE LEGGE? NESSUNO. L’Anvur, è l’organo di valutazione delle riviste “scientifiche”: ce ne sono migliaia, che nessuno legge, nemmeno chi le scrive. Scrivere su una rivista di classe A conferisce punteggio per il concorso universitario; per una di classe B meno, per le altre nulla. Ovviamente ciascun barone ha piazzato la rivista che dirige (o per la quale collabora) in classe A; ma l’Anvur a finito per metterci persino riviste assurde e il loro contrario: si va dagli “Acta Archaeologica Academiae Scientiarum Hungaricae” ad “Abitare”; da riviste che manco escono alla rivista principe sull’arredo. Delle due l’una: o ha senso riviste che non leggono nemmeno gli specialisti oppure hanno senso quelle che hanno presa anche sul mercato. Nelle riviste delle scienze naturali e mediche gli articoli sono, in genere, firmati da molti autori. Come dire: più siamo più la ricerca fa impressione. Ma non bisogna lasciarsi ingannare: in genere contano il primo e l’ultimo firmatario: gli altri sono messi in mezzo per far… titoli per il concorso dove saranno piazzati.
SOCIETA’ SCIENTIFICHE O CONCORSUALI? Le società scientifiche, costituite o controllate tutte da docenti universitari, dovrebbero svolgere attività scientifica in aggiunta a quella universitaria. Ma spesso servono solo per piazzare gli aderenti nei concorsi. Di una società di Filosofia (la Sie, Società di Estetica) circola un filmato su internet dove l’ex presidente, lo scomparso professore Luigi Russo, si lascia sfuggire il vero senso dei convegni organizzati dalla “Società scientifica” della quale era vicepresidente l’attuale rettore dell’Università degli Studi di Milano, Elio Franzini: “(il nostro ndr) è un convegno, che poi è uno pseudo convegno: serviva per incontrarsi per le faccende concorsuali” (dal minuto 55 al minuto 105 dell’allegato video registrato all’Università di Torino). I membri della società sono presenti in quasi tutte le commissioni concorsuali del loro raggruppamento e possono così far vincere altri loro associati. Sostanzialmente, diverse società scientifiche finiscono con il diventare organismi paralleli di controllo dei concorsi attraverso i loro membri che compongono le commissioni in favore di aderenti alla società stessa. Chi non è all’interno (e quindi non paga quota e non sottostà alle logiche di appartenenza) è improbabile che vinca un concorso anche se molto più preparato! Così è in moltissime società “scientifiche”. In Italia, s’intende! Aver svolto una professione ad alto livello non dà alcun punteggio nei concorsi. Per cui, poniamo, a un concorso in “Teoria della comunicazione televisiva” se si presenta Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, che magari ha deciso di mettere la sua esperienza al servizio dei giovani, la sua lunga esperienza nel settore vale zero. Zero. Meno di un articolo di due pagine di un sub-assistente con due note sull’allegato della rivista di classe A! Da qui uno capisce perché i professori universitari italiani ormai contino poco e il distacco dal mondo delle professioni sia abissale. E perché i figli della “élite” italiana (molti dei politici e dei direttori di giornali) studino all’estero. Sono i progetti di ricerca finanziati dal ministero. Qui vale la stessa cosa delle riviste: un docente che, tramite aderenze al ministero, riesce a far finanziare il proprio progetto di ricerca ci butta dentro gli ex studenti che vuole: ovviamente quello da mettere in cattedra.
USCITE DEI BANDI. I bandi di concorso sono ricorrenti come il bollino nero sulle autostrade: in genere escono con l’esodo di agosto e si concludo prima del rientro estivo. Cioè: se non ti dicono che sono banditi perché è il “tuo concorso”… hai voglia a scoprirli nei siti degli atenei che lo bandiscono o in quello del ministero! Sono nascosti e banditi in periodo estivo, quando l’università è ferma da mo’. E’ un sistema che funziona al contrario, insomma: se tu vuoi il più bravo dovresti dare massima visibilità al concorso; ma se tu vuoi che a vincerlo sia quello che hai già scelto ed è magari scarsino devi metterti il più possibile al riparo da sorprese: meglio che non lo scopra nessuno e non ci siano altri partecipanti.
VALUTAZIONE TITOLI. Ci sono concorsi che valutano con lo stesso punteggio (mettiamo 3 punti) monografie di 500 pagine che hanno fatto nuove scoperte e brevi scritti di nessun approfondimento scientifico su una rivista fuori classe ma ugualmente valutati dal presidente di commissione. Specie quando a presentarsi è il suo assistente o protetto. Alcuni di questi casi, recentemente, sono stati impugnati persino dalle università che hanno bandito il concorso, tanto era l’evidenza. Ma senza l’intervento della magistratura – che non interviene quasi mai – non se ne può far nulla. Tra i pochi interventi sanzionatori della magistratura quello contro la moglie dell’ex rettore della Statale, Fernanda Caizzi Decleva. L’ex rettore della Sapienza, Luigi Frati (come molti altri), fu indagato per “parentopoli”.
FAMILISMO. Secondo uno studio statistico e scientifico, condotto da Stefano Alessina, ricercatore all’Università di Chicago, il fenomeno del nepotismo è ben radicato nelle università italiane. Gli studi hanno rivelato che i settori disciplinari più esposti sono Ingegneria industriale, Legge, Medicina, Geografia e Pedagogia. E, facendo riferimento alla distribuzione geografica, il fenomeno diventa più frequente al Sud, in particolare nelle isole, anche se non sono esclusi alcune importanti università italiane. Tra i 10.783 accademici in Medicina sono stati rilevati 7.471 cognomi distinti. Le prime cinque università con il maggior numero di cognomi sarebbero: Libera Università Mediterranea «Jean Monnet», Casamassima di Bari, Sassari, Cagliari, Suor Orsola Benincasa di Napoli, Catania.
OSSERVATORIO. Come dicevamo è nato recentemente l’ “Osservatorio Indipendente dei Concorsi Universitari” che denuncia pubblicamente il maggior numero possibile di “bandi profilati”. L’art. 24, comma 2, della Legge 240/2010, prevede infatti che non si possano inserire nei bandi “competenze così specifiche da scoraggiare i potenziali candidati”. Ovviamente i dipartimenti che bandiscono concorsi fanno, indisturbati, l’esatto contrario. L’ultima denuncia-segnalazione dell’Osservatorio è avvenuta a Pasquetta con una lettera indirizzata al rettore di Padova (Rosario Rizzuto, che è anche membro del Commissione dei rettori) relativa ad un concorso “profilato” per la I fascia in Chimica generale. La lettera, come al solito, è stata inviata anche al ministro Marco Bussetti (Lega) e al Viceministro dell’Università Lorenzo Fioramonti (Cinque Stelle), che queste cose dovrebbe saperle visto che, per insegnare, ha dovuto trovarsi un’università in Sud Africa. In questo caso, il bando profilato richiede al candidato “linee di ricerca riguardanti la chimica metallorganica nei suoi aspetti fondamentali e applicativi, con particolare riferimento all'utilizzo dei metalli di transizione in sintesi e catalisi metallorganica, anche di interesse industriale”: guarda guarda giusto giusto il profilo del candidato interno all’università. Stessa cosa era avvenuta il 15 aprile quando l’Osservatorio aveva segnalato ai professori Franco Anelli, Guido Merzoni e Damiano Palano facenti parte la commissione il concorso della Cattolica (rettore il giurista Franco Anelli ) in “Filosofia politica”: in questo caso al candidato era richiesta la conoscenza dei “meccanismi di selezione delle élite, dai rapporti fiduciari ai processi di mediazione degli interessi, alle dinamiche di disintermediazione e di reintermediazione”. Scrive l’Osservatorio: “Tale profilo replica verbatim il progetto di ricerca, del tutor Prof. Damiano Palano”, e, guarda caso, il concorso è stato vinto dal candidato interno “Dott. Antonio Campati, attualmente Professore a contratto presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, il quale ha prodotto nel frattempo diversi contributi sul tema”.
CONSIGLIO DI STATO. Nelle commissioni universitarie non crede più nessuno, nemmeno il Consiglio di Stato. “Le commissioni universitarie, a parer nostro, non sono più degne di fiducia”, scrive il Consiglio di Stato nell'ultima sentenza in tema di concorsi non credibili. E si rivolge direttamente al ministero dell'Istruzione intimando di riconoscere la cattedra di Diritto del lavoro alla docente Carmela La Macchia, bocciata tre volte da tre commissioni diverse nominate per gestire l'Abilitazione scientifica nazionale nella sua disciplina: le aveva preferito, nel ruolo di professore di prima fascia, un altro candidato. E così il Consiglio di Stato, dove è finito il primo ricorso, alla fine ha scritto al Miur: siete obbligati a dare l'idoneità all'appellante. E a pagare 6.500 euro di spese legali (sentenza 1321 dello scorso 25 febbraio). I casi già “denunciati” sono molti. Homines novi o meno, l’università NON CAMBIA MAI. Forse renderla meritocratica e legata alla società non porta voti. E, dopo Renzi, anche Lega e Cinque Stelle sembra ci abbiano rinunciato.
Firenze, concorsi pilotati a Careggi: interdetti 8 docenti. Non possono partecipare a commissioni d'esame né alla programmazione dei bandi universitari, scrivono Michele Bocci e Gerrado Adinolfi il 19 marzo 2019 su La Repubblica. Otto docenti universitari di cui sei in servizio all'ospedale di Careggi di Firenze sono stati interdetti per sei mesi o un anno da parte della loro attività accademica. Il tribunale ha accolto alcune richieste della procura che ha indagato 16 persone per i concorsi pilotati all'ateneo alla facoltà di Medicina.Per altri 3 indagati la gip (giudice per le indagini preliminari) perché sono in pensione. Per un altro professore, Fabio Cianchi, invece perché non ci sono sufficienti e gravi indizi di colpevolezza. Ad essere sospesi per un anno "dalla direzione/partecipazione ad organismi istituzionali con funzioni programmatiche o deliverative" e interdetti "agli stessi dal partecipare a commissioni d'esame o valutazione di qualsiasi tipo" sono i professori Marco Santucci, Massimo Innocenti e Domenico d'Avella. Mentre sono stati interdetti dalle stesse funzioni per sei mesi i docenti Gabriella Pagavino, Nicola Pimpinelli, Gianni Virgili, Franco Servadei e Alessandro Della Puppa. Si salvano dal provvedimento in quanto già in pensione l'ex prorettore dell'ateneo Paolo Bechi e i professori Donato Nitti e Roberto Delfini. L'inchiesta del pm fiorentino Tommaso Coletta è iniziata alla fine del 2017 e si è concentrata sul programma triennale di reclutamento di professori e ricercatori universitari da parte del dipartimento di chirurgia e medicina traslazionale dell'Università (ora sciolto) e su un concorso universitario, quello per neurochirurgo. I reati contestati a vario titolo sono falso in atto pubblico, abuso d'ufficio e turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente. Nel registro degli indagati sono iscritte anche tre persone per le quali la procura non ha chiesto la misura dell'interdizione. Si tratta della ex direttrice di Careggi, e attuale direttrice dell'assessorato regionale alla Salute, Monica Calamai, e dell'attuale manager dell'ospedale, Rocco Damone. Di recente è stato iscritto Enrico Masotti, dirigente del policlinico.
L’Università dei baroni, scrive domenica, 10 marzo 2019 Il Corriere.it. L’Italia è una Repubblica fondata sulla spintarella? «La raccomandazione è sempre esistita, ma forse negli ultimi anni è addirittura aumentata». Parola di Luca Zingaretti che si trasforma in barone universitario con un nuovo look che a seconda dei gusti politici, letterari o religiosi lo avvicina a Lenin, a Pirandello oppure a Sant’Antonio. Tuttoapposto è il primo film dell’attore palermitano Roberto Lipari, che vede protagonisti lo stesso Lipari e Zingaretti. Roberto è uno studente universitario in un ateneo in cui i docenti sono degli impuniti: vendono esami, assumono solo amici e parenti, ragionano unicamente con la logica del «chi ti manda», sotto la regia e con la collusione del poco magnifico rettore (Zingaretti) che tra l’altro è il padre di Roberto. Il figlio, Edipo che uccide metaforicamente il padre, stufo di essere immerso in un mondo da prima Repubblica («a fra’ che te serve?» era lo slogan di reciproco aiuto), decide di combattere l’andazzo vigente, inventando con i suoi amici un’app per smartphone (chiamata Tuttapposto) che valuta l’operato dei professori. Il TripAdvisor degli studenti sovverte le gerarchie e l’ordine costituito: sono gli universitari a dare voti e like ai professori. È la rivoluzione dal basso, la presa della Bastiglia accademica, gli studenti acquisiscono un potere inaspettato e i docenti sono costretti a comportarsi onestamente pur di ottenere un buon punteggio sotto la minaccia di un’ispezione ministeriale. Riflette Zingaretti: «Personaggi come il rettore che interpreto non dovrebbero esistere in generale nella nostra società, ma soprattutto nel mondo dell’istruzione che dovrebbe essere un modello e un esempio, perché la scuola è il luogo dove si formano gli uomini di domani». L’attore allarga il ragionamento: «I giovani devono cambiare questa società, il futuro è nelle loro mani: spero che riescano a fare meglio di noi che avevamo sogni e illusioni, progetti e ideali che non si sono realizzati». Zingaretti si è prestato alla commedia, una cifra che non pratica abitualmente: «Anche se il comico non è il mio genere, in questo caso sono stato conquistato da una sceneggiatura intelligente: Tuttoapposto è un film molto ben scritto, molto garbato ma nello stesso tempo graffiante. È una metafora sul mondo in cui stiamo vivendo, sulla corruzione che ci circonda, una satira anche feroce su certi tipi di malcostume». La ricetta per uscire dal vizio della raccomandazione? «Non saprei quale potrebbe essere la cura. Siamo un popolo fatto così: l’unica è sperare in generazioni più probe». Tuttoapposto, prodotto da Tramp Limited (società che fa capo a Ficarra e Picone) e diretto da Gianni Costantino, sarà distribuito da Medusa in autunno. Nel cast anche Monica Guerritore, Ninni Bruschetta, Sergio Friscia. Il film si gira nel Palazzo degli Elefanti di Catania, sede del Comune, perché sarebbe stato difficile trovare una vera università che si prestasse a essere messa in una luce così negativa. Pure la città — Borbona Sicula — è di fantasia perché non si sa mai. Stucchi, lampadari, dipinti e affreschi contribuiscono a dare quell’atmosfera da Gattopardo dove i baroni agiscono impuniti e strafottenti. Un contesto opaco che ricorda quanto accade troppo spesso nella realtà. Se il baronato è una piaga, la soluzione — anche se siamo in una commedia — però rischia di essere altrettanto poco trasparente: chi non sa inizia a giudicare chi sa, chi deve imparare valuta chi è già istruito, allegoria dell’attuale scontro tra popolo ed élite. «È il paradosso della Fattoria degli animali — riflette Lipari —: è possibile che le cose migliorino, ma non è detto che ci si comporti meglio di prima. Il film non vuole dire come dovrebbero andare la cose, ma avverte che non è impossibile cambiarle. È una commedia giocata anche sul conflitto generazionale, io ho 28 anni e credo che le cose possano cambiare, racconto di una generazione che reagisce, che vuole migliorare le cose. Magari è un rischio affidare il giudizio agli studenti, ma almeno è un tentativo».
Concorso rifatto per l'astrofisica del team di "Rosetta". Prima esclusa, ora vince. L'ateneo di Padova ritorna sui suoi passi, dopo il ricorso al Tar. Non era stata valutata la sua "attività sul campo". Diventa professore associato, scrive Corrado Zunino il 13 febbraio 2019 su La Repubblica. La scienziata delle stelle, e ancor più delle comete, no. Non poteva essere fatta fuori da una commissione disattenta alle sue trentatré pagine di curriculum e indifferente alle decisive missioni spaziali a cui ha partecipato (o che ha coordinato). È bastato un ricorso al Tar del Veneto - vinto facile - per rifare quel concorso da professore associato al Dipartimento di Fisica e Astronomia (si chiama "Galileo Galilei" il dipartimento) dell'Università di Padova e consegnare la cattedra a chi aveva contribuito a guidare - dall'Italia, anche da Padova - la sonda Rosetta: dodici anni nello spazio e un contributo di scoperte che stanno cambiando il nostro approccio allo studio delle comete. La rapida retromarcia dell'ateneo patavino sulla scienziata Monica Lazzarin, 56 anni, dice due cose: all'Università di Padova si possono fare errori comuni a quello di molti atenei italiani - i bandi spinti verso un candidato -, ma poi si ha l'accortezza di tornare sui propri passi. Secondo, ci sono nuovi segnali di attenzione e resistenza dei rettori italiani nei confronti dei pilotaggi concorsuali realizzati dai singoli dipartimenti: sempre più spesso i "magnifici" accolgono gli inviti a controllare i bandi, annullano graduatorie, rifanno concorsi. La ricercatrice Monica Lazzarin, dopo una vita interstellare - quale membro, tra l'altro, della commissione Nasa postdoctoral program e partecipante a numerose missioni dell'Agenzia spaziale europea - dallo scorso 1 febbraio può insegnare "Astrofisica del sistema solare" ai suoi studenti di Padova. Sì, nel concorso del marzo 2017 i tre membri della commissione giudicante l'avevano chiaramente sfavorita - lo dirà un Tribunale amministrativo regionale quattordici mesi dopo - consentendo a uno dei due candidati vincitori di presentare due pubblicazioni scritte insieme a due commissari. Gli arbitri universitari, ha sentenziato il Tar, avrebbero usato un "eccesso di potere" nell'attribuire a una seconda candidata vincitrice un ruolo di guida in una ricerca anche se mai era stata "principal investigator" (primo responsabile scientifico). Al contrario della Lazzarin. Il giudizio "eccellente" calato sulla vincitrice, poi, si scontrava con il solo "ottimo" della candidata sconfitta e ricorrente. Nella sentenza del Tar colpisce il quarto punto preso in analisi dai giudici amministrativi: la non attribuzione di punteggio per la Missione Rosetta. Hanno scritto i giudici (siamo nel maggio 2018): "La mancata valutazione dell'attività svolta nell'ambito della missione dell'Agenzia spaziale europea" vizia il processo valutativo "per eccesso di potere dovuto alla mancata valutazione di elementi istruttori". In altri passaggi i giudici parlano di "affermazioni prive di riferimenti oggettivi che, nel loro complesso, non contengono un raffronto effettivo tra le posizioni dei candidati". La commissione non aveva preso in considerazione, per continuare, "le attività di osservazione spaziale poste in essere nel corso degli anni" richiamandole "in modo generico e indifferenziato": la ricorrente, la Lazzarin appunto, ne aveva effettuate quarantaquattro in varie zone del mondo, uno dei due vincitori ne aveva invece dichiarato solo sedici. Monica Lazzarin, ancora, era stata relatrice di tesi in ventotto occasioni (contro tre della vincitrice). Dopo la sentenza del Tar del Veneto favorevole alla co-coordinator di Rosetta, l'Università di Padova ha istituito una nuova commissione al Dipartimento di Fisica e Astronomia, ha fissato il nuovo concorso e lo scorso 31 gennaio il rettore Rosario Rizzuto ha pubblicato il decreto di nomina dell'astrofisica Monica Lazzarin a professore di seconda fascia (51 mila euro lordi l'anno per tredici mensilità). Si è insediata il giorno dopo. Esce dalla graduatoria il vincitore maschio, resta dentro la collega, ora seconda. Plaude l'Associazione "Trasparenza e merito", a cui la Lazzarin è iscritta. Ma i ricorsi non si fermano.
Palermo, parentopoli al concorso universitario: il Tar boccia tre volte la gara. Il Tribunale: "Giudizi irragionevoli, manifesta ingiustizia". Ora si aspetta la costituzione della quarta commissione per il ruolo da ricercatore a Tecnologia dell'Architettura. Il dipartimento chiede l'intervento del ministro, scrive Corrado Zunino il 28 gennaio 2019 su La Repubblica. Per tre volte il Tribunale amministrativo regionale, sede di Palermo, ha sentenziato: la valutazione sul concorso universitario di Tecnologia dell’Architettura è “irragionevole”, ora “irrazionale”, ora “travisante dei fatti”. I fatti, poi, sono i titoli presentati dai tredici candidati per ottenere il ruolo da ricercatore. Per tre volte il Tar ha annullato gli atti e sciolto la commissione giudicante, ma i nuovi commissari, una volta insediati, hanno sempre ribadito: la vincitrice, per noi, è e resta Francesca Scalisi (fidanzata del figlio del docente di Architettura che incardinò il concorso, ormai nel lontano dicembre 2010). E così il Tribunale di Palermo, che non molla il punto così come la candidata Federica Fernandez, attende la costituzione della quarta commissione, cosa non semplice perché molti docenti contattati si stanno defilando: vogliono restare lontani dal concorso-infinito dell’Università di Palermo, l’Icar 12. Il direttore del Dipartimento di Architettura, Andrea Sciascia, è scorato. “Su questa vicenda, che ho ereditato, proprio in questi giorni ho scritto al rettore”, spiega, “ci deve essere un intervento di alto livello, forse direttamente da parte del ministro Bussetti”. Sui casi più plateali prodotti dalla malauniversità italiana aveva promesso interventi e lettere di censura il viceministro all’Istruzione Lorenzo Fioramonti. Accerchiato dalla burocrazia e dalla politica leghista, che di queste questioni non intende occuparsi, per ora Fioramonti non si muove. E gli atenei italiani continuano a non applicare, nei fatti, le sentenze a loro contrarie emesse dai Tar e dal Consiglio di Stato.
Il concorso del febbraio 2012 ad Architettura, sede di Palermo, l’ultimo in cui si richiedeva un ricercatore a tempo indeterminato, aveva richiamato tredici candidati. Bando per titoli. La prima commissione in fase di scrutinio decise di sottrarre alla Fernandez diciassette pubblicazioni: le aveva scritte con “altri autori”. Non funziona così per prassi e norma: si attribuisce il punteggio di merito, un mezzo, un terzo, a seconda del numero degli autori e della riconoscibilità della mano. Fuori dai giochi, la candidata Fernandez firmò un primo ricorso (e con lei un collega). I giudici accolsero scrivendo: “La scelta di non valutare quei titoli da parte dei commissari è imponderabile, non ci sono criteri e si va al di là della legittima discrezionalità”. Tra l’altro, nel dare un giudizio sui singoli lavori, non si è tenuto conto del cosiddetto “impact factor”, cioè di quanto l’opera abbia inciso sulla comunità scientifica di riferimento (il numero di citazioni).
Seconda commissione, stesso vincitore. Secondo ricorso e nuovo intervento del Tar. Siamo al giugno 2015. Questa volta due opere della Fernandez, “per mero errore materiale”, vengono attribuite a un altro candidato ancora. “Giudizi arbitrari, valutazione erronea e contraddittoria, palese vizio di eccesso di potere, ingiustizia manifesta”, scrive il Tar. Atti annullati e commissari a casa. Si scopre che si erano espressi positivamente su una tesi di dottorato della candidata Scalisi che la commissione, in verità, non aveva mai ricevuto.
La terza commissione, insediata dall’università, si riunisce, rivaluta e conferma: Scalisi prima. Questa volta aggiunge giudizi negativi per la controinteressata Fernandez: “Scarsa originalità”. Il 14 gennaio 2019, due settimane fa, i giudici del Tar di Palermo accolgono il terzo ricorso della candidata “non originale” ma tenace. I suoi motivi di lagnanza ora sono cinque e il Tribunale ne rileva “l’intensità e la continuità” dei lavori sottolineando “i giudizi sovrapponibili e apodittici” del terzo ciclo di giudici universitari e la difficoltà a credere a valutazioni che, a proposito della candidata Scalisi, parlano di “rilevante innovatività e diffusione” di libri mai pubblicati o diffusi pochi giorni prima. Ecco: “La commissione ha introdotto un nuovo e non previsto criterio basato sulla prevalenza del “numero di pubblicazioni come unico autore” che risulta in contrasto con gli stessi criteri da essa stabiliti”.
Tre ricorsi accolti in otto anni con due rettori diversi. L’Associazione Trasparenza e merito si chiede: “Esiste qualcuno dentro l'Università che riconoscerà mai il danno alla carriera subito dalla candidata Fernandez? Esiste un Miur che possa controllare, con ispezioni e atti concreti?”. L’architetta Fernandez, oggi 45 anni, due figli, è riuscita a costruirsi una carriera parallela a quella accademica e dice: “Sono direttrice di dipartimento di un istituto privato di ricerca sui materiale innovativi, coordino dodici progetti, alcuini internazionali, la Commissione europea mi ha chiamata come esperta dell'innovazione. Sono realizzata e valorizzo ogni giorno l’eccellenza, ma quel titolo accademico per me è importante e non voglio fermarmi. Aspetto con ansia la quarta commissione e il quarto giudizio”. Il direttore di Dipartimento, Sciascia appunto: “A prescindere dai mali di Parentopoli, questa storia va chiusa”.
Università di Catania, sul concorso truccato i giudici evidenziano "collusione a più livelli". Sono state rese note le motivazioni della sentenza che ha condannato la commissione di un concorso bandito nel 2011. La vincitrice non aveva i titoli. Andrea Sessa 31 maggio 2019 su Catania Today. Sono pesantissime le motivazioni della sentenza di condanna nei confronti della commissione giudicatrice dell'Università di Catania, per un concorso svolto nel 2011 e bandito dal dipartimento Disum per la copertura di un posto nella sede distaccata di Ragusa. La vicenda, già al centro delle cronache e raccontata in dettaglio da Catania Today, aveva visto coinvolti i professori Neri Serneri, Luigi Masella e Alessandra Staderini condannati a un anno di reclusione - pena sospesa - per il reato di abuso d'ufficio e con l'interdizione dai pubblici uffici. Chi ha denunciato l'accaduto e le irregolarità del concorso è stato uno dei partecipanti al concorso, Giambattista Scirè, che ha condotto una lunga battaglia giudiziaria. Prima il Tar, poi il Cga e adesso il tribunale hanno confermato le sue denunce e quel concorso "truccato". Le motivazioni della sentenza, rese pubbliche da pochi giorni, sottolineano le irregolarità di un concorso bandito per la posizione di ricercatore in storia contemporanea a tempo determinato vinto, però, da un architetto senza alcun dottorato contro una platea di "storici".
"Una lucida decisione non fondata sull'errore". Nella querelle sulla ammissibilità e sui titoli posseduti dalla concorrente Melania Nucifora, laureata in architettura, si è concentrato il giudizio della giustizia italiana. Nelle motivazioni, redatte dal giudice Maria Pia Urso, si scrive, in merito al collegio giudicante del concorso e alla vittoria di una candidata senza i titoli, che " si esclude l'errore e consegna al giudizio una lucida decisione, non fondata sull'errore. I tre commissari conoscono perfettamente i settori scientifico-disciplinari, le declaratorie, gli allegati al secreto ministeriale ed agiscono sulla scorta di quel bagaglio normativo, violandolo. Scrivono i commissari nel verbale che "tanto la normativa quanto la prassi didattica e scientifica considerano la storia urbana , del territorio e dell'ambiente ambito pienamente interno alle discipline storiche propriamente intese e dune al settore M-Sto/04". "Gli atti assunti - scrivono ancora i giudici - dalla commissione giudicatrice sono affetti da macroscopico vizio di illegittimità, essendo stati adottati in aperta ed evidente violazione delle previsioni contenute nel decreto ministeriale". I giudici, inoltre, sottolineano che l'ateneo catanese avrebbe dovuto cambiare i membri di quella commissione: "Della macroscopica violazione di legge i commissari erano perfettamente consapevoli tanto che, posti di fronte alla necessità di riesaminare la questione, non esistevano a reiterarla, affermando concetti falsi che - ove mai non fossero stati colti, in buona fede, nella prima versione dell'illecito, essendo stati, frattanto, chiaramente denunciati dal Tar, avrebbero potuto essere emendati ricorrendo ad una semplice consultazione, a riscontro, del materiale normativo. A margine, osserva il Collegio che utile sarebbe stato affidare la rinnovazione degli atti ad una commissione giudicatrice in una diversa composizione". Ma l'università andrà avanti per la sua strada, senza mai costituirsi parte civile al processo.
"Profilo della collusione a più livelli". Sono durissimi alcuni passaggi contenuti nelle circa 30 pagine della motivazione della sentenza di condanna. Emerge la presa d'atto di un sistema malato e incancrenito: "Pur non necessario ai fini della valutazione della condotta ascritta agli imputati, il profilo della collusione emerge a più livelli". "Scorrendo i titoli delle pubblicazioni - si legge nelle motivazioni - vantate dalla candidata Nucifora, si ha come la percezione di una tela pazientemente tessuta per aspirare ad entrare in un settore accademico diverso da quello che, sulla base del titolo di laurea, ci si sarebbe aspettati. Un architetto che, sulla via di Damasco, resta folgorata dagli studi di storia contemporanea e che abusivamente, ne comincia a corteggiare il contesto". I giudici contestano alla vincitrice di quel concorso di avere "indossato un abito, quello di storico, sopra la pelle di architetto". "E' la vittoria del paradosso: tutti gli altri candidati offrono profili di omogenea normalità; discutono infatti di storia contemporanea ma, in fatto di originalità, nessuno può competere con la Nucifora. Infatti, nessuno di quei candidati è architetto", si legge ancora nel documento.
Le conclusioni. I giudici individuano anche la vicinanza della candidata al concorso Nucifora con l'allora preside Enrico Iachello, di cui era segretaria. Concorso a cui partecipa "contro ogni elementare decisione di buon senso" perché era un settore totalmente diverso dal suo. Eppure lo ha vinto, in barba a chi aveva studiato per anni e si era formato sul campo. "In tale gratuito e non condivisibile progetto i tre imputati hanno arrecato un danno economicamente risarcibile al dottor Scirè, ipotecandone il futuro, obliterandone l'entusiasmo, rallentandone il cammino professionale", sono le amare conclusioni della sentenza. Nelle scorse settimane era arrivata anche una lettera da parte del viceministro del Miur, Lorenzo Fioramonti, all'università etnea: "Il caso del dottor Giambattista Scirè lo ritengo esemplare di comportamenti clientelari e corporativi assolutamente imperdonabili. Dopo anni di ricorsi e procedimenti giudiziari, la magistratura ha riconosciuto non solo in via amministrativa, ma anche in via penale, che si è commesso un grave abuso nei confronti del dottor Scirè da parte della commissione preposta alla valutazione concorsuale presso l'università di Catania". "Mi auguro che il caso del dottor Sciré, a cui va tutta la mia solidarietà, sia il capitolo finale di un brutto libro. E mi auguro che l'Università di Catania, come tutte le università italiane, valorizzi chi ha il coraggio di denunciare casi di abuso e corruzione, perché così fanno coloro che hanno a cuore il bene dell'università e della ricerca", aveva concluso Fioramonti. Adesso il ricercatore vittoriese porta avanti la sua battaglia con una associazione che si chiama "Trasparenza e Merito, l'università che vogliamo": "Non mi sono arreso e ho lottato per anni finché è arrivata la giustizia. Adesso con l'associazione aiutiamo molti ragazzi, che spesso ragazzi non sono visto che hanno 40 anni e hanno investito la loro vita e i loro sogni dentro la ricerca e negli atenei. Ragazzi che ci segnalano abusi e che sosteniamo sia dal punto di vista legale sia dal punto di vista psicologico. Ma dentro le università ci sono tantissime persone che fanno con onestà e coscienza il proprio lavoro. Era quello che avrei voluto fare pure io".
Firenze, concorsi truccati a Medicina, 14 indagati. L'indagine parte dall'esposto di un associato, scrive il 19 gennaio 2019 "La Repubblica". Medicina sotto i riflettori a Firenze per un'inchiesta della Procura su 14 docenti indagati per presunte alterazioni nei concorsi per le cattedre. E su di loro adesso pende un procedimento di interdizione dai pubblici uffici, ovvero potrebbero dover lasciare l'insegnamento universitario. Gli indagati hanno ricevuto gli avvisi di garanzia e una convocazione dal gip, Anna Liguori, perché il pm Tommaso Coletta, titolare dell'inchiesta, ha chiesto l'interdizione. I reati contestati sono abuso d'ufficio e turbamento del procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando, articolo 353 bis del codice penale. L'indagine, condotta dalla Guardia di finanza, è partita da un esposto di un professore associato, che ha più volte denunciato violazioni sui bandi. Nel settembre del 2017, un'inchiesta simile, condotta dal pm Paolo Barlucchi, investì i “baroni” del diritto tributario.
Concorsi truccati, più di cento segnalazioni al Miur. Il viceministro Fioramonti prosegue nella sua campagna: "Tolleranza zero nei confronti di chiunque pensi di poter utilizzare un concorso pubblico a fini privati", scrive Corrado Zunino il 15 novembre 2018 su "La Repubblica". Giacca appesa allo schienale della sedia, sguardo alla telecamera, il viceministro dell’Istruzione e dell’Università, Lorenzo Fioramonti, ieri ha annunciato su Facebook un intervento diretto sui concorsi contestati nei nostri atenei: “Sui casi più eclatanti chiederemo alla direzione generale del ministero di convocare i rettori e chiedere chiarimenti. Al più presto”. E’ partita la campagna del Miur – meglio, del viceministro Cinque Stelle – sui concorsi disegnati, scolpiti, nascosti dai dipartimenti accademici. Fioramonti lo aveva annunciato a “Repubblica” a luglio: “Gli atenei italiani sono ancora clientelari e con una tradizione di poca trasparenza, gli arruolamenti sono rimasti oscuri, troppi concorsi cuciti su un candidato”. Per muoversi in questa direzione il professore dell’Università di Pretoria in aspettativa aveva incontrato le associazioni nate per combattere il fenomeno e aveva scelto, tra non poche polemiche, il suo segretario particolare nella persona di Dino Giarrusso, già incursore delle Iene. Ora, ricordando il suicidio del ricercatore di Alatri Luigi Vecchione, il viceministro Fioramonti ha detto: “Ho raccolto numerose lamentele dal giorno del mio insediamento, oltre cento segnalazioni. Con le nostre poche forze fatichiamo a evaderle”. Ha citato, sfogliando, il caso di Agnese Rapposelli, che ha contestato i risultati di un concorso di Statistica all’Università di Chieti: “Il Tar le ha dato ragione, ha chiesto una nuova prova entro il 30 aprile, ma siamo arrivati a novembre e la prova non c’è”. E altri due casi curati dall’associazione “Trasparenza e merito”: Giulia Romano estromessa dal ruolo all’Università di Pisa e Giambattista Scirè in vertenza a Catania. Il viceministro, dopo aver promesso una “soluzione sistemica” del problema arruolamento universitario e in generale della questione sottofinanziamento, ha chiuso: “Non posso accettare che si dica genericamente di affidarsi alla magistratura, noi non lasceremo mai soli quelli che si rivolgono al ministero. Tolleranza zero nei confronti di chiunque pensi di poter utilizzare un concorso pubblico a fini privati. Non è più possibile accettare che queste situazioni si ripetano in un’Italia che vuole puntare sull’università e la ricerca come volano di una nuova economia”.
· Università, si uccide per un concorso truccato.
Università, si uccide per un concorso truccato. Ora indaga la polizia. Luigi Vecchione, ricercatore 43enne, aveva denunciato all'Anac le irregolarità nella selezione della Sapienza cui aveva partecipato nel 2016. Poche ore prima di spararsi ha portato le carte alla Mobile, scrive Corrado Zunino il 12 novembre 2018 su La Repubblica. Aveva preparato da solo, ingegnere meccanico, la pistola con cui si è sparato. Un colpo in canna, soltanto uno. Mercoledì scorso, tardo pomeriggio. "Mamma, papà, scusatemi. Mi hanno trattato come un mafioso. Portate tutto all'avvocato Testa", ha lasciato scritto Luigi Vecchione, 43 anni, ingegnere nato e residente ad Alatri, in provincia di Frosinone. Il papà, al rientro, erano le 18, lo ha trovato davanti al camino. Riverso. Era la seconda casa di famiglia, nella frazione di Mole Bisleti. Luigi lì studiava, costruiva. Papà ha letto il biglietto, ha visto a fianco gli appunti ordinati a proposito di quel concorso universitario riservato agli ingegneri tenuto nella seconda metà del 2016: tecnico di laboratorio. Ne parlava sempre. Era stato l'inizio dei suoi patimenti: "Mi hanno fatto fuori", ripeteva, "i baroni l'hanno regalato ai loro protetti".
L'ultimo colloquio con la Mobile. Quel mercoledì, quattro ore prima, l'uomo aveva raggiunto insieme al suo legale gli uffici della squadra mobile di Frosinone. Era stanco, profondamente depresso. "Voleva essere rassicurato, era convinto di essere perseguitato dalla Sapienza", dice ora l'avvocato Angelo Testa. In questura l'ingegnere aveva rimesso in fila i passaggi della sua vicenda e all'uscita l'avvocato gli aveva detto che avrebbe portato il caso alla procura di Frosinone: "Sembrava sereno", spiega adesso. Luigi Vecchione è andato dritto a casa dei suoi, ha scritto e si è tolto la vita. Il percorso universitario dell'uomo, illustrato sul profilo Linkedin, era stato anomalo, da lavoratore-studente. Dopo la Maturità era entrato in polizia per l'anno militare ed era stato assegnato al reparto mobile, la celere. Il padre aveva trascorso una vita in polizia. Il primo lavoro era stato in un negozio di zona: riparazione cellulari. Quindi, aveva fatto il meccanico d'auto, l'operaio (per sei anni alla Bitron), ancora installatore di antenne a partita Iva. Tutto questo mentre portava avanti gli studi alla Sapienza. Si è laureato nel 2011, a 36 anni, e ha preso il dottorato all'Università della Tuscia.
Il concorso e il vincitore già deciso. In Sapienza ha seguito ricerche per la produzione di idrogeno dall'ammoniaca, si è stanziato in un laboratorio a Viterbo e ha affrontato il concorso da tecnico. Al suo avvocato ha raccontato: "Abbiamo partecipato in quattordici, ma il vincitore era stato già scelto e così i tre posti alle sue spalle. In nove si sono ritirati, io ho voluto insistere. Ero l'unico senza protezioni. Ha vinto la persona indicata e anche la classifica dal secondo al quarto è stata scritta in base alla precedente spartizione. Io sono arrivato a pari merito con il quarto, ma, più anziano, sono rimasto fuori dalla graduatoria. Solo io", ha detto al capo della squadra mobile.
Gli audio all'Anticorruzione. L'ingegner Vecchione si è rivolto all'Autorità nazionale anticorruzione, consegnando agli uffici di Raffaele Cantone alcuni audio in cui la spartizione era stata registrata: "Hai fatto una bella figura, tenendo conto che non avevi nessuno dietro", si può ascoltare nei file. Il ricercatore di Alatri ha continuato a seguire un progetto di energia alternativa interno alla Sapienza: combinazione di idrogeno ed etanolo a fini energetici. Il 9 novembre 2016 l'Anac ha inviato carte e prove alle procure di Roma e Viterbo, ravvisando "estremi di reato". Le inchieste, però, hanno faticato a decollare.
Il posto perso dopo la denuncia. L'ingegnere meccanico che si era fatto da sé ha iniziato a temere di essere seguito e controllato e il suo profondo malessere, testimoniato da diversi post sulla corruzione e la Costituzione italiana resi pubblici su Facebook, è deflagrato quando, lo scorso 31 agosto, il contratto con la Sapienza si è concluso e il suo progetto - finanziato da una multinazionale con 180mila euro - è stato affidato. "Per portarlo a compimento mi sarebbe servito ancora un anno. Mi hanno allontanato perché hanno scoperto che li ho denunciati". L'associazione Trasparenza e merito, ricordando il suicidio di Norman Zarcone, ha scritto: "Si faccia qualcosa e presto sul fronte dei concorsi truccati, le conseguenze di un fenomeno incancrenito, la malauniversità, possono essere tragiche". Il padre di Luigi Vecchione: "Lui è un martire della corruzione negli atenei".
· In Ateneo. Tra moglie e marito non mettere il concorso.
Marito e moglie insieme in ateneo: per la Consulta non sono parenti, scrive il 10 aprile 2019 Sergio Rizzo. Cattedre in famiglia. La Corte: un coniuge può partecipare a un concorso nello stesso dipartimento dell’altro. Cugini o fratelli no. Al più lacerante interrogativo familiare che tormenta senza sosta la giurisprudenza abbiamo finalmente una risposta chiara: moglie e marito non sono parenti. Soprattutto, non lo sono se l’una partecipa a un concorso universitario da professore di prima fascia indetto da un dipartimento nel quale l’altro è un pezzo da Novanta. Così ha deciso la Corte costituzionale con un pronunciamento depositato martedì 9 aprile su una questione di legittimità...
TRA MOGLIE E MARITO NON METTERE IL CONCORSO. Sergio Rizzo per “la Repubblica” l'11 aprile 2019. Al più lacerante interrogativo familiare che tormenta senza sosta la giurisprudenza abbiamo finalmente una risposta chiara: moglie e marito non sono parenti. Soprattutto, non lo sono se l' una partecipa a un concorso universitario da professore di prima fascia indetto da un dipartimento nel quale l' altro è un pezzo da Novanta. Così ha deciso la Corte costituzionale con un pronunciamento depositato martedì 9 aprile su una questione di legittimità sollevata dal consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana, organo che esercita nell' isola le funzioni del Consiglio di Stato. Il caso è la nomina di Daniela Giordano a professore di prima fascia nel dipartimento di Ingegneria elettrica dell' Università di Catania di cui è stato fondatore ed è esponente di spicco suo marito Alberto Faro. Lei aveva vinto il concorso, ma in seguito a un ricorso il Tar di Catania aveva annullato la nomina sulla base di una legge voluta nel 2010 dalla ministra dell' Istruzione Mariastella Gelmini per porre un freno alla piaga del nepotismo da anni dilagante negli atenei italiani. Quel provvedimento vieta la partecipazione ai concorsi a « coloro che abbiano un grado di parentela o affinità fino al quarto grado compreso con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione ». E come sarebbe stato possibile darle torto? Parentele e affinità ( per la Treccani sono " affini" i rapporti fra i coniugi e i rispettivi parenti) hanno regolato il ritmo vitale di intere generazioni accademiche, con le cattedre che passavano da mariti a mogli a figli a nipoti e pronipoti. Senza alcun rispetto per la decenza, né per la rispettabilità della disciplina insegnata. Accadeva pressoché ovunque, ma soprattutto, e purtroppo, accadeva al Sud. Le cronache pullulavano di casi scandalosi, come quello che denunciò l' autorità anticorruzione nel breve periodo in cui era guidata dal prefetto Achille Serra, quando si scoprì che alla Scuola d' alta formazione europea di Caserta, testuale, «frequenti rapporti di parentela, affinità o coniugio legano nel 50% dei casi il corpo docente con personalità del mondo politico, forense o accademico ». Ma torniamo a Catania. Dopo la sentenza del Tar la vicenda si sposta al Consiglio di giustizia amministrativa che rimanda la palla alla Corte costituzionale, dove viene affidata a Giuliano Amato, in veste di relatore. La questione si presenta subito spinosa. L' Università di Catania attacca sottolineando che nella legge Gelmini il " coniugio" non è di proposito esplicitato, anche perché « sarebbe discriminatorio e irragionevole un divieto che costringesse uno dei due coniugi a scegliere tra il rapporto coniugale, l' unità familiare e le legittime aspettative professionali». Al contrario chi aveva presentato il ricorso al Tar di Catania sostiene che l' incompatibilità prevista per gli affini riguarda proprio marito e moglie sulla base di interpretazioni consolidate della stessa magistratura amministrativa. La Consulta conclude invece che per quanto la legge Gelmini abbia voluto «meglio tutelare l' imparzialità della selezione » dei professori universitari, « che essa non includa il coniugio come motivo di incandidabilità degli aspiranti alla chiamata non può ritenersi irragionevole ». Perché «il coniugio richiede un diverso bilanciamento. Esso pone a fronte dell' imparzialità non soltanto il diritto a partecipare ai concorsi ma anche le molteplici ragioni dell' unità familiare, esse stesse costituzionalmente tutelate». Aggiunge, la Consulta, come sia «significativo che in altri sistemi giuridici vicini al nostro vengono promossi percorsi accademici che favoriscono l' unità familiare e l' esigenza di preservare l' accesso alla carriera accademica da condizionamenti è soddisfatta da meccanismi diversi dalla drastica previsione dell' incandidabilità». Dunque la legge Gelmini, non prevedendo esplicitamente l' incompatibilità fra moglie e marito, è pienamente costituzionale. E ora un coniuge può fare un concorso e diventare professore nel dipartimento dove c' è già l' altro coniuge. Ma la famiglia, si sa, viene prima di tutto.
· Concorso dirigenti scolastici: «troppe differenze nei voti».
Concorso presidi, vincitori contro bocciati che hanno fatto ricorso: «Non ci ruberanno il posto». Pubblicato lunedì, 01 luglio 2019 da Corriere.it. Spettabile redazione Corriere della Sera, siamo un gruppo di futuri Dirigenti Scolastici, costituitosi successivamente al superamento dell’ultima prova concorsuale. L’ originario scopo di tale iniziativa era quello di garantire a tutti noi una preziosa rete di collaborazione, utile per potere gestire al meglio le nostre future Istituzioni scolastiche. Scopriamo in questi giorni di avere, in qualità di singoli e come gruppo, un’altra primaria finalità: difenderci dalle pretestuose aggressioni dei nostri colleghi che non hanno superato la prova scritta. Le definiamo pretestuose perché non ci appaiono volte al ripristino della giustizia e della legalità, ma alla egoistica tutela di personali, e a nostro avviso inesistenti, interessi. Se i nostri colleghi odierni domandassero il ripristino delle singole posizioni, in presenza di validi motivi, godrebbero certamente del nostro appoggio. Il recente timore di questo gruppo, tuttavia, risiede nel fatto che, stante la nota difficoltà di impugnare aspetti strettamente valutativi, si proceda alla ricerca di qualche presunto vizio formale, allo scopo di mettere in discussione l’intera procedura concorsuale. Il «Caso Sardegna», ossia la principale delle motivazioni a sostegno della richiesta di annullamento, ai nostri increduli occhi rappresenta proprio questo: un pretesto, tendenzialmente anche un po’ azzardato e puerile. Non riusciamo, infatti, proprio a capacitarci di come 224 prove svolte 55 giorni dopo la nostra abbiano potuto inficiare la bontà delle rimanenti 8500. Facciamo inoltre rilevare il fatto che, anche in assenza di nubifragi nella nostra bella isola, la prova non sarebbe stata affatto unica: si pensi ai circa 600 ricorrenti della preselettiva, che hanno svolto la loro prova contestualmente agli aspiranti sardi! Una seconda sessione, quindi, si sarebbe dovuta tenere a prescindere dall’ordinanza di chiusura delle scuole, per il giorno 18 ottobre 2018, emanata dal Sindaco di Cagliari. Notiamo sgomenti come, in queste ultime settimane, sia in atto una campagna di informazione montata artatamente, supponiamo al maldestro scopo di influenzare il TAR Lazio. Ora, al di là del fatto che non riteniamo così facilmente impressionabili i Magistrati della nostra Repubblica, questo non ci sembra un buon servizio ai cittadini, in quanto pare che a suonare debba essere una campana sola. Vorremmo, invece, che risuonasse chiaramente nell’aria pure la nostra: quella di coloro che hanno superato, con pieno merito, tutte le prove, acquisendo così un legittimo interesse alla regolare conclusione della procedura concorsuale. Con sommo dispiacere, dopo avere superato tre estenuanti prove, ci ritroviamo nella condizione di dovere reperire quanto prima un buon legale. A noi appare assurdo, ma a oggi tant’è. Saremo uniti e battaglieri, allo scopo di difenderci da alcuni nostri colleghi che, pur valutando quotidianamente gli studenti, risultano incapaci di accettare il giudizio negativo altrui e chiedono che la selezione si ripeta da zero. Ci riferiamo, ovviamente, non ai ricorrenti in generale, che esercitano un loro pieno diritto, ma solo a coloro che auspicano di ottenere una seconda possibilità non tanto sulla base di ingiustizie subite, bensì di sterili cavilli. L’allievo di uno di noi, evidentemente molto più arguto di alcuni membri della categoria professionale che lo dovrebbe educare, ha osservato come lui rigiocherebbe volentieri la gara Juventus-Ajax. Ovviamente ciò non potrà in nessun caso accadere, esattamente come non si dovrà tenere alcuna nuova prova scritta. Anche perché, come opportunamente sottolineato dal Sig. Ministro alcuni giorni fa, la Scuola italiana, lo scriviamo volutamente con la lettera maiuscola, ha urgente necessità di nuovi DS. Questi oggi, finalmente, ci sono e potranno alleviare l’annosa piaga delle diffuse reggenze, tremenda tanto dal punto di vista didattico quanto da quello organizzativo. Vogliamo ribadire la nostra fiducia in una procedura concorsuale che ha coinvolto ben 34000 docenti e che non può, nel modo più assoluto, perdere ogni parvenza di credibilità a causa di un ricorso al TAR di un pugno di candidati esclusi. Questa è stata una selezione durissima che noi abbiamo, a costo di immani sacrifici, sostenuto insieme alle nostre famiglie a fronte di una promessa: il ruolo da Dirigente Scolastico al primo settembre 2019. È preciso compito delle istituzioni difendere tanto il proprio operato quanto il nostro lavoro. La Scuola, la fucina del futuro della nostra Repubblica, deve ripartire da qui: basta ricorsifici! Nei ruoli dello Stato si entra per pubblico concorso.* Claudia Salvatrice Amico, Anna Ascani, Fabiola Baldo, Angiolina Benvegna, Maria Giovanna Bonfà, Irene Borrelli, Emanuela Bussi, Carla Cantelli, Tonina Caradonna, Raffele Carucci, Amalia Catena Fresta, Iolanda Cavaliere, Francesca Cellamare, Pietro Chierichetti, Fabio Cocco, Elisabetta Dedato, Monica Del Duca, Sabina Depaoli, Alessandra Di Giovanni, Lucia Di Paola, Laura Di Rosa, Cinzia Fenu, Patrizia Gumina, Isabella Iannuzzo, Iole Latino, Massimo Lattari, Magda Lazzaretta, Gianluca Mastromarino, Giorgio Michelazzo, Mariella Milone, Maria Giuseppa Modeo, Gianluca Moretti, Simona Maria Murgia, Leandra Negro, Maria Iole Nieddu, Claudia Notaro, Cristina Pagetti, Antonello Pannella, Giuseppa Pavone, Carlo Raffaele Pedrazzini, Monica Pezzoli, Amedeo Raimondi, Sergio Russo, Teresa Scimonello, Ada Senestro, Tiziana Serrao, Josepha Seruai, Giovanni Taibi, Vincenza Tascone, Lucia Troiano, Giuseppe Valle, Umberto Vassallo, Maria Vitale Paolo Zoppetti.
Concorso annullato dal Tar, Bussetti: «Assumeremo i nuovi presidi a settembre». Pubblicato giovedì, 04 luglio 2019 da Gianna Fregonara su Corriere.it. «Anche a me, quando ho vinto il concorso per dirigente scolastico, hanno annullato la procedura per violazione del principio di anonimato. Hanno ricorretto i temi. Sono risultato nuovamente vincitore. Dunque io comprendo come si sentano oggi i 2.900 candidati che hanno superato tutte le prove e sono pronti a entrare di ruolo. Sono dispiaciuto, abbiamo fatto un concorso che è storico: 38 mila candidati in tutta Italia, 38 commissioni e sottocommissioni, 342 commissari: la scuola italiana ha bisogno di questi nuovi dirigenti».
Ministro Bussetti, il Tar è stato chiaro: tutto da rifare, dunque a settembre non avremo i nuovi presidi.
«Al contrario, farò di tutto per assumerli, penso a quanto hanno lavorato e studiato per il concorso. Abbiamo presentato l’appello al Consiglio di Stato e chiesto anche la sospensiva di questa sentenza in via di urgenza. Se la nostra richiesta sarà accolta, procederemo ad approvare la graduatoria e ad assumere dal primo settembre i nuovi presidi nelle scuole».
E se poi il Consiglio di Stato dovesse confermare nel merito la decisione del Tar? I nuovi presidi torneranno a casa? O farete la solita sanatoria?
«Le sentenze si rispettano. Intanto confido che a settembre si possa iniziare l’anno con i nuovi dirigenti».
Sì, ma la procedura non era corretta: ci sono tre commissari che sono incompatibili, come è stato possibile?
«I commissari autocertificano che non hanno incompatibilità, poi gli uffici ministeriali controllano a campione. A nostro avviso i tre casi rilevati dal Tar non possono invalidare la procedura. Agli uffici Miur risulta che le due commissarie che secondo il Tar avrebbero fatto formazione nell’anno precedente in realtà non hanno svolto alcuna attività incompatibile secondo la disciplina vigente».
E il sindaco di Alvignano, in provincia di Caserta, che non avrebbe potuto essere commissario ma lo è?
«Abbiamo controllato: dalle prime verifiche non risultano candidati residenti nel comune di Alvignano tra i partecipanti al concorso. Dunque verrebbe meno ogni possibilità anche teorica di aver inficiato i risultati».
Però il sindaco ha dichiarato una falsità.
«Se l’autocertificazione risultasse falsa vi sarebbe materia per il giudice penale. Ma ciò non può certo inficiare il buon esito di un concorso. C’è un evidente interesse pubblico a che il concorso si concluda. Io sono fiducioso».
Perché non avete spiegato questi dettagli già davanti al Tar?
«L’Avvocatura dello Stato l’ha fatto. Lo farà con ancora maggior dettaglio davanti al Consiglio di Stato».
Oltre ai presidi mancano anche gli insegnanti nelle scuole, lei ha promesso nuovi concorsi, straordinari e ordinari, entro l’estate ma ancora non ci sono i bandi.
«Quello che è successo con i presidi consiglia di fare tutti i passaggi burocratici per bene. Entro luglio, intendo proporre un decreto legge per dare attuazione all’accordo con i sindacati per il concorso straordinario per la Scuola secondaria, riservato ai precari con più di tre anni di anzianità».
Per settembre lei ha annunciato 58 mila assunzioni: l’anno scorso volevate 56 mila insegnanti ma poi ne avete assunti solo la metà.
«Purtroppo mancano gli insegnanti, è un problema che viene da lontano. Abbiamo aggiornato le graduatorie ad esaurimento dove erano chiuse. Per il primo settembre 2019 speriamo di avere i nuovi insegnanti di ruolo».
Nel Decreto legge di correzione della Finanziaria che ci chiede l’Europa ci saranno tagli alla scuola?
«Piccoli risparmi sul funzionamento del ministero. Nessun taglio alla Scuola, né all’Università né alla Ricerca».
I sindacati premono per cambiare l’intesa sull’autonomia differenziata che riguarda anche gli insegnanti, li ascolterà?
«Il testo che riguarda la scuola è definito a livello tecnico ormai da mesi. Lo stiamo limando in questi giorni con il confronto politico tra le forze di maggioranza».
Concorso presidi, via libera del consiglio di Stato: assunti dal 1 settembre. Pubblicato venerdì, 12 luglio 2019 da Redazione Scuola su Corriere.it. Il Consiglio di Stato ha deciso: è sospeso l’annullamento del concorso dei presidi deciso la settimana scorsa dal tar del Lazio. I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso del ministero dell’Istruzione e dunque dal 1 settembre potranno essere in carica i 2.900 nuovi presidi. La sospensiva della decisione del Tar era stata chiesta dal ministero dell’Istruzione in via urgente per permettere - così aveva spiegato a caldo il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti di portare in cattedra i nuovi presidi in via provvisoria il primo settembre in attesa della decisione sul merito e cioè se il concorso sia nullo o no, sentenza che potrebbe arrivare anche in uno o due anni.
Il Tar del Lazio una settimana fa aveva annullato il concorso dei dirigenti scolastici che era arrivato alle fasi finali. Delle undici contestazioni contenute nel ricorso esaminato dalla terza sezione del tribunale amministrativo, una sola era parsa dirimente ai giudici: l’incompatibilità e il conflitto di interessi di tre commissari che hanno contribuito a preparare e approvare i criteri di valutazione e i punteggi: si tratta di Elisabetta Davoli e di Francesca Busceti, che avrebbero svolto corsi di preparazione nei mesi scorsi per gli aspiranti presidi, ovvio motivo di incompatibilità perché avrebbe potuto avvantaggiare chi aveva seguito i corsi e Angelo Francesco Marcucci che è sindaco in Campania, carica che risulta incompatibile con la presenza in commissioni per concorsi pubblici. Per questo il Tar aveva annullato l’intero concorso. Il Miur aveva presentato ricorso al Consiglio di Stato perché i tecnici del ministero avevano ritenuto corrette le procedure e «infondata la censura del Tar». I posti messi a bando per i nuovi presidi erano 2425, ma durante il concorso, sia per evitare altri ricorsi, sia per la carenza di dirigenti scolastici che è ormai un’emergenza, si era deciso di aumentare i posti a oltre 2900. A presentarsi erano stati oltre 38 mila insegnanti in tutta Italia.
Presidi, riparte il concorso per assumere quasi tremila dirigenti della scuola. Il Consiglio di Stato ha accolto l'appello del ministero: "Prioritario consentire le assunzioni dal primo settembre". Bussetti: "Bene la sospensiva, ora procederemo senza indugio". Ma i nuovi saranno assunti con riserva. Ilaria Venturi il 12 luglio 2019 su La Repubblica. Aveva suscitato clamore la sentenza del Tar che aveva annullato il concorso per i presidi. Un vero e proprio terremoto nel mondo della scuola, afflitto dal problema della mancanza di capi di istituto e che attendeva i nuovi dirigenti da settembre. Il Miur ha fatto ricorso. E l'appello è stato accolto: la Sesta sezione del Consiglio di Stato ha sospeso, in attesa del merito, la sentenza con la quale il Tar del Lazio aveva annullato il concorso per il reclutamento di 2.900 dirigenti scolastici. Tirano un sospiro di sollievo i candidati promossi, già arrivati agli orali. Insoddisfatti i ricorrenti che avevano sollevato dubbi rispetto alla legittimità della prova scritta che si è tenuta a ottobre scorso.
Centinaia i ricorsi che hanno segnalato anomalie nelle sotto-commissioni, prove non tutelate dall'anonimato sino allo scritto rinviato per i candidati sardi causa maltempo. La sentenza del Tar del 2 luglio scorso aveva in particolare accolto il ricorso di alcuni candidati per incompatibilità di tre componenti delle sottocommissioni incaricate della valutazione delle prove scritte. Nelle ordinanze sì sottolinea che "a prescindere dal merito delle questioni devolute in appello e da ogni valutazione sull'effettiva portata invalidante dei vizi dedotti (segnatamente dei vizi riscontrati dal primo giudice) deve ritenersi preminente l'interesse pubblico alla tempestiva conclusione della procedura concorsuale, anche tenuto conto della tempistica prevista per la procedura di immissione in ruolo dei candidati vincitori e per l'affidamento degli incarichi di dirigenza scolastica con decorrenza dal primo settembre 2019". In questo modo si consente al Miur di portare a termine gli orali e di completare il reclutamento. L'udienza pubblica per la decisione definitiva è fissata al 17 ottobre. Soddisfatto il ministro Marco Bussetti: "Bene la sospensiva del Consiglio di Stato. Procederemo ora senza indugio con la pubblicazione della graduatoria e le assunzioni - dichiara - So quanto hanno studiato i vincitori. Ci sono passato: ho fatto anche io questo concorso anni fa. La scuola italiana non può aspettare, ha bisogno di nuovi dirigenti scolastici per guidare i nostri istituti e superare il fenomeno dannoso delle reggenze. Glieli daremo". Le assunzioni saranno fatte con riserva. "Il Consiglio di Stato non è entrato nel merito dei motivi del ricorso: la partita è aperta" dice l'avvocato Massimo Vernola. Il concorso va avanti, sebbene sotto la spada di Damocle di giudizi che arriveranno a procedure terminate e a nuovo anno scolastico avviato. "Non dubitavamo di questa decisione, la sentenza del Tar era basata su un punto che ritenevamo debole - dichiara Antonello Giannelli presidente dell'associazione nazionale presidi - Eravamo dell'idea che il concorso non dovesse essere bloccato, poi ovviamente chi ha singoli diritti da vantare può andare avanti". L'Anp aveva proposto un appello autonomo in appoggio a quello del Miur. "Sicuramente ora c'è la speranza che ci sia una soluzione per garantire l'avvio dell'anno scolastico - dichiara Lena Gissi segretaria della Cisl scuola - a questo concorso ci sono stati più di 34mila partecipanti: perché tanto interesse? Il modello di selezione va rivisto, il contenzioso è enorme e va garantita massima trasparenza. Ora è tempo di rivedere la governance delle scuole, lo sviluppo professionale dei docenti e il ruolo del dirigente scolastico sempre più solo e al centro di un carico burocratico esasperato".
Concorso presidi, il granello di sabbia e i tremila vincitori beffati. Pubblicato mercoledì, 03 luglio 2019 da Gianna Fregonara e Orsola Riva su Corriere.it. Mettiamoci nei loro panni. Dopo anni di onorato servizio nella scuola, avevano deciso di rimettersi sui banchi a studiare per passare in plancia di comando: diventare presidi. Per mesi hanno letto e sottolineato libri e dispense, a volte anche frequentato costosi corsi di formazione, preso aspettative, treni e aerei, dormito in hotel la notte prima dell’esame e ora, a un passo dall’agognato traguardo, dopo aver speso tanto tempo e soldi, se lo vedono sfilare così. Per un’imperdonabile leggerezza commessa dal Miur nella composizione delle commissioni giudicatrici. Lo ha stabilito il Tar: il concorso va annullato, prova da rifare. Tutta colpa di tre commissari di Caserta in palese conflitto di interesse: due preparatrici di corsi e un sindaco in carica. E così a settembre - al netto del ricorso al Consiglio di Stato subito annunciato dal Miur che dovrà fare il suo corso - le oltre 8 mila scuole italiane rischiano di riaprire i battenti con il solito carosello di dirigenti in reggenza: presidi che devono gestire anche tre-quattro scuole diverse che a loro volta spesso si articolano su più plessi come nei casi dei tanti istituti comprensivi che uniscono scuole d’infanzia elementari e medie. Come ormai è la norma nella pubblica amministrazione, anche questo concorso è stato investito da subito da una marea di ricorsi. Prima ci sono stati quelli che erano stati bocciati alla prova preselettiva che hanno ottenuto - via Tar - di poter essere ammessi a una prova scritta suppletiva. Poi ci sono stati i bocciati allo scritto che hanno fatto ricorso perché in Sardegna causa maltempo le prove si sono svolte due mesi dopo delle altre regioni. Infine sono iniziate ad arrivare una serie di segnalazioni rilanciate dalla stampa di irregolarità varie con commissari che correggevano i compiti e contemporaneamente partecipavano a consigli comunali. E’ stato pure aperto un fascicolo in procura. Di tutte queste contestazioni, i giudici amministrativi, nella persona del presidente della terza sezione bis del Tar Giuseppe Sapone, ne hanno tenuta in piedi una sola: una su dodici. Ma tanto è bastato per annullare tutta la costosissima procedura messa in piedi dal Miur: prima con una prova preselettiva a cui avevano partecipato 38 mila candidati. Fatta una prima scrematura e portati gli aspiranti presidi a 8.700, in autunno c’era stato lo scritto, dopo del quale erano rimasti in 3.700. Il governo intanto, in vista dei pensionamenti di quest’anno, complice l’onda lunga dei baby boomers e il quota 100, aveva pure aumentato i posti disposizione da 2.400 a 2.900. Erano stati quasi tutti già scelti e invece: tutto da rifare. E pazienza se nella sentenza i giudici hanno respinto tutti le altre obiezioni mosse dalla ricorrente ritenendole infondate - leggi: pretestuose. Respinta l’obiezione sulla valutazione dei candidati tramite voto numerico («la censura è infondata»); respinta quella sul software per le risposte e sull’errata formulazione di due quesiti («le censure appaiono destituite di principio di prova)»; respinta quella sul ritardo in Sardegna causa maltempo («anche siffatta doglianza non coglie nel segno)»; respinta anche quella sulla presunta violazione del principi di anonimato. Quest’ultimo è uno dei cavalli di battaglia degli studi legali specializzati nei ricorsi al Tar: già nel 2011 il concorso presidi in Lombardia fu annullato per l’uso di buste trasparenti che in linea teorica (solo in linea teorica!) avrebbero compromesso il sacrosanto principio della non riconoscibilità del candidato. Lo stesso è accaduto tre anni dopo con il test di Medicina per colpa di codici alfanumerici decrittabili e plichi manomessi: con il bel risultato che circa 5.000 bocciati all’esame sono stati ammessi al corso di laurea anche se avevano preso zero nel test; e per di più sono passati davanti a chi quel test lo aveva superato. Ma questa volta, no. I giudici hanno respinto anche questa obiezione: «La doglianza appare priva di fondamento e va dunque disattesa». Giù giù, punto per punto, fino a quell’ultima obiezione, la dodicesima, su cui invece il Tar non ha potuto non dare ragione alla ricorrente. Ma non si potevano annullare solo le prove delle commissioni incriminate? Quelle dei tre commissari in palese confitto di interesse? No, perché i tre avevano preso parte alla riunione preliminare di gennaio della Commissione plenaria che aveva fissato niente meno che le griglie di valutazione per tutti. «Ne discende che tale illegittimità si riflette a cascata sull’operato di tutte le commissioni». E pazienza se i vincitori meritavano il posto. A inceppare la macchina dei concorsi può bastare un granello di sabbia. Il Miur ora farà ricorso ma se si vuole togliere acqua al business dei ricorsi bisogna essere inappuntabili. E anche questa volta non è stato così.
Tar, bloccato il concorso dei presidi: «Lezioni al via con tremila in meno». Pubblicato mercoledì, 03 luglio 2019 da E. Andreis e A. De Gregorio su Corriere.it. È in subbuglio il mondo della scuola, dopo la sentenza del Tar del Lazio che ha travolto la procedura del concorso per dirigenti scolastici, indetto per coprire 2.900 posti vacanti. Alla ripresa delle lezioni, quasi tremila istituti rischiano di trovarsi nel caos, senza guida. Caselle vuote che da anni vengono occupate con il carosello delle reggenze, che mettono un unico preside alla guida di più istituti, con compiti e responsabilità enormi: «A volte non ci dormivo la notte», racconta Valeria Sentilli, dirigente scolastica dell’istituto Francesca Morvillo di Roma, a Tor Bella Monaca, zona impegnativa di Roma. Quando ha assunto l’incarico, ha organizzato con i genitori lavori di tinteggiatura, muratura, carpenteria. In aggiunta a quella struttura con 1.500 alunni, l’anno scorso ha avuto in gestione anche la scuola di via Merope: un altro istituto-trincea. Tante le incombenze: «Un preside è datore di lavoro, incontra le famiglie, si occupa del budget, dà le linee guida, è responsabile di tutto», spiega. Contro la decisione del Tar, il Miur presenterà oggi ricorso, chiedendo una sospensiva d’urgenza per terminare lo svolgimento degli orali, stilare la graduatoria dei vincitori, assumere i nuovi presidi «con riserva». «Ma se il Consiglio di Stato confermasse la decisione, sarebbe il caos», afferma Mario Rusconi, Associazione nazionale presidi del Lazio: «Servirebbero due anni per arrivare a un nuovo concorso e nel frattempo migliaia di scuole sarebbero senza timoniere: come dire che il preside non serve». Nell’attesa, chi ha superato le prove (3.680, su 35 mila aspiranti), dopo aver studiato per mesi e mesi, vede crollare l’obiettivo. Come Annalisa Celli, 48 anni, maestra della primaria Decio Raggi di Rimini, laureata in Giurisprudenza, due master: «Insegno da 22 anni. Ho studiato tantissimo, tutta la vita, sacrificando la mia famiglia. Lo aspettavamo da anni, questo concorso, e un Tar si permette di giocare con noi come con delle pedine». I sindacati sono preoccupati: se la sentenza del Tar venisse confermata, nelle 8.300 scuole italiane mancherebbero quasi 3.200 dirigenti. A tirare le somme è Maddalena Gissi, Cisl Scuola, che ai 2.900 posti disponibili aggiunge i circa 300 che andranno in pensione entro metà luglio. Per ragioni d’età lascerà Ermelina Ravelli, 68 anni, preside da 30 dell’istituto Capirola di Leno (Bs): oltre 2.500 studenti, a cui ha aggiunto la reggenza dell’agrario Bonsignori di Remedello (Bs), altri 500. «Due scuole complesse, impegnate in progetti internazionali, sperimentazioni, corsi serali, accoglienza di immigrati: sarebbe folle che finissero in reggenza». Una fatica sorretta dalla passione, quella del dirigente, racconta Roberto Garroni, preside del liceo Virgilio di Milano: «È il terzo anno che ho nove plessi cui badare, anche distanti tra loro, sette in reggenza a Pioltello, dall’asilo alle medie, e due a Milano, il mio liceo e una media, la Tiepolo — dice —. Un esercito da governare, ho fatto il conto: 3.100 studenti dai 3 ai 19 anni, 290 docenti, 60 amministrativi. L’indennità per le reggenze è 400 euro netti, lo stipendio base sui 2.800 euro, lavorando sei giorni su sette con responsabilità civili, penali, amministrative ... non lo si fa certo per lo stipendio. Ma questo lavoro, lo rifarei tutta la vita».
Concorso presidi, il Tar: «Troppe irregolarità, da rifare». Pubblicato martedì, 02 luglio 2019 da Corriere.it. Tutto da rifare, almeno così sembra dalle prima informazioni: il Tar del Lazio ha annullato il concorso dei dirigenti scolastici che era arrivato alle fasi finali. Troppe irregolarità: secondo la terza sezione del Tar i ricorsi presentati in Campania sono da accogliere. Invece dell’ordinanza cautelare i giudici amministrativi hanno deciso di procedere direttamente con la decisione. Dei dodici motivi di irregolarità segnalati dai ricorrenti, il Tar ha accolto quello che riguarda l’incompatibilità e il conflitto di interessi di tre commissari che hanno contribuito a preparare e approvare i criteri di valutazione e i punteggi: si tratta di Elisabetta Davoli e di Francesca Busceti, che avevano svolto corsi di preparazione nei mesi scorsi per gli aspiranti presidi, ovvio motivo di incompatibilità perché potrebbe avvantaggiare chi ha seguito i corsi e Angelo Francesco Marcucci che è sindaco in Campania, carica che risulta incompatibile con la presenza in commissioni per concorsi pubblici. Il Miur sta predisponendo il ricorso al Consiglio di Stato perché i tecnici - riferiscono fonti del ministero - ritengono corrette le nomine e «infondata la censura del Tar». I posti messi a bando per i nuovi presidi erano 2425, ma durante il concorso, sia per evitare altri ricorsi, sia per la carenza di dirigenti scolastici che è ormai un’emergenza, si era deciso di aumentare i posti a oltre 2900. A presentarsi erano stati oltre 38 mila insegnanti in tutta Italia.
Concorso presidi, uno scandalo tutto italiano. Commissari ubiqui, preveggenza, risultati anticipati sui social, software impazziti. E parlamentari candidati. Il concorso per i nuovi dirigenti scolastici è sommerso da ricorsi. E c’è il rischio di dover ripartire da zero. Elena Testi il 31 maggio 2019 su L'Espresso. Da concorso per dirigenti scolastici è divenuto un plico da presentare direttamente in procura. Una serie di presunte irregolarità che rischiano di invalidare le prove scritte e costringere il Ministero dell’Istruzione a far ripetere la prova a oltre novemila aspiranti manager destinati a dirigere gli istituti scolastici del Paese. Una lunghissima lista con tanto di foto, verbali e denunce. Ed eccolo il rosario sgranato delle anomalie: membri di Commissione con il dono dell’ubiquità, senatori che partecipano e fanno ricorso contro il Ministero, software che impazziscono all’improvviso durante la prova scritta, cataclismi naturali che lasciano a casa un’intera regione, la Sardegna. E ancora: annunci profetici sui social network con il numero preciso degli ammessi alla prova orale prima che i risultati siano stati resi pubblici dal ministero dell’Istruzione, liste di nominativi che appaiono e scompaiono per poi essere nuovamente consultabili nel portale del Miur. Fughe di notizie. È il 17 ottobre scorso, le porte delle aule si aprono. Durata dell’esame 150 minuti con il divieto di parlare e usare dispositivi elettronici. Regole rigidissime, insomma, e celerità nella correzione delle prove scritte, questo era stato il mantra di viale Trastevere, recitato con rigore dal suo capo: il ministro Marco Bussetti. Il tutto si è tramutato in una slavina di ricorsi al Tar che rischia di sotterrare il corso-concorso per dirigenti scolastici (questa la dicitura corretta) e il sogno del ministro di farne un cavallo di battaglia. E da puledro vincente si è trasformato in cavallo di Troia. Dei 9.376 concorsisti e aspiranti presidi con 2.910 posti a disposizione, sono 3.795 quelli che hanno superato la prova scritta e ora si apprestano a preparare l’orale. Gli altri sono alle prese con sentenze del Consiglio di Stato, avvocati e accuse che fioccano nel forum del mininterno.net appositamente dedicato agli insegnanti. Si va dal «è tutto da rifare» all’«entrano sempre i soliti noti» fino a un più perentorio «la verità è che non bisognava studiare, ma trovarsi una buona raccomandazione». L’indignazione aumenta, mentre gli indizi che qualcosa sia andato come non doveva andare, diventano un sostanzioso plico che potrebbe invalidare il corso-concorso e riportare gli oltre novemila al punto di partenza come in un gioco dell’oca. Enigmi come quello di alcuni componenti delle sottocommissioni preposte alla correzione delle prove presenti contemporaneamente in due posti differenti. Il sindaco di Alvignano Angelo Francesco Marcucci, mentre correggeva gli scritti, presiedeva alla stesso orario anche la seduta della giunta comunale, dovendo in teoria essere presente in due luoghi distanti 40 minuti d’auto. L’ispettore del Lavoro di Napoli, Giuseppe Cantisano, veniva immortalato con il sindaco Luigi De Magistris durante un incontro sulla sicurezza, nonostante dai verbali della sottocommissione n. 6 figurasse presente durante le valutazioni. Stesso dono dell’ubiquità per Paola Quaresima: presente nello stesso momento sia alle correzioni delle prove che a una riunione del Consiglio d’Istituto del liceo Cavour di Roma. Non da meno la professoressa dell’università “Aldo Moro” di Bari, Maria Angela Volpicella che, stando alle firme dei verbali di facoltà e sottocommissione, con una mano teneva i libretti degli studenti e con l’altra metteva i voti ai futuri manager. Dalla facoltà di essere fisicamente in più luoghi si passa ai poteri di preveggenza. E sulla regolare correzione delle prove si assiepano dubbi. La notte dell’8 maggio i candidati hanno ricevuto per posta elettronica le prove in formato Pdf. Il foglio con il nome e il voto finale di alcuni candidati porta una data antecedente alla correzione della prova. Scoprirlo è stato semplice, merito dei miracoli tecnologici che permettono di risalire alla creazione di un file. Ciò significherebbe che alcune sottocommissioni sono state in grado di dare una valutazione senza neanche leggere le risposte date ai quesiti. C’è chi invece sembra aver fatto errori di valutazione. Come la sottocommissione 29 che il 18 aprile, dopo venti giorni dalla pubblicazione degli ammessi agli orali, rettifica i voti di tre concorsisti, depennandoli dalla lista dei promossi. È la commissione 30 a pareggiare i conti, aggiungendone altri inizialmente bocciati per “errori materiali” come si legge nella nota diffusa dal Miur. Ma al corso-concorso sono in molti ad avere poteri paranormali. Particolarmente diffusa la capacità di prevedere il futuro, come nel caso di News Freschissime. Si presenta come un uomo, campano, sindacalista e matematico. Nessuno sa chi sia, ma viene seguito da tutti gli oltre novemila. Sul sitowww.mininterno.net nel forum dedicato al “Concorso DIRIGENTI SCOLASTICI” pubblica lo stato di avanzamento delle correzioni delle prove scritte. Il 7 marzo, venti giorni prima che la lista degli ammessi venga pubblicata ufficialmente dal Ministero dell’Istruzione, News Freschissime scrive: «Totale corretti 8.967/95.6 %; totale ammessi 3.488/38.89 %; rimangono da correggere 500 prove». Il 27 marzo si scoprirà che il nickname aveva ragione. Fuga di notizia che continua nei giorni successivi. Alcuni con il fiato sospeso, altri informati da qualche membro di sottocommissioni. Lucio Ficara prima pubblica «Concorso a DS, spunta un dato: 5.367 bocciati alla prova scritta». Non appena la lista degli ammessi all’orale spunta on line, digita trionfante: «Mie fonti non tradiscono mai. Esito concorso DS conferma ufficialmente il dato che avevo rivelato su Facebook». Il post è stato cancellato, ma L’Espresso ne possiede lo screenshot. In Umbria alcuni scoprono il voto grazie alle soffiate, la pratica è così disinvolta che un giornale locale pubblica i voti migliori, nonostante il Miur debba ancora inviare la mail ai partecipanti con gli esiti finali. E c’è chi ammette: «Io ho la fortuna di avere un dirigente scolastico all’ultimo anno prima della pensione, ti darebbe anche la moglie se gliela chiedessi». A partecipare al concorso c’è anche Lucia Azzolina, deputata del Movimento 5 Stelle e componente della Commissione Istruzione della Camera. Nessun conflitto d’interessi, ma tra i novemila piovono lamentele che denunciano l’inopportunità per un parlamentare della commissione Istruzione di prendere parte a una selezione pubblica per dirigenti scolastici. Post chilometrici, frasi lapidarie, in un marasma di oltre migliaia di messaggi. C’è chi immagina il volto dei commissari vedendola arrivare all’esame orale e chi ricorda il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che decise di accantonare il sogno di divenire professore universitario per elegante opportunità politica. Ma l’Azzolina ha deciso di proseguire nella strada, evitando di pubblicizzare la sua vita da cittadina privata, rispondendo alle accuse: «È giusto che un deputato della Repubblica italiana pensi anche all’accrescimento della propria carriera, soprattutto in un partito dove c’è il vincolo dei due mandati». In corsa anche l'onorevole Lucia Azzolina. «Una mia collega ha fatto ricorso? Io non lo farei mai da cittadina privata, figuriamoci da deputata della Repubblica italiana». Lo scorso 27 giugno, sempre Azzolina, scrive su Facebook: «In bocca al lupo a tutti coloro che vorranno diventare dirigenti scolastici. Pubblicati i quesiti per le prove pre-selettive». Un in bocca al lupo per sé e per la sua collega di partito, Gelsomina Vono, la senatrice che ha deciso di fare ricorso al Tar per essere ammessa alle prove scritte a causa dello scarso punteggio ottenuto alle pre-selettive e ribattezzata per questo dalla rete la sessantina. Il tribunale amministrativo ha accolto la richiesta della pentastellata con sentenza leggibile on line fino a poco tempo fa, poi misteriosamente sostituite da un link error. Soffiate, partecipanti illustri e un software, quello prodotto da Cineca, azienda partecipata dal ministero di Viale Trastevere, che ha dato segni di follia durante la prova scritta. Bocciato con una sentenza del Tar già nel 2016, abolito nei test di medicina perché considerato inattendibile e nonostante questo utilizzato dal Miur per la selezione dei dirigenti scolastici. Fogli cancellati a metà, colpa di un “conferma e procedi” che non ha funzionato. In molti hanno fatto verbalizzare l’accaduto, altri hanno protestato con i tecnici dell’aula nel momento in cui hanno dovuto consegnare la prova praticamente in bianco. C’è poi chi ha deciso di immortalare lo stato delle aule, scordandosi della regole base di un concorso pubblico: non utilizzare dispositivi elettronici. Le prove sono state comunque considerate valide, ma c’è chi all’esame non è proprio arrivato il giorno prestabilito. È il caso della Sardegna, rimasta bloccata a causa del maltempo. L’impronta d’Italia è stata richiamata all’appello il 13 dicembre. Esattamente due mesi dopo. Il Miur ha deciso che il concorso non era da invalidare nonostante la legge preveda che «qualora, per cause di forza maggiore sopravvenute, non sia possibile l’espletamento della prova scritta nella giornata programmata, ne viene stabilito il rinvio con comunicazione, anche in forma orale, ai candidati presenti». Questo per garantire l’unicità della prova e che non ci siano «disparità di trattamento». Il risultato è che la Sardegna è la regione con il più alto numero di promossi: 60 per cento. Eppure l’Italia necessita di nuovi dirigenti scolastici qualificati. Lo dicono i numeri: sono 6.300 quelli in servizio con 400 pronti ad andare in pensione, a fronte di una richiesta di 8000 manager per 8.500 scuole. Lo dice anche il presidente di Anp Antonello Giannelli, che di fronte al concorso “da rifare” chiama a gran voce la “prudenza”. «Abbiamo molti problemi», esordisce, «ma il primo sono gli edifici scolastici». Poi specifica: «In Italia c’è un crollo ogni quattro giorni». Controsoffitti da rifare, l’intonaco che si stacca cadendo sulle teste degli studenti: «I presidi in teoria dovrebbero passare classe per classe con un bastone per controllare la situazione, se succede qualcosa e noi non abbiamo avvertito, possono ritenerci responsabili». Da tecnici a segretari: «Negli ultimi anni», spiega Giannelli, «abbiamo assistito a una riduzione delle segreterie, all’appello ne mancano duemila, con il risultato che siamo costretti ad assumere bidelli per espletare questo genere di servizi. Alcuni di loro si trovano a dover effettuare le ricostruzioni di carriera per mandare i docenti in pensione. Il risultato è che i dirigenti scolastici preferiscono fare w soli e per seguire le segreterie trascurano altre incombenze». Una scuola poco competitiva con il resto dell’Unione europea e sempre più lontana da Agenda 2030, il piano approvato dalle Nazione Unite per lo sviluppo sostenibile. Giovani italiani demotivati con picchi di eccellenza nel Nord Est, ascensore sociale inesistente, netto ritardo rispetto agli altri Paesi europei persino nelle competenze digitali. È questa la scuola italiana. Copia perfetta di un corso-concorso che doveva avere regole rigidissime e celerità nella correzione delle prove.
Concorso presidi: l'Espresso denuncia nuove anomalie. Ancora irregolarità durante la prova scritta. Mancato anonimato e un software che non ha funzionato come avrebbe dovuto: in esclusiva le falle durante l'esame per i dirigenti scolastici. Mentre il Ministero scarica le responsabilità sui commissari. In attesa della sentenza del Tar che il 2 luglio potrebbe invalidare tutto. Elena Testi il 14 giugno 2019 su L'Espresso. Violazione dell'anonimato e documenti informatici corrotti. E ancora: componenti di sottocommissioni che si dimettono; codici alfanumerici, creati per celare l'identità dei candidati, che diventano la chiave per capire presunte irregolarità. Un ministero, quello dell'Istruzione, che scarica la responsabilità sui commissari. Continuano le anomalie del corso-concorso per dirigenti scolastici con un'indagine aperta dalla procura di Roma e una sentenza del Tribunale Amministrativo che potrebbe invalidare il 2 luglio la prova scritta. Nel numero in edicola da domenica 16 giugno e già online su Espresso+ pubblichiamo in esclusiva tutte le nuove e presunte anomalie. L'Espresso ha visionato decine di verbali ora analizzati e messi sotto la lente d'ingrandimento dei periti informatici. Se inizialmente le anomalie sembravano essere commissari presenti in due posti contemporaneamente mentre erano impegnati nelle correzioni o un software inefficiente, adesso si fa sempre più vicina l'ipotesi che in alcuni casi si sapesse l'identità di chi doveva sostenere la prova. Colpa, forse, di una falla nell'organizzazione della selezione. Il ministro dell'Istruzione Marco Bussetti, intervistato dall'Espresso , di fronte all'ipotesi di una violazione dell'anonimato risponde con un: «Il mio auspicio è avere il prima possibile i Dirigenti scolastici neoassunti in servizio. Ne abbiamo un grande bisogno, le scuole li stanno aspettando». Per il Miur ogni responsabilità sul regolare svolgimento del concorso era in capo alle commissioni, ma è analizzando i dati che si scopre che oltre il sessanta percento dei commissari si è dimesso, nonostante avesse dato la sua disponibilità a prendere parte alle correzioni. Ora si attende il lavoro della magistratura che potrebbe bocciare la politica di reclutamento del ministro Marco Bussetti. Un fallimento per il Miur, una catastrofe per la scuola italiana che si ritroverebbe a settembre con tremila dirigenti scolastici in meno. Nel frattempo, tramite Facebook, si annuncia un nuovo concorso e una sanatoria per gli insegnanti.
Concorso presidi, dopo l'inchiesta dell'Espresso il Tar potrebbe annullare tutto. Il servizio del nostro giornale apre uno scenario senza precedenti per il Miur: il tribunale amministrativo il 2 luglio deciderà se far ripetere l'esame per dirigenti scolastici. Ma non finisce qui: anche la procura di Roma ha aperto un'inchiesta. Elena Testi il 6 giugno 2019 su L'Espresso. Un concorso per dirigenti scolastici forse tutto da rifare. La valanga di ricorsi al Tar del Lazio si è tradotto con due ordinanze arrivate alle 19.30 di ieri. Il duro colpo è stato inferto al Ministero dell'Istruzione e ora i giudici amministrativi analizzano il rosario di presunte anomalie documentate da l'Espresso: dono dell'ubiquità per i membri delle commissioni, fughe di notizie, software impazziti. E ancora: schede di valutazione create prime della correzione delle prove scritte. È questo lo scenario surreale dell'ultima selezione nazionale per dirigenti scolastici che si concretizza con un obbligo sibillino emesso dal Tribunale amministrativo: il Miur deve pubblicare nel proprio sito il ricorso e rendere noto agli ammessi alla prova orale che il concorsone potrebbe essere annullato qualora le presunte irregolarità venissero accertate. Non era mai successo. Ma l'impensabile potrebbe diventare realtà. Il tutto si tradurrebbe in un fallimento per il ministero dell'Istruzione e in una catastrofe per la scuola italiana, costretta a rinviare di un anno l'arrivo dei nuovi presidi. Arrivo promesso dal ministro Marco Bussetti per questo settembre.
La strada intrapresa dai giudici è chiara: chi ha presentato il ricorso non verrà ammesso alla prova orale con riserva. Il 2 luglio il Tar deciderà con sentenza se annullare o meno le prove scritte e richiamare gli oltre novemila a ripetere l'esame. A commentare le ordinanze l'avvocato Massimo Vernola: «I giudici avendo disposto l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli ammessi all'orale hanno quantomeno escluso l'infondatezza del ricorso. Adesso ogni decisione è aperta e rinviata alla sentenza. Sono moderatamente ottimista». Silenzio del Miur. Marco Bussetti ha deciso di adottare la tattica della mimetizzazione. Si aggira per i corridoi di Viale Trastevere con lo sguardo torvo e le spalle incurvate per quella che potrebbe diventare una vicenda senza precedenti storici. Doveva essere il ministro designato a inaugurare i nuovi concorsi del Governo del cambiamento: celeri, trasparenti e inattaccabili. Ma adesso da uomo del Fare è diventato l'uomo del Rifare. Il corso-concorso per dirigenti scolastici, come anticipato da L'Espresso, è divenuta un'imbarazzante vicenda per il Miur che adesso attende con il fiato sospeso il lavoro della magistratura.
La partita non si gioca solo davanti al Tar del Lazio che, il 2 luglio potrebbe entrare direttamente nel merito e comunicare quello che Marco Bussetti scongiura da giorni, l'annullamento del concorso. Anche il pubblico ministero Desiree Digeronimo in questi giorni ha voluto dare una svolta decisiva all'intera vicenda, aprendo un'indagine che si potrebbe tramutare in un lungo elenco di rinvii a giudizio. Un'inchiesta, quella della procura romana, che potrebbe trascinare il Ministero dell'Istruzione in uno scandalo senza precedenti con membri delle sottocommissioni che rischiano di essere indagati per gravi reati penali. Dal ministero nessuna replica, neanche per placare gli animi, almeno per il momento, nonostante proprio Marco Bussetti divenne dirigente scolastico grazie a un ricorso vinto nel 2014. Sua consigliera fedelissima al Miur è Amanda Ferrario, la paladina che quel ricorso lo guidò, divenendo amica fedele di Bussetti. Nel frattempo le anomalie si accumulano. Ieri mattina gli avvocati Pierpaolo Dell'Anno e Giuseppe Murone si sono presentati in procura con nuove irregolarità: le griglie di valutazione create magicamente prima della correzione della prove e un nuovo straordinario caso di ubiquità. Dopo il sindaco di Alvignano Angelo Francesco Marcucci, l'ispettore del Lavoro di Napoli, dott. Giuseppe Cantisano, Maria Angela Volpicella e Paola Quaresima, anche Eter Rizzi mentre correggeva le prove era presente durante un consiglio d'Istituto.
Gli orali dei 3.800 però vanno avanti nel silenzio assoluto con il rischio di dover pagare il gettone di presenza due volte ai membri delle sottocommissioni esaminatrici, qualora venisse tutto bocciato. Ma sono loro, i quasi quattromila che ce l'hanno fatta, a sperare che il 2 luglio finisca tutto in una gigantesca bolla di sapone e il Tar del Lazio liquidi la faccenda. A quel punto potrebbe però essere la procura di Roma a mescolare nuovamente le carte in tavola, accertando le presunte irregolarità. Tutto questo mentre le scuole attendono presidi che gestiscano il futuro delle nuove generazioni.
Concorso dirigenti scolastici: l’assalto degli esclusi. Tuttoscuola 3 febbraio 2003. Sono centinaia i candidati al concorso per dirigenti scolastici che risultano privi dei requisiti richiesti. Quel che avevamo rilevato con sorpresa la settimana scorsa in alcune regioni, ha trovato ampia conferma in molte altre, tanto da far pensare che vi sia stato “un passaparola”. In base ai dati raccolti da Tuttoscuola presso gli uffici scolastici regionali, questo popolo è piuttosto eterogeneo. Proviamo a scoprirlo.
In quasi tutti i territori tra i presunti non aventi diritto ci sono presidi incaricati attualmente in servizio ma privi del triennio richiesto (triennio che avrebbero potuto maturare in corso d’anno se il bando avesse tardato ad uscire).
Vi sono docenti di scuola elementare laureati, con i requisiti richiesti per partecipare al futuro concorso ordinario, ma che sono stati esclusi dagli incarichi, perché la relativa ordinanza ministeriale ha consentito l’accesso (anche per le istituzioni del settore elementare) solamente ai docenti della secondaria.
Vi sono anche vicari di lungo corso che hanno svolto funzioni di vicepreside per anni.
Vi sono docenti di varia provenienza che ci provano. Non mancano anche docenti pensionati.
Obiettivo: ottenere l’ammissione con riserva, poi si vedrà. Chissà…
Intanto al Miur si contratta la ridistribuzione del 10% dei posti a concorso e la riapertura del bando per ammettere tra qualche mese i presidi che maturano il triennio richiesto con 180 giorni di incarico nel 2002-03. Corre voce anche di una possibile sospensione del bando per ampliare i requisiti di ammissione (ci vuole una legge!). Insomma, tra attese e leggende metropolitane, la telenovela rischia di trasformare il riservato quasi in una formalità, per assicurare comunque il posto di dirigente ai vecchi e nuovi incaricati: un concorso su misura, al di là del merito. Sarebbe una macchia sulla qualità del concorso e su quei candidati che hanno tutte le carte in regola.
Concorso presidi, uno scandalo tutto italiano. Commissari ubiqui, preveggenza, risultati anticipati sui social, software impazziti. E parlamentari candidati. Il concorso per i nuovi dirigenti scolastici è sommerso da ricorsi. E c’è il rischio di dover ripartire da zero. Elena Testi il 31 maggio 2019 su L'espresso. Da concorso per dirigenti scolastici è divenuto un plico da presentare direttamente in procura. Una serie di presunte irregolarità che rischiano di invalidare le prove scritte e costringere il Ministero dell’Istruzione a far ripetere la prova a oltre novemila aspiranti manager destinati a dirigere gli istituti scolastici del Paese. Una lunghissima lista con tanto di foto, verbali e denunce. Ed eccolo il rosario sgranato delle anomalie: membri di Commissione con il dono dell’ubiquità, senatori che partecipano e fanno ricorso contro il Ministero, software che impazziscono all’improvviso durante la prova scritta, cataclismi naturali che lasciano a casa un’intera regione, la Sardegna. E ancora: annunci profetici sui social network con il numero preciso degli ammessi alla prova orale prima che i risultati siano stati resi pubblici dal ministero dell’Istruzione, liste di nominativi che appaiono e scompaiono per poi essere nuovamente consultabili nel portale del Miur. Fughe di notizie.
Concorso presidi, troppe anomalie: tra commissari ubiqui, ricorsi e fuga di notizie. L'Espresso ha scoperto una lunga serie di presunte irregolarità sulla prova per i nuovi dirigenti scolastici. A cui ha partecipato anche la deputata M5S Azzolina, membro della commissione istruzione. L'inchiesta integrale sul nuovo numero e in anteprima per i nostri abbonati. Elena Testi il 31 maggio 2019 su L'espresso. Un concorso. Una lunga lista di presunte irregolarità. E una valanga di ricorsi al Tar che potrebbero invalidare l’ultima selezione pubblica per dirigenti scolastici andata in scena su tutto il territorio nazionale lo scorso 17 ottobre. Doveva essere il primo concorso inaugurato dalla reggenza di Marco Bussetti al ministero dell’Istruzione, ma rischia di tramutarsi in un boomerang tra membri di commissione con il dono dell’ubiquità, fughe di notizie, software impazziti durante la prova scritta, dispositivi elettronici utilizzati dai candidati e senatrici della forza di Governo pronte a fare ricorso contro il Miur per prendere parte alla selezione. L’Espresso nell'inchiesta in edicola da domenica 2 giugno e in anteprima per gli abbonati su Espresso + , è in grado di pubblicare la documentazione che svela tutte le anomalie. Ed è così che si scopre che i componenti di alcune sottocommissioni erano presenti in due posti differenti alla stesso orario, come ad esempio il sindaco di Alvignano Angelo Francesco Marcucci, che, mentre correggeva gli scritti, presiedeva alla stesso orario anche la seduta della Giunta comunale. Tra doni di preveggenza e ubiquità, spuntano anche voti emessi prima della correzioni degli scritti.
Gli enigmi da sciogliere sono molteplici, come quello della fuga di notizie. Nickname in grado di diffondere i risultati venti giorni prima del Ministero dell’Istruzione. E ancora: un software, quello prodotto da Cineca, azienda partecipata dal ministero di Viale Trastevere, che ha dato segni di follia durante la prova scritta, cancellando a metà alcuni esami. Bocciato con una sentenza del Tar già nel 2016, abolito nei test di medicina perché considerato inattendibile e nonostante questo utilizzato dal Miur per la selezione dei dirigenti scolastici. Tra i partecipanti alla prova anche Lucia Azzolina , deputata del M5S e membro della commissione istruzione, che alle nostre domande ha risposto con prudenza, affermando: «Sarà al magistratura a decidere». Più dura nei confronti della collega di partito Gelsomina Vono, bocciata alla prova pre-selettiva ha fatto ricorso al Tar per essere ammessa agli iscritti. «Io non lo avrei mai fatto da cittadina privata, figuriamoci da onorevole della Repubblica italiana», ha commentato sempre l’Azzolina. Eppure l'Italia necessita di nuovi dirigenti scolastici qualificati. A dirlo sono i numeri: sono 6.300 quelli in servizio con 400 pronti ad andare in pensione, a fronte di una richiesta di 8000 presidi per 8.500 scuole. Scuole che potrebbero però pagare le conseguenze di un concorso tutto da chiarire.
Concorso dirigenti scolastici, nuovo ricorso: «troppe differenze nei voti». Pubblicato giovedì, 30 maggio 2019 su Corriere.it. Non c’è pace per il concorso per i dirigenti scolastici - ne saranno assunti circa 2900 che stanno affrontando le prove orali - che è alle battute finali. Dopo il ricorso sul rinvio della prova scritta in Sardegna a causa dell’allarme meteo lo scorso inverno, spunta una nuova denuncia firmata da 271 aspiranti presidi. Contestano il fatto che nelle correzioni degli scritti ci sia una enorme differenza di punteggio assegnato a seconda della commissione che ha corretto i compiti: «Essendo i compiti corretti random, i risultati delle commissioni dovrebbero essere simili e discostarsi di poco dalla mediana - spiega una delle professoresse ricorsiste - invece, in particolare la commissione 30 ha dato voti molto bassi rispetto alle altre». Non solo, dal verbale di una commissione emerge che 5 dei 300 compiti sono stati ricorretti una volta che si sono conosciuti i nomi dei candidati (che in una prima fase sono rappresentati da codici) e i voti sono stati alzati e addirittura raddoppiati. Queste sono alcune delle incongruenze che i professori ritengono di aver riscontrato sottoponendo i verbali delle commissioni ad un calcolo statistico approfondito e che hanno rilevato nella loro denuncia alla magistratura. Intanto il concorso va avanti. Del resto una via d’uscita eventuale c’è già, che permetterebbe di evitare di far saltare tutto il concorso in caso di accoglimento delle istanze dei ricorsisti e al netto della procedura penale che eventualmente ne seguirebbe. E’ stato studiato, dopo il ricorso sul caso Sardegna. Il bando infatti prevedeva una prova scritta contestuale in tutta Italia, che il maltempo in Sardegna ha impedito. L’idea dei tecnici del Miur è che invece di annullare il concorso, in caso di accoglimento del ricorso, si procederà ad una prova «sanatoria» che consentirà a tutti coloro che hanno «partecipato» agli scritti di poter essere messi in graduatoria, come se li avessero passati. Intanto, di presidi c’è bisogno nei prossimi tre anni ben oltre la quota di 2900.
· Concorso prof 2018: gli ultimi saranno i primi.
Concorso prof 2018, la beffa dei più bravi scavalcati dagli ultimi in classifica. Pubblicato venerdì, 05 luglio 2019 da Orsola Riva su Corriere.it. Concorso che vai, pasticcio che trovi. L’ultimo caso riguarda il concorso 2018 per docenti di scuola media e superiore dove, per un complicato intreccio di ritardi amministrativi e rattoppi peggiori del buco, i più bravi - i primi in graduatoria - rischiano di essere scavalcati da chi ha ottenuto un punteggio più basso di loro. Vediamo perché. Il concorso in questione è stato bandito il 1° febbraio dell’anno scorso dall’ex ministra Valeria Fedeli per assicurare una cattedra a tutti e solo i supplenti che oltre ad avere anni di servizio alle spalle avevano anche un’abilitazione in tasca (non importa se frutto di una selezione rigorosissima o presa in Romania). In base al bando sarebbero stati tutti (nessuno escluso) inseriti in una graduatoria di merito da cui poi sarebbero stati assunti. Un concorso senza bocciati insomma. Per passare, bastava presentarsi all’orale tenendo una lezione simulata e rispondere a delle domande di inglese di livello B2 (quello appena sotto l’«advanced», per capirci). Peccato che a causa dei ritardi nella formazione delle commissioni (i compensi erano così bassi che reperire i commissari ha richiesto tantissimo tempo - alcune commissioni non si sono ancora riunite!), la pubblicazione delle graduatorie dei vincitori abbia subito enormi ritardi. E così a settembre dell’anno scorso solo 6.748 vincitori hanno potuto iniziare il loro anno di prova, mentre quasi altrettanti (5.642) hanno perso il treno per entrare di ruolo (dati Uil). Un danno per loro ma anche per le scuole che sono state costrette a prendere dei supplenti al posto loro. Non per nulla delle 56 mila assunzioni autorizzate dal Mef per il 2018 metà sono andate deserte. Per tutelare in qualche modo i malcapitati, il Miur - con un decreto ad hoc firmato a settembre scorso dal ministro Marco Bussetti - ha deciso di accantonare i posti residui del contingente 2018 in modo che fossero a loro disposizione quando finalmente a settembre 2019 sarebbero stati assunti. Solo che nel frattempo, da gennaio in poi, si sono liberati moltissimi altri posti per via dell’onda lunga dei baby boomers che vanno in pensione e del Quota 100. Col risultato paradossale che quelli che avevano un punteggio più basso ma nel frattempo, grazie allo scorrimento delle graduatorie, hanno ottenuto il diritto a salire in cattedra, avranno la possibilità di trovare un posto molto più vicino a casa. Una disparità di trattamento - un’ingiustizia - denunciata non solo dai diretti interessati ma anche dai sindacati confederali (Cgil Cisl e Uil) che, in un incontro al Miur il 2 luglio scorso, hanno chiesto al ministero di ripensare la procedura in modo che anche chi ha l’unica «colpa» di essere più in alto in graduatoria abbia la possibilità di scegliere su tutte le cattedre che si sono liberate nel frattempo. Il Miur ha preso tempo e rinviato la questione alla prossima riunione del 12 luglio anche se dalla Uil si dicono fiduciosi nella possibilità di una soluzione a breve, «anche per evitare inutili contenziosi che vedrebbero l’Amministrazione soccombente».
· Lauree facili per i poliziotti.
Indagini sulla Link: due poliziotti nei guai per gli esami facili. Accertamenti dei pm su un corso-fantasma che garantiva agli iscritti le risposte ai test, scrive Luca Fazzo, Sabato 06/04/2019, su Il Giornale. Porta dritta ai vertici del Siulp, il più importante sindacato dei poliziotti italiani, l'inchiesta della Procura di Firenze sugli «esami facili» che centinaia di agenti di Ps hanno potuto sostenere presso la Link Campus University, l'ateneo caro al Movimento 5 Stelle ma anche all'universo della nostra intelligence. Due poliziotti in servizio nel capoluogo toscano sono finiti nel registro degli indagati per avere passato sottobanco ai loro colleghi le domande che sarebbero state rivolte durante gli esami della Link. Sembrerebbe uno scambio di favori tra colleghi, ma non è così. E a farlo intuire è una mail del luglio scorso, di cui il Giornale è in possesso, inviata ai poliziotti che frequentavano i corsi. L'accordo tra Link e Siulp è un accordo alla luce del sole: grazie alla convenzione, gli agenti che vogliono laurearsi per poi partecipare al concorso per ispettore possono farlo a un prezzo ridotto. E fin qui tutto bene. Il problema è un corso in Human Security che i poliziotti possono frequentare e che consente di saltare un bel po' di esami della Link accedendo direttamente al secondo anno. Ma il corso va pagato a un'altra società. Un anno fa, il Giornale scopre che i poliziotti devono versare i soldi su un conto corrente di San Marino intestato a una fondazione, la Hero: come eroe. Di chi è questo conto? La Link dice di non saperne niente. I vertici del Siulp escludono di possedere conti a San Marino, e minacciano querele. Il 18 luglio scorso, dopo che gli articoli del Giornale avevano sollevato il caso - facendo indignare anche il capo della polizia, Franco Gabrielli - qualcuno decide di correre ai ripari. E ai poliziotti iscritti al corso di Human Security arriva una mail che indica un nuovo conto su cui versare la retta: non bisogna mandare più i soldi a San Marino, ma su un conto - di cui viene fornito l'Iban - al Credito Emiliano di via Emanuele Filiberto, a Roma. Il conto è intestato alla L.S. Servizi srl. Di cosa si tratta? Basta una visura camerale per scoprire che l'amministratore unico è Felice Romano, il potente segretario nazionale del Siulp. Quello che dei soldi a San Marino diceva di non sapere niente, ma che adesso incamera gli stessi soldi per gli stessi corsi. Il corso di Human Security, a quanto sta emergendo, è una scatola vuota: poliziotti-alunni interrogati recentemente «non hanno assistito a nessuna lezione, non si sono mai recati a Roma, non hanno visto mai nessun professore ma solo i due soggetti che si definivano tutor e/o professori». Per un po' uno di questi tutor è stato il figlio di Sandro Pisaniello, segretario amministrativo del Siulp. L'ipotesi della Procura di Firenze è che la retta pagata per il corso di Human Security garantisse ai poliziotti di conoscere in anticipo quali argomenti sarebbero stati trattati durante le prove d'esame alla Link. E anche questa ipotesi trova conforto in documenti che il Giornale ha a disposizione, mai smentiti. Sono messaggi contenuti nelle chat di due esponenti del Siulp a Firenze, Marino Spagna e Alessandro Benucci. Il 28 settembre 2017 Spagna comunica ai colleghi che per l'esame di analisi strategica gli converrà presentarsi ferrati in «geopolitica aerospaziale, geopolitica delle religioni, geopolitica cinese». Benucci due mesi dopo dà consigli ancora più precisi in vista dell'esame di organizzazioni internazionali. Per frequentare il corso-fantasma, i poliziotti (e in tutta Italia si parla di centinaia di casi) hanno pagato la retta: prima a San Marino, alla Banca Agricola Cooperativa, sul conto della Hero (controllata al 100 per cento da una fiduciaria, dietro la quale non si sa tuttora chi si celi); poi alla srl romana amministrata dal leader del Siulp. E a rendere tutto più complesso - o forse più chiaro - c'è il dettaglio che a indicare ai volonterosi colleghi il conto di San Marino era stato lo stesso poliziotto sindacalista che poi mandava anche le «dritte per passare gli esami: è Spagna il 27 febbraio 2018 a girare agli iscritti «l'iban che mi ha inviato Sandro Pisaniello, presidente della fondazione Link». Lo stesso Pisaniello che gestisce la cassa del Siulp.
COME SCOTTA L'UNIVERSITÀ DI SCOTTI - ''LAUREE FACILI PER I POLIZIOTTI''. Gerardo Adinolfi e Luca Serranò per ''la Repubblica - Firenze'' il 6 aprile 2019. Un corso di perfezionamento per bypassare gli esami del primo anno e approdare direttamente al secondo, che sarebbe stato superato dagli studenti- poliziotti senza partecipare a una lezione e senza vedere alcun professore, ma solo inviando per mail una tesina di poche pagine. Non solo. Anche esami sostenuti in sedi considerate " non idonee", come una stanza nel mercato ortofrutticolo della Mercafir a Firenze, con domande in alcuni casi anticipate ai candidati su una chat di Whatsapp. Un' inchiesta della procura di Firenze accende i riflettori su presunte lauree facili per gli agenti di polizia iscritti alla Link Campus University, l' università privata con sede a Roma creata nel 1999 dall' ex ministro democristiano Vincenzo Scotti. La Link Campus, nata come filiale dell' Università di Malta e poi, dal 2011, riconosciuta come università non statale dal ministero dell' Istruzione, dell' università e della ricerca, è salita alla ribalta delle cronache perché considerata vicina al mondo del Movimento 5 Stelle. Quando, prima delle ultime elezioni politiche, Luigi Di Maio presentò la sua squadra di governo in caso di vittoria, tra i papabili ministri c' erano anche alcuni docenti della Link. Come Elisabetta Trenta, poi effettivamente diventata ministra della Difesa del governo gialloverde. Alla Link era vicedirettrice del Master in Intelligence and Security. Ma questa su cui indaga la procura di Firenze è tutta un' altra storia, ancora agli inizi e con una verità ancora tutta da accertare. La pm Christine Von Borries vuole capire se davvero, dal 2017 al 2019, ci siano stati degli illeciti nello svolgimento del corso e degli esami destinati agli agenti. E così ha delegato accertamenti alla Guardia di finanza per verificare, tra le altre cose, se davvero questi - 23 tra poliziotti in servizio in Toscana e loro parenti che si sono iscritti nel 2017 e una quindicina nel 2018 - abbiano goduto di una corsia preferenziale. Sul registro degli indagati sono finite tre persone, accusate di falso ideologico e abuso d' ufficio: un poliziotto della questura di Firenze che secondo la procura ha fatto da raccordo tra gli altri colleghi e l' università e che, secondo un testimone, avrebbe anticipato su Whatsapp le domande scritte degli esami, e due persone definite i tutor della Link e che avrebbero assistito gli allievi nel percorso formativo. E di cui, secondo le accuse, « non si ha prova che rivestano il ruolo di professori universitari ». La Finanza ha perquisito la casa degli indagati, alcuni uffici della Link e quello della questura di Firenze in uso al poliziotto, a caccia dei telefoni cellulari e di tracce, come messaggi su Whatsapp, che potrebbero essere utili alle indagini. L' inchiesta è partita da alcune testimonianze raccolte dalla procura. L' attenzione degli investigatori si è concentrata sul corso Human security, la cui quota secondo i testimoni costava 600 euro e veniva pagata su un conto a San Marino intestato alla Fondazione sicurezza e libertà. Un corso, secondo l' accusa, riconosciuto dalla Link e che permetteva, a coloro che lo frequentavano, di essere « dispensati da 5/ 6 esami del primo anno » della laurea triennale in " Scienze della politica e dei rapporti internazionali". I poliziotti, si legge nel decreto di perquisizione, per superare il corso di perfezionamento « non hanno mai assistito a nessuna lezione, non si sono mai recati a Roma, non hanno visto mai nessun professore, ma solo i due soggetti indagati che si definivano tutor- professori». Per gli esami, invece, «hanno sostenuto scritti preparati online sulla base di testi e indicazioni trovati sul sito, presso delle stanze individuate da questi tutor a volte dentro il mercato ortofrutticolo, altre in Palazzo Strozzi » . Nonostante la diversità delle materie, come l' inglese o il Diritto costituzionale, le prove sarebbero inoltre state sempre sostenute «alla presenza di una sola persona (uno dei tutor) o a volte di un assistente non meglio identificato». Nessuna contestazione viene rivolta al Siulp, il sindacato più rappresentativo della polizia che ha stipulato la convenzione con l' ateneo e a cui è iscritto l' agente indagato.
Gianluca Di Feo per ''la Repubblica - Firenze'' il 6 aprile 2019. Ma dove finisce l' ateneo privato e dove comincia lo Stato? L' indagine fiorentina sulle lauree "agevolate" per gli agenti di polizia ripropone il grande dilemma dell' università Link Campus. L' invenzione di Vincenzo Scotti, storico leader democristiano ed ex ministro dell' Interno, è talmente incastonata nel cuore del potere romano da esserne diventata un punto di riferimento. Persino il Movimento 5Stelle ne ha subito il fascino, selezionando dai suoi ranghi la ministra della Difesa e altre figure chiave dell' attuale esecutivo. Ma ogni settimana gli eventi dell' ateneo sono affollati di parlamentari e grand commis: una platea bipartisan e trasversale, un po' come gli organismi che sovrintendono alle attività della Link. Ci sono ex uomini di governo di destra e sinistra, alti magistrati in servizio e soprattutto dirigenti degli apparati di sicurezza. L' università ha sviluppato una vera passione per il settore, con una vasta offerta di master dedicati all' intelligence, alla cyberprotezione, al controllo dei flussi migratori. Il corpo docente è letteralmente un corpo speciale, che raccoglie personaggi di primissimo piano, in servizio o in pensione, del Viminale o dei Servizi Segreti: ci sono nove tra prefetti, generali e 007, incluso il numero due del Dis, la Direzione che coordina tutta l' intelligence italiana. Una parata prestigiosa che appare stonata rispetto al business dell' università, con uno statuto che affida la gestione a una società privata e quindi al profitto. L' ateneo infatti è sorto nel 1999 per iniziativa del Cepu, il più famoso esamificio a pagamento, e riconoscimento solo della Malta University. A promuoverlo come università italiana fu il ministro Ortensio Zecchino, che oggi è ai vertici della stessa Link. Uno dei modelli di crescita più fortunato sono le convenzioni con categorie professionali o enti pubblici, garantendo - lecitamente - una serie di agevolazioni nel corso di studio a chi si iscrive: lo stesso meccanismo usato dal sindacato di polizia Siulp e adesso al centro dell' indagine fiorentina. In passato però questo schema aveva già provocato l' intervento della magistratura, con un' indagine sui rapporti con i vertici del ministero dell' Agricoltura e il sospetto di lauree concesse con troppa rapidità. Ci sono poi state proteste di insegnanti che non ricevevano i compensi dall' ateneo, rimostranze accolte solo dopo un' interrogazione parlamentare proprio dei 5Stelle. E infine l' attenzione per gli ultimi cambiamenti della compagine azionaria, con l' acquisto di quote da parte di un avvocato svizzero con base a Londra e molto attivo nelle relazioni energetiche con Mosca. Uno dei capitoli fondamentali dell' inchiesta sui rapporti tra Donald Trump e la Russia passa proprio dalla Link, dove insegnava un misterioso professore maltese che per primo avrebbe offerto allo staff dell' allora candidato presidenziale le mail trafugate alla sua rivale Hillary Clinton. Grandi e piccole storie che si intrecciano nelle aule dell' ateneo romano, aumentando le perplessità sulla presenza di prefetti, spie e generali in un' università nata per perseguire finalità assai diverse dalla tradizionale accademia.
· La maturità (a buon mercato).
«Il prof pagato per fare il compito della Maturità al posto degli studenti». Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Corriere.it. Una lettera anonima all’Ufficio territoriale scolastico, l’ex Provveditorato, scritta probabilmente da un gruppo di genitori (anche se sugli autori non possono esserci certezze), ha portato la Procura della Repubblica di Bergamo ad aprire un fascicolo con l’ipotesi di concussione, al momento a carico di un professore di matematica. Un caso tutto da capire, riportato nella mattinata di oggi dal settimanale Bergamopost. La lettera, ricevuta dall’Ufficio scolastico poche ore prima delle prove di matematica del 20 giugno, spiegava che, se gli ispettori del ministero si fossero presentati all’Istituto Aeronautico Locatelli (tra i più noti nel particolare settore a livello nazionale) avrebbero trovato un docente di matematica, commissario interno, a svolgere il compito in aula, proprio durante la prova degli studenti. Gli ispettori, entrati al Locatelli, hanno trovato in effetti l’insegnante alla cattedra, che stava lavorando sul primo quesito di matematica, su un foglio. La prova è stata interrotta, il professore allontanato e sostituito: è un ingegnere che da dicembre era entrato in servizio a scuola, in sostituzione di una docente di ruolo. C’è però un altro elemento che ha sollevato parecchie perplessità, tanto che subito dopo gli ispettori a scuola sono arrivati anche i militari della Guardia di finanza, del gruppo di Bergamo: nella lettera anonima si parlava anche di 500 euro «in contanti» — questa l’espressione utilizzata nella missiva misteriosa — chiesti ad alcuni studenti come «sostegno per il lavoro dei commissari interni». Un’accusa precisa, per quanto anonima, che unita all’altra curiosa circostanza del professore effettivamente seduto alla cattedra a svolgere il compito, ha portato la Finanza e la Procura su una strada obbligata: l’apertura di un’inchiesta con l’ipotesi di concussione. Al momento l’unico indagato è il docente. La campanella della scuola è suonata da un pezzo. Ora c’è quella dell’allarme, giudiziario però. Per i prossimi giorni i finanzieri di Bergamo hanno programmato una serie di interrogatori, con docenti e studenti. Il preside, Giuseppe Di Giminiani, difende l’istituto: «Nulla di vero in tutte queste pseudo accuse». Mentre il docente dice: «Volevo solo portarmi avanti con il lavoro di correzione del compito di matematica, che ci sarebbe stato il giorno dopo. Mai sentito parlare di 500 euro in contanti»
Da Lugano a Pomigliano d'Arco, per fare la maturità (a buon mercato). Ogni anno decine di studenti partono dal Ticino per diplomarsi a Napoli. Lo scandalo delle promozioni assicurate sta scuotendo la Svizzera, scrive Elisabetta Burba il 15 febbraio 2019 su Panorama. «Si rivolga al mio avvocato». Così risponde Silvana Giunta, la preside dell'istituto Fogazzaro di Lugano, in Ticino, quando Panorama la chiama per un'intervista. Ma chi è il suo avvocato? «Non mi interessa» è la sconclusionata risposta della preside. L'imbarazzo corre sul filo. In effetti, di motivi per sentirsi a disagio Silvana Giunta ne ha in abbondanza: la sua scuola è al centro di uno scandalo che sta scuotendo tutta la Svizzera. Per sostenere la maturità, gli studenti dell'istituto Fogazzaro si trasferiscono in massa in Italia, in una scuola dove la promozione è garantita. E con quel diploma, riconosciuto in patria in virtù di accordi bilaterali, possono poi accedere alle università svizzere. Apriti cielo! La vicenda ha indotto il Dipartimento dell'Educazione (Decs) ad aprire un'inchiesta amministrativa sul Fogazzaro, che è stato costretto a sospendere le lezioni. Non bastasse, il deputato ticinese dell'Udc Tiziano Galeazzi ha presentato sulla vicenda un'interrogazione al Consiglio di Stato. Ma andiamo per ordine. Da cinque anni a questa parte, ogni estate 80/90 studenti ticinesi varcano il confine per venire in Italia a sostenere l'esame di maturità. E non si fermano a Como o a Varese. Proseguono per 800 e passa chilometri fino a raggiungere Pomigliano d'Arco. Proprio così: la città in periferia di Napoli, dove si è formato il vice-premier Luigi Di Maio, è diventata il diplomificio degli studenti ticinesi in affanno. A conferire loro l'agognato titolo di studio è l'Istituto Giuseppe Papi. Su Internet si presenta come «un centro di studi moderno e all'avanguardia» che offre vari indirizzi, dal liceo scientifico all'istituto professionale per i servizi socio-sanitari. Eppure già in passato era finito nei guai. «A seguito di irregolarità» di natura didattica e amministrativa accertate durante un'ispezione, il 12 aprile 2016 il ministero dell'Istruzione gli aveva revocato la «parità scolastica». Il provvedimento era poi stato sospeso, perché la scuola aveva presentato un ricorso (accolto) al Tar. Ma l'Ufficio scolastico regionale non si era dato per vinto. Dopo aver fatto ricorso al Consiglio di Stato, aveva effettuato un'ulteriore ispezione relativa all'anno scolastico 2017-2018. Anche in questo caso, gli ispettori avevano rilevato irregolarità e si erano ripromessi di svolgere ulteriori verifiche. Non è finita. Lo scandalo delle maturità truccate al Giuseppe Papi è finito anche nel mirino della Procura di Nola, sollecitata da un esposto di Valeria Ciarambino, consigliera regionale della Campania del MoVimento Cinque stelle. «Dalle informazioni si apprende di gravi irregolarità avvenute presso il Papi nel corso degli esami» si legge nell'esposto, datato 5 ottobre 2018. «Si parla di esami scritti in cui vengono passate sottobanco tracce dei temi, soluzioni dei problemi e risposte sussurrate agli orali e che a fornire queste facilitazioni sono i docenti interni». Prima dell'esposto, la consigliera aveva scritto all'Istituto scolastico regionale per informarsi sui motivi che avevano portato alla revoca della parità dell'Istituto Papi. Lo scorso 13 febbraio lo scandalo è approdato anche in Parlamento, con un'interrogazione a prima firma della deputata campana Virginia Villani. Quello dell'istituto Giuseppe Papi non è un caso isolato. Negli ultimi 10 anni varie scuole parificate della Campania (la più nota è il Voltaire di Secondigliano) sono finite al centro di inchieste giudiziarie, con tanto di arresti, perché garantivano a studenti di tutta Italia la promozione alla maturità in cambio di denaro. «In alcune indagini si parla di un vero e proprio prezzario dei diplomi, del valore di migliaia di euro» precisa la consigliera Ciarambino a Panorama. «Solo nel primo semestre del 2016, in tutta Italia sono stati chiusi 27 diplomifici. E' un problema endemico. E la mia denuncia nasce dall'auspicio che questo cancro possa essere debellato, perché l'istruzione rappresenta il futuro del nostro Paese». Finora non era mai saltato fuori, però, che gli studenti arrivavano anche dall'estero. «Maturità alla napoletana» è il titolo dell'inchiesta andata in onda il 24 gennaio sulla televisione della Svizzera italiana Rsi. «Da Lugano a Napoli, 850 km per una maturità a buon mercato» denuncia il giornalista Gianni Gaggini. «Perché una sede così lontana, scomoda e anche molto costosa? Il trucco c’è ed è clamoroso. L’inchiesta della trasmissione Falò, basata su testimonianze dirette e prove documentali, scoperchia un episodio sconcertante: esami truccati, risposte passate agli studenti, aiuti sottobanco per una promozione assicurata». Con un pregevole lavoro d'inchiesta, Gaggini ha svelato che un «anno-passerella» fra Lugano e Pomigliano, con tanto di esami, costa più o meno 15.000 franchi svizzeri (oltre 13.000 euro). Il pacchetto comprende tre viaggi a Napoli, più vitto, alloggio e spese extra per 10 giorni, oltre a 8.500 franchi (7.500 euro) di retta annuale e ai 3.000 euro di quota esame. Già, la quota esame. Alcuni testimoni raccontano davanti alla telecamera che i 3.000 euro sono pagati in contanti, con una busta che viene consegnata a un «signore con i capelli rossicci» della scuola di Napoli, che «viene a prenderli con una valigetta nera». Commento del giornalista Gaggini: «Una bella somma, che difficilmente al rientro in Italia poteva passare la frontiera, visto il limite di esportazione di 10.000 euro in contanti». Accuse pesanti... Come risponde l'Istituto Giuseppe Papi? Panorama contatta anche l'istituto campano, chiedendo del preside. «No, guardi, al momento non c'è» risponde una voce femminile. E' possibile parlargli più tardi? «Grazie. Ci sentiamo» è la laconica risposta. Mah, pronto, pronto... «Arrivederci, buona giornata». Klack. Da Lugano a Pomigliano, la risposta è sempre la stessa: una cornetta riagganciata.
· La grande menzogna della meritocrazia.
La grande menzogna della meritocrazia. Chi è povero resta povero, scrive l'8 febbraio 2019 Cristiano Puglisi su Il Giornale. “Se ci si impegna si arriva dove si vuole”. “Tutto è possibile, basta crederci e lottare”. Frasi come queste, nell’odierna società liberal-capitalista, sono state assimilate come valori condivisi. Sono la base di quel concetto chiamato “meritocrazia”, per il quale, nella società contemporanea, priva di caste e rigide divisioni gerarchiche, i meritevoli ottengono sempre un risultato. Ma è davvero così? Se sicuramente questa dinamica è stata realistica nel dopoguerra, quando le economie miste dell’Europa occidentale offrivano a tutti una possibilità di crescita dopo le miserie del conflitto, e il “boom” economico guidava lo sviluppo di un benessere diffuso, oggi, nella società del liberismo assoluto, che produce una concentrazione della ricchezza verso l’alto, i dati sembrano riferire una realtà diversa. Secondo l’OCSE, in un Paese sviluppato (si parla proprio del nostro idolatrato Occidente, Italia ma anche Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna...) , per un bambino nato in una famiglia a basso reddito, sono oggi necessarie mediamente ben cinque generazioni prima che un suo erede possa entrare nella cosiddetta “classe media”. Cinque generazioni. In termini di tempo, si tratta, all’incirca, di un secolo e mezzo. Un’infinità di tempo. E no, non è sempre stato così. Perché sono i stessi dati OCSE a spiegare come, per i nati tra il 1955 e il 1975, l’ascensore sociale fosse più che una bella favola. E non è finita qui. Perché anche la cultura tende ad essere ereditaria. Cosa che peraltro non deve stupire visti i costi di un’istruzione universitaria di buon livello. Si pensi che, in Italia, ben due terzi dei figli di genitori a bassa istruzione conseguono una laurea. E nel resto dei Paesi sviluppati occidentali non va tanto meglio, la media è comunque di circa uno su due. Va beh, dirà qui qualcuno, ma c’è sempre la possibilità di emergere grazie al lavoro. Macché. Secondo dati ISTAT, in Italia tra i giovani tra i 15 e i 34 anni che trovano lavoro quattro su 10 lo trovano con la segnalazione di parenti, amici o conoscenti. Con una disoccupazione giovanile al 40% da anni è abbastanza semplice intuire che chi ha relazioni in grado di procurare un lavoro le ha grazie alla posizione sociale che occupa. E se si pensa che il problema riguardi solo l’Italia si è fuori strada. In sintesi, piove sempre e solo sul bagnato. Fa soldi chi ha soldi per farli, lavora in posti di prestigio chi ha le conoscenze o il potere per arrivarci. Punto. Il resto sono favole per tenere buoni gli “incazzati”. Eppure non c’è giorno in cui qualcuno non ci magnifichi la “meritocrazia”. Che, allo stato attuale, è più che altro uno strumento ideologico, un meccanismo di difesa di un sistema che, come si è già avuto modo di scrivere su questo blog qualche giorno fa, si è ormai completamente incartato, ma che rifiuta di ammetterlo, urlando contro provvedimenti come il reddito di cittadinanza perché sarebbero “anti-meritocratici”. Uno strumento ideologico, la meritocrazia, che, in questo sistema economico in cui l’1% della popolazione mondiale detiene l’82% della ricchezza del pianeta, non può che essere una splendida, ma del tutto inesistente, utopia.
· Per i magistrati i figli e gli amici so’ piezz’ ‘e core.
A processo il pm barese Di Bari. Fece “pressioni” per favorire il figlio, scrive il 30 Settembre 2015 Il Corriere del giorno. I fatti risalirebbero al 2011 e l’inchiesta è stata coordinata dal pm Carmen Ruggiero della Procura della repubblica di Lecce. Un magistrato di Bari sarà processato dai giudici del Tribunale di Bari per una presunta raccomandazione a favore del figlio affinché vincesse un dottorato di ricerca. Si tratta del pm Gaetano Di Bari in attività presso la Procura della repubblica di Bari, che è stato rinviato a giudizio dal gup di Lecce. L’accusa è stata derubricata in tentata induzione indebita a dare o promettere utilità. Secondo l’accusa della procura leccese, il pm Di Bari avrebbero abusato dei suoi poteri per costringere il prof. Antonio Dell’Atti, preside della facoltà di Economia dell’Università di Bari, per favorire la carriera di suo figlio Carlo, dottore di ricerca in diritto commerciale. Obiettivo: farlo diventare ricercatore. Il pm Gaetano De Bari chiaramente ha sempre negato qualsiasi tipo di pressione, ma non ha convinto i giudici leccesi competenti sull’operato dei colleghi baresi. Una cosa è certa se a Taranto si indagasse a fondo sulle “pressioni” che partono dalla Procura per sistemare amici, figli, mariti e mogli, negli enti e società pubbliche, incassando decine e decine di migliaia di euro, allora ci sarebbe da ridere, o meglio da piangere per molti di loro. Chissà che qualcuno del Consiglio Superiore della Magistratura prima o poi si svegli ed aprano gli occhi anche su Taranto. Se non ora, quando?
"Cattedra a mio figlio" pm nei guai, scrivono Gabriella De Matteis e Giuliano Foschini il 17 luglio 2015 su La Repubblica. Un esposto contro i giornali che si occupavano di scandali universitari. Poi una strana vicenda, ancora da accertare, di una presunta raccomandazione per il figlio mista a una presunta rivelazione di segreto di ufficio. Ecco la storia che rischia di diventare l'ennesima bomba all'interno del palazzo di giustizia di Bari. La procura di Lecce ha chiesto il rinvio a giudizio per il sostituto procuratore di Bari, Gaetano de Bari per tentata concussione e rivelazione del segreto istruttorio. Tutto parte da una lettera scritta all'allora procuratore Antonio Laudati dal preside della facoltà di Economia, Vittorio dell'Atti. In quella missiva era raccontata una circostanza che viene poi approfondita e dà appunto il via all'indagine. «De Bari - si legge nell'avviso di conclusione delle indagini firmato dal pm Carmen Ruggiero abusando della sua qualità e dei suoi poteri compiva più atti idoenei a costringere Antonio Dell'Atti e suo figlio Vittorio, preside della facoltà di Economia, ad agevolare la carriera di suo figlio Carlo, dottore di ricerca in diritto commerciale e farlo diventare ricercatore, senza riuscirvi per fatti indipendenti dalla sua volontà». In particolare «De Bari - si legge ancora nell'avviso - dopo essersi recato in più occasioni presso lo studio professionale di Antonio Dell'Atti, con il quale intratteneva rapporti di abituale frequentazione anche conviviale, gli chiedeva espressamente di intercedere per avviare il figlio alla carriera universitaria». In particolare, viene contestata al pm una circostanza: e cioè di aver convocato nel 2011 con un «pretesto Antonio Dell'Atti» per riferirgli alcune circostanze che riguardavano un procedimento penale assegnato a De Bari stesso e che riguardava una ricercatrice e che in qualche modo poteva creare qualche problema al professore. «Per avvalorare quanto rivelato gli mostrava anche un fascicolo della procura (...) e si mostrava disponibile a concordare con lui una soluzione per il procedimento in modo da evitare pregiudizi nei suoi confronti». «Il giorno dopo - si legge ancora nell'avviso -De Bari incontrava di nuovo Antonio, presente anche il figlio Vittorio al quale, dopo aver fatto generico riferimento al fenomeno del clientelismo che a suo dire regolava l'accesso alla carriera universitaria dalla quale venivano esclusi studenti meritevoli » ribadiva che se avesse esercitato l'azione penale contro la ricercatrice «avrebbe potuto derivarne conseguenze pregiudizievoli nei confronti del padre Antonio benchè al momento non fosse indagato». Il pm De Bari ha sempre respinto ogni accusa sostenendo di non aver minimamente mai raccomandato il figlio a nessuno (tanto che non ha avuto alcuna carriera universitaria) nè tantomeno di aver rivelato alcun segreto di ufficio: il contenuto del fascicolo era già noto perchè collegato a un procedimento civile noto a tutte le parti. De Bari ha inoltre spiegato il perchè dell'incontro con i due professori, con i quali ha confermato di avere un'antica frequentazione: proprio per questo, voleva capire se ci fossero state dei motivi di incompatibilità e valutare se potesse continuare a occuparsi del fascicolo che gli era stato assegnato. Sia a Bari sia a Lecce sono poi stati ascoltati i due Dell'Atti che hanno dato una loro versione della storia, senza effettivamente mai accusare direttamente il pm (il fascicolo non è nato da una loro denuncia ma appunta da una lettera contro i giornali nella quale facevano riferimento a questa storia). Le loro parole sono bastate però, prima alla procura di Bari per inviare gli atti a Lecce, e poi al pm Ruggiero per chiedere il processo: dopo alcuni rinvii, il gup dovrebbe decidere a metà settembre.
La replica: rapporto di amicizia con Dell'Atti volevo capire se astenermi dall'indagine.
Lecce, pm arrestato per corruzione: sesso anche per pilotare l’esame da avvocato in programma l’11 dicembre. Dall'ordinanza che ha portato in carcere Emilio Arnesano emerge il tentativo di influenzare la prova dei prossimi giorni. Moneta di scambio nella corruzione, secondo l'accusa, sesso e favori anche spiccioli, come scatole di viagra gratis, scrive Tiziana Colluto il 7 Dicembre 2018 su Il Fatto Quotidiano. L’aiuto durante l’esame da avvocato presumibilmente a fronte della richiesta di rapporti sessuali. Il pm della Procura di Lecce, Emilio Arnesano, da giovedì 6 dicembre nel carcere di Potenza, stava “di recente programmando di interferire sullo svolgimento delle prove scritte”, fissate per la prossima settimana, dall’11 al 13 dicembre. È questo che ha spinto la Procura lucana ad accelerare nella richiesta di custodia cautelare in carcere per il magistrato salentino accusato di corruzione. Dietro le sbarre anche un dirigente della Asl di Lecce, Carlo Siciliano, ritenuto il “trait d’union tra il comitato d’affari della sanità leccese e il magistrato infedele”. Gli interrogatori di garanzia per loro si sono tenuti stamattina, mentre slitteranno a lunedì quelli degli indagati finiti ai domiciliari, il direttore generale Asl Ottavio Narracci, due primari e un’avvocata. Il rischio di influenzare la prova per l’abilitazione alla professione forense avrebbe fatto il paio con il presunto condizionamento di un procedimento disciplinare, la cui discussione in seno all’Ordine degli Avvocati era in programma per ieri. Anche in questo caso, promessa di sesso in cambio di una raccomandazione al presidente del collegio di disciplina. Non solo. Secondo l’accusa, il pm stava tentando di allungare le mani su processi nella titolarità dei colleghi, per aggiustarli. E “recenti captazioni danno proprio atto di un ulteriore e recente accordo corruttivo tra il magistrato e un medico che gli fornisce gratuitamente medicinali (viagra) per pilotare, secondo il consolidato metodo di sostituzione in udienza, l’ennesimo procedimento penale, a carico del figlioccio del sanitario”. Tutto da provare. Sono queste, però, le motivazioni alla base dell’ordinanza di custodia cautelare emanata dopo appena quattro mesi di indagini. Che ora sono destinate ad allargarsi, “con l’emersione di ulteriori protagonisti di questo sistema di corruttela (ad es. altri sanitari per condizionare ulteriori processi penali, avvocati per avvantaggiare propri praticanti nel superamento delle imminenti prove scritte)”. “Verosimilmente, i procedimenti emersi in questi pochi mesi come oggetto di scambi corruttivi – scrive, infatti, il gip Amerigo Palma – potrebbero non essere gli unici ad aver subito gli effetti destanti e rovinosi del metodo delinquenziale con cui Arnesano ha svolto le funzioni di pm”. Tanti gli episodi riportati, alcuni recentissimi. Tra i più significativi, ci sono proprio quelli relativi all’imminente esame di abilitazione alla professione forense. Il 27 novembre scorso, viene registrata la conversazione tra il pm Arnesano e un avvocato, G.G.: il legale chiede al magistrato di poter intervenire per far superare l’esame ad una sua praticante. Arnesano gli risponde che ha appena fatto lo stesso all’esame orale con una donna raccomandata da una sua conoscente, cioè l’avvocata Benedetta Martina, con la quale intrattiene rapporti intimi. “Un’ammissione di pubblico dominio, nei confronti di terzi non coinvolti direttamente in tale vicenda, particolarmente grave per la lesione dell’immagine della magistratura, professandosi appunto come sicuro riferimento per quanti volessero indebitamente ottenere vantaggi in cambio di rapporti sessuali”, è quanto annotano gli inquirenti lucani. Aggiunge, infatti, Arnesano che “aveva accettato la richiesta di aiuto a condizione che potessero concedersi a lui sia l’avvocato in questione che la candidata all’esame”, effettivamente poi superato. Nel caso della raccomandazione proposta da G.G., il magistrato chiede di incontrare la giovane, “verosimilmente per accertare di persona le fattezze di questa”. Dopo averla conosciuta, si dimostra ben disposto “ad avvicinare uno dei commissari”, un suo collega. Come fare a influenzare l’esame? Il metodo è rodato, a quanto pare: G.G. confida ad Arnesano di essere già riuscito in passato “a intervenire sulla prova scritta di alcuni candidati, facendo loro scrivere, sull’elaborato, delle frasi concordate che permettevano al commissario di turno da lui avvicinato di poter riconoscere le persone”. La sponsorizzazione di una donna all’esame orale, poi, riempie diverse pagine dell’ordinanza. È, come detto, amica dell’avvocato Martina (finita ieri ai domiciliari), quest’ultima professionista che “non esita ad avere plurimi rapporti sessuali con l’Arnesano – scrive il gip – pur ammettendo esplicitamente con F.N. (la candidata) la propria ripugnanza fisica per il magistrato”. Anche per F.N. il baratto sarebbe dovuto consistere in un rapporto intimo e quando chiede a Martina come comportarsi con lui, lei le risponde: “Vattene conciata, tieni conto che Arnesano si butta eh (…) ogni volta per evitarlo che schifo perché poi è viscido, che schifo”. Tante, insomma, le ombre proiettate dall’inchiesta lucana su colui che viene definito come un “sostituto procuratore del tutto privo di qualsiasi freno inibitorio” e che “si rendeva responsabile, a getto continuo, di molteplici episodi di corruzione e abuso, prostituendo l’esercizio della sua funzione in cambio di incontri sessuali ed altri favori”. Anche spiccioli. “Deve evidenziarsi – si legge nelle carte – come il non particolare valore dei favori ottenuti (ad esempio scatole di viagra) corrisponda non ad una minore tenuità delle sue condotte, ma piuttosto, ad una sua più accentuata pericolosità: svendere la funzione giudiziaria per un approccio sessuale, per una battuta di caccia o per ottenere significativi sconti nell’acquisto di barche, appare il segno di una personalità ormai criminale”. Ora le indagini saranno estese anche agli altri fascicoli ancora sulla scrivania e “per i quali vi sia il sospetto che siano stati utilizzati come strumento per ottenere favori”.
«Lei era disposta a tutto il giudice raccomandava» Interdizione a due avvocati, scrive Erasmo Marinazzo su quotidianodipuglia.it Giovedì 27 Dicembre 2018. Interdetto per due mesi l'avvocato Augusto Conte, 77 anni, di Ceglie Messapica, da componente del Consiglio distrettuale di disciplina. Per l'ex presidente del Consiglio dell'Ordine di Brindisi, la misura arrivata dal Tribunale di Potenza dice che «si mostra servile verso Arnesano (il pubblico ministero della Procura di Lecce, Emilio Arnesano, ndr) verso la sua proposta: ha trovato il modo di farselo amico e si pone nella condizione di potergli chiedere in futuro un favore. E' evidente che essendo Conte un avvocato e lui un pubblico ministero, l'occasione si porrà presto». Un anno, invece, la sospensione disposta per l'avvocatessa Federica Nestola, 32 anni di Copertino, dall'esercizio dell'attività forense: «Ha dimostrato di essere un soggetto disposto a tutto, pur di fare carriera: costei tanto timorosa di affrontare la prova orale dell'esame di avvocato, peraltro per non aver studiato nulla, non ha alcun timore di presentarsi nella stanza di un giudice per accordarsi con lo stesso». Questo uno dei passaggi dell'interdittiva. Che entra anche nel merito della professione legale per motivare la sospensione dell'avvocatessa: «...attesa la impreparazione professionale e la possibilità di esercitare la professione forense, ovvero di partecipare a concorsi pubblici dopo avere conseguito illegittimamente l'iscrizione all'albo». Le misure sono quelle dell'ordinanza del giudice per le indagini preliminare, Amerigo Palma, e riguardano due episodi dell'inchiesta che con il blitz del 6 dicembre ha colpito i vertici della Asl di Lecce e il magistrato salentino: la raccomandazione che l'avvocato Conte avrebbe accettato dal pm Arnesano per non dare seguito al procedimento disciplinare a cui è sottoposta l'avvocatessa Manuela Carbone. E ancora una raccomandazione: consistente - questa l'accusa dell'inchiesta del pubblico ministero Veronica Calcagno e della Guardia di finanza di Lecce - nell'avvicinare i componenti della Commissione della prova orale per l'abilitazione forense (sessione 2017) per ottenere la promozione dell'avvocatessa Federica Nestola alla sua ultima chanche dopo cinque bocciature (la prova non può essere più ripetuta dopo la sesta volta). Perché il magistrato si sarebbe mostrato tanto benevole con la giovane avvocatessa? Perché avrebbe posto sempre come condizione quella di avere favori sessuali. Dunque, infligge, ancora un duro colpo alla deontologia professionale di alcuni esponenti dei fori di Lecce e di Brindisi (nonché ancora al pm Arnesano) la seconda ordinanza del giudice Palma. Un atto che arriva dopo quello che il 6 dicembre ha visto finire in carcere il pm Arnesano, 61 anni di Carmiano (difeso dagli avvocati Luigi Corvaglia e Luigi Covella); e il direttore del dipartimento di Medicina del lavoro dell'ospedale Vito Fazzi, Carlo Siciliano, 62 anni di Lecce (difeso dall'avvocato Luigi Rella, giovedì scorso ha ottenuto i domiciliari). Ai domiciliari sono finiti il direttore generale della Asl, Ottavio Narracci, 59 anni, di Fasano (avvocati Ubaldo Macrì e Gianni De Pascalis); i dirigenti Asl Giorgio Trianni (avvocati Luigi Suez e Stefano Chiriatti) e Giuseppe Rollo (avvocati Marcello Pennetta e Donato Vergine), 66 e 58 anni, di Gallipoli e di Nardò; e l'avvocatessa Benedetta Martina, 32 anni, di Copertino (avvocato Stefano Prontera). Divieto di dimora a Lecce per l'avvocato Mario Ciardo, 55 anni, di Tricase (avvocato Ladislao Massari). Il pm Arnesano e gli avvocati Augusto Conte e Manuela Carbone rispondono di tentato abuso di ufficio nel capo di imputazione sul procedimento disciplinare. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, l'avvocato Conte è stato avvicinato dal magistrato dopo che l'avvocatessa Carbone gli chiese di intercedere per bloccare il procedimento disciplinare. In quella circostanza il magistrato avrebbe fatto presente di aver cercato di parlare anche con il pubblico ministero facente parte del Consiglio di disciplina: con tatto largo largo. Primo contatto con l'avvocato Conte il 12 settembre. Il 25 settembre l'incontro in un bar non lontano dal Tribunale, con i finanzieri in servizio di osservazione muniti di telecamere e di macchine fotografiche. L'ordinanza racconta ancora di incontri e scambi di telefonate: come quella del 28 settembre scorso. Il magistrato viene messo al corrente dall'avvocatessa della fissazione della data del procedimento disciplinare, il 6 dicembre. E, allora, chiama l'avvocato Conte. «La conversazione si concludeva con l'anticipazione da parte dell'avvocato Conte che egli aveva già affrontato l'argomento con uno dei commissari e che, comunque, si sarebbe incontrato nuovamente con il dottore Arnesano a ridosso dalle data fissata per la nuova udienza», dice testualmente l'ordinanza. L'udienza disciplinare non si tenne per assenza di alcuni componenti del consiglio di disciplina. Era fissata per il 6 dicembre, giorno del blitz e della prima ordinanza in cui erano riportati gli stessi fatti approfonditi poi nell'interdittiva. L'avvocato Conte difeso da Aldo Morlino e Federica Nestola difesa da Alberto ed Arcangelo Corvaglia, valutano ora di chiedere l'annullamento delle interdittive al Tribunale del Riesame.
«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).
· Competizioni sportive truccate.
Danza sportiva Rimini, gare "truccate". Denunciati giudici e istruttori. Per tutti l'accusa è quella di frode in competizioni sportive in concorso. Il Resto del Carlino il 26 novembre 2019. Scoperta dai carabinieri una presunta frode in competizioni sportive e in concorsi nel mondo della danza professionistica: otto gli indagati tra giudici federali, direttori di gara e istruttori della Fids (Federazione Italiana Danza Sportiva). Eseguite sette misure coercitive e interdittive. Per tutti l'accusa, a vario titolo, è frode in competizioni sportive in concorso. L'operazione è stata eseguita nelle province di Milano, Monza-Brianza, Varese, Terni, Reggio Calabria, Matera e Bari. In particolare, è stato applicato il divieto di esercitare professioni o rivestire incarichi all'interno di società sportive per sei mesi a un istruttore di danza e a due giudici federali Fids; l'obbligo quotidiano di presentazione alla polizia giudiziaria per un direttore di gara Fids e tre istruttori di danza. L'intera frode ruotava attorno alla figura dell'istruttore di danza tesserato Fids, che risulta tra i sette indagati. Era uno degli istruttori Fids a ricevere le segnalazioni sugli atleti da favorire. Una volta vagliate e valutate, le comunicava a giudici, direttori di gara, o ad altri soggetti che poi avrebbero contattato le giurie. Il gip di Rimini ha disposto vari provvedimenti cautelari interdittivi e coercitivi. Al termine dell'indagine è stato anche denunciato un dirigente centrale della Fids per il reato di omessa denuncia: non avrebbe segnalato all'autorità giudiziaria gli illeciti sportivi.
SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Mose, la storia infinta.
Enrico Tantucci per “la Stampa” il 2 novembre 2019. Mose, la storia infinta. Gli intoppi continuano e anche i problemi tecnici. È stato infatti rinviato a nuova data il sollevamento completo della barriera delle dighe mobili alla bocca di porto di Malamocco, previsto per lunedì prossimo. E la fiducia nel sistema di sbarramento che dovrebbe proteggere Venezia dall' acqua alta comincia a vacillare. A nutrire qualche dubbio è il primo procuratore di San Marco Carlo Alberto Tesserin, che si occupa della gestione e della tutela della Basilica marciana, nella parte più bassa della città e più esposta alle acque alte. «Che dopo cinque anni le paratoie immerse in acqua presentino qualche problema, è più che normale - osserva - ma si tratta di capire se le vibrazioni registrate siano un problema facilmente risolvibile o qualcosa di più serio. In ogni caso servono certezze, perché non potremmo scoprire ora che il Mose non funziona, lasciando la città senza difese dalle acque alte. Per quanto ci riguarda, ci stiamo attrezzando per un progetto di messa in sicurezza idraulica dell' intera Basilica, dopo averlo fatto per l' area di ingresso del nartece. Non possiamo lasciare San Marco indifesa, in attesa di capire se e quando il Mose entrerà in funzione». L'ennesimo problema è spuntato durante i sollevamenti parziali della barriera di Malamocco, il 21 e 24 ottobre scorso. Sono state riscontrate infatti delle vibrazioni in alcuni tratti di tubazioni delle linee di scarico. Lo spostamento del sollevamento completo è stato quindi deciso dal Consorzio Venezia Nuova, in attesa di verifiche tecniche dettagliate e di interventi di soluzione. Quella di Malamocco è la bocca di porto più profonda della laguna, con 14 metri. Sulla barriera sono state posate 19 paratoie, ciascuna lunga 29,5 metri e larga 20 per uno spessore di 4,5 metri, incernierate a sette cassoni di alloggiamento in calcestruzzo installati all' interno del fondale. Le prove di sollevamento delle prime nove dighe sono iniziate intorno alle 20 di lunedì 21 ottobre. È seguito, il 24 ottobre, il test alle altre 10 paratoie. La movimentazione dell' intera barriera era stata fissata in modo simbolico nella notte del 4 novembre, giorno in cui cade l' anniversario della «grande acqua alta» del 1966. Ma ancora una volta qualcosa è andato storto: in questo caso, un problema di vibrazioni alle tubazioni. Niente da fare, quindi, per la prova generale che dovrebbe servire a testare gli impianti provvisori e la tenuta del sistema. Il problema potrebbe riguardare le staffe delle tubazioni che espellono l' aria per consentire così il sollevamento delle paratoie, che sarebbero più distanziate rispetto a quelle delle altre bocche di porto e potrebbero invece essere ora infittite. Per il Mose sono già stati spesi quasi 6 miliardi di euro. Secondo il cronoprogramma, il prossimo anno dovrebbe essere dedicato alle prove e ai collaudi. L' opera dovrebbe essere consegnata il 31 dicembre del 2021. Ma ci sono ancora molti problemi da risolvere. A cominciare dai guai tecnici e dalle criticità scoperte negli ultimi anni. Come la presenza dei sedimenti che bloccano il sistema come successo di recente. O come le cerniere, che presentano alcune parti arrugginite, altre attaccate dalla corrosione. Una gara d' appalto da 34 milioni per sistemarle è ferma al Provveditorato. Pochi giorni fa il neo ministro delle Infrastrutture, Paola De Micheli, è arrivata a Venezia per ascoltare al Provveditorato triveneto alle opere pubbliche una relazione sullo stato d' avanzamento dell' opera. «La prossima settimana saranno nominati il nuovo Provveditore alle Opere pubbliche e il commissario Sblocca cantieri del Mose», ha annunciato. Ce n' è bisogno anche per dare un' accelerata alla risoluzione di tutti i problemi che riguardano un' opera faraonica finora rivelatasi fragilissima.
· Rimini, ecco la questura mai nata.
Rimini, ecco la questura mai nata. Spesi 56 milioni, è un ecomostro. Pubblicato domenica, 08 settembre 2019 Alfio Sciacca, inviato a Rimini, su Corriere.it. Un corpaccione in cemento armato di 30 mila metri quadrati spiaggiato nel cuore della città, tra lo stadio, l’ospedale è il lungomare dei turisti. Un’incompiuta vandalizza e diventata nel tempo covo di sbandati e tossicodipendenti. Quasi un quartiere che, quando si piove, si trasforma in una palude maleodorante con gravi conseguenze per l’igiene e la vivibilità della zona. Una grande incompiuta, un monumento allo spreco che si trova non in Calabria o Sicilia, ma in una delle perle dell’efficiente Emilia Romagna.
Quella che doveva diventare la nuova questura di Rimini, o meglio la cittadella della sicurezza, è una storia che comincia tanti anni fa. E, come per ogni incompiuta che si rispetti, anche in questo caso si fatica a ricostruirne tappe, responsabilità e possibili soluzioni. La prima pietra viene posata nel 2000 quando il comune di Rimini autorizza il progetto della società DAMA per realizzare la nuova sede della questura. Probabilmente il peccato originale di tutta la storia risale a questa prima fase. Quando cioè si decide di realizzare una struttura di quelle dimensioni per ospitare la nuova questura. «Caratteristiche e dimensioni dell’opera –dicono gli amministratori locali di Rimini — furono concordati direttamente dalla società con il Ministero dell’Interno». L’opera viene ultimata dopo circa cinque anni e a quel punto si aprono le trattative per il contratto di locazione col ministero dell’Interno. Viene anche sottoscritto un preliminare che prevede un canone annuo di 3 milioni e 300 mila euro, che però rapidamente diventa carta straccia. Il ministero considera infatti il canone di affitto particolarmente esoso. Si apre un contenzioso tra comune, società e ministero in cui ognuno accampa le proprie ragioni. Risultato non viene mai concluso il contratto di affitto e l’opera resta a lungo inutilizzata. Passa i mesi e gli anni e alla fine la società DAMA, che si era enormemente esposta con le banche per realizzare l’opera, è costretta a portare i libri in tribunale e quindi va in fallimento.
Patto per la sicurezza. L’opera intanto comincia a deperire e soprattutto la città di Rimini si trova a fare i conti con quella ferità aperta nel cuore della città. Ma nel 2014 si apre una seconda fase, nella quale il governo nazionale decide comunque di dover intervenire per dare comunque un senso a quell’opera mastodontica. La soluzione sembra a portata di mano. Viene individuata l’Inail come possibile acquirente dell’immobile al fallimento. Nel 2017 con il ministro Marco Minniti viene firmato il cosiddetto «patto per la sicurezza» che prevede di adibire la struttura a «cittadella della sicurezza», ospitando non solo la questura, ma anche la Polizia Stradale e il comando provinciale della Guardia di Finanza. In via transitoria si decide inoltre che la questura, che da anni lamenta di non avere una sede adeguata, sarà traslocata in un nuovo immobile con un contratto di pochi anni. In vista, appunto, del recupero e della definitiva apertura della «cittadella della sicurezza». Invece avviene qualcosa di imprevisto ne incomprensibile. Per l’attuale sede della questura il ministero dell’Interno firma un nuovo contratto di locazione della durata di nove anni più nove. Quasi in automatico l’impegno all’acquisto della «cittadella della sicurezza» cade nel vuoto. E qui si consuma quello che, secondo gli attuali amministratori di Rimini, sarebbe un tradimento da parte del governo di Roma. «Lo Stato ha tradito se stesso — accusa il sindaco Andrea Gnassi — e noi resta l’onore di dover gestire la messa in sicurezza e la pulizia periodica della struttura». Ufficialmente il Ministero dell’interno non si è mai tirato indietro rispetto all’ipotesi dell’acquisto. L’ultima presa di posizione ufficiale è dell’ex ministro Matteo Salvini che il 28 marzo scorso ha scritto agli amministratori di Rimini affermando che «pur non negando che si tratta di un’opera complessa visto anche il tempo trascorso» si conferma che il Cipe sta valutando la proposta d’acquisto. Dunque tutti a parole dicono di voler trovare una soluzione e intanto l’ecomostro, per il quale sono stati spesi circa 56 milioni, resta lì, vandalizzato e in progressivo disfacimento.
· Addio (d'oro) dei commissari Ue.
Ecco quanto ci costano gli euroburocrati. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com l'11 novembre 2019. Mentre impone politiche rigidissime di austerità sui Paesi più deboli e indebitati dell’eurozona riempiendosi la bocca di slogan sulla “crescita” e inviando letterine ai Paesi “indisciplinati” – tranne che a Francia e a Germania, ovviamente – la casta degli eurocrati continua ad animare una macchina imponente che spreca e divora risorse dei cittadini. Come rivela un’inchiesta de La Verità sulle spese pazze dell’Unione europea e sul progetto di bilancio 2020, l’anno prossimo la mostruosa burocrazia targata Bruxelles-Strasburgo costerà ai cittadini europei ben (quasi) 154 miliardi di euro. Altro che rigore di bilancio, dunque. Come scrive La Verità, i numeri sono impietosi: nel 2020 il servizio diplomatico dell’Ue costerà alla collettività più di 730 milioni di euro, 456 dei quali per mantenere 190 delegazioni dell’Unione europea sparse nel mondo. Considerando che l’Unione europea è praticamente ininfluente in uno scenario geopolitico dominato da Stati Uniti, Cina e Russia, dove sono le grandi potenze a dettare legge e non una burocrazia incomprensibile e farraginosa, è una bella cifra. Gli stipendi del personale di queste delegazioni ammontano a 133,7 milioni di euro ai quali si aggiungono 79,6 milioni per consulenti ed esperti esterni. Il personale che opera a Bruxelles ci costa 187 milioni di euro, per non parlare degli affitti annuali spropositati che l’Ue paga per mantenere le proprie sedi, a cominciare da quella di New York, che ci costa la bellezza di 2.105.866 euro l’anno. Follia.
Le spese pazze di Bruxelles. Le previsioni di spesa per il prossimo anno della Commissione europea si aggirano sui 2.354.228.000 euro; 1.109.577.441 euro del Parlamento europeo; 370.261.000 euro del Consiglio europeo. Inoltre, l’Unione europea continua a mantenere a suon di denaro enti completamente inutili come il Comitato economico sociale europeo (Cese) e il Comitato europeo delle regioni (Cdr), che hanno sede a Bruxelles ed emettono pareri non vincolanti. In sostanza, i due comitati nel 2020 ci costeranno 143 milioni di euro il primo, 102 milioni di euro il secondo.
Impennate le spese del personale di alcuni milioni di euro, così come le voci relative agli affitti e all’acquisto delle attrezzature. Il prossimo anno, il Comitato delle regioni riceverà ben 76,8 milioni di euro per pagare i suoi 530 dipendenti e 25,3 milioni per affitti e spese varie. Il tutto, è bene ribadirlo, per un ente sostanzialmente inutile.
Gli sprechi del Parlamento europeo. Come riporta Business Insider, nel 2013 il Parlamento europeo aveva messo a budget per i 751 eurodeputati che sarebbero stati eletti l’anno successivo 1,79 miliardi di euro. Cinque anni dopo, il preventivo di spesa è salito a 2 miliardi di euro: 200 milioni in più. Tradotto: nel 2013 il Parlamento europeo costava a ogni cittadino europeo 3,55 euro l’anno, dal 2019 il costo salirà a 4,22 euro l’anno. Lo spreco per antonomasia è quello della tripla sede del Parlamento: Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo, che costano ai cittadini dell’Ue dai 156 milioni ai 204 milioni l’anno. Senza dimenticare che la realizzazione della sede di Strasburgo è costata 600 milioni di euro e resta chiusa per 321 giorni l’anno.
I voli privati degli eurocrati. Secondo un documento pubblicato nella banca dati delle gare d’appalto comunitarie, Bruxelles ha aumentato di 3,5 milioni l’importo che può essere speso nel nuovo contratto per i voli “air taxi”. Il nuovo importo massimo di 10,71 milioni di euro per il contratto, che va dal 2016 al 2021, rappresenta un aumento del 50% sul valore originale di 7,14 milioni di euro. Voli che ovviamente vengono rimborsati in toto con i soldi dei contribuenti europei. Tutto questo avviene mentre i rappresentanti della Commissione Ue si riempiono la bocca di belle parole e di retorica climaticamente corretta.
Addio (d'oro) dei commissari Ue: ecco tutte le pensioni da nababbi. Al presidente uscente Jean Claude Juncker spettano 22mila euro (solo dall'Ue). A Federica Mogherini almeno 20mila euro. Prevista anche l'"indennità di transizione". Giorgia Baroncini, Lunedì 05/08/2019, su Il Giornale. Tra addii, conferme e nuovi arrivi è tempo di cambiamenti in Europa. Con le elezioni dello scorso maggio si è venuta a delineare una nuova squadra europea che ha visto fare le valigie a Jean Claude Juncker e a molti dei suoi commissari. Ma con gli addii arrivano anche tanti, ma tanti soldi. Gli uscenti più anziani godranno di una eccellente pensione, mentre per i più giovani ci sarà un generoso paracadute. E lo stesso vale per gli europarlamentari. Ma abbandonate le sedi europee, con che soldi vivranno i "licenziati"?
Partendo dagli stipendi, il Fatto Quotidiano ha calcolato la pensione dei commissari alla soglia dei 66 anni. Chi guadagna di più è il presidente della Commissione Ue che, secondo le regole, intasca il 138% dello stipendio del funzionario Ue più alto in grado, quindi oltre 27mila euro al mese. A seguire, l'Alto rappresentante per la politica estera con 25mila euro, i sette vicepresidenti dell'esecutivo Ue e gli altri 21 commissari con almeno 22mila euro mensili. Stipendi che avevano già creato non poche polemiche: lo scorso gennaio, era stato il Movimento 5 Stelle a denunciare le paghe dei politici europei. Tornando alle pensioni, il presidente uscente Jean Claude Juncker dovrebbe quindi ricevere circa 22mila euro solo dall'Ue. Un "piccolo" assegno tra gli altri: il 64enne è stato infatti anche primo ministro del Lussemburgo e ha ricoperto varie cariche in Ue. Come lui, altri commissari uscenti riceveranno non meno di 18mila euro al mese dall'Europa. Pensione d'oro anche per l'uscente Federica Mogherini: la aspettano (ora ha 46 anni) almeno 20mila euro, secondo quanto riporta il quotidiano. Ma non ci sono solo le pensioni. Per tornare nel "comune" mondo del lavoro, le regole Ue prevedono una "indennità di transizione", che va dal 40% al 65% dello stipendio base per un periodo fino a 24 mesi. Nel 2016, il settimanale tedesco Die Zeit aveva evidenziato come, dopo un anno e mezzo dalla fine dell'esecutivo Barroso, 16 ex commissari erano ancora a carico dei contribuenti Ue per una cifra media di 8.330 euro di indennità mensile. Se l'assegno deve servire a mantenere l'indipendenza dei politici ed evitare conflitti d'interesse, perché in molti casi gli ex commissari lavoravano già per grandi aziende? Lo stesso ex presidente José Manuel Barroso passò in meno di due anni dalla poltrona Ue a quella di Goldman Sachs. Come riporta il quotidiano, i deputati di Strasburgo hanno invece riformato da alcuni anni il loro sistema pensionistico. Se fino al 2009 potevano ottenere una "baby pensione" dai 50 anni, oggi devono aver spento almeno 63 candeline. Anche per loro esiste l'indennità transitoria pari al salario base mensile che in questi caso è di 8.758 euro lordi. E così l'intera legislatura produce un assegno di circa 20mila euro all'anno.
Andrea Valdambrini per “il Fatto Quotidiano” il 4 agosto 2019. In Europa il 2019 è un anno di addii ma anche di soldi per chi se ne va, da Jean-Claude Juncker a molti dei suoi commissari. I più anziani godranno di una eccellente pensione, i più giovani di un generoso paracadute. Discorso simile per gli europarlamentari: le elezioni di maggio ne ha "licenziati" il 60% (450). Che faranno? A quanti soldi avranno diritto? Per calcolare la pensione dei commissari alla soglia dei 66 anni, bisogna partire dai loro stipendi. Le cariche di vertice sono le più pagate in Ue: il presidente della Commissione guadagna, secondo le regole, il 138% dello stipendio del funzionario Ue più alto in grado, quindi oltre 27mila euro al mese. Seguono l' Alto rappresentante per la politica estera, i 7 vicepresidenti dell'esecutivo Ue e gli altri 21 commissari con almeno 22mila euro mensili. Cifre che non considerano i benefit da mandato e da cui si ricava l' indicazione della pensione maturata. Il presidente uscente Jean-Claude Juncker , che ha quasi 70 anni ed è stato in carica per cinque, dovrebbe ricevere circa 22mila euro. La pensione che spetterà in futuro (ora ha 45 anni) a Federica Mogherini , invece, sarà di almeno 20mila euro. Gli altri commissari uscenti avranno diritto a trattamenti non inferiori ai 18mila euro. Per molti si tratterà di un assegno fra gli altri. Juncker, per esempio, è stato anche primo ministro del Lussemburgo e ha ricoperto varie cariche in Ue. In attesa degli assegni da pensionati, invece, per il ricollocamento nel normale mondo del lavoro le regole Ue prevedono una "indennità di transizione", che va dal 40 al 65% dello stipendio base per un periodo fino a 24 mesi. Così, l' ex ministro Ue può arrivare a percepire anche 200mila euro complessivi in due anni. Un paracadute molto discusso. In attesa di vedere chi della commissione Juncker sarà riconfermato e chi invece "licenziato" (con buonuscita), è utile guardare al passato. Nel 2016, il settimanale tedesco Die Zeit segnalava che, dopo un anno e mezzo dalla fine dell' esecutivo Barroso, 16 ex commissari erano ancora a carico dei contribuenti Ue per una cifra media di 8.330 euro di indennità mensile. Nelle intenzioni di chi lo aveva predisposto, l' assegno doveva servire a mantenere l' indipendenza dei politici ed evitare conflitti d' interesse. Non fu però il caso di Karel de Gucht , ex commissario belga al Commercio, che nel 2016 era già nel consiglio di grandi aziende come Arcelor Mittal e Proximus. O la danese Connie Hedegaard , già responsabile Ue per l' Ambiente, poi consigliere dell' energetica Danfoss. Lo stesso ex presidente della Commissione, José Manuel Barroso , passò in meno di due anni dal vertice Ue a quello di Goldman Sachs. Nell' elenco degli ex commissari pagati ancora con l' indennità transitoria c' erano anche Dacian Ciolos , nel frattempo diventato primo ministro in Romania, e l' italiano Ferdinando Nelli Feroci, il diplomatico che aveva sostituito Antonio Tajani al Commercio, quando quest' ultimo era stato eletto eurodeputato. I deputati di Strasburgo hanno invece riformato da alcuni anni il loro sistema pensionistico. Fino al 2009 potevano ottenere una baby pensione dai 50 anni, oggi devono aspettare i 63. Anche per loro c' è un' indennità transitoria pari al salario base mensile che gli permette per altri due anni di accantonare 200mila euro. lo stipendio base è di 8.758 euro lordi al mese, 6.825 netti. Sulla base di questa cifra, si ricava l' importo della pensione. L' intera legislatura produce un assegno di circa 20mila euro all' anno, ma si matura anche per un periodo breve. I veterani invece possono contare su assegni molto generosi. Nigel Farage, al suo quinto mandato, ha già maturato una pensione di almeno 70mila euro all' anno. Matteo Salvini , con tre legislature e mezzo, lo segue poco distante.
· Le polemiche d'aria fritta sui voli di Stato.
ADDIO ALL'“AIR FORCE RENZI”. Chiara Giannini per “il Giornale” il 22 settembre 2019. Il suo acquisto scatenò le ire dei partiti di centrodestra, che lo definirono «il più colossale spreco della storia d' Italia», ora l' Air Force Renzi, l'Airbus 340 preso in leasing all' epoca del governo dem per 168 milioni e 205mila euro rischia di fare una triste fine. Il velivolo si trova infatti in un hangar dell' aeroporto di Fiumicino, abbandonato a se stesso. Le scritte «Repubblica italiana» e «Presidenza del Consiglio dei ministri» sono state tolte e nessuno fa più la manutenzione da lungo tempo. Dall'ufficio stampa di Alitalia fanno sapere che ad agosto 2018, «a seguito del ricevimento della richiesta del ministero della Difesa di scioglimento del contratto di leasing relativo all' Airbus A340-500 messo a disposizione del governo italiano, i commissari straordinari della Compagnia, valutato l'interesse dell' amministrazione straordinaria, hanno esercitato il potere ad essi conferito dalla legge e hanno inviato la comunicazione di scioglimento del contratto di leasing stipulato con Etihad relativamente al medesimo aereo». E mentre le cause vanno avanti il colosso dei cieli sta letteralmente cadendo a pezzi a Fiumicino. Ogni tanto, quando Alitalia ha bisogno dell' hangar in cui è ospitato, lo tira fuori nel piazzale antistante, ma di fatto nessuno ha interesse a farlo volare di nuovo, anche perché per renderlo nuovamente idoneo al volo servirebbero centinaia di migliaia di euro. Oltretutto, il velivolo è vecchio e solo una compagnia inglese ha ancora in uso modelli simili, è quindi improbabile che qualcuno voglia acquistarlo, poiché sul mercato già nel 2016 si trovava a 50 milioni di euro. Oggi non vale più di 3 milioni. Ecco perché smantellarlo e venderlo a pezzi, per Ethiad che ne ha ancora la proprietà, potrebbe essere più vantaggioso. All' epoca in cui fu fatto da Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio, lo sbaglio di prenderlo in leasing, come svelò il Giornale, si stipulò un contratto di 168 milioni 205mila euro. Per l' anno 2016 furono sborsati 39 milioni di euro, comprensivi della spesa per l' assicurazione. Per il 2017 si pagarono 23 milioni 505mila euro e oltre 15 milioni per il 2018, anno in cui il contratto di leasing fu sciolto. Il Movimento 5 stelle, una volta andato al governo con la Lega, fece una campagna in pompa magna per denigrare le scelte di Renzi. A bordo dell' Airbus 340-500, nell' hangar dell' aeroporto romano, alla presenza di numerosi giornalisti, salirono l'allora vicepremier Luigi Di Maio, accompagnato dall' allora ministro alle Infrastrutture e ai Trasporti, Danilo Toninelli. Dissero chiaramente che si era trattato di uno spreco, anche in considerazione del fatto che il velivolo aveva volato pochissime volte. Un mezzo di trasporto non necessario alla flotta blu, che già contava numerosi aerei in grado di svolgere i compiti istituzionali previsti. Poi sulla questione calò un silenzio quasi surreale. Oggi chi si trova a passare da Fiumicino può ancora notare l' Air Force Renzi parcheggiato sporadicamente fuori dall' hangar. Nessuno ne parla più. Resta un relitto, che ricorda tempi in cui a certi premier era consentito fare tutto, anche di gettare quasi 170 milioni di euro per un velivolo antiquato e molto costoso dal punto di vista della manutenzione. Uno scandalo che in molti hanno voluto insabbiare, di cui a breve non rimarrà che la carcassa. Mentre chi ebbe la malsana idea di prenderlo in leasing tra lo stupore generale, siede ancora in Parlamento.
Daniele Martini per il “Fatto quotidiano” il 2 ottobre 2019. Le ipotesi sono tre e nessuna di esse è edificante. Prima ipotesi: ci sarebbero strani giri di danaro sulle capienti ali dell' Air Force One caparbiamente voluto da Matteo Renzi quando era capo del governo. Qualcuno ad Abu Dhabi, che era il Paese fornitore dell' aereo, o in Italia o in entrambi i luoghi, potrebbe essersi messo in tasca un bel po' di soldi. Seconda ipotesi: i quattrini per il pagamento dello stratosferico contratto di leasing (168 milioni di euro per 8 anni di esercizio) rientrerebbero in una specie di scambio di favori tra Alitalia - che a quel tempo era privata - e una delle parti firmatarie del contratto, Etihad, la compagnia dell' Emiro di Abu Dhabi diventata socia della stessa Alitalia grazie soprattutto all' intervento di Renzi. Poco tempo prima della stipula dell' accordo per l' Air Force, la compagnia di Fiumicino aveva emesso un' obbligazione per un importo quasi identico a quello del leasing, circa 200 milioni di dollari, interamente sottoscritti da Etihad. L' affare dell' aereo sarebbe stato un modo "creativo" per consentire ad Alitalia di restituire agli arabi il sostegno ricevuto facendolo pagare dai contribuenti italiani. Tanto questi ultimi non si sarebbero accorti del giochetto essendo il contratto dell' Air Force inspiegabilmente classificato come segreto di Stato. La terza e ultima ipotesi è ancora più avvilente: coloro che a Roma trattarono la partita con il fiato sul collo del capo del governo, in particolare il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti, e il consigliere militare di Renzi, generale Carlo Magrassi, non riuscirono a impedire che Etihad facesse un facilissimo gol a porta vuota. Gaetano Intrieri fu il manager aeronautico che due anni dopo, nel 2018, bloccò l'affare facendo risparmiare allo Stato italiano 118 milioni di euro essendo già stati pagati 50 milioni per il leasing. Lavorando per il vicecapo del governo, Luigi Di Maio, e del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, entrambi 5 Stelle, egli si imbatté in quella faccenda accorgendosi subito che era un bidone. A distanza di un anno Intrieri ha deciso di mettere a disposizione del Fatto Quotidiano la documentazione e gli appunti degli incontri riservati su quella vicenda. Il manager scoprì che i contratti in realtà erano due: uno tra Alitalia ed Etihad; il secondo tra Alitalia da una parte e dall'altra il ministero della Difesa, il Segretariato generale della Difesa e Armaereo (la Direzione degli armamenti aeronautici). Di fatto la società privata Alitalia agiva da intermediario tra Etihad e lo Stato italiano tramite un contratto pubblico che però veniva secretato. Lavorando per un lessor (locatore di aerei) americano, Intrieri aveva ricevuto in quel periodo tramite la società inglese EAL l'offerta di due Airbus A340-500 Etihad, proprio lo stesso modello di quello di Renzi, tra cui uno in configurazione Vip prodotto nello stesso anno dell'Air Force. Prezzo: circa 7 milioni di dollari ciascuno (6,4 milioni di euro), cioè la bellezza di 26 volte meno di quello che Etihad stava incassando dallo Stato italiano per l'affitto dell' aereo di Renzi. Il contratto di leasing operativo dell'Air Force prevedeva inoltre un prepagamento anch'esso assolutamente fuori mercato di 25 milioni di dollari, che Etihad fatturò ad Alitalia (foto in pagina). Attraverso le sue conoscenze negli ambienti aeronautici internazionali, compresi i vertici di Etihad, Intrieri venne a sapere che parte di quella somma era servita alla stessa Etihad per diventare proprietaria dell' Airbus che fino a quel momento la compagnia di Abu Dhabi aveva solo in leasing. Di fatto lo Stato italiano aveva versato tramite Alitalia quattrini dei contribuenti a una società estera perché quest' ultima acquistasse un aereo che poi sarebbe stato preso in affitto e usato dal capo del governo italiano. Il contratto prevedeva inoltre una serie di "Prestazioni programmate" non comprese nel prezzo e sottratte alla competenza di Armaereo. Per queste prestazioni Alitalia stava fatturando al ministero della Difesa prezzi superiori fino a 3 volte quelli di mercato. Il solo servizio di manutenzione di linea aveva un extracosto per l' erario di 380 mila euro l' anno mentre la semplice custodia dell' aeromobile costava più di 100 mila euro al mese. Intrieri constatò che per l' aereo non era stata bandita alcuna gara internazionale e che era stato sottoposto a una registrazione civile e non militare, al contrario della norma. A quel punto il manager fece capire a tutti che considerava la faccenda un' enorme truffa con l' aggravio dell' aiuto di Stato a favore di Alitalia (così come poi accertato dalla Corte dei Conti). Poco dopo alcuni giornali cominciarono ad attaccarlo mentre in Parlamento furono presentate 4 interrogazioni a raffica, tutte di esponenti Pd, compresa quella di Enza Bruno Bossio poi indagata per corruzione in Calabria dalla Direzione distrettuale antimafia insieme al presidente Pd della Regione. Anche i dirigenti di Etihad si allarmarono. Il 9 agosto 2018 il capo della flotta della compagnia araba, Andrew Fisher, volle incontrare Intrieri. La riunione si svolse all' hotel St. George di via Giulia a Roma, presente anche il sottosegretario Andrea Cioffi (5 Stelle). Nelle email di preparazione della riunione, Fisher insistette molto perché fosse presente il generale Magrassi con cui Etihad aveva trattato l' affare in precedenza, ma Magrassi non si presentò. Tentando di parare le obiezioni di Intrieri e volendo evitare in extremis la rescissione del contratto, il dirigente della compagnia araba propose di ridurre di oltre sei volte l' importo del leasing, da una rata di 800 mila euro al mese a 120 mila. Toninelli a quel punto decise di annullare il contratto. Le ultime resistenze contro la rescissione ci furono da parte del capo staff Alitalia, Carlo Nardello, e poi durante un incontro che si tenne il 10 settembre al ministero di Di Maio da parte del capo di gabinetto, Vito Cozzoli. Nonostante tutto, alla fine il contratto fu finalmente annullato. Ora su di esso indagano la Procura della Repubblica di Civitavecchia e la Corte dei Conti.
(ANSA il 18 ottobre 2019) - "Il valore totale di 75 milioni di dollari dei pagamenti dovuti da Alitalia a Etihad per la durata dell'accordo rappresenta una frazione dei 168 milioni di dollari oggetto di speculazioni sui media. Il tentativo di Alitalia di terminare l'accordo vincolante con Etihad non ha validità. Alitalia infatti resta vincolata alle condizioni concordate al momento della firma del contratto. Pertanto, Etihad ha deciso di portare Alitalia in tribunale al fine di ottenere un risarcimento dei danni subiti a causa della violazione del contratto". Lo sottolinea un portavoce della compagnia degli Emirati Arabi, che interviene per la prima volta dando la sua versione dei fatti sul contratto di leasing della durata di otto anni siglato nel 2016 dalla compagnia, allora socia al 49% di Alitalia, durante il governo guidato da Matteo Renzi per un Airbus a uso esclusivo della presidenza del Consiglio. Il contratto è stato poi rescisso ad agosto dello scorso anno durante il primo esecutivo di Giuseppe Conte e con Alitalia nel frattempo commissariata. Nel ricostruire la vicenda il portavoce della compagnia di Abu Dhabi afferma che "Etihad Airways ha stipulato in buona fede un contratto di leasing vincolante con Alitalia. Tuttavia la compagnia aerea italiana, apparentemente per volontà del Governo Italiano, ha cercato di recedere anticipatamente da tale contratto. Il contratto di leasing dell'Airbus A340 è stato stipulato su richiesta del Governo Italiano. Alitalia è stata inclusa nell'operazione e ne ha tratto beneficio dal punto di vista economico grazie alla fornitura di servizi aggiuntivi, semplicemente perché il Ministero della Difesa italiano, in qualità di operatore dell'aeromobile, aveva richiesto che la controparte dell'accordo fosse una società italiana". Etihad, aggiunge, "ha acquistato l'aeromobile direttamente da Airbus attraverso un finanziamento stipulato con parti terze, garantito da ipoteca sull'aeromobile stesso. Per evitare che l'aereo della Presidenza del Consiglio incorresse nel rischio di riappropriazione da parte dei soggetti finanziatori, il Ministero della Difesa italiano aveva deciso di non siglare un accordo che prevedesse un'ipoteca sull'aeromobile. Si è quindi concordato un pagamento anticipato del leasing, pari a 25 milioni di dollari, in modo da consentire a Etihad di estinguere il debito residuo e liberare l'aeromobile da incombenze. Tale importo è stato poi detratto dai successivi canoni di leasing".
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 21 ottobre 2019. Al giorno d' oggi un' inchiesta giudiziaria non si nega a nessuno, neppure se il presunto reato al centro dell' indagine della magistratura è una gita sulla moto d' acqua della polizia. A furor di popolo, anzi di Repubblica, nei mesi scorsi i pm erano stati costretti ad aprire un fascicolo sul «passaggio» in mare offerto al figlio minorenne del ministro dell' Interno, mettendo sotto accusa gli agenti per aver cercato di impedire che un giornalista filmasse la scena, salvo poi richiedere l' archiviazione per la «tenuità del fatto». Tradotto, significa che in Procura hanno ritenuto di aver ben altro da fare che dare la caccia ai poliziotti e ai loro eventuali abusi da spiaggia. Eppure, se da un lato si indaga sull'uso delle moto d'acqua, nessuno sembra avere interesse ad aprire un' inchiesta sugli aerei di Stato, soprattutto se l'aereo in questione è quello della presidenza del Consiglio. O meglio, era. E dire che se da un lato c'è di mezzo una gita in mare, dall' altro c' è una spesa di oltre 150 milioni per un velivolo ordinato e lasciato a marcire in un hangar a spese della collettività. Non so se i lettori siano a conoscenza del caso. Nel 2016 l' allora capo del governo Matteo Renzi decise che gli aerei a disposizione di Palazzo Chigi non fossero più adeguati e che si dovesse rimpolpare la flotta presidenziale con un nuovo mezzo capace di attraversare gli oceani senza scalo. Il velivolo avrebbe dovuto sancire il prestigio ritrovato dell' Italia sotto la guida del nuovo leader fiorentino. Così, mentre l'esecutivo trattava il salvataggio di Alitalia con Etihad, compagnia di bandiera degli Emirati Arabi, ecco spuntare un contratto per la fornitura e l'assistenza di un Airbus all' altezza della levatura e della supponenza dell' allora capo del governo. L' aereo avrebbe dovuto essere pronto per la fine del 2016 e l' inizio del 2017, coincidenza volle che proprio all' epoca un referendum ponesse fine alla carriera presidenziale di Matteo Renzi, con il risultato che l' uomo che sperava di volare alto, da un capo all' altro dei continenti, si trovò all' improvviso costretto a imbarcarsi su un volo assai più breve e rasoterra, destinazione Pontassieve. Dalla Casa Bianca, dove fu accolto da Barack e Michelle Obama, alla casa in Toscana, dove ad aspettarlo c' era una famiglia addormentata, come egli stesso raccontò in un memorabile post. La conclusione dell' esperienza da statista, non pose però fine al contratto stipulato dallo Stato con Etihad, per cui il velivolo ordinato ai tempi di Renzi, rimase a disposizione del governo, senza per altro che Paolo Gentiloni, cioè il successore del nostro, sentisse il bisogno di utilizzarlo. Per mesi, anzi per oltre un anno, il colosso dei cieli rimase a terra, fino a che, cambiato governo e mandato a casa pure Gentiloni, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, nel frattempo diventati vicepresidente e ministro dei Trasporti, annunciarono di aver rescisso il contratto con Etihad per la fornitura dell' Air Force Renzi, come venne subito ribattezzato per paragonarlo all'Air Force One del presidente degli Stati Uniti. Storia finita, spreco tagliato? Niente affatto. Primo perché la compagnia di Abu Dhabi continua a richiedere un indennizzo multimilionario ad Alitalia, su cui era stata appoggiata l' operazione. E secondo perché ogni giorno che passa la faccenda rivela risvolti a dire poco sorprendenti. Lasciamo perdere il fatto che nessuno, tranne Renzi, sentisse l' utilità del velivolo, ma concentriamoci sui passaggi dell' intera operazione. Circa un anno fa un addetto ai lavori spiegò alla Verità che due aerei gemelli rispetto a quello del governo erano in vendita per 7 milioni, mentre Il Fatto Quotidiano ha di recente rivelato che quando il contratto fu stipulato, Etihad non aveva a disposizione l' aereo richiesto e dunque sia stata costretta a comprarne uno. Fin qui, si potrebbe anche convenire che la compagnia si sia mossa per soddisfare le esigenze del cliente. Peccato che a quanto pare non tornino alcuni dettagli. Il primo è che sul mercato pare ci fossero aerei a prezzi più convenienti, per cui sarebbe stato possibile stipulare un accordo a condizioni migliori per il nostro Paese: in pratica l' Italia avrebbe potuto pagare un ventiseiesimo di ciò che è stato pagato. Il secondo dettaglio è che oltre a sottoscrivere un canone capestro per avere a disposizione il velivolo, il governo tramite Alitalia avrebbe anticipato i soldi per comprare l'aereo, riuscendo poi a farselo affittare. Un esperto interpellato dal quotidiano diretto da Marco Travaglio ha ricostruito i passaggi della strana operazione, arrivando alla conclusione che l' intera faccenda fosse priva di alcun senso economico. Non solo. Un esperto ha rivelato alla Verità che l'affare ha avuto una curiosa triangolazione, con di mezzo una società nepalese che non pare avere nulla a che fare con gli aerei ma molto con le costruzioni. Perché si dovesse usare un' impresa di Katmandu per avere un aereo a disposizione del presidente del Consiglio è un mistero, così come oscura è l' urgenza che ha spinto il nostro governo a dare via libera a un leasing che pare non avere avuto alcuna convenienza per il nostro Paese. Ma se un filone porta in Nepal, un altro sembra portare alle Isole Cayman, un posticino tranquillo che chiunque voglia combinare affari senza dare troppo nell' occhio conosce molto bene. Tra canoni esagerati, triangolazioni incomprensibili e società disperse all'estero in Paesi poco trasparenti, ci sarebbero tutte le ragioni per vederci chiaro. Ma inspiegabilmente non c'è Repubblica o altro giornale che a furor di popolo solleciti un'indagine. Perché un conto è lo scandalo di una gita con una moto d'acqua, valore dell' affare all' incirca 5 euro. Un altro è lo scandalo di un aereo ordinato e mai usato: valore dell' affare 150 milioni di euro. Dovremo forse aspettare una commissione d' inchiesta sulle fake news per saperne di più? Oppure verrà un giorno in cui alla Leopolda ai giornalisti sarà consentito di fare domande oltre che di ascoltare comizi?
Vincenzo Bisbiglia per “il Fatto Quotidiano” il 15 Novembre 2019. I magistrati della Procura di Civitavecchia sono saliti sull' Air force Renzi. Nei giorni scorsi è stato effettuato un nuovo sopralluogo a bordo dell' Airbus A340-500 , preso in leasing dalla compagnia Etihad ai tempi del governo del fiorentino per effettuare voli di Stato a servizio di Palazzo Chigi. Su disposizione del procuratore di Civitavecchia, Andrea Vardaro, il sostituto procuratore Roberto Savelli ha visitato il velivolo, ormai fermo da diversi mesi, per l' analisi dello stato di fatto e l' acquisizione documentale. La Procura di Civitavecchia ha un fascicolo aperto sul crac di Alitalia, nato da un esposto partito dall' ufficio politico dell' ex ministro alle Infrastrutture, Danilo Toninelli. Ed è nell' ambito di questa inchiesta che sono stati delegati alcuni approfondimenti alla Guardia di Finanza sugli accordi sottoscritti per l' Airbus 340-500. L' aereo presidenziale fu messo a disposizione del Governo italiano attraverso un contratto di leasing con la compagnia di Abu Dhabi a un costo di 168 milioni di euro per 8 anni di affitto. Proprio la natura dell' accordo è oggetto degli approfondimenti. Il contratto di leasing operativo prevedeva un pagamento anticipato di 25 milioni di dollari, che Etihad fatturò ad Alitalia. In sostanza, il sospetto (tutto da verificare) dei pm è che lo Stato italiano abbia versato a una compagnia estera, attraverso la sua società di bandiera, una somma di denaro per permetterle di acquistare un velivolo poi preso in affitto. Il contratto è stato rescisso ad agosto scorso, quando i pagamenti erano arrivati a quota 50 milioni di euro (ma Etihad dichiara di averne incassati solo 37 milioni). L' Airbus, con una capienza di 300 posti, fra il 2016 e il 2017 ha viaggiato ben 88 volte, con in media 23 passeggeri a bordo. In un caso, oltre all' equipaggio, ha trasportato un solo passeggero, l' allora ministro degli Esteri, Angelino Alfano, che in totale è salito sul volo presidenziale una ventina di volte, alcune volte con una mini delegazione. Cosa che evidentemente ha fatto lievitare il costo del mezzo, condizione che i magistrati di Civitavecchia vogliono accertare, visto che in diverse occasioni sarebbe potuto essere più conveniente acquistare voli di linea, anche di prima classe. Il volo inaugurale è stato effettuato l' 11 luglio 2016, a Cuba, in missione per tre giorni all' Avana: al Fatto Quotidiano risulta fossero presenti anche ministri, viceministri, sottosegretari, alla presenza di imprenditori romani e armatori. Ma gli eventuali sprechi potrebbero non fermarsi qui. Ad esempio, come riportava il Corriere della Sera il 3 agosto 2018, in una lettera del coordinatore del Servizio per i voli di Stato, il colonnello Valerio Celotto, stimava in 16,6 milioni di euro la "realizzazione di un' area dedicata all' autorità, suddivisa nella cabina letto con annesso bagno e doccia, nello studio privato nonché in un' area riunioni con lo staff", un optional poi saltato per la mancata consegna dei preventivi. È invece di pochi giorni fa la notizia di Panorama: secondo il settimanale la Procura di Civitavecchia sarebbe in possesso di file excel in cui vengono riportati i costi del cosiddetto "in Flight Entertainment", in sostanza i monitor per guardare film o giocare ai videogiochi, con ben 7,3 milioni spesi in supporti tecnologici e diritti alle case di produzione. Qualche esempio: 480 mila euro in diritti a Medusa e 5.500 euro a Rai Cinema per i film italiani, 30 mila euro a Rai Trade per documentari e monografie e 360 mila euro per videogiochi ed e-learning; per i diritti musicali si sono spesi 43 mila euro (un abbonamento premium a Spotify costa 10 euro al mese). La manutenzione del velivolo, poi, avrebbe richiesto l' impegno di una cifra vicina agli 1,7 milioni di euro, di cui ad esempio 49 mila euro per la pulizia esterna della fusoliera.
"Sono stato capo di un governo che non ha messo una lira su Alitalia, sono un Gronchi Rosa (francobollo rarissimo, ndr) in Italia...ci abbiamo provato con la gestione da parte di Etihad, che purtroppo ha sbagliato amministratore delegato, Hogan, uno che ha fallito ovunque sia andato. Sfiga delle sfighe, abbiamo beccato l'unico che non era capace. Ma in quella fase abbiamo salvato Meridiana con Qatar Airways". Così Matteo Renzi interpellato su Alitalia in un dibattito a Roma durante la presentazione di un libro. (Roberta Benvenuto/alanews)
Articolo di Simone Di Meo per “Panorama” pubblicato da “la Verità” 13 novembre 2019. Il gigante bianco con le insegne tricolori è sulla pista di rullaggio. Rombano i motori. Parte la rincorsa. Decollo tra 3, 2, 1... Si parte, benvenuti a bordo dell' Air Force Renzi, l' aereo (dal costo) più pazzo del mondo. Non solo per quello che è stato pagato ma, soprattutto, per i soldi che sono stati spesi per la sua breve esperienza al servizio di Palazzo Chigi. Panorama ha potuto leggere un foglio Excel dell' Alitalia, oggi all' attenzione dell' autorità giudiziaria di Civitavecchia che sta indagando sul crac della compagnia di bandiera, in cui sono riportate le singole fatture che il ministero della Difesa ha pagato per l' apparecchio alla società di Fiumicino nel 2016. L' anno in cui diventa operativo il contratto di leasing con la società degli Emirati arabi Etihad per il vettore aereo richiesto espressamente dall' allora premier Matteo Renzi, da utilizzare nei viaggi a lunga percorrenza. Il documento riservato contiene i dettagli degli interventi tecnici effettuati sull' Airbus 340-500 e le corrispondenti uscite. Compreso un anonimo paragrafetto intitolato Ife che sta per «In-flight entertainment», ovvero sistemi di intrattenimento a bordo. Perché anche gli ospiti dell' Air Force, pur avendo la testa tra le nuvole, rivendicavano il diritto di distrarsi dalla noia delle trasferte. Come? Guardando un bel film, ascoltando buona musica o giocando ai videogame (ebbene sì, c' erano anche questi a bordo). Tutte attività per cui sono state saldate fatture per - allacciate le cinture - ben 5,4 milioni di euro. Vediamo qualche numero più nel dettaglio. Per le pellicole italiane, a Rai Cinema sono andati 5.500 euro di diritti mentre a Medusa ben 480.000 euro. Per i documentari e le monografie, Rai Trade ha invece incassato 30.000 euro. Per i videogames e filmati di e-learning il conto sfiora, qui cambia la valuta, 360.000 dollari. E qualora l' offerta del grande schermo non fosse stata particolarmente allettante, malgrado i ricchi diritti pagati alle società di produzione, bastava chiedere alla hostess e farsi consegnare un paio di cuffiette per ascoltare l' ultima classifica o i grandi classici. Musica per le orecchie di Alitalia che, non a caso, fatturava 43.000 euro per quel servizio «in note». []Tiriamo ora una linea e facciamo due calcoli: quanto hanno pagato gli italiani per la piccola Hollywood volante di Palazzo Chigi? La risposta è semplice: 7,3 milioni di euro per il primo anno di vita. Stanchi e arrabbiati da questo viaggio al centro della casta? Mica è finita. Il foglio Excel svela altre (non piacevoli) sorprese. Come il servizio di «manutenzione leggera» da 381.000 euro o la pulizia esterna della fusoliera dell' Airbus 340-500 (49.000 euro). All' igiene e all' ordine del jet presidenziale erano parecchio attenti in Alitalia tant' è che è stata contabilizzata anche una fattura singola da 300 euro per il riordino della piccola cabina di pilotaggio. La lista dei pagamenti prosegue, e possiamo finire di scorrerla prima dell' atterraggio. Ci sono le attrezzature per le ispezioni e il cambio di motore (580.000 euro) e l' addestramento (500.000 dollari) e il controllo della manualistica per gli interventi (393.000 euro). Complessivamente, la manutenzione del velivolo ha richiesto risorse per 1,7 milioni di dollari. In pratica, un quarto del budget impegnato per film e intrattenimento vario. L' Air Force Renzi in totale ha volato 88 volte ospitando per lo più il successivo premier Paolo Gentiloni, il ministro degli Esteri Angelino Alfano e il sottosegretario allo Sviluppo economico Ivan Scalfarotto, e pochi altri esponenti del governo. []Anche la storia dell' Air Force Renzi comincia in Medioriente, e forse non è un caso. È infatti la società aerea Etihad a noleggiare il vettore ad Alitalia. Lo fa con un contratto che gli addetti ai lavori definiscono assolutamente fuori mercato: 168 milioni di euro per otto anni di locazione. Cioè ben 26 volte il costo dell' aereo, pari a 6,4 milioni di euro [] .E si arriva al 2017: Renzi perde la poltrona di primo ministro dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016. A Palazzo Chigi, gli succede Paolo Gentiloni. [] La Procura di Civitavecchia affida alla Guardia di finanza una delega d' indagine per scavare nei conti di Alitalia con l' ipotesi di bancarotta fraudolenta. La società ha accumulato infatti un passivo di circa tre miliardi di euro [].Il 2018 è l' anno della svolta in questa storia. Grazie anche al prezioso lavoro del superconsulente del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, Gaetano Intrieri, vengono desecretati i documenti relativi all' Air Force Renzi e alla triangolazione tra ministero della Difesa, Alitalia ed Etihad. Ad agosto, il Governo gialloverde decide di rescindere il contratto con la compagnia araba dopo una prima tranche di pagamento di 50 milioni di euro. Sui quali aleggia però un mistero: la società emiratina dichiara di averne incassati solo 37. Ne mancherebbero 13 all' appello, di cui si ignora il destino. []
Leonard Berberi per il “Corriere della sera” il 17 novembre 2019. Per il noleggio dell'Airbus A340 di Stato - ribattezzato «Air Force Renzi» - ogni mese Alitalia pagava Etihad 512.198 dollari. Per lo stesso tipo di prestazione il vettore tricolore ne riceveva 590.889,60 dalla Direzione degli armamenti aeronautici. Sono queste alcune delle cifre che emergono per la prima volta dai contratti riservati tra l' azienda degli Emirati Arabi Uniti e la compagnia italiana che il Corriere ha potuto consultare. Circa 200 pagine - con gli allegati tecnici - che toccano Roma, Abu Dhabi, Londra, Dublino e i tribunali. Tutto parte dall' esigenza del governo di individuare un velivolo in grado di coprire le tratte intercontinentali senza doversi fermare per il rifornimento. Viene scelto l' A340-500, quadrimotore di Etihad intanto entrata in Alitalia con il 49%. Lo Stato però non poteva firmare un contratto con una società extra Ue e così nascono due accordi. Il primo, il numero 808, viene firmato tra Alitalia e ministero della Difesa il 17 maggio 2016 durante l' esecutivo Renzi. È un subnoleggio e comprende anche prestazioni accessorie (manutenzione, custodia, addestramento, intrattenimento di bordo) per un totale di 168 milioni in otto anni. Il secondo contratto viene siglato tra Alitalia ed Etihad il 9 giugno 2016 a Dublino davanti al notaio Graham C. Richards per il noleggio del solo aereo per 75,55 milioni di dollari: 25 milioni servono a «liberare» l' A340 da un' ipoteca del 2007 tra Etihad e una società finanziaria delle Cayman (Union Three Leasing Limited). Roma paga poi oltre 814 mila dollari per la tinteggiatura e il volo di trasferimento e 3.124.724 di «costi iniziali» tra rifacimento degli arredi e «incentivo al rispetto del contratto» che avrebbe permesso di non sborsare 5 rate. Una cifra monstre per il governo M5S-Lega che straccia l' accordo con Alitalia nel luglio 2018 spingendo i commissari straordinari del vettore a fare lo stesso con Etihad. Quando questi ultimi si rivolgono ai tribunali Alitalia ha pagato 36.968.836 dollari (8,84 milioni di solo leasing). In altri documenti Etihad accusa gli italiani di non aver sborsato sette mesi di rata (4.473.031), chiede 33.292.857 per il resto del leasing (fino a dicembre 2023) e vuole aggiungere i danni. Nel 2016, si legge ancora nelle carte, il «valore netto» dell' A340 era di 58 milioni di dollari. Oggi, calcolano gli esperti, quel modello lo si può comprare per 4-9 milioni. Un valore che non supera i 2 milioni per l' ex aereo di Stato che giace inutilizzato a Fiumicino da oltre un anno.
Le spese pazze dell'Air Force Renzi. Abbiamo letto in esclusiva l'elenco delle fatture per milioni di euro dell I-TALY Airbus 340-500 voluto da Renzi. Conti stratosferici su cui indaga anche la magistratura. Panorama il 18 novembre 2019. Il gigante bianco con le insegne tricolori è sulla pista di rullaggio. Rombano i motori. Parte la rincorsa. Decollo tra 3, 2, 1... Si parte, benvenuti a bordo dell’Air Force Renzi, l’aereo (dal costo) più pazzo del mondo. Non solo per quello che è stato pagato ma, soprattutto, per i soldi che sono stati spesi per la sua breve esperienza al servizio di Palazzo Chigi. Panorama ha potuto leggere un foglio Excel dell’Alitalia, oggi all’attenzione dell’autorità giudiziaria di Civitavecchia che sta indagando sul crac della compagnia di bandiera, in cui sono riportate le singole fatture che il ministero della Difesa ha pagato per l’apparecchio alla società di Fiumicino nel 2016. L’anno in cui diventa operativo il contratto di leasing con la società degli Emirati arabi Etihad per il vettore aereo richiesto espressamente dall’allora premier Matteo Renzi, da utilizzare nei viaggi a lunga percorrenza. Il documento riservato contiene i dettagli degli interventi tecnici effettuati sull’Airbus 340-500 e le corrispondenti uscite. Compreso un anonimo paragrafetto intitolato Ife che sta per «In-flight entertainment», ovvero sistemi di intrattenimento a bordo. Perché anche gli ospiti dell’Air Force, pur avendo la testa tra le nuvole, rivendicavano il diritto di distrarsi dalla noia delle trasferte. Come? Guardando un bel film, ascoltando buona musica o giocando ai videogame (ebbene sì, c’erano anche questi a bordo). Tutte attività per cui sono state saldate fatture per - allacciate le cinture - ben 5,4 milioni di euro. Vediamo qualche numero più nel dettaglio. Per le pellicole italiane, a Rai Cinema sono andati 5.500 euro di diritti mentre a Medusa ben 480 mila euro. Per i documentari e le monografie, Rai Trade ha invece incassato 30 mila euro. Per i videogames e filmati di e-learning il conto sfiora, qui cambia la valuta, 360 mila dollari. E qualora l’offerta del grande schermo non fosse stata particolarmente allettante, malgrado i ricchi diritti pagati alle società di produzione, bastava chiedere alla hostess e farsi consegnare un paio di cuffiette per ascoltare l’ultima classifica o i grandi classici. Musica per le orecchie di Alitalia che, non a caso, fatturava 43 mila euro per quel servizio «in note». Già, le cuffiette. Non semplici modelli usa-e-getta, come sempre si trovano sui voli di linea oppure nei musei per i tour guidati. Quelli del nostro gigante dei cieli dovevano essere auricolari speciali e super-tecnologici, considerato quel che sono costati: oltre 1,5 milioni di euro. Per dire: per il solo confezionamento sono state saldate fatture per 156 mila euro e altri 244 mila euro sono stati pagati dal ministero della Difesa ad Alitalia per il trasporto (imbarco e sbarco) dei delicatissimi e preziosissimi accessori. Se poi arrivava impellente la necessità di lanciare un tweet oppure di controllare la posta elettronica e di «scrollare» la homepage di Facebook per distribuire qualche like, come diavolo si poteva fare? A bordo i cellulari sono vietati, si sa. Ma alla casta politica volante non si può dire di no. Ragion per cui l’Air Force Renzi si era dotato di un sistema di connectivity (wireless satellitare) che offriva il massimo della libertà in tema di gigabyte e di velocità. E che volete che siano i 94 mila dollari al mese (per una fattura complessiva annua che ammonta a un milione e 129 mila euro) di fronte alla possibilità di far volare l’estro social dei nostri governanti? Tiriamo ora una linea e facciamo due calcoli: quanto hanno pagato gli italiani per la piccola Hollywood volante di Palazzo Chigi? La risposta è semplice: 7,3 milioni di euro per il primo anno di vita. Stanchi e arrabbiati da questo viaggio al centro della casta? Mica è finita. Il foglio Excel svela altre (non piacevoli) sorprese. Come il servizio di «manutenzione leggera» da 381 mila euro o la pulizia esterna della fusoliera dell’Airbus 340-500 (49 mila euro). All’igiene e all’ordine del jet presidenziale erano parecchio attenti in Alitalia tant’è che è stata contabilizzata anche una fattura singola da 300 euro per il riordino della piccola cabina di pilotaggio. La lista dei pagamenti prosegue, e possiamo finire di scorrerla prima dell’atterraggio. Ci sono le attrezzature per le ispezioni e il cambio di motore (580 mila euro) e l’addestramento (500 mila mila dollari) e il controllo della manualistica per gli interventi (393 mila euro). Complessivamente, la manutenzione del velivolo ha richiesto risorse per 1,7 milioni di dollari. In pratica, un quarto del budget impegnato per film e intrattenimento vario. L’Air Force Renzi in totale ha volato 88 volte ospitando per lo più il successivo premier Paolo Gentiloni, il ministro degli Esteri Angelino Alfano e il sottosegretario allo Sviluppo economico Ivan Scalfarotto, e pochi altri esponenti del governo. Oggi è mestamente in disarmo, in un hangar di Fiumicino. Il jet che doveva essere l’ammiraglia della flotta di Stato si è trasformato in un trabiccolo con le ali. Proprio come i suoi «gemelli» da 7 milioni di euro, parcheggiati, in attesa di rottamazione (non quella annunciata da Renzi), nell’aeroporto di Turuel, nella regione spagnola di Aragona, come raccontato per primo dal quotidiano La Verità. In terra iberica gli aeroplani della stessa linea dell’Airbus 340-500 sono in attesa che la società specializzata in ricambi, Tarmac Aragon, li smonti per rivenderne i pezzi ancora utilizzabili in giro per il mondo. «L’Air Force Renzi oggi non vale nemmeno lo sforzo economico di rimetterlo in volo e portarlo nel cimitero spagnolo, è più conveniente lasciarlo in Italia», spiega a Panorama un esperto di aeronautica. D’altronde, già al momento del noleggio, nel 2016, la «famiglia» 340-500 era a un passo dal finire fuori produzione essendo il primo modello entrato in servizio nel dicembre 2003 con Emirates, la compagnia di bandiera dell’Emirato di Dubai. Anche la storia dell’Air Force Renzi comincia in Medioriente, e forse non è un caso. È infatti la società aerea Etihad a noleggiare il vettore ad Alitalia. Lo fa con un contratto che gli addetti ai lavori definiscono assolutamente fuori mercato: 168 milioni di euro per otto anni di locazione. Cioè ben 26 volte il costo dell’aereo, pari a 6,4 milioni di euro, riscattato dalla stessa Etihad dal primo proprietario, una misteriosa società di nome Uhtl. Solo un’inchiesta del quotidiano La Verità ha recentemente permesso di scoprire che la Uhtl sta per Union three leasing limited con sede legale in località Mary Street, a Georgetown, nelle isole Cayman, uno dei paradisi fiscali più rinomati al mondo. Il 1° marzo 2007 la Uhtl e la Etihad sottoscrivono il leasing per il futuro Air Force Renzi con un contratto di appena cinque paginette, registrato il 13 di quello stesso mese. Nel 2016, Etihad (che all’epoca è anche socio al 49 per cento della compagnia italiana) sigla con Alitalia il contratto di noleggio del vettore. E, più o meno in quegli stessi mesi, firma pure un’obbligazione, emessa sempre da Alitalia, di importo quasi identico a quello del leasing: 200 milioni di dollari. Una coincidenza - di tempi e di numeri - che ingenera in qualcuno il sospetto che il noleggio dell’aereo di Stato abbia rappresentato una forma di «incentivo» occulto al salvataggio dell’azienda di Fiumicino. E si arriva al 2017: Renzi perde la poltrona di primo ministro dopo la sconfitta al Referendum del 4 dicembre 2016. A Palazzo Chigi, gli succede Paolo Gentiloni. In quell’anno, si verificano due circostanze molto particolari. La proprietà della Uthl decide di mettere in «voluntary liquidation» la società con un atto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale delle isole Cayman, e scompare dai radar. La procura di Civitavecchia affida alla Guardia di finanza una delega d’indagine per scavare nei conti di Alitalia con l’ipotesi di bancarotta fraudolenta. La società ha accumulato infatti un passivo di circa tre miliardi di euro, e gli investigatori vogliono vederci chiaro soprattutto in due operazioni: la cessione di alcuni slot, le «finestre» aeroportuali di decollo di un velivolo, particolarmente pregiati passati dalla nostra compagnia di bandiera a Etihad, e poi tutta la partita dei punti «millemiglia» accumulati dalla società. Il 2018 è l’anno della svolta in questa storia. Grazie anche al prezioso lavoro del super-consulente del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Gaetano Intrieri, vengono desecretati i documenti relativi all’Air Force Renzi e alla triangolazione tra ministero della Difesa, Alitalia ed Etihad. Ad agosto, il Governo gialloverde decide di rescindere il contratto con la compagnia araba dopo una prima tranche di pagamento di 50 milioni di euro. Sui quali aleggia però un mistero: la società emiratina dichiara di averne incassati solo 37. Ne mancherebbero 13 all’appello, di cui si ignora il destino. Volatilizzati, è il caso di dire, nei mille rivoli dei conti (italiani ed esteri) della società? La mossa dell’esecutivo formato da Movimento 5 stelle e Lega ha provocato la dura reazione della compagnia araba: questa, di recente, ha annunciato di voler portare Alitalia davanti al giudice. Ha dichiarato il portavoce della società: «Il tentativo di Alitalia di terminare l’accordo con Etihad non ha validità. Alitalia infatti resta vincolata alle condizioni concordate al momento della firma del contratto. Pertanto, Etihad ha deciso di portare Alitalia in tribunale al fine di ottenere un risarcimento dei danni subiti a causa della violazione del contratto». E ha precisato ancora: «Il contratto di leasing dell’Airbus A340 è stato stipulato su richiesta del governo italiano. Alitalia è stata inclusa nell’operazione e ne ha tratto beneficio dal punto di vista economico grazie alla fornitura di servizi aggiuntivi». Anche se, su quest’ultimo punto, c’è una legittima obiezione: la nostra compagnia di bandiera non ha le specifiche tecniche e i requisiti, assai stringenti, per curare la manutenzione del vettore; e quindi bisognerebbe ipotizzare che abbia operato in maniera illegittima. Possibile? Per di più, è di nuovo con le casse vuote e col rischio del default che incombe. I brividi ad alta quota continuano.
Le spese pazze dell'Air Force Renzi. Abbiamo letto in esclusiva l'elenco delle fatture per milioni di euro dell I-TALY Airbus 340-500 voluto da Renzi. Conti stratosferici su cui indaga anche la magistratura. Panorama il 19 novembre 2019. Il gigante bianco con le insegne tricolori è sulla pista di rullaggio. Rombano i motori. Parte la rincorsa. Decollo tra 3, 2, 1... Si parte, benvenuti a bordo dell’Air Force Renzi, l’aereo (dal costo) più pazzo del mondo. Non solo per quello che è stato pagato ma, soprattutto, per i soldi che sono stati spesi per la sua breve esperienza al servizio di Palazzo Chigi. Panorama ha potuto leggere un foglio Excel dell’Alitalia, oggi all’attenzione dell’autorità giudiziaria di Civitavecchia che sta indagando sul crac della compagnia di bandiera, in cui sono riportate le singole fatture che il ministero della Difesa ha pagato per l’apparecchio alla società di Fiumicino nel 2016. L’anno in cui diventa operativo il contratto di leasing con la società degli Emirati arabi Etihad per il vettore aereo richiesto espressamente dall’allora premier Matteo Renzi, da utilizzare nei viaggi a lunga percorrenza. Il documento riservato contiene i dettagli degli interventi tecnici effettuati sull’Airbus 340-500 e le corrispondenti uscite. Compreso un anonimo paragrafetto intitolato Ife che sta per «In-flight entertainment», ovvero sistemi di intrattenimento a bordo. Perché anche gli ospiti dell’Air Force, pur avendo la testa tra le nuvole, rivendicavano il diritto di distrarsi dalla noia delle trasferte. Come? Guardando un bel film, ascoltando buona musica o giocando ai videogame (ebbene sì, c’erano anche questi a bordo). Tutte attività per cui sono state saldate fatture per - allacciate le cinture - ben 5,4 milioni di euro. Vediamo qualche numero più nel dettaglio. Per le pellicole italiane, a Rai Cinema sono andati 5.500 euro di diritti mentre a Medusa ben 480 mila euro. Per i documentari e le monografie, Rai Trade ha invece incassato 30 mila euro. Per i videogames e filmati di e-learning il conto sfiora, qui cambia la valuta, 360 mila dollari. E qualora l’offerta del grande schermo non fosse stata particolarmente allettante, malgrado i ricchi diritti pagati alle società di produzione, bastava chiedere alla hostess e farsi consegnare un paio di cuffiette per ascoltare l’ultima classifica o i grandi classici. Musica per le orecchie di Alitalia che, non a caso, fatturava 43 mila euro per quel servizio «in note». Già, le cuffiette. Non semplici modelli usa-e-getta, come sempre si trovano sui voli di linea oppure nei musei per i tour guidati. Quelli del nostro gigante dei cieli dovevano essere auricolari speciali e super-tecnologici, considerato quel che sono costati: oltre 1,5 milioni di euro. Per dire: per il solo confezionamento sono state saldate fatture per 156 mila euro e altri 244 mila euro sono stati pagati dal ministero della Difesa ad Alitalia per il trasporto (imbarco e sbarco) dei delicatissimi e preziosissimi accessori. Se poi arrivava impellente la necessità di lanciare un tweet oppure di controllare la posta elettronica e di «scrollare» la homepage di Facebook per distribuire qualche like, come diavolo si poteva fare? A bordo i cellulari sono vietati, si sa. Ma alla casta politica volante non si può dire di no. Ragion per cui l’Air Force Renzi si era dotato di un sistema di connectivity (wireless satellitare) che offriva il massimo della libertà in tema di gigabyte e di velocità. E che volete che siano i 94 mila dollari al mese (per una fattura complessiva annua che ammonta a un milione e 129 mila euro) di fronte alla possibilità di far volare l’estro social dei nostri governanti? Tiriamo ora una linea e facciamo due calcoli: quanto hanno pagato gli italiani per la piccola Hollywood volante di Palazzo Chigi? La risposta è semplice: 7,3 milioni di euro per il primo anno di vita. Stanchi e arrabbiati da questo viaggio al centro della casta? Mica è finita. Il foglio Excel svela altre (non piacevoli) sorprese. Come il servizio di «manutenzione leggera» da 381 mila euro o la pulizia esterna della fusoliera dell’Airbus 340-500 (49 mila euro). All’igiene e all’ordine del jet presidenziale erano parecchio attenti in Alitalia tant’è che è stata contabilizzata anche una fattura singola da 300 euro per il riordino della piccola cabina di pilotaggio. La lista dei pagamenti prosegue, e possiamo finire di scorrerla prima dell’atterraggio. Ci sono le attrezzature per le ispezioni e il cambio di motore (580 mila euro) e l’addestramento (500 mila mila dollari) e il controllo della manualistica per gli interventi (393 mila euro). Complessivamente, la manutenzione del velivolo ha richiesto risorse per 1,7 milioni di dollari. In pratica, un quarto del budget impegnato per film e intrattenimento vario. L’Air Force Renzi in totale ha volato 88 volte ospitando per lo più il successivo premier Paolo Gentiloni, il ministro degli Esteri Angelino Alfano e il sottosegretario allo Sviluppo economico Ivan Scalfarotto, e pochi altri esponenti del governo. Oggi è mestamente in disarmo, in un hangar di Fiumicino. Il jet che doveva essere l’ammiraglia della flotta di Stato si è trasformato in un trabiccolo con le ali. Proprio come i suoi «gemelli» da 7 milioni di euro, parcheggiati, in attesa di rottamazione (non quella annunciata da Renzi), nell’aeroporto di Turuel, nella regione spagnola di Aragona, come raccontato per primo dal quotidiano La Verità. In terra iberica gli aeroplani della stessa linea dell’Airbus 340-500 sono in attesa che la società specializzata in ricambi, Tarmac Aragon, li smonti per rivenderne i pezzi ancora utilizzabili in giro per il mondo. «L’Air Force Renzi oggi non vale nemmeno lo sforzo economico di rimetterlo in volo e portarlo nel cimitero spagnolo, è più conveniente lasciarlo in Italia», spiega a Panorama un esperto di aeronautica. D’altronde, già al momento del noleggio, nel 2016, la «famiglia» 340-500 era a un passo dal finire fuori produzione essendo il primo modello entrato in servizio nel dicembre 2003 con Emirates, la compagnia di bandiera dell’Emirato di Dubai. Anche la storia dell’Air Force Renzi comincia in Medioriente, e forse non è un caso. È infatti la società aerea Etihad a noleggiare il vettore ad Alitalia. Lo fa con un contratto che gli addetti ai lavori definiscono assolutamente fuori mercato: 168 milioni di euro per otto anni di locazione. Cioè ben 26 volte il costo dell’aereo, pari a 6,4 milioni di euro, riscattato dalla stessa Etihad dal primo proprietario, una misteriosa società di nome Uhtl. Solo un’inchiesta del quotidiano La Verità ha recentemente permesso di scoprire che la Uhtl sta per Union three leasing limited con sede legale in località Mary Street, a Georgetown, nelle isole Cayman, uno dei paradisi fiscali più rinomati al mondo.
Il 1° marzo 2007 la Uhtl e la Etihad sottoscrivono il leasing per il futuro Air Force Renzi con un contratto di appena cinque paginette, registrato il 13 di quello stesso mese. Nel 2016, Etihad (che all’epoca è anche socio al 49 per cento della compagnia italiana) sigla con Alitalia il contratto di noleggio del vettore. E, più o meno in quegli stessi mesi, firma pure un’obbligazione, emessa sempre da Alitalia, di importo quasi identico a quello del leasing: 200 milioni di dollari. Una coincidenza - di tempi e di numeri - che ingenera in qualcuno il sospetto che il noleggio dell’aereo di Stato abbia rappresentato una forma di «incentivo» occulto al salvataggio dell’azienda di Fiumicino.
E si arriva al 2017: Renzi perde la poltrona di primo ministro dopo la sconfitta al Referendum del 4 dicembre 2016. A Palazzo Chigi, gli succede Paolo Gentiloni. In quell’anno, si verificano due circostanze molto particolari. La proprietà della Uthl decide di mettere in «voluntary liquidation» la società con un atto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale delle isole Cayman, e scompare dai radar. La procura di Civitavecchia affida alla Guardia di finanza una delega d’indagine per scavare nei conti di Alitalia con l’ipotesi di bancarotta fraudolenta. La società ha accumulato infatti un passivo di circa tre miliardi di euro, e gli investigatori vogliono vederci chiaro soprattutto in due operazioni: la cessione di alcuni slot, le «finestre» aeroportuali di decollo di un velivolo, particolarmente pregiati passati dalla nostra compagnia di bandiera a Etihad, e poi tutta la partita dei punti «millemiglia» accumulati dalla società.
Il 2018 è l’anno della svolta in questa storia. Grazie anche al prezioso lavoro del super-consulente del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Gaetano Intrieri, vengono desecretati i documenti relativi all’Air Force Renzi e alla triangolazione tra ministero della Difesa, Alitalia ed Etihad. Ad agosto, il Governo gialloverde decide di rescindere il contratto con la compagnia araba dopo una prima tranche di pagamento di 50 milioni di euro. Sui quali aleggia però un mistero: la società emiratina dichiara di averne incassati solo 37. Ne mancherebbero 13 all’appello, di cui si ignora il destino. Volatilizzati, è il caso di dire, nei mille rivoli dei conti (italiani ed esteri) della società? La mossa dell’esecutivo formato da Movimento 5 stelle e Lega ha provocato la dura reazione della compagnia araba: questa, di recente, ha annunciato di voler portare Alitalia davanti al giudice. Ha dichiarato il portavoce della società: «Il tentativo di Alitalia di terminare l’accordo con Etihad non ha validità. Alitalia infatti resta vincolata alle condizioni concordate al momento della firma del contratto. Pertanto, Etihad ha deciso di portare Alitalia in tribunale al fine di ottenere un risarcimento dei danni subiti a causa della violazione del contratto». E ha precisato ancora: «Il contratto di leasing dell’Airbus A340 è stato stipulato su richiesta del governo italiano. Alitalia è stata inclusa nell’operazione e ne ha tratto beneficio dal punto di vista economico grazie alla fornitura di servizi aggiuntivi». Anche se, su quest’ultimo punto, c’è una legittima obiezione: la nostra compagnia di bandiera non ha le specifiche tecniche e i requisiti, assai stringenti, per curare la manutenzione del vettore; e quindi bisognerebbe ipotizzare che abbia operato in maniera illegittima. Possibile? Per di più, è di nuovo con le casse vuote e col rischio del default che incombe. I brividi ad alta quota continuano.
Le polemiche d'aria fritta sui voli di Stato. Salvini attaccato per aver usato gli aerei della Polizia. Ecco cosa faceva chi era al Viminale prima di lui. Maurizio Belpietro 29 maggio 2019 su Panorama. La polemica sui voli di Matteo Salvini mi ha fatto venir voglia di controllare quante volte i nostri ministri usano l’aereo blu. Già, perché quando viaggiano, i politici non prendono un aereo di linea, come fanno i comuni cittadini e come molti politici in altri Paesi, ma quello di Stato. Così, consultando il sito della presidenza del Consiglio, che per esigenze di trasparenza è aperto a tutti, ho scoperto una cosa assai curiosa, ovvero che questo è il governo che usa meno gli aerei della presidenza del Consiglio. Ebbene sì, nonostante lo «scandalo» di un ministro dell’Interno che in nove mesi, per 19 volte ha viaggiato su un aereo della Polizia (velivoli che non essendo Airbus a occhio consumano meno carburante di un gigante del cielo), chi c’era prima ha volato molto di più. E, a dire il vero, quasi sempre sulla stessa tratta, quasi che il volo di Stato fosse una specie di navetta per pendolari. Prendete Marco Minniti, che dal dicembre del 2016 al maggio dello scorso anno è stato il numero uno del Viminale, cioè predecessore di Salvini. Secondo il sito di Palazzo Chigi, il ministro dell’Interno del governo guidato da Paolo Gentiloni, in un anno e mezzo ha utilizzato l’aereo del 31° Stormo dell’Aeronautica più di 70 volte, in molti casi per raggiungere Reggio Calabria o Lamezia Terme, vale a dire la sua regione. In altri, la destinazione è stata Palermo o Catania, cioè zone a lui care. Ma Minniti nonostante ciò non ha la palma del globetrotter ministeriale.
Il primo premio, nel passato esecutivo, infatti spetta ad Angelino Alfano, che fino al maggio dello scorso anno ricopriva il delicato incarico di ministro degli Esteri. Logico dunque che fosse sempre con la valigia in mano. L’unica perplessità è che sulle decine di viaggi registrati ogni mese, la tratta Roma-Catania spicca con inconsueta intensità, insieme a quella Roma -Palermo e Roma-Trapani. Che in Sicilia, a nostra insaputa, sia stata aperta una sede della Farnesina? Oppure che nell’Isola sia stata inaugurata una succursale delle Nazioni Unite? Forse c’entrerà qualche cosa che l’ex ministro di Ncd sia originario di Agrigento? Le domande sono senza risposta perché nessuno se ne è mai occupato, né è stata sollecitata un’indagine della Corte dei conti come accaduto per i voli del capo della Lega.
La lettura dei resoconti dei voli blu, però, rivela anche altre cose, per esempio le molte tappe a Genova degli aerei che fanno capo alla presidenza del Consiglio. Da lì decollavano alternativamente il ministro della Difesa Roberta Pinotti e quello della Giustizia Andrea Orlando, il quale ogni tanto, essendo di Spezia, si concedeva una partenza da Pisa.
Il più straordinario frequent flyer era però Paolo Gentiloni, ma prima di diventare premier. Da ministro degli Esteri ha girato il mondo, senza disdegnare le tappe italiane: in un mese era capace di prendere l’aereo di Stato 15 volte. Si dava da fare anche il sottosegretario Claudio De Vincenti, il quale in un giorno riuscì a compiere un’impresa ardua, ossia volare da Roma a Rieti, poi ad Amatrice, quindi di nuovo a Roma, per poi fare Lione andata e ritorno. Un vero campione volante.
C’è inoltre da segnalare un curioso fatto. Ovvero il numero di voli per La Valletta. Da Alfano a Minniti, da Beatrice Lorenzin a Pinotti, da Orlando a Stefania Giannini: tutti diretti a Malta. Non sappiamo perché, ma col passato governo all’improvviso l’isola sperduta nel Mediterraneo sembrò diventata il centro d’Europa, visto che manco Bruxelles attirava tanto i nostri ministri.
Dell’elenco consultabile sul sito della presidenza del Consiglio mancano i viaggi dei vari premier, coperti da segreto di Stato, ma credo che se la loro agenda fosse consultabile, scopriremmo che qualcuno aveva sostituito l’auto blu con l’elicottero blu. Un giorno, a causa di un atterraggio d’emergenza ad Arezzo, si seppe per esempio che Matteo Renzi prendeva spesso un velivolo della presidenza del Consiglio per fare su e giù da Firenze a Roma. Esigenze di servizio, fu la spiegazione di Palazzo Chigi dinnanzi alle perplessità sollevate da qualcuno. Esigenze istituzionali che una volta portarono l’elicottero a fare tappa nel capoluogo toscano per trasferire l’intera famiglia Renzi a Courmayeur, dove non era attesa per un vertice di Stato, ma per una bella sciata. Però, all’epoca, nessuna indagine della Corte dei conti turbò la discesa sulla neve del premier e dei suoi. Perché Renzi, al contrario di Salvini, dopo aver distribuito a pioggia 80 euro a milioni di italiani non era un uomo solo nel mirino, ma un uomo solo al comando. Anzi, alla cloche.
Air Force Renzi, è ancora giallo: spunta la società "fantasma". L'aereo della discordia, pagato 26 volte il suo valore, prima di venire acquistato da Etihad era di proprietà dell'azienda Uthl, della quale però si conosce ben poco. Pina Francone, Mercoledì 16/10/2019 su Il Giornale. Si infittisce il mistero del Air Force Renzi, il velivolo comprato da Ethiad al prezzo di 6,4 milioni di euro e poi affittato in leasing dal governo Renzi per la mastodontica cifra di 168 milioni. Insomma, ventisei volte tanto. Sul caso ha indagato Il Fatto Quotidiano, con un'inchiesta che sta scavando a fondo. Il quotidiano diretto da Marco Travaglio ha portato alla luce anche le fatture e i contratti: ne esisterebbero, infatti, due distinti. Uno tra la compagnia degli Emirati ed Alitalia e il secondo tra Alitalia e il ministero della Difesa. A tal proposito, Il Fatto scriveva: "I quattrini per il pagamento dello stratosferico contratto di rientrerebbero in una specie di scambio di favori tra Alitalia e una delle parti firmatarie del contratto, Etihad, la compagnia dell'Emiro di Abu Dhabi diventata socia della stessa Alitalia grazie soprattutto all'intervento di Renzi". Ora il nuovo capitolo della vicenda: l'Airbus 340/500 era di proprietà di una società di nome Uthl, sulla quale aleggia però un alone di mistero, visto che della stessa non ci sono tracce online. Uthl, si legge, avrebbe dato in leasing il velivolo della discordia proprio alla società degli Emirati. Infine, Ethiad ha riscattato l’aereo, diventandone proprietaria.
Quello che è strano, scrive Il Fatto, è che una società "lessor" come dovrebbe essere Uthl non abbia un sito internet "istituzionale" e non dia notizie di sé. Nel mentre, continua l'indagine dei giudici contabili della Corte dei Conti e quella dei magistrati della Procura di Civitavecchia, che stanno scavando sulla bancarotta della nostra compagnia di bandiera.
Daniele Martini per il “Fatto quotidiano” il 15 ottobre 2019. Parafrasando una frase celebre di Winston Churchill riferita alla Russia, si può dire dell' Air Force di Matteo Renzi che "è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma". Più si cerca di far luce su quell' affare dai contorni stralunati e più si scovano stranezze. Si scopre, ad esempio, che perfino la proprietà originaria di quell' aereo è misteriosa, avvolta nel fumo di una sigla: UTHL. Si sa per certo che Etihad, la compagnia dell' Emiro di Abu Dhabi fornitrice di quell' Airbus 340/500 con un leasing (affitto) del valore superiore di circa 26 volte il valore dell' aereo stesso, a sua volta gestiva in precedenza quel jet tramite un leasing. E che prima di chiudere l'affare con l'Italia, Etihad ha riscattato quello stesso leasing per diventare proprietaria del velivolo e che ha preso questa decisione in seguito a un' esplicita richiesta proveniente dall' Italia, in particolare da parte di chi a Palazzo Chigi stava trattando la partita. Anche se non è chiaro il motivo di una richiesta del genere, dal momento che lo Stato italiano avrebbe poi firmato il contratto di leasing non con Etihad, ma con Alitalia. Fatto sta che Etihad ha sostenuto a suo tempo di aver effettivamente riscattato, cioè comprato, l'aereo. Il passaggio di proprietà e la sigla UTHL risultano effettivamente nei registri aeronautici dei certificati di proprietà degli aerei. Trattandosi di leasing e di riscatto, a logica UTHL dovrebbe essere un lessor, cioè un soggetto, una società che per mestiere tratta aerei e li dà in affitto o li vende alle compagnie aeree di tutto il mondo. UTHL si sarebbe fatto riscattare da Etihad l' aereo di Renzi a fronte del pagamento di una somma di denaro. Presumibilmente a UTHL o ad essa più altri sono stati girati i 25 milioni di dollari (quasi 23 milioni di euro) o una parte di essi sborsati da Alitalia a Etihad a titolo di "prepagamento del leasing operativo" e documentati da una fattura che Il Fatto ha pubblicato nell' edizione del 2 ottobre. Questa, almeno, è la spiegazione fornita dal capo della flotta Etihad, Andrew Fisher, ai rappresentanti del ministero dei Trasporti italiano, allora guidato da Danilo Toninelli, nel corso di un incontro riservato che si tenne il 9 agosto di un anno fa all' hotel St.George di via Giulia a Roma di cui Il Fatto ha già dato in precedenza notizia. Ma la faccenda è strana. In quanto commercianti, anche se di un prodotto particolare come gli aerei, i lessor hanno tutto l' interesse a farsi conoscere dai potenziali clienti. Normalmente qualsiasi lessor al mondo si presenta con un sito su Internet, si fa pubblicità, spiega bene come e dove si trova, fornisce i contatti, spesso espone e descrive la merce in offerta. UTHL no. Nonostante tutte le ricerche condotte con l' ausilio di chi conosce bene la materia, di UTHL non c' è traccia e non risulta neanche ci sia un' autorizzazione a operare riferita a quella sigla.
Le mancate promesse di chiarimento degli arabi Ma allora chi o che cosa è UTHL ? Il Fatto ha rivolto questa semplice domanda a Etihad e ha inutilmente aspettato una risposta per quasi una settimana. Nonostante i reiterati solleciti da parte del giornale e le ripetute promesse di chiarimento da parte dei rappresentanti della compagnia araba, anche in forma scritta, nel momento in cui scriviamo non è ancora arrivata una riga di spiegazione. Di fronte al muro di silenzio di Etihad, bisogna necessariamente ricorrere alle ipotesi per cercare di spiegare che cosa in realtà può essere questo o questa UTHL e quale ruolo può aver giocato nella strampalata storia dell' Air Force di Renzi. La prima ipotesi riguarda proprio il silenzio della compagnia araba: se non avesse avuto niente da nascondere riguardo all' acquisto dell' aereo da UTHL , Etihad non avrebbe dovuto avere reticenze di sorta a fornire le informazioni adeguate al Fatto. Cosa si nasconde dietro quella strana sigla? Se non è successo, vuol dire che c' è qualcosa da nascondere. Ma che cosa? Sempre per ipotesi si può ritenere che questa UTHL non sia mai esistita. O meglio, che magari esista sulla carta, ma sia una semplice sigla e che dietro ad essa non ci sia niente. E che quindi l' aereo di Renzi fosse di proprietà di Etihad già prima della comparsa di questa UTHL . E che questa UTHL sia solo una parent company, una specie di scatola, un cassetto di Etihad. Un mistero nel mistero. Di sicuro la vicenda dell' aereo di Renzi è uno dei capitoli dell' inchiesta più ampia che la Procura della Repubblica di Civitavecchia sta conducendo sulla bancarotta Alitalia.
Simone Di Meo per “la Verità” il 19 ottobre 2019. Il puntino verde ha ripreso a lampeggiare sul radar, assai lontano. La scia dell' Air Force Renzi stavolta arriva fino in Asia. In Nepal, per la precisione. Dove potrebbe trovarsi la risposta alla misteriosa società proprietaria dell' Airbus 340/500 noleggiato, successivamente, dall' Etihad e, da questa, girato in leasing all' Alitalia per le esigenze del capo del governo dell' epoca, l' ex Rottamatore Matteo Renzi. Si tratta della Uthl. Una sigla che nei database dei lessors internazionali (tecnicamente le società che acquistano gli aerei per fittarli alle compagnie in tutto il mondo) non è associata ad alcun grande gruppo. Ma che potrebbe, invece, corrispondere alla società nepalese «Upper Tamakoshi Hydropower Ltd». Si tratta di una azienda, nata da una costola della Nepal Electricity Authority nel 2007, come «agenzia esecutiva per l' attuazione» del progetto idroelettrico di «Upper Tamakoshi» - si legge sul sito istituzionale dell' ente - per «far fronte alla crisi elettrica in corso in Nepal». Il fiume Tamakoshi è uno dei maggiori affluenti del Sunkoshi, e la presa per la nuova centrale sarà installata nel villaggio di Lamabagar, che si trova a «6 km a sud del confine con la Cina (Tibet)» e a «32 km a nord-nord-est del centro del distretto di Dolakha». La traccia sembra convincente. «Innanzitutto dobbiamo precisare che non è stato questo l' unico aereo «leased by Uthl»», spiega al nostro giornale Antonio Bordoni, esperto di incidenti aerei e autore del libro Piloti malati e proprietario del sito Air Accidents. «In realtà oltre alla matricola 748, appunto la macchina acquistata dal governo italiano, risultano passati per la Uthl anche la matricola 757 e 761, ovvero altri due Airbus 340». «Nelle liste di lessors aeronautico anche «datate» la società in questione non risulta apparire e tutto farebbe pensare trattarsi di un soggetto al di fuori del settore dei noleggi aeronautici». Per di più - spiega ancora Bordoni - «la precisazione «leased by» viene introdotta per chiarire tutti i passaggi che l' aeromobile ha avuto nella sua vita lavorativa, ma non significa che dopo un certo numero di anni la macchina sia ancora noleggiata da quella società». Anzi, «i contratti di leasing vengono solitamente stipulati per un numero limitato di anni, e in ogni caso nel momento di una rivendita dell' aereo se a monte vi fosse un lessors attivo, ciò deve comparire, pena la nullità del contratto». Dunque, davvero il governo italiano ha scelto come ammiraglia un vettore aereo di proprietà di una società che fabbrica dighe dalle parti di Katmandu? Chi potrebbe contribuire a fare chiarezza - e non è detto che non accada, considerati gli ultimi risvolti - è la Etihad, la compagnia dell' emiro di Abu Dhabi che ha noleggiato l'airbus dalla Uthl e l' ha poi riscattato per noleggiarlo, a sua volta, all' Alitalia con un contratto di leasing 26 volte superiore il valore stesso dell' aeromobile. Questo perché, al momento della stipula del contratto, il ministero della Difesa - che nel 2016 aveva curato gli aspetti tecnici della trattativa - avrebbe espresso la preferenza di avere come controparte contrattuale un' azienda italiana: l'Alitalia, appunto. Ed è proprio la nostra compagnia di bandiera, che già attraversa una crisi finanziaria terribile, adesso a dover pagare probabilmente lo scotto di quella triangolazione e della risoluzione anticipata del contratto di leasing decisa nell' agosto 2018 dal governo giallblù prima della scadenza naturale degli otto anni. «Il tentativo di Alitalia di terminare l' accordo vincolante con Etihad non ha validità. Alitalia infatti resta vincolata alle condizioni concordate al momento della firma del contratto. Pertanto, Etihad ha deciso di portare Alitalia in tribunale al fine di ottenere un risarcimento dei danni subiti a causa della violazione del contratto», ha spiegato un portavoce della compagnia mediorientale. «Il contratto di leasing dell' Airbus A340 è stato stipulato su richiesta del governo italiano. Alitalia è stata inclusa nell' operazione e ne ha tratto beneficio dal punto di vista economico grazie alla fornitura di servizi aggiuntivi», ha aggiunto il portavoce. Etihad, ha sottolineato ancora, «ha acquistato l' aeromobile direttamente da Airbus attraverso un finanziamento stipulato con parti terze, garantito da ipoteca sull' aeromobile stesso. Per evitare che l' aereo della presidenza del Consiglio incorresse nel rischio di riappropriazione da parte dei soggetti finanziatori, il ministero della Difesa italiano aveva deciso di non siglare un accordo che prevedesse un' ipoteca sull' aeromobile». «Si è quindi concordato un pagamento anticipato del leasing, pari a 25 milioni di dollari, in modo da consentire a Etihad di estinguere il debito residuo e liberare l' aeromobile da incombenze. Tale importo è stato poi detratto dai successivi canoni di leasing». Fino alla decisione del vecchio esecutivo Conte di lasciare l' Air Force Renzi sulla pista di atterraggio. Sperando che nessuno facesse valere le clausole del contratto.
Simone Di Meo per “la Verità” il 22 ottobre 2019. «Si avvisano i signori passeggeri che abbiamo appena avviato le manovre di atterraggio. Vi preghiamo di allacciare le cinture, di verificare che il tavolino davanti a voi sia chiuso e che il vostro sedile si trovi in posizione eretta». Stavolta l' Air Force Renzi è sbarcato a Georgetown, nelle Isole Cayman. Lo avevamo lasciato, qualche giorno fa, come ricorderanno i nostri lettori, mentre sorvolava la città di Katmandu - capitale del Nepal - dove alcune tracce portavano alla misteriosa Uthl, la società di leasing che ha fittato il vettore alla Etihad prima che questa lo girasse, con un gravoso contratto di mutuo, all' Alitalia per le esigenze dell' allora capo del governo. La vera sede legale della Uthl è però dall' altra parte del globo, ad «appena» 14.473 chilometri di distanza dal Nepal. In una strada che si chiama Mary Street, sperduta nel cristallino mar dei Caraibi. La sigla della compagnia sta per Union Three Leasing Limited. Ad unire i puntini nell' affollato cielo dei database aeronautici è stato Antonio Bordone, esperto di incidenti aerei e autore del libro Piloti malati e proprietario del sito Air Accidents. La Uthl ha fittato l' Airbus 340/500 alla Etihad - ha scoperto ancora Bordone - in data 1 marzo 2007 sottoscrivendo un contratto di appena cinque paginette che è stato registrato il 13 dello stesso mese. Nove anni dopo, nel 2016, la società degli Emirati Arabi decide di riscattare il velivolo, per 6,4 milioni di euro, perché dovrà a sua volta noleggiarlo ad Alitalia come nuova ammiraglia della flotta della presidenza del Consiglio dei ministri. Renzi voleva infatti un aereo che potesse affrontare le traversate oltreoceano senza lo stress degli scali intermedi, e la scelta era caduta sull' aereo di linea prodotto da Airbus tra il 1993 e il 2011. Tra la nostra compagnia di bandiera e la società di Abu Dhabi viene allora firmato un contratto di noleggio della durata di otto anni, per un valore di 168 milioni di euro. In pratica: 26 volte il prezzo dell' aeromobile. Nel 2017 però i sogni di gloria del fu Rottamatore precipitano nel mare in tempesta del referendum costituzionale. Il Bullo dovette lasciare Palazzo Chigi a Paolo Gentiloni senza aver mai inaugurato l' Air Force Renzi che resta, per tutto un altro anno, malinconicamente fermo nell' hangar. Solo agli inizi dell' agosto 2018, il nuovo governo messo in piedi da Lega e Movimento 5 stelle decide di rescindere il contratto con Alitalia. Mossa che, notizia di pochi giorni fa, ha comportato la dura reazione della controparte emiratina che ha intenzione di trascinare in tribunale Alitalia per inadempienza contrattuale. Nel 2017 però sono accadute due cose molto particolari. La proprietà della Uthl decide di chiudere la società con un atto registrato come «voluntary liquidation», pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Isole Cayman, per avvisare creditori e debitori. Quasi in quelle stesse settimane, la guardia di finanza riceve una delega d' indagine da parte della Procura di Civitavecchia per fare chiarezza sui conti di Alitalia. Pochi mesi dopo, quel fascicolo esplorativo assumerà i connotati di una inchiesta per bancarotta fraudolenta che è ancora in corso. L'incrocio, che potrebbe portare ad approfondire anche le manovre attorno all' Air Force Renzi soprattutto in relazione al gravosissimo impegno finanziario sostenuto dalle casse pubbliche per il noleggio da Etihad, sta nel fatto che all' epoca la società mediorientale era socia al 49% della nostra compagnia di bandiera. C' è peraltro anche un ulteriore dettaglio che ha incuriosito - secondo quanto ha potuto verificare il nostro giornale - gli inquirenti: poco prima della stipula dell' accordo per l' Air Force Renzi, la compagnia di Fiumicino aveva emesso un' obbligazione per un importo quasi identico a quello del leasing, circa 200 milioni di dollari, interamente sottoscritti da Etihad. Una semplice coincidenza oppure un incentivo per partecipare alle operazioni di salvataggio di Alitalia? L'inchiesta dell'ufficio inquirente laziale verte in particolare proprio sulla responsabilità degli amministratori indicati dalla compagnia emiratina per il buco da 400 milioni di euro che ha zavorrato Alitalia. Tra il 2017 e il 2018, le fiamme gialle hanno acquisito documenti presso la sede sociale della compagnia tricolore concentrandosi, nello specifico, sulle relazioni dei commissari straordinari e su altri dossier raccolti dai loro consulenti sull' origine delle perdite, con un focus sui primi due mesi del 2017, quando sono stati bruciati più di 100 milioni di euro. Tra le tante attività finite nel mirino degli investigatori, due le operazioni su cui si concentra l' attenzione della guardia di finanza: la cessione di alcuni slot particolarmente pregiati (ovverosia le finestre temporali a disposizione di una compagnia per decollare da determinati aeroporti: le fasce orarie comode e ambite dai viaggiatori valgono più di quelle particolarmente disagevoli) passati dalla compagnia di bandiera ad Etihad e tutta la partita dei punti Millemiglia accumulati dalla società. L' Air Force Renzi non ha ancora superato l' uragano.
· Governo che va, Auto Blu che resta.
PASSANO I GOVERNI, RESTANO LE AUTO BLU. Francesco Bisozzi per “il Messaggero” il 4 maggio 2019. Le auto di Stato sono aumentate da 29.195 a 33.527, come anticipato da Il Messaggero. Una su dieci è un' auto blu, stando all' ultimo censimento del Dipartimento della funzione pubblica. Sono infatti 3.366 le supercar attualmente in circolazione. L' incremento è stato dettato dai minori tagli ai parchi auto delle amministrazioni pubbliche nel primo anno di governo giallo-verde, oltre che dal maggior numero di enti che hanno partecipato alla rilevazione. Il ministero dei Trasporti guidato da Danilo Toninelli, da cui dipende la gestione del Servizio automobilistico delle amministrazioni centrali tramite cui vengono assegnate alle alte cariche dello Stato le vetture necessarie allo svolgimento dei compiti istituzionali, oggi può contare su una flotta composta da 96 veicoli. Due di più rispetto a quando c' era al suo posto Graziano Delrio. In compenso le auto blu e grigie parcheggiate nei cortili dei ministeri e della presidenza del Consiglio sono leggermente diminuite, da 178 a 166. Mentre nei garage dei Comuni sono passate da 14.279 a 16.381 (+2.102). In cima alla classifica degli ex municipi con più vetture figura il Comune di Torino di Chiara Appendino con 212 mezzi a disposizione, seguito a ruota dal Comune di Roma a quota 133 auto. Il vizio delle auto blu, insomma, non risparmia proprio nessuno a giudicare dai numeri contenuti nel censimento. Nemmeno i pentastellati, che avevano fatto della loro allergia a sprechi e privilegi un vessillo. Nell' ultimo anno le auto di Stato sono aumentate del 10 per cento. Il censimento del Dipartimento della funzione pubblica, condotto in tandem con il Formez, rispetto al 31 dicembre del 2017 ha rilevato la presenza di 4.332 vetture aggiuntive. Numeri scomodi per il governo a trazione grillina dopo che il tema delle auto blu è tornato al centro del dibattito pubblico, per effetto di due bandi della Consip che prevedono il noleggio e l' acquisto di 8.280 auto di Stato entro l' anno per una spesa di poco inferiore ai 170 milioni.
L' incremento delle auto blu e grigie avvenuto nell' ultimo anno è stato dettato solo in parte dal maggior numero di amministrazioni che hanno partecipato al sondaggio per evitare le sanzioni previste dalla legge: sono 8.366 gli enti che hanno comunicato i dati richiesti (nel 2017 si erano fatti avanti in 6.890 tra amministrazioni centrali, regioni, province, comuni, asl e università). Nel 2018 i parchi auto pubblici non solo hanno subìto minori tagli rispetto al passato, ma in alcuni casi sono stati persino ampliati. In un anno il Comune di Roma si è sbarazzato di 6 mezzi soltanto. Il Comune di Torino, che dispone quasi del doppio delle automobili, ha rinunciato ad appena 21 vetture. Anche il Comune di Firenze può contare su una flotta extra-large (109 veicoli). Sono aumentate nel frattempo del 50 per cento le auto presenti nel garage del Comune di Reggio Calabria governato dal Pd (erano 60 nel 2017, oggi sono 94). Seguono i Comuni di Modena (87), Cagliari (77) e Parma (71). Nella top ten degli ex municipi con più auto c' è spazio anche per i Comuni di Brescia (68), Trento (67) e Udine (64). Considerato poi che non ha risposto all' appello circa il 17 per cento delle amministrazioni pubbliche, il numero delle auto blu e grigie effettivamente in circolazione è senz' altro più elevato rispetto a quello che emerge dall' indagine eseguita dal ministero della Pubblica amministrazione. Le auto in mano alle amministrazioni dello Stato continuano a rimanere sopra la soglia dei duecento mezzi complessivi (206). Più della metà (105) risulta essere un' auto blu. Sono 12 le supercar in mano alla Corte dei Conti, 16 quelle assegnate al Consiglio superiore di magistratura. Nei garage dell' Agenzia delle Entrate sono parcheggiate invece 25 auto blu. Le Province arrivano a 1.433 mezzi complessivi, mentre le Regioni dispongono oggi di 1.539 auto vetture (un terzo sono auto blu). La giunta della Regione Sicilia può contare su una flotta di 70 auto con autista: un record. Al censimento non hanno partecipato tra gli altri il Consiglio regionale della Puglia e la Giunta regionale della Liguria.
· Alitalia, in due anni erogati 900 milioni di prestito pubblico.
Alitalia: quanto è costata agli italiani. Tra ricapitalizzazioni, cordate e salvataggi vari lo Stato (quindi gli italiani) in 40 anni hanno versato 10 miliardi. Barbara Massaro il 22 novembre 2019 su Panorama. Dieci miliardi di euro in 40 anni. E' quanto lo Stato italiano ha speso nella storia per tentare di salvare, recuperare e ricapitalizzare Alitalia.
Alitalia: quanto ci costi! Dieci miliardi cui vanno aggiunti ulteriori 400 milioni di euro stanziati dal dl fisco dopo il settimo rinvio per la presentazione delle offerte vincolanti da parte dei partecipanti alla newco: Fs, Atlantia e Delta. E adesso i rinvii sono arrivati a 8. Altre 3 settimane per cercare di evitare il fallimento e questuare qualche spiccio in più di 100 milioni di euro a Delta Air Lines o in alternativa riportare in corsa Lutfhansa.
I 900 milioni del 2017. Riavvolgendo il nastro della storia di Alitalia si torna all'aprile 2017 quando con un referendum i lavoratori della compagnia di bandiera avevano bocciato il pre-accordo per il salvataggio e la ricapitalizzazione da 2 miliardi della società allora guidata da Etihad. Il piano era stato respinto dato che la compagnia degli emirati aveva chiesto un taglio di circa mille lavoratori. A causa del no il governo Gentiloni dovette commissariare la compagnia decidendo per l'ennesima ricapitalizzazione da 900 milioni di euro.
1974-2007. Mediobanca, nel 2015 aveva calcoltato quanto fosse costata Alitalia agli italiani prima della vendita a Etihad avvenuta nel 2014: 7,4 miliardi di euro. Secondo il report dell'istituto di credito tra il 1974 e il 2007 - quando Alitalia è stata commissariata - lo Stato spese 5,397 miliardi di euro tra aumenti di capitale (4,949 miliardi), contributi (245 milioni), garanzie prestate (8 milioni) e altri contributi pubblici (195 milioni). Nello stesso periodo la compagnia di bandiera, tra collocamenti e negoziazioni, imposte e dividendi ha generato introiti per lo Stato pari a 2,075 miliardi di euro. Il saldo finale segna una perdita di 3,322 miliardi.
2008-2014. La seconda tranche di conti è quella che va dal 2008 al 2014. In sei anni dai conti pubblici sono stati sottratti 4,1 miliardi di euro. Solo nel 2008, a un passo dal fallimento, è stato erogato un prestito da 300 milioni e in seguito tra operazioni sui titoli e interventi sui salari e sulla cassa integrazione sono usciti altri 2,5 miliardi di euro. Alla lista vanno sommati 1,2 miliardi di passivo patrimoniale e 75 milioni versati da Poste Italiane a Cai. Sommando i due periodi (3,322 e 4,1 miliardi) si arriva al totale di oltre 7,4 miliardi di euro. Esistono anche altre stime che arrivano a un totale persino più elevato.
Si spende più di quanto si guadagna. Il problema di Alitalia, secondo gli analisti, è che la compagnia sì fattura, e anche bene (l'ultimo bilancio parla di 3 miliardi di euro in un anno), ma ha spese maggiori delle entrate. Solo nel 2018 i ricavi sono stati pari a 3,071 miliardi in crescita del 3,5% rispetto ai 2,9 miliardi del 2017 e nel 2019 ci si aspetta risultati in linea con questa parabola di crescita. Se si guarda alla voce "spese", però, i conti non tornano. In un solo anno, il 2018, sono usciti 3,191 miliardi di euro e, avendone guadagnati "solo" 3,071 miliardi, a fine anno il conto Alitalia era in rosso. A ottobre 2019 il salvadanaio Alitalia conteneva 315 milioni di euro (rispetto ai 310 milioni di settembre, a inizio dell'amministrazione straordinaria ce ne erano 83). Nel primo semestre dell'anno la compagnia ha realizzato ricavi per 1,443 miliardi, in crescita del 3% sullo stesso periodo dell'anno scorso e del 7,7% rispetto ai primi sei mesi del 2017, ma la prospettiva è quella di non riuscire a chiudere l'anno in attivo neppure nel 2019. Dopo l'ennesimo rinvio ora spunta l'ipotesi di rispolverare il vecchio amico Air France-KLM, che potrebbe unirsi alla cordata di possibili investitori che, ancora una volta, cercheranno di cavare le castagne dal fuoco di Alitalia.
SOLDI BUTTATI DAL CIELO. Paolo Stefanato per “il Giornale” l'8 ottobre 2019. Questa volta lo sciopero dei piloti e degli assistenti di volo Alitalia arriva al momento giusto, a ridosso del termine per la presentazione delle offerte vincolanti per l' acquisto della compagnia, fissato a martedì 15. L' agitazione di 24 ore, rinviata quattro volte in cinque mesi, si farà domani, e sono già stati cancellati 220 voli su una media giornaliera di 520. Le motivazioni della protesta si sono via via affinate: ora Anpac, Anpav e Anp sono allarmate per il piano industriale di Fs-Delta «da cambiare radicalmente, altrimenti tra due anni siamo da capo», dice Marco Veneziani, presidente dell' Anp. «Occorrono più capitali, una cordata coesa, sviluppo sul lungo raggio. Nel 2008, quando Alitalia stava per entrare nell' orbita di Air France e Klm, la flotta complessiva (con Air One) era di 210 aerei, oggi sono 114 e col nuovo piano si riducono a 100». Quasi a lanciare un segnale, i sindacati appaiono più morbidi sugli oltre 2mila esuberi, convinti che saranno ricollocati tra Ferrovie e Aeroporti di Roma (gruppo Atlantia). Parole velenose per i commissari che «in 29 mesi non sono stati ancora capaci di fare quello che erano stati chiamati a fare: vendere la compagnia. Hanno bruciato i 900 milioni del prestito ponte, mentre l'azienda continua a perdere le cifre di sempre, 11,5 milioni al giorno». I soldi sono un problema spinoso e attuale. Con la cassa Alitalia non arriva a fine anno, e il fabbisogno ulteriore per garantire l' operatività è stimato in 350 milioni. Del tutto impopolare finanziare ancora questo pozzo senza fondo con denaro del ministero dell' Economia, perché i contribuenti non capirebbero. Unica possibilità, staccare l' assegno all' arrivo dei nuovi soci, così da giustificare l' ultimo sforzo in presenza di una soluzione. Vedremo. Ci sono, oltretutto, tempi tecnici non brevissimi per far decollare la newco, tra il rilascio della nuova licenza di volo, la girata dei contratti, l' intestazione dei bilaterali. Tutti, comunque, danno per scontato il rinvio (di competenza del Mef) della data del 15, perché sulla compagine dei futuri soci e sul piano industriale ci sono ancora attriti. Atlantia nei giorni scorsi ha richiamato l' esigenza di chiarezza e di un vero piano di rilancio, al quale soltanto si conferma disponibile. Venerdì un incontro a Mediobanca ha permesso di sintetizzare i temi ancora da definire e le loro debolezze, e tale sintesi viene inviata in queste ore al ministro Stefano Patuanelli. Il miliardo indicato come capitalizzazione iniziale della newco è considerato insufficiente a un piano di rilancio, per il quale vengono ipotizzati 3-4 miliardi, anche diluiti in più esercizi. Il piano messo a punto dalle Fs prevede forti perdite nei primi due anni e non indica una data per il pareggio. La posizione svantaggiata riservata ad Alitalia nella joint-venture transatlantica crea il sospetto che Delta abbia intenzioni speculative e non di lungo periodo, mentre è sempre aperta la discussione sulle nuove rotte da programmare verso gli Stati Uniti.
Alitalia: 9 cose che nessuno vi ha mai detto. Il futuro della compagnia è ancora in bilico, come un brutto romanzo a cui aggiungere un nuovo capitolo. Mai l'ultimo. Guido Fontanelli il 25 ottobre 2019 su Panorama.
1) La crisi del settore. Alitalia va male perché il settore è in crisi? In realtà da un decennio le compagnie aeree sono in utile e si prevede che quest’anno porteranno a casa 35,5 miliardi di profitti netti. Certo, non tutte stanno bene: come ricorda il sito Aviation industry news nel mondo volano 838 compagnie. Forse sono un po’ troppe e molte faticano a reggersi in piedi. In particolare in Europa, come dicono i recenti fallimenti di Thomas Cook e Adria Airways. Ma prosperare nel settore è possibile. Magari con meno personale e obiettivi più chiari.
2) Le dimensioni contano. Un altro luogo comune su Alitalia riguarda le dimensioni. Oggi la compagnia trasporta 22 milioni di passeggeri all’anno, meno della svedese Sas, un terzo della Turkish, addirittura un sesto del gruppo Lufthansa, meno addirittura di quanti ne trasporta la Ryanair in Italia (circa 40 milioni). Però ci sono aziende più piccole che riescono a guadagnare: la portoghese Tap, la greca Aegean, l’italiana Neos. Non contano le dimensioni, ma l’obiettivo che ti prefiggi.
3) Un asset strategico per il turismo. Dire che Alitalia è strategica fa sorridere: la compagnia, sottolinea Andrea Giuricin dell’Università di Milano-Bicocca, trasporta solo l’8 per cento dei passeggeri internazionali in entrata e in uscita dal Paese ed è al quinto posto dopo Ryanair, Easyjet, Lufthansa e Iag (British più Iberia). In realtà, se un Paese è attraente ci saranno sempre compagnie aeree interessate a trasportarvi turisti e uomini d’affari, Alitalia o no.
4) Meglio privatizzare. Lo Stato non dovrebbe più occuparsi dell’Alitalia e lasciar fare ai privati? Si può facilmente obiettare che i cosiddetti «capitani coraggiosi» ci provarono con pessimi risultati. E poi in Europa molte compagnie aeree hanno una presenza pubblica, come Air France-Klm (con una quota del 17,6 per cento), Finnair (55,), la citata Tap (50), Turkish (49), Sas (42,8 suddiviso tra Svezia, Danimarca e Norvegia). Non sempre privato è meglio.
5) Vendere allo straniero. Alitalia non è abbastanza piccola come Tap o Aegean, che si sono specializzate su alcune rotte, né abbastanza grande da competere con colossi come Lufthansa. Allora perché non cederla proprio ai tedeschi, che hanno rilevato Brussels Airlines, Austrian, Swiss mantenendole in vita con i loro hub e una discreta autonomia? Vero, ma a parte l’improbabile passo indietro della politica, quelle sono compagnie con poche rotte locali, più facili da sistemare rispetto all’Alitalia.
6) Il «cavaliere bianco» americano. Tra i presunti salvatori di Alitalia l’unico socio industriale è l’americana Delta. Va ricordato che Delta si è schierata contro i voli Italia-Usa svolti da Air Italy, controllata da Qatar Airways, accusandola di aggirare gli accordi per volare negli Stati Uniti. «L’interesse di Delta verso Alitalia» si chiede Aviation Industry News «potrebbe essere motivato dalla volontà di mettere il bastone fra le ruote di Qatar nei voli transatlantici Italia-Usa?».
7) Il sistema rema contro. Oltre a dover pagare tariffe alte ad Adr, Alitalia deve avvalersi, visto che vola soprattutto in Italia, dei servizi Enav per l’assistenza in volo. Quotata in Borsa, questa ha alti margini e applica tariffe tra le più elevate tra i circa 40 Paesi che aderiscono a Eurocontrol. Non solo: Alitalia patisce molto la concorrenza dei circa 40 aeroporti che, nel Paese, pur di sopravvivere, sovvenzionano le compagnie low cost.
8) Amico treno. Gregory Alegi della Luiss sostiene che, in teoria, una alleanza Trenitalia- Alitalia potrebbe funzionare: in Francia esiste un Tgv che porta dall’aeroporto parigino Charles de Gaulle a Mont Saint-Michel. Ma bisogna migliorare le stazioni degli scali. «Per la concorrenza l’integrazione con l’aeroporto non è fattibile» replica Giuricin «così come la creazione di Alitrenitalia porterà a un intervento dell’Antitrust su alcune rotte».
9) Il vero limite: la visione che non c’è. Insomma, se le dimensioni, l’essere privata o pubblica o finire in mano straniera contano relativamente poco, perché Alitalia perde sempre soldi? Secondo Alegi il problema è quasi culturale: vogliamo una compagnia che voli un po’ dappertutto ma che sia sotto tutela statale, anche se la ostacoliamo in tutti i modi. E pure in quest’ultimo tentativo di rilancio, manca una visione: quali obiettivi vogliamo raggiungere, con quali rotte e, voce non banale, con quanti soldi?
Alitalia, in due anni erogati 900 milioni di prestito pubblico. E perde 57 mila euro l’ora. Pubblicato mercoledì, 1 maggio 2019 da Leonard Berberi e Claudio Del Frate su Corriere.it. Doveva essere un dossier da chiudere in fretta. Al massimo in 6-7 mesi. Giusto il tempo di ricevere le manifestazioni di interesse delle società — meglio se già del settore —, scegliere la migliore, decidere i dettagli della vendita e ridurre al minimo le conseguenze sulla forza lavoro. Ma due anni, un governo e 900 milioni di euro di prestito pubblico dopo il faldone «Alitalia» resta ancora aperto, saldamente nelle mani di un altro esecutivo e di tre commissari che devono trovare un orizzonte stabile per la compagnia tricolore. E in un contesto che in ventiquattro mesi «è cambiato — in peggio — nel trasporto aereo mondiale e soprattutto europeo, non soltanto da punto di vista finanziario, ma anche politico». È quanto raccontano alcuni esperti coinvolti nelle trattative. Oltre a loro il Corriere ha sentito dirigenti ed ex dirigenti di Alitalia, consulenti, membri del governo italiano, della Commissione europea e manager delle compagnie aeree che chiedono l’anonimato da un lato per ragioni strategiche, dall’altro perché non autorizzate a parlarne in pubblico. Quando il 24 aprile 2017 i dipendenti di Alitalia — allora per il 49% di Etihad — bocciano in un referendum il pre-accordo sui tagli e i licenziamenti per rilanciare l’azienda la cassa contabilizza 83 milioni di euro, «di questi 74 direttamente disponibili», ricorda un ex dirigente del vettore. La stagione estiva — che per l’aviazione rappresenta il periodo di maggiori ricavi ed è il semestre aprile-ottobre — intanto è iniziata, il lungo periodo delle vacanze si avvicina e i viaggiatori stanno ultimando le prenotazioni. Alitalia — come ha confermato di recente Stefano Paleari, uno dei commissari — in quel periodo ha «venduto oltre 4,5 milioni di biglietti per un controvalore di circa 531 milioni di euro», nella maggior parte ticket relativi al bimestre luglio-agosto. Ma i fondi a disposizione consentono di far volare gli aerei per non più di due settimane, con uno stop alle attività previsto tra il 5 e il 12 maggio 2017. Intanto la Iata, l’associazione internazionale che riunisce buona parte delle aviolinee, chiede 118 milioni di garanzia, temendo il default. E le vendite — ricorda Paleari in un’audizione — «presentano un trend negativo per una crisi di fiducia da parte dei passeggeri e degli operatori del settore». Ad Alitalia servono soldi. E subito. «Circa 240 milioni per il periodo maggio-giugno 2017, attorno ai 597 milioni per il semestre maggio-ottobre dello stesso anno», conferma chi ha avuto modo di studiare la contabilità dell’azienda. È così che il 2 maggio si arriva all’amministrazione straordinaria. Tre giorni dopo l’allora governo Gentiloni concede un primo finanziamento di 240 milioni di euro. Altri 360 milioni arrivano a ottobre. Il 15 gennaio 2018 vengono consegnati altri 300 milioni. Novecento milioni di prestito in tutto, al netto degli interessi, da mesi sotto la lente della Commissione europea che deve ancora decidere se si tratta di aiuti di Stato oppure no. «Il dossier Alitalia è tra i più complicati attualmente sotto esame», confermano da Bruxelles. Che spiegano anche la divisione interna agli uffici della Concorrenza: «Una parte dei funzionari preme perché questo approfondimento sia concluso prima delle elezioni europee, un’altra preferisce che la decisione arrivi solo quando il governo italiano avrà notificato alla Commissione la conclusione della vendita di Alitalia». Messi al sicuro, anche se provvisoriamente, i conti di Alitalia inizia l’iter dei pretendenti. A giugno 2017 arrivano 33 manifestazioni d’interesse. Tra queste c’è un po’ di tutto. Compaiono pure fondi speculativi americani. La scadenza delle proposte vincolanti viene rimandata diverse volte. Gli interessati iniziano a ridursi. La maggior parte — come confermano alcuni manager delle società coinvolte — lo fa solo per leggersi i conti di Alitalia, capirne i punti di forza e debolezza da sfruttare a proprio vantaggio. Cosa che è già iniziata nei mesi scorsi. A contendersi il vettore tricolore restano così il gruppo Lufthansa con il suo piano di rilancio definito «lacrime e sangue», la low cost europea easyJet, l’americana Delta Air Lines. Il governo — o meglio: il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio, come ricostruiscono le fonti — preme perché invii la busta anche Ferrovie dello Stato che così diventa la capo-cordata di un’operazione senza precedenti. Poi easyJet si sfila. Restano FS e Delta con il contributo del ministero dell’Economia. Si parla di quote ipotetiche, di pesi specifici, ma l’unica certezza è che il tempo stringe e manca un altro socio. Socio che viene individuato in Atlantia, azienda che controlla Aeroporti di Roma che a sua volta gestisce gli scali della Capitale, compresa Fiumicino, l’hub di Alitalia. Ma Atlantia vuol dire gruppo Benetton, quindi Autostrade e dopo il 14 agosto 2018 — giorno del crollo del ponte Morandi — i rapporti col governo (o meglio: Movimento 5 Stelle) sono ai minimi storici. Per questo nei mesi scorsi — come ricostruiscono fonti dell’esecutivo — Luigi Di Maio inizia a sondare un eventuale interesse del gruppo Toto, già impegnato in una delle vite di Alitalia: un’esperienza negativa per il vettore tricolore. Il nuovo nome fa rumore. Molte delle parti coinvolte si mostrano sorprese, soprattutto per non essere state informate. Il gruppo Toto fa sapere di non essere interessato. Ma il vice presidente del Consiglio Di Maio, parlandone con i suoi, conferma che nella possibile cordata ci potrebbe essere o Atlantia o Toto. Intanto FS chiede di prorogare il termine fissato dai tre commissari di Alitalia per la formalizzazione di un’offerta vincolante. Di rinvio in rinvio si arriva così a spegnere la seconda candelina dell’amministrazione straordinaria. In Delta Air Lines guardano la situazione con un misto di interesse e preoccupazione. Il mercato italiano è appetibile. L’azienda statunitense ufficialmente non fornisce cifre. Ed Bastian, ad del vettore Usa, conferma agli investitori le discussioni di Delta con FS e il governo su un «potenziale investimento in Alitalia», ma li invita a non chiedere — per ora — l’entità dell’impegno finanziario. Di sicuro «si tratterà di un investimento limitato del nostro contante a disposizione», confidano al Corriere dal quartier generale di Atlanta. E ribadiscono di non avere più di tanta fretta. «Non abbiamo posto una scadenza a FS o all’esecutivo italiano, non abbiamo deciso una tabella di marcia del nostro eventuale impegno in Alitalia». In Delta sanno che potrebbe volerci tempo. Ma sanno anche che un’Alitalia in mano a Lufthansa sarebbe un disastro per il loro mercato transatlantico. Nel gruppo tedesco, intanto, restano a guardare. Più d’un dirigente sorride per quello che sta succedendo, quasi a sottolineare il fatto che l’avevano previsto. Del resto la posizione di Carsten Spohr, ad di Lufthansa, è sempre stata quella da tempo: il rilancio di Alitalia può avvenire soltanto riducendo la flotta (a un’ottantina di aerei sui 117 attuali) e il personale (del 40% circa). Di fronte al «no» del governo Lega-5 Stelle i tedeschi hanno fatto un passo indietro, ma senza mai chiudere il dossier. Proprio Spohr ha confidato tempo fa ai manager del colosso la convinzione che presto sarà proprio Roma a bussare alla loro porta, chiedendo di rilevare Alitalia e salvarla dalla liquidazione. Ma non è escluso un altro scenario: il default. L’idea sarebbe quella di comprare il marchio di Alitalia e ripartire con quel logo sfruttando il certificato di operatore aereo italiano di Air Dolomiti. Un’operazione che, secondo alcuni esperti, potrebbe richiedere al massimo un paio di settimane. Ma il vettore tricolore piace anche ad altre compagnie. «Non certo per le sue performance, ma perché presiede un mercato che ci consente di svilupparci ulteriormente verso l’Africa per esempio e ovviamente perché si trova in Italia, destinazione turistica da un lato e business dall’altro», ammette un vicepresidente di una delle più grandi compagnie del Vecchio Continente. Gli analisti ritengono che l’unico modo di sopravvivere nei cieli europei sia quello di entrare in un grande gruppo. E i gruppi sono sempre quelli: Lufthansa, Iag (holding di British Airways, Iberia, Aer Lingus, Vueling), Air France-Klm, al netto della low cost Ryanair. Per Alexandre de Juniac, numero uno della Iata, «il processo di consolidamento in Europa si è arrestato nel 2010: oggi questo avviene mediante l’acquisizione dei compagnie già fallite, com’è successo con Air Berlin». Ma preferisce non esprimersi su Alitalia: «Aspettiamo e vediamo». Secondo lui, un tempo ad di Air France-Klm, «ci sono troppi vettori in Europa, e anche molte low cost».
Il comunicato in cui Alitalia annuncio l’avvio dell’amministrazione straordinaria. «Questa operazione di metter insieme una compagnia aerea e una società di trasporto ferroviario — come sta avvenendo in Italia — è interessante», aggiunge Brian Pearce, capo economista della Iata, l’uomo dei numeri e delle previsioni. «Il settore da anni cerca di capire come integrare le due modalità di trasporto, soprattutto perché la gestione del treno e dell’aereo non è proprio così simile, sarà interessante vedere che succederà con Alitalia». Ma il tempo stringe e le condizioni di mercato sono cambiate. «Il kerosene queste settimane è sugli 84-85 dollari al barile, esattamente due anni fa era sui 60 dollari, prezzi che fanno schizzare la bolletta energetica delle aviolinee anche al 40% dei costi di gestione complessivi: Alitalia va ceduta il prima possibile così da affrontare il prossimo inverno che si annuncia molto complicato per l’aviazione», racconta un Chief financial officer di un vettore europeo. «Anche perché sul mercato ci sono altre Alitalia come la polacca Lot, la scandinava Sas, la nordica Norwegian Air, la portoghese Tap: a Roma dovrebbero preoccuparsi di sistemare la compagnia prima che quei pochi soldi nelle casse dei gruppi finiscano altrove». Anche perché la cassa di Alitalia è scesa sotto i 500 milioni di euro. E l’inverno sta già arrivando.
· L’Europa Matrigna ed i soliti coglioni.
Se l'Italia versa milioni al Consiglio d’Europa che scheda i politici sovranisti. Fondato per promuovere i diritti umani, il Consiglio d'Europa ha più volte attaccato e penalizzato i partiti sovranisti. Ora la Lega vuole tagliare i fondi. Sergio Rame, Martedì 08/10/2019, su Il Giornale. "Adesso basta". La Lega non ci sta più a vedere andare in fumo montagne di soldi, bruciati in nome di un'organizzazione internazionale che, poi, passa il tempo a bacchettare il nostro Paese. Per porre fine a tutto questo Paolo Grimoldi e Alberto Ribolla hanno proposto che non venga più versato l'obolo al Consiglio d'Europa. Ogni anno il nostro Paese regala al Consiglio d'Europa ben 35 milioni di euro. Una pioggia di denaro pubblico nelle casse di un organismo europeo che poi si permette di mettere nero su bianco che in Italia la politica è comandata dalla mafia. Sulla carta lo scopo di questa organizzazione internazionale, fondata il 5 maggio 1949 con il Trattato di Londra, è "promuovere la democrazia, i diritti umani, l'identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa". In concreto, poi, è altamente politicizzata. In passato, per esempio, si è addirittura messa a svolgere un attività di dossieraggio sui parlamentari dei partiti sovranisti, setacciando sulle loro pagine social, dichiarazioni o commenti di taglio xenofobo per poter impedire la nascita del loro nuovo gruppo parlamentare. Alla faccia delle più basilari regole democratiche. Per fermare le battaglie politicizzate del Consiglio d'Europa ed evitare un ulteriore sperpero di denaro pubblico, Grimoldi e Ribolla hanno depositato alla commissione Affari Esteri alla Camera una risoluzione che impegna il governo Conte a "rivedere in senso restrittivo la parte di finanziamento, legata percentualmente al pil del nostro Paese, che viene trasferito all'organizzazione per il suo funzionamento, cassando al contempo qualsiasi trasferimento extra-budget, alla luce dei criteri settari e manipolatori che l’organizzazione succitata utilizza nei confronti dei parlamentari italiani espressione di un voto democratico di un grande Paese democratico". Nella loro risoluzione i due deputati del Carroccio ricordano come il Consiglio d'Europa abbia più volte offeso il nostro Paese. In più di un'occasione, si legge, l'ente ha espresso "la propria preoccupazione per la presenza in Italia della criminalità organizzata e delle mafie che a suo dire esercitano una forte presa sulla politica italiana" e ha svolto "un'inopportuna attività di dossieraggio nei confronti dei singoli parlamentari della delegazione della Lega e di altre forze politiche" (come i francesi del Front National, gli austriaci di Freiheitliche Partei Österreichs, i tedeschi di Alternative für Deutschland) a cui è stato anche negato il riconoscimento al gruppo parlamentare autonomo "Nuovi democratici europei/Europa delle nazioni e delle libertà".
L’EUROPA SARA’ PURE MATRIGNA MA NOI SIAMO I SOLITI COJONI. Diodato Pirone per “il Messaggero” l'8 aprile 2019. Nel 2018 l'Italia ha dovuto versare nelle casse dell' Unione Europea la bellezza di 148 milioni di euro per multe scattate per il mancato rispetto di direttive Ue. Non si tratta dell' ennesimo capitolo della saga dell' Europa cattiva contro l' Italia lasciata sola. Il fatto è che il nostro Paese ha subito cinque condanne da parte della Corte di Giustizia per aver infranto in vario modo regole europee e dunque ora stiamo pagando le salatissime multe esattamente come quando i vigili ci affibbiano una sanzione per un parcheggio in seconda fila. Il risultato è lampante: dal 2012 - secondo un rapporto preparato da Openpolis che fa la radiografia del fenomeno - abbiamo versato a Bruxelles 547 milioni di euro. Per quali multe? La più cara riguarda la gestione delle ecoballe dei rifiuti campani. La Ue ha stabilito delle regole di gestione dei rifiuti che valgono per tutta l' Europa e l' incapacità di alcune Regioni di adeguarsi è stata certificata dai giudici. E così le ecoballe campane solo nel 2018 ci sono costate 48 milioni. Pagati per la grandissima parte dalla Regione Campania. Un' altra condanna che ci sta costando carissima è quella per 200 discariche abusive sul territorio nazionale. L' Ue ha messo l' Italia nel mirino addirittura nel 2003. Non siamo stati in grado di venirne a capo e così dal 2015 l' Italia sta pagando circa 50 milioni all' anno per un totale che finora è arrivato a 204 milioni. A quattro anni dalla condanna sono da regolarizzare ancora 55 discariche. C' è da preoccuparsi, insomma, anche perché sul fronte delle infrazioni la situazione sta peggiorando. Al momento sono 73. Erano 59 quando il governo Conte ha cominciato a lavorare. I numeri raccontano di un netto peggioramento dell' amministrazione giallo-verde rispetto a quella del centro-sinistra. Dei tre governi della scorsa legislatura, solo quello guidato da Enrico Letta aveva visto aumentare il numero di procedure durante la sua durata, passando dalle 98 dell' insediamento alle 119 di fine febbraio 2014. Con l' arrivo del governo Renzi poi i numeri hanno iniziato a sgonfiarsi notevolmente, arrivando a dicembre del 2016 a quota 70. L' esecutivo guidato da Paolo Gentiloni ha continuato il lavoro di contenimento delle infrazioni, portando il totale a inizio giugno 2018, insediamento del governo Conte, a quota 59. Più in generale ad oggi l' Italia è il sesto paese con più infrazioni pendenti presso Bruxelles. Davanti a noi abbiamo la Spagna (101), la Germania (83), il Belgio (80), la Grecia (78) e la Polonia (77). Delle 72 procedure contro l' Italia attualmente in essere, 37 (il 50,68%) sono ancora all' inizio dell' iter. Per esse infatti l' ultimo aggiornamento risale all' invio da parte della Commissione della lettera in costituzione in mora, come previsto dall' articolo 258 del Trattato fondativo dell' Ue. Sedici (il 21,92%) sono al secondo passaggio, il parere motivato da parte della Commissione, mentre per altre 11 (15,07%) Bruxelles ha già fatto ricorso alla Corte europea di giustizia. Circa l'87% delle procedure è quindi ancora sotto la normativa dell' articolo 258 del Trattatto Ue, e quindi la Commissione non ha ancora chiesto l' imposizione di sanzioni economiche. L' Italia è nel mirino di Bruxelles soprattutto per l' ambiente, al centro del 26% delle infrazioni (19 casi su 72), seguito a distanza dalle questioni collegate al mercato interno (16,44%, 12 casi) e quelle che riguardano tassazione e dogane (13,70%, 10 casi). Quando si parla di infrazioni, sottolinea il documento di Openpolis, non si parla solamente di numeri o di soldi. La cattiva gestione delle procedure d' infrazione da parte dell' Italia ha un costo d' immagine. Proprio per questo motivo alcune delle procedure d' infrazione attualmente ancora aperte meritano un' attenzione particolare altre invece sono francamente bizzarre come ad esempio quella aperta dal 2004 su alcuni aspetti della legge Gasparri sulle tivvù ormai ampiamente superata. Rischia invece di costarci cara la probabile condanna sugli aiuti alle aziende municipalizzate specie quelle dei trasporti.
· Le Scorte. Sprechi presidenziali emeriti.
Chiara Giannini per “il Giornale” il 23 luglio 2019. Il presidente della Repubblica emerito, Giorgio Napolitano, 94 anni, è in questi giorni in vacanza a Marina di Cecina, in provincia di Livorno, insieme alla moglie, la signora Clio. Ma la sua presenza ha già scatenato polemiche tra le forze dell' ordine. A quanto pare, infatti, alla Questura di Livorno è arrivata la richiesta di poter avere 4 agenti di polizia che faranno da autisti, due per ciascuno dei coniugi, al politico e alla consorte. I due, infatti, avranno impegni diversi e hanno chiesto di potersi muovere in maniera indipendente. Inoltre, si rivendicherebbe anche la presenza di 2 agenti che possano garantire la loro sicurezza, su turni di 6 ore, nella struttura militare in cui sono ospitati. In questo caso a spartirsi i compiti saranno Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza. Otto rappresentanti delle forze dell' ordine, insomma, che saranno tolti da un territorio già abbastanza provato dalla carenza di agenti, su cui peraltro ci sono problemi di spaccio e criminalità. Dai sindacati di Polizia già si levano i cori di protesta, visto che la carenza di personale, soprattutto nel periodo estivo, si fa sentire. Oltretutto, Napolitano e la moglie si sono portati dietro anche gli uomini della scorta personale, che alloggeranno anche loro per 45 giorni, tanto il periodo previsto per le ferie del Presidente emerito, a spese del contribuente. L'altro ieri il politico ha fatto un giro per Bolgheri, nota località turistica famosa per la produzione del vino e in molti lo hanno riconosciuto per strada e salutato. Si vocifera, inoltre, che potrebbe essere ospite alla festa de L' Unità che si svolgerà a Livorno nel mese di agosto e ad altri eventi politici in programma sul litorale labronico.
I privilegi del Presidente emerito, l' unico ancora in vita, sono numerosi, secondo le cronache. Si parte dall' autista per lui, per la moglie, ma anche per il primogenito, fino a un «addetto alla persona», ovvero una sorta di maggiordomo che lo segua per le sue necessità. Ha quindi circa 15mila euro netti al mese come indennità per essere senatore a vita, una segreteria con diverse persone, un ufficio da circa 100 metri quadri a Palazzo Giustiniani, un segretario personale, un guardarobiere, la scorta sia in auto che a casa, ma anche un' auto, un telefono privato e altri benefits quali lanci di agenzie di stampa da poter visionare, viaggi in treno o altri mezzi di trasporto. Da quanto si apprende, alcune sigle sindacali della Polizia di Stato stanno già predisponendo un documento per chiedere perché, in un momento in cui ci sia carenza di personale, servano così tanti uomini per la sicurezza dell' ex presidente della Repubblica. Anche perché i tanto decantati rinforzi annunciati dal Viminale non sono ancora arrivati e le problematiche sul territorio sono spesso difficili da gestire. In alcuni casi è accaduto che non vi fossero agenti sufficienti per coprire un evento perché le pattuglie a disposizione erano già impegnate altrove. E in situazioni di criticità è veramente difficile poter garantire la tranquillità a residenti e turisti. Insomma, dovrà essere il cittadino a farne le spese, in ogni senso, a partire dal pagamento del soggiorno di Napolitano e signora, fino alla minor presenza di poliziotti a disposizione.
Ufficio del Presidente emerito. Senatore Giorgio Napolitano. Roma, 23 luglio 2019. Al Direttore de "Il Giornale" Alessandro Sallusti.
Signor Direttore, come già accaduto in altre occasioni, sono costretto a smentire i contenuti dell'articolo di Chiara Giannini, pubblicato oggi su “Il Giornale”, simile ad altri apparsi in passato sui periodi di riposo del Presidente emerito Giorgio Napolitano. Le scelte relative al servizio di scorta e di vigilanza del Presidente emerito sono regolate da norme e direttive ovviamente non dipendenti dalla volontà del Presidente Napolitano. Le ricordo il comunicato dell'Ufficio Stampa del Quirinale del 13 giugno 2017: "Si fa presente che corrisponde ad un interesse pubblico e a un obbligo dello Stato garantire, come sempre è avvenuto, la sicurezza dei Presidenti della Repubblica emeriti. La tutela è assicurata, non a richiesta dell'interessato, ma sulla base delle norme vigenti, con gli stessi criteri e con le stesse modalità utilizzati per analoghi servizi di protezione. I dettagli sulla composizione di detti servizi sono dati sensibili." Purtroppo nemmeno questo ultimo, particolare richiamo è stato sufficiente a impedire la diffusione di notizie riservate e di cui nemmeno la segreteria del Presidente emerito è a conoscenza. A questo devo aggiungere che le spese relative al soggiorno del Presidente, di sua moglie Clio e dei loro assistenti domestici sono naturalmente, come negli anni passati, a loro carico. Aggiungo infine che ovviamente nessun figlio del Presidente ha mai avuto vetture o autisti a disposizione. Davvero non si capisce come si continuino a propalare simili invenzioni. Spiace constatare il ritorno di una polemica pretestuosa nei confronti di chi ha bisogno, su indicazione dei medici curanti, di tranquillità e riposo. Distinti saluti, Giovanni Matteoli.
Napolitano: scorta regolare. Ma il Sap non ci sta. La lettera: otto agenti per le ferie stabiliti dalla legge. I sindacati di polizia: sottratti al territorio. Chiara Giannini, Mercoledì 24/07/2019, su Il Giornale. La polemica sulle vacanze toscane del Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, non si risparmia. La notizia, anticipata dal Giornale, che per lo stesso e la moglie Clio la questura di Livorno ha predisposto, su richiesta di Roma, un servizio di 4 autisti (due a testa per il senatore a vita e per la consorte), più altri 4 uomini delle Forze dell'ordine per garantire la sicurezza alla struttura militare in cui saranno ospitati per 45 giorni, nella zona di Marina di Cecina, fa posare nuovamente l'accento sull'opportunità di concedere ai politici, anche laddove abbiano ricoperto il ruolo di più alta carica dello Stato, privilegi d'oro. L'ufficio stampa di Napolitano in una nota fa sapere che «le scelte relative servizio di scorta e di vigilanza del Presidente emerito sono regolate da norme e direttive ovviamente non dipendenti dalla volontà del presidente Napolitano». L'ufficio stampa del presidente ricorda un comunicato del Quirinale del 2017 che recitava: «Si fa presente che corrisponde a un interesse pubblico e a un obbligo dello Stato garantire la sicurezza dei presidenti della Repubblica emeriti. La tutela è assicurata non a richiesta dell'interessato ma sulla base delle norme vigenti, con gli stessi criteri e con le stesse modalità utilizzati per analoghi servizi di protezione. I dettagli sula composizione di detti servizi sono dati sensibili». «Purtroppo - annota ancora l'ufficio stampa - nemmeno questo ultimo particolare richiamo è stato sufficiente a impedire la diffusione di notizie riservate e di cui nemmeno la segreteria del presidente emerito è a conoscenza. A questo devo aggiungere - prosegue - che le spese relative al soggiorno del presidente, di sua moglie Clio e dei loro assistenti domestici sono naturalmente, come egli anni passati, a loro carico. Ovviamente - precisa - nessun figlio del presidente ha mai avuto vetture o autisti a disposizione. Davvero non si capisce come si continuino a propalare simili invenzioni. Spiace - conclude - constatare il ritorno di una polemica pretestuosa nei confronti di chi ha bisogno, su indicazione dei medici curanti, di tranquillità e riposo». I sindacati di polizia, però, non ci stanno. «Quattro agenti di scorta - scrive il segretario generale del Sap (sindacato autonomo di Polizia), Stefano Paoloni - per Giorgio Napolitano e per sua moglie. Due ciascuno, in modo tale da potersi spostare per le proprie esigenze. Intanto i colleghi sono costretti a turni sfiancanti e mal retribuiti. L'apparato della sicurezza è al collasso per i tagli dissennati applicati dai precedenti esecutivi, e spacciati per razionalizzazione». E tiene a dire: «Non abbiamo vestiario, non abbiamo uomini e non abbiamo mezzi. Livorno risente poi particolarmente di queste difficoltà. Sono pochi gli uomini addetti al controllo del territorio per la repressione dei reati. È inammissibile assegnarne ben quattro per le vacanze di Napolitano e consorte. Andrebbero riviste le scorte, razionalizzare in tal senso. E nel frattempo conclude Napolitano potrebbe scegliere di fare vacanze meno impegnative». Anche il segretario provinciale generale dell'Fsp Polizia di Livorno, Pasquale Sannuto, è sulla stessa linea: «Lamentiamo, così come è successo negli ultimi anni, il mancato invio di personale aggregato per la stagione estiva cosa che, invece, avviene regolarmente per le altre località balneari. Problematica - conclude - acuita maggiormente dalla presenza del Presidente emerito Napolitano e consorte, che hanno tolto altro personale al territorio». Insomma, la questione dipenderà anche dalle norme, ma le norme si possono sempre cambiare.
· Forze dell’ordine: si spende in statue e scorte ma mancano le divise.
Forze dell’ordine: si spende in statue ma mancano le divise. Pubblicato mercoledì, 03 aprile 2019 da Corriere.it. Durante l’audizione alla commissione Difesa della Camera dei Deputati Giovanni Nistri, comandante generale dei Carabinieri, ha dichiarato: «Mancano almeno 9000 unità». Più imponente il deficit registrato dalla Polizia di Stato, dove, stando alle stime del capo Franco Gabrielli, «per compensare il turn-over e i pensionamenti servirebbero altri 60.000 uomini». Da questi numeri sembra che la costante promessa politica di garantire sicurezza ai cittadini, non sia corrisposta da risorse adeguate. Una situazione che contrasta con un altro capitolo di spesa, quello dedicato ad affreschi e monumenti. Per citarne alcuni: nel 2017 sono stati spesi 48.000 euro per un’opera da collocare nella sede della foresteria e alloggi della Capitaneria di Porto di Livorno; nel 2018 invece 37.636 euro sono serviti a pagare un’opera d’arte da ubicare presso il comando aeronavale della Guardia di Finanza, all’interno dell’aeroporto di Pratica di Mare. Per le opere necessarie ad abbellire la scuola allievi marescialli e brigadieri dell’arma dei Carabinieri di Firenze Castello il bando è di 610.000 euro (nello specifico: 200.000 euro per una scultura per l’ingresso esterno di rappresentanza, 125.000 euro per un’altra nell’atrio della palazzina comando, 150.000 euro per un bassorilievo sul muro antistante la piazza d’armi, 90.000 euro per quattro pannelli pittorici da piazzare nello spazio di sosta antistante l’ufficio e la sala rapporto del comandante, 45.000 euro per altri due pannelli da affiggere sulle pareti della sala d’attesa visitatori).Si tratta di spese regolari, visto che una legge (la 717 del 1949), stabilisce che una percentuale dell’esborso totale per le nuove opere pubbliche sia destinato al loro abbellimento. Così, se l’importo per edificarle è compreso tra uno e cinque milioni di euro si deve assegnare all’arte il 2%; se l’uscita sale fino a 20 milioni di euro la percentuale per l’abbellimento scende all’1% , se supera i 20.milioni cala allo 0,5%.In alcune occasioni particolari viene chiamata a raccolta direttamente la collettività. È successo nel 2014 in occasione del bicentenario della fondazione dell’arma dei Carabinieri. L’Associazione nazionale dei comuni, presieduta all’epoca da Graziano Delrio, aveva scritto una lettera alle amministrazioni locali, esaltando l’operato dei militari perché «nelle piccole come nelle grandi municipalità, il carabiniere è, accanto a noi sindaci, espressione pulsante della vicinanza dello Stato al cittadino e fiero custode di uno straordinario patrimonio di valori e idealità».
Un libro in difesa delle forze dell’ordine. Esce (con prefazione di Matteo Salvini) “Sbirri, maledetti eroi”: testimonianze e statistiche sul duro lavoro di agenti di polizia e carabinieri, che nel 2017 hanno subito quasi 2.700 aggressioni, scrive Maurizio Tortorella l'1 febbraio 2019 su Panorama. “Abbiamo ritenuto necessario raccogliere in un libro le testimonianze su un lavoro nobile e antichissimo, quello dei tutori dell’ordine. Anche perché siamo passati dal considerare il poliziotto come un amico che protegge il nostro Paese, i nostri anziani e i nostri bambini, allo “sbirro di merda” che merita soltanto d’esser coperto di sputi e al quale sovente vengono riservate uova e sassi”. Hanno ragione da vendere, Stefano Piazza e Federica Bosso, i due autori di "Sbirri, maledetti eroi", il saggio che è in libreria da sabato 2 febbraio (Paesi edizioni, 144 pagine, 15 euro). “Troppo spesso” scrivono i due autori (Bosco è giornalista, Piazza è un imprenditore svizzero della sicurezza e presidente dell’Associazione amici delle forze di polizia svizzere) “le forze dell’ordine sono percepite come uomini e donne da cui guardarsi in una società incattivita, schizofrenica e spietata, dove tutto passa alla velocità di un tweet e poi si dimentica”. Il libro serve proprio a fare luce sui tanti atti di eroismo e sulle ingiustizie che gli agenti subiscono nel loro lavoro a tutela dello Stato e dei cittadini. La speranza è che le testimonianze dirette possano generare anticorpi capaci di arginare un male sempre più diffuso nella nostra società, come la violenza indiscriminata, e rendano merito a quanti operano con sacrificio personale per tutelare ciascuno di noi senza distinzione. Preceduto da un’introduzione scritta dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini (“Il libro che state per leggere riesce a coniugare tutti questi aspetti, senza mai perdere di vista il filo che lega ogni pagina alla successiva: la profonda gratitudine che ci unisce ai nostri angeli custodi”), Sbirri, maledetti eroi racconta molte storie importanti, a partire da quella dei due agenti che due anni fa si opposero allo jihadista Anis Amri, l’attentatore di Berlino che iniziò a sparare contro di loro a Sesto San Giovanni. Accanto alle storie, le statistiche. Sconfortanti: nel solo 2017 sono state 2.695 le aggressioni nei confronti di operatori delle forze di polizia. Escludendo quanti tra loro si occupano della gestione dell’ordine pubblico (stadi, manifestazioni, No-Tav...), le aggressioni sono state 482, con un incremento del 21,8% rispetto al 2016. In 447 episodi, il 16,6% del totale, gli aggressori hanno utilizzato armi improprie come bastoni, coltelli, cric, o addirittura hanno travolto l’agente con un’automobile (nei 12 mesi precedenti si erano registrati 412 casi di quel tipo). I più colpiti dalla violenza sono i carabinieri, che hanno subìto il 46,5% delle aggressioni, 1.252. Un dato in aumento rispetto alle 1.091 aggressioni del 2016. Al secondo posto si trova la polizia di Stato, con 1.016 aggressioni (pari al 37,7%) subite. In questo caso, si è registrato però un netto incremento rispetto al passato: erano state 799 nel 2016 e 212 nel 2015. Le lesioni riportate vanno dalla frattura degli arti e del setto nasale, fino a danni più gravi: come accaduto all’ispettore della polizia locale di Catania, Luigi Licari, finito in coma farmacologico in seguito a un’aggressione. Il fattore scatenante della violenza è dovuto principalmente all’uso di alcol e di sostanze stupefacenti: è così nel 26,5% delle analisi fatte sui responsabili di aggressione (212 casi su 537 sono riferibili alle sole droghe). Il libro racconta anche che, sempre nel 2017, 925 attacchi sono stati opera di stranieri, il 45,6%. La quota è rimasta costante negli anni, mantenendosi sempre superiore al 40%. E infine, le proposte per aiutare agenti e carabinieri nel loro lavoro. Un’idea fondamentale per tutelarli (anche da accuse strumentali) è quella di installare videocamere sulle loro divise, sulle auto e nelle celle di sicurezza: presentata la prima volta nell’ottobre 2016 dal Sindacato autonomo di polizia, oggi è in via di sperimentazione in quattro città italiane. Ma la sua adozione va accelerata e diffusa.
Vittorio Feltri e la vergogna sugli "sbirri": "Le forze dell'ordine muoiono per noi, ecco chi le infanga", scrive il 2 Febbraio 2019 Vittorio Feltri su Libero Quotidiano. Ricordo quando uno dei centri sociali di Venezia aprì al pubblico un locale, destinato ai proletari e in realtà frequentato dai fighetti, che aveva questa insegna: «Osteria allo sbirro morto». Fu un successone, quante risate tra i progressisti, che sarà mai, sono ragazzi, è satira. La magistratura non intervenne, figuriamoci. In quella taverna era stanziale il capo dei "disobbedienti", Luca Casarini, il quale era un uomo potente a quei tempi più di un ministro, avendo in pugno il disordine pubblico, che amministrava in Veneto e altrove a suo piacimento. Ad accarezzarne gli umori rivoluzionari tenuti al calduccio dello "sbirro morto", accorrevano perciò politici debitamente scortati da poliziotti, carabinieri e guardie di finanza che dovevano ingoiare e tacere. Dopo numerosi anni la trattoria mutò il nome, senza che Casarini rinnegasse o tanto meno si pentisse di quella dedica da obitorio, ma l'idea dello sbirro morto continua a essere un augurio esplicitato in piazza da minoranze dotate di molotov, sbarre di ferro e sampietrini. In realtà questo auspicio impregna tuttora la mentalità delle élite di questo povero Paese, la cui crème ha deciso che un agente ferito o percosso non deve esistere. E infatti questo tipo di azioni non diventano quasi mai notizie. Questo libro di Stefano Piazza e Federica Bosco elimina tale censura con una documentazione formidabile. Lo fa senza neppure un briciolo di retorica da parata celebrativa, ma con la sostanza delle cose. Le aggressioni subite da agenti di ps e militari, specialmente da stranieri, sono all'ordine del giorno, anzi di ogni ora di mattino, pomeriggio e notte: negli ultimi anni sono stati 60.000 (sessantamila!) i carabinieri e i poliziotti bersaglio di violenza. Sono numeri ma sono persone, con affetti, ideali, guai: in più, rispetto a noialtri prendono colpi perché ci fanno da scudo. Invece a leggere i giornali sarebbero loro a minacciare gli inermi! Si guardi a come è stato usato il caso Cucchi, una vicenda tremenda che non sarò certo io a edulcorare. A processo neppure giunto al primo grado di giudizio, non solo sono stati giudicati e condannati alcuni carabinieri, ma si è tranquillamente sparso letame trattando la Benemerita come una mafia dove vale la regola dell'omertà. Da valorosi cronisti, Piazza e Bosco hanno spazzato via questa infamia, semplicemente impugnando la realtà nuda e cruda. Bravi.
Lo stipendio - Di discorsi altisonanti ne abbiamo piene le scatole. Così come delle frasi di circostanza quando si tratta di appuntare una medaglia d' oro alla memoria sul paltò di una vedova. Occorre che ai nostri difensori sia data la dignità dovuta, la quale si misura anche con lo stipendio e gli strumenti di lavoro in dotazione. Non c' è nulla da fare: se ti pago poco, vuol dire che ti stimo poco, e ritengo il tuo impegno miserabile come il salario. Se invece di fornirti attrezzature d' avanguardia (armi e non solo), ti infilo giubbotti antiproiettili che lungi dal proteggere dal piombo non fermerebbero neanche una graffatrice da ufficio, significa che ti considero carne da macello. In senso fisico e oggi specialmente morale. Il modo contemporaneo di attaccare le forze dell'ordine è quello di rovinarne la reputazione, generando nel pubblico l'idea che in un contenzioso tra il delinquente e il poliziotto il torto sia pregiudizialmente dalla parte dell'uomo o donna in divisa. Ovvio. Quando si tratta di parlare in generale, tutti ammettono che i buoni sono le pattuglie delle volanti e i cattivi quelli delle mafie. Ma se un facinoroso alza il dito dopo l'arresto e, invece di ringraziare di non essere stato steso come capita in America, indica una tumefazione, ecco che si scatena la caccia al maresciallo o all' appuntato per cui vale sempre la presunzione di colpevolezza. Sono politici e intellettuali a ripetere costantemente il copione. Succede un episodio minimo, che coinvolge in un reato un agente o un ufficiale? La regola costante è questa: si premette un elogio altisonante 141 all' Arma dei carabinieri, alla polizia di Stato, alla guardia di Finanza o alla Polizia Penitenziaria, dopo di che la (presunta) mela bacata diventa pretesto per spargere fiducia su tutti i servitori dello Stato, creando leggi fatte apposta per diffondere la convinzione che costoro siano pericolosi cani rognosi da tenere al guinzaglio. Questa è la logica con cui il Parlamento ha approvato la legge sulla tortura. Essa non è fatta per punire comportamenti ignobili, come sostiene la propaganda progressista, ma per torturare con la minaccia della calunnia i guardiani della nostra sicurezza. L'ha voluta la sinistra sulla base di inviti dell'Europa e dell'Onu, dovrebbe impedire la sopraffazione dei deboli, nobile scopo, da sottoscrivere; ma, per come è stata concepita e scritta - lo dimostrano Piazza e Bosco -, è in realtà un'arma in mano non ai vessati ma ai delinquenti impenitenti: li facilita nell' architettare accuse fantasiose contro brigadieri e ispettori, specie della polizia Penitenziaria, grazie alla pratica dell'autolesionismo. Mi sbatto la testa contro il muro, dopo di che accuso l'agente: secondo voi, a chi crederanno giornalisti e pm? L'esperienza ce lo insegna. C' è un fatto importante però che sta accadendo. L' opinione pubblica, che sarebbe la gente comune, almeno nella mia accezione, è molto meno propensa di un tempo a bersi le balle sulle violenze della polizia e dei carabinieri. Basti osservare il gradimento che queste istituzioni hanno nel popolo, paragonandolo a quello di politici, magistrati e giornalisti. E questo volume fornisce all' istinto delle brave persone le basi scientifiche di questa fiducia. Insomma: che i buoni e gli eroi stiano dentro la divisa è un fatto. E chiamiamoli pure sbirri. Etimologicamente vuol dire "vestiti di rosso", in fondo è il colore del loro stesso sangue. Vittorio Feltri
Gabrielli: "Troppe scorte, il sistema va rivisto". Capo Polizia, 'Le risorse sono poche, basta automatismi', scrive il 6 febbraio 2019 La Repubblica. "Questo è un Paese che ha troppe scorte, dobbiamo dircelo. Sono troppe e siccome le risorse sono poche forse una riconsiderazione la dobbiamo fare, fuori da strumentalizzazioni, automatismi e commenti da strada". Lo ha detto il capo della Polizia Franco Gabrielli intervenendo alla presentazione del libro 'La mafia dei pascoli', di Giuseppe Antoci e Nuccio Anselmo. "Dobbiamo uscire fuori - ha aggiunto - dagli automatismi per cui l'incarico che si ricopre presuppone la scorta e rispettiamo chi si assume la responsabilità di decidere". "La posizione del ministro Salvini sulle scorte è assolutamente laica - ha poi aggiunto Gabrielli -. Serve serietà, concretezza e il nostro Paese deve diventare normale, un Paese cioè in cui si vivono le cose per quello che sono, senza esagerazioni". Il ministro dell'Interno, già lo scorso novembre, aveva sollecitato una revisione del sistema di protezione. Una rivalutazione delle 585 scorte che in Italia vedono impegnati ogni giorno più di 2,000 unità tra poliziotti (910), carabinieri (776), finanzieri (290) e polizia penitenziaria (96). L'obiettivo annunciato da Salvini era di riesaminarle in toto, comprese quelle al massimo livello di sicurezza, che in Italia è stato attribuito a 15 persone ritenute ad altissimo rischio e per la cui tutela sono impegnati ogni giorno 171 agenti. "Non mi permetterò di guardare nomi e cognomi, ho solo chiesto ai tecnici di ragionare sull'ipotesi di rivedere alcune di queste 600 tutele - dichiarò Salvini - Siamo il Paese europeo più scortato, che spende più soldi, investe più uomini. Sono il primo, seppure evidentemente a rischio, a dare un segnale di apertura. Ci sarà sicuramente qualcuno che meriterà più scorta e più attenzione. Se poi c'è qualcuno che da 10-15 anni usa un poliziotto o un carabiniere come autista privato potrà farne a meno". In questi giorni ha fatto molto discutere la decisione, poi rientrata, del Viminale di ritirare la scorta al giornalista Sandro Ruotolo minacciato dai Casalesi, decisione contro la quale si sono espressi anche Di Maio e Roberto Fico. Oggi la categoria più protetta resta quella dei magistrati. Per la protezione di 277 di loro (quasi la metà di tutti gli scortati) è impegnato il maggior numero di risorse. Sono invece 69 gli uomini politici nazionali e locali che usufruiscono di una tutela, 43 i dirigenti d'impresa, 21 i giornalisti e 18 gli esponenti di governo. Sono quattro i livelli di tutela garantiti dallo Stato a seconda del livello di rischio valutato dal Comitato. Oltre a quello di massima allerta con più di un'auto blindata, segue il secondo livello con scorta su un'auto specializzata, il terzo con solo la tutela su auto specializzata e il più basso su auto non protetta. Ma ci sono anche delle vigilanze fisse e mobili davanti alle abitazioni di soggetti considerati a rischio moderato.
Salvini: "Troppe 585 scorte, chi non rischia veramente vada in taxi". Il ministro annuncia una "razionalizzazione contro gli abusi": "Garantire la tutela a chi è davvero in pericolo. Saviano? Non guardo nomi e cognomi". In Italia impegnate oltre 2000 unità: la categoria più protetta resta quella dei magistrati, scrive Alessandra Ziniti il 9 novembre 2018 su La Repubblica. Troppe scorte in Italia, troppi uomini delle forze dell'ordine dedicati a vigilare sulla sicurezza dei cosiddetti "obiettivi a rischio". Il ministro dell'Interno Matteo Salvini riunisce il comitato nazionale ordine e sicurezza pubblica al Viminale e invita i responsabili a "razionalizzare" l'uso della tutela. Il ministro ha chiesto che "tutti i dispositivi di protezione vengano approfonditi per evitare errori di valutazione e garantire la tutela a chi è davvero in pericolo prevenendo abusi, sprechi e inutili sacrifici alle donne e uomini in divisa". Dunque via ad una rivalutazione delle 585 scorte che in Italia vedono impegnati ogni giorno più di 2000 unità tra poliziotti (910), carabinieri (776), finanzieri (290) e polizia penitenziaria (96). Saranno riesaminati tutte, comprese quelle al massimo livello di sicurezza, che in Italia è stato attribuito a 15 persone ritenute ad altissimo rischio e per la cui tutela sono impegnati ogni giorno 171 agenti. Nelle scorse settimane, si erano diffuse indiscrezioni secondo le quali tra le prime tutele ad essere riviste ci sarebbe stata quella allo scrittore Roberto Saviano. Oggi, a chi gli chiedeva espressamente di fare i nomi dei possibili obiettivi a cui togliete la tutela, Salvini ha risposto: "Non mi permetterò di guardare nomi e cognomi, ho solo chiesto ai tecnici di ragionare sull'ipotesi di rivedere alcune di queste 600 tutele. Siamo il Paese europeo più scortato, che spende più soldi, investe più uomini. Sono il primo, seppure evidentemente a rischio, a dare un segnale di apertura. Ci sarà sicuramente qualcuno che meriterà più scorta e più attenzione. Se poi c'è qualcuno che da 10-15 anni usa un poliziotto o un carabiniere come autista privato potrà farne a meno. Probabilmente già la prossima settimana i tecnici mi porteranno una direttiva con criteri oggettivi in base ai quali chi rischia sarà più tutelato, chi non rischia più prenderà il taxi, il treno, la metropolitana come tutti gli altri comuni mortali". La categoria più protetta resta quella dei magistrati. Per la protezione di 277 di loro (quasi la metà di tutti gli scortati) è impegnato il maggior numero di risorse. Sono invece 69 gli uomini politici nazionali e locali che usufruiscono di una tutela, 43 i dirigenti d'impresa, 21 i giornalisti e 18 gli esponenti di governo. Sono quattro i livelli di tutela garantiti dallo Stato a seconda del livello di rischio valutato dal Comitato. Oltre a quello di massima allerta con più di un'auto blindata, segue il secondo livello con scorta su un'auto specializzata, il terzo con solo la tutela su auto specializzata e il più basso su auto non protetta. Ma ci sono anche delle vigilanze fisse e mobili davanti alle abitazioni di soggetti considerati a rischio moderato. La mappatura ordinata da Salvini ha rilevato che il maggior numero di servizi di scorte è concentrato nel Lazio (il 31,6 %) e in Sicilia (21,9 %), seguite da Calabria (12,5%), Campania (12 %) e Lombardia (7,2%).
Sandro Ruotolo e i giornalisti sotto scorta ''dobbiamo continuare a lottare per contrastare il potere della criminalità'', scrive il 9 Febbraio 2019 Antimafia duemila. “Mobilitazione estesa dei giorni scorsi è buon segnale, la gente ha voglia di informarsi”. A seguito della sospensione della scorta al giornalista Sandro Ruotolo, poi revocata, l’opinione pubblica nazionale si è mobilitata come in poche occasioni. Il "caso Ruotolo" ha riacceso i fari sulle condizioni di numerosi giornalisti minacciati per via delle loro attività investigative che li rendono spesso oggetto di minacce e aggressioni. Sono ventuno, per essere precisi, coloro che sono tutelati da sistemi di protezione dello Stato. Di loro si è parlato in un incontro organizzato alla sede della Fnsi (Federazione nazionale della Stampa Italiana), che ha inoltre ricordato, tramite il segretario Raffaele Lorusso, che il tema dei cronisti minacciati, sotto scorta, colpiti da "querele bavaglio" sarà al centro del Congresso Fnsi, che inizierà martedì a Levico Terme, assieme al tema del lavoro. "Noi giornalisti abbiamo una responsabilità enorme e il fatto che i cittadini sentano il bisogno di informazione deve farci riflettere. Se la categoria è delegittimata in parte ce lo meritiamo. Lavoriamo per tornare a meritarci l'appoggio dell'opinione pubblica: raccontiamo le storie scomode, illuminiamo i territori difficili, rendiamo onore con il nostro lavoro ai colleghi che sono caduti per mano di mafie e terrorismo" ha detto lo stesso Sandro Ruotolo durante l’evento. "Portiamo le storie del noi - ha aggiunto il giornalista -. Non dell'io perché è il noi che può fare la differenza. La mobilitazione così estesa e trasversale che c'è stata negli ultimi giorni intorno alla mia vicenda è un buon segnale. Significa che la gente ha voglia di informarsi. Che c'è ancora un'opinione pubblica. Per queste persone dobbiamo continuare a fare il nostro lavoro e tutti insieme dobbiamo lottare uniti per contrastare con il nostro lavoro il potere della criminalità". Ad intervenire all’appuntamento anche la giornalista campana Marilena Natale (sotto scorta da due anni per le sue inchieste sui Casalesi) e Paolo Berizzi di La Repubblica, per il quale è stata disposta da pochi giorni l’assegnazione del programma di protezione dopo che lui e la sua famiglia sono stati minacciati in seguito alle sue inchieste sulla rinascita delle organizzazioni di estrema destra nel Nord Italia, e Michele Albanese, costretto a vivere sotto tutela per il suo lavoro di denuncia nei confronti della ‘ndrangheta. "Il clan che minacciò Sandro Ruotolo è ancora attivo. Lui è ancora in pericolo. Perché qualcuno ha pensato di togliergli la scorta?", si è domandato Natale. "Toglieteci la scorta e ci difenderemo da soli con il nostro lavoro", ha spiegato. "La scorta è necessaria per poter continuare ad essere giornalisti liberi dalla violenza e dal potere in generale che vorrebbe la stampa meno libera. Vivo sotto scorta da due giorni e questo è bastato a farmi capire quello che Paolo Borrometi ripete sempre: non è un privilegio ma un provvedimento necessario che ci limita nella vita e nel lavoro", ha detto invece Berizzi. "Non dobbiamo abbassare la guardia, ma continuare a raccontare cosa accade sui nostri territori, perché solo così potremo contrastare le mafie in Campania, Calabria, Sicilia. Ha ragione Paolo Berizzi quando dice che vivere sotto scorta, specie in contesti piccoli, non è facile. Ma è necessario per poter continuare ad occuparsi delle storie di mafia. Impegniamoci tutti a raccontare la mafia per contrastarla", è stato l'appello di Albanese. Infine a prendere parola è stato il presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti il quale ha sottolineato che “senza la scorta Sandro (Ruotolo, ndr) non avrebbe più potuto svolgere il suo lavoro e non avrebbe più potuto fare da 'scorta mediatica' ai colleghi della Campania. Chiariamo bene una cosa - ha concluso - la scorta non è un privilegio. Non c'è da festeggiare quando a un giornalista viene data la scorta, perché quando questo avviene è una sconfitta per lo Stato".
Camorra, scorta al giornalista Sandro Ruotolo Minacciato di morte dal boss Zagaria. Il braccio destro di Michele Santoro a "Servizio Pubblico" nel mirino del capomafia per l'inchiesta sulla Terra dei Fuochi. Dopo le intercettazioni, provvedimento d'urgenza adottato da prefetto Gabrielli, scrive Lirio Abbate il 5 maggio 2015 su L'Espresso. Ancora una volta quando l'Informazione è fatta bene, dimostra che può dare fastidio ai mafiosi. A tenerli sulla corda, a innervosirli, perché non sempre sono abituati a essere maltrattati dalla stampa. E si agitano, i boss, anche quando sono detenuti e sottoposti al 41 bis, il duro regime carcerario. Questa volta ad andare su tutte le furie è stato il boss camorrista Michele Zagaria, che ha puntato il dito contro Sandro Ruotolo, giornalista di grande esperienza, colonna portante di Servizio Pubblico al fianco di Michele Santoro. A Zagaria “capastorta” sembra non essere andato giù, e forse gli è rimasta sulla pancia, un'inchiesta giornalistica che Sandro ha mandato in onda nelle scorse settimane sulla terra dei fuochi, dove il boss ha messo le mani e fatto illegalmente tanti affari speculando sulla pelle dei campani. Dopo questa lunga inchiesta giornalistica i magistrati della Procura antimafia di Napoli hanno registrato le minacce di Zagaria contro Sandro Ruotolo. E pure contro i pm Catello Maresca e Cesare Sirignano. Il boss è andato in escandescenza, ha inveito contro il giornalista, fino a minacciarlo di morte: «O vogl' squartat' vivo». Per questo motivo investigatori e magistrati hanno subito ravvisato un grave pericolo per Ruotolo. Un pericolo che il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, competente per il territorio in cui lavora il giornalista, ha subito valutato, provvedendo ad assicurare a Sandro protezione, assegnandogli un servizio di scorta che sarò svolto dai carabinieri. Sulla vicenda il pool di magistrati anticamorra di Napoli sono già a lavoro per fare luce su queste minacce. Da quanto si apprende da ambienti giudiziari, Zagaria da diversi mesi appare in cella molto nervoso, forse perché è messo sotto pressione dalle numerose inchieste che lo riguardano. In particolare, come aveva già raccontato la giornalista Rosaria Capacchione sul Mattino, oggi senatrice Pd, Zagaria potrebbe essere coinvolto in una possibile trattativa sui rifiuti. Capacchione ha documentato incontri segreti, tra il 2007 e il 2009, tra il potente boss, allora latitante, Michele Zagaria o un suo emissario, uomini dei servizi segreti deviati, e delegati del commissariato. Vertici che sarebbero stati finalizzati a subappalti in cambio del silenzio per la realizzazione di siti di smaltimento. Domande e circostanze ancora senza risposta a cui anche Sandro Ruotolo ha tentato di dare una lettura di questi fatti con un servizio mandato in onda proprio da Servizio Pubblico. Ancora una volta ci ritroviamo davanti ad un giornalista minacciato solo perché ha fatto bene il suo lavoro, mettendo in crisi un mafioso. E come tutti i mafiosi l'unico modo che conoscono è quello di reagire, o almeno tentare di farlo, con la forza e la violenza. Per comprendere quanto questo boss è sensibile a quello che scrivono i giornalisti, durante la latitanza Zagaria ha telefonato ad un cronista per “rimproverarlo” di ciò che aveva scritto su di lui. E lo aveva fatto senza aver paura di essere intercettato, ma solo per il gusto, a senso suo, di minacciare il giornalista e far notare la sua potenza e presenza sul territorio. Zagaria poi è stato arrestato, come capita prima o poi a tutti i latitanti, e adesso dubito che possa uscire presto dal carcere in cui è rinchiuso. Sono certo però che Sandro Ruotolo non si tirerà indietro e continuerà a raccontare le mafie e il loro malaffare come ha fatto fino adesso, tenendo la schiena dritta e raccontando quello che agli altri, e per gli altri intendiamo i criminali, appare scomodo.
Perché solo alcuni?
Roberto Saviano e la scorta, schifo italiano: come vivono i due giornalisti che lui ha copiato, scrive il 23 Giugno 2018 Libero Quotidiano. Tutti parlano della scorta a Roberto Saviano, che il ministro degli Interni Matteo Salvini ha ipotizzato di annullare, ma nessuno accenna al fatto che i due cronisti plagiati dallo scrittore napoletano per il suo Gomorra vivano da anni senza alcuna protezione e sotto minaccia della camorra. Ci sono il giornalista di Cronache Giuseppe Tallino, l'ultimo finito nel mirino dei boss per un suo articolo. Ma soprattutto ci sono due colleghi che con Saviano sono finiti a contatto proprio per quella brutta storia di articoli copiati senza essere citati. Uno è Giancarlo Palombi, che al Tempo spiega: "Per quella vicenda Saviano deve fare i conti con se stesso e la sua professionalità". Le parole di Salvini secondo lui sono state sbagliate, ma nella sostanza che la scorta all'autore di Gomorra possa essere rivista non è un'eresia: "Lo disse anche uno dei più grandi poliziotti d'Italia, Vittorio Pisani, perché ha il massimo livello e gli è stato assegnato per delle telefonate mute ricevute. Io sono cresciuto nelle caserme e ritengo di poter dire che le minacce viaggino su altre traiettorie". L'amarezza è evidente: "Ogni giorno centinaia di miei colleghi lavorano in territori più o meno complessi, ricevono minacce, schiaffi, sputi da chi si è sentito toccato dai loro articoli ma solo lo 0,01 per cento di loro si trasforma tutto ciò in una denuncia. Non per eroismo, ma perché se fanno quel mestiere sanno che qualche ripercussione possono averla". Stessa tesi di Simone Di Meo, secondo cui Saviano ha un livello di protezione "inferiore solo a quello del presidente della Repubblica". Sempre al Tempo si dice stupito dalle associazioni di categoria che si sono subito mobilitate per Saviano, quando nessuno dei giornalisti in azione in Campania è scortato. Con Saviano "la scorta viene utilizzata per accompagnarlo alla presentazione dei suoi libri". Non sarebbe il caso, si chiede, che la pagasse di tasca propria "anche per togliere un argomento alla narrazione anti-savianea"?.
Meloni: "Dare scorta a giornalisti da cui Saviano ha copiato". La Meloni critica Saviano: "Ovviamente se è minacciato è giusto che sia difeso come tutti i cittadini. Spero che siano sotto scorta i giornalisti dai quali è stato accusato di aver copiato gli articoli coi quali ha composto Gomorra", scrive Francesco Curridori, Venerdì 22/06/2018, su Il Giornale. "Non ho gli elementi per giudicare se si debba rivedere la scorta di Saviano. Figuriamoci se io so se sia una priorità della camorra ammazzare Roberto Saviano, e non so bene quale sia la procedura". Giorgia Meloni, ospite di Agorà su Raitre, entra nella polemica tra l'autore di Gomorra e il ministro Matteo Salvini che ieri ha detto che potrebbe rivalutare l'uso della scorta per lo scrittore campano. "Se posso dire una cosa, non ho grande stima per Roberto Saviano, indipendentemente dalla questione della scorta", ha sottolineato il leader di Fratelli d'Italia che. Poi ha polemicamente aggiunto: "Ovviamente - ha aggiunto - se è minacciato è giusto che sia difeso come tutti i cittadini. Spero che siano sotto scorta i giornalisti dai quali Saviano è stato accusato di aver copiato gli articoli coi quali ha composto Gomorra". Per la Meloni: "Saviano è diventato un guru ma dovrebbe essere supportato da maggiore studio. Parla di tutto senza essere preparato, dice cose molto sbagliate. Snocciola dati sull'immigrazione, questioni sulla droga, senza avere le competenze. È una persona parla con prosopopea di temi che non conosce". E dovrebbe essere più preparato "soprattutto ora che avrà una trasmissione e il suo stipendio sarà pagato da tutti gli italiani".
Maurizio Belpietro Vs Robero Saviano: Giornalisti E Scorte A Confronto. Sì, perché Maurizio Belpietro, autore di bufale e articoletti scandalistici, ha pure la scorta. Un po’ come Roberto Saviano, che però la scorta l’ha avuta dopo aver scritto un libro sulla mafia, scrive Ultima Voce il 15 novembre 2018. Maurizio Belpietro, con quel sorriso un po’ così, direttore de “La Verità” e di Panorama, è stato dal 2009 al 2016 direttore di Libero. Anni d’oro durante i quali le vendite di Libero hanno registrato un tracollo di vendite pari a -68%: il più pesante collasso fra le principali testate italiane. In compenso, in quegli stessi anni, sotto la fulgida guida di Belpietro, Libero ha incassato – ogni anno – dai 3 ai 4 milioni di euro di finanziamenti pubblici. Cioè mentre migliaia di aziende italiane chiudevano i battenti e le famiglie finivano in mezzo alla strada per le tasse da pagare e il crollo delle vendite, Maurizio Belpietro continuava beatamente a percepire il suo lauto stipendio anche grazie alle tasse pagate dagli italiani, e nonostante il suo disastroso lavoro. Un disastro che ha sempre cercato di arginare con articoli e titoli scandalistici, inventandosi ad esempio un imminente attentato a Gianfranco Fini (bufala per la quale sarà condannato per procurato allarme a pagare 15mila euro di ammenda) o il famigerato “Bastardi islamici” e robe così. Titoli disperati per supplicare la gente ad acquistare il suo giornale, o almeno a parlarne. Ma gli italiani a Maurizio Belpietro non hanno contribuito a pagare solo lo stipendio. Ma pure la scorta. Sì perché Belpietro ha pure la scorta. Un po’ come Sallusti, Bruno Vespa, Vittorio Feltri e tanti altri giornalisti e direttori. Un po’ come Saviano. Solo che Saviano la scorta l’ha avuta quando non era un cazzo di nessuno. L’ha avuta perché, da semplice cronista di provincia, ha scritto un libro sulla mafia. Un libro tra migliaia di libri che trattano lo stesso argomento. E che lui pensava avrebbe fatto la stessa fine: lo avrebbero comprato l’amico, il cugino, qualche addetto ai lavori. Qualche appassionato del genere. E invece cominciano a comprarlo centinaia di persone. Poi miglia, decine di migliaia, centinaia di migliaia, milioni. Lettori che scelgono di acquistarlo, in totale libertà, senza costrizioni, senza pagarlo “involontariamente” attraverso le tasse. Nessuno li costringe a scrivere recensioni entusiastiche e a invogliare altri lettori ad acquistarlo. Ne nasce un film. Ed è un altro successo. Tutto non programmato, tutto non voluto o pianificato. Saviano finisce in tv, e le tv tornano a parlare di Camorra. Anzi di Casalesi. Tutti parlano degli affari dei clan, dopo tanto silenzio. Quel silenzio che tanto fa comodo alle cosche, e che Saviano infrange. Così qualcuno si incazza, e per evitare che Saviano faccia la fine di tanti altri giornalisti che anche in questi mesi vengono ammazzati ovunque, lo mette sotto scorta. Saviano sa anche parlare, sa raccontare. Quando lui parla di mafia in tv milioni di italiani lo ascoltano. Ma tutto questo diventa una colpa. Sopratutto perché Saviano, conoscendo da vicino i danni che le mafie causano al Paese, prova a far capire al Paese che è quella la priorità da combattere. Non l’immigrato. Ma il mafioso. Non l’immigrato che paga 7 miliardi di Irpef e 11 miliardi di contributi pensionistici. Ma la Mafia che fattura 150 miliardi, che fa lievitare i prezzi degli appalti, che impone il pizzo, che traffica droga. Così succede che un giornalista sotto scorta come Maurizio Belpietro, che invece di vendere milioni di copie di libri, perde milioni di copie di un giornale peraltro finanziato con i soldi dei cittadini, si mette a fare i conti in tasca a un altro giornalista sotto scorta colpevole di aver fatto successo con le proprie sole forze. Chiamandolo “sedicente martire”. Per provare così a scatenare nei suoi confronti l’odio da invidia, da sospetto che in fondo quei soldi li abbia ottenuti ingiustamente, o immoralmente. Perché accanto ai titoli “click-bait” (cioè fatti per attirare click) bisognerebbe aggiungere la categoria dei titoli “hate-bait”, fatti a posta per fomentare livore, invidia, odio.
Belpietro, Feltri, Vespa e Fede: quando la scorta è (anche) per i giornalisti. Nei giorni della battaglia di Libero sulla protezione di cui gode Gianfranco Fini in vacanza ad Orbetello, riemergono i casi dei direttori di giornale accompagnati dagli agenti. E traditi, come nel caso di Emilio Fede, il cui caposcorta ha testimoniato contro di lui al processo Ruby, scrive Franco Patrizi su Il Fatto Quotidiano il 19 Agosto 2012. Cosa hanno in comune un politico condannato per mafia (vedi Marcello Dell’Utri), un ex ministro pluri dimissionario con sopra la testa un bell’appartamento acquistato a sua insaputa (vedi Claudio Scajola). E una serie di prime firme del nostro giornalismo? Sicuramente aver frequentato il Parlamento, senza dubbio una certa simpatia per il centrodestra. Una vaga fama godereccia. Ma soprattutto: il servizio scorta. La lista dei beneficiari non è amplissima, ma comunque carica di suggestioni, inciampi, inchieste e polemiche. Del gotha fanno parte Maurizio Belpietro, Vittorio Feltri, Bruno Vespa, Emilio Fede e Vittorio Sgarbi. Alcuni dati: esistono quattro livelli di scorta a seconda della gravità. Nel grado più alto sono previste due o tre macchine blindate, con tre agenti per auto. In quello più basso, la macchina non è blindata e gli agenti sono uno o due. Difficile, se non impossibile, quantificare realmente quante sono le personalità coinvolte. Le accertate sono attorno a 585, ma le variabili sono tali da non poter rendere il numero fisso. Questo perché in Italia non c’è un unico assegnatario, ma si passa dall’ispettorato del Viminale, al Reparto scorte di Roma (il più grande del Paese), fino agli ispettorati di Camera, Senato e Quirinale. Senza poi escludere i Servizi Segreti. Tra questi reparti c’è chi ha avuto a che fare con Vittorio Sgarbi. L’ex sindaco di Salemi è, strano a dirsi, il più agitato e polemico sull’argomento. Il giorno in cui gli è stata sospesa ha immediatamente rassegnato le dimissioni da primo cittadino. Al grido: come osate! Ristabilita, poi anche rafforzata, Sgarbi è stato protagonista all’aeroporto di Fiumicino di un qui pro quo con gli agenti dello scalo che hanno denunciato le continue angherie alle quali sono sottoposti dal critico d’arte. La questione? Sempre la stessa: “Rifiuta di fare la fila, vuole sempre saltare la coda”. Parola del sindacato di polizia. Fino a quando “si è fatto inserire nella lista del Cerimoniale di Stato, da cui passano capi di Stato e personalità internazionali”, continua la Silp Cgil. Ovvia la smentita di Sgarbi. Questione intricata anche per Maurizio Belpietro, in questi giorni protagonista con Libero di una battaglia (giornalistica) contro la scorta di Gianfranco Fini, da mesi ubicata in quel di Orbetello. Il direttore vive sotto tutela dal gennaio 2003 (allora era al Giornale), dopo una lunga serie di minacce e una lettera recapitata con dentro due proiettili. Una sera è stato anche allontanato modello-Hollywood da un ristorante perché davanti all’entrata era stato scoperto un furgone rubato con due soggetti dentro. Ma l’apice è stato raggiunto quando si parlò di attentato con tanto di titoloni a tutta pagina, e la cronaca dettagliata di un inseguimento messo in atto da un capo scorta particolarmente solerte. Vicenda poi archiviata dalla Procura di Milano. Il tizio pericoloso pare fosse un semplice ladro. Alter ego di Maurizio Belpietro è Vittorio Feltri. Giovedì ha difesa Gianfranco Fini, e chiesto di abolire la scorta per tutti, comprese le tre maggiori cariche dello Stato: “Ripeto: si considera superfluo o troppo oneroso un servizio così? Eliminiamolo eventualmente per tutti, senza discriminazioni in positivo”, ha scritto il condirettore del Giornale. Anche con Fede c’è di mezzo la Procura di Milano. Durante le udienze del processo Ruby, l’ex capo della sua scorta, Luigi Sorrentino, ha raccontato le abitudini dell’ex direttore del Tg4. Abitudini che hanno portato il carabiniere a discutere prima, e venire allontanato poi, dal servizio offerto al giornalista. All’epoca del bunga bunga arcoriano furono numerosi gli agenti pronti a ribellarsi scocciati (e avviliti) per dover assistere a certe pratiche. Postilla: dopo la polemica scatenata da Libero contro Fini, il ministro Cancellieri ha annunciato la nascita di un “gruppo di lavoro” per valutare lo stato delle scorte. Peccato che in questo recente clima da spending review è stato accorpato l’Ucis, l’ufficio nato dopo la morte di Marco Biagi e già preposto a tale funzione. Franco Patrizi da Il Fatto Quotidiano del 18 agosto 2012
Ma quanti giornalisti nel mirino dei boss. Proiettili, auto incendiate, agguati, pestaggi, lettere anonime. L'informazione è sotto attacco dei clan e non solo. Gli allarmanti dati dell'osservatorio Ossigeno per l'informazione, scrive Giovanni Tizian il 13 novembre 2014 su L'Espresso. Duemila giornalisti minacciati e intimiditi in otto anni. Proiettili, auto incendiate, agguati, pestaggi, lettere anonime. L'informazione è sotto attacco dei clan e non solo. No, non siamo nella Russia governata da Putin. Siamo in Italia, uno dei Paesi che ha fondato la civilissima Unione Europea. Il dato è stato elaborato dall'osservatorio Ossigeno per l'informazione. Un progetto nato dall'idea di Alberto Spampinato. Suo fratello, Giovanni, è stato ucciso da Cosa nostra a Ragusa. Era il 1972. In tutto sono undici i cronisti uccisi dalla mafia dagli anni Sessanta a oggi. Da Pippo Fava a Mauro Rostagno, da Beppe Alfano a Cosimo di Cristina. I loro volti sono lì a ricordarci quanto il potere sia allergico alle inchieste scrupolose dei cronisti. Sembra un eternità. Eppure poco è cambiato. Ancora oggi al Sud come al Nord un numero enorme è costretto a vivere nella paura di non arrivare al giorno dopo. Spesso vengono aggrediti. Qualche volte le prefetture dispongono d'urgenza la scorta armata. Sono persone esposte a rischio. Bersagli mobili. Nell'ultimo anno a finire sotto protezione dello Stato sono stati tre giornalisti. Paolo Borrometi, in Sicilia, Michele Albanese, in Calabria, Federica Angeli a Roma. Insomma il peggio non è passato. E basta scorrere i dati dell'osservatorio per convincersi che l'arroganza dei boss non è diminuita. Nel 2014 il Lazio detiene il record di colleghi minacciati, sono 78. A seguire c'è la Campania, con 48, poi la Sicilia, 43, e in quarta posizione la Lombardia. Già, la regione governata dalla Lega Nord dove la mafia non esiste, «perché è un problema dei meridionali». Il quinto posto spetta alla Basilicata, 38, poi c'è la Calabria, con 30, e l'Emilia Romagna con 25. Persino in Trentino Ossigeno ha registrato un caso. L'unica regione nel corso di quest'anno immune da episodi intimidatori è la Valle D'Aosta. Nell'elenco degli avvertimenti ci sono le aggressioni fisiche, i danneggiamenti, le querele temerarie, gli incendi, le missive, le minacce di morte. Queste sono le categorie che registrano numeri più alti. Le vittime sono il più delle volte giovani precari, che lavorano sul territorio della provincia, e quindi molto esposti, e pagati pochi euro a pezzo. Numeri che dovrebbero generare un indignazione collettiva e della politica, che invece spesso tace. Anzi, quando può tenta di mettere il bavaglio ai giornali. Come ha provato a fare in passato con il decreto sulle intercettazioni, e come in sordina sta provando a far passare una legge sulla diffamazione, che sì non prevede più il carcere (siamo l'unico Paese europeo dove i giornalisti rischiano il carcere per aver fatto il proprio lavoro) ma secondo molti analisti è la prova di come i partiti vogliano imbavagliare la stampa. Pippo Fava, il cronista ucciso da Cosa nostra a Catania, ha scritto “A che serve vivere se non si ha il coraggio di lottare”. Il giornalismo in Italia è stato ridotto a questo, a una lotta per la sopravvivenza. Per questo dobbiamo fare sentire la nostra voce: di giornalisti e di cittadini liberi che non vogliono lasciare il Paese nelle mani di padrini e dei loro complici.
Ora la pacchia finirà anche per gli scortati, scrive il 9 novembre 2018 Francesco Storace. Scorte, basta sprechi e inutili sacrifici. Il ministro dell’interno Matteo Salvini avvia la razionalizzazione dello strumento di protezione dei soggetti a rischio e la spending review di risorse. Con l’obiettivo di non esporre inutilmente le forze dell’ordine. Nel corso del Comitato nazionale ordine e sicurezza pubblica, che si e’ svolto ieri al Viminale, Salvini ha chiesto che tutti i dispositivi di protezione vengano approfonditi per evitare errori di valutazione e garantire la tutela a chi davvero e’ in pericolo. Salvini intende anche prevenire abusi, sprechi e inutili sacrifici alle donne e uomini in divisa. In tutta Italia si contano 585 scorte, che impegnano 2.072 unità delle forze dell’ordine: si tratta di 910 poliziotti, 776 carabinieri, 290 finanzieri e 96 operatori della polizia penitenziaria. I cosiddetti “dispositivi di protezione” si dividono in quattro categorie, in base al livello di rischio. Quello piu’ elevato e’ scattato per 15 persone e impegna 171 agenti. 57 cittadini hanno il cosiddetto secondo livello, ovvero la scorta su auto specializzata (383 agenti in tutto), seguono 276 casi di tutela su auto specializzata (823 agenti impiegati) e 237 tutele su auto non protetta e che coinvolge 695 operatori. Dei 585 nomi protetti dallo Stato, la maggior parte appartiene a magistrati (277), seguono i politici intesi come leader nazionali e locali (69) e i dirigenti d’impresa (43). Tra gli altri, si registrano 21 giornalisti e 18 esponenti governativi. Oltre ai servizi di scorta, lo Stato mette a disposizione 38 servizi di vigilanza fissa con 221 persone impegnate: 18 poliziotti, 56 carabinieri, 147 unita’ dell’esercito. A livello regionale, il maggior numero di scorte si concentra nel Lazio e in Sicilia, rispettivamente con il 31,6% e il 21,9% delle misure di protezione nazionali. Seguono Calabria (12,5%), Campania (12%), Lombardia (7,2%).
Silvia Mancinelli per “il Tempo” il 20 luglio 2017. «Le scorte le facciamo con le macchine che abbiamo. Quando non ci sono quelle blindate, utilizziamo le solite. Vecchie, alcune con oltre centotrentamila chilometri, che per forza di cose bisogna distogliere a coppia dal controllo del territorio per supplire alla mancanza di vetture per i servizi di protezione». A raccontare le problematiche dei carabinieri impegnati nei servizi di scorta è Andrea Cardilli, delegato Cocer. L'appuntato scelto, che spesso si trova a vestire i panni di angelo custode per accompagnare collaboratori di giustizia e familiari, è testimone di problematiche descritte allo stesso modo da Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di polizia Coisp e da tanti poliziotti e carabinieri che in queste Il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, come riportato ieri da Il Tempo, è andato in vacanza sulle Dolomiti con un aereo di Stato con tanto di numerosa scorta al seguito. Puntualmente, l'Ufficio dei Voli di Stato che fa capo alla presidenza del Consiglio, ha fatto presente che è tutto perfettamente regolare. È la legge che lo prevede. Non c' è dubbio. Ma è anche sicuro che nessun politico, per quanto emerito, debba per forza uniformarsi a questo stile di vita. L'esempio più lampante lo fornisce nientemeno che il presidente della Repubblica (quello incarica). Sergio Mattarella ha dato prova, in più di un'occasione, che gli spostamenti del Capo dello Stato possono tranquillamente avvenire come quelli di un comune cittadino: in utilitaria, in tram, in treno e, guarda un po', anche su banali aerei di linea. Tanto più se il viaggio in questione avviene per motivi personali. Giorgio Napolitano, infatti, si è recato a Sesto Pusteria, all' hotel 4 stelle superior "Bad Moos", con un trireattore "Falcon 900" del trentunesimo stormo dell'Aereonautica Militare, partito da Ciampino con cinque uomini della scorta. L' Ufficio dei Voli di Stato replica che «l'utilizzo di voli di Stato da parte di ex presidenti della Repubblica è disciplinato da quanto previsto dall' art.4 del decreto legge n.98 del 2011, ore stanno contattando Il Tempo per raccontare storie incredibili. «Siamo spesso ridotti a fare i camerieri, lo sanno tutti». Dice Pianese: «Oggi purtroppo assistiamo, in modo particolare a Roma, a un sistema di effettuazione delle scorte che spesso non rispetta le caratteristiche operative e di sicurezza spiega -. Le scorte vengono infatti utilizzate derogando ai livelli di sicurezza e in questo modo chi avrebbe diritto alla macchina blindata viene invece scortato con una autovettura non protetta, chi avrebbe diritto per il livello di minacce a due auto di scorta ne riceve solo una, facendo assomigliare sempre più il servizio di scorta a un taxi». Che le auto blindate non siano una costante lo sottolinea anche Cardilli, che dice: «Quando manca la disponibilità, a dispetto di quanto impone il protocollo, si prendono quelle normali. Il che implica anche un maggior numero di uomini impiegati, considerato che a bordo di ogni macchina ce ne sono tre. Spesso c' è un eccesso di scorte e si va con le Punto - spiega ancora -. Utilizzo il plurale perché se le auto protette non sono disponibili, bisogna prendere due macchine normali, per questioni di sicurezza. Il che significa più uomini e mezzi impiegati per lo stesso servizio». Già, ma se vengono impiegati sei militari per una scorta, il reparto di appartenza ha serie ripercussioni. «In quei giorni purtroppo il personale non c' è e in compagnie con aliquote limitate si svolge solo quel servizio. Si lascia il territorio al controllo semplice, ma senza la parte investigativa. Si sta quindi iniziando a pensare al noleggio, così che si possa fare la scorta con macchine nuove, diverse e non riconoscibili. Le nostre macchine poi superano i 100mila chilometri e non sono proprio affidabili». Anche il segretario generale del Sap Gianni Tonelli non le manda a dire: «La spending review si è abbattuta su tutto l'apparato della sicurezza escludendo miracolosamente il settore scorte. Non si tratta di essere populisti, il servizio di scorta è indispensabile, qualificato è rischioso ma i numeri non tornano. Sempre più è diventato espressione di uno status superiore o di misera preda confermato dall' art. 2, comma 1, del Dpcm 23 settembre 2011 che reca la disciplina generale del trasporto aereo di Stato». Non è finita qui. «A sua volta il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 25 settembre 2001, nel disciplinare il trattamento generale riservato agli ex presidenti della Repubblica, prevede espressamente, al paragrafo 3, dedicato ai trasporti e alle telecomunicazioni, la concessione da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri dell'uso degli aeromobili di Stato». Chiarita quale sia la normativa, una domanda resta senza risposta. Se il Presidente in carica si muove con i mezzi pubblici, per quale motivo gli altri non possono fare lo stesso? Eppoi: era così a rischio la presenza di Napolitano in treno anziché in aereo? Appena eletto, nel febbraio 2015, Mattarella continuò imperterrito a spostarsi a bordo della sua "cara" Panda grigia. Una linea all' insegna della sobrietà portata avanti anche in altre occasioni. Come quando si recò dalla propria famiglia in Sicilia azione finalizzata ad avere un autista e un'auto gratuitamente». «La carenza di personale del reparto scorte di Roma costringe gli agenti a continui reimpieghi, andando a prendere la persona da scortare dal punto A per accompagnarlo al punto B do di un aereo sì ma di linea. In quell' occasione si fece accompagnare a Fiumicino, passò con calma davanti ai check in e si imbarcò su un A320 dell'Alitalia. Solo il tempo di un saluto al comandante per poi accomodarsi accanto agli altri 200 passeggeri diretti a Palermo. Fino ad allora, l'unico precedente di questo tipo era stato quello di e poi di corsa fare la stessa cosa con un'altra persona e così via - sottolinea invece il segretario generale del Coisp, Pianese -. Il sistema delle scorte sconta il taglio alle risorse patito negli ultimi dieci anni, quando sono stati attuati tagli lineari per quattro miliardi l'anno al sistema sicurezza del Paese, è stato bloccato il turnover e il contratto nazionale di lavoro, consegnando ai cittadini forze di polizia con vuoti d' organico imbarazzanti. In questo modo la sicurezza della persona scortata e degli operatori deperisce fortemente: basti pensare che ogni giorno il Reparto scorte assicura tra i 45 e i 60 dispositivi di sicurezza che, per essere fatti nel rispetto dei canoni di sicurezza e dei livelli di rischio, avrebbero bisogno di essere rinforzati con decine di uomini, autovetture e supporti tecnici». «Ci sono gli straordinari aggiunge Cardilli del Cocer ma capita di star lontano da casa anche più giorni e di andare in territori sensibili tipo Calabria, Sicilia. I nostri stipendi sono fermi da nove anni, contratti e indennità bloccati».
Da D'Alema alla Boschi e Feltri passando per Rotondi: in Italia pochi rinunciano alla scorta. Ad Ingroia invece l'hanno tolta. Nel nostro Paese sono 560 le persone che ce l'hanno. Mobilitati 2500 uomini. La maggior parte delle scorte è dedicata a magistrati, ma ci sono anche ex politici, imprenditori e giornalisti. Viaggio del Fatto Quotidiano tra i vip sotto protezione, scrive TiscaliNews il 10 luglio 2018. In Italia ci sono circa 560 persone protette da una scorta pagata con i soldi pubblici. Per assicurare la loro protezione operano circa 2500 uomini. Ma la disposizione è sempre giustificata dal pericolo reale incombente sulle teste degli interessati? Se ne discute da un po’ nel nostro Paese e l’occasione viene ravvivata da un servizio giornalistico oggi sul Fatto Quotidiano. Alcuni dei nomi citati nell'articolo appartengono a personaggi che per il loro vissuto, e per i trascorsi professionali, possono effettivamente correre gravi pericoli. Per altri è meno evidente il rischio che li sovrasta e dunque non è facile comprendere perché godano, o continuino a godere, di tale trattamento. Ci sono poi casi, come quello dell’ex magistrato Antonio Ingroia, cui la scorta è stata tolta del tutto ed altri che la mantengono anche dopo aver lasciato incarichi di governo, come l’ex ministro Maria Elena Boschi. In ogni caso le personalità di cui il giornale di Travaglio si occupa hanno ricevuto, per decisione delle Prefetture interessate o delle Questure, l’assegnazione di una scorta, con la previsione di un certo livello. Infatti la scorta può essere assegnata con un livello più o meno alto di protezione. Si può avere l’auto blindata o no, avere la protezione fino a un determinato orario oppure solo in certi giorni della settimana, avere un certo numero di uomini.
Tra i politici. Tra i politici si segnalano i casi di Gianfranco Rotondi, leader della Dc per le Autonomie, rieletto in Abruzzo con FI alle ultime elezioni di marzo, che ha ottenuto di mantenere la scorta quando era ministro degli Interni Angelino Alfano. Di Nunzia De Girolamo, ex esponente di FI e del Nuovo Centrodestra di Alfano, che è riuscita a mantenere un livello minimo di protezione: il quattro, che significa almeno un agente e un autista su un’auto comune. Oppure di Maurizio Gasparri, parlamentare del Msi, di An e attualmente titolare di un seggio al senato con Forza Italia. Il Fatto racconta come tentarono di levargli la prerogativa durante il regno ancora una volta di Angelino Alfano agli interni, senza riuscirci. Gliela ridiedero con livello 3, ovvero concessione anche dell’auto blindata. Massimo D’Alema ha mantenuto il diritto alla scorta (livello 4) allorché al Viminale c’era Marco Minniti. Ma il principio per cui in Italia una scorta non si nega a nessuno (si fa per dire) viene rispettato anche per Lorenzo Cesa, deputato della Udc e segretario del partito che fu di Pier Ferdinando Casini, per Ernesto Carbone, renziano di ferro, Piero Fassino, esponente del Pd, ex sindaco di Torino, ex ministro e primo segretario del partito, e Maurizio Lupi, ex vicepresidente a Montecitorio per il Popolo delle Libertà. Una scorta ce l’ha ancora la ex ministra Pd Maria Elena Boschi. Da quando non è più nemmeno sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio il livello è stato abbassato da 3 a 4, ma la sua protezione continua ad essere assicurata.
Il caso Ingroia. Ci sono dei personaggi però che la scorta non ce l’hanno e qualche domanda viene da porsela. Per esempio l’ex magistrato siciliano Antonio Ingroia che è stato Pm a Palermo ed ha indagato sulla trattativa Stato-mafia. Attualmente, dopo una discesa nel campo della politica, fa l’avvocato e il manager, ma sicuramente il suo passato ne fa una figura particolare. A lui la scorta è stata tolta qualche mese fa, dopo che il dispositivo protettivo era passato dal livello 2 al 4. La decisione di far cessare il diritto pare sia stata degli enti competenti di Palermo, e il Viminale si è assunto la responsabilità tecnica della valutazione del cessato pericolo, “che risale ai tempi di Minniti”, fa presente il giornale. La disposizione adottata nei confronti di Ingroia ha determinato un intervento del Pm Nino Di Matteo che ha sollevato il caso, ed è seguita poi una petizione “promossa dall’europarlamentare Barbara Spinelli, alla quale hanno aderito anche Gian Carlo Caselli e Piero Grasso, oltre ai vertici del Fatto Quotidiano”.
Boschi, Vespa, Rotondi e Gasparri. La maggior parte delle scorte sono dedicate a magistrati, ma non mancano appunto i politici, i collaboratori di giustizia, gli imprenditori e i giornalisti.
Il raffronto con altri Paesi. Gli scortati nel nostro Paese sono in numero maggiore che in altri Paesi europei a noi assimilabili. A fronte dei 560 scortati italiani, ce ne sarebbero per esempio 165 in Francia, 40 in Germania e 20 nel Regno Unito.
I giornalisti. Tra i giornalisti i nomi più conosciuti sono quelli di Lirio Abbate, vice direttore dell’Espresso, e Paolo Borrometi, dell’Agenzia Agi, presidente inoltre di Articolo 21. Ambedue sono stati minacciati dalla criminalità organizzata. A loro si aggiunge Federica Angeli di Repubblica, invisa ai clan di Ostia. Una scorta viene garantita anche a Magdi Cristiano Allam, che qualche scontro l’ha avuto con certi ambienti islamici. Una scorta hanno anche Fiamma Nirenstein, giornalista e scrittrice, ex deputata per il Popolo della Libertà che ha ricoperto il ruolo di Vicepresidente della Commissione Affari Esteri, Maurizio Belpietro, fondatore de La Verità, o Mario Calabresi direttore di Repubblica. Chiudono la serie Maurizio Molinari, direttore della Stampa, Vittorio Feltri, ex direttore di Libero, Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, e il conduttore televisivo Bruno Vespa.
Tematica aperta. Non manca chi ha rinunciato a un certo trattamento per far risparmiare lo Stato. Il premier dell’attuale governo, Giuseppe Conte, ha chiesto di ridurre il suo dispositivo dal livello 1 (tre auto blindate) a quello 2. E il capo della Polizia Franco Gabrielli non ha la scorta. Quelli degli assegnatari di scorta citati sono alcuni dei casi eclatanti. Il dibattito sulla tematica è comunque aperto. Il problema è che le scorte costano e i contribuenti si chiedono se tra quelle in circolazione ce ne siano di inutili. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, e il nuovo governo, hanno fatto intendere di volersene occupare. Certo non si potrà parlare di tagli lineari, perché quell’esperienza è stata poco positiva. Basti pensare al caso del giuslavorista Marco Biagi. Ma qualche novità potrebbe esserci.
Politici, imprenditori, giornalisti e sindacalisti. Ecco chi sono i 600 italiani sotto scorta con 2070 agenti e 200 milioni di euro di costi. La categoria più “protetta” è quella dei magistrati, 267. Segue quella degli “esponenti politici nazionali e locali”, composta di 74 persone. Dell’elenco dei politici non fanno invece parte gli “esponenti governativi”, che sono 26. Nel 2017, rispetto all’anno precedente, sono state decise 88 nuove scorte e ne sono state revocate 59, mentre 69 sono state rimodulate, cioè depotenziate, scrive TiscaliNews il 23 giugno 2018. Il primo a farsi avanti è stato l’ex ministro Graziano Delrio. “Togliere la scorta a Roberto Saviano? Gli diano la mia”. L’attuale capogruppo dem alla Camera dei deputati usufruisce ancora della protezione perché la legge prevede che gli ex ministri che ne avevano diritto continuino ad averla per un periodo di tempo anche dopo la cessazione del mandato. Dunque, avranno auto blu e uomini a guardare le loro spalle lui e il suo successore Danilo Toninelli, l’ex ministro degli Esteri Angelino Alfano ed Enzo Moavero Milanesi, Beatrice Lorenzin e Giulia Grillo.
File scorte. A riaprire “il file scorte” è stata la “minaccia” di Matteo Salvini allo scrittore autore di Gomorra, nel mirino di Casalesi e narcos, costretto a vivere all’estero e sotto protezione da più di un decennio. Ma quante sono oggi le scorte, e chi ne ha diritto? La risposta è contenuta nel “Punto di situazione” che l’Ucis, l’Ufficio centrale interforze per la Sicurezza personale, ha consegnato all’uomo che sedeva al Viminale prima del segretario leghista, cioè a Marco Minniti. I “soggetti destinatari di misure di protezione personale” sono 574. La categoria più “protetta” è quella dei magistrati, 267.
Esponenti politici nazionali e locali. Segue quella degli “esponenti politici nazionali e locali”, composta di 74 persone. Dell’elenco dei politici non fanno invece parte gli “esponenti governativi”, che sono 26, mentre ci sono i “dirigenti ministeriali e della pubblica amministrazione”, perlopiù capi di gabinetto dei ministeri più importanti e capi dipartimento alla guida di strutture delicate. Ventisei sono i diplomatici scortati dentro il Paese (quelli all’estero lo sono tutti, molti di più), cioè meno dei trentasei “imprenditori e dirigenti stranieri” sotto tutela.
Capi di sindacato. Nell’ultimo elenco consegnato, aggiornato al 30 dicembre 2016, si segnalano anche 13 appartenenti alle forze armate, 9 alla Polizia e cinque capi di sindacato. Sono scortati da sempre i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. C’è stato un periodo nel quale le Brigate Rosse uccidevano i consulenti dei ministeri come Marco Biagi e Massimo D’Antona, ma oggi i “consulenti governativi e docenti universitari scortati” sono soltanto sei.
Giornalisti. Hanno diritto alla protezione statale anche 19 giornalisti - perlopiù direttori -, 12 religiosi, 5 tra ex collaboratori di giustizia e testimoni di giustizia, 5 famigliari di queste due ultime categorie. Poche settimane fa il Movimento 5 stelle ha protestato perché si era ventilato di togliere la scorta ad Ignazio Cutrò, l’imprenditore siciliano di Bivona che con le sue denunce aveva fatto arrestare boss del suo Paese. Un sistema di protezione è applicato anche a due avvocati di collaboratori di giustizia e a dieci esponenti di associazioni imprenditoriali ed enti no profit, come il leader di Confindustria e le ong antimafia.
Come si ottiene la scorta. Secondo il rapporto, questo mega dispositivo impegnava in totale 2070 persone provenienti dalla Polizia di Stato, dall'Arma dei Carabinieri, dalla Guardia di Finanza, dalla Polizia Penitenziaria e anche dal Corpo Forestale dello Stato. Si fa presto a dire “scorta”, ma come la si ottiene? I prefetti possono segnalare all’Ucis personalità che a loro avviso necessitano di una scorta, motivando la richiesta con le risultanze di un’indagine sommaria che dimostri che il soggetto indicato sia sottoposto a un pericolo reale L’Ucis fu “inventato” dal governo di Silvio Berlusconi proprio dopo le polemiche seguite all’attentato contro Marco Biagi, e ha il compito di decidere l’applicazione dei dispositivi “attraverso la raccolta e l’analisi coordinata delle informazioni relative alle situazioni personali di rischio”.
Rischio concreto. Assegna una tutela solo in presenza di “un rischio concreto” e può revocarla soltanto dopo aver stabilito che “il pericolo sia cessato”. L’Ufficio, suddiviso in 4 diversi dipartimenti, ha fisicamente sede al Viminale ed è guidata da un prefetto. Gode di autonomia e, quindi, sulla carta, non può essere influenzato dal titolare del dicastero. E’ questo ufficio che decide quale “livello” di intervento dello Stato sia necessario. Quello basico è definito di “vigilanza” ed è applicato a chi corre un pericolo blando. Il servizio per questa classificazione può essere “flessibile” o “fisso”: nel primo caso un’auto della Polizia passa più volte al giorno nelle vicinanze del posto di lavoro o dell’abitazione del soggetto a rischio; nel secondo gli agenti restano fermi fuori dal luogo con un presidio fisso.A mano a mano che sale il rischio per il soggetto da “tutelare”, sale anche il livello del controllo. Esistono quattro tipi di “scorta”.
Livello più alto. Il livello più alto, quello massimo, prevede l’assegnazione di tre auto blindate con tre agenti per ogni auto. E’ quello riservato ai ministri più a rischio come quello dell’Interno, quello degli Esteri e quello dell’Economia e a quei magistrati perennemente sotto minaccia delle mafie. In totale sono soltanto venti.
Secondo livello. Il secondo livello prevede due auto blindate con tre agenti ciascuna: è quello che riguarda i ministeri delicati ma non di interesse internazionale, come ad esempio il ministero della Salute. Il terzo livello di allerta prevede un’auto blindata con due agenti a disposizione. Il quarto livello è quello dei ministri senza portafoglio con un servizio ancora più blando.
Membri del Csm e della Corte Costituzionale. Hanno tutele anche i membri del Csm e della Corte Costituzionale. Negli ultimi anni si è spesso parlato di “sfoltire” questo apparato che è particolarmente invasivo nella città d Roma. Il giorno del giuramento del governo di Enrico Letta, però, ci fu un tentativo di attentato costato moltissimo al militare Giuseppe Giangrande, che era di vigilanza sotto Palazzo Chigi, e quell’episodio convinse i responsabili dell’ordine pubblico a non ridurre i dispositivi ma anzi a rafforzarli. Matteo Renzi, quando era premier, quattro anni fa, parlò di ritoccare il numero degli agenti impegnati, ma senza troppo successo. Il capo della Polizia Franco Gabrielli è riuscito negli ultimi anni a ritoccare al ribasso i numeri, specie “rimodulando” le scorte già esistenti.
Distribuzione delle misure di protezione. C’è una certa variabilità. Nel 2017, rispetto all’anno precedente, sono state decise 88 nuove scorte e ne sono revocate 59, mentre 69 sono state rimodulate, cioè depotenziate. A livello locale - cioè regionale - ci sono altre trenta scorte che vanno aggiunte al numero generale e portano il totale sopra quota 600. La distribuzione delle misure di protezione vede in un ruolo preponderante la Regione sede delle istituzioni centrali, cioè il Lazio, e quella della mafia, cioè la Sicilia. Queste due Regioni sono immediatamente seguite dalla Campania e dalla Calabria, ma pure in Lombardia ci sono il 5,2% delle scorte di tutto il Paese.
Il costo. Quanto costa garantire la sicurezza alle personalità più a rischio del Paese? L’unico calcolo attendibile risale proprio ai mesi successivi all’omicidio di Marco Biagi quando, davanti al Parlamento, la spesa fu quantificata in 250 milioni di euro all’anno. Da allora, però, i costi dovrebbero essere diminuiti.
Quante bugie di scorta, scrive Vittorio Sgarbi, Lunedì 25/06/2018, su Il Giornale. Uno dei migliori poliziotti italiani, ovunque stimatissimo e all'epoca capo della squadra mobile di Napoli, Vittorio Pisani, a ragion veduta e con dati certi affermò che Saviano non correva rischi reali più di quanto potesse correre ogni altro giornalista che scriveva articoli di prima mano (non di seconda, come Saviano) sulla camorra. Le considerazioni di Pisani non erano politiche ma tecniche. Non c'è un diritto senza riscontri alla scorta. Il discorso era chiaro, ma la falsa indignazione e la retorica prevalsero. «A noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull'assegnazione della scorta». Pisani aggiunse: «Faccio anticamorra dal 1991. Ho arrestato centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimoniato... Beh, giro per la città con mia moglie e con i miei figli, senza scorta. Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni. Non ho mai chiesto una scorta». Saviano ha rappresentato la vita sotto scorta come una dolorosa costrizione. Un'assoluta bugia. Pisani, che aveva osato mettere in discussione i rischi eventuali di un intoccabile, si trovò al centro di un'indagine giudiziaria, fu costretto a lasciare Napoli per essere poi riabilitato e assolto dopo le dichiarazioni calunniose di un collaboratore di giustizia.
Una giornalista senza scorta a Saviano: «Napoli è stanca delle tue favole», scrive Daniele il 24/06/2018 su Informarexresistere. Aggiornamento e precisazione – La giornalista Luciana Esposito ci ha scritto dopo la pubblicazione della sua lettera sul nostro sito. Queste le sue parole: «In merito alla pubblicazione della lettera che la sottoscritta ha rivolto a Roberto Saviano e da voi riportata, vi chiedo di precisare che quelle parole sono state pubblicate due anni fa e che nulla hanno a che fare con l’attuale polemica in corso. Inoltre, sono assolutamente contraria alla volontà avanzata dal ministro Salvini di togliergli la scorta, soprattutto per il pericoloso messaggio che verrebbe inviato a coloro che pensano di poter fermare il nostro lavoro con le minacce».
“Caro Roberto, se tu respirassi Napoli con i tuoi polmoni…”. La lettera di Luciana a Saviano. Luciana Esposito è una giovane giornalista da anni impegnata contro la camorra, che ha scelto di restare a Napoli, la sua frontiera. Due aggressioni fisiche, 15 denunce, minacce di morte e tanto altro. L’altro giorno ha condannato dalla sua bacheca la scelta del Ministero di togliere la scorta a Saviano, ma due anni fa gli ha scritto una lettera aperta che in questi giorni ha fatto il giro del web e che pubblichiamo. Fonte: Avvocati Rando Gurrieri Di Martino & Partners.
Lettera di Luciana a Saviano: «Caro Roberto, se respirassi Napoli con i tuoi polmoni e ritrovassi il coraggio di guardarla senza filtri, dritto negli occhi, per giungere a toccare con mano le cicatrici e le ferite tuttora sanguinanti che si porta cucite addosso, saresti orgoglioso dello striscione apparso nel Rione Sanità, perché rappresenta un monito forte alla camorra e ancora di più a chi la intreccia a suggestioni letterarie/cinematografiche per lanciare sul mercato prodotti “proliferi” utili a tenere viva la macchina da soldi innescata da Gomorra, tanti anni fa…“La camorra e rinnegati non hanno nazionalità e Napoli ha bisogno d’amore, non di fango. Napoli in azione”: questo è quanto riportato su quel mantello bianco, pregno d’indignazione ed orgoglio, oltre che di vernice. Napoli rivendica verità, è stanca delle tue “favole”. Scontata e assai opinabile la tua replica: “Questo striscione campeggia a Napoli abbarbicato sul ponte della Sanità. Questo striscione lo ha messo lì chi odia Napoli. Perché fango non è raccontare, fango è uccidere, spaventare, terrorizzare, togliere speranza e azzerare ogni futuro possibile.” Se tu vivessi a Napoli, ti sarebbe giunta notizia che, proprio nel cuore del Rione Sanità, in una delle fette di Napoli più sopraffatte dalla camorra, all’indomani della morte dell’ennesima vittima innocente della criminalità, centinaia di persone sono scese in strada per sbarrare il passo alla camorra. E, probabilmente, quello che esaspera ed indispettisce il popolo è il fatto che tra gli scritti e nelle gesta cinematografiche che portano la tua firma, “stranamente” non c’è spazio per la civiltà e la legalità che inizia a rivendicare la sua presenza, soprattutto tra le crepe dei contesti più devastati dalla camorra. Questo ritrovato e partecipato senso d’indignazione rischia di offuscare l’attendibilità di quel prodotto che assicura il massimo risultato con il minimo sforzo: “camorra, Scampia e malammore”. Perché discostarsi da un principio mediaticamente vincente? Del resto, perché discostarsi da un principio mediaticamente vincente, parafrasando una realtà che rischia di rompere il giocattolo? E questo, agli esseri pensanti che hanno ancora voglia di indignarsi, proprio non va giù. Due aggressioni fisiche, l’ultima sfociata persino in un tentativo di sequestro di persona, all’incirca 15 denunce sporte dall’inizio del 2016, minacce di morte da parte della madre del boss dei Barbudos, plurimi raid vandalici alla mia auto. Le intimidazioni, le minacce e gli avvertimenti, sono all’ordine del giorno: questi i fatti che sintetizzano il mio lavoro di giornalista, direttrice di un giornale online qualunque, una scelta voluta per non sottostare alle disposizioni di nessun padrone. Con tutti i contro che questo comporta. Non diventerò mai ricca e non è questa la motivazione che anima il mio operato, diversamente avrei mollato dopo il primo “strascino”. Eppure, non vivo sotto scorta. Il tutto viene ulteriormente aggravato da un dettaglio che fa la differenza: vivo nel posto in cui lavoro e di cui racconto le malefatte, Ponticelli, quel quartiere che hai intravisto attraverso talune scene di Gomorra, quello in cui, invece, io sono nata e cresciuta e dove vivo e lavoro, muovendomi tra la violenza, l’odio, l’omertà di chi, mentre venivo pestata, non ha mosso un dito per difendermi. Eppure, ho scelto di restare e di non fare nemmeno mezzo passo indietro. Anzi, ho imparato a capire che misurarsi costantemente con la paura e con i limiti imposti dalla consapevolezza di quello che fai è il metro valutativo più attendibile per non perdere mai la lucidità né l’impatto con la realtà. Non me ne volere, ma credo che tu non abbia la minima percezione di cosa voglia dire vivere costantemente sotto minaccia: gli sguardi, le citofonate nel cuore della notte per buttarti giù dal letto solo per recapitarti l’ennesimo “consiglio”, le limitazioni dettate dalla consapevolezza che ti muovi in un campo minato, il lucido cinismo che ti porta a non fidarti di nessuno. Eppure, non vivo sotto scorta, le spalle ho imparato a guardarmele da sola, ma non credo che la mia vita valga meno della tua, meno che mai lo penso del mio lavoro. La ricerca della verità e soprattutto la “vera” lotta Anticamorra, richiedono questo genere d’impegno e di sacrificio e chi sceglie d sposare questa causa, deve fare inevitabilmente i conti con tutto ciò che questa scelta tristemente comporta. Di conseguenza, le difficoltà con le quali mi confronto sono innumerevoli, quindi, nonostante sia presente sul posto, faccio non poca fatica a reperire notizie certe. L’effetto di Gomorra sulla camorra. Mi ha sempre affascinato ed incuriosito il fatto che, invece, tu non subisci questo genere di difficoltà, nonostante ti trovi a raccontare Napoli dall’altro capo del mondo. Questo “dettaglio” non sfugge allo spettatore/lettore attento che non può non interrogarsi in merito all’attendibilità dei fatti che racconti. Romanzare la camorra sta mietendo più danni dell’affiliazione stessa, ma per rendertene conto dovresti vivere Napoli da Napoli. I giovani camorristi che prima di andare a fare “le stese” si riuniscono in cerchio e urlano “le frasi di Gomorra” per motivarsi, l’emulazione fisica e comportamentale dei personaggi della serie, non solo da parte dei camorristi, la riproduzione fedele della casa di Don Pietro Savastano voluta da un boss, i ragazzini che ripetono fino allo sfinimento “le frasi tormentone” della serie, mentre giocano a pallone o ai videogiochi: per questo genere di “mostri”, Napoli deve “ringraziare” te. E sarebbe opportuno ed anche estremamente interessante che fossi tu ad analizzare “l’effetto di Gomorra sulla camorra”. Sei bravo a forgiare la realtà a immagine e somiglianza dei tuoi interessi, ma in questo caso, non ci provare: gettare fango non è “raccontare”, ma raccontare una realtà falsata per andare incontro a delle esigenze che nulla hanno da spartire con la ricerca e la denuncia della verità. Nessun napoletano avulso dal sistema camorristico ha mai contestato il lavoro e le inchieste di noi giornalisti presenti sul campo, anzi. La tua lotta Anticamorra, nasce e si sviluppa per alimentare un business ben preciso e questo i napoletani lo hanno capito. Quello che, fin qui, mi ha dato la forza necessaria per non mollare è proprio l’incoraggiamento dei tantissimi napoletani desiderosi di liberarsi dalle angherie della camorra. Non giriamoci troppo intorno: la tua lotta Anticamorra, nasce e si sviluppa per alimentare un business ben preciso e questo i napoletani lo hanno capito ed è più che legittimo che ti chiedano di cambiare registro e prendere una posizione netta: o romanziere o “detentore di verità assolute e inconfutabili”, non posso chiamarti giornalista perché non lo sei ed è bene ricordarlo. Nel caso in cui tu scelga di servire la verità, liberati da forzate ipocrisie, rimboccati le maniche e scendi in trincea insieme a noi, perché lo ribadisco: la tua vita non vale di più della mia e di quella di migliaia di giornalisti che ogni giorno rischiano la vita in nome di un ideale e che per questo non si sentono degli eroi né si aspettano che il mondo si fermi per tributargli una standing ovation. Se dovesse accadermi qualcosa, tu sei una di quelle persone dalle quali desidero ricevere solo indifferenza: vedermi appioppare uno dei tuoi sermoni, vorrebbe dire gettare fango prima sul mio cadavere e poi sulla credibilità del mio lavoro, più silenzioso del tuo, ma, anche assai più sincero e disinteressato».
· La voragine nell’Erario: tra ticket, doppi lavori e truffe sulle pensioni.
La voragine nell’Erario: tra ticket, doppi lavori e truffe sulle pensioni. Pubblicato lunedì, 18 marzo 2019 da Corriere.it. Ci sono le visite mediche da 20 minuti che diventano 40 e i corsi di formazione mai organizzati. Ci sono gli appalti truccati e le pensioni percepite nonostante i titolari siano morti. E poi i docenti universitari con il doppio lavoro e i ticket sanitari non pagati da chi si è finto povero presentando un Isee truccato proprio per godere delle agevolazioni. Il rapporto riservato che dà conto delle ultime attività del Nucleo speciale della Guardia di Finanza e della Corte dei Conti elenca gli illeciti compiuti in materia di spesa pubblica. Il danno per l’Erario supera ormai i sei miliardi di euro, migliaia sono i dipendenti pubblici finiti sotto inchiesta e chiamati dai giudici contabili a risarcire una vera e proprio voragine nei conti. E adesso i controlli sono stati intensificati per incidere in quei settori — dal bonus cultura al reddito di cittadinanza — dove altissimo è il rischio di nuove truffe. Gli ultimi dati ufficiali diffusi nel giugno scorso parlavano di 8.400 tra funzionari e impiegati «colpevoli» degli sprechi, ma a leggere i nuovi report appare evidente come questo numero sia destinato a crescere notevolmente. Secondo gli investigatori i reati nel settore della Sanità possono essere compiuti anche per «una diffusa inefficienza organizzativa del controllo da parte degli Organi preposti, i quali svolgono un’azione carente o addirittura inesistente». Gli illeciti più frequenti sono «la sovrafatturazione di prestazioni (per esempio una terapia di 20 minuti fatturata come se fosse di 40 minuti); i «pacchetti» di analisi di laboratorio fatturati separatamente; le terapie di gruppo fatturate come individuali». Nel corso dei controlli negli ospedali e nei laboratori è stato scoperto che ad alcuni pazienti «sono stati chiesti pagamenti supplementari informali per ricevere prestazioni sanitarie a cui hanno diritto oppure sono state date indicazioni per sottoporsi a prestazioni private, magari funzionali alla successiva erogazione di prestazioni cliniche da parte dello stesso specialista in strutture pubbliche».
Falsa mobilità e finti sordi. Nell’ultimo anno «continuano ad essere accertati casi di truffa ai danni dell’Inps, per un ammontare complessivo pari a 4,5 milioni di euro» che riguardano in particolare due settori. Il primo è legato «all’evasione contributiva da parte di aziende correlata all’avviamento delle cosiddette procedure di mobilità». In particolare è stato scoperto che molte aziende non versano il «contributo di ingresso» e poi spostano una parte dei dipendenti «in aziende facenti capo ai medesimi gruppi di imprese, con il verosimile scopo di usufruire di indebite agevolazioni contributive legislativamente previste proprio per il riassorbimento di personale in mobilità». L'altro riguarda invece «l’indebito beneficio erogato, nell’ambito delle indennità per invalidità, a soggetti che hanno dichiarato di essere affetti da sordità e dunque hanno diritto all’indennità di comunicazione, alla pensione non reversibile e all’indennità frequenza». A questo naturalmente si aggiungono i casi di persone che continuano a percepire la pensione dei familiari morti, ma anche di chi non ha dichiarato di essere residente all’estero e ha ottenuto il contributo per anni». Nell’ultimo anno «continuano ad essere accertati casi di truffa ai danni dell’Inps, per un ammontare complessivo pari a 4,5 milioni di euro» che riguardano in particolare due settori. Il primo è legato «all’evasione contributiva da parte di aziende correlata all’avviamento delle cosiddette procedure di mobilità». In particolare è stato scoperto che molte aziende non versano il «contributo di ingresso» e poi spostano una parte dei dipendenti «in aziende facenti capo ai medesimi gruppi di imprese, con il verosimile scopo di usufruire di indebite agevolazioni contributive legislativamente previste proprio per il riassorbimento di personale in mobilità». L'altro riguarda invece «l’indebito beneficio erogato, nell’ambito delle indennità per invalidità, a soggetti che hanno dichiarato di essere affetti da sordità e dunque hanno diritto all’indennità di comunicazione, alla pensione non reversibile e all’indennità frequenza». A questo naturalmente si aggiungono i casi di persone che continuano a percepire la pensione dei familiari morti, ma anche di chi non ha dichiarato di essere residente all’estero e ha ottenuto il contributo per anni». Quella dei corsi di formazione che in realtà non vengono organizzati è una delle truffe più frequenti per l’erogazione dei fondi europei per decine di milioni, ma i controlli sulle piccole imprese hanno consentito di accertare illeciti con una «indebita percezione» di oltre 90 milioni di euro attraverso i «contratti di programma» gestiti dal Ministero dello Sviluppo Economico negli anni passati e adesso verificati. Su 44 ispezioni, ben la metà ha dimostrati che il lavoro non era mai stato svolto. Se l’operazione Magistri ha consentito di individuare 337 docenti universitari che hanno preso quasi 58 milioni di euro senza averne titolo perché svolgevano un doppio incarico nonostante i divieti, le verifiche nel settore della sanità pubblica hanno consentito di stanare dottori e parasanitari che risultavano in servizio pur lavorando nelle strutture private, compresi numerosi addetti al servizio di guardia medica.
Salvatore Dama per “Libero Quotidiano” il 20 novembre 2019. Li chiamavano "spaccaossa". Reclutavano persone in difficoltà economiche disposte a farsi rompere un braccio o una gamba per ottenere il rimborso dall' assicurazione. Gli infortunati prendevano pochi spicci, i boss incassavano il premio, truffando la compagnia. È l' ultimo business mafioso scoperto dalla Squadra mobile di Palermo. E, in realtà, non è l' unica notizia. L' altra è che lorsignori, gli "spaccaossa", percepivano pure il reddito di cittadinanza. Ed è solo l' ultimo scandalo legato al sussidio voluto dai grillini. In questi mesi ne sono stati denunciati a centinaia. Una carrellata di mafiosi, spacciatori, lavoratori in nero, truffatori, ex terroristi, pregiudicati. Alcuni già ricevevano l' assegno mensile, altri avevano fatto domanda. È il caso di Annamaria Franzoni. Che per il momento si è vista negare l' assistenza dall' Inps. Non perché abbia appena finito di scontare una condanna definitiva per l' omicidio del figlio Samuele, semplicemente la donna non rientrava nei criteri Isee. Torniamo a Palermo, dove sono state arrestate nove persone, accusate di associazione mafiosa, estorsione, associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, autoriciclaggio, danneggiamento fraudolento di beni assicurati. E, appunto, truffe assicurative. Chi si faceva fratturare un osso riceveva qualche centinaia di euro, i boss incassavano polizze fino a 100mila euro. Cinque dei nove fermati sommavano ai guadagni illeciti anche il reddito di cittadinanza. A uno di loro è stata sequestrata una villa con piscina, sculture e statue di leoni. Nel parco auto sono state trovate macchine di lusso per un valore di 300mila euro. Nelle stesse ore, a Maratea (Potenza), la Guardia di Finanza ha denunciato un uomo che percepiva il Rdc ma lavorava in nero in un' impresa di trasporto merci. Sempre di ieri è la notizia che l' Inps di Bologna ha negato l' assegno ad Annamaria Franzoni, libera dallo scorso febbraio dopo aver scontato una condanna definitiva per l' omicidio del piccolo Samuele avvenuto a Cogne nel 2002. Macabra coincidenza: la domanda è stata respinta proprio per un calcolo legato alla detrazione dei figli a carico. La donna ha annunciato ricorso. A Palermo, qualche giorno fa, era finito sui giornali un meccanico 29enne. Che, oltre a percepire indebitamente il reddito di cittadinanza, operava senza autorizzazioni e aveva illecitamente attaccato la sua officina alla rete elettrica pubblica. A Floridia, in provincia di Siracusa, lo Stato assicurava il reddito minimo a un 41enne spacciatore. A casa gli hanno trovato 327 dosi di cocaina. E, nel box, una Porsche. Un altro pusher al quale l' Inps versava il reddito di cittadinanza è stato pizzicato a Boscoreale, Napoli. Quando i carabinieri lo hanno fermato, in auto aveva un chilo e trecento di marijuana. Poco più a Sud, ad Agropoli, una donna continuava a incassare la pensione della mamma morta nel 2013. Non le bastava, evidentemente. E ha fatto anche domanda per il reddito di cittadinanza. Chiamasi bulimia di assistenzialismo. Altrettanto noto è il caso di Federica Saraceni, ex brigatista, condannata a 21 anni e mezzo di carcere per l' omicidio del giuslavorista Massimo D' Antona e attualmente ai domiciliari, che percepisce un assegno RdC di poco superiore ai 600 euro al mese. Ogni giorno vengono stanati uno o più furbetti. Da fine marzo ad agosto i casi accertati dalle autorità sono stati 185. Mancano i dati relativi a settembre e ottobre. Però, se ci si basa sui fatti di cronaca, il numero sembra notevolmente lievitato. Beccarli non è facile. E, di solito, le irregolarità vengono fuori sempre quando le indagini seguono altre piste: droga, truffe, riciclaggio. L' Ispettorato del lavoro, nell'ultimo report, ha ammesso di essere in affanno a causa delle «limitate risorse a disposizione». Le ispezioni nel 2019 sono calate del 9% rispetto all' anno precedente.
· Oltre 600 professori universitari sono sotto inchiesta per il doppio lavoro.
Oltre 600 professori universitari sono sotto inchiesta per il doppio lavoro. Da Genova a Palermo, da Napoli a Bologna: docenti che sotto la dicitura di generiche "consulenze"in realtà hanno un altro incarico pagato profumatamente. E il danno erariale supera i 41 milioni di euro. Antonio Fraschilla il 3 ottobre 2019 su L'Espresso. Per legge i professori universitari possono svolgere solo consulenze occasionali, ma dietro questa formula avviene di tutto e per questo adesso la Guardia di Finanza ha messo sotto inchiesta 600 docenti per molti dei quali la Corte dei Conti ha presentato in queste settimane provvedimenti di condanna che ammontano complessivamente a 41 milioni di euro di danno erariale. I particolari dell’inchiesta sono pubblicati su L’Espresso in edicola da domenica 6 ottobre e già online su Espresso +. Sono coinvolti in questa storia di doppio lavoro docenti delle università di Napoli “Federico II”, dell’Emilia Romagna, di Genova, Cassino, Bari, Palermo. Fra loro c’è il professore di ingegneria a capo di aziende di progettazione che lavorano in mezzo mondo e fatturano milioni di euro, il docente di architettura con partita Iva che fa lavoretti in proprio, il medico che non solo insegna all’università e svolge attività per il suo policlinico, ma riceve anche per i pazienti di aziende private della sanità. La Guardia di finanza e la Corte dei conti hanno indagato per verificare le “incompatibilità” previste per i dipendenti pubblici. All’inizio erano solo 411 i docenti “irregolari", in gran parte degli atenei del Nord. Ma una volta entrati nei corridoi delle università si è scoperto un mondo di finte consulenze, incarichi non dichiarati e altri escamotage per poter avere un reddito parallelo a quello da docente a tempo pieno. L’ultima sentenza della Corte dei Conti è di pochi giorni fa e riguarda un docente dell’Università di Napoli “Federico II” che è stato condannato a restituire all’ateneo 776 mila euro.© Riproduzione riservata.
Università, lo scandalo dei professori con il doppio lavoro che ci costano 40 milioni. Per legge possono svolgere solo consulenze occasionali. Ma dietro questa formula avviene di tutto. E ora 600 docenti sono sotto esame. Ecco cosa sta succedendo. Antonio Fraschilla il 4 ottobre 2019 su L'Espresso. C'è il professore di ingegneria a capo di aziende di progettazione che lavorano in mezzo mondo e fatturano milioni di euro, il docente di architettura con partita Iva che fa lavoretti in proprio, il medico che non solo insegna all’università e svolge attività per il suo policlinico, ma poi riceve anche per i pazienti di aziende private della sanità. Per tantissimi professori degli atenei italiani il doppio lavoro è una consuetudine, grazie anche a leggi dalle maglie larghe, pareri generici, regolamenti interni degli atenei a dir poco lacunosi. Non ultima la legge Gelmini, nata per mettere paletti precisi, vietando il doppio lavoro per i docenti a tempo pieno, e che invece con l’inserimento di una semplice parolina, “consulenza”, ha di nuovo riaperto la partita. E tutti hanno continuato a fare “come ai vecchi tempi”. Peccato però che da due anni a questa parte la Guardia di finanza e la Corte dei conti abbiano messo il becco negli atenei per verificare davvero le “incompatibilità” previste per i dipendenti pubblici. Nel mirino inizialmente erano stati messi 411 docenti, in gran parte del Nord, citati a giudizio per un danno erariale di 41 milioni di euro. Ma una volta entrati dentro i corridoi delle università si è scoperto un mondo di finte consulenze, incarichi non dichiarati e altri escamotage per poter avere un reddito parallelo a quello da docente a tempo pieno. A oggi il numero dei casi sotto esame supera quota 600. Il problema vero, per i professori e alcuni gran baroni universitari, però è un altro: all’inizio qualche saggista scriveva della “giurisprudenza creativa” della Corte dei conti salvo scoprire, in questi mesi, che le “teorie creative” delle procure contabili hanno retto in giudizio e sono almeno sessanta le sentenze pubblicate recentemente che hanno visto condannare professori a restituire cifre a cinque zeri. Con alcuni prof che non hanno atteso la sentenza e hanno restituito le cifre contestate senza battere ciglio. Dopo anni di completo Far West, la legge Gelmini aveva provato a fissare dei paletti. I docenti assunti a tempo indeterminato, secondo la norma del 2010, possono avere consulenze chiedendo una autorizzazione al proprio ateneo, ma non possono guidare aziende o società oppure avere attività privata. La parola “consulenza”, inserita all’ultimo minuto nel testo da una manina amica dei docenti, ha comunque aperto a stravaganti interpretazioni. E i prof hanno in molti casi continuato a svolgere attività privata. Lo scorso anno il Miur ha diramato una circolare per chiarire cosa si intende per consulenze. La circolare del ministero fissa quindi il punto della «natura occasionale e dunque non abituale ma saltuaria» della consulenza e dell’incarico esterno. «A titolo esemplificativo non possono ritenersi occasionali attività di consulenza, anche di modico valore economico, che si ripetono più volte nel corso dell’anno o che comportano una limitata presenza del docente in ateneo», si legge nel documento. Al di là della circolare ministeriale, la Corte dei conti è andata avanti per la sua strada con condanne pesanti e citazioni a giudizio milionarie. L’ultima sentenza è di qualche giorno fa: Vincenzo Rosiello, professore di Ingegneria dell’Università di Napoli “Federico II” è stato condannato a restituire all’ateneo 776 mila euro, dopo che è stato accertato che tra il 2012 e il 2016 con una partita Iva e una impresa individuale ha svolto attività privata. Anche in questo caso i colleghi hanno provato a “salvarlo”, e così in corso di dibattimento davanti ai giudici contabili è saltata fuori una autorizzazione postuma agli incarichi svolti da privato dal docente firmata dall’ex direttore del suo stesso dipartimento. I giudici non ne hanno tenuto conto perché l’autorizzazione in questione era “priva di valenza giuridica, estremamente generica e rilasciata da un organo non competente”. Il direttore del dipartimento aveva firmato una nota in sanatoria con una autorizzazione al docente senza nemmeno una data e il dettaglio degli incarichi autorizzati. A Bologna sono finiti nel mirino una ventina di professori, il primo ad essere stato condannato è stato il noto ingegnere Paolo Vestrucci, che ha risarcito l’Alma Mater con oltre 200 mila euro, altre condanne sono arrivate nonostante gli strani omissis nelle sentenze recentemente pubblicate che non consentono di ricostruire i nomi dei docenti degli atenei dell’Emilia Romagna. Un riguardo davvero curioso, che i colleghi di altre regioni non hanno avuto: le loro sentenze sono pubblicate senza omissioni di dati personali. Come quella che ha condannato il professore di Geotecnica dell’Università di Genova Roberto Passalacqua, ex consigliere di amministrazione di una società privata, a restituire 120 mila euro, o il docente di Ingegneria dell’Università di Cassino, Giovanni De Marinis, a risarcire l’ateneo con 126 mila euro: oltre ad avere una partita Iva per gli incarichi esterni retribuiti, era presidente e direttore della Cspam, società di progettazione. Ci sono storie di doppi lavori che poi hanno sfiorato, si fa per dire, anche il penale. Come la storia della professoressa di medicina preventiva dell’Università di Bari Marina Musti, condanna dai giudici contabili a restituire 121 mila euro in base all’indagine nella quale la Guardia di finanza in cui ha annotato nella relazione che la docente “svolgeva attività libero professionale presso strutture non pubbliche”. In particolare per la Ergocenter, società di consulenza medica del lavoro, amministrata dal marito e posseduta al cinquanta per cento con il figlio. E, ancora, tra le condanne recentemente emesse ci sono quella del professore Vito Nardi dell’Università di Cassino, (danno da 54 mila euro), amministratore delegato e liquidatore di varie società o di Andrea dell’Asta dell’Università di Camerino (danno da 44 mila euro) che ha diretto vari lavori nei comuni di Falconara Marittima e Agugliano. In Sicilia l’indagine delle Fiamme gialle e dei giudici contabili ha portato ad un piccolo terremoto. Lo scorso anno ha lasciato improvvisamente la sua cattedra all’Università di Palermo uno dei docenti più potenti, Nino Bevilacqua: ingegnere, cresciuto professionalmente in maniera esponenziale duranti gli anni d’oro dei governi del centrodestra berlusconiano, grande amico di Gianfranco Micciché, è stato citato la scorsa settimana dalla Corte dei conti per una cifra intorno ai 400 mila euro. “Hanno scoperto l’acqua calda”, hanno commentato in molti dentro l’ateneo. Anche perché Bevilacqua stesso non ha mai fatto mistero dei lavori con sue aziende di progettazione che gestiscono cantieri in mezzo mondo. Secondo i magistrati contabili Bevilacqua nella qualità di professore ordinario della Facoltà di Ingegneria «con più atti e con artifizi e raggiri» non ha mai comunicato il proprio ruolo di amministratore e rappresentante legale delle società Italconsul spa, terrazze dell’Etna trading, Autostrade e strade engineering, inducendo in errore l’Università di Palermo in ordine all’esistenza dei vincoli di incompatibilità”. In alcuni casi avrebbe avuto il via libera dell’allora rettore Roberto Lagalla, altro nome che conta in Sicilia (oggi è assessore regionale all’Istruzione nel governo di Nello Musumeci): per questo Lagalla è stato citato in solido. Pure nell’altro importante ateneo siciliano, quello di Catania, Università già scossa da una mega indagine sui concorsi pilotati che ha visto finire sotto inchiesta sessanta docenti e due ex rettori, le verifiche della Finanza sui doppi incarichi hanno colpito nel segno. E hanno già portato a condanne alle falde dell’Etna, come quella del professore Antonino Risitano, oggi in pensione: docente di Ingegneria dell’Università di Catania. In primo grado è stato condannato a restituire all’ateneo 263 mila euro per aver svolto consulenze in procedimenti giudiziari a favore di Eni e Erg ed essere stato componente di commissione in gare di appalto per l’ospedale Vittorio Emanuele di Catania. Senza aver comunicato nulla alla stessa Università. Giudizio in corso invece per il collega Rosario Lanzafame, per un importo contestato pari a 72 mila euro. In alcuni casi i docenti, ricevuto l’atto di citazione, hanno provveduto a versare le somme contestate: lo hanno fatto i professori Giuliano Cammarata (per 28 mila euro) e il collega Giuseppe Mancini (per 6 mila euro), entrambi dell’ateneo etneo. Attenzione, perché non sempre la procura della Corte dei conti ha avuto ragione. Da Bologna a Catania sono diversi i procedimenti nei quali in giudizio il docente ha dimostrato invece la regolarità delle sue consulenze. Non si può fare di un erba un fascio, dunque. Ma che negli atenei ci sia stato un certo malcostume, con più di un occhio chiuso da chi doveva vigilare, questo è fuori di dubbio. E il numero dei docenti con il doppio lavoro sotto indagine potrebbe ancora salire.
· Quanto costano gli europarlamentari?
Ue, chi a Bruxelles riceve doni e regali «inaccettabili». Pubblicato martedì, 24 settembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Luigi Offeddu. Rapporto della Corte dei Conti europea: la metà dei 43.100 membri delle istituzioni non conosce le regole etiche. Dal dossier emerge che «la proporzione di tutto lo staff dei dipendenti Ue che ha seguito dei corsi regolari di etica è soltanto del 3% circa». Fra i membri della Commissione Europea, è del 4,1%; mentre il 50,6%, quei corsi, li ha seguiti «per una volta soltanto»; e il 45,2% «mai». Neppure l’Europarlamento ha «sviluppato strategie complessive sull’etica». Esempio: per evitare i possibili conflitti di interessi dei deputati ci si affida solo alle loro autodichiarazioni. Doni e inviti da parte di soggetti esterni, si vaga nel vuoto: «non esiste alcuna definizione di doni, o di inviti ospitali, nelle norme per lo staff». I regali: «sono inaccettabili, in ogni circostanza» quelli di valore superiore ai 150 euro. Fra i 50 e i 150 euro sono accettabili, a condizione che non provengano da soggetti che possano mettere in dubbio l’indipendenza del funzionario o dirigente, e comunque bisogna dichiararli e finiscono in apposite liste. Che però contengono qualche eccezione. Al di sopra degli «inaccettabili» 150 euro: il 19 giugno 2013 il tedesco Manfred Weber, in quel momento capo del gruppo Ppe, vicepresidente dell’Europarlamento e portavoce ufficioso di Angela Merkel a Strasburgo, riceve uno smartphone marca Huawei dalla stessa Huawei: il dono viene notificato alla presidenza del Parlamento, il valore dichiarato è «maggiore di 150 euro». Il 4 dicembre 2013 Roberta Angelilli (Ppe), vicepresidente del Parlamento, riceve da un iraniano, «presidente del Consiglio nazionale di resistenza», un «orologione» alabastrato da tavolo: valore dichiarato «maggiore di 150 euro», anche in questo caso il dono viene notificato e registrato, il 18 dicembre. Il 28 gennaio 2015 Heidi Hautala, eurodeputata finlandese dei Verdi e in quel momento copresidente di Euronest, l’intergruppo che cura le relazioni con le repubbliche asiatiche dell’ex-Urss, riceve un dono classificato come «gioielleria, valore maggiore di 150 euro» (nella relativa foto appare come una medaglia) dall’ambasciatore in Belgio dell’Azerbaigian, Paese accusato di gravi violazioni dei diritti umani).E a proposito di Azerbaigian, c’è anche la «diplomazia del caviale» a lungo attiva presso il Consiglio d’Europa, organizzazione di 47 Paesi, che pure si occupa ufficialmente di diritti umani. Da una nota e da un’intervista rilasciata a Strasburgo, al think-tank tedesco Esi, da fonti azere: «Un chilo di caviale costa 1300-1400 euro. Ognuno dei nostri 12 amici nel Consiglio d’Europa riceve ad ogni sessione, 4 volte all’anno, almeno mezzo chilo. Per alcuni di loro, il caviale è solo l’inizio. Molti deputati – almeno 30 o 40 ogni anno - sono regolarmente invitati a Baku e pagati generosamente». Ricevono tappeti, bevande. E molto altro. Ma nessuno ha mai dichiarato alcun dono.Nebbia anche su certe missioni ufficiali degli eurodeputati. Nigel Farage, il capo dei britannici anti-Ue, quando era ancora nel vecchio Europarlamento (dov’è stato rieletto a maggio) venne accusato di aver intascato da Arron Banks, il finanziatore del movimento per la Brexit, l’equivalente di 490.000 euro fra viaggi, affitti, auto con autista, spese della moglie, conti in banca. Risorse non dichiarate. Farage parlò di «fatti privati», e per ora tutto è finito lì. In generale, nelle 3 istituzioni Ue, sembra percepirsi un clima di disagio, di fronte alla possibilità di denunciare qualche problema etico di cui si è venuti a conoscenza: «Solo un terzo dello staff – rileva la Corte – ritiene che siano protetti coloro che sollevano una questione etica». E «quasi il 70% ha una conoscenza limitata o scarsa su come fare rapporto». In conclusione: «la maggioranza dello staff ignora se le istituzioni di appartenenza gestiscano appropriatamente le questioni etiche». E fuori dalla Ue? Negli Usa, la Camera dei Rappresentanti ha un manuale etico di 352 pagine che prevede praticamente tutto: anche 23 tipi di doni «accettabili», fra cui «berretti da baseball del valore sui 10 dollari». I corsi di etica sono obbligatori per tutti ma vengono svolti on-line solo per un’ora all’anno. Sui doni, la regola centrale è: «i membri e lo staff non possono mai sollecitare o accettare un regalo legato a qualche azione (politico-legislativa, ndr) che abbiano intrapreso o che qualcuno possa chiedere loro di intraprendere».
Quanto costano gli europarlamentari? Inchiesta di Milena Gabanelli del 17 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. Questo sarà un anno impegnativo per i conti dell’Unione Europea. Prima la Brexit (se ci sarà), con l’esodo degli eurodeputati britannici, poi le elezioni europee: tutti in partenza, e tutti passeranno alla cassa a ritirare l’«indennità di fine mandato», ovvero una mensilità per ogni anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità. Lo stipendio mensile è di 8.757 euro lordi, escluse le indennità (come 320 euro al giorno per spese di vitto e alloggio per ogni giorno di effettiva permanenza a Bruxelles, Strasburgo o Lussemburgo). Ufficialmente l’indennità di fine mandato, sulla quale non è stato trattenuto un euro dalla busta paga, serve a garantire una «sicurezza finanziaria» fino al reinserimento in un altro lavoro. Un privilegio ingiustificato, secondo i critici, perché in genere un deputato ha potuto avere contatti sufficienti a trovare facilmente un nuovo impiego. E ancor di più un Commissario europeo: nel 2016 José Manuel Barroso, dopo essere stato per 10 anni presidente della Commissione, fu assunto da Goldman Sachs come presidente non esecutivo e advisor della sezione europea. Una petizione di protesta lanciata dai dipendenti Ue raccolse quasi 140 mila firme.
Indennità di fine mandato per tutti. Le indennità di fine mandato per i 27 membri della Commissione Europea figurano nel bilancio 2019 con 690.000 euro (Pag. 1269-1271 — Tit. 3o / Cap. 30 / 01 13). I loro stipendi lordi totalizzano 12.658.000 euro, circa tre milioni in più rispetto al 2017 (Pag. 1186 — Tit. 25 / Cap. 25 / 01 01 03). Secondo calcoli riferiti a un regolamento del Consiglio per le alte cariche Ue il presidente Jean-Claude Juncker riceve oggi circa 27.000 euro mensili lordi, a cui vanno aggiunte le indennità e tolto un «prelievo di solidarietà» del 7%, più un’imposta pro-Ue. «Guadagna il 138% in più rispetto al funzionario Ue di più alto grado mentre chiede agli Stati lacrime e sangue», protesta il deputato grillino Ignazio Corrao. «Io mi indigno: se vuoi indicare agli altri una vita sobria, devi farla anche tu…». Forse non sa che a fine mandato Juncker incasserà altri 324.000 euro, e probabilmente nuovi benefit. Secondo il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine i commissari europei discutono già i «servizi» da garantirsi dopo il congedo per «altri due anni»: un ex-presidente avrebbe diritto per tre anni ad «un ufficio, un’auto ufficiale, un autista a tempo pieno, un collaboratore». Gunther Oettinger, commissario al Bilancio, ha smentito, ma un documento riservato di cui il Corriere è in possesso, firmato proprio da Oettinger lo scorso 17 luglio, ammette: fra i commissari vi sono state «discussioni interne sullo status e su un supporto amministrativo per gli ex membri della Commissione, e per quelli designati o candidati». Nessuna decisione ufficiale, assicura Oettinger, ma «certamente il prossimo anno (cioè nel 2019, ndr), la Commissione si occuperà di questi argomenti». Per gli «addii» di maggio degli europarlamentari, invece, sono stanziati 20.690.000 euro (Pag. 19 — Tit. 1 / Cap. 10 / 1 0 2). Finora, che si sappia, un solo membro delle istituzioni Ue non ha beneficiato di questa possibilità: Antonio Tajani, presidente del Parlamento, nel passare dalla Commissione al nuovo incarico rinunciò all’indennità di fine mandato pari a 468.000 euro come «prova di sobrietà in un momento di grande difficoltà per gli europei».
I sovranisti usano i contributi per regalare champagne. Ci sono però anche soldi che tornano indietro. Per esempio, il Parlamento ha trattenuto 554.500 euro dai contributi dovuti per il 2018 al gruppo Enf, composto dal Rassemblement National di Marine Le Pen, dall’Afd tedesca, dalla Lega e da altri gruppi sovranisti. La Commissione di controllo dei bilanci la spiega così: alcuni fondi del 2016 e 2017 «non erano stati rendicontati secondo le regole». L’Enf ha smentito tutto, in particolare la Lega ha escluso ogni suo coinvolgimento. Ma un rapporto compilato dalla Commissione di controllo dopo un auditing esterno non ha mostrato molta comprensione: «pasti da 400 euro a persona non sono compatibili con una sana amministrazione finanziaria, quindi sono inaccettabili. Lo stesso per 110 regali natalizi da 100 euro ciascuno… Il gruppo Enf deve comunicare chi sono i beneficiari di 228 bottiglie di champagne, e di altre 6 bottiglie del valore di 81 euro». La Commissione conclude che «i gruppi politici non devono offrire ai propri membri doni pagati dai fondi europei».
Benefit anche ai licenziati per inattitudine. Per i benefit legati agli «addii», e per nuovi investimenti su occupazione, agricoltura e sicurezza, il bilancio Ue 2019 impegna 5,7 miliardi in più rispetto al 2018, un aumento del 3,2%, nonostante i tagli apportati in vari settori. Totale odierno, 165,8 miliardi di euro. Siamo 508 milioni di cittadini, e il bilancio è fatto da migliaia di pagine in cui si trova di tutto: buone regole, esempi di ottima amministrazione, ed altri più sconcertanti. Ad esempio, fra le «retribuzioni e indennità» destinate dalla Commissione Europea ai suoi funzionari, c’è anche la voce «indennità di licenziamento per il funzionario in prova licenziato a causa di manifesta inattitudine» (Pag. 91 — Tit. XX / Cap. XX/ 01 01 01). Il periodo di prova è di 9 mesi, l’indennità di licenziamento per «manifesta inattitudine» va da uno a tre mesi di stipendio base. Il Parlamento stanzia per quest’anno elettorale 50 milioni a favore dei partiti politici europei (Pag. 72 — Tit. 4 / Cap. 40 / 4 0 2) e 19,7 per le Fondazioni (Pag 72 — Tit. 4 / Cap. 40 / 4 0 3): «è necessario — raccomanda — garantire che l’utilizzo sia rigorosamente controllato». Ci sono 7.675.000 euro per le «strutture per l’infanzia» (Pag. 21 — Tit. 1/ 165 / 1654), gli asili riservati ai figli dei funzionari e deputati Ue: una voce che vuole garantire a mamme e papà più tempo per lavorare bene. Poi 240.000 per le «relazioni sociali fra i membri del personale» (Pag. 21 — Tit 1 / 163 /1632). Voci che comparivano, con cifre diverse, anche nei bilanci degli anni precedenti.
15 anni per costruire una nuova sede. La Commissione assegna invece 22.429.000 euro a conferenze e riunioni (Pag. 96 — Tit. XX / Cap. XX / 01 02 11 01) che comprendono anche i «costi per eventuali rinfreschi o colazioni, serviti in occasione di riunioni interne». Altri 27.010.000 euro (Pag. 56 — Tit. 3 / 30 / 300) per «missioni e spostamenti del personale fra i 3 luoghi di lavoro» (Bruxelles e Strasburgo, dove ci si riunisce 4 giorni al mese, e Lussemburgo). In Lussemburgo, dove gli uffici Ue sono 139, la Commissione deve costruire una seconda sede, la «Jmo II» per 3.600 suoi dipendenti. Ne aveva già una, evacuata per la scoperta di asbesto nelle sue strutture, «in livelli superiori al previsto». Si tratta di un torre di 23 piani e un palazzo di 7, con un budget previsto di 526,3 milioni. Un rapporto speciale della Corte europea dei conti, datato 5 dicembre 2018, ne racconta la genesi. In sintesi: decisione iniziale nel 2009, consegna prevista fra il 2016 e il 2019, oggi slittata al 2023-2024. Quindici anni di gestazione! E nel frattempo, la Commissione pagherà centinaia di milioni per affittare altri stabili. La Corte precisa che «la Commissione include nelle sue note alle autorità di bilancio un’analisi costi-benefici dei nuovi progetti. Non abbiamo trovato alcuna traccia di quest’analisi nei documenti per il progetto Jmo II».
· Si tagliano un po' di parlamentari, ma non si toccano i dipendenti di Camera e Senato.
Paolo Bracalini per ''il Giornale'' il 12 ottobre 2019. Si tagliano un po' di parlamentari ma non si toccano i dipendenti di Camera e Senato, il vero fortino di privilegi che il M5s però ha deciso di non inimicarsi. Eppure gli stipendi del personale pesano molto più di quelli dei 345 parlamentari eliminati. Parliamo di cifre astronomiche: 180 milioni di euro per gli emolumenti del personale solo della Camera, altri 99 milioni per i loro colleghi del Senato. Se si aggiunge la spesa per le pensioni degli ex dipendenti arriviamo a livelli da manovra finanziaria: 460milioni di euro alla Camera in un anno, pari a circa metà dell'intero bilancio del 2018. Altri 145milioni di euro per gli ex addetti del Senato andati in pensione. In tutto: 750 milioni di euro. Finora i dipendenti del Palazzo hanno sempre sfangato ogni tentativo di calmierare i loro stipendi, cresciuti del 50% negli ultimi 13 anni di crisi (ma non per loro). Nel 2014 una delibera dell'Ufficio di presidenza aveva stabilito dei tetti massimi per gli stipendi del personale. Tetti molto generosi: 172mila euro l'anno per gli stenografi, 99mila euro per i commessi, 166mila euro per i segretari, 240mila euro (il compenso del capo dello Stato) per i consiglieri parlamentari. Un affronto intollerabile per i dipendenti di Camera e Senato che hanno mitragliato una serie di ricorsi e alla fine sono riusciti a sventare il ritocco. Che infatti è stato giudicato valido soltanto tre anni. Dal 1 gennaio dell'anno scorso - nel silenzio dei grillini che volevano «aprire il Parlamento come una scatola di tonno» e invece il tonno hanno imparato ad apprezzarlo -, commessi, uscieri, barbieri, stenografi, tecnici, ragionieri, assistenti e consiglieri sono tornati a guadagnare come top manager di una multinazionale, con progressioni automatiche di retribuzione impressionanti per cui ogni dieci anni in sostanza raddoppiano lo stipendio. Basti guardare il documento pubblicato dal sito della Camera con il Quadro delle retribuzioni annue lorde dei dipendenti suddivise per anzianità e qualifica. Un documentarista appena assunto prende 40mila euro, dopo dieci anni di lavoro lo stipendio gli vola in modo automatico a 81mila euro, dopo altri dieci sale inesorabilmente fino a 155mila, se poi la salute regge e rimane alla Camera fino al 30esimo anno di anzianità si porta a casa 214mila euro, per arrivare a fine carriera a 240mila euro. Mentre il commesso dovrà accontentarsi di soli 140mila euro. E poi c'è il paradosso. Il giorno in cui si tagliano i parlamentari, le Camere sono pronte ad assumere altre 360 persone tra consiglieri, segretari, documentaristi, e assistenti. Bandi freschi freschi. E i Cinque Stelle che festeggiano con forbici giganti di cartone per i risparmi del taglio dei parlamentari, che dicono? Il presidente grillino Fico lo aveva fatto capire fin dal suo insediamento, gli stipendi dei dipendenti di Montecitorio sono «costi della democrazia», quindi da non toccare. L'unico intervento della presidenza ha riguardato le pensioni, con il blocco delle pensioni anticipate per i dipendenti della Camera a partire dal 2022 e poi un taglio di quelle in essere, sopra i 100mila euro, come per i normali pensionati italiani peraltro. Ma sul ricco piatto degli stipendi dei dipendenti non si è mossa più una foglia. Più facile tagliare i parlamentari che togliere qualche euro ai dipendenti, difesi da nove sigle sindacali. Anche Di Maio voleva abolire i barbieri della Camera ed ora ne è un assiduo cliente. Questo tonno è veramente di qualità, val la pena approfittarne.
· Sei milioni in avvocati. Puglia sotto inchiesta.
Sei milioni in avvocati. Puglia sotto inchiesta, scrive Emanuela Fontana, Domenica 17/02/2019, su Il Giornale. Le spese pazze della pubblica amministrazione finiscono qualche volta anche sui tavoli dei magistrati. È successo per uno dei capitoli di bilancio che il Giornale esamina oggi. I dati sono quelli registrati dal sistema Siope della Banca d'Italia e valutati dalla Fondazione Gazzetta Amministrativa (Gari). Si parla di parcelle agli avvocati. Ma non solo: spese postali e servizi di gestione documentale. Tutte le Regioni sono dotate di un'Avvocatura. Ma l'affidamento di pratiche legali all'esterno è molto frequente. Troppo, in alcune Regioni. In Puglia, per esempio, proprio dall'utilizzo eccessivo di civilisti e penalisti estranei all'amministrazione sono nate un'allerta della Corte dei Conti e un'inchiesta in corso della procura di Bari. E guardando i dati forniti da Gazzetta Amministrativa si può capire perché: la Regione guidata da Michele Emiliano ha totalizzato nel 2017 da sola la stessa spesa per «patrocinio legale» di tutte le altre Regioni messe insieme: 6 milioni 296mila euro, una media di 20mila euro al giorno investiti in avvocati, nonostante i dipendenti dell'Avvocatura che risultano in organigramma siano quarantuno. Non quattro.
Un flusso di denaro che il rating Gari definisce «fuori controllo». Se si sommano anche gli interventi legali per espropri, la regione guidata da Emiliano sfiora nel 2017 gli 11 milioni di spese legali. Si parla di quasi un milione al mese, 4.500 volte più della Lombardia. «Undici milioni di euro per pagare avvocati esterni quando si dispone dell'Avvocatura regionale - ha scritto la Corte dei Conti nella sua relazione del 2018, positiva, invece, sulla tenuta generale del bilancio è troppo. Nonostante le rassicurazioni fornite lo scorso anno, risultano emanate ulteriori leggi per il compenso professionale agli avvocati esterni». È stato il governatore Emiliano a presentare una denuncia da cui poi è partita l'inchiesta della procura di Bari. I quasi 23 milioni di spese legali sostenute dal 2006 scaturiscono da miriadi ricorsi presentati dagli agricoltori per il mancato versamento da parte della Regione delle indennità compensative previste da una legge regionale dell'82. Quello che sorprende è come mai in tanti anni non ci si sia mai accorti di niente. E i troppi nomi ricorrenti tra i consulenti legali.
A fine dicembre sono state iscritte nel registro degli indagati sette persone: cinque avvocati e i familiari di uno di loro. L'accusa: associazione per delinquere, truffa aggravata, falso materiale e ideologico e autoriciclaggio. Nel 2018, in realtà, la Puglia ha aggravato la mole di esborso. Le uscite hanno sfiorato i 5 milioni per il patrocinio legale e i 6 per «altre spese legali». Gli impegni in bilancio per la difesa nei procedimenti sono una voragine anche per i conti della Campania. Nel 2016 la Regione ha messo a disposizione un fondo per le vittime del web. Iniziativa lodevole che però non giustifica i quasi quattro milioni di «altre spese legali» del 2017, quasi raddoppiati nel 2018 a 7 milioni 947mila euro.
Un'altra Regione dove i pagamenti agli avvocati sono «eccessivi, preoccupanti», secondo il rating di Gazzetta Amministrativa, è l'Emilia Romagna. Le uscite, pari a 2 milioni 748mila nel 2017, sono diventate un caso politico. Il capogruppo della Lega in Regione, Alan Fabbri, ha depositato un'interrogazione lo scorso dicembre per sapere se ci sia «stato spreco di denaro pubblico». Si tratta di «milioni di euro spesi in consulenze legali affidate ad avvocati vicini al Pd», quando «la Regione paga già fior fiore di professionisti per l'ufficio legale interno»: tredici dipendenti, che hanno bisogno però di un aiuto esterno. Aiuto che, nonostante una contrazione, pesa ancora sul bilancio 2018 della Regione per circa 2 milioni. «La scelta dei legali della Regione Emilia Romagna», è stata la risposta della giunta Bonaccini, «si basa su criteri di esperienza e competenza, allo scopo di garantirsi al massimo l'ottenimento di esiti virtuosi». È comunque «in corso un programma di potenziamento dell'Avvocatura regionale». Sproporzioni enormi tra le Regioni si possono osservare nella gestione documentale. Per la Toscana è una spesa di appena 600 euro, l'Abruzzo investe 1.200 volte di più: 767mila euro.
Infine i conti postali. Nell'era del digitale l'invio di pacchi e lettere ricopre ancora un ruolo di rispetto nei bilanci. La Toscana dedica alle Poste quasi seicentomila euro, 1.900 al giorno. L'equivalente di 250-300 raccomandate quotidiane. Ma l'uscita più «preoccupante», per Gazzetta Amministrativa è stata quella della Lombardia, la più virtuosa per le spese legali: 5 milioni 747mila euro investiti in spedizioni. Come 857mila raccomandate. Spesa ridotta di quattordici volte nel 2018 e rientrata nella norma.
· Beppe Grillo è lapidario: "La Tav? È morta..."
Il capo 5s si arrende sulla Tav: "Fermarla ora costa il triplo". Il leader annuncia che l'opera si farà e dà la colpa al Pd Ira del Movimento per l'ennesimo voltafaccia dei capi. Domenico Di Sanzo, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. «Credi che non l'avevamo capito che il M5s e Di Maio la Tav vogliono farla?». A sfogarsi con Il Giornale è un consigliere comunale del Movimento a Torino. Indignazione, insomma, ma non troppa sorpresa per le parole pronunciate dal capo politico durante l'incontro di venerdì sera. Un confronto terminato con il «congelamento» delle dimissioni del sindaco Chiara Appendino -che scioglierà domani le riserve - e la decisione di far dimettere o revocare la delega al vicesindaco Guido Montanari. Queste le frasi di Di Maio, scandite davanti alla platea quando stava per scoccare la mezzanotte: «Non sto dicendo che abbiamo cambiato idea, ma fermare ora la Tav costa il triplo delle energie». Sfoderata l'immancabile giustificazione delle colpe dei governi precedenti: «Aver lasciato per cinque anni al governo il Pd ecco che cosa ha provocato. Quanto è stato difficile averli al governo con loro che remavano a favore dell'opera, adesso ci vuole il triplo delle energie per tornare indietro», ha concluso il vicepremier grillino. Ma alla «base» del M5s locale basta riavvolgere il nastro per individuare il momento esatto in cui «i vertici nazionali hanno deciso di dare il via libera alla Tav». Il punto di non ritorno è collocato cronologicamente al 24 giugno scorso, data in cui su Repubblica è uscita un'intervista alla sottosegretaria all'Economia Laura Castelli, esponente storica del Movimento torinese cresciuta sulle barricate del No alla Torino-Lione. In quel colloquio la Castelli, per la prima volta, aveva aperto alla realizzazione del treno ad Alta Velocità, seppure in una forma «leggera». Tra i consiglieri torinesi ribelli, che a differenza di quanto accade in Parlamento rappresentano la maggioranza del M5s, a commentare in chiaro, su Facebook, c'è Marina Pollicino: «No Tav e No all'autonomia differenziata - ha scritto - specie nei termini clandestini in cui si sta proponendo al Paese». Il vicepresidente del Consiglio Comunale Viviana Ferrero si è limitata a pubblicare una foto di una bandiera No Tav esposta su un palazzo. Francesca Frediani, capogruppo M5s in Consiglio regionale ha commentato: «Per carità, non mi aspettavo un lo fermeremo, ma almeno un impegno a dialogare con chi potrebbe suggerire soluzioni sì». La consigliera comunale M5s Daniela Albano con Il Giornale dice: «Se fermare il Tav è molto faticoso dovrebbero metterci più impegno per ottenere il risultato». Dalla Lega, con il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari è arrivata la richiesta di dimissioni: «Chiara Appendino è ormai un sindaco delegittimato», ha detto. Poi ha aggiunto: «Siamo di fronte a un primo cittadino ormai corpo estraneo rispetto alla città: tragga lei le sue conclusioni». Il metodo dei vertici governativi del Movimento, però, è rodato. Funziona così: prima affermare, con coerenza, quanto detto sempre nel corso degli anni, salvo poi ritrattare, addossando la colpa delle mancate promesse al Pd e ai governi precedenti. Basterebbe ricordare alcune dichiarazioni recenti dei big del M5s sulla Tav. Di Maio il 2 febbraio diceva: «Fino a quando il M5s sarà al governo la Tav non si farà». Il 31 ottobre 2018, da Torino, il vicepremier grillino spiegava: «La Tav è un'opera inutile, utilizziamo i soldi per costruire la linea 2 della metropolitana». Indimenticabile Danilo Toninelli, ministro delle Infrastrutture e Trasporti, che il 4 febbraio rifletteva: «Chi se ne frega di andare a Lione, lasciatemelo dire».
Beppe Grillo è lapidario: "La Tav? È morta..." Il comico e garante del Movimento 5 Stelle ha parlato della tratta ad alta velocità Torino-Lione durante il suo spettacolo Insomnia a Torino, scrive Pina Francone, Sabato 02/03/2019, su Il Giornale. "La Tav è morta. I grandi progetti sono altri". Il de profundis di Beppe Grillo sulla Tav. Il comico, co-fondatore e ora garante del Movimento 5 Stelle è tornato a parlare della tratta ad alta velocità Torino-Lione durante il suo spettacolo Insomnia a Torino, mandando un messaggio - forte e chiaro - ai "suoi", Luigi Di Maio e Danilo Toninelli in primis. "È ancora una stella che fa luce, ma è morta perché la mobilità sta cambiando. Qui a Torino avete inventato di tutto, anche l'alta velocità e non lo capite. Gli industriali, che dovrebbero dirci loro come ci muoveremo fra venti anni, continuano a voler fare buchi nella roccia, svegliatevi. I grandi progetti sono altri...", l'affondo del comico. Che ha poi calcato la mano, così come riportato da TgCom24: "Andate in Svizzera, in Spagna, a Dubai e vedere. Qui si parla solo di spostare merci, ma di che merci parliamo, girano ormai solo più container vuoti [...] La Svizzera ha fatto il Gottardo e poi ha comprato mille bus all'idrogeno. Le cose bisogna volerle vedere, e voi non le volete vedere, voi che siete una città di geni. Bisogna che ci mettiamo tutti insieme, artisti, ingegneri, architetti, cittadini e decidiamo quali sono i progetti veri di cui abbiamo bisogno".
Beppe Grillo contestato dai No-vax. Nella serata di ieri (venerdì 2 marzo, ndr) ci sono stati momenti di tensione fra alcuni grillini e i No-vax, che hanno esposto cartelli come "Grillo e Burioni firmano il patto dei cialtroni", all'esterno del teatro Colosseo di Torino, dove Beppe Grillo era impegnato con il suo spettacolo. "Menzomnia. Grillo non ricorda e firma il patto della vergogna", un altro striscione esposto da alcuni genitori no-vax all'esterno del teatro. "Contestiamo che quello che diceva soltanto pochi anni fa, quindi tutto il discorso sulle multinazionali, le case farmaceutiche, i vaccini, oggi chiaramente viene totalmente disatteso e siamo qua per ricordare che chi dice le bugie si trasforma in un Pinocchio", dice uno di loro a favor di telecamera.
Da tgcom24 del 7 marzo 2019. È ridicolo lei, non la mia analisi”. Con queste parole Marco Ponti, autore dello studio costi-benefici sulla TAV, si rivolge a Paolo Liguori, direttore di Tgcom24, durante il fuorionda di una puntata di “Fatti e Misfatti”. Il giornalista replica: “Professore, la sua analisi è stata fatta a pezzi. Le hanno dato torto tutti i ministri e tutto il governo”, ma Ponti non ci sta e attacca: “Lei non capisce niente. Vada a farsi fottere. Lei non capisce un cazzo di analisi costi-benefici e ne vuole parlare”. Ma se Liguori prova a tenere lo scontro su un livello verbale civile, per quanto acceso: “Professore non se la prenda”, Ponti è ormai indispettito e insulta il giornalista: “Lei è uno stronzo”.
Ponti, il prof No Tav che al Mit chiamavano «pericoloso comunista liberista», scrive venerdì, 08 marzo 2019, Il Corriere.it. Marco Ponti è un professore 78 enne (in congedo) di economia dei Trasporti, esponente della buona borghesia milanese, che si appunta sul petto critiche, attacchi e querele come medaglie d’onore. Un collaboratore del ministro alle infrastrutture Pietro Lunardi lo chiamava «pericoloso comunista liberista». «E ne vado fiero» ribadisce Ponti. L’Anas lo ha citato per danni per due milioni di euro. «E poi dicono che sono a favore delle autostrade». Negli anni novanta ai tempi di Lorenzo Necci alla guida di Ferrovie dello Stato, il prof No Tav è consulente delle Fs. Ma viene confinato in un ufficio a Porta Garibaldi perché le sue punzecchiature - «la Tav così com’è concepita è uno spreco di risorse» - non sono gradite ai vertici dell’azienda. Marco Ponti è salito prepotentemente alla ribalta delle cronache circa sei mesi fa. Quando Danilo Toninelli ministro ai Trasporti del governo giallo verde gli affida il compito di valutare i costi e benefici di circa 27 miliardi di grande opere in Italia. Tra cui la linea Torino Lione. Ma il prof è il «bastian contrario» dei trasporti da più di mezzo secolo. «Sono l’unico ad aver detto che una grande opera non conviene farla» ha detto riferendosi alla Tav. Ponti si occupa di trasporti sin dagli anni settanta. Il suo personale sessantotto è a bordo dell’Alfa Sud per cui commissiona una studio per un investimento industriale nel sud Italia. Collabora poi con Italsider, nel Sulcis e con Iveco. Nel 1974 vince una Borsa di studio Fullbright per specializzarsi nelle università americane. Inizia da lì l’analisi costi e benefici. Dalla cultura anglosassone. In quegli anni entra nell’orbita della Banca Mondiale. Fa consulenza di economia dei trasporti in Camerun, Libia, Tunisia, Somalia, Siria, e anche in Indonesia. Di quegli anni ricorda: «Se avessi dato il via libera a opere così diseconomiche come la Tav Torino Lione avrei perso il lavoro in un secondo». Cura gli studi di fattibilità per nuove strade tra Mozambico e Zimbabwe, il trasporto pubblico di Alessandria d’Egitto. E sempre per conto della Banca Mondiale opera in Sud America e in Asia.
Tav, la società di Ponti firma lo studio dell'Unione Europea che promuove l'alta velocità. L'analisi riservata della Commissione europea sottolinea i benefici: risparmi di tempo notevoli per trasporto passeggeri e merci e una forte ricaduta occupazionale. Fonti del Mit minimizzano, scrive l'8 marzo 2019 La Repubblica. Risparmi di tempo notevoli per trasporto passeggeri e merci e una forte ricaduta occupazionale. Sono i vantaggi del corridoio Mediterraneo di cui fa parte la Torino-Lione, secondo uno studio riservato della Commissione europea ("The impact of TEN-T completion on growth, jobs and the environment") redatto da numerosi ricercatori di varie nazionalità tra cui la 'Trt trasporti e territorio', la società milanese di cui Marco Ponti è presidente, ossia quella che ha redatto l'analisi costi-benefici per conto del ministero dei Trasporti e su cu si è basato il giudizio negativo del ministro Danilo Toninelli. Lo studio è stato rivelato da La7 in un servizio di Frediano Finucci.
Il documento: tutti i benefici dell'alta velocità. Il documento, di 118 pagine, si basa su dati aggiornati agli ultimi scenari macroeconomici e di trasporto. Con il 'corridoio Mediterraneo', che va da Gibilterra a Budapest, lo studio valuta che al 2030 si possa ottenere un risparmio di tempo del 30% per i passeggeri e del 44% per le merci. Nei prossimi dieci anni, per ogni miliardo investito nel cantiere l'analisi stima la creazione di 15mila posti di lavoro, senza contare l'indotto sul territorio. Infine, la ricerca mostra come fra tutti i 'corridoi' quello Mediterraneo, di cui fa parte la Tav, è quello che creerà più posti di lavoro: 153mila al 2030 fra trasporti, turismo e sviluppo di aziende per nuovi mercati nei Paesi interessati (Francia, Italia, Spagna e Portogallo) escludendo chi ha lavorato o chi lavorerà direttamente per la Tav. Nelle premesse sono innanzitutto spiegati gli obiettivi dello studio, ovvero "valutare la crescita, l'occupazione e l'impatto delle emissioni di gas serra sull'attuazione della rete centrale TEN-T". E questo riflette i tre obiettivi principali del processo decisionale europeo: "Promuovere la crescita, creare posti di lavoro e mitigare gli effetti del cambiamento climatico. La politica dei trasporti contribuisce a raggiungere questi obiettivi - si legge - e uno dei principali pilastri delle politiche europee è proprio l'implementazione della rete transeuropea di trasporto (TEN-T), con una rete principale da completare entro il 2030 e un livello di rete ulteriore entro il 2050". Viene quindi spiegato che la piena implementazione della rete centrale creerà 800.000 posti di lavoro nel 2030 e 7,5 milioni tra il 2017 e il 2030, grazie alla costruzione della rete agli "ampi benefici economici" portati dal miglioramento dei collegamenti. Inoltre, un ulteriore aumento dell'1,6% del Pil sarà realizzato nel 2030, rispetto a uno scenario in cui si decide di non investire nel progetto. In più, 26 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica saranno "risparmiate" tra il 2017 e 2030 nel settore dei trasporti.
Fonti Mit: "Per la società di Ponti ruolo marginale". Lo studio riservato sul Corridoio Mediterraneo, commissionato dalla Ue e rivelato da La7 "ha visto una partecipazione solo marginale della società 'Trt trasporti e territorio', presieduta dal professor Marco Ponti. Quest'ultimo, peraltro, non solo non ha firmato la ricerca, ma non ne conosce in alcun modo i contenuti". Lo si apprende da fonti del Mit. Le stesse fonti aggiungono: "Va precisato che si tratta di una analisi riconducibile a quelle di valore aggiunto, fondata sul moltiplicatore keynesiano, metodo che non ha nulla a che fare con la analisi costi benefici effettuata sulla tratta Torino-Lione".
Salini (Fi/Ppe): "Due padroni due risultati diversi?" “Lo studio voluto dall’Europa contraddice l’analisi costi e benefici sulla TAV della commissione Ponti. Ma la società dello stesso Ponti firma anche l’analisi positiva dell’Europa. Insomma: due padroni, due risultati diversi, ma dove siamo? Su Marte?”. Commenta così l’europarlamentare di Forza Italia/PPE appartenente alla Commissione Trasporti del Parlamento Europeo. “Se non ci fossero di mezzo miliardi di euro e la credibilità italiana ci sarebbe da ridere leggendo quanto emerge dallo studio condotto dalla società TRT, il cui Presidente è il prof Marco Ponti, riguardo le linee TEN-T, le opere ferroviarie di collegamento alla TAV. Marco Ponti è a capo della commissione analisi costi e benefici voluta dal Governo, che ha prodotto risultati del tutto negativi, ma allo stesso tempo, la sua società TRT in un studio per la Commissione Europea insieme ad altri autorevoli istituti anche internazionali ritiene la TAV sostenibile e valida dal punto di vista economico, dello sviluppo, del lavoro e dell’ambiente. Dunque: a quale dei due Ponti dobbiamo credere? Basta con le pantomime e i giochetti, la scelta ora è tutta politica. Bisogna fare partire il progetto per non perdere subito i centinaia di milioni di fondi già stanziati e non cadere nel ridicolo. Basta giocare con i numeri e con analisi che, a seconda dei committenti, riportano risultati diametralmente opposti”.
Paolo Colonnello per “la Stampa” l'8 marzo 2019. C' è un documento della commissione Trasporti del parlamento europeo sull' impatto che potrebbe avere la Tav sui destini dell'Unione, che non lascia spazio a dubbi: il Trans European Transport Network, ovvero il sistema ferroviario che collegherà l'Italia al resto d' Europa, potrà avere risultati economici, ambientali e occupazionali senza precedenti. In particolare, il cosiddetto «corridoio mediterraneo» della Tav sarà in grado di generare i maggiori effetti occupazionali tra tutti i grandi progetti infrastrutturali europei in itinere. La cosa singolare è che lo studio, un' analisi di costi e benefici svolto per l' Europarlamento che possiamo rivelare in anteprima, e che verrà presentato nei prossimi giorni a Bruxelles, è stato firmato, tra gli altri (un team di tedeschi e uno guidato dall' ex rettore della Bocconi, Carlo Secchi) anche da una società milanese, la Trt Trasporti e Territorio srl, società di consulenza specializzata in economia, pianificazione e modellistica dei trasporti, presieduta nientemeno che da Marco Ponti. Proprio lui, il consulente del governo che ha firmato il documento costi e benefici per il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, con il quale la Tav è stata irrimediabilmente bocciata. E che invece, nelle vesti di consulente europeo, con la società che presiede firma quasi contemporaneamente un altro documento in cui sostiene l'esatto opposto. È vero che, molto saggiamente, il suo nome non compare direttamente in calce allo studio, mentre compaiono tutti gli altri membri della sua azienda, compresa Silvia Maffii che risulta essere amministratore delegato della società fondata dallo stesso Ponti nel 1992. Ma si tratta evidentemente di un estremo pudore, a meno che tra ieri e oggi Ponti non si sia dimesso dalla presidenza della sua stessa azienda. «Lo studio di cui siete venuti in possesso, effettivamente è stato consegnato almeno due mesi fa alla commissione Trasporti e se ne parla da tempo», spiega Massimiliano Salini, eurodeputato di Forza Italia, membro della stessa commissione. «Il fatto che sia firmato dalla società di Ponti suscita sconcerto visto quello che ha sostenuto in Italia. Ciò nonostante conferma anche che l'opera della Tav è necessaria se non vogliamo essere tagliati fuori dallo sviluppo e dall' Europa. E questo dimostra ciò che vado dicendo da anni: il collegamento della tratta Mediterranea è un vero punto di forza. Non a caso ho fatto inserire tra le tratte strategiche anche la Genova-Spezia che otterrà enormi benefici per Piemonte e Liguria». Lo studio, composto da circa centoventi pagine, è molto dettagliato e proietta gli effetti dell'opera fino al 2030, analizzando l'eventuale realizzazione dei vari "corridoi" europei del trasporto su rotaia, che comprendono anche la Tav. In particolare, «esiste un gruppo di "corridoi" che mostra un impatto maggiore in termini di cambiamento nell' attività del trasporto ferroviario per passeggeri e merci; questo gruppo comprende il Mediterraneo, lo Scan Med e l'Atlantico. Questi tre corridoi mostrano un aumento delle attività di trasporto ferroviario superiore al 2 per cento per le merci (3,1% Atlantico, 2,9% il Mediterraneo) e superiore al 3% per i passeggeri (con punte del 5,7 e 4,7 rispettivamente nei corridoi Mediterraneo e Scan Med)». Di più: «Si stima che il pieno sviluppo della rete principale, entro il 2030, genererà 800mila nuovi posti di lavoro in Europa». Mentre, «il miglioramento della connettività europea fornirà benefici economici a 7 milioni e mezzo di persone all' anno da qui al 2030». Così come «il Pil europeo dovrebbe avere un incremento dell'1,6% sempre al 2030». E infine, «verranno evitati 26 milioni di tonnellate di emissioni di ossido di carbonio nell' aria nell'ambito del settore dei trasporti». Ricapitolando: se per la società di Ponti tutto ciò in Europa è un vero affare, per il consulente del governo Ponti in Italia la Tav non conviene. A questo punto forse a Ponti converrebbe rileggere con attenzione lo studio che l'azienda che presiede ha firmato.
Tav, la società di Ponti firma lo studio segreto Ue che la promuove. Il professore: «Non analizza i costi», scrive venerdì, 08 marzo 2019, Il Corriere.it. Non è questione di traffico o lavoro, ma di costi. Ed è sui costi che Marco Ponti ha bocciato la Tav, perché a livello di posti di lavoro, indotto e velocità dei treni lo stesso Ponti la Tav l’aveva promossa a pieni voti. Da una parte c’è il Marco Ponti “italiano” che redige un documento di 78 pagine in cui parla di perdite per 7 miliardi dovute alla Torino-Lione e che boccia la Tav(l’analisi che lo stesso premier Conte ha definito attendibile). Dall’altra c’è il Marco Ponti “europeo” che con la sua società, la Trt, collabora alla stesura di un altro documento, stavolta di 116 pagine, che invece promuove l’opera in termini di posti di lavoro, tempi di percorrenza e benefici per il territorio a livello economico. Questione di temi appunto: o costi o impatto. È qui il punto. Ed è il diretto interessato a spiegarlo: «Quella non è una analisi costi benefici, ma sull’impatto, che si basa su analisi di valore aggiunto, che nulla hanno a che fare con la analisi costi-benefici. Non ci sono i costi in quella analisi lì. Non misura i costi, ma il traffico, l’occupazione e l’impatto sulle imprese, la analisi di impatto si occupa di ipotesi di valore aggiunto», risponde il presidente della Commissione ad hoc a Mattino 5 commentando proprio lo studio riservato della Ue che, come riferito dal Tg di La7, sarebbe stato redatto da numerosi ricercatori di varie nazioni tra cui la sua società. Stando a quanto riportato dal tg di Mentana lo studio a cui fa riferimento Ponti è stato avviato due anni fa ed è stato condotto da circa trenta esperti del settore: il tema dell’analisi è l’impatto socioeconomico e ambientale delle reti transeuropee, di cui fa parte anche la Tav. Tra le firme di questo articolato documento di 116 pagine c’è anche quella della Trt Trasporti e territorio Srl di Milano. Andando nello specifico, si nota che lo studio rivela come la Torino-Lione sia una risposta positiva alla barriera più importante dell’Europa, le Alpi. Si parla di un risparmio di tempo per i passeggeri del 30 % e per le merci del 40%. Non solo, i benefici sarebbero evidenti anche in termini di occupazione: per ogni miliardo speso nel cantiere si creerebbero direttamente 15mila posti di lavoro senza contare l’indotto sul territorio. Lo studio dimostra che il corridoio mediterraneo, tra tutti quelli europei, sarà quello che nei prossimi anni creerà più posti di lavoro, 153mila. Ponti spiega, distingue e si difende: «Ho fatto analisi per Ocse, Commissione europea, banca mondiale, credo di non essere uno schiavo di Toninelli. Abbiamo ottenuto un grande risultato: per la prima volta si parla di numeri, così finalmente l’Italia diventa un Paese civile perché si discute, e si critica, di numeri». «Lo studio riservato sul Corridoio Mediterraneo, commissionato dalla Ue e rivelato da La7, ha visto una partecipazione solo marginale della società “Trt trasporti e territorio”, presieduta dal professor Marco Ponti», precisa il Mit, sottolineando che il professore «non solo non ha firmato la ricerca, ma non ne conosce in alcun modo i contenuti». Inoltre, aggiungono le stesse fonti, «va precisato che si tratta di una analisi riconducibile a quelle di valore aggiunto, fondata sul moltiplicatore keynesiano, metodo che non ha nulla a che fare con la analisi costi benefici effettuata sulla tratta Torino-Lione».
Supplementi, "attualizzazioni" e ricalcoli. Tutte le bufale dello studio di Toninelli. Nell'ultima bozza il saldo negativo si riduce. Ma i dubbi degli esperti restano, scrive Gian Maria De Francesco, Sabato 02/03/2019, su Il Giornale. La bozza del supplemento dell'analisi costi-benefici (Acb) della nuova linea Torino-Lione è stata consegnata ieri alla Struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture. Secondo quanto emerso, il gruppo di lavoro guidato dal professor Marco Ponti avrebbe abbassato di molto il costo dell'opera, attualizzato a 60 anni e calcolato al netto del valore residuo. Come specificato dal ministro Toninelli, il nuovo esame «riguarda solo la parte italiana del tunnel di base e la tratta nazionale ed è stato prodotto su uno specifico input giunto dal ministero e solamente per lo scrupolo di voler dare un ulteriore riscontro al dibattito». Nell'Acb pubblicata lo scorso 12 febbraio il valore attuale netto economico era negativo per 7,6 miliardi di euro. Calcolando solo la parte a carico dell'Italia (detratti cioè fondi Ue e parte francese) la perdita si sarebbe ridotta a 2/2,5 miliardi di euro. Fatta salva la professionalità di coloro che hanno firmato la relazione, questo fa sorgere qualche dubbio sulla modalità di stesura dell'analisi. È stato specificato, infatti, come inizialmente sia stato inserito, a livello dei costi, l'intero ammontare di risorse necessarie al completamento dell'opera. È palese, dunque, che il risultato definitivo sia stato così «deformato» per evidenziarne la straordinaria onerosità. Allo stesso modo, la scelta nell'ultima formulazione di uno scenario a sessant'anni anziché quarantennale (la prima Acb ha come orizzonte il 2059) ha anch'essa contribuito a mitigare la perdita, ove mai di perdita si possa parlare tenendo conto anche di altri fattori. Anche su questo parametro sarebbe possibile obiettare in quanto una grande infrastruttura come la Torino-Lione ha un ciclo di vita ben superiore ai 60 anni. L'ordine di grandezza è il secolo. Non sono stati forniti ulteriori dettagli sull'aggiornamento dell'analisi. Restano quindi valide le obiezioni formulate dal professor Andrea Giuricin dell'Università Milano Bicocca sul Giornale a proposito di quella già pubblicata. In primo luogo, gli autori hanno proposto un valore del tempo delle merci pari a 50 centesimi di euro per tonnellata all'ora, che sembrerebbe essere oltre un quarto rispetto alla pratica comune» e più in generale «il documento non riporta analisi di traffico e di valore del tempo risparmiati specifiche del progetto». L'assenza (o il minore rilievo) dato a questi calcoli fa aumentare in misura rilevante l'incidenza della mancata riscossione di accise e pedaggi da parte dello Stato italiano a causa dello shift al trasporto su ferro da quello su gomma. Di qui la mancanza di riferimenti al parametro di costo treno/chilometro. Restano, infine, i dubbi già esternati da Giuricin in quella sede. In prima istanza, occorreva registrare in qualche misura l'impatto economico della Tav sulla catena del valore. Nel lungo periodo, i benefici derivanti da un collegamento più veloce non solo si riflettono sulla produttività, ma consentono anche di ridurre l'impatto dei cambiamenti tecnologici. Alla fine, però, ciò che conta realmente è la volontà politica di realizzare l'opera e di tener fede a un impegno preso dinanzi a investitori internazionali.
Costi Tav, cosa non torna nei numeri su investimenti, traffico e ambiente. I dati degli esperti sotto esame. Le forchette delle previsioni di costo si allargano e si restringono a piacimento, scrivono Andrea Rinaldi e Marco Imarisio il 12 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera. Le forchette delle previsioni di costo si allargano e si restringono a piacimento. Alla famosa analisi costi-benefici, dopo sei mesi di incubazione, serve ancora qualche intervento di manutenzione. Nel pomeriggio persino il ministero delle Infrastrutture deve produrre in una nota ufficiale in cui denuncia un «errore materiale macroscopico» sull’ammontare delle penali da pagare in caso di rinuncia alla Tav. Un’opera in divenire, insomma. Ma intanto eccola, finalmente. Settantotto pagine, con appendice e bibliografia, firmate dal professor Marco Ponti e da quattro suoi collaboratori. Gli autori sottolineano di avere usato per il loro studio i dati ufficiali dei «nemici» dell’Osservatorio sulla Tav. Ma si tratta dei quaderni del 2011, quando invece erano disponibili quelli del 2018, più aggiornati.
I costi. I finanziamenti dell’Unione europea per la Tav, questi sconosciuti. Sono il quaranta per cento degli 8.6 miliardi di costo totale del tunnel di base. Ma non figurano da nessuna parte. Inoltre si legge che la spesa totale per l’Italia è pari a 7.6 miliardi, quando invece la spesa massima prevista è di 4.6 miliardi, come previsto dal trattato internazionale. Non si è considerata la quota di finanziamento europea, ma è stata inserita nel costo totale dell’opera anche la rivalutazione dell’inflazione al 2050, invece che farlo su base annuale. Se l’Europa, come annunciato, dovesse aumentare il suo finanziamento al 50%, l’Italia già disporrebbe dei fondi per finire la Tav.
Fermare l’opera. Stando ai due documenti ufficiali, l’analisi costi benefici e l’analisi economico-giuridica, entrambi pubblicati ieri sul sito del Ministero, Italia dovrebbe sborsare circa 2 miliardi per pagare le penali alle imprese, alla Francia e all’Ue e 1,8 miliardi per mettere in sicurezza le gallerie già realizzate e la linea storica. Tenendo conto che completare il tunnel costa all’Italia circa 3 miliardi, fermare i lavori comporterà al Paese una spesa maggiore. Inoltre i 2,5 miliardi di euro disponibili per l’opera, stanziati già nella finanziaria 2012, sono vincolati. Non potranno essere spostati su altri progetti. Non solo. Per rescindere il trattato internazionale che regola la Tav, oltre che un voto parlamentare servirà anche la copertura economica, che sulla base delle analisi del gruppo-Ponti e di quella giuridica, supera i 3.8 miliardi. Per chiudere, quindi, servirebbe un ulteriore esborso di 1.3 miliardi. Mentre per finire, invece, servirebbero «solo» altri 500 milioni oltre a quelli già accantonati.
Trafori. La tesi che traspare è che la rete autostradale possa solo migliorare. Eppure, nominando tutte le direttrici delle Alpi, l’analisi costi-benefici esclude quasi del tutto il traffico su gomma di passaggio da Ventimiglia, come se fosse separato dal resto dell’arco alpino italo-francese. In realtà secondo gli studi settore, la cittadina ligure ha un peso non indifferente, per l’economicità della tratta. A Ventimiglia infatti si paga solo il pedaggio autostradale, al Frejus e al Monte Bianco anche il tunnel. Tutto il traffico «peggiore» proveniente dall’Est Europa, fatto di Euro zero e 1, sceglie infatti Ventimiglia per evitare un ulteriore balzello e i controlli. Non bastasse, per i professori del Ministero il traffico dei Tir verso la Francia risulta in calo, mentre in realtà è più alto del 14% di quello ai confini svizzeri.
Congestione. Se si spostassero i Tir dalla strada alla ferrovia si ridurrebbe anche il traffico. Ma l’analisi costi-benefici stima una riduzione massima possibile solo fino al 37%. L’Unione europea e anche lo stesso ministero alle Infrastrutture invece si pongono, o si ponevano nel caso del Mit, come obiettivo una cifra molto diversa. L’Ue fissa il calo della congestione al 30% nel 2030 e al 50% nel 2050.
Il tunnel storico. L’analisi costi-benefici dimentica il tunnel storico del Frejus, che risale al 1871. Ormai, dicono molti esperti, ha finito il suo ciclo di vita, venendo utilizzato al massimo da 30 treni al giorno, che comunque rendono già satura la linea, almeno per gli attuali vincoli di sicurezza. Il traffico su rotaia oggi è limitato a causa delle condizioni del tunnel. Metterlo in sicurezza aggiungerebbe un ulteriore costo di 1.5 miliardi.
Sostenibilità. Derivano da un salto nel futuro, secondo l’analisi costi-benefici. Anche senza la Tav avremo meno incidenti e meno morti sulle strade «grazie a sistemi di sanzionamento, controllo e assistenza automatica alla guida». Ma è una affermazione non supportata da alcun studio scientifico. Inoltre l’accenno alle polveri sottili Pm10 generati dal traffico su auto è minimo, come quello riferito all’inquinamento autostradale. Numerosi studi dell’Ue hanno ribadito la necessità di trasferire il traffico su linee ferroviarie soprattutto nell’arco Alpino, tanto che la Convenzione delle Alpi, sottoscritta dall’Italia, ci impegna su quel fronte. Vengono prefigurati due scenari di evoluzione del traffico su gomma, che determinerebbero nei prossimi anni una ulteriore crescita del numero dei veicoli pesanti. Da 589mila del 2016 a 892.000 nel 2030. La conseguenza dovrebbe essere un ulteriore aumento dell’inquinamento. Ma l’analisi costi-benefici invece lo azzera, confidando nell’evoluzione tecnologica dei settore automobilistico. Speriamo che abbia ragione.
Tav: finanziamenti e penali, i conti che non tornano nell'analisi costi-benefici. Fa discutere lo studio della commissione che ha espresso parere negativo sull'opera: secondo i tecnici i costi supererebbero gli introiti di 7-8 miliardi di euro. Mentre le spese per il ripristino (4,2 miliardi) sono state corrette dal ministero, scrive Paolo Griseri il 13 febbraio 2019 su La Repubblica. Nelle 79 pagine dello studio della commissione, spese molto alte e benefici quasi nulli per la scarso peso dato agli effetti del trasferimento delle merci dai tir ai treni. Ecco i nodi più controversi di uno studio che fa discutere in Italia e in Europa. Domani, giovedì, vertice a Bruxelles.
Le spese: troppa confusione tra soldi italiani, francesi ed europei. Secondo il gruppo Ponti i costi della Tav superano i benefici di una cifra compresa tra i 7 e gli 8 miliardi di euro a seconda dei diversi scenari. In realtà il calcolo si basa sui costi per la costruzione della tratta internazionale che superano i 9 miliardi di euro (9,6 per la precisione). A questi andrebbe aggiunto il miliardo e settecento milioni dei costi della tratta italiana. Ma sono entità non paragonabili. Perché i 9,6 miliardi sono a carico di Italia, Francia e Unione Europea. E il calcolo deriva da un'ipotesi di adeguamento all'inflazione non realistica. Gli 8,6 miliardi di costi previsti nel 2012 sono oggi 8,7 miliardi e non 9,6. Una differenza di un miliardo che da sola farebbe scendere da 7 a 6 miliardi lo sbilanciamento a favore dei costi. Inoltre la parte italiana dei costi sarà di 2,87 miliardi e non di tutti e 6. Alla fine dei conti l'Italia dovrebbe spendere 2,87 più 1,7 miliardi: in tutto 4,6 miliardi di euro.
Le penalizzazioni: prima ammissione e il ministero corregge gli esperti. Per la prima volta i tecnici No Tav riconoscono che un blocco dell'opera comporterà delle penali. Il gruppo Ponti ammette che "i molteplici profili non consentono di determinare in maniera netta i costi" in caso di stop. Ma se si sommano tutte le voci di penali e costi di ripristino si arriva ad un massimo di 4,2 miliardi di euro. Una cifra simile ai 4,6 miliardi che costerebbe all'Italia finire il tunnel di base e realizzare la tratta nazionale. In serata il ministero si è reso conto del rischio che con questi calcoli, per quanto fatti da tecnici contrari all'opera, fosse comunque più conveniente terminarla. Così gli uomini di Toninelli hanno fatto sapere che "c'è un errore marchiano nella determinazione delle penali" che non andrebbero calcolate sull'intera opera ma sui contratti già in essere. Anche così però la realtà non cambia molto: le penali e i costi di ripristino per l'Italia sarebbero in tutto di 3,8 miliardi. Circa 2 di penali e 1,8 per raddoppiare l'attuale galleria del Frejus.
Le tasse e i pedaggi: i minori introiti per Stato e gestori che l'Ue contesta. Secondo l'analisi di Ponti le minori entrate delle accise sui carburanti e i minori incassi per le società autostradali ammonterebbero in tutto a 4,6 miliardi: 1,6 per le accise e 3 miliardi di riduzione degli introiti per i signori delle autostrade. Anche qui si tratta di un calcolo che riguarda i due versanti, quello francese e quello italiano. Dunque non solo quanto perderebbe in termini di tasse sui carburanti e pedaggi autostradali il sistema economico italiano ma anche quello francese. In ogni caso i 4,6 miliardi di euro di accise e pedaggi non vengono accettati né dalla Francia né dall'Europa che li considerano elementi di cui non tenere conto nell'analisi finale costi-benefici. Il calcolo di accise e pedaggi contenuto nell'analisi presentata da Francia e Italia all'Ue nel 2011 era un semplice elemento di scenario e non concorreva in alcun modo alla determinazione di costi e benefici dell'intera opera.
La sicurezza: la gaffe sul Frejus, investimenti solo con centinaia di morti. Nelle 79 pagine dell'analisi ci sono alcuni passaggi curiosi. Come quello che riguarda le condizioni alle quali sarebbe indispensabile rendere sicura l'attuale linea realizzando la seconda canna della vecchia galleria costruita da Cavour al Frejus. Il costo di quel raddoppio sarebbe di 1,5 miliardi: "Il costo sociale per ogni decesso evitato - si legge a pagina 28 - viene stimato dalla Ue in 1,87 milioni. Un investimento di 1,5 miliardi risulterebbe dunque giustificato solo qualora in termini probabilistici il numero di vittime di potenziali incidenti sulla linea fosse pari a molte centinaia di unità". Fino a poche decine di morti, pare di capire, non è necessario mettere la vecchia linea in sicurezza. Un altro passaggio curioso è quello in cui si calcolano le riduzioni dei tempi di percorrenza tra Milano e Lione in automobile. Pochi minuti. Perché la galleria è ferroviaria. La riduzione dei tempi per i treni sarà di due ore.
Quei sei strafalcioni nell'analisi costi-benefici dei professori No Tav. Chi ha firmato lo studio non ha le nozioni basilari di economia: Pil e tassi, quanti errori, scrive Francesco Forte, Venerdì 15/02/2019 su Il Giornale. Dalla analisi costi benefici sulla Tav condotta dal professor Ponti e di tre dei suoi collaboratori risulta che i quattro non hanno nozioni elementari dell'economia.
L'errore consiste nel confondere il prodotto interno lordo Pil, che si calcola al lordo delle imposte indirette, e il prodotto interno netto Pin (da non confondersi con i Personal identification number, ovvero Pin di strumenti elettronici). Le imposte indirette sui carburanti che fanno parte del Pil, non sono invece parte del Pin, che si calcola al costo dei fattori, prima delle imposte dirette e dei contributi sociali. Da un lato Ponti e i suoi hanno messo le imposte indirette nei costi della Tav, mentre non fanno parte del Prodotto netto della nazione.
A ciò hanno aggiunto un secondo errore, perché hanno calcolato il costo del lavoro al netto delle imposte dirette, mentre esso entra nel prodotto nazionale, lordo di imposte dirette e contributi sociali. Con il primo errore hanno sopravalutato i costi della Tav, con il secondo hanno sottovalutato il costo del trasporto via Tir.
Ed ecco il terzo errore. L'analisi benefici non è una mera «tecnica», perché include giudizi di valore etico-politico sulla giustizia fra generazioni. Il tasso di sconto al presente dei benefici dei cittadini futuri include un giudizio etico-politico diverso in una società di risparmiatori, come quella dei nostri nonni, o di spendaccioni. L'Italia ha un debito del 130% del Pil che grava sul futuro. Mi sembra che il tasso di sconto temporale non possa essere il 2,5% europeo normale, ma solo l'1% al più, che riguarda la produttività di un impiego di risorse in usi alternative.
Un altro costo sociale in cui contano i giudizi etici riguarda «beni intangibili» come la vita umana, le invalidità dovute a incidenti stradali e inquinamenti: qui non bastano i calcoli delle assicurazioni.
Un quinto errore di questa analisi è, invece, d'ordine tecnico. Il costo per l'Italia della Torino-Lione, prima di iniziarla, riguarda il tratto italiano per il 60% perché il 40% è a carico dell'Europa. Il traforo costa 3 miliardi, le sue opere di adduzione 1,5; le successive altri 2,5. In totale 7 miliardi, ossia per l'Italia 4,2 circa. Ma l'opera è già iniziata L'analisi tecnica deve comparare il costo del completamento con quello del mancato completamento. In questo ci sono da restituire 630 milioni ricevuti dall'Europa, 450 per metter a norma i cantieri, altri 400 per indennizzi alle imprese italiane. In totale 1,5 miliardi + 2 miliardi da rimborsare a Francia, Spagna e Unione Europea per spese da loro fatte sul versante francese. Inoltre penali a Francia e Spagna, per contratti da sospendere e trafori da chiudere per almeno altri 800 milioni, cioè 2, 8 miliardi. In totale l'Italia dovrebbe sborsare 4,3 miliardi. Vi se ne aggiungono 1,5 per mettere a norma il traforo del Frejus. Inoltre ci sono le penali del Trattato europeo che l'Italia ha firmato per la TAV, che comportano tagli ai fondi regionali e sociali europei.
Il sesto errore di questa analisi è di teoria della crescita economica. Essa sembra ignorare che mentre le ferrovie ad Alta velocità sono industrie a costi decrescenti, dovuti all'aumento della velocità nel tempo, che riduce i costi fissi del lavoro e del capitale per unità di cosa o persona trasportata le strade ed auto strade sono industrie a costi crescenti, a causa della congestione dello spazio. Ridurre i tempi e i costi fra aree di mercato e unirle con una crescente alta velocità comporta un grande mercato, con economie di scala, più scambi, più concorrenza, più conoscenza.
Tav, Pierluigi Coppola: «Analisi costi benefici? Ignorate le linee guida, si seguiva il “metodo Ponti”». L’ingegnere: confronti serrati, ma ero uno contro cinque. «Diciamo che ho forti ragioni di perplessità sul metodo usato per l’analisi costi-benefici, e quindi anche sui risultati che ha prodotto», scrive Marco Imarisio il 12 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera. «Ho fatto presente al ministro Toninelli alcune obiezioni di merito sul metodo seguito dai miei colleghi». Chiamiamolo pure il sesto incomodo. Pierluigi Coppola, docente di ingegneria dei Trasporti all’università di Roma Tor Vergata, era l’unico dei sei componenti della commissione presieduta da Marco Ponti a non avere chiari trascorsi di contrarietà all’opera che è stato chiamato a valutare. Tutti lo cercano, perché da quel documento manca una sola firma, la sua. Accetta di parlare con molta difficoltà. L’attenzione mediatica che circonda questa vicenda rappresenta per lui una prima volta. «Sono un tecnico abituato a lavorare per offrire un supporto alle amministrazioni, ma senza clamori».
Professore, quindi lei è favorevole alla Tav?
«Leggo mie descrizioni in tal senso. In realtà non è del tutto vero. Sono semplicemente un tecnico abituato a valutare gli investimenti in opere pubbliche seguendo metodi oggettivi».
Sta dicendo che l’analisi costi-benefici di Ponti e del resto della commissione non lo è?
«Non ne condivido la metodologia utilizzata».
Cos’ha di diverso da tutte le altre?
«Si tratta di un assemblaggio di approcci diversi. In alcuni punti si seguono le linee guida della Commissione europea. Poi si passa a un altro metodo, molto più inusuale».
Come lo definirebbe?
«È il metodo del professor Ponti».
Quali sono le sue obiezioni?
«Si discosta molto delle linee guida adottate da tutti i Paesi dell’Unione europea sulle analisi costi benefici. E da quelle italiane che riguardano la valutazione degli investimenti pubblici».
La vostra commissione doveva per forza seguirle?
«Si tratta di linee guida che il ministero alle Infrastrutture ha adottato in via ufficiale con un decreto approvato lo scorso 16 giugno 2017. Senza prima cambiare quel decreto, esistevano delle regole alle quali attenersi. Tutto qui».
Cosa pensa invece del risultato dell’analisi sulla Tav di Ponti?
«Non mi esprimo sulla sua validità. Ho espresso la mia opinione in una nota consegnata al ministro».
Mi permetta di insistere.
«Diciamo che ho forti ragioni di perplessità sul metodo usato per l’analisi costi-benefici, e quindi anche sui risultati che ha prodotto. Per me è importante che le opere vengano valutate correttamente, siano esse la Tav o un’autostrada».
Quali sono a suo avviso i punti critici?
«Non voglio entrare nel dettaglio. Ma gran parte delle questioni di metodo sono già state messe in evidenza da molti miei colleghi che ne hanno scritto su numerosi organi di stampa».
Allora me ne dica una già nota.
«Non è ormai un mistero il fatto che l’inserimento nei costi del mancato incasso delle accise sui carburanti sia una procedura inedita, non prevista da alcuna linea guida, europea o italiana».
Ma anche senza firmarla, lei ha partecipato alla stesura dell’analisi costi-benefici sulla Tav?
«Ho partecipato ai lavori della commissione sulla Tav, ma non alla redazione del testo finale».
Com’era l’atmosfera?
«Ci sono stati confronti piuttosto serrati, a causa di una evidente differenza di impostazioni».
Uno contro cinque?
«Sì, è così».
Ma allora perché lei ha accettato di entrare in questa commissione costi-benefici?
«Per una scelta del ministro. Molte altre analisi, a cominciare da quella sul Terzo valico, sono state assegnate al gruppo diretto da Ponti. Io sono stato inserito per produrre un secondo parere».
Lo ha mai fatto?
«Nel caso del Terzo valico, ad esempio, il testo definitivo è stato redatto da Ponti e dai suoi collaboratori. Io avevo partecipato ai lavori, e su richiesta del ministro avevo presentato alla struttura tecnica di missione una nota all’analisi costi-benefici, nella quale non tenevo conto delle accise, che erano state calcolate anche per quell’opera».
Ha seguito questa procedura anche per la Tav?
«No».
Non esiste una sua contro analisi?
«Esiste un mio parere che ho scritto di mia iniziativa per consegnarlo al ministro».
Ma perché non è stata inserita anche per la Tav una sua nota?
«Questo non deve chiederlo a me».
Coppola: «Il saldo sui conti è positivo di almeno 400 milioni». Il prof «dissidente»: assurdo includere le accise, scrive Marco Imarisio il 13 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera. «Includere la perdita delle tasse sulla benzina nell’analisi economica crea confusione quando non porta addirittura a risultati incoerenti». La versione dell’ingegner Pierluigi Coppola, il sesto incomodo della famosa commissione costi-benefici, l’unico membro non schierato storicamente contro la Tav, ribalta i risultati del documento commissionato da Danilo Toninelli, che seppellivano la futura linea dell’alta velocità sotto una montagna da sette miliardi di euro di costi (qui il fact checking dei conti). A fare una «analisi corretta», parola del dissidente, professore di Trasporti a Roma-Tor Vergata, seguendo le linee guida dell’Unione europea, invece il saldo dell’opera è positivo, perché produrrebbe un valore attuale netto economico pari ad almeno 400 milioni, in un’ottica solo italiana. Con l’aumento già annunciato del cofinanziamento europeo, il valore positivo potrebbe salire di altri 500 milioni, senza contare il miliardo e mezzo che si risparmierebbe eliminando l’attraversamento della collina morenica nei pressi di Avigliana. Così si legge nello schema allegato alla contro-perizia, consegnata al ministro (Tav: i numeri, la storia, le ragioni dello scontro). Troppa grazia, e anche troppa divergenza tra i due studi. Da dove nasce questo squilibrio? «L’approccio convenzionale delle analisi costi-benefici e le linee guida comunitarie e nazionali» scrive Coppola, suggeriscono che le accise sui carburanti vengano escluse dal calcolo «perché costituiscono un trasferimento dal consumatore alle casse dello Stato, e non rappresentano risorse consumate». Il gruppo di lavoro presieduto da Marco Ponti invece le include, «creando effetti distorsivi» e annullando in parte il beneficio della realizzazione della nuova linea in termini di riduzione dei tempi di viaggio, dell’inquinamento, della congestione, del riscaldamento globale. Lo scostamento dalla metodologia ufficiale operato da Ponti «appare del tutto immotivato», e crea il paradosso per cui più crescita e più domanda finiscono per generare meno benefici netti (Ma non fare la Tav riporta i voti ai Cinque Stelle? Il parere di Antonio Polito). Gli altri rilievi riguardano l’assenza di qualunque scenario che contempli la mancata realizzazione dell’opera e quindi i costi necessari per l’adeguamento della linea storica, comunque «non più rispondente alle esigenze del trasporto merci contemporaneo», quantificati nella relazione del gruppo di lavoro in 1.4-1.7 miliardi di euro «ma non compresi nel calcolo». O la Tav, o niente, afferma Coppola. «In assenza del tunnel di base è verosimile ipotizzare una progressiva scomparsa dei treni-merci lungo la tratta e un progressivo aumento dei trasporti dei volumi di traffico di autocarri e autoarticolati», con aumento dei costi di trasporto, inquinamento ambientale, e congestione stradale. Uno stop alla Tav verrebbe a creare «un tratto mancante nella rete ferroviaria europea» che «avrebbe conseguenze economiche per l’Italia e in particolare per tutte le regioni del nord, anche in termini di riduzione dei finanziamenti europei, oltre che di accessibilità e sviluppo». Le ultime contestazioni riguardano il metodo seguito da Ponti, che da un lato ha adottato la «regola della metà» per valutare il beneficio diretto per passeggeri e merci della Tav, e dall’altro ha stimato al ribasso il valore residuo dell’opera, calcolata in sessant’anni, quando, come insegnano proprio la vecchia linea e altri casi analoghi «si suggerisce invece di utilizzare un valore di vita utile di almeno 100 anni». Il pensiero di Coppola è chiaro. Ma il Galateo accademico non contempla l’attacco diretto (Meloni: «L'analisi costi-benefici sembra fatta dalla giuria di Sanremo».
Pierluigi Coppola, chi è l’esperto che non ha firmato l’analisi costi-benefici sulla Tav. Classe 1972, originario di Napoli, docente a Tor Vergata ed esperto di «studi di fattibilità»: chi è l’esperto che — unico nella commissione di 6 — non ha firmato la discussa analisi, scrive il 12 febbraio 2019 Il Corriere della Sera. L’analisi costi benefici pubblicata il 12 febbraio del 2019 dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (qui il testo integrale; qui l’analisi giuridica) ha scatenato violente polemiche. Ne contiene anche una: sin dalla prima pagina. Nel frontespizio, infatti, compaiono le firme di cinque esperti: ma la commissione voluta dal ministero era composta da sei persone. A mancare è la firma di Pierluigi Coppola: unico, tra i tecnici voluti da Danilo Toninelli, a rifiutarsi di firmare la relazione. Secondo il ministero — sostengono le agenzie di stampa, che citano «fonti» dello stesso Mit — Coppola non avrebbe «partecipato, in specifico, alla stesura della relazione». Coppola, classe 1972, laureatosi alla Federico II di Napoli, è professore associato di ingegneria dei Trasporti nel dipartimento di Ingegneria dell’Impresa all’università di Tor Vergata, a Roma. Il suo curriculum rivela anche una docenza al Massachussets Institute of Technology (il corso si intitola «Modeling and simulation of transportation networks») e un corso di specializzazione organizzato dalla Croucher Foundation di Hong Kong. La sua attività professionale — si legge sempre sul suo curriculum — si è svolta prevalentemente «nel settore della pianificazione delle infrastrutture di trasporto, con particolare attenzione agli aspetti legati alla simulazione e alla valutazione degli impatti socioeconomici e territoriali», compresi «studi di fattibilità tecnico—economica, valutazione d’impatto territoriale, previsioni di traffico si reti stradali e di trasporto collettivo, alta velocità ferroviaria». Era anche l’unico esperto confermato dalla vecchia Struttura voluta dal predecessore di Toninelli, il pd Graziano Delrio. Chi sono gli esperti che, invece, hanno firmato la relazione? Sono cinque, come scritto sopra: Marco Ponti, 77 anni, professore al Politecnico di Milano e da sempre critico nei confronti della Tav (in una intervista a Marco Imarisio aveva detto che «per noi della commissione non va fatta, ma la decisione è dei politici»); Francesco Ramella, 47 anni, docente a Torino e contitolare dello Studio Alberto-Crotti-Ramella Ingegneri Associ; Paolo Beria, 40 anni, professore di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano; Alfredo Drufuca, ingegnere e fondatore di Polinomia, società di ingegneria dei trasporti; Riccardo Parolin, socio della TRT Trasporti e Territorio , società fondata da Ponti.
Il prof No Tav ammette: è possibile taroccare i dati. Ponti sulla sua analisi costi-benefici: "Non è perfetta ed è manipolabile". Ma Conte insiste: "Non si discute", scrive Fabrizio de Feo, Giovedì 14/02/2019, su Il Giornale. La polemica sull'analisi costi-benefici voluta dal ministro Danilo Toninelli continua a infuriare e a tenere banco. In una audizione in commissione Trasporti alla Camera il professor Guido Ponti che ha guidato la commissione di esperti ammette che lo strumento è discutibile. «L'analisi costi-benefici è uno strumento perfetto? No, tutt'altro e posso parlare un'ora contro l'analisi costi-benefici. È manipolabile? Sì certo, ad esempio sui parametri di ingresso. Ma altri metodi sono molto più manipolabili e infatti non sono usati». Nello stesso giorno in una intervista al Corriere della Sera Pierluigi Coppola - il professore che non ha firmato l'analisi costi-benefici di Ponti ma anzi ha presentato una sua controrelazione - manifesta «perplessità sul metodo usato per l'analisi e quindi anche sui risultati. Non è un mistero il fatto che l'inserimento nei costi del mancato incasso delle accise sui carburanti sia una procedura inedita, non prevista da alcuna linea guida, europea o italiana». Coppola fa anche notare che mentre nella valutazione del Terzo valico era stata inserita nella relazione una sua nota, nel caso della Tav non è stata allegata la sua controanalisi. Ma è chiaro che al di là della relazione sono le scelte politiche che il governo dovrà adottare a rendere incandescente il clima dentro il governo, ma soprattutto nei territori. Se la Commissione europea si riserva di chiedere chiarimenti, Giuseppe Conte giudica l'analisi «non di parte, sarà il punto di partenza per la decisione politica». Ma più tardi: «L'analisi non si discute, non scherziamo». Matteo Salvini se la cava con un post sui social network: «Bello il treno, più pulito, più veloce, più sicuro». E il viceministro leghista ai Trasporti, Edoardo Rixi, sintetizza così la situazione: «Non fare la Tav è uno scenario che non voglio prendere neanche in considerazione. Alla fine si farà con meno soldi». E Gian Marco Centinaio fa notare che «nel contratto di governo non c'è scritto no alla Tav. Se il contratto di governo non va più bene, se non è più attuale, ci si risiede al tavolo». C'è un altro fronte pro-Tav che si sta sempre più compattando. I governatori di Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte e Liguria potrebbero, infatti, mettere in campo una iniziativa comune, promuovendo referendum consultivi in ciascuna regione da svolgersi nello stesso giorno così da dare più forza all'iniziativa. «Aspettiamo la decisione politica. Se ci dovesse essere avremmo gli strumenti per promuovere referendum regionali» spiegano. «Farlo contemporaneamente avrebbe un valore forte». E mentre si inizia a parlare di una manifestazione civica sulla Tav da organizzare a Roma, Mariastella Gelmini fa sapere che «sabato 23 febbraio saremo a Milano con i nostri gilet azzurri per dire, ancora una volta, sì all'alta velocità. Spostare le merci da gomma a rotaia è un bene per l'ambiente, la sicurezza e il nostro export: ma per Toninelli e la strampalata analisi si tratta di un costo». Sestino Giacomoni fa notare che ormai più che di Tav per l'Italia si può parlare di «Dav», ovvero di «Decrescita ad Alta Velocità» e Marco Marin invita la Lega a non assecondare ulteriori perdite di tempo. «L'analisi sulla Tav non ha cambiato nulla. È evidente a tutti che è fatta ad uso e consumo delle volontà politiche del M5s. Di tempo sulla Tav il governo ne ha già perso troppo. E non se ne può perdere altro: magari aspettando le Europee per non disturbare i due partiti di governo».
Coppola sbugiarda Toninelli e svela la truffa sulla Tav. Il professore che non ha firmato l'analisi costi-benefici: "Ho espresso il mio dissenso anche al ministro a fine gennaio", scrive Chiara Sarra, Venerdì 15/02/2019, su Il Giornale. "Non ho firmato perché non ero d'accordo". Pierluigi Coppola, l'esperto che si è dissociato dall'analisi costi-benefici sulla Tav, sbugiarda Danilo Toninelli e svela di fatto che il dossier presentato dal ministro dei Trasporti come la prova inconfutabile per non terminare l'opera sia in realtà tutt'altro che oggettivo. "Non faceva parte del gruppo di lavoro", aveva detto il ministro grillino parlando del professore, "Ha dato un suo contributo con un appuntino di tre pagine". "Ho partecipato ai lavori di questo gruppo di lavoro ma non alla redazione del documento finale, pubblicato sul sito del Ministero, poiché ero in disaccordo con la metodologia adottata a maggioranza", ha ribattuto oggi l'economista di Tor Vergata, "Ho manifestato le ragioni del mio disaccordo in diversi scambi email con il gruppo di lavoro, e, in presenza, negli incontri organizzati presso la Struttura tecnica di missione, allargati alla segreteria tecnica del ministro. Tali ragioni le ho sintetizzate al ministro nella mia nota di 6 pagine del 24 Gennaio, che successivamente, su espressa richiesta della segreteria tecnica, ho sintetizzato in un'ulteriore nota di sintesi (tradotta anche in inglese) di 2 pagine". Intanto, mentre Matteo Salvini si è detto ieri "non convinto" dall'analisi commissionata da Toninelli, arriva anche il pressing dell'Europa: "La Commissione non può escludere di dover chiedere di restituire i fondi Cef già erogati, se questi non possono essere ragionevolmente spesi in linea con le scadenze dell'accordo di finanziamento", avvisano da Bruxelles. E il ministro ai Trasporti francese, Elisabeth Borne, incalza: "Oggi diciamo anche chiaramente agli italiani che bisogna che questa decisione arrivi".
Da La Repubblica il 22 luglio 2019. E' stato licenziato dal Ministero delle infrastrutture e trasporti Pierluigi Coppola, uno degli esperti della commissione per l'analisi costi-benefici sulla Tav, che si era però dissociato dall'esito negativo della valutazione. Il Ministero delle infrastrutture e trasporti conferma quanto anticipato oggi dal Messaggero. Coppola, è stato licenziato con una 'mail', una semplice 'pec' firmata dal ministro Danilo Toninelli. Coppola, fanno sapere dal Mit, "ha violato la riservatezza rilasciando interviste non autorizzate e soprattutto resta un'ombra su di lui, in merito al falso contro-dossier con numeri sballati sulla analisi costi-benefici Tav che gli è stato attribuito sulla stampa e di cui poi lui ha smentito la paternità. Senza però chiedere rettifica ai giornali che glielo attribuivano". Secondo il quotidiano ora è in bilico anche il presidente della commissione Marco Ponti, in scadenza a settembre. La possibile "epurazione" di Coppola era stata anticipata qualche giorno fa da Davide Gariglio, parlamentare torinese del Pd. "Ricordiamo che Coppola era l'unico esperto neutrale presente tra i commissari guidati dall'esponente No Tav Marco Ponti, che aveva scelto gli altri cinque tecnici tra i soci e consulenti della sua impresa privata, e che si era apertamente dissociato dai risultati finali apparsi subito confusi, parziali ed inattendibili - aggiunge -. L'epurazione, da parte del ministro, di chi si rifiuta di manipolare una indagine pubblica è un atto gravissimo e testimonia l'arroganza e l'incapacità di Toninelli e del M5S di motivare con argomenti oggettivi e scientifici le loro scelte politiche dannose ed ideologiche".
(LaPresse il 22 luglio 2019) - "Se l'unico atto sulla Tav" da parte del ministero delle Infrastrutture "è licenziare l'unico professore a favore, non ci siamo proprio...". Così il vicepremier della Lega Matteo Salvini durante il suo sopralluogo a Rovezzano, rispondendo ai cronisti. Salvini ha detto che andrà a visitare "prestissimo" i cantieri dell'Alta Velocità Torino-Lione perchè "non sono più accettabili ritardi e rinvii".
(LaPresse il 22 luglio 2019) - "Ci sono troppe infrastrutture bloccate dal ministero dei Trasporti. Il Mit deve aiutare la gente a viaggiare e non bloccare porti, aeroporti, ferrovie, tunnel, autostrade. Il vero problema credo che sia il blocco di centinaia di opere pubbliche. Non è questione di rimpasto: se uno fa il ministro ai blocchi stradali, noi siamo al governo per sbloccare le strade, non per bloccarle". Lo ha detto il ministro dell'Interno e vicepremier, Matteo Salvini, oggi a Firenze, a margine della firma del protocollo di intesa tra ministero e Regione Toscana per l'attuazione del numero unico di emergenza europeo 112.
Pierluigi Coppola cacciato da Danilo Toninelli perché pro-Tav: "Accuse false contro di me. Quel dossier...Libero Quotidiano il 23 Luglio 2019. Pierluigi Coppola, ingegnere napoletano, unico componente della commissione per l'analisi costi-benefici favorevole alla Tav, è stato licenziato in tronco con una pec dal ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ma non sa ancora il motivo: "Nella mail che ho ricevuto mi si accusa di aver violato il codice di comportamento dei dipendenti pubblici. Non ho mai offeso la pubblica amministrazione, né ho arrecato danno. Ho chiesto spiegazione al ministro ma non ho ricevuto risposta", dice in una intervista a Il Corriere della Sera. Continua Coppola: "Sulla base delle mie analisi ritengo che la Torino-Lione sia un'opera utile che porta benefici. E ho contestato i metodi degli altri esperti. Da allora non ho partecipato più alle loro riunioni. Non capisco perché vengo mandato via proprio adesso". Intanto Toninelli non sente più nessuno di quella commissione: "Sarà molto impegnato immagino. Noi siamo tecnici, non politici. Possiamo essere in disaccordo. Non ha senso finire in polemica". Dal ministero c'è poi l'idea che Coppola abbia diffuso un controdossier che dice che la Tav conviene. "È falso. Le mie stime sull'opera erano molto diverse da quelle dei colleghi che hanno contestato l'opera. Ho consegnato il mio dossier alla struttura del Mit e a Toninelli. Qualcuno l'ha fatto circolare online, ma non io".
Con una bugia chiudono l’Italia. Il documento bluff del governo blocca la Tav, così perdiamo soldi e lavoro, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 13/02/2019, su Il Giornale. La Tav non si farà, almeno con questo governo ed è questo un motivo in più per cambiarlo prima possibile. Lo stop definitivo e ufficiale è arrivato ieri per bocca di un assicuratore di Cremona diventato per caso ministro delle Infrastrutture, il mitico Danilo Toninelli – uno che potrebbe risultare negativo al test sul quoziente intellettivo - che di tunnel non se ne intende a tal punto di avere sostenuto l’esistenza di uno di essi sotto il Brennero, che ancora non esiste. A bloccare la più grande opera in cantiere è stata una commissione insediata dai Cinque stelle composta a maggioranza - e qui sta la prima truffa - da esperti che in passato si erano dichiarati apertamente «no Tav» in base a calcoli che dimostrerebbero la non economicità del progetto. Per fare tornare i conti con la loro tesi questi geni hanno imputato ai costi - seconda truffa - anche i minori introiti per lo Stato per la diminuzione di entrate fiscali che comporterebbe, grazie al fatto che milioni di tir viaggerebbero su rotaia invece che su gomma, la mancata vendita di carburante e ticket autostradali. Che sarebbe un po’ come dire: vietiamo agli italiani di smettere di fumare, di ubriacarsi e di giocare d’azzardo altrimenti perdiamo gli introiti fiscali su sigarette, alcolici e slot machine. Penso che ci debba essere un limite nel prendere per i fondelli gli italiani, anche quelli più creduloni, e che questa decisione vada ben oltre. Non solo nel merito della Tav ma più in generale nel volere inchiodare il Paese, già provato di suo, all’utopia grillina e alla sua decrescita felice. Che cosa ci sia poi di felice a bloccare grossi investimenti e tagliare migliaia di posti di lavoro certi e ben retribuiti per sostituirli con il comodo reddito di cittadinanza; che cosa ci sia di felice a incentivare l’inquinamento del trasporto su gomma a scapito del moderno ed ecologico trasporto su rotaia; che cosa ci sia di felice a tradire accordi internazionali e ostacolare la libera circolazione di merci e uomini da un capo all’altro dell’Europa, tutto questo resta un mistero, che sconfina nella stupidità assoluta. Siamo disarmati, perché come scrisse Roberto Gervaso «nessuno è abbastanza intelligente da dimostrare a uno stupido che è uno stupido». Forse anche per questo, sulla decisione di ieri, Salvini tace. Il problema è che di solito chi tace acconsente (o ha bisogno dei voti Cinque stelle per non finire a processo sul caso Diciotti).
Una costi-benefici anche sul reddito. Applichiamo l'analisi costi-benefici anche al governo, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 14/02/2019, su Il Giornale. L'abracadabra della politica grillina è «la relazione costi-benefici». Il piede di porco buono per scassinare qualunque logica e qualsiasi tentativo di ragionamento. Lo abbiamo visto in questi giorni con l'Alta velocità. Il Movimento 5 Stelle, dalla sua fondazione sempre anti Tav, imbastisce una commissione di esperti, tutti di chiara fama No Tav (a parte uno, che infatti se n'è subito andato) per avere un'opinione «tecnica» sull'opera in Val di Susa. Indovinate un po' il verdetto della commissione No Tav? La Tav non va fatta, perché i costi superano i benefici. Toh, che sorpresa. Sarebbe stato come far valutare una grigliata di carne a un consesso di vegani. Ma tant'è. Questo è il nuovo metodo grillino: prendere dei tifosi e travestirli da arbitri. Metodo utilizzato, in scala minore, anche in Emilia-Romagna, dove il ministro Toninelli ha bloccato la costruzione di una bretella autostradale tra Campogalliano e Sassuolo. Un'opera di 15 chilometri, dal valore di 506 milioni di euro e fondamentale per la logistica del distretto della ceramica. Ruspe ferme e lavori al palo. Anche in questo caso gli ineffabili grillini hanno sventolato una «relazione costi-benefici» per sigillare i cantieri. Viene, però, un dubbio: se il governo gialloverde vuol misurare tutto con il metro dei «costi-benefici», allora perché non inizia ad applicarlo anche a se stesso? Facciamo un esempio: saranno più i costi o i benefici del reddito di cittadinanza? In questo caso i pentastellati non hanno incaricato nessuna commissione di esperti. Anzi, hanno tirato dritto, in barba a tutti gli esperimenti in giro per il mondo che hanno bollato il sussidio come inutile se non dannoso. Perché l'esecutivo non allestisce un bel parterre di esperti (possibilmente indipendenti) e sottopone loro il faraonico provvedimento appena varato? E poi, perché no?, si potrebbe passare sotto la stessa lente anche «Quota 100». Se al governo del popolo piacciono così tanto i pareri degli esperti, allora che li interpellino su tutto.
Il sospetto è che i costi di tutte queste trovate assistenzialiste siano mostruosi (e a carico nostro), e i benefici, più che collettivi, siano elettorali. Almeno nelle speranze di chi le ha partorite. Ma quando dai palazzi romani avranno finito di suonare la fanfara anche gli elettori, nel silenzio delle loro case, tracceranno i «costi-benefici» del governo grillino. La prima tranche di questa relazione «costi benefici» è già stata consegnata. Domenica scorsa in Abruzzo.
Alessandro Sallusti, il terribile sospetto su Matteo Salvini: "Silenzio sulla Tav per evitare il processo?", scrive il 13 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Un gran casino sulla Tav che si ripercuote sul governo. La relazione tecnica, infatti, boccia l'opera. Ma viene a sua volta bocciata da parte degli esperti (uno non la ha firmata, il commissario la ha definita "una truffa"). Insomma, i grillini avrebbero fatto consegnare una mezza porcheria pur di avere un argomento per schierarsi contro l'opera. Matteo Salvini, da par suo, continua ad affermare che la Tav s'ha da fare e, inoltre, ha snobbato la relazione di cui si è parlato. Dunque, come andrà a finire? Chi mostra di non avere dubbi sulla vicenda è Alessandro Sallusti, che dice la sua in un editoriale su Il Giornale dove non usa giri di parole e, ancora una volta, picchia durissimo sul leader della Lega. "La Tav non si farà, almeno con questo governo ed è questo un motivo in più per cambiarlo prima possibile", premette il direttore. Insomma: niente Tav, secondo lui. "Lo stop definitivo e ufficiale è arrivato ieri per bocca di un assicuratore di Cremona diventato per caso ministro delle Infrastrutture, il mitico Danilo Toninelli - uno che potrebbe risultare negativo al test sul quoziente intellettivo - che di tunnel non se ne intende a tal punto di aver sostenuto l'esistenza di uno di essi sotto il Brennero, che non esiste", azzanna Sallusti, infierendo sul disastroso e improvvisato ministro grillino. Ma è nel finale che Sallusti attacca Salvini ed avanza il sospetto. Dopo aver ricordato tutte le valide ragioni per cui la Tav deve essere fatta, cita Roberto Gervaso: "Nessuno è abbastanza intelligente da dimostrare a uno stupido che è uno stupido". Dunque riprende: "Forse anche per questo, sulla decisione di ieri, Salvini tace. Il problema è che di solito chi tace acconsente (o ha bisogno dei voti Cinque stelle per non finire a processo sul caso Diciotti), conclude Sallusti. Ed eccovi servito il sospetto...
Tav, la controanalisi di Galli e Cottarelli: "Finire i lavori conviene". Il parere dei due economisti: i costi e benefici, sia nello scenario del 2011 che in quello della commissione Ponti, danno un risultato favorevole, scrive Paolo Griseri il 19 febbraio 2019 La Repubblica. Un'analisi costi benefici con l'esito precostituito? "Non siamo d'accordo. Abbiamo stima di chi ha redatto il rapporto". Ma "non ci convincono alcuni importanti aspetti della metodologia seguita e quindi non ci sentiamo di condividere la valutazione negativa dell'opera fatta dalla squadra del professor Ponti". Così Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli, economisti e alla guida dell'Osservatorio sui conti pubblici dell'Università Cattolica.
Il paradosso delle perdite da pedaggi. Che cosa non convince i professori nell'analisi commissionata da Toninelli? Innanzitutto "uno dei punti di maggiore perplessità riguarda il trattamento dei minori introiti derivanti per lo Stato dalle accise relative al trasporto su gomma e dalla perdita di entrate da pedaggi autostradali". Voci che "hanno importi molto elevati" e che "sono due variabili cruciali". Che hanno anche "strane conseguenze". La prima è che "quanto più forte è lo spostamento da gomma a ferro, tanto meno conveniente è realizzare l'opera". Con un paradosso: "Il classico argomento No Tav è che si spendono un'enormità di soldi per un'opera che utilizzeranno in pochi. Qui invece l'argomento è rovesciato: quanto più l'opera ha successo e attrae traffico, tanto più essa è un inutile spreco". A dimostrazione della loro considerazione, Cottarelli e Galli citano le stesse cifre del gruppo Ponti. Che nello scenario con maggior traffico merci su ferro, quello preparato dell'Osservatorio sulla Torino-Lione nel 2011, prevedono che i costi superino i benefici di 7.805 milioni. Mentre nello scenario che Ponti considera più "realistico", quello con minor flusso di traffico, l'eccedenza dei costi diminuisce di quasi un miliardo, a 6.995 milioni". Con la conseguenza ulteriormente paradossale che "anche se i costi dell'investimento fossero zero, bastano i costi in termini di minori accise e pedaggi per portare i benefici quasi a zero nello scenario "realistico" e addirittura negative nello scenario con previsioni di traffico superiori". Insomma "l'opera sarebbe uno spreco anche se ce la regalassero". Che questa metodologia fosse dubbia lo stesso gruppo Ponti l'aveva segnalato nella precedente analisi costi-benefici, quella per il Terzo Valico. "La scelta metodologica - era scritto nell'analisi per l'infrastruttura ligure - non è pienamente in linea con le linee guida del ministero e dell'Europa". Ma, a differenza di quanto accade nel documento sul Terzo Valico, nell'analisi per la Tav c'è solo il calcolo che considera le accise e i pedaggi e non quello che le esclude".
L'errore dell'analisi su base europea. Il secondo punto di perplessità di Cottarelli e Galli riguarda il fatto che l'analisi "è stata condotta, per esplicita scelta degli autori, a livello europeo. Il che però pone delle difficoltà rispetto alla motivazione dell'analisi: quella di consentire al governo italiano di valutare se convenga proseguire o continuare l'opera". È una incongruenza che hanno sottolineato molti. Perché non si tratta di lanciarsi in un esercizio teorico su quanto convengano i trasporti ferroviari rispetto a quelli su strada. Ma di capire se all'Italia conviene bloccare a metà la costruzione dell'opera. Dunque contano i costi dell'Italia, non quelli di Francia ed Europa. Rifacendo i calcoli sulla base di quanto il nostro Paese deve ancora pagare per arrivare al termine, Cottarelli e Galli ipotizzano che Roma dovrebbe ancora spendere 4.964 milioni. E provano a inserire le voci dei costi e dei benefici nei due scenari, quello ottimistico del 2011 e quello che il gruppo Ponti considera "realistico". In ambedue i casi il risultato dell'analisi della Tav è favorevole ai benefici: di 104 milioni nello scenario considerato "realistico" e di ben 5.772 milioni dell'ipotesi che al contrario il gruppo Ponti considera ottimistica. I due economisti concedono che nel calcolo possa entrare una quota di 1,7 miliardi di costi legali a carico dell'Italia ma che questa sia una "quota massima". Del resto altre voci potrebbero modificarsi a favore dei benefici. Per esempio dal punto di vista dei costi Cottarelli e Galli citano l'ultimo quaderno dell'Osservatorio che calcola 1 miliardo di costi in meno rispetto a quanto fa il gruppo Ponti. Inoltre, calcolando costi e benefici su un arco temporale superiore a quello preso in considerazione dal gruppo nominato da Toninelli, "una vita utile del progetto più lunga di 60 anni", i benefici aumenterebbero.
La perdita di reputazione. Concludono i due economisti che l'analisi costi-benefici "non prende in considerazione, come dicono gli stessi autori, gli effetti macroeconomici che potrebbero portare allo sviluppo di nuove iniziative industriali lungo tutto il suo percorso. Né prende in considerazione, perché non è suo compito, il costo per l'Italia in termini di reputazione di cambiare la propria posizione sul progetto a lavori ormai iniziati". E il prezzo della perdita di reputazione è sempre, in economia, molto alto.
Tav, Ponti: «Toninelli come il Pd, la mia analisi usata a fini politici». Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 Marco Imarisio su Corriere.it.
Professor Marco Ponti, su Tav e grandi opere il vento è cambiato anche nel governo?
«Mi sembra evidente. Il ministro Toninelli ha di fatto deciso che non si blocca più nessun cantiere, compreso quello della Tav».
Si sente tradito?
«No. Mi dispiace, che è un’altra cosa. A cominciare da quella sulla Tav, le nostre analisi costi benefici sono state usate per fini politici, ma appare evidente che non saranno mai applicate».
Davvero Toninelli non risponde più alle sue mail?
«È così. Ma forse non abbiamo molto da dirci. Il ministro si è rivelato identico al suo predecessore Graziano Delrio».
Detto da lei non sembra un complimento.
«Non lo è infatti. Anche Delrio aveva detto che ogni cantiere sarebbe stato giudicato in base alle analisi costi-benefici. Poi, quando si è trovato di fronte agli interessi costituiti, ha cambiato idea dicendo che nulla doveva essere toccato perché si trattava di opere fondamentali. Trovate le differenze tra lui e Toninelli. Non ci sono».
Non le sembra un giudizio severo?
«A me Toninelli diceva che bisognava analizzare da capo tutto, a cominciare dalla Tav. Ci ha chiamato lui. Era pronto, mi copriva le spalle. Poi, appena ci sono stati un minimo di resistenza dei poteri costituiti e un problema di consenso, chi l’ha più visto e sentito. Come Delrio, come Renzi, come la famosa lavagna di Berlusconi in diretta da Bruno Vespa, piena di grandi opere inutili. Pagheremo caro, pagheremo tutto, noi contribuenti».
Ehm... non teme di essere cacciato?
«Io e la mia squadra lavoriamo gratis. L’incarico scade a settembre. E poi sono già stato messo alla porta da cinque diversi ministri dei Trasporti. Uno più, uno meno, non fa differenza».
E se il problema stesse nel vostro idealismo?
«Ma non mi faccia ridere. Sempre la solita storia, in questo Paese. In Italia si scambiano soldi con i voti. Toninelli ha appena promesso venti miliardi di investimento per le ferrovie del Sud. In Italia dei denari pubblici non frega niente a nessuno».
L’analisi costi-benefici sulla Tav è stata il punto di rottura?
«La stupirò: no, affatto. Sono soddisfatto dei risultati di quel lavoro. Noi con la nostra Acb abbiamo sempre voluto aprire un dibattito democratico. E una discussione, in quei giorni incasinati, c’è stata. Io stesso ho partecipato a 18 dibattiti, alcuni non sempre democratici. Ma almeno se n’è parlato».
Per fare il contrario di quel che sostenete voi?
«Sarò anche un idealista, ma non sono scemo. Ho sempre saputo che la decisione non dipendeva da noi, ma dalla politica. C’è stato un buon dibattito, mi basta questo. Quando il premier Conte ha preso in mano la pratica, nella notte dei lunghi coltelli, ha detto che gli sembrava un lavoro convincente».
L’aumento dei finanziamenti Ue all’opera potrebbe farle cambiare idea?
«La Tav resta un progetto risibile, che si faccia o meno. Se non altro finirà per costare poco. Se l’Europa paga per metà, chissenefrega, il progetto resta irrilevante, ma che la facciano pure. Non è quello lo scandalo».
Qual è allora il suo tasto dolente?
«Abbiamo ultimato l’analisi costi-benefici sulla Tav Brescia-Padova. Una follia da 8 miliardi di euro. In confronto la Torino-Lione è una spesuccia. Toninelli non l’ha pubblicata, anche se ora pare che lo farà. Ma intanto, ancora prima che consegnassimo il nostro lavoro, aveva già detto che l’opera si sarebbe fatta. Più o meno lo stesso per la Gronda di Genova. Che senso ha tutto questo?».
Quando ha capito che qualcosa non andava?
«L’analisi costi-benefici sul Terzo valico è stata l’inizio di tutti i nostri mali. Per noi era un “no” chiaro e tondo, il ministero ha detto sì, senza neppure parlarne. Ricordo che ci ballano sopra 7 miliardi, tutti nostri».
Cosa risponde a chi vi accusa di saper dire solo no?
«Noi dovevamo dire se un tal progetto conviene alla comunità. Ad esempio, nonostante il fango che ci è stato tirato addosso, non siamo Si Tav o No Tav, siamo seguaci dei numeri. Paga l’Europa? Evviva. Ma il giudizio negativo non dipende da chi paga, dipende solo dai benefici inferiori ai costi. Tutto qui».
Credeva che questa volta potesse esser diversa dalle altre?
«Nel film The darkest hour, L’ora più buia, quando il re d’Inghilterra chiede a Winston Churchill perché beve così tanto a mezzogiorno, lui risponde di essere allenato. Ecco, io sono ben allenato al fatto che le ragioni del consenso elettorale prevalgono sempre sui soldi dei contribuenti. Basta vedere il bilancio dello Stato. Avanti così, e finiamo presto in Grecia. Ma ad alta velocità, ci mancherebbe altro».
Conte in Aula: l’iter della Tav va avanti. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. «In attesa di un eventuale pronunciamento del Parlamento il governo non potrà sottrarsi agli adempimenti necessari al proseguimento dell’iter» per la realizzazione della Tav. Lo ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte al question time alla Camera, dopo aver annunciato ieri il suo appoggio all’Alta Velocità Torino Lione. Conte ha voluto precisare oggi quello che aveva anticipato già ieri ma che, con la protesta dei Cinque Stelle di fronte al sì, e la mobilitazione dei No Tav, è passato in secondo piano: e cioè che lui da premier ha provato ad agire su due fronti, quello economico e quello del progetto. Dal punto di vista delle risorse, è riuscito ad ottenere a nome del governo la disponibilità dell’Ue a finanziare l’opera fino al 50%: «Aver tenuto il punto ha consentito di ottenere un oggettivo passo in avanti», ha sottolineato Conte. «Ciò che invece non siamo riusciti ad ottenere è la ridiscussione dell’opera- ammette Conte- e questo a causa della ferma posizione della Francia ad andare avanti nell’opera». Questo «è stato l’elemento decisivo che ha pesato», precisa ancora Conte: «Quando si ha a che fare con accordi internazionali di due Paesi, già ratificati, o si raggiunge un accordo bilaterale, strada che ho perseguito fino alla fine invano, o si assume la responsabilità di procedere in maniera unilaterale, che avrebbe però costi ingenti e chiare ripercussioni negative». Il presidente del Consiglio entra nei tecnicismi, perché tutti si rendano conto di cosa dovrà affrontare eventualmente il Paese nel caso di un no: «A queste condizioni, fermare l’opera sarebbe più oneroso che farla» e in attesa che il Parlamento si pronunci, in ogni caso «il governo non potrà sottrarsi all’adempimento dei passi necessari per proseguire l’iter». Dunque, la Tav per ora va avanti, in ogni caso.
I No-Tav avvisano Conte: «Siamo determinati». Psicodramma 5Stelle. Giulia Merlo il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. Il sì del premier ai cantieri manda in tilt il movimento. A rischiare potrebbe essere il comune di Torino, a maggioranza no- tav. La sindaca Appendino: «legittime amarezza e frustrazione». «E’la Caporetto del Movimento 5 Stelle», certifica sconsolato il senatore grillino Mario Giarrusso. Lo psicodramma Tav dei 5 Stelle dura da quasi 24 ore e ieri si è tradotto in un’aula del Senato deserta, nel giorno dell’interrogazione parlamentare del premier Giuseppe Conte. A palazzo Madama si parlava di rubli e Lega, ma poco male: tale e tanto è il malcontento del Movimento 5 Stelle, dopo che il presidente del Consiglio ha sostanzialmente dato il via libera all’alta velocità Torino- Lione. La sintesi arriva dallo stesso Giarrusso: «Quando è nato il M5S 12 anni fa, è nato anche sulle battaglie della Tav. Ricordiamo che Grillo si è beccato una condanna penale in un cantiere della Tav. Oggi doveva essere il giorno in cui la Lega doveva dare spiegazioni, invece è diventata la Caporetto del Movimento».
Le ragioni di Conte. Con il via libera alla Tav, infatti, crolla un altro e forse il più caratterizzante dei pilastri del Movimento ( almeno quello degli albori dei meet- up), sacrificato sull’altare del governo, dei rapporti internazionali e dei vincoli di bilancio. «Ci costerebbe di più non farla», aveva provato a ragionare Conte. Sul Tav «in ogni interlocuzione ho sempre sostenuto la volontà dell’Italia di ridiscutere l’opera», e «aver tenuto il punto» con l’Europa e la Francia «ci ha consentito di ottenere un oggettivo passo avanti dal punto di vista economico. Ciò che non siamo riusciti ad ottenere è la discussione dell’opera», per la «ferma decisione della Francia a proseguirla. E questo è stato l’elemento decisivo che ha pesato nella mia valutazione» perché una decisione unilaterale dell’Italia «avrebbe costi ingenti per le casse dello Stato e quindi chiare ripercussioni negative». Troppo poco, per i grillini, che ora possono aggrapparsi ad un’unica frase del premier: «L’eventuale decisione unilaterale necessiterebbe, evidentemente, di un passaggio parlamentare».
La giunta di Torino rischia. Se i gruppi parlamentari sono in piena crisi di nervi ( in particolare i pentastellati piemontesi, che porprio sul no alla Tav hanno chiesto voti nella passata campagna elettorale), la prima conseguenza diretta del sì all’opera potrebbe essere il capolinea della Giunta Appendino. La sindaca di Torino è circondata di consiglieri no- Tav ( «tutto il gruppo consiliare è No tav, tutti siamo no tav» ) e la scelta dell’Esecutivo potrebbe far franare il già precario equilibrio in cui versa la sua maggioranza. Lei non tenta nemmeno di mascherare tutta la sua preoccupazione, ma continua a ripetere la volontà di portare a termine il suo mandato. «Oggi l’amarezza e la frustrazione sono legittime – ha detto Appendino – mi aspetto che in Parlamento il Movimento sia coerente con la posizione che ha sempre tenuto». E ancora ha provato a distanziare i fatti romani da Palazzo Civico: «Prendo atto che il premier non è riuscito a trovare un accordo con la Francia per la ridiscussione integrale dell’opera e quindi da oggi la palla passa al Parlamento», dove «il M5s non ha preso il 51% e quindi sta facendo quello che può e potrà per cercare di bloccare l’opera». Insomma, la colpa non è del Movimento 5 Stelle, perchè per governare bisogna scendere a patti. Se questa lettura basterà a reggere la maggioranza, verrà verificato nei prossimi giorni.
Toninelli resiste. Altra sedia traballante rimane quella del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. I leghisti e lo stesso Matteo Salvini non riescono a spiegarsi come lui continui a resistere ( «dovrebbe avere la coerenza di dimettersi», dicono in molti), ma Toninelli non accenna al minimo dubbio, nonostante gli scossoni e le mancate difese anche da parte degli stessi 5 Stelle. Il sì alla tav impatta anche fuori dai palazzi della politica: il premier Conte «dimostra di non conoscere la determinazione dei No Tav», si legge nei siti di area no- Tav . E il leader della Val di Susa, Alberto Perino alza i toni: «Se vogliono fare dei martiri, ricordino che i martiri possono essere pericolosi». La Digos si sta attrezzando per monitorare il corteo già previsto per sabato e che conclude il tradizionale campeggio estivo No Tav Alta felicità a Venaus. Intanto, l’Unione Europea chiede di suggellare una volta per tutte la partita: «Aspettiamo la conferma ufficiale, che deve esserci sottoposta per iscritto per poter procedere», ha detto la commissaria Ue ai Trasporti, Violeta Bulc. Una conferma scritta che equivarrà a un altro dito nella piaga grillina, che aggiungerebbe al danno anche la beffa di vedere la firma proprio del suo premier sotto il via libera all’opera tanto odiata.
Tav, una ferrovia diventata un totem no global. Paolo Delgado il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. All’inizio la protesta era guidata dal Prc poi andò al governo con prodi e ammainò le bandiere nei presidi in val di Susa. Poi arrivarono i 5Stelle. Per anni la abbiamo definita tutti "la Tav" e ancora continuiamo, in forza dell’abitudine, anche se hanno ragione i puristi e la tratta della discordia andrebbe declinata al maschile essendo l’acronimo riferito alla formula "Treno ad alta velocità". Formula peraltro sbagliata dato che i treni in circolazione su quella linea ferroviaria viaggeranno ( se mai succederà) a 220 km/ h per il trasporto passeggeri e a 120 km/ h per le merci, mentre la definizione ufficiale di "alta velocità" richiede una velocità superiore ai 250 km/ h.
Una questione complicata. Ma non è questione di correttezza grammaticale e neppure di precisione in termini di velocità. Forse, a conti fatti, non è neppure più questione di calcolo dei rapporti costi/ benefici. Quello è un ginepraio nel quale è impossibile muoversi senza imbattersi in contestazioni, dotte e sempre discutibili, dall’una e dall’altra parte. Anche perché il calcolo deve per forza basarsi, come ha correttamente segnalato il premier Conte, sugli accordi già stretti, sulle penali e sui contributi europei, varcando pertanto i confini dell’utilità e dei vantaggi o svantaggi dell’opera in senso stretto. Il calcolo, inoltre, non tiene conto dell’impatto ambientale e delle tensioni sociali, non immediatamente monetizzabili, né può calcolare con precisione l’eventuale lievitazione dei costi, che in Italia è la regola. Quello che si può dire con certezza è che l’opera non è nata sotto una buona stella. L’idea nasce nei primi anni ‘ 90 sulla base di previsioni che si sono poi rilevate errate. Il progetto iniziale era quello di un treno destinato soprattutto ai passeggeri: si prevedeva si sarebbero moltiplicati negli anni successivi.
Dai passeggeri alle merci. Non fu così e di conseguenza lo scopo del treno piegò invece soprattutto verso il trasporto merci. Solo che anche su quel versante le previsioni si sono rivelate improvvide: a tutt’oggi il traffico di merci su ruote, in quella tratta, è esiguo. La costruzione della linea implicava un buco nelle Alpi, il tunnel base, che nell’idea iniziale doveva essere il più lungo del mondo, sui 90 km. Anche dopo essere stato ridimensionato a una lunghezza di poco inferiore ai 60 km, più o meno pari a quella del Gottardo, il tunnel base resterebbe tra i più lunghi. Il punto dolente è che sventrare la montagna significa doversela poi vedere con una quantità di detriti in parte tossici, come l’amianto, e pagare uno scotto pesante in termini di polveri sottili e dannosità per la salute degli abitanti. Ci sono queste paure molto concrete e non ideologiche all’origine della mobilitazione della Val Susa contro la tratta, che inizia già nel 1995, con la grande manifestazione del 2 marzo a Sant’Ambrogio di Torino. Non a caso il movimento No Tav viene inserito nelle analisi internazionali tra quelli cosiddetti NIMBY, Not In My Back Yard, "non nel mio cortile". Lo scontro frontale arrivò nel 2005, dopo 10 anni di movimento e manifestazioni, con un crescendo di proteste popolari culminata l’ 8 dicembre nell’occupazione e parziale distruzione del cantiere di Venaus. I lavori furono congelati e fu istituito dal governo Berlusconi l’Osservatorio, incaricato di seguire e monitorare l’intera opera suggerendo eventuali modifiche. Eventualità effettivamente capitata in due occasioni.
La resa del Prc e l’arrivo dei 5Stelle. Il movimento No Tav era allora appoggiato essenzialmente dalle forze politiche della sinistra radicale: Rifondazione, Pdci e Verdi. Nello stesso 2006 si ritrovarono al governo con Prodi premier. Nel febbraio 2007, per slavare il governo, accettarono i 12 punti proposti da Prodi, ammainando le bandiere nei presidi No Tav pur continuando ad appoggiare di fatto il movimento. Dal 2008 in poi a sostenere i movimenti della Val Susa sono stati soprattutto e sempre più i 5S. La mobilitazione contro l’Alta velocità non è stato uno degli elementi fondativi del movimento: ne è stato il cuore a pari merito con la retorica anti casta. I 5S sono stati protagonisti, con gli abitanti della Valle, delle grandi mobilitazioni del 2011- 2012, seguite al tentativo di sgombrare i presidi e sfociate spesso in scontri con la polizia. Quando negli anni del governo Renzi sono riprese le trattative con la Francia che hanno portato all’accordo del 2016, integrativo di quello siglato dal governo Monti nel 2012, il Movimento era la principale e quasi unica sponda politica dei No Tav. Anno dopo anno, però, le cose hanno assunto connotati diversi da quelli originari. Il sì o il no alla Tav ha smesso di essere essenzialmente una questione di convenienza o svantaggio e di rischi per la salute.
Mondi alternativi. Quel treno è diventato una bandiera: la linea di confine tra il partito delle grandi opere e quello dello "sviluppo sostenibile", il vessillo tra due modelli alternativi di sviluppo del Paese. L’entrata in campo a bandiere spiegate dei 5S, allora ancora movimento della decrescita felice, ha esasperato ulteriormente la contrapposizione rendendola ideologica e fondamentalista. Il conflitto tra una scelta imposta dal governo centrale e il diritto all’autodeterminazione dei cittadini della valle ha ampliato ulteriormente il campo di battaglia. Il Tav ha smesso di essere un treno che, nella migliore delle ipotesi, viaggerà per la prima volta nel 2030. E’ diventato il simbolo di due mondi alternativi. E’ difficile immaginare che un conflitto simile possa essere risolto dallo scarno video di Giuseppe Conte. Ma i prossimi atti potrebbero essere molto più drammatici di una querelle parlamentare.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 24 luglio 2019. L'annuncio del premier Conte che dà il via libera alle gare d' appalto per il Tav Torino-Lione è la più cocente sconfitta mai subìta dai 5Stelle in dieci anni di vita. Molto peggio dei rovesci elettorali alle Europee del 2014 e del 26 maggio scorso. Molto peggio del voto suicida per salvare Salvini dal processo Diciotti. Perchè il Movimento era No Tav ancor prima di nascere, quando Beppe Grillo già negli anni 90 sposò la sacrosanta battaglia del popolo della Val Susa contro l'opera pubblica più demenziale, anacronistica, inquinante, dannosa e costosa d' Europa. Ma, se fossero in ballo solo le sorti del M5S , potremmo allegramente infischiarcene. Qui sono in ballo una montagna di soldi pubblici; la sopravvivenza di quella Valle martoriata e militarizzata da 20 anni di cantieri "esplorativi"; e una questione di principio: la tutela dell'interesse nazionale contro gli sperperi in opere inutili, che questo governo aveva giustamente affrontato con l'analisi costi-benefici di un gruppo di esperti, ottenendone una stroncatura senz'appello: valore netto negativo tra i 6,1 e i 6,9 miliardi, anche considerando i fondi già usati ed eventuali, improbabili spese aggiuntive in penali e ripristino dei luoghi. Ora quel metodo viene platealmente disatteso, in nome di presunti aumenti dei fondi Ue (modesti e tutti da verificare) e di una presunta urgenza di decidere subito ciò che i nostri compagni di sventura seguitano a rinviare alle calende greche (l' Ue non ha stanziato neppure il 10% del dovuto e la Francia non ha messo a bilancio un euro, rinviando al 2038 le opere di collegamento). Le difficoltà del fronte No Tav, che in Parlamento può contare solo sul M5S , erano stranote dinanzi allo strabordante Partito degli Affari, che abbraccia Lega, Pd, FI e FdI. Ma c' è modo e modo di perdere una partita così cruciale. Anche senza aprire una crisi di governo che porterebbe al voto e poi al trasloco di Salvini dal Viminale a Palazzo Chigi, i 5Stelle avrebbero potuto sostituire il vertice di Telt (la società italo-francese che vuol bandire le gare) per rinviare tutto a quando anche Parigi e Bruxelles avranno tirato fuori i soldi. Cioè a mai. E poi sfidare Salvini a far cadere il governo: probabilmente il Tav sarebbe finito sul binario morto. Ora, persa per persa, portino almeno la questione in Parlamento, con un ddl per revocare il trattato italo-francese. Così gli italiani saprebbero chi vuole sprecare i loro soldi e chi usarli per opere davvero utili e urgenti. Sarebbe sempre una sconfitta, ma onorevole e trasparente. Nascondersi dietro a Conte, capo di un governo a maggioranza M5S , è come perdere la partita senza neppure giocarla.
Sì Tav, sì Tap, sì Ilva: così, in un anno, il M5S ha fallito le sue battaglie-simbolo. Ora che è al governo il Movimento si è scontrato con la pragmatica realtà dei fatti, che non tiene conto delle promesse da propaganda elettorale. Charlotte Matteini il 24 Luglio 2019 su TPI.
Sì Tav, sì Tap, sì Ilva: così, in un anno, il M5S ha fallito le sue battaglie-simbolo. Anche il baluardo No Tav è crollato. Il premier Conte ha annunciato che a decidere sull’Alta velocità Torino-Lione sarà il parlamento, un parlamento in cui al momento sussiste una granitica maggioranza trasversale favorevole all’opera. Un brutto colpo per il Movimento 5 Stelle, che per anni ha fatto del No Tav uno degli intoccabili baluardi della propria piattaforma ideologica. “Noi restiamo per il No Tav e voteremo no in Parlamento”, si è affrettato a dichiarare Di Maio su Facebook. La presa di posizione non ha però sortito grandi effetti, a giudicare dalle decine e decine di commenti negativi piovuti sotto al post.
Tav, Ilva e Tap. No Tav, No Ilva e No Tap sono stati, indiscutibilmente, gli argomenti principe della campagna elettorale delle scorse politiche. Esattamente come il No Ilva e No Tap, ma anche il no all’immunità parlamentare e il vincolo del doppio mandato, anche il No Tav si è scontrato con la pragmatica realtà dei fatti, che non tiene conto delle promesse da propaganda elettorale. Quello della Tav è solo l’ennesimo baluardo a 5 Stelle caduto sotto i colpi dell’alleanza politica con la Lega di Matteo Salvini e della realpolitk. “La blocchiamo in due settimane”, disse della Tap Alessandro Di Battista in campagna elettorale. Sappiamo com’è finita e quali strascichi ha portato con sé la mancata promessa. Sulla Tav, il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli solo pochi mesi fa aveva dato per certa la dipartita del progetto. Dopo l’analisi costi-benefici, con l’unico parere contrario dell’ingegner Coppola, per il Movimento 5 Stelle la Tav era morta e sepolta. A distanza di pochi mesi la ritroviamo però viva e vegeta, risorta come un’araba fenice. Anche per l’Ilva di Taranto il Movimento aveva promesso la chiusura dello stabilimento in campagna elettorale. Una volta al governo, dopo un travagliato percorso e un’altrettanta travagliata trattativa con Arcelor Mittal, ha firmato l’accordo per il mantenimento dell’impianto, facendo infuriare i tarantini che avevano votato M5S proprio sulla base di quella promessa.
Mandato zero e immunità parlamentare. E uno, e due, e tre. I baluardi elettorali del Movimento 5 Stelle si sono sciolti come neve al sole nel giro di pochi mesi. La stessa fine hanno fatto altri due principi cardine del M5S: il vincolo del doppio mandato e l’immunità parlamentare. Nel primo caso, proprio ieri Di Maio ha annunciato che per gli eletti in consiglio comunale la regola dei due mandati massimi non varrà, ci sarà il “mandato zero” per dare la possibilità ai più esperti di approdare in ruoli di maggior spessore senza però rinunciare ai due mandati concessi da statuto. E anche il no all’immunità parlamentare per evitare i processi è ormai un vecchio ricordo sepolto in fondo al cassetto dopo il salvataggio di Salvini dal processo per il caso Diciotti e il diniego concesso per salvare la senatrice Paola Taverna da un processo per diffamazione. Nel giro di un solo anno, il Movimento 5 Stelle al governo ha detto addio a molteplici baluardi elettorali senza che vi fossero reali giustificazioni a supporto, se non la convenienza politica del momento. Per lo zoccolo duro dell’elettorato a 5 stelle questi baluardi erano essenziali. La domanda sorge spontanea: che cosa accadrà ora al già compromesso e asfittico consenso elettorale del Movimento?
Charlotte Matteini. Nata e cresciuta a Milano. Ho una laurea in scienze della comunicazione e mi occupo di politica dal 2011. Ho lavorato a Il Giorno, Tgcom24, Fanpage e Open. Collaboro con TPI dal 2019.
I No-Tav sono costati più dello scavo. 146 milioni di euro. E' il costo della sicurezza del cantiere della Torino-Lione. Una cifra più alta di quella spesa per i lavori. Giorgio Sturlese Tosi l'8 luglio 2019 su Panorama. «Un inutile sperpero di denaro pubblico». Peggio: «Un colossale spreco di soldi». Da qualche lustro, i trinariciuti attivisti sobillano la rivolta contro l’alta velocità tra Torino e Lione. Ovvero: la madre degli sciali. E invece proprio loro, i rabbiosi e morigerati No Tav, ci sono già costati più della stessa Tav. Soldi pubblici, chiaramente. Da una parte, si staglia la folle spesa per sorvegliare il cantiere di Chiomonte e i danni provocati dagli antagonisti. Conto finale: 146 milioni di euro. Dall’altra, ci sono i 143 milioni, al netto degli oneri di sicurezza causati dai ribelli, serviti per scavare sette chilometri di galleria geognostica. Lavori preparatori. Perché del famigerato tunnel di base nel governo si continua a discettare: Lega favorevolissima, Cinque stelle contrarissimi. Nel mentre, giunge l’eterogenesi: il prezzo delle contestazioni ha già superato quello dell’opera avversata. Centoquarantasei milioni di euro: stimati per difetto. Che Panorama ha calcolato dopo aver incrociato plurime fonti: numeri ufficiali, studi universitari, dati ministeriali e prefettizi. Oltre che i consuntivi di Telt, società pubblica italo-francese incaricata dei lavori. Il risultato è quell’iperbolica cifra. Confermata pure dai superesperti dell’Università Bocconi di Milano. Conclusione: gran parte del fenomenale aggravio nasce dall’aver dovuto trasformare Chiomonte in un fortilizio. Il cantiere viene inaugurato a metà 2011. Centri sociali e militanti armati partono all’attacco. Pochi mesi dopo, quei sette ettari di vigne e boschi diventano «area strategica d’interesse nazionale». Ossia: una base militare, come quelle Medio Oriente. E nel 2012, quando si comincia a scavare il tunnel esplorativo, la guerriglia s’infittisce. Come previsto. Quasi 200 assalti, conteggia l’Osservatorio per la Torino-Lione: mortai artigianali, bombe carta, pietre, razzi, ordigni, molotov. Assedi furibondi. Bollettino finale: 462 feriti tra le forze dell’ordine, un migliaio di denunce e oltre cento arresti. Un’incursione dopo l’altra, lo scavo termina nel 2017. E, un anno fa, i 170 operai e tecnici smettono di lavorare. La zona, però, resta un’inespugnabile piazzaforte. Perché, anche se la fresa ha finito di bucare la montagna, i rivoluzionari rimangono in agguato. Lo scorso febbraio la visita del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, viene salutata da usuali tafferugli e contestazioni. Intanto, il vicepremier ricorda: «Per presidiare quest’opera abbiamo impiegato decine di migliaia di uomini». Già: una sorveglianza bellica. Polizia, carabinieri, esercito e guardia di finanza: da 200 a 500 militari al giorno. «Almeno due per operaio» informa Paolo Foietta, presidente dell’Osservatorio. E nell’altro cantiere della Tav aperto sul versante francese? «Non c’è nemmeno un agente». Solo qualche guardia giurata. Alza la sbarra, saluta cordialmente, si rimette a far cruciverba. L’area di Saint-Jean-de-Maurienne è il triplo quella italiana. I lavori in corso valgono dieci volte quelli nella Val di Susa. Eppure, mentre noi ci armiamo fino ai denti, Oltralpe ricevono festanti scolaresche.
Così, eccoci a Chiomonte. S’imbocca una stradina dalla statale. I tornanti sono decorati da arcigne e bellicose scritte, fino al primo posto di blocco: cancelli, barriere di filo spinato, camionette. Da un gabbiotto escono due soldati. Check point: documenti, registrazione dell’auto, radio che gracchiano. Via libera provvisorio. Dopo qualche centinaio di metri, spunta l’ennesimo varco: quello che porta al tunnel. Nuovo alt. Lunghi controlli. Mezzi blindati che vanno e vengono. «Procedere prego». S’arriva a una piazzola. E, infine, alla galleria. C’è una ruspa e qualche operaio. Basta però gettare lo sguardo sopra lo scavo per scorgere, oltre il filo spinato, le bandiere dei rivoltosi. Una delle tante vedette nemiche. «Quelle da cui lanciano razzi, bottiglie e bulloni» delucida il sorvegliante. Insomma: lo scavo è finito da tempo. Ma l’area è ancora in assetto marziale: 24 su 24. Da più di otto anni, le forze dell’ordine proteggono il cantiere. Quanto c’è costato, solo da maggio 2011 a luglio 2014, questo massiccio dispiego? Quasi 36 milioni. Divisi tra: personale, indennità, mezzi, pasti, pernottamenti, scorte, investigazioni e processi. La stima è di uno studio della Bocconi di Milano, curato da Lanfranco Senn. Ma altri cinque anni di strenuo controllo del sito obbligano ad aggiornare il calcolo a 90 milioni di euro. «Una stima addirittura prudente» ratifica Roberto Zucchetti, collaboratore della ricerca bocconiana e massimo esperto di Tav nell’ateneo milanese. «Negli ultimi anni» continua l’economista «le violenze sono diminuite, ma purtroppo le esigenze di sicurezza sono rimaste immutate». Lievitano invece le spese giudiziarie, servite per istruire e mandare a sentenza i procedimenti sulle devastazioni. Come il celeberrimo maxi processo di Torino. Che, in appello, ha portato alla condanna di 30 esponenti del movimento: quasi 120 anni di carcere. Un anno fa la Cassazione ha però annullato tutto. Si riparte da zero. Tra i costi per la sicurezza, ci sono pure quelli sostenuti da Telt: recinzioni in muratura, filo spinato speciale d’importazione israeliana, control-room da film bellico, sale operative. Per un totale che ha raggiunto, rivela la società, 40 milioni di euro. Insomma: dal 2011 a oggi, per la scure antagonista, sono già stati impiegati 130 milioni di euro. Conta parziale, a cui vanno aggiunte le spese indirette. Come i mancati ricavi turistici. La Val di Susa è rimasta a lungo ostaggio dei violenti. Fino al 2014, i mancati incassi ammontavano a quasi dieci milioni di euro. «Ma pure negli anni successivi c’è stata una forte ricaduta negativa. Solo adesso la situazione comincia a normalizzarsi» spiega Patrizia Ferrarini, presidente della Confcommercio di Susa e titolare dell’Hotel Napoleon. Il saldo definitivo, sostengono le associazioni locali, è dunque di almeno 13 milioni di euro. A cui bisogna sommare un altro milione: i ricavi persi da Sitaf, società mista che controlla la A32 e il traforo del Frejus. Ha chiesto i danni per una trentina di blocchi autostradali organizzati dai facinorosi. Che hanno paralizzato la viabilità e impaurito i vacanzieri. Poi ci sono i costi sanitari, i giorni di lavoro persi, i danni alle imprese del territorio: l’ennesimo milione andato in fumo. Senza considerare le varie ed eventuali. Piero Nurisso, sindaco di Gravere e presidente dell’Unione montana Alta Valle di Susa, rincara: «Sono stati anni disastrosi per la nostra economia. Con un danno d’immagine incalcolabile. Perfino il valore degli immobili, complice la crisi, è crollato. Ora la speranza sono i nuovi cantieri, che porterebbero sul territorio lavoro e risorse». Ecco dunque il congruo lascito degli indomiti oppositori alle grandi opere: 146 milioni di euro. Tanto ci sono costate le furibonde battaglie dei nuclei armati antiprogressisti, già fomentati da grillini e sinistra radicale. Tutti intrepidi rivoluzionari a spese degli altri.
Tav: costi, numeri e struttura della ferrovia Torino-Lione. La tratta principale costerà 8,6 miliardi di euro. Secondo alcune ricostruzioni, fermare la ferrovia potrebbe costare 2 miliardi di euro, mentre il movimento No Tav e le associazioni ambientaliste sostengono che nessuna penale sarebbe dovuta. Il Fatto Quotidiano. Circa 8,6 miliardi di euro. È questo il costo della tratta principale del Tav a cui il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è deciso ora a dare il via libera. La nuova ferrovia Torino-Lione per il trasporto di merci e persone è lunga 270 chilometri ed è l’anello centrale del Corridoio Mediterraneo, uno dei 9 assi della rete di trasporto europea TEN-T. La sezione principale, quella transfrontaliera – 65 chilometri tra Susa, in Italia, e Saint-Jean-de Maurienne, in Francia – è già in costruzione cono 800 persone al lavoro.
Il costo dell’opera – A quantificare l’esborso economico necessario al completamento della rete è stata la società internazionale Tractebel Engineering-Tuc Rail: il 40% dell’importo è cofinanziato dall’Unione Europea, la quota restante è a carico di Italia (35%) e Francia (25%). Secondo l’analisi costi-benefici, prevista dal contratto di governo e affidata dal ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, a una squadra di cinque esperti capitanati dall’economista Marco Ponti, il Tav avrebbe un effetto negativo (sbilancio tra costi-benefici) tra i 5,7 miliardi e gli 8 miliardi di euro.
Le eventuali penali – Fino a oggi, in studi e progetti, sono stati investiti circa 1,5 miliardi di euro. In diretta Giuseppe Conte ha dichiarato che “alla luce degli investimenti comunitari, non realizzare il Tav costerebbe più che completarlo”: secondo alcune ricostruzioni fermare la ferrovia Torino-Lione potrebbe costare, tra penali e risarcimenti, 2 miliardi di euro. Il movimento No Tav e le associazioni ambientaliste sostengono invece che nessuna penale sarebbe dovuta.
I lavoratori impiegati – Delle 800 persone che attualmente lavorano all’opera, 530 sono impegnate nei cantieri e 250 in società di servizi e ingegneria. Nel picco dell’attività – secondo Telt – saranno 4.000 i lavoratori diretti coinvolti, spalmati però in dieci anni. Sempre secondo la società, saranno altrettanti i lavoratori generati dall’indotto: ma l’effetto sul lungo periodo non è definibile così precisamente, basandosi per lo più su stime. L’affidamento degli appalti è previsto entro il 2019, per un importo di 5,5 miliardi. I lavori sono organizzati in 81 bandi di gara distribuiti su 12 cantieri operativi: nove per i lavori dell’attraversamento alpino, due per la valorizzazione dei materiali di scavi, in Italia e in Francia, e uno per gli impianti tecnologici e la sicurezza. Quarantacinque gare riguardano le lavorazioni civili, 36 i servizi di ingegneria.
La struttura della linea ferroviaria – La realizzazione dell’opera e la successiva gestione sono state affidate alla società Telt. L’iter approvativo si è concluso nel marzo 2018 quando il Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, ha detto sì alla variante dei cantieri sul versante italiano, che prevede la partenza dei lavori principali dell’opera a partire da Chiomonte anziché da Susa. Quasi il 90% della tratta in costruzione è in galleria, i 57,5 km del cosiddetto “tunnel della discordia”, una doppia canna tra le stazioni di Susa e Saint-Jean-de Maurienne, consente di annullare il dislivello della vecchia Torino-Lione facendone una linea in pianura. A oggi è stato scavato il 14% delle gallerie previste e a Saint-Martin-La-Porte si è superato il 55% dei 9 km della galleria geognostica, ma già in asse e nel diametro del tunnel di base.
Tav, col sì di Conte persa la battaglia di Grillo. Shock e rabbia tra i 5 Stelle. La battaglia parlamentare servirà solo per rassicurare la base e accusare la Lega di votare con il Pd. Lo scambio con la riforma delle Autonomie. Toninelli sotto accusa. Alessandro Trocino il 24 luglio 2019. Uno shock. Cade l’ultimo dei baluardi identitari, l’ultima delle promesse. Il Movimento è nudo. L’inner circle di Luigi Di Maio già sapeva da tempo. Ma gli altri ancora ci speravano o forse non riuscivano a crederci. La giunta Appendino rischia di deragliare. E traballa parte della classe dirigente dei 5 Stelle, da sempre contraria alla Tav, con toni sprezzanti: tra loro ci sono Beppe Grillo, il fondatore e garante, Alessandro Di Battista, il globetrotter della politica, Roberto Fico, l’oppositore istituzionale. Tutti attoniti, tutti infuriati e impotenti. Nessuno parla ufficialmente, ma chi ha sentito Grillo lo descrive gelido: «Ormai non è più il mio Movimento, sono riusciti a cambiarci». Ma dai 5 Stelle arriva una nota ufficiale che smentisce i dissapori: il fondatore si è sentito con Di Maio e ha dato pieno sostegno alla linea del Movimento.
Il ruolo del premier. Il pannicello caldo, l’escamotage trovato per provare a mantenere una coerenza perduta da tempo, è la battaglia parlamentare. I 5 Stelle sanno bene che è una battaglia finta, perché tutto il Parlamento è per il sì. È un modo per salvarsi l’anima, per poter dire ai militanti che loro ci hanno provato fino in fondo. Ma non una voce si alza contro Conte. Il premier doveva mediare, trovare un compromesso, una soluzione, un guizzo. E invece ha ceduto di schianto, per la gioia della Lega. Non poteva fare altro, naturalmente, a causa di vincoli e convenienze economiche che erano note da tempo. Ma il fatto che nessuno nel Movimento ora lo accusi, dopo averlo tirato per la giacca per mesi, è il segno tangibile che l’esito era scontato.
Il ministro delle Infrastrutture. Si è esposto molto, moltissimo, sulla Tav il ministro Danilo Toninelli. Chi pensava e pensa che la sua sorte sia segnata, si sbaglia, almeno per ora. La Lega continua a chiederne le dimissioni. Ma è un gioco delle parti. Perché i 5 Stelle non possono concedersi di perdere anche lui, dopo aver perso la battaglia della Tav. E l’encomio pubblico di Conte è il segnale del patto. Lui stesso fa sapere la «netta contrarietà» all’opera, si dice «soddisfatto» per l’attestato di stima del premier e soprattutto rivendica il successo dei 3 miliardi che, dicono fonti del Mit, «ci consentiranno di avere risorse fresche per altre opere realmente utili». Non proprio quello che dice Di Maio, secondo il quale invece «parecchi soldi degli italiani andranno ai francesi». Naturalmente, se la Lega chiedesse ufficialmente la testa di Toninelli, si andrebbe a discutere, in un rimpasto però complicato.
Airola in forse. Ma sono dettagli. Il governo, che sembrava sull’orlo di precipitare, paradossalmente potrebbe trovare nuova linfa da questo sì obbligato. Perché la voracità di Salvini potrebbe momentaneamente placarsi e concedere qualche margine al Movimento. In particolare la moneta di scambio potrebbe essere la riforma delle autonomie, sulla quale la Lega aveva minacciato sfracelli e che potrebbe finire invece in un compromesso che accontenterebbe il Movimento. Con la regia, ancora una volta, di Conte, che così dimostrerebbe la sua «equidistanza». Non solo. La «finta» battaglia parlamentare Di Maio servirà per inscenare una vera guerriglia mediatica. Accusando, come si è cominciato già a fare, la Lega di votare con il Pd. Quanto alle truppe, il realismo (e la voglia di stare attaccati alle poltrone) molto probabilmente impedirà emorragie. Anche la truppa dei piemontesi dovrebbe restare al proprio posto.
Beppe Grillo, sfogo contro Giuseppe Conte: "Dopo Tap, trivelle, Ilva tradire la Tav è l'ultimo tassello". Libero Quotidiano il 24 Luglio 2019. La Tav ha distrutto un Movimento 5 Stelle che già doveva fare i conti con la sconfitta alle europee e la discesa continua ai sondaggi. Dopo la decisione del premier Giuseppe Conte di sostenere la Torino-Lione, da sempre baluardo leghista, i grillini hanno ricevuto duri attacchi, soprattutto sul blog delle Stelle, il portale che ha raccolto l'eredità del primo blog di Grillo. "Di solito non sono volgare, ma ora mi viene proprio spontaneo un bel 'Ma vaffa…!'...", si legge in uno dei tanti commenti da parte degli attivisti. Poi ancora: "Se date il benestare alla più stupida opera del secolo (alla pari del salasso del Mose ed ai costosi progetti per il lo stretto di Messina) che è il Tav siete finiti", scrive un altro, mentre c'è anche chi propone alternative: "Non rimane che sperare in un m5s originale magari a guida Di Battista". Lo stesso Beppe Grillo sembra non aver preso bene la questione. Fonti a lui vicine lo descrivono furente: "Dopo Tap, trivelle, Ilva - lo sfogo del fondatore del Movimento con alcune persone fidate e riportato all'Adnkronos - tradire la Tav è l'ultimo tassello...". Il tutto nonostante la strada del voto parlamentare annunciata da Di Maio: "La parola passa alle Camere, noi siamo per il no, è un'opera dannosa. Media, giornali, apparati, tutto il sistema schierato a favore. Non noi". Non è solo il senatore Alberto Airola ad insorgere dopo la mossa del presidente del Consiglio. Sia a Montecitorio che a palazzo Madama il rischio è che ci possano essere altre defezioni deleterie nei gruppi parlamentari. Ma il fondatore del Movimento sembra non aver apprezzato anche un'altra questione: quella del mandato zero proposta dal vicepremier pentastellato. "Il mandato ora in corso è il primo di un lungo viaggio... Ma di andarmene a casa non ho proprio il coraggio...'", scrive su Facebook e Twitter parafrasando il testo della canzone "Se mi lasci non vale", nell'interpretazione di Julio Iglesias, di cui pubblica anche il video.
CINQUE STELLE ZERO TITULI. L'Inkiesta 24 luglio 2019. La Tav si farà: per i Cinque Stelle questa è davvero la legislatura zero. La Tav adesso si fa, il governo ha detto sì alla Tap, la debacle su Alitalia, la resa (con disastro) su Ilva: non c’è una battaglia identitaria dei Cinque Stelle che non si sia trasformata in una sconfitta. Cinque Stelle, zero tituli. “Sono intervenuti fatti nuovi di cui dobbiamo tenere conto”. Così Giuseppe Conte, con una lunga diretta Facebook ha detto sì alla Tav, chiudendo nel modo più prevedibile possibile lo stucchevole balletto tra Lega e Cinque Stelle, i primi da sempre favorevoli all’opera, i secondi da sempre contrari. Come d’uso nel governo gialloverde, anche questa decisione assume toni farseschi, visto che arriva nei giorni successivi alla defenestrazione di Pierluigi Coppola, l’unico esperto del ministero dei trasporti favorevole all’opera, e che a disconoscerla, in contemporanea, sia il leader dei Cinque Stelle Luigi Di Maio, capo politico dello stesso Conte, se non ci ricordiamo male, che chiede un voto in Parlamento utile solo a marcare la contrarietà dei Cinque Stelle all’opera, e a salvare la faccia con la furia dei Comitati No Tav. Eppure lo sapevano anche i muri che sarebbe finita così. Che si sarebbe procastinata la decisione in un momento privo di scadenze elettorali, dopo le europee e le regionali in Piemonte. Non fosse altro per il fatto che è sempre andata così, da quando i Cinque Stelle sono al governo. Ricordate l’Ilva, vero? Era cominciata con Di Maio che voleva riaprire l’accordo tra Arcelor Mittal e il ministero dello sviluppo economico, a dire del ministro troppo vantaggioso per il colosso lussemburghese. È finita con 1400 operai in cassa integrazione, nonostante gli accordi, e il ministero inerme, capace soltanto di prenderne atto. E il Tap, il gasdotto transadriatico? Doveva essere madre di tutte le battaglie per salvare la spiaggia di San Foca e qualche decina di ulivi, contro il partito degli idrocarburi, delle trivelle e dei servi degli interessi amerikani. È finita dopo la prima visita di Conte a Trump: il gasdotto si deve fare e tanti saluti ai manifestanti. Non pare che su Rousseau si sia votato per decidere la bontà di questa decisione, ma forse ci siamo distratti noi. La stessa sorte sta toccando alla proposta Daga sull’acqua pubblica, altra stella cadente dei Cinque Stelle, che sta morendo per l’opposizione della Lega - delle 250 proposte di modifiche in commissione alla Camera, molte, le più pesanti, sono proprio quelle dell’alleato di governo - e che, non dubitiamo, sarà la prossima trincea a cadere, sacrificata sull’altare della legge di bilancio, o di una mediazione sull’autonomia leghista, o banalmente alla prossima minaccia di crisi di Matteo Salvini. Altro giro, altra debacle. Per non parlare, ovviamente, dello psicodramma con Autostrade e il Gruppo Atlantia. Cui per mesi si è minacciato di togliere la concessione sulla tratta Genova - Ventimiglia dopo il crollo del ponte Morandi e che alla fine è stata fatta partecipare con tutti gli onori e i salamelecchi del caso nel salvataggio di Alitalia, di cui il gruppo dei Benetton è attore determinante. Da furfanti a salvatori della patria in meno di un giorno. Se non è record mondiale, poco ci manca. Per chi ci credeva, nei Cinque Stelle, il quadro è desolante: non c’è una singola battaglia identitaria in cui Di Maio e soci sono riusciti ad averla vinta contro l’alleato leghista. Per chi ci credeva, nei Cinque Stelle, il quadro è desolante: non c’è una singola battaglia identitaria in cui Di Maio e soci sono riusciti ad averla vinta contro l’alleato leghista. Naturale e fisiologico, se si pensa alla squadra di dilettanti che il Movimento ha portato al governo, del tutto impreparata a reggere la forza d’urto di un alleato che bazzica i palazzi del potere da un ventennio abbondante. Incredibile, invece, se pensiamo che il Movimento ha in mano un terzo del Parlamento, la presidenza del consiglio dei ministri e tutti dicasteri chiave per combattere e vincere ognuna delle battaglie in questione, dallo sviluppo economico all’ambiente, dai trasporti alla salute (do you remember, no vax?). Altro che mandato zero. Qui siamo proprio alla legislatura zero. Zero tituli.
· Lo spreco degli ammortizzatori sociali per foraggiare l’elettorato comunista.
Il reddito di cittadinanza è uno spreco colossale. Deborah Bergamini il 19 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il 30 marzo di quest’anno, anche se sembra trascorso molto più tempo, è entrato in vigore il reddito di cittadinanza, ovvero quella misura miracolosa (sì, per far prendere voti al M5S al Sud) che poco più di un anno fa, ai tempi di un’altra manovra, quella del governo Lega-5Stelle, consentì all’allora ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio di proclamare ufficialmente l’abolizione della povertà. E di essere anche preso sul serio. Per i pentastellati in effetti fu un grandissimo successo politico, forse il più grande, perché diventava realtà uno dei cardini del loro programma, e quello più immaginifico – se escludiamo l’intenzione più volte manifestata da Beppe Grillo di trasformare in un parco lo stabilimento dell’Ilva di Taranto. Come per tutte le cose, arriva ad un certo punto il tempo dei bilanci. E a quasi nove mesi dall’entrata in vigore del reddito ammazzapovertà è il caso di fare qualche piccolo conto. Un conto impietoso, perché facendo una semplice operazione di aritmetica realizziamo che creare un solo posto di lavoro con il reddito di cittadinanza è costato ben 500.000€ ai contribuenti italiani, che è l’equivalente di ciò che si spenderebbe per assumere direttamente 20 persone o per farne assumere, con incentivi e decontribuzioni, almeno 50. Pochi numeri: oggi, a fronte di 1 milione di beneficiari del reddito, coloro che hanno trovato lavoro sono solo 18.000. Meno di 2 persone su 100. Si sono spesi 9 miliardi di euro per 18.000 nuovi posti di lavoro, appunto mezzo milione di euro ciascuno. Ma se con la cifra impiegata per trovare lavoro ad una persona si fossero pagati 20 stipendi da 25.000€ l’anno non sarebbe stato meglio? Se si fossero elargiti incentivi o decontribuzioni per l’assunzione di 50 persone non sarebbe stato meglio? Se si fossero investite quelle risorse per insegnare un lavoro alle persone in difficoltà, alle persone che hanno bisogno di riqualificarsi, non sarebbe stato meglio? Al netto delle ideologie e delle visioni utopiche, la realtà che questi numeri ci mostrano è molto cruda: trovare lavoro con il reddito di cittadinanza resta più difficile che prendere un numero pieno alla roulette. Le persone che avevano dato fiducia alla proposta grillina si stanno rendendo conto che il reddito di cittadinanza è un fallimento. La misura di politica economica dei pentastellati, quella che avrebbe dovuto segnare il cambio di passo sulle politiche attive dell’impiego, sta dimostrando che con le politiche assistenzialiste non si creano posti di lavoro e non si abolisce la povertà. E infatti gli italiani in stato di povertà assoluta sono circa 5 milioni. Se ci fosse un po’ di coraggio, si guarderebbero con attenzione questi risultati e si farebbe marcia indietro, ammettendo il macroscopico errore e decidendo di destinare le risorse del reddito di cittadinanza verso l’abbassamento della pressione fiscale e in particolare del costo del lavoro.
Il Costo delle marchette elettorali Reddito di cittadinanza-quota 100, pensioni e sussidi costeranno allo Stato 133 mld in tre anni. Ben 133 miliardi nel triennio: il costo di reddito di cittadinanza, pensioni e ammortizzatori sociali previsti dalla legge di Bilancio graverà sulle casse dello Stato (fino al 2021) per molto più di 100 miliardi. A certificarlo è il Def varato dal governo e il problema, ora, è quello di trovare le risorse per ammortizzare queste spese. Stefano Rizzuti il 12 aprile 2019 su Fan Page. Reddito di cittadinanza e quota 100 costeranno caro alle casse dello Stato: un impatto, in tre anni, da 133 miliardi di euro. Maggiori spese che andranno dal 2019 al 2021 e che, a esser precisi, riguarderanno per ben 94 miliardi tre voci: pensioni, reddito di cittadinanza e ammortizzatori sociali. Come ricorda anche La Stampa, sulla base della versione definitiva del Def, il Documento di economia e finanza approvato dal Consiglio dei ministri. Sono questi i primi conti sull’impatto di spesa che avrà la legge di Bilancio varata dal governo e poi approvata dal Parlamento a fine 2018. In sostanza, la spesa per sussidi di vario tipo crescerà in tre anni di quasi cento miliardi, grazie a quanto previsto dalla manovra. Il vero problema, però, è che questi costi vengono coperti solo in parte – e a partire dal 2020 – con l’aumento dell’Iva. Che il governo vuole invece evitare a tutti i costi, almeno stando alle dichiarazioni dei suoi principali esponenti. Trovare le risorse non sarà facile. Lo ha detto anche il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, secondo cui servono “coperture di notevole entità”. Le strade percorribili, secondo il quotidiano torinese, ora sono tre: la prima è, appunto, aumentare l’Iva, almeno per alcuni prodotti; la seconda è abolire il bonus degli 80 euro introdotto da Matteo Renzi; la terza è fare più deficit, ma in questo caso lo scontro con la Commissione europea sarà inevitabile. Andando a guardare le singole voci, per quest’anno lavoro e pensioni richiederanno una spesa aggiuntiva di 24 miliardi, che saliranno a 35 nel 2020 e nel 2021. E non basta puntare tutto sulla revisione di spesa per rientrare di questi costi. Basti pensare che il governo stima di recuperare dai tagli solo 2 miliardi quest’anno, 5 nel 2020 e 8 nel 2021. Tra l’altro va sottolineato che sulla base dell’accordo con la Commissione europea i primi due miliardi andrebbero trovati già entro luglio. E per farlo le ipotesi sono quelle di tagliare gli incentivi alle imprese, i fondi per la mobilità o le spese relative alla Difesa, all’università e alla cooperazione. La riduzione della spesa è ancora più complicata se si pensa che un primo tentativo è già fallito: l’idea di risparmiare un miliardo tra il ministero del Lavoro, quello dell’Agricoltura, la Corte dei conti e i carabinieri è già naufragata. E altro problema non di poco conto riguarda il piano di dismissioni da 18 miliardi: siamo ad aprile e ancora non c’è nulla di concreto in programma. I tempi stringono. Infine, c’è un altro fattore che allarma il ministero dell’Economia: la crescita. La stima riportata nel Def, nella migliore delle ipotesi, è allo 0,2%. Ma nello stesso documento si dice, in sostanza, che questa cifra è esposta a rischi e i fattori che potrebbero farla scendere sono parecchi.
Ammortizzatori Sociali, Ecco gli Importi di Cig e Naspi per il 2019. Bernardo Diaz Martedì, 29 Gennaio 2019 su Fan Page. Aggiornati dall'Inps gli importi delle prestazioni contro la disoccupazione involontaria e la cassa integrazione guadagni. Crescono leggermente gli importi degli ammortizzatori sociali nel 2019. Lo precisa l'Inps nella Circolare numero 5/2019 pubblicata ieri con la quale l'istituto provvede ad adeguare gli importi delle prestazioni di integrazione salariale in costanza di rapporto di lavoro e delle prestazioni contro la disoccupazione. Ogni anno gli importi delle prestazioni in parola devono essere rivalutati in base all'andamento dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati; dato che questa volta l'indice ha registrato un incremento dell'1,1% i valori sono stati rivisti al rialzo. A seguito del predetto incremento l'importo della cassa integrazione guadagni nel 2019 raggiunge quota 1.124,04 euro per retribuzioni superiori a 2.148,74 euro, mentre per salari inferiori alla predetta cifra l'importo sarà di 935,21 euro. I valori tengono conto della riduzione prevista dall'articolo 26 della legge 41/1986 pari al 5,84%. I trattamenti di integrazione salariale per il settore edile dovuti ad intemperie stagionali raggiungono un importo pari a 1.122,25€ e a 1.348,84 a seconda rispettivamente la retribuzione è inferiore o superiore a 2.148,74€. Questi trattamenti godono, infatti, di una maggiorazione del 20% rispetto all'integrazione salariale ordinaria. Per la Naspi, il sussidio contro la disoccupazione involontaria introdotto dal Jobs Act a partire dal 1° maggio 2015 l'importo massimo erogabile sale a 1.328,76 euro dai 1.314,3 euro precedenti. L’ammontare della Naspi si ottiene sommando gli imponibili previdenziali degli ultimi 4 anni, dividendo il risultato per le settimane di contribuzione e moltiplicando il tutto per 4,33. Nel 2019, poi, se l’importo che si ottiene è pari o inferiore a 1.221,44 euro (cd. importo soglia), l’indennità sarà il 75% di questo importo; se è superiore si aggiunge anche il 25% della differenza tra 1.221,44 e il massimale di 1.328,76 euro. Resta inteso che la Naspi diminuisce del 3% al mese a decorrere dal primo giorno del quarto mese di fruizione. Valori identici anche per la Dis-Coll, l'assegno contro la disoccupazione per i collaboratori iscritti presso la gestione separata dell'Inps che è stato stabilizzato anche nel 2019. Dal 2017 non c'è più l'indennità di mobilità ordinaria essendo stata abrogata dalla legge 92/2012. Per chi ne sta continuando a fruire si rammenta che la prestazione era agganciata al trattamento di integrazione salariale ordinaria per il primo anno (con la riduzione del 5,84%); per i periodi successivi viene pagato l'80% dell'importo lordo corrisposto nel primo anno (senza però la trattenuta del 5,84%).
Relativamente, poi, all'indennità di disoccupazione ordinaria agricola da liquidare con riferimento ai periodi di attività svolti nel corso dell'anno 2018, trovano applicazione gli importi massimi stabiliti per lo scorso anno (pari a euro 982,4 ed euro 1.180,76). Cresce poi da 586,82 a 592,97€ l'assegno per i lavoratori impegnati in attività socialmente utili.
Solidarietà settore bancario. L'Inps aggiorna anche i massimali che regolano la corresponsione dell'assegno ordinario di solidarietà e dell'assegno emergenziale nel Fondo Credito (Dm 8348/2014). L'assegno ordinario, come noto, è una prestazione di sostegno al reddito in costanza del rapporto lavorativo pari al 60% della retribuzione mensile che sarebbe spettata al lavoratore per i periodi non lavorati entro un massimale suddiviso in tre fasce articolate in funzione della retribuzione lorda mensile del beneficiario (si veda tavola). L'assegno emergenziale è, invece, una prestazione di sostegno al reddito che viene corrisposta alla cessazione del rapporto ai lavoratori in esubero, non aventi i requisiti per l’accesso alle prestazioni straordinarie erogate dal Fondo Credito ad integrazione dell'Assegno Naspi sino al raggiungimento di un determinato livello di reddito. Più precisamente nel 2019 i lavoratori con retribuzioni tabellari annue sino a 41.621 euro possono godere di una integrazione sino all'80% dell'ultimo stipendio sino ad un massimo di 2.289 euro al mese; quelli con retribuzioni tabellari superiori al predetto importo e sino al 54.763 euro l'integrazione è pari al 70% entro un massimo di 2.738 euro al mese e per le fasce superiori l'integrazione è pari al 60% dell'ultimo stipendio entro un tetto di 3.833 euro al mese. L'assegno emergenziale dura 24 mesi. Per quanto riguarda il Fondo di Credito Cooperativo (Dm 82761/2014) l'Inps ha aggiornato solo i parametri per la determinazione dell'assegno emergenziale - che risultano leggermente differenti rispetto a quelli garantiti dal Fondo credito - posto che l'assegno ordinario a carico del Fondo Credito è corrisposto negli importi previsti per le integrazioni salariali ordinarie.
Come gli esuberi Ilva inceneriranno i soldi per gli ammortizzatori social. Luigi Pereira su Startmag il 22 novembre 2019. La vicenda ex Ilva metterà a rischio l’equilibrio degli ammortizzatori sociali, con una spesa maggiore di oltre 200 milioni di euro: un incremento del 20-25% rispetto all’attuale spesa totale. Una ricerca dei consulenti del lavoro. Le risorse per gli ammortizzatori sociali traballeranno presto per gli esuberi in fieri nell’ex Ilva vista la china dei rapporti tra governo e Arcelor Mittal. Ecco tutti i dettagli. La vicenda ex Ilva potrebbe mettere a rischio l’equilibrio degli ammortizzatori sociali nel nostro Paese, con una spesa maggiore di oltre 200 milioni di euro, un incremento del 20-25% rispetto all’attuale spesa totale. E’ l’allarme che lancia una ricerca dei consulenti del lavoro presentata oggi a Roma in occasione del ‘Festival del lavoro – Anteprima 2020’. Secondo la ricerca condotta dall’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro, “la situazione occupazionale dell’acciaieria di Taranto ha visto una riduzione dell’organico operativo dai 13.800 dipendenti dell’Ilva agli attuali 10.700”. “Infatti, secondo le clausole dell’accordo fra il ministero dello Sviluppo Economico e ArcelorMittal Italia siglato a settembre 2018, 3.100 dipendenti sarebbero rimasti alle dipendenze dell’Ilva in amministrazione straordinaria, in quanto non direttamente impiegabili nel piano industriale della newco Am Investco. Ad oggi l’intesa ha generato una ingente spesa da parte dello Stato per ammortizzatori sociali al fine di permettere l’operazione di acquisto da parte di ArcelorMittal”, avverte. “In particolare, per il 2020 è prevista una spesa certa di 74,9 milioni di euro per la cassa integrazione, alla quale, in caso di un ulteriore ricorso agli ammortizzatori sociali per l’80% degli attuali dipendenti attivi a seguito del ‘dietrofront’ di ArcelorMittal, si aggiungerà una spesa di ulteriori 132,7 milioni. Nello scenario di stallo attuale della produzione, quindi, il 2020 comporterà un esborso da parte dello Stato per la protezione del reddito dei dipendenti ex-Ilva pari a 207,6 milioni di euro”, spiegano i consulenti. “Alla data odierna, in realtà, l’organico dell’ILVA in A.S. conta 2.100 dipendenti in quanto circa 1.000 lavoratori hanno aderito al piano di esodo incentivato che prevede una buonuscita di 100 mila euro lordi (77 mila netti) associati a 1 anno di cig e 2 di Naspi. Dei 2.100 addetti restanti, ben 1.800 sono in cassa integrazione e, secondo gli accordi, potranno restarci per 5 anni (fino al 2023) per poi esser licenziati e fruire dunque di 2 anni di Naspi. Per costoro, Am Investco si era impegnata ad offrire un contratto di lavoro entro il 2025. I restanti 300 addetti sono impegnati nell’attuazione del piano ambientale di bonifica”, spiegano i consulenti del lavoro. Secondo i consulenti del lavoro, “le stime di costo per le casse dello Stato, restante la situazione attuale, non sono suscettibili di cambiamenti”. “Infatti – proseguono – le probabilità per i 1.800 dipendenti in cigs lunga di avere un contratto da ArcelorMittal risultano al momento nulle. Pertanto, nel 2020 lo Stato finanzierà con 50 milioni di euro la cassa integrazione dei 1.800 dipendenti e dei 1.000 che hanno aderito all’esodo incentivato”. “Nei due anni successivi, la spesa scenderà a 49 milioni di euro – sottolineano – in quanto i sottoscrittori dell’esodo incentivato entreranno in Naspi. Am Investco Vediamo ora cosa accade ai dipendenti di ArcelorMittal (Am Investco). Per via della crisi del settore industriale, la proprietà ha richiesto e ottenuto una cassa integrazione a 0 ore per 1.400 dei 10.700 dipendenti totali. Pertanto, lo Stato ha provveduto a stanziare la somma di 25 milioni di euro per coprire lo scostamento della produzione rispetto al piano industriale previsto”.
· I Finanziamenti ai Kompagni Comunisti.
Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.
L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.
Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.
L'ultima follia dei giallorossi: "Centenario del Pci anniversario nazionale". Giorgia Meloni smaschera M5S e Pd: "La nascita del Partito comunista italiano come l'Unità d'Italia, ecco le priorità di questo governo". Luca Sablone, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Non c'è nulla da fare: il governo giallorosso continua a strizzare l'occhio al Pci. Dopo la proposta di stanziare 400mila euro per la festa del centenario, Movimento 5 Stelle e Partito democratico provano nuovamente a tendere la mano ai "compagni": è stata da poco scoperta la volontà di farlo "diventare anche anniversario nazionale". A denunciare il fatto è Giorgia Meloni, che sui propri canali social ha smascherato i piani dell'esecutivo: "La nascita del Partito comunista come l'Unità d'Italia! Ecco le priorità di questo governo". Nell'immagine pubblicata inoltre si legge: "Incredibile! Per il governo M5S/Pd il centenario del Partito comunista diventa anniversario nazionale".
"Promuovere iniziative culturali". Il tutto è testimoniato dal testo della proposta: "In occasione del centenario della fondazione del partito comunista italiano, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, alla Struttura di ammissione per gli anniversari nazionali e gli eventi sportivi di rilevanza nazionale e internazionale" si prevede l'assegnazione per gli anni 2020 e 2021 "nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente, a valere sui pertinenti capitoli di bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri e senza nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato, risorse finalizzate alla promozione di iniziative culturali e celebrative connesse a tale ricorrenza". Pochi giorni fa l'emendamento aveva già scatenato diverse polemiche. "Dicono che non ci sono soldi, e allora tassano la plastica, lo zucchero, le cartine per le sigarette, tuttavia spunta un emendamento che riesce a stanziare 400mila euro per festeggiare il centenario della nascita del Partito comunista italiano. Fatelo coi vostri soldi l’anniversario, non con i soldi degli italiani", ha tuonato Matteo Salvini. Dura è stata la presa di posizione anche da parte del leghista Calderoli: "Questi vivono non nel secolo scorso ma addirittura nel millennio scorso!". E non aveva utilizzato giri di parole per rivolgersi agli avversari politici: "Sveglia, il comunismo è finito da un pezzo ed è finito perché lo ha cancellato la storia, e non tornerà mai più!". Intanto però c'è da fare i conti con una dura realtà: "Quei poveri fessi degli italiani pagano 400mila euro per festeggiare il defunto Pci...".
Il Governo Conte regala soldi per il Partito Comunista. Nella manovra economica un emendamento concede 400 mila euro per i festeggiamenti dell'anniversario di fondazione del Pci. Maurizio Belpietro il 10 dicembre 2019 su Panorama. Mentre il governo litiga sulle tasse e ogni giorno escogita nuovi marchingegni per stangare gli italiani (una volta si parla di sugar tax, un'altra di plastic tax, un'altra ancora di Imu sulle case dei separati oppure di un'imposta sulle auto aziendali), zitti zitti i compagni sono riusciti a infilare nella manovra una clausola che regala soldi al comitato per le celebrazioni del centenario del Pci. Invece di seppellire nella memoria degli italiani la nascita di un partito che perfino nel nome si richiama al comunismo, cioè a una tendenza politica che anche il Parlamento europeo ha scelto di dichiarare fuorilegge, accostandola al fascismo e alle tragedie della storia, alcuni parlamentari hanno deciso di festeggiare il genetliaco. Ovviamente non a spese loro, facendo una colletta fra compagni, ma a spese degli italiani i quali, a prescindere dal proprio credo politico, con le loro imposte saranno costretti a finanziare le iniziative del compleanno comunista. Mostre, dibattiti e opuscoli celebrativi saranno infatti pagati per un biennio dalle casse pubbliche. Sì, perché l'emendamento che favorisce le manifestazioni in ricordo del Pci è stato presentato alla Camera da un gruppetto di nostalgici e con il beneplacito dell'esecutivo verrà approvato. Duecentomila euro saranno levati ad altri capitoli di spesa sia nel 2020 che nel 2021, anno della fondazione a Livorno del partito. In totale fanno 400.000 euro, che probabilmente non basterebbero a risollevare le sorti dell'economia nazionale, ma certo aiuterebbero.
La cosa incredibile è che quando si parla di conti pubblici, nelle pieghe del bilancio non si riescono a trovare i soldi per i terremotati, per gli esodati e pure per gli sfollati per qualche calamità naturale. A chi ha avuto la casa e i negozi sommersi dall'acqua alta a Venezia sono stati offerti gli spiccioli e in soccorso delle famiglie travolte dall'ennesimo nubifragio in Liguria sono andate le briciole. Ma per il Pci i soldi si trovano, sia mai che l'anniversario passi senza i dovuti fasti.
Meloni smaschera un’altra vergogna di Pd e M5S: «Il centenario del Pci “anniversario nazionale”». Massimo Baiocchi martedì 17 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. «In occasione del centenario del Pci, con decreto del presidente del Consiglio…». Comincia così il nuovo tentativo di dare man forte alle celebrazioni della falce e martello. Il centenario è considerato uno degli «anniversari nazionali». Che ha «rilevanza nazionale e internazionale». Quindi si prevede l’assegnazione – per gli anni 2020 e 2021 – di «risorse finalizzate alla promozione di iniziative culturali e celebrative connesse a tale ricorrenza». A denunciare la nuova incredibile mossa del governo giallorosso è Giorgia Meloni. Sui social posta una foto che smaschera la manovra di dem e Cinquestelle. Una vera e propria follia. «Dopo aver proposto l’incredibile stanziamento di quasi mezzo milione di euro per finanziare il centenario del Pci, ora Pd e M5S vogliono farlo diventare anche anniversario nazionale. La nascita del Partito comunista come l’Unità d’Italia! Ecco le priorità di questo governo…». Poi la scritta, a caratteri cubitali: «Incredibile! Per il governo M5S/Pd il centenario del Pci diventa anniversario nazionale».
Molti i commenti su facebook. «Prima o poi, ci dovranno far votare… e allora finirà tutto questo. Per intanto, annotiamo anche quest’altra trovata», scrive Aurelio G. Dura è Santina S: «Cialtroni, senza dignità, che occupano un posto non loro, insediandosi, in malafede, senza averci interpellati». Ironizza Paolo B: «Se lo mettono come festività, io andrò a lavorare. E farò pure un’ora di straordinario per dispetto». Il centenario del Pci? Per Guido A. ci vuole «solo disprezzo per una ignobile dittatura da dimenticare. Non c’è nulla da festeggiare». Annamaria C.: «Non mi stupisce! Negli anni ’70 in Italia una certa sn e alcuni sindacati festeggiavano il Capodanno con l’ora di Mosca». Guido M.: «Una ideologia che è stata condannata dalla storia e dai popoli. Un disastro ovunque. In Italia ovviamente festeggiamo». Particolarmente arrabbiata è Carmen S.: «Se vogliono spendere cosi quei soldi, che facciano pure colletta tra i loro simpatizzanti! Io le tasse le pago per avere servizi e non per vederle buttare in continuo. Inetti!».
Il Pci, la Iotti: ma quanti soldi dobbiamo spendere dimenticando le atrocità del comunismo…Francesco Storace mercoledì 11 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Un obolo annuale alla memoria del comunismo. Una volta tocca al Pci essere celebrato di tasca nostra, la volta precedente – ma si paga di qui a poco – tocca a Nilde Iotti. Nell’Italia governata dagli europeisti che poche settimane fa hanno condannato per la prima volta a Strasburgo le atrocità del comunismo, continuiamo a finanziare la memoria rossa. E oggi a Roma cominciano le “celebrazioni” della Gran Dama di Togliatti. Tra ventennale della morte e centenario della nascita, Conte uno e Conte secondo hanno messo mano al portafoglio (nostro): quest’anno e il prossimo quattrocentomila per la fondazione del Pci a Livorno, l’anno scorso per il 2019 e il 2020 duecentomila per il ricordo della signora. Seicentomila euro degli italiani.
Primo mistero, per la Iotti, non si sa chi se ne occupa. E infatti la presidente della fondazione a lei intitolata, la compagna Livia Turco, smadonna perchè il bando per spendere quei quattrini non è stato ancora pubblicato dalla presidenza del Consiglio. La fondazione Iotti ha presentato il progetto un anno fa e capofila, manco a dirlo, è l’istituto Gramsci. Ma i soldi arriveranno e chissà a chi. Alla fondazione Iotti? Bisogna chiarirlo, perché in sede parlamentare – cronaca dello scorso anno che noi non abbiamo dimenticato – furono i tecnici delle Camere a scrivere letteralmente che nella legge “non è indicato il soggetto preposto all’organizzazione delle celebrazioni“. Comunque la Turco e la signora Marisa Malagola Togliatti – figlia della coppia Togliatti-Iotti e presidente onoraria della fondazione – sono pronte con i loro progetti. Ma hanno davvero bisogno di soldi? A leggere il bilancio della fondazione – che , va riconosciuto, ci è stato mostrato con trasparenza – nel 2018 hanno speso una cifra relativa, sessantamila e rotti euro. La maggior parte dei quali – 46mila euro, dodicimila in più rispetto all’anno precedente – per volumi e soprattutto viaggi per relatori e relatrici. Che sono piuttosto numerosi. La sola Turco ha girato praticamente l’Italia e non solo nel 2018. E non essendoci più viaggi comodi per gli ex parlamentari, magari sarà stata (forse o in parte) rimborsata. Cesena, Bruxelles, Udine, Teggiano (Sa), Milano, Massa, Trapani, Viterbo, Reggio Emilia, Lecco, Arezzo, Ferrara, Nichelino (To), Avezzano, Avellino, Mestre, Balvano (Pt), Perugia, Terni e Porto Viro (Ro). E ovviamente tanti convegni a Roma. La fondazione Iotti ha un sito e una pagina Facebook con tanto di collaboratore informatico, scrivono nel bilancio. Manca qualche elemento della biografia della Iotti – ad esempio quell’iscrizione al Pnf del 5 ottobre 1942 – ma tutto sommato lo si capisce. Così come non siamo riusciti a trovare una sola parola sulle atrocità del comunismo. Quel che non si comprende è perché una fondazione che riceve diversi contributi privati debba incassarne, se avverrà realmente, anche dallo Stato. La personalità a cui è intitolata trascorse ben 50 anni da deputato, tredici dei quali addirittura da presidente. Oggi direbbero molto Casta. Nessuno si azzarda. Però rende. La fondazione spende – scrivono e non abbiamo motivo di dubitare – 65mila euro nel 2008, i ricavi ammontano a quasi 93000. Da applausi. E come hanno fatto? Raccontano di una cena all’Excelsior di Roma del 21 novembre 2018 di cui non siamo riusciti a trovare né un articolo né una sola fotografia. In quel periodo forse avrà lavorato poco anche il collaboratore informatico, perché dei 45mila euro versati per la fondazione in quella serata romana non c’è traccia né sul sito né su Facebook. Nè l’annuncio dell’evento, né il resoconto. Abbastanza curioso, vero?
Ma quanti viaggi dovete fare? E perché dobbiamo versare altri quattrini se ci sono così tanti anonimi compagni pronti a scucirne? Misteri della storia, potremmo dire. Se ci sono stati così tanti viaggi senza fondi pubblici, nel 2020 vedremo la Turco spuntare in ogni luogo. Per ricordare una vita di sacrifici in Parlamento… Stasera a Roma, la ricorderà persino la Boldrini. No, soldi pubblici non accettatene, per favore, perché sono anche nostri.
· L’Unità. Un giornale sul groppone.
Il Governo Conte regala soldi per il Partito Comunista. Nella manovra economica un emendamento concede 400 mila euro per i festeggiamenti dell'anniversario di fondazione del Pci. Maurizio Belpietro il 10 dicembre 2019 su Panorama. Mentre il governo litiga sulle tasse e ogni giorno escogita nuovi marchingegni per stangare gli italiani (una volta si parla di sugar tax, un'altra di plastic tax, un'altra ancora di Imu sulle case dei separati oppure di un'imposta sulle auto aziendali), zitti zitti i compagni sono riusciti a infilare nella manovra una clausola che regala soldi al comitato per le celebrazioni del centenario del Pci. Invece di seppellire nella memoria degli italiani la nascita di un partito che perfino nel nome si richiama al comunismo, cioè a una tendenza politica che anche il Parlamento europeo ha scelto di dichiarare fuorilegge, accostandola al fascismo e alle tragedie della storia, alcuni parlamentari hanno deciso di festeggiare il genetliaco. Ovviamente non a spese loro, facendo una colletta fra compagni, ma a spese degli italiani i quali, a prescindere dal proprio credo politico, con le loro imposte saranno costretti a finanziare le iniziative del compleanno comunista. Mostre, dibattiti e opuscoli celebrativi saranno infatti pagati per un biennio dalle casse pubbliche. Sì, perché l'emendamento che favorisce le manifestazioni in ricordo del Pci è stato presentato alla Camera da un gruppetto di nostalgici e con il beneplacito dell'esecutivo verrà approvato. Duecentomila euro saranno levati ad altri capitoli di spesa sia nel 2020 che nel 2021, anno della fondazione a Livorno del partito. In totale fanno 400.000 euro, che probabilmente non basterebbero a risollevare le sorti dell'economia nazionale, ma certo aiuterebbero.
La cosa incredibile è che quando si parla di conti pubblici, nelle pieghe del bilancio non si riescono a trovare i soldi per i terremotati, per gli esodati e pure per gli sfollati per qualche calamità naturale. A chi ha avuto la casa e i negozi sommersi dall'acqua alta a Venezia sono stati offerti gli spiccioli e in soccorso delle famiglie travolte dall'ennesimo nubifragio in Liguria sono andate le briciole. Ma per il Pci i soldi si trovano, sia mai che l'anniversario passi senza i dovuti fasti.
Chiara Giannini per ilgiornale.it il 12 dicembre 2019. Il premier Conte fa un nuovo regalo agli alleati del Pd, di fatto costringendo gli italiani a saldare un debito pregresso dei democratici che ammonta a 81,6 milioni di euro. La presidenza del Consiglio dei ministri non ha infatti proposto appello contro le tre sentenze del tribunale di Roma che la condannano a pagare alle banche creditrici i debiti di Unità spa, assunti anni fa dal partito dei Democratici di Sinistra che allora aveva nelle sue file moltissimi dei dirigenti e parlamentari che oggi sono nel Pd. Appello invece promosso dagli attuali dirigenti dei Ds i cui rappresentanti (che non sono quelli di allora) a breve protesteranno per la questione di fronte a Palazzo Chigi. In un altro giudizio ancora in corso, l'onorevole Piero Fassino e l'ex senatore Ugo Sposetti, entrambi nel Pd, continuano a sostenere di essere ancora il segretario e il tesoriere dei Ds, scontrandosi di fatto con gli attuali vertici. Una questione che dovrebbe mettere in imbarazzo anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti. I crediti sono quelli vantati da alcune banche nei confronti del partito dei Democratici di Sinistra, per 13.097.893,25 euro (Intesa), 22.123.363,63 euro (UniCredit e Carisbo), 14.086.943,36 euro (BNL) e 23.459.238,43 euro (Efibanca spa). Crediti garantiti dalla presidenza del Consiglio dei ministri e che sarebbero dovuti agli istituti bancari in forza dell'«atto aggiuntivo a contratto di finanziamento», rogato per atto pubblico il 3 agosto 2000. L'obbligo della presidenza del Consiglio dei ministri si fonda sul preteso diritto delle banche di escutere la «garanzia primaria e solidale» prestata dallo Stato. Le banche nel 2014 chiesero al tribunale di Roma l'emissione dei relativi decreti ingiuntivi a carico della presidenza del Consiglio, oltre interessi di mora nella misura convenzionale, a decorrere dall'11 ottobre 2011 fino al momento del pagamento, nonché le spese e i compensi del procedimento, sostenendo che l'amministrazione fosse obbligata alla restituzione degli importi a titolo di garanzia. Gli istituti di credito hanno chiarito che i «crediti residui» ingiunti sono il rimanente derivante dalla somma «ristrutturata» e «accollata» dai suddetti «partiti», dedotte le somme nel frattempo incassate e derivanti dai ratei di finanziamento pubblico ai partiti spettanti allo stesso partito dei Ds. L'escussione della garanzia dello Stato è stata quindi determinata dall'inadempimento dei Ds in ordine al puntuale pagamento delle rate dovute alle banche che, visto l'inadempimento del debitore principale, si sono avvalse del «diritto di ritenere insoluti i finanziamenti erogati». La presidenza del Consiglio ha proposto opposizione sul presupposto che il partito dei Ds non è affatto incapiente in quanto possiede migliaia di immobili, fittiziamente intestati con atti di donazione a decine di fondazioni sparse per l'Italia. Gli immobili dati in garanzia su richiesta, allora, della presidenza del Consiglio, corrispondono in molti casi alle sedi del Pd. Il giudice di Roma ha affermato che il comportamento dei Ds rivela «condotte elusive (e forse fraudolente)» e che «delineano un quadro di particolare responsabilità del debitore principale» ovvero il partito dei Democratici di Sinistra. In particolare, dalla relazione tecnica del tribunale è emerso che l'elenco di immobili consegnato dai Ds alla presidenza del Consiglio, all'atto del trasferimento della garanzia, coincideva esattamente con quello dei beni ceduti dall'Unità alla società Beta immobiliare e non ai Ds. In conclusione, la garanzia è stata illegittimamente trasferita sulla base di informazioni false fornite alla presidenza del Consiglio dai dirigenti dell'epoca del partito. Secondo il tribunale di Roma spetta alla presidenza del Consiglio far dichiarare nulli tutti gli atti di donazione in favore delle fondazioni. Conte lo farà o pagherà e basta? Nel frattempo, nel tentativo di poter recuperare il patrimonio del partito e per pagare le banche, le sentenze sono state impugnate dal nuovo tesoriere del partito dei Democratici di sinistra Carlo D'Aprile.
Le voragini dell’Unità scaricate sugli italiani. Conte “regala” al Pd 81,6 milioni. Il Secolo d'Italia giovedì 12 dicembre 2019. Conte paga i debiti de l’Unità coi soldi degli italiani. Ben 81,6 milioni di euro, mica spiccioli. Come si legge sul Giornale, la presidenza del Consiglio dei ministri non ha infatti proposto appello contro le tre sentenze del tribunale di Roma che la condannano a pagare alle banche creditrici i debiti di Unità spa. Debiti assunti anni fa dai Democratici di Sinistra che allora aveva nelle sue file moltissimi dei dirigenti e parlamentari che oggi sono nel Pd. Lo storico quotidiano comunista e del Pci stato fondato da Antonio Gramsci è morto col Pd. Non va in edicola da oltre due anni e ha lasciato una montagna di debiti. Come? Spiega Primato Nazionale, ricorrendo al principio tanto caro agli odiati padroni: privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Il 5 febbraio 2000, quando Massimo D’Alema era a Palazzo Chigi, la presidenza del Consiglio si fece garante del debito che l’Unità aveva contratto con un gruppo di banche. Debito che ammontava a circa 200 milioni di euro, come ricostruiva due mesi fa il Giornale. Una massa enorme di soldi che però mancava, e quindi i Ds proposero a D’Alema, in virtù di una legge del ’98 del governo Prodi, che fosse la Presidenza del Consiglio a farsi carico di quel debito. La normativa dava la possibilità allo Stato di consentire un’agevolazione in favore dell’editoria, girandola a soggetti che non fossero editori. Il soggetto che ne avrebbe goduto era il partito del presidente del Consiglio. Le banche accettarono dato il vasto numero di immobili di proprietà del partito e la metà dell’importo venne pagata facendo ricorso alle entrate del finanziamento pubblico ai partiti. Il resto però mancava. A poco a poco quel grande patrimonio immobiliare dei Ds che era stato dato in garanzia si è disperso. E lo conferma una sentenza del tribunale di Roma: il comportamento dei Ds rivela «condotte elusive (e forse fraudolente)» e che «delineano un quadro di particolare responsabilità del debitore principale» ovvero il partito dei Democratici di Sinistra. Ora a palla passa a Conte.
UN GIORNALE SUL GROPPONE. Da Il Fatto Quotidiano il 17 settembre 2019. Un debito da 81,6 milioni di euro pesa sulle spalle dello Stato e quindi dei contribuenti. Si tratta di quello contratto, ormai 31 anni fa, dall’Unità, giornale dell’ex Partito comunista italiano fondato da Antonio Gramsci, nei confronti di diverse banche: Intesa San Paolo, Unicredit, Bnl e Banco Bpm. Il tribunale di Roma, infatti, ha respinto tre ricorsi-fotocopia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, presentati dall’Avvocatura di Stato per opporsi ai decreti ingiuntivi degli stessi istituti relativi al rimborso dei crediti utilizzando la garanzia dello Stato, come riporta il Messaggero. A prendere la decisione, il 10 settembre scorso, il giudice del foro romano Alfredo Maria Sacco, che ha autorizzato l’azione contro i debitori non per insolvenza ma per inadempimento. Nel provvedimento il giudice scrive di “riconoscere alla Presidenza del Consiglio il diritto di rilievo e/o regresso” condannando però il legale pro tempore dell’Associazione Democratici di Sinistra chiamata in causa con contumace a rimborsare Palazzo Chigi “da ogni effetto patrimonialmente pregiudizievole conseguente alla presente decisione”. Vale a dire che la Presidenza del Consiglio di Ministri è tenuta a rimborsare le banche, ma può rivalersi su Democratici di Sinistra cioè l’associazione, fondatrice poi nel 2007 insieme alla Margherita del Partito democratico, che dal 1988 si è accollata l’esposizione contratta dal quotidiano. Nel dettaglio Intesa deve rientrare di 35 milioni, Unicredit di 22, Bpm di 14,7 milioni di euro e Bnl di 14. Nelle carte, come scrive sempre il quotidiano romano, si legge che “le banche hanno chiesto più volte il pagamento del proprio credito, procedendo anche all’esecuzione coattiva”. Il motivo per cui i contribuenti devono ripianare il buco del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, va ritrovato in una legge varata nel 1998 dal governo Prodi che ha introdotto la garanzia statale sui debiti dei giornali di partito. La prima opposizione di Palazzo Chigi risale al governo Renzi, nel 2014. La presidenza del Consiglio aveva contestato “la sussistenza dei presupposti per l’escussione della garanzia stessa chiedendo e ottenendo di chiamare in manleva l’Associazione Democratici di Sinistra, già Partito democratico della Sinistra”. Il decreto ingiuntivo di pagamento, però, era stato dichiarato immediatamente e provvisoriamente esecutivo ad aprile del 2015. Un giudizio che si era incentrato sulla diversa interpretazione, tra Palazzo Chigi e banche, delle garanzie concesse. Tre i finanziamenti in contenzioso. Il primo di luglio 2009, quando l’allora Efibanca, oggi Banco Pbm, concesse all’Unità 12,4 milioni di vecchie lire. Il secondo di luglio 1988 quando Intesa San Paolo, insieme a Unicredit e Carisbo, erogò 43,9 milioni; e il terzo risalente al 1993: Bnl, Efibanca, Unicredit e Carisbo fecero due diversi finanziamenti uno da quasi 80 milioni di vecchie lire e uno da 24,2.
Chiara Giannini per “il Giornale” il 7 ottobre 2019. Lo scandalo è di quelli che fanno tremare le fondamenta dei palazzi. Tremila e duecento per l' esattezza, secondo i bene informati. Tanti erano infatti gli immobili dati in garanzia dai Democratici di sinistra utili ad assumere un debito milionario del giornale per eccellenza della sinistra, L' Unità, verso un gruppo di banche. Debito garantito dalla presidenza del Consiglio dei ministri il 5 febbraio del 2000. La notizia è che ora quel debito, che oggi ammonta a 81,6 milioni di euro, pesa proprio sulle spalle di Palazzo Chigi, ma che alla fine a pagare saranno i cittadini italiani. La storia inizia a cavallo del nuovo secolo. All' epoca Massimo D' Alema è presidente del Consiglio dei ministri e anche presidente dei Ds (Democratici di sinistra). L' Unità ha contratto molti anni prima (si parla di 31 anni fa) un debito di 200 milioni di euro con le banche, ma i soldi non ci sono, quindi i Ds propongono alla presidenza Consiglio, cioè a D' Alema, di assumere su se stessa quel debito grazie a una legge del 1998, frutto del governo Prodi, che però concedeva la garanzia statale all' editoria. Le banche accettano, in quanto il partito si dimostra capiente perché titolare di immobili. Circa la metà della cifra viene saldata con le entrate del finanziamento pubblico ai partiti, il resto manca. Peccato che quel patrimonio immobiliare da tempo non esista più. Risulta anche da una perizia dell' ingegner Marco De Angelis fatta per il Tribunale di Roma che, nei giorni scorsi, con tre sentenze ha rigettato tre ricorsi fotocopia presentati dall' Avvocatura dello Stato in opposizione ai decreti ingiuntivi di Intesa, UniCredit, Bpm e Bnl e legati al rimborso dei crediti utilizzando la garanzia dello Stato. Come si legge nelle sentenze, il giudice Alfredo Maria Sacco ha dato autorizzazione alle banche a rivalersi sui debitori per inadempimento e quindi non per insolvenza. Il tutto nonostante l' Avvocatura dello Stato avesse chiesto e ottenuto dal magistrato di valutare a quanto ammontasse il patrimonio del partito, che il consulente del giudice di Roma ha censito in una perizia molto accurata e per certi aspetti incompleta, atteso che lo stesso giudice ha disatteso la richiesta di poter proseguire le indagini peritali. Nonostante questo, però, il magistrato ha deciso che a pagare i debiti dei Democratici di Sinistra dovrà essere la presidenza del Consiglio dei ministri, appurato che, si legge nelle sentenze, il partito di D' Alema & C., ha posto in essere una serie di condotte «apparentemente elusive (e forse fraudolente), per sottrarre i propri beni dalla garanzia, patrimonio» che poi, nel 2007, l' allora tesoriere Ds Ugo Sposetti, poi senatore Pd, ha provveduto a «collocare» in 57 fondazioni e che, a dire dello stesso Sposetti, non è più aggredibile dalle banche. Palazzo Chigi ha anche chiamato in giudizio i Ds, oggi presieduti da Antonio Corvasce, che si sono costituiti con il nuovo tesoriere Vito Carlo D' Aprile il quale, da tempo, per poter fare fronte a tutti i debiti, ha chiesto il conto della sua gestione al senatore Sposetti, nel 2008 parlamentare del Pds, senza esito. Dalle carte risulta che le banche coinvolte devono avere indietro diversi milioni di euro: UniCredit 22 milioni circa, Intesa San Paolo 35 milioni, Bpm 14,7 milioni di euro e Bnl 14 milioni. Già nel 2014, all' epoca del governo Renzi, la presidenza del Consiglio aveva presentato opposizione, facendo ricorso attraverso l' Avvocatura dello Stato, perché non sussistevano «i presupposti per l' escussione della garanzia stessa chiedendo e ottenendo di chiamare in manleva l'associazione Democratici di Sinistra, già Partito democratico della Sinistra». Ma il decreto fu dichiarato immediatamente esecutivo. Con le sentenze del 10 settembre si chiude il primo capitolo della vicenda. Tocca allo Stato, che potrà rivalersi sui Democratici di sinistra, che sono i recenti antenati del Partito democratico. Solo che non c' è più un euro, visto che il patrimonio un tempo millantato non è che una scatola vuota. Dove sono finiti quei 3.200 immobili di cui solo una piccola parte è stata censita nella perizia fatta fare dal Tribunale di Roma? Che farà il premier Giuseppe Conte? Darà ordine di rivalsa sul partito dei Ds o andrà in appello? Il rischio è che a pagare i debiti di un partito siano i cittadini.
Quelle carte che svelano il trucco dei Ds per far pagare allo Stato 81 milioni di debiti. La garanzia di Palazzo Chigi per l'Unità nel 2000 adesso pesa su di noi. Chiara Giannini, Martedì 08/10/2019, su Il Giornale. Il centrosinistra continua a rivangare, quasi fosse un mantra, la storia dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali della Lega, ma quando si tratta di riportare alla luce la vicenda degli 81,6 milioni che lo Stato dovrà pagare per saldare i debiti assunti dai Ds per L'Unità, nasconde la testa sotto la sabbia. La vicenda, in realtà, pesa sulle spalle dei cittadini, perché nel 2000, sotto il governo D'Alema, la presidenza del Consiglio fece da garante, attraverso il Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria, accogliendo la richiesta di subentro di Pds e poi Ds nella corresponsione delle rate d'ammortamento dei finanziamenti erogati in favore dell'Unità Spa. Il tutto per estinguere le passività aziendali emergenti dai bilanci dal 1986 al 1990. Tutto ciò emerge dal Decreto del 5 febbraio 2000, a firma del capo del Dipartimento Mauro Masi che, tra l'altro, disponeva il trasferimento della Garanzia primaria dello Stato e confermava anche la corresponsione, alle banche erogatrici, del finanziamento (San Paolo IMI Spa, Efibanca Spa, Bnl Spa) del contributo in conto interessi all'origine deliberato in favore dell'Unità. Ma si poteva fare? La norma che lo consentiva era di per sé molto discutibile, tant'è che fu abrogata nel 2007. Con quest'ultima legge, infatti, si consentiva che un'agevolazione dello Stato in favore dell'editoria, poteva poi essere girata a «soggetti diversi», che editori non erano. In questo caso, oltretutto, la garanzia della presidenza del Consiglio, concessa all'Unità spa nel lontano 1990 venne poi concessa, nel 2000, a un soggetto che non era un editore, ma un partito politico e, addirittura, il partito cui apparteneva il presidente del Consiglio incaricato in quel momento. La cosa assurda è che la norma del 1998, che concede la garanzia, fatta ad hoc sotto il governo Prodi, dice che la corresponsione «delle rate di ammortamento per i mutui agevolati concessi può essere effettuata anche da soggetti diversi dalle imprese editrici concessionarie, eventualmente attraverso la modifica dei piani di ammortamento già presentati dalle banche concessionarie, purché l'estinzione dei debiti oggetto della domanda risulti già avvenuta alla data della stessa e comunque prima dell'intervento del soggetto diverso». Questo non era ovviamente il caso, visto che non vi era stata regolarità nei pagamenti e che L'Unità, fino al 1997, era capiente e ricca di immobili, poi ceduti, guarda caso, alla Beta immobiliare srl che faceva capo al partito dei Ds. I beni che garantivano i crediti erano tutti lì, ma dal 2007 il tesoriere Ugo Sposetti, senza informare né la presidenza del Consiglio, né le banche, cominciò a farli confluire in varie fondazioni, dove ancora si trovano. Il resto è storia recente: a pagare i debiti del centrosinistra saranno i cittadini.
· Finanziamenti agli amici sportivi.
Soldi per le periferie a un golf club. Giorgetti: “Al Coni hanno un bel coraggio”. Le Iene il 18 dicembre 2019. L’Olgiata golf club a Roma è riuscito a prendersi 560mila euro di finanziamenti pubblici destinati alle periferie. Com’è stato possibile? Alessandro Di Sarno è andato a parlarne direttamente con Giancarlo Giorgetti e con il presidente del Coni Giovanni Malagò. Ricordate la storia del golf club che ha ricevuto migliaia di euro di fondi pubblici destinati alle periferie? Vi abbiamo raccontato questo caso con Alessandro Di Sarno: lo scorso giugno il governo giallo-verde aveva stanziato 72 milioni di euro per sport e periferie. Un fondo destinato agli impianti sportivi nelle le zone più disagiate. Giancarlo Giorgetti, ex sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio con delega allo Sport, ha sostenuto l’iniziativa. Quando è uscita la graduatoria ufficiale però c’era qualche sorpresa! Nell’elenco dei finanziamenti concessi dal governo non solo mancavano i nomi dei vincitori, ma c’era anche un’altra stranezza: un finanziamento di 560mila euro è stato destinato a un circolo privato di golf a Roma: l'Olgiata Golf Club. La Iena era andato di persona a vedere il circo in questione. Ristoranti, bar, piscina, palestra, insomma qui la periferia e i piccoli centri in difficoltà sembrano non entrarci proprio nulla. Ma allora perché hanno destinato a questo centro quei soldi? Alessandro Di Sarno era andato a chiederlo direttamente all’onorevole Giorgetti. “C’è una commissione che ha fatto le valutazioni e dato i punteggi”, aveva risposto alla Iena. “Ci sono dei criteri, io che cavolo ne so”. Gli strappiamo un "valuteremo”. Ebbene, dopo qualche giorno l’ex sottosegretario, ha richiamato il nostro Di Sarno per poter rispondere più puntualmente sulla questione: “Non avrebbe nemmeno dovuto far domanda”, commenta Giorgetti vedendo le immagini del golf club in questione. Quando gli riveliamo che il presidente di quel club è un ex funzionario della Camera, l’onorevole ci dice: “Evidentemente è un personaggio che conosce le amministrazioni e come funzionano… io non lo conosco!”. Ma com’è possibile che questa struttura abbia ricevuto oltre 500mila euro destinati a sport e periferie? L’onorevole ci spiega, in sintesi, che gli interventi vengono scelti dal Coni e poi la presidenza del Consiglio si limitava a firmarli. “Non sarei potuto entrare nel merito delle singole decisioni”, ci spiega Giorgetti. E poi chiude: “Questa storia dell’Olgiata, anche alla giunta del Coni hanno avuto un bel coraggio a mandarla avanti”. Insomma Giorgetti riconosce di aver firmato il decreto, forse, con un po’ di leggerezza, ma precisa che la scelta dei singoli interventi è stata fatta non da lui ma dal Coni. È quindi il momento di chiedere spiegazioni direttamente al presidente Malagò: “Il Coni ha affidato al Comitato sport e periferie, composto da soggetti di chiara fama del mondo della magistratura amministrativa e dell’Avvocatura di stato, l’incarico di valutare le proposte pervenute”, ci risponde leggendo una nota scritta. “Persone individuate e scelte con l’accordo dei vari governi”, specifica. Il presidente Malagò ci tiene a precisare che la scelta è stata fatta da un comitato terzo e lui è stato solo un semplice “passacarte”. Il presidente, pur non entrando direttamente nel merito del caso, sembra far capire di essere contrario a questa scelta. Resta comunque un fatto: questo club di golf si è pappato 560mila euro di fondi pubblici destinati alle periferie. Un affare, pagato da tutti noi…
· Legge di Bilancio- Legge Omnibus- – Legge Marchetta.
Una legge confusa. Sabino Cassese il 16 dicembre 2019 su Il Corriere della Sera. Perché questa corsa di fine anno, nella quale tutti cercano di inserire qualcosa nella legge di bilancio, che diventa così una disposizione «omnibus», mentre dovrebbe soltanto indicare entrate e spese, gli stanziamenti, ordinati per missioni e programmi, che autorizzano le amministrazioni a prelevare e a spendere? Ci risiamo. Il testo del maxiemendamento alla legge di bilancio per il 2020, su cui il governo ha posto la fiducia, consta di 958 commi per 313 pagine. C’è di tutto: alberghi, farmacie, medici, poligrafici, concessioni, spese veterinarie, carburanti, elettrodotti, certificati energetici, piste ciclabili, vigili del fuoco, tariffe Inail, rete ferroviarie, investimenti statali e locali, la sicurezza nella città di Matera, lavori nella Villa Alari Visconti di Saliceto a Cernusco sul Naviglio, e così via. Molte norme sono scritte per sottrarre attività pubbliche ad altre norme, creando percorsi straordinari. Tutte le norme sono scritte con la tecnica del rinvio a decine di altre leggi, ciò che rende ancora più oscuro il loro dettato. Perché questa corsa di fine anno, nella quale tutti cercano di inserire qualcosa nella legge di bilancio, che diventa così una disposizione «omnibus», mentre dovrebbe soltanto indicare entrate e spese, gli stanziamenti, ordinati per missioni e programmi, che autorizzano le amministrazioni a prelevare e a spendere? La ragione è semplice. Vengono sfruttati i tempi stretti (va approvata entro la fine dell’anno, per non andare all’esercizio provvisorio), la «permeabilità» del Parlamento, persino il clima pre-festivo. Questo induce le amministrazioni a vuotare i cassetti e le forze parlamentari a dare mance, risolvere micro-problemi, accontentare clientele. Passa il convoglio, tutti cercano di agganciare il proprio vagoncino. La legge di bilancio gonfiata è sintomo di un duplice malfunzionamento del Parlamento. Da un lato, è segno del fatto che troppe decisioni vengono riversate in legge (per motivi vari, tra cui la circostanza che l’amministrazione è bloccata da troppi controlli impeditivi). Dall’altro, dell’assenza di un flusso fisiologico Paese–pubblica amministrazione–governo–Parlamento, perché alcune di quelle norme che vengono infilate nella legge di bilancio potrebbero essere ordinatamente approvate in leggi divise per materia (ad esempio: ambiente, urbanistica, lavori pubblici, scuola). Da questo affastellamento di misure, relative a tutti i settori, nella legge di bilancio deriva anche che esse non vengono valutate per i benefici che possono assicurare, ma per la spesa che comportano. In questo modo, il Paese è governato dagli strumenti (le risorse finanziarie necessarie), non dagli obiettivi, e le commissioni parlamentari competenti per materia (ambiente, infrastrutture, scuola, e così via) o non si pronunciano, o lo fanno molto frettolosamente. La terza anomalia di questo uso della legge di bilancio sta nel fatto che la fretta di fine anno costringe ad approvarla in un ramo del Parlamento per poi farla arrivare «blindata» nell’altro ramo, nel senso che questo non può più modificarla. Questo trasforma il nostro Parlamento bicamerale in un Parlamento monocamerale ad anni alterni (si segue l’uso di presentare il testo un anno ad una Camera, quello successivo all’altra). Quando il convoglio è passato, quelli che non sono riusciti a salirci non restano a piedi. C’è una seconda possibilità, quella chiamata «il milleproroghe», una seconda legge «omnibus», ormai appartenente alla tradizione. Quest’anno affiancata dal cosiddetto decreto fiscale. Conclusione: un Paese che ha bisogno di una disposizione di legge per la realizzazione del Museo della Diga del Gleno e per la messa in sicurezza del Rio Molinassi e del Rio Cantarena (nella legge di bilancio c’è anche questo) ha qualcosa di malato che va curato.
Dal Giubileo alla festa del Pci. Ecco i regali della Manovra. Nella valanga di 4.500 emendamenti c’è di tutto. Carmine Gazzanni il 21 Novembre 2019 su La Notizia Giornale. Una mole di 4.500 emendamenti suddivisi in 12 tomi e oltre 5mila pagine. Basta questo per capire l’assalto parlamentare alla Legge di Bilancio 2020. C’è da dire, a onor del vero, che tanti e tanti interventi ovviamente sono migliorativi. Diversi emendamenti, ad esempio, mirano a un approccio ancora più green in Manovra, altri insistono sul welfare e altri ancora sulla necessità di incrementare da una parte la lotta all’evasione fiscale, dall’altra gli incentivi per i lavoratori, dipendenti e non. È altrettanto vero però che, come spesso accade, la Legge di Bilancio venga “sfruttata” da tutte le forze dell’arco parlamentare per un vero e proprio assalto alla diligenza, con mance e mancette che spuntano nella miriade di emendamenti presentati. E così c’è chi pensa alle solite fondazioni, chi al suo localissimo elettorato magari chiedendo di terminare una strada, chi ancora chiede di istituire particolare musei o di prevedere fondi per curiose ricorrenze. Andiamo allora a vedere, punto per punto, cosa c’è in questa Manovra.
Una strada è per sempre. Così l’elettorato è felice. Alzi la mano chi conosce Entratico. Parliamo di un comune in provincia di Bergamo di meno di duemila anime. Eppure un emendamento a prima firma Simona Pergreffi (Lega) prevede un finanziamento di 21 milioni peril 2020 e di 45 per il 2021 per la messa in sicurezza del tratto stradale tra Entratico e Trescore. Nessun dubbio che l’emergenza sia di prim’ordine. Il punto, però, è che ogni parlamentare pensa al suo “particulare” (le Pergreffi è bergamasca…). E così, ad esempio, abbiamo ancora il Carroccio che chiede fondi per il completamente dell’autostrada tirrenica e per la tangenziale di Pisa; mentre Forza Italia, tra le tante cose, chiede il completamento di un viadotto in “località Valle Brambilla” (sempre nel bergamasco). E non mancano le tratte ferroviarie, dalla Biella-Novara (5 milioni) fino alla Bari-Bitritto (3 milioni). Ovviamente non poteva mancare anche Roma Capitale, per cui si chiedono sia interventi per lo snodo ferroviario sia per il completamento della infinita Metro C.
Olimpiadi invernali? Soldi a Zaia e Fontana. Per qualcuno la richiesta sarà più che legittima. Certo è che, a vedere chi ha presentato gli emendamenti, qualche dubbio di “conflitto d’interessi” sorge. Tra i vari emendamenti, infatti, spunta uno, a prima firma Massimiliano Romeo, con cui si chiedono fondi per oltre 500 milioni fino al 2026 per Lombardia e Veneto due Regioni guidate proprie da presidenti leghisti (Attilio Fontana e Luca Zaia). C’è da dire, però, che emendamenti simili sono stati presentati anche da Forza Italia e dal Pd. Ciò che distingue il Carroccio è che ne ha presentati pure altri due. E sempre a prima firma Romeo. In virtù delle Olimpiadi 2026 – questo il ragionamento – meglio prevedere un fondo di altri 100 milioni per collegare Oro al Serio alle stazioni sciistiche di Bormio e Livigno; il secondo, fotocopia, ne chiede “solo” 80.
Giubileo e villa Cavour. Così piovono nuovi fondi. Per Marzia Casolati (Lega) è l’urgenza delle urgenze. E così eccolo l’emendamento ad hoc: per l’acquisto della storica “villa Cavour” si prevede un fondo ad hoc di 500mila euro per il Comune di Cavour. Non sia mai che qualcuno dovesse offendersi. Ma non è l’unico stanziamento particolare. Giovan Battista Fazzolari (FdI) non vuole arrivare tardi e così chiede di istituire addirittura una struttura ad hoc presso Palazzo Chigi che si occupi dell’“Evento Giubilare 2025”, con un fondo di 6 milioni per il 2020 più un altro milione per eventuali consulenze. Non manca, poi, chi chiede l’istituzione di nuovi musei o il rifinanziamento di alcuni già esistenti. Come nel caso dell’emendamento di Renato Schifani che chiede l’istituzione del museo cittadino a Siracusa. Come capitato anche in passato c’è anche chi chiede finanziamenti ad hoc per il Teatro Eliseo a Roma; chi un fondo specifico per le bande musicali e chi, ancora, un fondo per la “rievocazione storica”. Pierferdinando Casini, invece, guarda alla cultura italiana all’estero. E chiede un milione per il Teatro “Coliseo” di Buenos Aires.
Quante “stramberie”. C’è pure il volo turistico. Non si può dire che tra gli emendamenti non ci siano anche spunti fantasiosi, a metà tra l’innovativo e il grottesco. È il caso dell’idea presentata da una piccola flotta di senatori del Carroccio che chiedono l’istituzione presso il ministero dei Beni culturali di un fondo “per lo studio preliminare necessario all’introduzione del Volo Turistico”. Difficile capire di cosa si tratti: il fine è valorizzare il patrimonio artistico “anche attraverso innovative forme di fruizione”. Ma anche sul fronte dell’istruzione non sono pochi i senatori che hanno partorito idee curiose: Maria Alessandra Gallone, per esempio, chiede un fondo di 3 milioni per le “gite ambientali”; altri invece vorrebbero inserire nuove materie: dall’educazione alimentare all’educazione “alla parità dei sessi”. A superarsi è il forzista Francesco Giro che chiede l’assunzione per i Conservatori di 200 “korrepetitor” (in pratica, maestri sostituti) al pianoforte.
Patente del buon cittadino. E soldi pure ai nonni. A proposito di stramberia, dirà qualcuno. Eppure è tutto vero. Parliamo di due idee di matrice leghista. A proporre la “patente del buon cittadino” è tutto il gruppo parlamentare (prima firma Matteo Salvini). In pratica, parliamo di una vera e propria patente per chi non ha multe o sanzioni, paga le tasse e così via. E questo qualcuno – che sarà monitorato con tanto di “rating prestazionale” – potrà accedere a farmaci gratuiti e benefit vari. Ci sono, poi, i nonni. Anche qui tutto il gruppo della Lega chiede l’istituzione di un fondo presso Palazzo Chigi di ben 20 milioni per l’assistenza e la cura dei nipoti da parte dei nonni. In pratica, fare il nonno diventerà un vero lavoro.
Rai, RdC, Quota 100. Chi vuole abolire tutto. Se non sai inventare nulla di nuovo, tanto vale distruggere l’esistente. Verrebbe da commentare così leggendo alcuni emendamenti. Emma Bonino, ad esempio, chiede esplicitamente la “abrogazione del Reddito di cittadinanza”. La stessa identica idea di uno stuolo di senatori meloniani, capitanati da Alberto Balboni, mentre altri hanno pensato bene di chiedere la “abolizione alla limitazione dell’uso del contante” (prima firma Fazzolari). Ma non è tutto. Tra gli “abolizionisti”, c’è anche chi chiede di cancellare il canone Rai (Erica Rivolta, Lega). Più originale è stato il Pd con Tommaso Nannicini, che ha proposto di sostituire Quota 100 con Quota 92. E lo stesso Nannicini vorrebbe istituire il “salario di disoccupazione”, in pratica una sorta di Reddito di cittadinanza 2.0.
Feste e ricorrenze per tutti. Pure per i 100 anni del Pci. L’emendamento ha un suo perché, considerando il valore storico del partito in questione. Fatto sta che tre senatori Pd (prima firma di Francesco Verducci) hanno chiesto tramite emendamento 200mila euro per il 2020 e 200mila peril 2021 per festeggiare il centenario del Partito Comunista Italiano, nato il 21 gennaio 2021.
Dalla Einaudi all’Iai. Spazio alle Fondazioni. Anche in questo caso – verrebbe da dire – nulla di nuovo sotto il sole. Come in ogni Manovra che si rispetti, spuntano anche piccoli finanziamenti per il pregevole lavoro dei think-tank che, in molti casi, già ricevono annualmente soldi dalle istituzioni. È il caso dell’Iai che, in qualità di “ente internazionalistico”, gode di un piccolo fondo presso la Farnesina. Spunta, però, un emendamento con cui si chiede “un contributo straordinario” di 250mila euro. Stessa cifra prevista da un altro emendamento per un’altra fondazione, questa volta dedicata a Luigi Einaudi, per l’importante patrimonio archivistico di cui dispone. E se casomai le fondazioni non esistono, c’è chi chiede di crearne. Come nel caso di Giacomo Caliendo, che ha presentato un emendamento per la creazione, sotto l’egida del Miur, di “fondazioni smart academy”.
Tonno, birre, cannabis. E tenuta antisommossa. Chiudiamo con qualche curiosità, a partire dall’emendamento leghista per la “ripartizione quota aggiuntiva del tonno rosso”. Raffaele Fantetti (FI), invece, chiede una maggiore tutela della ristorazione italiana all’estero. Emma Bonino, dal canto suo, torna a chiedere la legalizzazione della cannabis che, nel suo emendamento, dovrebbe diventare monopolio. Ma il non plus ultra è Simone Pillon: tra i suoi emendamenti ce n’è uno per dotare la polizia pentienziara di tenuta antisommossa (spesa di 1,5 milioni). Quasi come se ogni giorno scoppiassero rivolte nelle carceri.
· Il Costo della Politica.
I costi della politica valgono poco. Parlamento, comuni, regioni: gli sprechi sono già stati in parte aggrediti nelle legislature precedenti e in questa. Perché non sarà il taglio degli stipendi dei parlamentari a risolvere i problemi della finanza pubblica. Tortuga il 4 Marzo 2019 su il foglio. Pachidermi&Pappagalli, a cura del Think tank di studenti di economia Tortuga, è la rubrica dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano diretto da Carlo Cottarelli. Il tema dei costi della politica ha animato per anni il dibattito pubblico italiano, ritagliandosi un ampio spazio mediatico. Alcuni sondaggi hanno indicato il taglio degli stipendi dei parlamentari tra le priorità per il nostro paese. Ma quanto varrebbe un taglio dei costi della politica? Rispetto alle misure di spesa aggiuntiva previste dalla legge di bilancio 2019, molto poco. Rispetto alle dimensioni del bilancio dello stato, ancora meno. Ciò non significa che non si debba fare uno sforzo per ridurre tali costi, perché se si vogliono ridurre gli sprechi nella spesa pubblica non si possono escludere quelli di cui beneficiano i decisori. Ma occorre mettere le cose nella giusta proporzione, per evitare di illudere i cittadini che riducendo i costi della politica si possano risolvere i problemi della finanza pubblica italiana.
Cosa sono i costi della politica. Prima di tutto, è da definire cosa si consideri con i termini “costi della politica”. Si intendono – nella nostra definizione – le spese di funzionamento degli organi della pubblica amministrazione di natura politica. Non si intendono dunque solo i costi degli stipendi dei rappresentanti eletti, ma anche quelli dei funzionari che lavorano in questi organi. Ne sono parte dunque, ad esempio, i costi di funzionamento della Camera e del Senato, dei gabinetti dei ministeri, degli enti istituzionali di comuni e regioni, delle direzioni delle Asl e degli organi delle società partecipate.
Di quanto parliamo. Fino ad alcuni anni fa il costo complessivo si aggirava attorno ai 5 miliardi di euro, una cifra esigua rispetto ai circa 775 miliardi di spesa pubblica primaria, circa lo 0,6 per cento. A titolo di esempio, la Camera dei deputati costa allo stato poco meno di 950 milioni di euro, mentre il Senato della Repubblica circa 500 milioni. I costi dell’indirizzo politico dei ministeri (uffici di gabinetto e di diretta collaborazione dei ministri) si aggirano attorno a poco meno di 200 milioni all’anno. I consigli regionali e gli organi istituzionali regionali spendono circa 1,4 miliardi di euro. Si comprende dunque come il taglio degli sprechi della politica, seppure utile, non sia certo una soluzione sufficiente per risolvere i problemi della finanza pubblica italiana o che possa finanziare ingenti voci di nuova spesa pubblica prevista, come lo strumento per il contrasto alla povertà, i pre-pensionamenti e il taglio delle imposte. Gli ordini di grandezza sono estremamente diversi. Tuttavia non si può nascondere l’alto valore simbolico di provvedimenti di taglio agli sprechi della classe politica: in un periodo di elevata sfiducia nei politici e negli stessi organi istituzionali il taglio di alcune spese ingiustificate e sproporzionate, dal punto di vista di equità e del confronto internazionale, può contribuire a un ritorno alla fiducia. Non solo: come scrive l’ex consulente per la spending review Roberto Perotti, il taglio dei privilegi può essere un buon viatico per rendere più accettabile a parte dell’elettorato un piano di revisione della spesa pubblica, in senso più efficiente e più equo.
Cosa è stato fatto in passato. La lista degli interventi più importanti degli anni recenti, fino all’inizio del 2018, è interessante per comprendere i cambiamenti che hanno modificato parte della spesa per il sostenimento della politica.
• A fine 2011 su iniziativa dei presidenti delle camere Fini e Schifani, e a seguito delle pressioni del ministro Fornero, viene riformato il sistema previdenziale dei parlamentari, con l’abolizione del vitalizio per quelli eletti dopo il 2012. Di conseguenza, dal primo gennaio 2012 è scattato un sistema contributivo per i parlamentari neo-eletti e misto per quelli ancora in carica o rieletti. Fino ad allora, i parlamentari con un mandato ottenevano 2.486 euro lordi al mese dai 65 anni in poi, 4.973 euro dai 60 anni con due, 7.460 euro con tre, sempre da 60 anni. Questo significò un risparmio che possiamo stimare intorno ai 75 milioni l’anno, al netto delle trattenute Irpef. Occorre comunque notare che il sistema attuale applicato ai parlamentari non è esattamente quello applicato agli altri cittadini: i contributi versati, al compimento dell’età di pensionamento, rendono comunque una pensione anche se non viene raggiunto il minimo contributivo di 20 anni richiesto per gli altri cittadini.
• Dal 2012, inizia un’opera di revisione della spesa presso la presidenza del Consiglio, che negli anni riduce i suoi costi del 30 per cento, per un risparmio totale all’anno (nel 2016 sul 2011) di 112 milioni al netto dell’inflazione. Nel 2017 però la spesa torna a salire e dovrebbe crescere ulteriormente con la legge di bilancio per il 2019 per la creazione di una nuova struttura di missione per coordinare le spese di investimento, descritta fra qualche paragrafo;
• Nel 2013, il governo Letta elimina le indennità di carica, abolendo la possibilità per un membro del governo e allo stesso tempo parlamentare di ricevere un doppio stipendio, per un risparmio a regime di poco più di 1 milione;
• Nel 2013, il governo Letta con il decreto legge n. 149/2013 riforma il finanziamento pubblico diretto ai partiti, prevedendo riduzione progressiva fino al 2017 del finanziamento, per 19 milioni di risparmio all’anno dal 2017;
• Nel 2014 il governo Renzi introduce un tetto alla retribuzione dei dirigenti pubblici, a 240.000 lordi all’anno (decreto legge n. 66/2014) – limite valido per i dirigenti della pubblica amministrazione e società partecipate, al di fuori delle società quotate o che utilizzano pubblico risparmio;
• Sempre nel 2014, lo stesso governo dà atto alla riforma delle province (legge n. 56/2014) – abolizione dell’elezione diretta dei rappresentanti provinciali e istituzione di un’elezione indiretta tra sindaci e consiglieri comunali. Il risparmio sarebbe stato intorno ai 500 milioni all’anno, ma il grosso di questa cifra è costituito dai tagli alle spese per il personale e non solo i costi della politica, ridotti in modo molto inferiore;
• Nel 2016 il governo Renzi propone una riforma costituzionale che avrebbe ridotto i costi della politica si circa 160 milioni. La riforma è stata tuttavia bocciata nel referendum confermativo popolare.
Come si vede, gli interventi hanno prodotto risparmi nell’ordine di alcune decine di milioni di euro strutturali. Infatti, misure di questo tipo difficilmente sono sufficienti per individuare le coperture di massicci interventi di spesa pubblica o di riduzione di imposte che si prospettano nel contratto di governo sottoscritto dalle forze dell’attuale maggioranza parlamentare e che l’esecutivo ha intrapreso nei primi mesi di attività. Nel grafico in basso è possibile osservare il confronto tra la spesa per il reddito di cittadinanza prevista nella legge di bilancio 2019, confrontato con i risparmi annuali delle principali misure di spending review dei costi della politica applicate nei precedenti sette anni.
Le misure del governo Conte. Nel contratto di governo firmato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini è previsto un capitolo dedicato al taglio dei costi della politica. Gli interventi che si prospettavano nel documento sono il taglio dei vitalizi per i parlamentari e i consiglieri regionali andati in pensione e la riforma del sistema pensionistico per i parlamentari e i dipendenti degli organi costituzionali (non si specifica però in che termini). Sono contenuti inoltre i tagli ad auto blu, aerei di stato e i servizi di scorta personale. In un altro capitolo, riguardo le riforme istituzionali, si è previsto di ridurre i parlamentari a 400 deputati e 200 senatori e di abolire il Cnel, misure che potrebbero portare a un risparmio complessivo massimo per poco più di 200 milioni di euro . Da alcune settimane si parla anche di un taglio agli stipendi dei parlamentari, che tuttavia non è stato ancora quantificato. Una cifra irrisoria rispetto ai più di 100 miliardi necessari in cinque anni per finanziare l’intero programma di governo. Una prima misura, l’abolizione dei vitalizi per i parlamentari che hanno partecipato a legislature precedenti al 2012 è stato approvato dall’Ufficio di presidenza della Camera nel giugno 2018, per un risparmio di circa 40 milioni l’anno. Anche il Senato ha scelto la stessa strada il 16 ottobre scorso, portando 16 milioni di risparmi previsti. Sui vitalizi ai politici è stato previsto anche un preciso strumento in legge di bilancio : una riduzione dell’80 per cento dei trasferimenti, al di fuori di quelle destinate al Servizio Sanitario Nazionale, per regioni e province autonome che entro quattro mesi non “provvedano a rideterminare […] la disciplina dei trattamenti previdenziali e dei vitalizi già in essere” per ex presidenti di Regione, consiglieri regionali e assessori. Secondo la relazione tecnica della legge di bilancio i risparmi non sono quantificabili. Per quanto riguarda invece i voli di stato, i ministri Toninelli e Di Maio hanno annunciato la dismissione dell’aereo di stato, un Airbus 340-500, acquistato in leasing nel 2015 dalla presidenza del Consiglio attraverso il ministero della Difesa, ipotizzando un risparmio di circa 150 milioni in nove anni. Inoltre, il numero di voli di stato riportati sul sito della presidenza del Consiglio è visibilmente calato (da giugno a ottobre 2018 si è passati da 133 a 33 nello stesso periodo rispetto all’anno precedente). Il governo Conte, pur ponendosi l’obiettivo di ridurre i costi dei politici, talvolta ha preso anche decisioni in senso opposto. Il governo ha proposto in legge di bilancio l’istituzione di InvestItalia presso la presidenza del Consiglio, un organismo volto a fare da cabina di regia per gli investimenti pubblici che comporterà una spesa aggiuntiva di 25 milioni (il 22 per cento dei risparmi conseguiti da Palazzo Chigi tra il 2011 e il 2016 ).
Quanto spendiamo rispetto agli altri paesi? Ma i costi della politica in Italia sono più alti che negli altri paesi? Rispondere è complicato perché i dati non sono sempre comparabili. Si può ad esempio paragonare il costo dei diversi parlamenti, compito arduo visto il fallimento della commissione Giovannini che nel 2012, con questo compito, gettò la spugna. Secondo i dati riportati da Carlo Cottarelli nel sul libro “La lista della spesa” (2015) edito da Feltrinelli, l’indennità lorda dei deputati italiani sarebbe più alta rispetto a quella percepita da inglesi, tedeschi e francesi. Tuttavia vanno considerate anche le imposte e le spese di mandato, che in Italia comprendono anche il compenso dei collaboratori parlamentari (mentre in altri paesi i collaboratori sono assunti dal parlamento). Più lineare è invece il confronto sul numero dei parlamentari: in Italia 945, più i senatori a vita (64 mila residenti per ogni parlamentare), 650 in Regno Unito (senza tener conto della camera dei Lord, per un rapporto 1 a quasi 102 mila), 709 in Germania (Bundesrat escluso, 1 parlamentare ogni 117 mila abitanti), 616 in Spagna (1 a quasi 76 mila), 918 in Francia (1 ogni 72 mila e 672 residenti). Il dato italiano appare dunque il più alto tra i paesi occidentali più simili, sia a livello assoluto che pro capite. Secondo la riforma proposta dalla maggioranza parlamentare, volta a ridurre a 600 i parlamentari , diventeremo più virtuosi rispetto a Francia e Spagna, mentre rimarremo dietro a Regno Unito e Germania. Altra questione è il trattamento salariale dei dipendenti del Parlamento: sempre secondo Cottarelli, la retribuzione media lorda dei dipendenti della Camera è di circa 188 mila euro, contro ad esempio i 106 mila euro della Banca d’Italia. Per quanto riguarda il Quirinale, un paragone utile potrebbe essere quello con l’Eliseo francese (che ha probabilmente compiti esecutivi più impegnativi rispetto alla presidenza della Repubblica italiana). L’Eliseo nel 2017 è costato alle casse francesi attorno ai 100 milioni di euro, mentre nello stesso anno al Quirinale le spese correnti erano pari a 141 milioni di euro, al netto di 95 milioni destinati alle pensioni degli ex dipendenti (non incluse nei dati dell’Eliseo): un valore più elevato ma in calo rispetto agli anni precedenti. Infine un rapporto della Camera mostra come tutti i paesi analizzati includono un finanziamento minimo pubblico ai partiti, inclusi gli Stati Uniti. In questo ambito, quindi, l’Italia spende meno degli altri.
Conclusione. Dal quadro descritto emerge quindi come nel nostro paese gli sprechi in termini di costi della politica siano in parte stati aggrediti nelle legislature precedenti e in quella corrente. Su alcuni fronti, il lavoro è ancora in corso, con qualche retromarcia. Bisogna però tenere a mente come il gettito da queste misure non sia paragonabile ai fondi generalmente necessari per finanziare le politiche economiche della legge di bilancio attualmente in discussione. Se dal punto di vista quantitativo gli sprechi da tagliare sono diminuiti, è probabile che il vero “costo” della politica sia però di natura qualitativa. Il livello di efficienza e qualità del personale della nostra classe dirigente e pubblica amministrazione è preoccupante rispetto al passato e rispetto agli altri paesi europei, almeno sulla base degli indicatori disponibili. Per citarne alcuni sul nostro Parlamento, la percentuale di laureati sul totale è diminuita di circa 20 punti percentuali dall’alba della Repubblica, nonostante l’aumento complessivo dei laureati. La domanda rilevante da porsi, quindi, potrebbe essere non solo “dove tagliare”, ma soprattutto “come migliorare” la qualità della spesa per la nostra politica. Ne gioverebbe la politica stessa, e il Paese intero.
Le Fake News sul Sud. Nel Mezzogiorno la politica costa più che al Nord? FALSO. Redazione ilsudonline.it il 21 Novembre 2019. Smontiamo un’altra delle “fake news” del Nord. Ovvero quella che sostiene che il Sud sia l’area del Paese dove i costi della burocrazia e della politica sono più elevati. Insomma, i soliti spreconi. Invece, la realtà è completamente diversa. E lo dimostrano i numeri reali. Sommando i consigli regionali, provinciali e comunali, poi, la politica costa 1,4 miliardi, cioè 35 euro l’anno per ogni italiano, di cui 19 solo per le Regioni. E’ quanto emerge dal Siope, il sistema che rileva incassi e pagamenti delle pubbliche amministrazioni, ma andando a spulciare i bilanci delle singole regioni arriva la conferma di un costo eccessivo della politica. Ed è il Nord a spendere di più per il funzionamento della macchina burocratica: alla voce “Servizi istituzionali” nel bilancio della Lombardia è iscritta la cifra monstre di 742 milioni, contro i 256 della Puglia e i 207 della Campania. Ma anche il Veneto, che ha una popolazione pari a quella della Puglia. non scherza: 482 milioni nel 2019. Entrando più nel dettaglio, per i “servizi generali”, ad esempio, la Lombardia spende 73 milioni, il Veneto 21 milioni, contro i 20 milioni della Puglia e i 6,7 della Campania. Anche per il funzionamento degli “organi istituzionali” c’è un buon divario: 75 milioni il costo messo in bilancio dalla Lombardia, 52 milioni, invece dalla Puglia.
· Il Costo della Burocrazia.
COTTARELLI: «SEMPLIFICARE È LA VIA MAESTRA». Raffaella Venerando su costozero.it il 10 maggio 2019. Per il direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, Carlo Cottarelli: «Bisogna eliminare norme, sovrapposizioni, ridondanze tra regole nazionali e regionali e obblighi inutili che creano complicazioni alla vita delle imprese».
Burocrazia: è una delle tre principali ragioni per cui, secondo l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, le imprese non investono in Italia. Per il mondo delle aziende, forse, è addirittura la prima: quali sono le sue proposte concrete per snellire questa «macchina infernale che rallenta ogni decisione e si nutre di se stessa»?
«Il peso della burocrazia nel nostro Paese è decisamente più elevato rispetto alla media dei Paesi dell’Unione Europea ed è la causa per cui le imprese non solo perdono un numero considerevole di giorni di lavoro all’anno, ma soprattutto si vedono frenate nell’avvio di nuove attività, svantaggiate nella competizione internazionale e minate nella crescita. Senz’altro occorre snellire e informatizzare le procedure per velocizzare l’apparato amministrativo, ma più di tutto bisogna semplificare eliminando norme, sovrapposizioni e ridondanze tra regole nazionali e regionali e obblighi addirittura inutili che creano solo vincoli e complicazioni alla vita delle imprese. Le nostre leggi non sono solo tante. Sono troppe. In realtà abbiamo circa 10mila leggi nazionali, come la Francia. Solo che a queste si sommano pure 27mila leggi regionali».
Ma non dovrebbero cambiare anche gli uomini perché cambi la macchina?
«I burocrati da soli possono far poco. Certo, sarebbe senz’altro un passo successivo quello di ridurne il numero, ma meglio pagarli per non far niente – come spesso si dice – piuttosto che pagarli per fare danno».
La troppa burocrazia genera a cascata altri due mali, come lei stesso li definisce nel suo ultimo libro “I sette peccati capitali dell’economia italiana”: l’eccessiva tassazione e la lunghezza dei tempi della giustizia civile. Rispetto al primo nodo, il governo propone la flat tax. È d’accordo? È l’unica via?
«È evidente che se un Paese moltiplica i livelli della burocrazia spiana la strada anche a fenomeni corruttivi, che peraltro restano spesso impuniti se il sistema della giustizia è lento e inefficiente. Nel merito della flat tax, credo che non sia l’unica via, nel senso che ciò che rende complesso il sistema fiscale italiano non è il numero delle aliquote – 1 piuttosto che 5 – ma il calcolo della base imponibile. La vera semplificazione sarebbe questa e la si potrebbe fare anche senza introdurre una aliquota unica».
Non si corre il rischio con la flat tax di far crescere ancora e di più l’evasione fiscale?
«Normalmente dovrebbe verificarsi il contrario. Una aliquota bassa dovrebbe essere un incentivo a pagarle le tasse, ma non credo che si possa puntare su questo per affermare anche che la flat tax si autofinanzia. In realtà quel che è certo è che si andrebbe incontro a minori entrate fiscali. A quel punto o aumentiamo ancora il deficit pubblico, o sarà indispensabile recuperare risorse da una seria spending review e da un rilevante recupero di evasione».
Appunto. Il ministro Tria ha dichiarato che se «nel Def si dirà che nel 2020 le tasse caleranno, anche le spese dovranno scendere». Lei che in passato si è misurato con le insidie della spesa pubblica, ritiene si lavorerà a una revisione di spesa efficiente o si tornerà a cedere alla soluzione dei tagli lineari?
«Dipende dagli italiani. Dipende dalla scelta di votare prima o poi qualcuno che decida in questa direzione. In realtà finora – al netto degli interessi – la spesa pubblica dal 2010 al 2017 si è tenuta bassa con tagli lineari perché non si è messo mano a una vera e seria riforma di revisione della spesa. Se si tagliasse non in maniera lineare ma lì dove ci sono sacche di inefficienza, da un lato potremmo ridurre le tasse, dall’altro il debito pubblico, un nervo scoperto per il nostro Paese».
Ma quali sarebbero i tagli improduttivi da fare subito e perché è così difficile fare una seria spending review?
«Ho sempre detto che c’è da risparmiare in tutte le aree, tranne la pubblica l’istruzione e la cultura. Un po’ ovunque ci sono aree di efficientamento».
Anche nella sanità?
«Un po’ meno adesso, perché negli ultimi anni sono stati fatti grossi tagli lineari in questo settore. È pur vero però che esistono regioni molto efficienti che offrono lo stesso numero di servizi di altre a un costo minore. È lì che si deve incidere».
Divario tra Nord e Sud: una ferita mai chiusa che costa a tutto il Paese. Ne parla anche lei nel libro.
«Faccio una debita premessa. Nel mio libro riservo a questo tema un capitolo di una ventina di pagine, di sicuro non sufficienti ad analizzare un problema che è per il nostro Paese profondo e cronico. Nel libro fornisco giusto qualche idea, come quella – ancora una volta – di andare ad agire sul miglioramento dell’efficienza della pubblica amministrazione. Le differenze di performance tra Nord e Sud sono spesso enormi e sempre ormai inaccettabili. Ci sono margini di recupero anche nella pubblica istruzione, in cui sarebbe importante rafforzare il capitale sociale. Al Mezzogiorno l’istruzione funziona peggio che altrove e non per colpa degli insegnanti».
L’Italia è l’unico Paese europeo ad essere in recessione, con una finanza pubblica poco orientata alla crescita. Le imprese lo sottolineano spesso e volentieri. A cosa stiamo andando incontro?
«Non siamo in una situazione di crisi al momento – come si verificò nel 2011 per intenderci – ma se finiamo in una recessione in cui il Pil cala dell’1 o 2 per cento, il rapporto tra debito e Pil aumenta e i mercati crollano. Più di tutto a preoccuparmi è la nostra fragilità. Per il momento teniamo, ma se si dovesse verificare uno shock economico esterno, se l’Europa andasse in recessione o anche solo rallentasse la sua crescita, noi andremmo in recessione».
Uno shock potrebbero esserlo le elezioni europee?
«No, non mi aspetto alcun cataclisma».
Ma dai sette peccati capitali ci si può redimere e guarire?
«Se lo si vuole sì. Nel mio libro ho cercato di spiegare le cose come stanno. I problemi sono seri e non perché lo dico io. E affermare che anche altri Paesi europei non se la passano meglio, non aiuta di certo e, soprattutto, non risolve. Solo in questo caso semplificare è un male».
Io esisto in quanto certifico. I paradossi della burocrazia italiana. Adesso il paradosso è che dobbiamo fare anche il certificato di esistenza in vita. Tiziana Rocca su Affari Italiani Martedì, 17 dicembre 2019. Io esisto in quanto certifico. Sembra una bizzarria amministrativa ma nella foresta pietrificata della burocrazia italiana la realtà spesso è alquanto singolare. Oltre al certificato di nascita e al certificato di morte, ha preso piede nei rapporti con i privati come banche, Poste, assicurazioni la richiesta del certificato di esistenza in vita. Costo del dimostrare di essere vivo (per sei mesi): sedici euro più diritti di segreteria e quindi l’imposta di bollo. Inoltre, coloro che percepiscono la pensione a 85 anni, devono rifarlo ogni anno, cioè devono rinnovare il certificato di esistenza in vita di volta in volta con il passare del tempo. Capisco che questa procedura possa essere stata costruita per scongiurare degli imbrogli forse come quella che ha visto alcuni furbetti prendere la pensione del congiunto defunto…. Però c’è modo e modo! È tutto un certificato, da quando nasciamo…. Non c’è più niente di umano pure per dimostrare che sei in vita. C’è gente centenaria che ha una residenza in un posto ma il domicilio in un altro, e nessun parente che la possa aiutare, come si fa? Si ha anche confusione in questo caso, presso quale dei due comuni ci si debba recare se quello di residenza o quello di domicilio. In rete le tante lamentale delle persone che si recano agli sportelli, per fare il certificato per i loro genitori impossibilitati ad andarci sono dati di fatto anche per la spesa da sostenere che sembra irrisoria ma per molte famiglie così non è. Intanto il certificato dovrebbe essere a titolo gratuito visto che è un mio diritto. Mi sembra assurdo dover pagare anche il bollo per dimostrare che sono in vita! Mi sembra veramente mortificante che una persona che tutta la vita ha lavorato, versato contributi, e pagato tasse, debba fare anche un certificato di esistenza in vita, visto che nell’epoca moderna con tutti questi mezzi tecnologici basterebbe una chiamata facetime con la persona diretta interessata, così da togliere ogni dubbio sulla sopravvivenza della persona. Anche perché spesso la persona in questione ha reali difficoltà fisiche. Quindi, poi, tocca ai figli recarsi a fare il certificato con tutti i disagi del caso. Come oggi esiste la possibilità di fare visite mediche (per problemi semplici) tramite il video, senza doversi recare dal dottore, stiamo parlando delle famose “visite mediche telematiche”, si potrebbe inventare un sistema per creare il certificato di permanenza in vita tramite un sistema telematico che non preveda il doversi recare presso gli uffici pubblici che, potrebbe avere per di più, un delicato risvolto psicologico, al di là dell’aspetto logistico. Perlomeno per coloro che stanno attraversando l’ultima fase della propria vita, non sottovalutiamo l’ulteriore disagio di considerarsi sopportati in questo mondo di procedure e normative, tanto da dover dimostrare di essere vivi.
Burocrazia, in Italia è burofollia. Nino Maiorino il 26/01/2019 su Ulisseonline. E’ da poco iniziata su Radio 24, al mattino, la trasmissione di Alessandro Milan, Alino per gli amici, dal titolo “Uno, nessuno, 100.Milan”, che parla di tante cose e, spesso, di follie burocratiche, definite con il neologismo “burofollia”, riguardanti quelle pazzie della burocrazia italiana che si fa fatica a comprendere e a tollerare, come, ad esempio, quella di un pubblico ente che per recuperare 0,15 centesimi di euro non pagati, ha emesso una ingiunzione di pagamento di qualche centinaia di Euro; o i 65 adempimenti in 26 sportelli per aprire un’attività; o le centinaia di giornate che si debbono attendere per ottenere una autorizzazione per la edificazione di un capannone. Che la burocrazia in Italia sia un danno irreparabile non è solo una ipotesi oggetto di satira, ma una realtà incontrovertibile, oramai certificata a livello europeo, come è attestato da statistiche recentemente pubblicate. Trattasi di una elaborazione, riferita al 2017, della Cgia, l’Associazione di artigiani e piccole imprese, su dati della Commissione europea; sulla base dei quali è stata compilata una statistica della qualità dei servizi offerti dai pubblici uffici nei 19 paesi che utilizzano la moneta unica. Esaminando la quale si apprende che l’Italia si classifica al 18.esimo posto su 19 paesi, quindi al penultimo posto, peggio di noi fa solo la Grecia; al Belpaese è stato assegnato l’indice 24,7 (alla Grecia 19,1), mentre la palma del paese con la burocrazia più efficiente è stata assegnata alla Finlandia (80,5), seguita dai Paesi Bassi (75,6), Lussemburgo (75,5), Germania (71,4), Irlanda (67,7), Austria (66,9), Belgio (62,8), Francia (58,3), Estonia (54,4), Portogallo (50,1). La burocrazia, in senso lato, è l’insieme di regole, di apparati e di persone alle quali è affidata, a diversi livelli, l’amministrazione di uno Stato e anche di enti non statali. E’ uno dei pilastri di una democrazia, in quanto elimina le disparità tra le persone, che si presentano in condizioni di parità dinanzi alla pubblica amministrazione per ottenere, indipendentemente dalla condizione sociale, lo stesso trattamento. In teoria è così ma, purtroppo, per l’accavallarsi di norme, spesso in contraddizione tra loro, o di incerta interpretazione, da strumento di democrazia la burocrazia si trasforma in strumento di disparità sociale e, pertanto, diviene anche strumento di corruzione: più complesse, poco chiare, contraddittorie sono le regole, maggiormente i vari uffici, funzionari e addetti hanno facoltà di intervenire per risolvere i tanti problemi, e l’intervento personale alimenta, ovviamente, la corruzione; l’Italia ha maturato un indice di corruzione del 26,9, contro l’82,2 della Finlandia: l’assenza di corruzione è valutata con l’indice 100,0. “Sarebbe comunque sbagliato generalizzare, non tutta la nostra amministrazione pubblica è di bassa qualità. La sanità al Nord, molti settori delle forze dell’ordine, diversi centri di ricerca e istituti universitari -afferma il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo- assicurano delle performance che non temono confronti con il resto d’Europa. Ciò nonostante, il livello medio complessivo è preoccupante. La incomunicabilità, la mancanza di trasparenza, l’incertezza giuridica e gli adempimenti troppo onerosi hanno generato una profonda incrinatura, soprattutto nei rapporti tra le imprese e i pubblici uffici, cha ha provocato l’allontanamento di molti operatori stranieri che, purtroppo, non vogliono più investire in Italia anche per l’eccessiva ridondanza del nostro sistema burocratico”. Anche l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, è recentemente intervenuta per confermare che per il paese è imprescindibile avere una macchina statale che funziona bene. Secondo questa organizzazione la produttività media del lavoro delle imprese italiane è più elevata nelle zone con una più efficiente amministrazione pubblica. Sarebbe interessante, a questo punto, esaminare in dettaglio, all’interno del nostro paese, quali sono le regioni o le zone nelle quali la burocrazia funziona meglio e andarne ad analizzare i motivi; al momento l’unico dato disponibile, derivante sempre dalle elaborazioni della Cgia, è quello relativo al presunto costo della “mala burocrazia” italiana che grava sulle imprese, soprattutto al sud: circa 31.miliardi di euro all’anno: questo dato è tratto dall’ultima rilevazione effettuata dal Dipartimento della Funzione Pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. «Una cifra spaventosa – dice Paolo Zabeo – in parte imputabile anche al cattivo funzionamento della macchina pubblica che ormai sta diventando la principale nemica di chi fa impresa. Sempre più soffocate da timbri, carte e modulistica varia, questa Via Crucis quotidiana costa a ognuna di queste Pmi (piccole e medie imprese) mediamente 7.000 euro all’anno». E sempre la Cgia cita l’ultima indagine condotta dalla Commissione Europea sulla qualità della Pubblica Amministrazione su 192 territori dell’Ue, realizzata nel 2017, in cui le principali regioni del Centro-Sud d’Italia compaiono per otto volte nella classifica dei peggiori 20, con la Calabria che si classifica al 190.esimo posto. Il territorio italiano migliore, relegato comunque al 118.esimo posto a livello europeo, è il Trentino Alto Adige, seguito a pari merito da altre due regioni del Nordest, l’Emilia Romagna e il Veneto al 127.esimo e al 128.esimo posto, poi la Lombardia al 131.esimo posto e il Friuli Venezia Giulia al 133.esimo; comunque relegate nei posti medio-bassi della classifica. In particolare, siamo all’ultimo posto per quanto riguarda il costo per avviare un’impresa (13,7% sul reddito pro capite), per l’entità dei costi necessari per recuperare i crediti nel caso di un fallimento (22% del valore della garanzia del debitore), al terzultimo posto per quanto riguarda il numero di ore annue necessarie per pagare le imposte (238), per il numero di giorni indispensabili per ottenere una sentenza commerciale (1.120 giorni). Occupiamo il quart’ultimo posto per giorni necessari per ottenere il permesso per la costruzione di un capannone (227,5 giorni), e ci collochiamo al sestultimo posto per le spese in una disputa commerciale (23,1% del valore del valore della merce). Altre indagini, effettuate da fonti diverse, pubblicate recentemente sul quotidiano Avvenire, evidenziano che per recuperare un credito in Italia occorrono in media oltre 1100 giorni, contro i circa 650 della Polonia, i circa 480 della Spagna, i circa 450 della Germania e i circa 400 della Francia. I tempi processuali in Italia per aree geografiche confermano un notevole divario tra nord, centro e sud per la risoluzione delle controversie civili in genere: al nord occorrevano 256 giorni nel 2013, 251 nel 2014, 252 nel 2015; al centro occorrevano 378 giorni nel 2013, 393 giorni nel 2014, 375 giorni nel 2015; al sud, invece, occorrevano 552 giorni nel 2013, 538 giorni nel 2014, 537 giorni nel 2015. Se paragoniamo il sud al nord rileviamo che i tempi del sud sono più che raddoppiati. Questa è la preoccupante realtà della burocrazia in Italia che la freddezza e l’aridità dei numeri evidenzia in tutta la sua drammaticità. Allora, in attesa che qualcosa cambi, ma seriamente, e non come fece Calderoli con il falò delle 375.mila leggi inutili, o Renzi, il quale pure aveva promesso fuoco e fiamme contro questo serpente che aggroviglia e soffoca tutto, non possiamo fare altro che ascoltare quotidianamente le notizie di “burofollia” di Alino Milan, e sorridere amaramente.
Burocrazia, la più grande azienda del Paese. Ecodibergamo.it Lunedì 25 Novembre 2019. Le imprese hanno per la gestione dei rapporti con la pubblica amministrazione un costo quantificabile in 57 miliardi. Sono dati dello Studio Ambrosetti. La corruzione secondo le valutazioni della Corte dei Conti dovrebbe pesare nell’ordine di 60 miliardi. Conti ovviamente approssimativi ma che indicano un problema: le imprese devono ogni giorno battersi sul mercato con un braccio legato dietro la schiena. Hanno costi da sostenere in più. Per contro la spesa pubblica primaria dall’entrata dell’Italia nell’euro è cresciuta soprattutto nei primi anni del nuovo secolo del 3% rispetto al Pil. Sarebbe dovuta calare per facilitare il rientro dal debito in virtù dei bassi tassi di interesse garantiti dalla nuova moneta. Ma in Italia si è pensato che con l’euro i conti pubblici fossero messi in sicurezza dagli altri partner in salute finanziaria e quindi si è tornato a spendere. Morale: il debito aumenta ma la burocrazia resta. Stiamo parlando della maggior azienda del Paese con il 20% degli occupati che negli ultimi anni, sono dati del massimo esperto in pubblica amministrazione in Italia Sabino Cassese, ha avuto invero un calo degli addetti dell’8%, e ha anche perso in preparazione perché il suo personale laureato è al 40% mentre le funzioni che spesso sono richieste agli uffici pubblici implicano una qualificazione se non accademica però specifica. Nonostante la spesa pubblica sia cresciuta, non sono tuttavia cresciuti gli stipendi e quindi dagli insegnanti ai vigili del fuoco vi sono competenze, queste sì determinanti per lo sviluppo del Paese, sottopagate. Va anche detto che il semplice impiegato che non sempre gode di considerazione nella percezione pubblica diventa poi decisivo: da lui spesso dipende il procedere e il buon esito della pratica. Se è sottopagato e gode di bassa considerazione la motivazione scende, il rendimento anche e aumentano i rischi. Chi non è retribuito equamente in impieghi però determinanti per la vita pubblica di una comunità è più facilmente esposto alle tentazioni di una mazzetta e della classica busta sottobanco. È cronaca che ci accompagna quotidianamente e che pesa sulla competitività del Paese. La politica percepisce il problema ma lo affronta non con la determinazione che sarebbe per esempio di un imprenditore che deve rendere efficiente la sua azienda. Il motivo è che anch’essa ha necessità di dare spazio ai suoi addetti e ai suoi accoliti. Il cosiddetto spoils system, ovvero il fatto che ad ogni nuovo governo subentrino i fedelissimi del partito o del nuovo ministro, fa sì che le competenze vengano sparpagliate e si perda la continuità necessaria per perseguire i progetti in atto.
· Il Costo delle Opere Incompiute.
Rizzo: «Magistrati in politica? È legittimo ma così si alimentano i sospetti». Orlando Trinchi il 19 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Sergio Rizzo giornalista e scrittore. «Purtroppo la politica segue giorno dopo giorno ciò che può rappresentare fonte di consenso, ma è priva di strategia, dal Mose all’Alitalia, dalla green economy alle grandi opere». «Non vogliamo ricordare. Così torniamo sempre al punto di partenza». Questa sembra essere l’amara lezione che si ricava dalle pagine del nuovo libro del giornalista e saggista Sergio Rizzo, La memoria del criceto. Viaggio nelle amnesie italiane, uscito recentemente per i tipi della Feltrinelli, vasto e a tratti impietoso excursus fra le tante iniziative e opere pubbliche intraprese e mai portate a compimento, circolo vizioso di promesse disattese che costellano il cantiere Italia.
Rizzo, considera efficaci le ultime politiche miranti a ridurre il numero di opere pubbliche incompiute in Italia, come ad esempio la cosiddetta legge “sblocca cantieri”?
«La sblocca cantieri risulta ancora inefficace, mentre per il resto non si può certo dire che il numero di opere incompiute sia diminuito. Le statistiche andrebbero riviste. Se da anni i vari governi che si sono avvicendati lamentano il fatto che numerose opere non siano state ancora portate a termine, ciò non può certo costituire un segnale positivo».
Riguardo al Mose di Venezia, se ultimato, ritiene che sarebbe stato davvero di qualche utilità o, come ha invece sostenuto il consulente dell’ex giunta Cacciari, Armando Danella, avrebbe presentato alcune carenze progettuali?
«Stiamo parlando di un progetto nato alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso – in seguito al grave alluvione del ‘ 66 che comportò conseguenze molto gravi per la città di Venezia –, i cui lavori sono cominciati nel 2003, mentre la concessione risale addirittura al 1984: un’opera antidiluviana, soprattutto alla luce dei recenti cambiamenti climatici e del livello d’innalzamento dei mari. Ritengo sia doveroso che venga portata a termine ma penso, tuttavia, che dovrebbero essere presi provvedimenti di natura diversa, come, ad esempio, vietare l’ingresso in laguna delle grandi navi. Il problema di Venezia non va trattato in maniera superficiale e il Mose, da solo, non può rappresentarne la soluzione».
Riguardo alle Province, di cui tratta in un capitolo del libro, esse devono occuparsi anche della manutenzione di ponti e strade – che mostrano in alcuni casi carenze strutturali e di manutenzione –, però con meno fondi rispetto a prima. Lo trova un controsenso?
«Fondamentalmente, il problema delle Province risiede nella loro mancata riforma. Non si possono togliere competenze a loro e poi non conferirle ad altri. Da tutte le parti politiche è stata affermata l’inutilità delle Province. Una volta bocciato il referendum che ne sanciva l’uscita dalla Costituzione, tutto torna come in precedenza».
Ritiene che le misure relative al Green New Deal, appoggiate dal premier Conte, risulteranno anch’esse ridimensionate?
«Si tratta di iniziative adottate in modo estemporaneo sull’onda di una maggiore sensibilità da parte dell’opinione pubblica: manca loro, alla radice, un disegno organico. La politica asseconda giorno dopo giorno ciò che può rappresentare fonte di consenso, senza però avallare strategie convincenti.
Parliamo invece della sorte di Alitalia. Sembra prospettarsi, dopo l’ennesimo piano di ristrutturazione, un possibile ingresso futuro di Lufthansa. Cosa ne pensa?
«Non mi pare che ad oggi sussistano le condizioni affinché Alitalia possa continuare su questa scia. Si tratta di un’azienda dapprima pubblica, poi passata ai privati, che dal ‘ 96 non chiude un bilancio in utile. O esiste un problema di management o sotto si nasconde qualcos’altro. Non credo sia giusto costringere gli italiani a continuare a pagare più di quanto abbiano già fatto finora. A questo punto auspico che la compagnia venga venduta a un soggetto che abbia un piano aziendale credibile e prospettive valide o, in caso contrario, che chiuda. Non comprendo tutta quest’ostinazione politica al riguardo».
Per prendere in considerazione un’altra tematica di cui ha trattato diffusamente, ovvero la corruzione, lei crede che la nuova legge “spazzacorrotti” ed eventuali misure atte a limitare la circolazione del contante, dopo tanti tentativi andati a vuoto, riuscirebbero a segnare un giro di vite contro la corruzione?
«Bisogna vedere come queste misure saranno messe in pratica. Effettuare pagamenti attraverso mezzi elettronici per il fisco – e quindi anche per tutti gli italiani che pagano le tasse – rappresenterebbe un indubbio vantaggio. Penso tuttavia che per combattere efficacemente l’evasione fiscale sia necessario confrontarsi con un problema culturale più profondo».
Lei esamina anche il nodo irrisolto tra politica e magistratura. Crede che si potrà arrivare a un’efficace normazione di questo rapporto?
«Dipende da molteplici fattori, in primis dalla volontà di arrivarci. Nella scorsa legislatura erano stati fatti dei tentativi che mi sembra non abbiano ottenuto i risultati sperati. Vi sono delle resistenze da superare, espresse da talune corporazioni. Certe categorie detengono il potere di incidere in maniera rilevante sulla vita politica. Non si può, per la Costituzione, vietare a nessuno di candidarsi, ma sarebbe opportuna una presa di posizione etica molto forte da parte della magistratura e una legge chiara che la metta al riparo da sospetti».
Negli ultimi anni la qualità dello studio della storia sta peggiorando mentre guadagnano terreno l’approfondimento delle storie regionali. Le storie al posto della storia. Che sia l’unità d’Italia la nostra più grande opera incompiuta?
«Basti pensare che gli eventi relativi all’unità d’Italia si insegnano poco e svogliatamente, al pari della storia del fascismo e del dopoguerra, per non parlare della nascita dell’Ue. Non comprendo sinceramente l’accento posto sulle storie regionali. La storia è la storia. Non condivido l’autonomia scolastica delle varie regioni, perché porta inevitabilmente ad approfondire certi punti del programma a discapito di altri. Non ha senso, soprattutto in un momento storico in cui sarebbe auspicabile che le conoscenze siano più ampie e inclusive, non circoscritte nei confini angusti di un insegnamento limitato».
· Fondazioni, lo spreco è all'Opera.
Il mare magnum delle fondazioni. Oltre 53mila i politici imbarcati. La Commissione di garanzia senza mezzi e personale. Così è impossibile controllare i seimila think tank. (di Carmine Gazzanni – lanotiziagiornale.it 26 Novembre 2019) – La legge c’è. Il rischio ora, però, è che manchino gli strumenti. Sarà difficile, infatti, per una commissione formata soltanto da cinque magistrati controllare un coacervo immane di thin-tank, fondazioni, enti e comitati al cui interno gravitano la bellezza di 53.904 politici ed ex politici.È in questi numeri l’essenza del mare magnum delle fondazioni, quei soggetti che molto spesso, specie dopo l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, sono diventati centrali nella ricezione di finanziamenti per “addolcire” le politiche di questo o quel partito. Per capire di cosa stiamo parlando bisogna partire dallo “Spazzacorrotti”, la legge anti-corruzione fortemente voluta dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Con questo provvedimento (poi in parte modificato dal Dl Crescita) il Parlamento ha di fatto equiparato fondazioni, associazioni e comitati politici ai partiti. Un notevole e importante cambio di passo nello scenario italiano, soprattutto per i vari obblighi di trasparenza che ora ricadono su queste strutture. In questo modo – questo è il concetto – si vuole evitare che le fondazioni possano ricevere indebitamente denari, come capitato (secondo l’accusa) nel caso Parnasi con la fondazione “Eyu” di Francesco Bonifazi e con la “Più Voci” del tesoriere della Lega, Giulio Centemero. Peccato, però, che come scrive il solito e puntuale portale di trasparenza OpenPolis, “il problema è stato anestetizzato, non risolto”. Questo, perlomeno, è il rischio. A monitorare sul rispetto degli obblighi di trasparenza, infatti, c’è una Commissione composta da soli cinque magistrati.
ALLARME INASCOLTATO. E, come detto, la mole è eufemisticamente enorme. Come spiega ancora OpenPolis, infatti, per la legge rientrano nel novero degli enti da monitorare tutte quelle organizzazioni i cui organi direttivi sono composti per un terzo da persone che hanno avuto incarichi politici negli ultimi 6 anni nel Parlamento europeo e nazionale, nel Governo, nelle Regioni e nei Comuni con più di 15mila abitanti. Stiamo parlando di 53.904 persone, un numero talmente elevato che rende la fattibilità stessa dell’operazione un’illusione. Non a caso la stessa Commissione di garanzia, presieduta dal 14 novembre dal giudice della Corte dei conti, Amedeo Federici (che a sua volta ha preso il posto di Luciano Calamaro che aveva rinunciato all’incarico), ha lanciato più e più volte, in sede ufficiale e per via informale, allarmi sulla mancanza di mezzi e personale. Un esempio su tutti: nella relazione consegnata al Parlamento a maggio scorso, la Commissione scriveva: “Ne consegue a carico della commissione – in immutata composizione nelle strutture di supporto – un incisivo impegno istruttorio e di indagine per identificare, nell’ampio e diffuso contesto dell’associazionismo nazionale, quelle realtà che ricadono nell’area percettiva della norma”.
UN PO’ DI NUMERI. Ma di quante “realtà” stiamo parlando? In quella stessa relazione di maggio, la Commissione sottolineava che il numero delle realtà associative da monitorare fosse difficile da quantificare, e che si poteva aggirare sulle 6mila unità. Al di là delle strutture, il vero lavoro va fatto però sulle persone che, negli ultimi sei anni, hanno avuto incarichi politici in Italia. Per la precisione, secondo quanto riportato anche da OpenPolis, si tratta di 20.483 persone attualmente in carica, a cui bisogna aggiungere le 33.421 che invece hanno ricoperto tali ruoli negli ultimi sei anni. In totale parliamo, dunque, di 53.904 persone. Di cui: 208 nel Parlamento europeo; 245 nel Governo; 663 nel Senato; 1.303 a Montecitorio; 2.530 nelle Regioni. E poi la fetta più enorme: 48.955 nei Comuni con più di 15.000 abitanti. Il punto, davanti a questi numeri, è giungere a un aut-aut: o si forniscono mezzi e personale ai magistrati per monitorare il mondo delle fondazioni o, a questo punto, converrebbe ridurre il perimetro ai think-tank e alle associazioni più grandi e che agiscono su larga scala. Il rischio altrimenti è che, come si suol dire, passata la festa, gabbato lo santo.
Fondazioni, lo spreco è all'Opera. Tutti gli sprechi di enti lirici che, pur essendo fondazioni private, costano milioni di euro allo Stato, scrive Fabio Amendolara su Panorama. Il catalogo, potrebbe dire il Leporello di Don Giovanni, è questo: dagli scrocconi imbucati nella piccionaia del San Carlo di Napoli alle irregolarità gestionali del Lirico di Cagliari; dalle vertenze dei lavoratori del Carlo Felice di Genova ai tagli al personale del Comunale di Bologna. E poi ci sono i debiti alle stelle del Maggio musicale fiorentino e del Teatro dell’Opera di Roma. L’incapacità di intercettare sponsor del Teatro Verdi di Trieste. E i precari buttati in strada dalla Fenice. Oppure le leggerezze contabili del Regio di Torino, i bagarini della Scala, la finanza creativa dell’Arena di Verona, i regalini del vecchio governo all’Accademia di Santa Cecilia di Roma. Fino ad arrivare alla direzione di sala di stampo mafioso del Teatro Massimo di Palermo e alla corruzione al Petruzzelli di Bari. Già, la lirica in Italia non ha solo i conti in rosso. Soffre delle stesse patologie della pubblica amministrazione: sprechi, privilegi, sperperi e cattive gestioni. La riforma Melandri, che nel 1996 ha trasformato i teatri lirici da enti di diritto pubblico in Fondazioni private (sottoposte però a tutti i vincoli pubblici), non ha eliminato le vecchie incrostazioni. Anche perché, lo scopo era quello di incentivare l’ingresso di capitali privati, alleggerendo così l’impegno statale. E, invece, oggi le 14 Fondazioni lirico-sinfoniche assorbono ancora un sacco di soldi: 346 milioni di euro, circa 12 milioni in più del 2018. A stanziarli è il Fus, Fondo unico dello spettacolo. E dovrebbero essere ripartiti in questo modo: il 60 per cento diviso in proporzione all’ammontare dei contributi annuali ricevuti dai privati (Art bonus); una seconda quota (30 per cento) ripartita in proporzione all’ammontare dei contributi ricevuti dagli enti territoriali; e un’ultima parte (il 10 per cento) proporzionale in base al totale del Fus. Nonostante il 60 per cento debba arrivare dai privati, a conti fatti, il governo mette ancora sul piatto un bel po’ di soldi. D’altra parte si tratta dello spettacolo più costoso in assoluto da portare in scena. E sarebbe impensabile che si reggesse con la sola biglietteria. A leggere la relazione parlamentare dei giudici della Sezione di controllo della Corte dei conti, si reggono sulle proprie gambe il Santa Cecilia di Roma, la Fenice di Venezia e la Scala di Milano, che fa numeri di tutto rispetto: 900 dipendenti, un bilancio da 120 milioni l’anno e una programmazione in crescita. «Il 65 per cento del budget», fa notare Milena Gabanelli sul Corriere, «arriva da finanziamenti privati tra sponsor, soci fondatori e ricavi propri, cioè 35 milioni di biglietteria, mentre di 31 milioni è stato il contributo del Fus nel 2017». Dieci, invece, le fondazioni che non hanno cash privato. Il Verdi di Trieste, per esempio, ottiene solo 344.799 euro di sponsor e vive grazie agli oltre 8 milioni statali e ai 3 della Regione. Il viaggio nella crisi economica e di valori parte proprio da qui. Con Debora Serracchiani che per salvare la Fondazione, dopo i tagli disposti dal governo, chiede soldi ai privati. Inutilmente. A Bologna da un paio di anni a questa parte la parola d’ordine è sforbiciare. Ed è il leitmotiv di un accordo tra direzione e sindacati del gennaio 2017 e che prevede un risparmio sul personale pari a 900 mila euro, in cambio di un taglio di almeno 750 mila sui costi di produzione del Teatro e sulle consulenze. Più tagli per tutti, visto che anche il sovrintendente e il direttore generale devono ridursi progressivamente lo stipendio. Il Lirico di Cagliari, a leggere la stampa locale, rischia addirittura il commissariamento per uno scontro aperto tra la Fondazione e i dipendenti, ai quali sono stati chiesti indietro quasi 3 milioni di euro. Tutto sarebbe partito da una relazione del ministero delle Finanze molto critica sulla gestione amministrativa e che ha segnalato «gravi irregolarità gestionali» rilevate durante un controllo ispettivo del luglio 2017. In Toscana, se possibile, va anche peggio. Il debito della Fondazione del Maggio musicale fiorentino ha superato i 62 milioni di euro e, nonostante i regali del governo regionale Pd che, nel 2014, ha donato alla Fondazione il Teatro dell’Opera (valore 280 milioni), nel 2018 è risultata l’ente sinfonico più indebitato d’Italia. Qualche piacere il Pd lo ha fatto anche a Roma, dove all’Accademia di Santa Cecilia, nel cui cda siedono Gianni Letta, Luigi Abete e Franco Bassanini, sono arrivati contributi extra per 125 mila euro grazie al ministero guidato all’epoca da Dario Franceschini. Anche a Genova i vecchi amici del centrosinistra hanno tenuto il Teatro Carlo Felice in linea di galleggiamento, grazie a un contributo straordinario dell’autunno 2017 del Comune sull’orlo del baratro. A Torino, invece, l’inchiesta giudiziaria sul buco di bilancio del Teatro Regio è finita da poco in archivio: non c’erano manovre truffaldine nei conti, né distrazione di fondi. Ma adesso la palla è passata alla Corte dei conti, che dovrà valutare se ci sono state leggerezze nella gestione e sprechi evitabili. E anche a Roma è la Procura contabile a setacciare i finanziamenti del Campidoglio al Teatro dell’Opera. C’è un fascicolo sulla pioggia di milioni che dal 2008 a oggi è piovuta nelle casse della Fondazione capitolina. Un esposto dell’associazione Acf (Analisi fondi pubblici) ha puntato il dito sulla sproporzione tra i finanziamenti alla Scala, teoricamente prima per prestigio culturale, che riceve dal Comune di Milano una cifra molto più bassa rispetto a quanto entra nelle casse dell’Opera di Roma: 6,7 milioni di euro contro i 15,2 erogati dal Campidoglio. «Ben più del doppio», fanno notare sulle pagine romane del Corriere. Sulla finanza creativa dell’Arena, invece, indagano ancora i magistrati della Procura di Verona. L’inchiesta sta cercando di accertare se la Fondazione, per appianare una perdita in bilancio, avrebbe venduto a una sua controllata, Arena Extra, quasi 9 mila costumi, 3.850 bozzetti e l’archivio fotografico per sette milioni di euro. Fin qui nulla di strano. Ma si è scoperto che Arena Extra non avrebbe avuto liquidità sufficiente a pagare l’importo. Era solo una trovata contabile? Ma l’indice sull’Arena è puntato ormai da tempo anche sulle indennità, da sempre considerate degli sprechi. Paola Zanuttini per Repubblica riuscì a infiltrarsi tra le popolane egiziane dell’Aida e scoprì che per quella breve comparsata avrebbe incassato 30 euro netti in più per dover sopportare il caldo, più due indennità per l’esibizione all’aperto. L’indennità «armi finte», invece, veniva applicata a chi era costretto durante la scena a far roteare le spade. Ma quella delle indennità non è solo una patologia storica dell’Arena. Al San Carlo di Napoli scattava un’indennità «di lingua» quando nel testo c’era anche solo una parola straniera. E c’era perfino l’indennità «di frac» per il maestro. Qui resiste ancora una vecchia prassi che vede, durante l’entr’acte, gli «imbucati» andare a occupare i palchetti vuoti. E se a Napoli si cerca di scroccare l’ingresso, a Milano c’è chi è costretto a strapagarlo: i bagarini fanno incetta di biglietti e poi li rivendono a prezzi da capogiro. Dal Sud, invece, arrivano storie da Romanzo criminale: a Palermo il direttore di sala del Teatro Massimo, Alfredo Giordano, era un affiliato di Cosa nostra. Ora è un collaboratore di giustizia. Ha accusato boss e gregari ed è stato condannato in primo grado a sei anni e otto mesi per mafia. A Bari, invece, al Petruzzelli giravano mazzette per gli appalti. Lì anche l’ex direttore amministrativo Vito Longo è finito nei guai: oltre alle tangenti intascate, avrebbe comprato alcolici pregiati e cosmetici per sua moglie con i soldi della Fondazione. Per questa accusa la Corte dei conti nel 2017 lo ha condannato a risarcire 373 mila euro. Colpo di teatro garantito. Fabio Amendolara
· Ancitel: un carrozzone pubblico.
Portineria Romana per Dagospia il 30 settembre 2019. Smantellata. Pezzo per pezzo. L’Anci presieduta dal renziano doc Antonio Decaro, primo cittadino di Bari, ha deciso di rinunciare alla sua cosiddetta tecnostruttura ovvero quella società per azioni, Ancitel, che fino a meno di 10 anni era una sorta di gallina dalle uova d’oro. Un giocattolino a disposizione dell’associazione dei sindaci che per anni è stato assai utile e anche, vale la pena ricordarlo, fucina di progetti non irrilevanti su scala nazionale, dalla carta di identità elettronica al sistema che consente di pagare le multe automobilistiche nei bar e nelle tabaccherie. Insomma, un carrozzone pubblico, ma tutto sommato efficiente. Adesso, invece, sia per discutibili scelte manageriali sia per una serie di cavilli normativi, il giro d’affari di Ancitel, nata una trentina di anni fa, si è assai ridotto: sfiorava i 30 milioni di euro, è sceso sotto la soglia dei 10 milioni negli ultimi anni. Fatto sta che a farne le spese, come spesso accade in certi casi, sono i dipendenti. Presi a calci nel sedere da un gruppo di dirigenti pubblici che, quando si tratta di masticare politica, promette a gran voce di tutelare l’occupazione e creare nuovi posti di lavoro. Ed è lo stesso gruppo dirigente che, invece, se si tratta di archiviare pratiche divenute rognose, non guarda in faccia nessuno. Con buona pace dei valori sociali branditi dalla sinistra. Ma Ancitel non è mai stata una cassa a disposizione di una sola parte visto che cariche e consulenze sono state distribuite a tutto l'arco parlamentare, che manco il manuale Cencelli. Per dire: la poltrona di presidente, a lungo, è stata occupata da Osvaldo Napoli, che è tornato a sedere in Parlamento con la casacca di Forza Italia. Napoli, fermo ai box parlamentari per la legislatura 2013-2018, ebbe molto a che fare con la carica di presidente Ancitel: raccontano di un certo attivismo sul fronte degli affari internazionali, al punto che seguiva il management nelle missioni estere spesso accompagnato da un nutrito gruppo di assistenti e interpreti. Tempi andati e casse piene. La crisi aziendale ha portato ad altro. E la decisione di chiudere bottega l’ha presa Decaro che sulla tolda di comando dell’Anci era arrivato su indicazione dell’ex presidente del consiglio, Matteo Renzi. L’atto formale e drammatico si è consumato lo scorso 12 settembre quando i soci di Ancitel (Anci ha il 57%, il resto è sparpagliato tra Istat, Formez, Aci e Tim) hanno deliberato lo scioglimento. Ma la discesa era cominciata, come accennato, 7-8 anni fa. Dal 2012 in poi si sono succeduti, troppo rapidamente, quattro amministratori delegati e sono stati tentati ingressi nell’azionariato di soggetti privati. È in quel periodo che comincia un lento, silenzioso smantellamento: alcune attività cedute ad altri (Invitalia), altre ricondotte in Anci. Tutto questo con tagli agli stipendi fino a un terzo e stabilità occupazionale addio. I dipendenti erano più di 200, ora i 50 rimasti non dormono sonni tranquilli. I sindacati se la sono presa con la casa madre: «Mentre l’Anci continua a elargire lauti stipendi e a erogare sostanziosi premi ai propri quadri e dirigenti, i lavoratori Ancitel continuano a non avere alcuna certezza sulla conservazione del loro posto di lavoro e per essi, nella migliore delle ipotesi, si prepara un attacco alle retribuzioni» si legge in una nota unitaria Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm. Le organizzazioni sindacali hanno già messo a punto una succosa lista di stipendi elargiti in tutta la galassia Anci: i beneficiari si beccano, tra emolumenti base e premi non si capisce per cosa, anche più di 250.000 euro l’anno. Nell’elenco ci sono ex direttori Anci, ex sottosegretari, ex amministratori delegati della stessa Ancitel. Difficile dipanare la matassa e sciogliere i nodi. Il management è disorientato: in passato non sono bastati i consigli (non gratuiti) dei cervelloni di Kpmg, mentre si sono rivelate destabilizzanti altre vicende, tra cui alcune indagini che hanno portato la Guardia di finanza, pochi mesi fa, a perquisire la sede ufficiale e a sequestrare gli hard disk. Sono pieni di segreti? Lì dentro, si sussurra, c’è la risposta a tanti quesiti.
· Dipendenti pubblici, in Valle d'Aosta quasi uno ogni dieci abitanti.
Dipendenti pubblici, in Valle d'Aosta quasi uno ogni dieci abitanti. Dipendenti pubblici, in Valle d'Aosta quasi uno ogni dieci abitanti. In Italia sono il 14% degli occupati, meno che nella maggior parte degli altri Paesi europei. La Repubblica il 30 agosto 2019. Pochi, se rapportati alla media europea, e mal distribuiti sul territorio nazionale. E' la fotografia della presenza di dipendenti pubblici in Italia offerta dal Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Istat, Eurostat e Ministero dell'Economia e delle Finanze. "In rapporto al totale degli occupati, i 3 milioni e 219mila dipendenti pubblici italiani non si distribuiscono in modo omogeneo sul territorio nazionale, nemmeno rispetto al numero dei residenti", dice il rapporto. "Contrariamente a quello che si potrebbe pensare e sempre con riferimento al totale degli occupati, risultano però inferiori a quelli della maggior parte delle altre economie europee". Sul totale degli occupati, lavoratori e lavoratrici della Pa incidono per il 14%: quarto valore più basso in Europa, dietro Spagna (15%), Regno Unito (16%) e Francia (22%) e ben lontano dai Paesi del Nord. Tra i grandi, la Germania (10%) è alle nostre spalle. Come si diceva, ci sono disomogeneità sul territorio. Più di un occupato su cinque è dipendente pubblico in Valle d'Aosta (21,6%), Calabria (21,4%) e Sicilia (20%). "In cima a questa classifica compaiono principalmente le regioni del Mezzogiorno, con un'incidenza dell'impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale (14%)", annotano da ImpresaLavoro. "In coda alla classifica troviamo invece Veneto (10,5%), Emilia-Romagna (11,6%) e Piemonte (11,9%). Va poi sottolineato come il 9,3% della Lombardia nel numero dei dipendenti pubblici in rapporto agli occupati sia addirittura inferiore al 10% registrato in Germania". Se si cambia il rapporto e si pesano i dipendenti pubblici sulla popolazione, si ottiene ancora un'altra mappa: "A fronte di una media italiana del 5,3%, le regioni con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente sono infatti quelle a Statuto speciale. A guidare la classifica è infatti la Valle d'Aosta (11.826 dipendenti, pari al 9,3% dei residenti) davanti a Trentino Alto Adige (82.090 dipendenti, 7,7%), Friuli Venezia Giulia (83.413 dipendenti, 6,8%) e Sardegna (109.123 dipendenti, 6,6%). L'unica eccezione in tal senso è costituita dal terzo posto del Lazio, regione che però sconta l'elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (407.141 dipendenti, 6,9%). In fondo a questa particolare classifica si collocano invece regioni più popolate ed economicamente più sviluppate come Lombardia (410.923 dipendenti, 4,1%) e Veneto (223.336 dipendenti, 4,6%). Al di sotto della media nazionale troviamo anche Campania (282.048 dipendenti, 4,8%), Piemonte (216.810 dipendenti, 4,9%), Puglia (205.885 dipendenti, 5,1%) ed Emilia Romagna (228.306 dipendenti, 5,1%)".
· Gli imboscati e la guerra agli sprechi.
Gli imboscati e la guerra agli sprechi. Nella Pubblica Amministrazione ai tre milioni di dipendenti pubblici si aggiunge una schiera significativa di soggetti esterni: professionisti, consulenti, esperti e collaboratori a vario titolo, scrive Enrico Michetti, Esperto di pubblica amministrazione, presidente della Fondazione Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana, Domenica 03/02/2019, su Il Giornale. Nella Pubblica Amministrazione ai tre milioni di dipendenti pubblici si aggiunge una schiera significativa di soggetti esterni: professionisti, consulenti, esperti e collaboratori a vario titolo. È noto che la pubblica amministrazione ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione individui, in ossequio all'imparzialità dell'azione amministrativa, ogni specifica competenza di cui abbia necessità attraverso un pubblico concorso. Potendo pertanto lo Stato nelle sue diverse articolazioni approvvigionarsi di risorse umane selezionate in ragione di uno specifico e programmato fabbisogno, non si comprende perché lo Stato medesimo debba rivolgersi quasi sistematicamente al mercato esterno, con notevole aggravio di spese. L'utilizzo di risorse esterne è comprensibile nel piccolo comune che ha molto spesso un personale esiguo. Eppure i piccoli comuni riescono più di altre amministrazioni a essere autonomi. E ciò accade perché negli enti locali la prossimità al cittadino restituisce alla cultura della prestazione efficiente un ruolo centrale. Nei grandi ambienti della PA invece, ci si nasconde con facilità. I migliori del settore li chiamano «imboscati». Esistono, vengono tutti regolarmente pagati a fine mese, e si dividono tra «onnipresenti» e «itineranti». Gli onnipresenti vivono costantemente sul posto di lavoro e sono a prova di controllo biometrico, entrate e uscite sempre regolari, ma di loro nessuno ricorda un contributo alla causa. Gli itineranti sono di tutt'altra pasta. Sono sempre assenti giustificati, comandati a vita, vivono spesso a ridosso della politica e in taluni casi li avvolge un alone di mistero. Sono maestri nel far perdere le loro tracce e nel farsi dimenticare. Per loro il premio alla carriera consiste nel conseguire l'età pensionabile senza aver svolto neanche un giorno di lavoro per l'amministrazione che li aveva assunti. Nell'esame della spesa regionale non potevano quindi, mancare: consulenti, esperti, collaboratori e professionisti che rappresentano la cartina di tornasole di una sana o viceversa, deficitaria politica assunzionale. Sul punto occorre esser chiari. Il ricorso all'approvvigionamento esterno si giustifica soltanto se episodico e se operato, nel rispetto della trasparenza e della concorrenza, in settori particolarmente complessi e tecnologicamente avanzati. Oppure qualora vi siano preclusioni specifiche per il dipendente pubblico dettate dalla normativa. In tutte le altre circostanze rappresenta soltanto un inutile spreco.
· La voragine consulenze: in fumo 27 milioni l'anno.
La voragine consulenze: in fumo 27 milioni l'anno, scrive Emanuela Fontana, Domenica 03/02/2019, su Il Giornale. Tavoli, comitati, commissioni: costano alle Regioni italiane 15mila euro al giorno solo in consulenze. Ogni ora gli esperti esterni dei comitati guadagnano 1.800 euro dalle casse pubbliche. Altri diciotto milioni di euro sono investiti dalle Regioni in consulenze e prestazioni professionali di varia natura: sono altri 59mila euro al giorno. Quattro milioni e novecentomila euro l'anno se ne vanno in consulenti informatici: sedicimila euro quotidiani. Se si sommano tutte queste cifre (oltre 27 milioni di euro l'anno) si scopre che 90mila euro al giorno fluiscono mediamente dai fondi regionali ai portafogli dei consulenti, e in questo calcolo non sono compresi gli enti di ricerca. Sono 11mila euro l'ora, considerando giornate lavorative di otto ore. Centonovanta euro al minuto. Se proprio si vuole andare avanti, ogni secondo le Regioni spendono 3 euro in consulenze. È la verità sul mondo degli incarichi esterni così come è registrata dai dati di bilancio delle Regioni trasmessi al servizio Siope della Banca d'Italia e valutati dalla Fondazione Gazzetta Amministrativa della Repubblica Italiana (Gari) secondo un sistema di rating che tiene conto di numero di abitanti, estensione e numero di Comuni di ogni Regione. Nella puntata di questa settimana analizzeremo anche le spese per le collaborazioni occasionali o a progetto, che in alcuni casi stanno iniziando a sostituire i contratti a tempo determinato: oltre all'organico in dotazione, 57mila dipendenti divisi tra tutte le Regioni, c'è un esercito silenzioso di collaboratori pagati 18 milioni seicentomila euro l'anno. I dati fotografano insomma un mondo di istituzioni dove proliferano le spese per i comitati tecnici e che non valorizza le risorse interne, ricorrendo con molta disinvoltura al lavoro esterno, alle consulenze in particolare. Non è un sistema di reclutamento proibito, ma la pubblica amministrazione, ha scritto la Corte dei Conti in un referto del 2018 sulle consulenze negli enti locali della Toscana, «deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione e le sue risorse umane e strumentali, anche al fine di evitare inutili aggravi di costi». Eventuali incarichi esterni devono essere legati a «problematiche specifiche di natura eccezionale e straordinaria, imprevedibile e temporanea». Osservando i contratti pubblicati sui siti istituzionali, questi principi sembrano utopia. Con differenze notevoli da Regione a Regione. Nel 2017, per esempio, Campania, Piemonte, Calabria e Toscana hanno speso in consulenti (comitati e informatica esclusi) il 64% del totale delle Regioni, la Campania da sola il 20 per cento. Il carattere di imprevedibilità e urgenza degli incarichi non sempre è intuibile, anche se gli atti sono sempre motivati. La Toscana sceglie un consulente per «azioni di supporto a stili di vita favorenti l'invecchiamento attivo», La Puglia affida all'esterno la valutazione strategica del piano faunistico venatorio regionale (35mila euro). Il Piemonte ricorre a una consulenza per l'analisi sulla situazione occupazionale in aziende con più di 100 dipendenti. Il Lazio paga 80mila euro per due anni un esperto per il «Supporto all'adozione di interventi mirati alla tutela dei diritti dei minori e dei detenuti nonché dei soggetti vittime di violenza». Campania e Piemonte sono riuscite a ridurre le consulenze generiche di due terzi nel 2018, in Toscana sono addirittura aumentate a 2 milioni e 200mila. Risultano altissime, «spesa fuori controllo» secondo Gazzetta Amministrativa, le uscite in Basilicata (903.308) e Molise (650.375). Le più virtuose sono Abruzzo, Emilia Romagna e Lombardia. La Sicilia detiene il primato di dipendenti (14.199) ma non esagera in consulenze: 354mila euro (tripla A). Il Piemonte è la regione che nel 2017 ha sborsato di più per esperti informatici esterni (ICT): oltre mezzo milione di euro («spesa migliorabile»). C'è poi chi non si è risparmiato in consulenze per commissioni e comitati. Le valutazioni più basse, secondo il rating di Gazzetta Amministrativa, sono andate a Veneto e Marche, quest'ultima penalizzata però dai terremoti del 2016. La Regione retta da Luca Zaia ha speso oltre 650mila euro in consulenti di tavoli tecnici, 2mila euro al giorno. Nel 2018 ha ridimensionato questa cifra a mille euro annui. In Basilicata è «fuori controllo» (valutazione una sola B) la spesa per i collaboratori e i contratti a progetto: oltre 4 milioni. Meno contratti a tempo determinato, più cococo. Netto miglioramento nel 2018. Non risultano in tabella, ma una voce di bilancio che sembra imperversare è quella delle «altre prestazioni professionali e specialistiche», ovvero incarichi esterni che non rientrano nelle categorie della ricerca o della contabilità. In Basilicata sono state pari a 6 milioni nel 2017, 13 milioni nel 2018. In Puglia sfiorano gli 8 milioni di euro nel 2018, in Lombardia superano i 14 milioni.
· Pensioni: gli sprechi dell'Inps.
Pensioni: gli sprechi dell'Inps. L'editoriale del numero di Panorama in edicola è dedicato alla mala gestione dei beni immobili dell'Inps, scrive Maurizio Belpietro il 21 gennaio 2019 su "Panorama". Nell’estate di 24 anni fa un collaboratore de Il Giornale, di cui ero vicedirettore vicario, mi segnalò che in Parlamento era stata depositata una relazione sul patrimonio edilizio degli enti previdenziali. Dovete sapere che all’epoca la legge che regolava gli investimenti dell’Inps e degli altri istituti pensionistici imponeva ai vertici di tutelare i contributi dei lavoratori mettendoli sotto il mattone. Quello immobiliare era infatti considerato l’investimento più sicuro e redditizio, il solo in grado di preservare il denaro versato da dipendenti e aziende per garantire un futuro tranquillo. Tuttavia, dalla relazione consegnata alle Camere nell’estate del 1995, risultava una realtà assai diversa da quella che ci si sarebbe dovuti attendere. Pur avendo un patrimonio fatto di milioni di metri quadri, quasi tutti affittati, cioè messi a reddito, l’Inps e gli altri istituti riuscivano a perdere soldi. Anziché rendere, gli immobili erano un problema, perché costavano milioni, in manutenzione e spese di gestione. Ovviamente mi venne spontaneo cercare di capire come un simile spreco fosse possibile e per questo affidai ad alcuni colleghi l’incarico di fare un approfondimento. Ne venne fuori la più straordinaria inchiesta giornalistica sull’uso politico della cosa pubblica. Altro che Casta: Affittopoli era la dimostrazione che partiti e sindacati si erano appropriati dei beni degli italiani - in questo caso dei lavoratori e dei pensionati - e ne facevano un uso privato. Vittorio Feltri, che del Giornale era il direttore, cavalcò l’inchiesta e in breve scoprimmo i nomi di chi godeva di magioni a equo canone. Presidenti della Camera come Nilde Iotti con una vista su piazza Navona, a Roma, pagava pochi spiccioli. Segretari di partito come Massimo D’Alema con attici a Trastevere per poche centinaia di migliaia di lire, quando già un privato cittadino era costretto a pagare milioni per un bilocale. L’elenco era lungo e per settimane pubblicammo nomi e affitti, fino a costringere l’Inps a rendere pubblica la lista degli affittuari. Lo scandalo suscitato fu enorme. Alcuni dei beneficiati furono costretti a traslocare, mentre il governo - di sinistra - fu indotto a intervenire, modificando la legge sugli investimenti degli enti previdenziali e il sistema di gestione degli istituti, che dava al sindacato e alla politica ogni potere. In pratica, capi e capetti di Cgil, Cisl e Uil, che all’Inps erano i veri padroni (soprattutto della spartizione), furono estromessi dal consiglio di amministrazione. Tuttavia, se si guardano i risultati dopo quasi 25 anni, poche cose sono cambiate. Certo, molti immobili sono stati venduti, ma ahinoi, quasi sempre ai soliti privilegiati. Chi aveva ottenuto per meriti politici l’assegnazione di alloggi di lusso a pigioni da casa popolare, si vide offrire la possibilità di comprare casa in saldo, con il 30 o il 40 per cento di sconto. L’affare lo fecero ancora una volta gli esponenti della Casta, che dopo aver goduto di un’assegnazione e di un canone di favore, alla fine divennero anche proprietari a prezzo agevolato di un’abitazione che era stata comprata con i soldi dei pensionati e dei lavoratori. Sul Giornale raccontammo di alloggi passati di mano a valori che per i comuni cittadini erano inimmaginabili, ma la politica fece quadrato, tenendosi ben stretta la reggia conquistata. Lo sconto che era stato immaginato per agevolare i piccoli proprietari, titolari di alloggi in periferia, era divenuto il grimaldello per una classe politica approfittatrice per regalarsi un alloggio di lusso a poco prezzo. A quasi un quarto di secolo da quella storia e quell’inchiesta, per capire come sono gestititi gli immobili degli enti previdenziali e, soprattutto, come sono fatti rendere i soldi di lavoratori e pensionati, siamo perciò tornati a fare domande. L’inchiesta che potete trovare nelle pagine seguenti dimostra che poco è cambiato. Certo, non ci sono più gli appartamenti con Jacuzzi di Sergio D’Antoni, ex segretario della Cisl, e neppure quelli dati in uso all’ex direttore dell’Unità Walter Veltroni. Però lo spreco continua. Del grande patrimonio immobiliare dell’Inps, poco è messo a reddito, molto è abbandonato. Palazzi un tempo usati come colonie, edifici di prestigio in note località: il mattone che dovrebbe garantire le pensioni è lasciato in rovina. Milioni di metri cubi trascurati mentre non ci sono i soldi per finanziare quota cento o per rivalutare gli assegni erosi dall’inflazione. Tutto ciò mentre attorno al più grande ente previdenziale è in corso una battaglia per il potere. Il governo vorrebbe sostituire il presidente Tito Boeri, nominato da Matteo Renzi e contrario alle politiche dell’esecutivo, ma al suo fianco si sono schierati professori e giornali, che non vogliono un consiglio di amministrazione, ma preferiscono lasciare la guida dell’ente nelle mani del bocconiano. Si dice che chi guida l’Inps conti più di un ministro. È vero. Ma è anche vero che chi è seduto su quella poltrona, se non è controllato, può fare più danni di un ministro.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Keynes fece rinascere l’economia perché la restituì all’umanesimo.
Keynes fece rinascere l’economia perché la restituì all’umanesimo. Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Michele Salvati su Corriere.it. Il 16 aprile sarà nelle librerie un eccezionale Meridiano Mondadori. Eccezionale perché sono pochi i Meridiani non dedicati a grandi autori della letteratura e della filosofia. Ed eccezionale perché l’autore a cui è dedicato è una figura straordinaria, il più grande economista del secolo scorso, John Maynard Keynes (1883-1946). Il Meridiano comprende una nuova traduzione della sua opera principale, La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta del 1936 e altri 28 scritti, larga parte dei quali mai tradotti prima in italiano, fra cui la Lettera aperta al presidente Roosevelt a pochi mesi dalla sua elezione, uno scritto di singolare attualità come L’Arte e lo Stato e il saggio su Come pagare il costo della guerra del 1940, nel quale Keynes anticipa l’idea delle politiche dei redditi. Traduzioni, introduzione e cronologia della vita di Keynes sono di Giorgio La Malfa, mentre il corposissimo apparato di note è di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese. Il Meridiano Mondadori dedicato a John Maynard Keynes sarà in libreria dal 16 aprile (pagine 1.328, euro 80)C’è una ragione che spiega l’inclusione di questo lavoro nel disegno culturale che ispira i Meridiani. Keynes non è solo un economista, ma è anche colui che ha ricondotto questa disciplina nell’ambito delle scienze sociali e morali. Che ha rovesciato, alle soglie della Seconda guerra mondiale, il predominio di un indirizzo dominante nei cinquant’anni precedenti: una concezione dell’economia che aveva cercato di assimilarla alle «vere scienze», alle scienze della natura. E l’aveva ridotta ad una dismal science, ad una scienza arida e triste, al di fuori delle possibilità di comprensione e di attrazione per coloro che volevano, dagli economisti, un aiuto a capire e migliorare le società in cui vivono. Giorgio La Malfa Keynes vinse la battaglia, e anche alla sua vittoria teorica è dovuto il mondo di ieri, i trent’anni di benessere diffuso di cui i Paesi capitalistici e liberali avanzati hanno goduto tra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso. Ma non vinse la guerra e la reazione degli economisti tradizionali non si fece attendere per molto, anche con buone ragioni. Sicché oggi la disciplina versa in uno stato di frammentazione. L’età della disgregazione (Laterza) titola Alessandro Roncaglia la sua recente storia del pensiero economico contemporaneo, nei settant’anni che sono trascorsi dalla morte di Keynes: neo e post-keynesiani, neoclassici, neoliberisti, monetaristi, istituzionalisti, neomarxisti, evoluzionisti, economisti sperimentali e comportamentali, e molte altre scuole e sette. Non sempre è vero, anzi lo è di rado, ciò che diceva Mao Zedong: «La confusione è grande sotto il cielo. La situazione è eccellente». Ma questa volta lo è. E questa benefica confusione è soprattutto merito di Keynes (non solo suo, bisognerebbe aggiungere anche Piero Sraffa): è dovuta alla rottura del vaso di Pandora del paradigma dominante. Dunque alla riconduzione dell’economia alla via maestra delle scienze morali e sociali e di conseguenza ai dissensi e ai conflitti di opinione che inevitabilmente le attraversano. Per far capire anche al pubblico colto che persona fosse Keynes, quali le sue passioni e aspirazioni profonde, La Malfa ha utilizzato in modo eccellente le centodieci pagine del saggio introduttivo e le novanta della Cronologia, pienamente comprensibili anche da un lettore informato, ma con poche nozioni di economia: la Cronologia è in realtà un illuminante saggio biografico. E anche nel resto del Meridiano vi sono scritti e passaggi dai quali questo lettore può farsi un’idea delle idee politiche, della grandezza e dell’umanità di Keynes, a partire dall’ultimo capitolo della Teoria generale. Illuminazioni e sorprese sono poi abbondanti nei testi e nelle note. Quali le lezioni di Keynes oggi, a più di settant’anni dalla sua morte? Ragioni di scrupolo filologico, di attinenza al tema affrontato e ai suoi limiti, consigliano La Malfa di non affrontare un problema in cui sarebbero prevalse interpretazioni soggettive e non documentabili: interpretazioni di cui La Malfa non era stato avaro nel suo piccolo libro Feltrinelli, John Maynard Keynes, del 2015. La situazione odierna, in Italia, in Europa, nel mondo, è profondamente diversa da quella sulla quale Keynes ebbe a riflettere, ai tempi della Grande guerra e dell’infausto trattato di pace, della depressione degli anni Trenta, dell’assetto che le economie capitalistiche liberali e democratiche si diedero a Bretton Woods nel 1944. Conflitti interimperialistici rovinosi come quelli degli anni Trenta del secolo scorso non minacciano, per ora, l’ordine internazionale, ma gli Stati Uniti non ne sono più l’egemone incontrastato. Nonostante la grande crescita del reddito, la disoccupazione e la Povertà nell’abbondanza — è il titolo di uno dei saggi del Meridiano — ancora incrinano la coesione sociale di molti Paesi. E siamo nel mezzo di una rivoluzione tecnologica così veloce e profonda che non riusciamo a capire come sarà organizzata la società del prossimo futuro, e se riuscirà a dar lavoro, dignità e reddito ai suoi cittadini. Non sappiamo come Keynes avrebbe risposto a queste sfide. Ma sappiamo perfettamente come le avrebbe affrontate. L’avrebbe fatto convinto che un capitalismo temperato da interventi pubblici necessari, nel contesto di un ordine politico liberaldemocratico, può trovare la migliore soluzione possibile ai problemi della convivenza umana. In economia non ci sono leggi ferree che si impongono con la necessità delle leggi naturali e una «discrezione intelligente» può sempre prevalere su «regole stupide». Se qualcuno trova un’assonanza con quanto una volta disse Romano Prodi, questa non è casuale: Prodi si riferiva a Keynes. Una discrezione intelligente, orientata al bene comune, esige però classi dirigenti capaci di esercitarla. E questo è un non piccolo problema.
· La Questione Industriale Italiana.
Questione industriale italiana, arretratezza tecnologica impedisce nuova occupazione. Marco Bentivogli il 19 Dicembre 2019 su Il Riformista. Fra i compiti che l’Italia dovrebbe darsi per l’anno nuovo ce n’è uno strategico: sarebbe essenziale scrollarsi di dosso un po’ di “masochismo anti-industriale”, espressione letta nei giorni scorsi sul Sole 24 Ore per stigmatizzare quel misto di incuria, pressapochismo e ignoranza ai quali la politica, l’informazione e talvolta anche la magistratura attingono quando si occupano di Industria. Davvero non si comprende come un Paese che nel 2018 ha esportato beni per 463 miliardi di euro e che nell’ultimo decennio ha tenuto in attivo la bilancia delle partite correnti per una quota che oscilla fra i due e i quattro punti di Pil possa maltrattare in questo modo i comparti economici che lo tengono in piedi. Troppo spesso in Italia tanti parlano di fabbriche senza averne mai visitato una, troppo spesso ci si imbatte in politici o opinion leader con una cultura anti-industriale o – forse peggio – a-industriale. Il mondo non aspetterà la risoluzione delle nostre contraddizioni. Da una parte abbiamo il caso Ilva, con il suo incredibile groviglio di decisioni contraddittorie che stanno caricando la crisi sulle spalle dei lavoratori, che rappresenta la punta di un iceberg di un anti-industrialismo spesso tanto ideologico quanto superficiale. In parallelo la fusione fra Fca e Peugeot, per l’Italia l’operazione industriale più importante degli ultimi 20 anni, fa emergere con forza novità come quella della rappresentanza dei lavoratori nel Cda del nuovo gruppo, richiesta per la quale come Fim-Cisl ci battiamo da anni, che fa capire come l’evoluzione dell’industria sia un campo che continua a essere fecondo proprio sul piano sociale. Entrambi i casi si inseriscono in un contesto nazionale molto preoccupante. Negli ultimi giorni l’Istat ha aggiornato il bollettino della produzione industriale con dati gravissimi: a ottobre la produzione industriale è stata inferiore del 2,4% rispetto allo stesso mese del 2018 e dell’1,6% per i primi 10 mesi dell’anno. Pesante è l’arretramento dell’Automotive: -15,3% su ottobre 2018 e -9,9% su gennaio-ottobre 2018. Pesa soprattutto la flessione degli ordinativi dal mercato interno per autoveicoli e componenti aggravata dalla crisi della produzione d’auto in Germania, a sua volta vittima di un passaggio affrettato e confuso dal diesel all’elettrico. Ma ciò che dovrebbe far scattare un allarme rosso nell’opinione pubblica italiana sono i recentissimi dati, sempre Istat, sulla produttività: quella del lavoro, misurata come rapporto tra valore aggiunto e ore lavorate, ha subito una decrescita dello 0,3% nel 2018. Nel periodo 1995-2018 la produttività del lavoro ha registrato una crescita media annua di appena lo 0,4%, derivata da incrementi medi del valore aggiunto e delle ore lavorate rispettivamente pari allo 0,7% e allo 0,4%. Nel periodo 1995-2018, la crescita media annua della produttività del lavoro in Italia è stata decisamente inferiore a quella dell’Ue a 28: 0,4% contro 1,6%. Anche la produttività totale dei fattori è diminuita dello 0,2% nel 2018. Si tratta della misura del progresso tecnico e dei miglioramenti nella conoscenza e nell’efficienza dei processi produttivi. Su questo fronte la variazione è pressoché nulla nell’arco temporale 1995-2018. Ed è positiva nel 2018, seppure ma di appena lo 0,1%, la terza misura della produttività, quella del capitale (indicatore di quanto capitale viene utilizzato in modo efficiente per generare l’output). Nel periodo 1995-2018 la produttività del capitale ha addirittura registrato un calo medio annuo dello 0,7%. Dunque l’impasse della “questione industriale” italiana è un fenomeno strutturale sul quale è drammaticamente urgente intervenire non in modo episodico. Nessuno può illudersi che si ritorni all’industrialismo diffuso e “gigante” degli anni Sessanta quando si pensava che bastasse aprire una mega-fabbrica per risolvere le contraddizioni sociali di un territorio. Finì con le “cattedrali nel deserto” alle quali è impossibile tornare. Non foss’altro per il fatto che non esistono più in nessuna parte del mondo impianti industriali da 50.000 occupati com’era la Mirafiori. Occorre innanzitutto riallacciare un dialogo “culturale” fra l’industria e gli italiani tornando a fornire all’opinione pubblica le ragioni profonde dello sviluppo industriale. Si tratta di un lavoro complesso, di una “lunga marcia” che va percorsa nel tentativo di profilare una politica industriale coerente di cui l’Italia ha bisogno come il pane, ma anche a partire da operazioni come quella del libro “Fabbrica Futuro” (Egea Editore, 236 pagine, 22 euro) che ho scritto assieme al giornalista Diodato Pirone. La ragione ultima del libro è tornare a raccontare dopo tanti anni la linea di montaggio per quella che è davvero oggi. Il libro racconta l’evoluzione del lavoro in cinque fabbriche automobilistiche italiane: Pomigliano, Cassino, Melfi, Mirafiori e l’abruzzese Sevel, la meno nota anche se è il più grande stabilimento europeo di furgoni. Nella grande fabbrica di Melfi, in Basilicata, dove esiste un polo industriale fra i più importanti d’Europa con oltre 20.000 addetti, compresi quelli dell’indotto e della logistica, è emerso che il contenuto di lavoro in ogni auto prodotta oggi è superiore del 20% rispetto a quello di vent’anni fa. Avete letto bene: vent’anni fa la fabbrica assemblava circa 350.000 auto l’anno con 6.000 dipendenti, oggi lo stesso stabilimento sforna 350.000 pezzi circa ma con 7.600 dipendenti. Com’è possibile? Essenzialmente per due motivi. Primo: le autovetture prodotte oggi (Jeep Renagade e Fiat 500X) sono molto più complesse di quelle lavorate negli anni Novanta (Fiat Punto). Una Jeep ha 273 optional e 18 tipi di motore contro i 131 optional e gli 11 motori della Punto. Secondo: il modello di business aziendale di Fca è molto più sofisticato di quello della Fiat di un tempo perché “vende” prodotti a 3 miliardi di consumatori nel mondo e non più ai 60 milioni di italiani o tutt’al più ai 500 milioni di europei. Non è vero che i robot distruggono posti di lavoro ma è vero il contrario anzi, è l’arretratezza tecnologica che impedisce di creare lavoro. Non è vero che la fabbrica innovativa peggiora le condizioni di lavoro degli operai oppure che ha bisogno di tagliare le buste paga per restare in Occidente. Nel 2020, dunque, in Italia si può tornare a parlare di fabbrica come se fosse la “nostra fabbrica”, ovvero un bene sentito come un patrimonio dell’intera comunità? La risposta potrà essere positiva solo se gli italiani inizieranno a percepire la linea di montaggio per quello che sta diventando con l’avvento della digitalizzazione via Industry 4.0: un luogo di scomposizione del lavoro, ovvero di rimescolamento delle funzioni fra lavoro manuale e lavoro intellettuale e di crescita professionale complessiva. Se vogliono restare nel mercato, le imprese sono chiamate sempre più a produrre prodotti complessi che ingloberanno al loro interno anche quote di servizi (manutenzione, assicurazione, aggiornamento e sviluppo). Le aziende, dunque, sono obbligate a coinvolgere i loro dipendenti nel processo di aumento del valore aggiunto della produzione. Ecco perché paternalismo e antagonismo sono approcci non più adeguati e sempre più sterili mentre avanzano diversi modelli di “ingaggio cognitivo” che coinvolgono i lavoratori. Nelle fabbriche di Fca tutti gli operatori, dal direttore fino all’ultimo dei neoassunti, vestono la stessa tuta chiara e non più blu. Poi le palazzine uffici sono state tutte chiuse e gli impiegati sono dislocati lungo le linee di montaggio fianco a fianco agli operai. A Pomigliano, dove si sforna una Panda ogni 55 secondi e che 7/8 anni fa fu al centro di uno scontro furibondo sul “ritorno allo schiavismo”, i quadri sono divisi dagli operai da un semplice schermo di cristallo. Gli uni possono vedere in ogni istante quello che fanno gli altri e tutti ne guadagnano in efficienza: quando c’è un problema sulla linea di montaggio l’intervento del tecnico di supporto è immediato, secondo i canoni del lavoro di squadra che costituisce uno dei pilastri del sistema produttivo World class manufacturing (Wcm). A Cassino, dove si assemblano vetture prestigiose come le Giulia e le Stelvio dell’Alfa Romeo, in molti reparti non c’è nemmeno il cristallo a separare le funzioni professionali. Lungo le linee di montaggio moltissime operazioni sono “firmate” dagli operai premendo un apposito spazio sui computer dislocati nelle stazioni di montaggio o sui tablet di cui sono dotati per controllare la qualità della produzione. Nella fabbrica innovativa è comune incontrare giovani operai con diplomi tecnici che governano macchinari da milioni di euro in grado di svolgere funzioni complicatissime grazie ai lettori laser, come la collocazione curva delle guarnizioni lungo i profili le portiere delle scocche. Com’è noto, già oggi nelle fabbriche Fca più efficienti e partecipate, quelle che come Pomigliano hanno conquistato il livello oro del Wcm, ai lavoratori sono riconosciute indennità più alte rispetto a quelle assegnate a chi lavora in realtà meno avanzate. Si tratta di un segnale importante. In un recente convegno tenutosi a Detroit, un’importante società di consulenza ha sottolineato che in futuro la “capacità manifatturiera” sarà considerata un bene in sé. Cosa significa? Che la capacità di assemblare con alta qualità oggetti complessi come le automobili consentirà ai lavoratori del futuro di assemblare al meglio anche altri oggetti. La capacità manifatturiera diventerà dunque fra qualche anno un dato decisivo per attirare nei territori più competitivi i risultati delle ricerche tecnologiche che si svilupperanno in università o centri anche fisicamente lontani. È una notizia estremamente importante per un paese manifatturiero come l’Italia e per i lavoratori italiani che sono universalmente riconosciuti fra i più capaci al mondo. Alla qualità del lavoro, il governo dovrebbe dedicare molta più attenzione nei fatti e non nella retorica. Per questo è una vera fortuna che le fabbriche italiane di Fca arrivino alla fusione con Peugeot in ottime condizioni: in questi stabilimenti la sofisticazione dei processi di lavoro non è seconda a nessuno e le ristrutturazioni degli anni scorsi vi hanno introdotto tecnologie adeguate. Forse non possiamo più permetterci che questo patrimonio collettivo, punta di diamante di un sistema industriale che con tutti i suoi problemi resta una ricchezza fondamentale del Paese, non parli in italiano agli italiani.
· Dove si ruba il TFR.
AIUTO, SI SONO CIUCCIATI IL TFR. Giuliano Zulin per “Libero quotidiano” il 4 ottobre 2019. Oddio, mi è sparito il Tfr. Ben 3,3 milioni di lavoratori hanno deciso di "lasciare in azienda" la loro quota della liquidazione, che ammonta a circa il 7% della retribuzione. Peccato che se il dipendente è assunto in un' impresa superiore ai 50 addetti, il Tfr maturando (si chiama così) non resta in azienda. Finisce all' Inps, che in teoria dovrebbe "lavorare" questa somma in modo da consegnare una mini rendita all' operaio o all' impiegato quando andranno in pensione. Per legge la remunerazione prevista è dell' 1,5% più il 75% dell' incremento dell' inflazione, solo che siccome quest' ultima voce è praticamente nulla dato che i prezzi al consumo sono fermi, al lavoratore non resta che una misera rivalutazione. Ma tant' è, piuttosto di niente è meglio piuttosto, no? Il problema è un altro. Dal 2007, quando il governo Prodi decise che il Tfr non poteva più restare a disposizione delle aziende bensì doveva migrare all' ente previdenziale, gran parte dei soldi versati dagli italiani è stata utilizzata per altri scopi. I denari dei dipendenti sono stati spesi in giro, di qua e di là, a seconda delle evenienze. Insomma, all' Inps usano le liquidazioni degli italiani come bancomat. Le cifre sono spaventose. In dodici anni il Fondo Tfr presso l' Inps ha raccolto 68 miliardi, tuttavia oltre 36 sono spariti, come ha rivelato Il Sole24Ore di ieri. Pochi mesi fa la Corte dei Conti ha provato a capire dove siano finiti questi quattrini. E le risposte uscite dal governo sono da mani nei capelli. Il Ministero dell' Economia ha passato la palla a quello del Lavoro, che ha scaricato la patata bollente all' ente previdenziale presieduto da Tridico, il quale a sua volta ha citato leggi senza offrire risposte esaustive. Resta un fatto: un pezzo della busta paga di 3,3 milioni di italiani è sparito in 40 voci di bilancio, che l'esecutivo non ha intenzione di comunicare. In realtà, nel 2007, il comma 758 della Finanziaria aveva stabilito che le somme affluite all'Inps avrebbero dovuto essere utilizzate per "promozione edilizia ad alta efficienza energetica, fondo salvataggio e ristrutturazione imprese in difficoltà, imprese pubbliche, alta velocità, spese funzionamento della Difesa, rifinanziamento per investimenti". Chi li ha visti questi 36 miliardi spesi? È più facile ipotizzare che siano finiti nel calderone generale, alla faccia delle speranze degli iscritti al fondo Inps. Avvertiamo subito i lavoratori: i soldi volatilizzati li metterà lo Stato quando sarà il momento della pensione. Tranquilli... Questo però significa che il debito pubblico aumenterà. Magari di 68 miliardi. D' altronde il governo Prodi aveva etichettato le quote Tfr come entrate, non come passività. Capite? Avevano già intenzione di spendere e spandere gli stipendi dei lavoratori...Una beffa senza eguali, considerando la perdita di liquidità che hanno subìto le aziende dopo la riforma di 12 anni fa. Di punto in bianco hanno rinunciato, appunto, a 68 miliardi. Finiti a ingrassare le casse bucate dell' Inps e sottratte al ciclo economico. Per le imprese il danno non è comunque terminato: quando un occupato si congederà dal lavoro causa età, sarà lo stesso imprenditore che dovrà anticipare la liquidazione al dipendente. Sì, poi potrà chiedere un conguaglio sui contributi dovuti per gli altri lavoratori ancora attivi. Ma se la società dovesse chiudere? O se l'azienda non avesse debiti nei confronti dell' Inps? Di fatto la restituzione del Tfr al dipendente sarà un' altra tassa. Intanto l' Inps incassa e regala soldi, magari pure ai brigatisti. E dire che ieri, ad Assolombarda, Conte ha sentenziato: «L' azione politica non deve essere una lotta per l' appropriazione di risorse nell' immediato ma un progetto riformatore pienamente condiviso anche per il futuro». Lo dica pure ai 3,3 milioni di italiani beffati.
· Lo Stato moroso.
STORIE DI ORDINARIA MOROSITÀ. Marcello Zacché per “il Giornale” Il 17 luglio 2019. Fare dell'«insoluto» la propria filosofia di comportamento e applicarla sistematicamente. In altri termini: tentare di non pagare mai i propri debiti. Capita di incontrare o di avere a che fare con persone o società così, nella vita. Ma, certo, fa un po' più impressione quando a diffondere il verbo dell'«insoluto» è lo Stato stesso. O più precisamente una sua società controllata. Eppure capita proprio così, come in questa storia di ordinaria morosità. Protagonista assoluta: Anas spa, gestore delle strade e autostrade pubbliche, controllato dallo Stato, su cui svolge attività di indirizzo, vigilanza e controllo il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, oggi guidato da Danilo Toninelli. Tutto parte da un appalto vinto nel 2005 dal gruppo italiano leader delle costruzioni per lavori sulla strada statale 36 del Lago di Como e dello Spluga, per conto di Anas. In sede di consuntivo il gruppo presenta il conto. E dopo una serie di inutili tentativi di riscossione, nel 2015 inizia una causa civile per ottenere il dovuto. Dopo 4 anni, nel marzo scorso, il Tribunale emette la sentenza che intima ad Anas di pagare al gruppo di costruzioni la somma di 28,2 milioni. Ma la notifica della sentenza non basta. E la società procede ottenendo un atto di pignoramento presso terzi che, per legge, è maggiorato di un terzo a garanzia di spese accessorie. Così l' importo del pignoramento sale a 42,3 milioni. Ma ancora non serve perché l' importo pignorabile non si trova da nessuna parte: il legale del gruppo, lo studio Luponio & associati di Roma, invia a tutte le banche italiane il pignoramento. Ma la risposta è sempre la stessa: anche dove Anas ha un conto corrente, le disponibilità risultano tutte già vincolate per precedenti pignoramenti. Ed ecco il bello (se così si può beffardamente dire) di questa storia: l' elenco degli atti di pignoramento da eseguirsi sui conti Anas presso le banche è sterminato. Siamo nell' ordine dei 200 milioni. E dentro si leggono importi di ogni tipo. Quindi non solo per grandi opere come quella della nostra storia; o come il caso dei 54 milioni vincolati a favore di una società romana; ma anche una lunga serie di pignoramenti nell' ordine di qualche milione o centinaia di migliaia di euro; fino a scoprire che nell' elenco compaiono anche insoluti da 1.257, da 438 e addirittura da 344,39 euro. Un segnale della sistematica volontà di non pagare né niente né nessuno. Si badi che ogni pignoramento presso terzi implica una serie di spese di almeno mille euro e una trafila che prevede il deposito in tribunale, la nomina del giudice dell' esecuzione, un'udienza e l' emissione dell' ordinanza. Sono altri 6-9 mesi In pratica ci troviamo di fronte a una società dello Stato e (il governo Renzi ha spostato il 100% di Anas sotto le Fs, che a loro volta sono al 100% del Mef) e vigilata dal governo che: 1) non paga fornitori e creditori; 2) accolla ai contribuenti l' onere del recupero crediti; 3) contribuisce all' intasamento della giustizia civile, sempre a danno dei cittadini e dello Stato stesso; 4) indebolisce il suo stesso azionista e di nuovo i contribuenti sprecando soldi pubblici per interessi e mora; 5) causa ulteriori danni potenziali a quelle imprese per le quali attendere 5-7 anni per un credito importante può significare anche la chiusura. La nostra storia ha poi un lieto fine perché Anas, da ex ente pubblico, è tra i pochi soggetti che ha un conto corrente anche presso la Banca d' Italia. E spesso, nel pignoramento presso terzi, pochi pensano a via Nazionale. Invece lo studio Luponio è andato anche lì. E ha avuto ragione: Bankitalia ha vincolato l' intero importo di 42,3 milioni in attesa del verdetto del giudice dell' esecuzione. L' udienza è stata fissata per il gennaio 2020: per Anas (e per tutti noi) saranno almeno altri 3-400mila interessi di mora in più da pagare. Mentre il conto finale - a carico di noi contribuenti - risulterà quasi raddoppiato rispetto all' appalto iniziale. Il tutto senza che la società, il suo azionista pubblico e il ministero competente abbiano mosso un dito per oltre 14 anni.
Fallito per colpa dello Stato, approvata la legge Bramini. Fondo di garanzia per gli imprenditori che avanzano crediti dal pubblico, ma "ancora non basta". Dario Crippa il 12 dicembre 2018 Il Giorno. Qualcosa si muove. Il vicepremier e ministro Luigi Di Maio ha annunciato ieri che "in Consiglio dei Ministri abbiamo approvato un decreto legge che, come primo articolo, ha la cosiddetta legge Bramini, che prevede che gli imprenditori che aspettano soldi dallo Stato e lo Stato non li paga avranno delle agevolazioni". L’annuncio è arrivato attraverso un video pubblicato su Facebook al termine del Consiglio dei ministri che ha approvato il decreto Semplificazioni. "Prima di tutto se sono in ritardo con i pagamenti il fondo di garanzia dello Stato gli garantirà i pagamenti in modo tale da non fargli saltare i conti dell’azienda, poi non gli potranno pignorare la casa con le procedure che stanno utilizzando", ha aggiunto. "Finalmente aiutiamo imprenditori che devono avere soldi dallo Stato a non perdere la casa", ha concluso. Sergio Bramini era diventato noto suo malgrado dopo la pesante situazione giudiziaria che lo aveva visto fallire nel 2011 nonostante avesse un credito di oltre 4 milioni dallo Stato. La Icom di Bramini, specializzata nel trattamento rifiuti, si era trovata infatti a lavorare per conto di alcune Ato in Sicilia e in Campania che non lo avevano mai pagato. Bramini aveva pignorato la sua villa a Monza nell’attesa che i debiti venissero saldati ma alla fine era stato costretto a capitolare. E la sua villa era stata messa all’asta e assegnata proprio pochi giorni fa a un imprenditore cinese. Nominato lo scorso giugno consulente del nuovo Governo per mettere mano a una riforma della legge sui fallimenti, Bramini vede ora coronati almeno parzialmente i suoi sforzi. E dal video di ieri Di Maio invia "un grande abbraccio a Sergio Bramini e alla lotta che ha fatto". Soddisfatto? "Sì, ma non del tutto" precisa Bramini. Che spiega: "Questo fondo dovrebbe essere allargato, non ci sono soltanto le imprese che avanzano crediti dallo Stato, ma ci sono anche artigiani, commercianti, professionisti che si trovano in queste condizioni e devono essere aiutati. Le case non devono essere più svendute a “fondi avvoltoio” e a chi ci specula, chi la perde deve essere messo nelle condizioni di potersela riprendere pagando il suo debito".
Quando lo Stato non paga: "Dai Comuni 3,6 miliardi di debiti coi fornitori. A Roma il Comune ha 1,5 miliardi di debiti con cinquemila imprese. A Milano, Torino, Cagliari e Venezia gli insoluti rimangono non solo elevati ma addirittura in aumento. La denuncia della Cgia di Mestre. Tra i peggiori pagatori anche Napoli e Palermo. Today l'11 maggio 2019. Imprese non pagate, artigiani chiamati a pagare tasse dallo stesso Comune che ancora non salda le fatture: un debito di 3,6 miliardi di euro, -al 31 dicembre 2018- quello dei principali Comuni italiani nei confronti dei propri fornitori. È il sindacato della piccola media impresa Cgia di Mestre a fare il punto sul vecchio nodo dei mancati pagamenti della Pubblica amministrazione. Una somma che, avverte la Cgia, risulta per altro essere sottodimensionata, visto che non include molte amministrazioni che ad oggi non hanno pubblicato o aggiornato sul proprio sito il numero dei creditori e l'ammontare complessivo dei debiti maturati. "Molti Comuni continuano a liquidare i propri fornitori con tempi abbondantemente superiori a quelli stabiliti per legge. In particolar modo al Sud" segnala il coordinatore dell'Ufficio studi Cgia Paolo Zabeo. "Lo stock degli insoluti rimane ancora elevato e in molti casi addirittura in aumento rispetto agli anni precedenti. Come nei casi di Roma, Milano, Torino, Cagliari e Venezia". "Grazie all'introduzione della fatturazione elettronica - afferma il segretario della Cgia Renato Mason - le cose sono migliorate. Dalla fine del mese di marzo del 2015, infatti, tutti i fornitori della Pa hanno l'obbligo di emettere la fattura in formato elettronico. Una disposizione che ha reso più trasparente il rapporto commerciale tra il pubblico e il privato, anche se il debito complessivo rimane ancora da definire e i ritardi nei pagamenti spesso sono ancora del tutto ingiustificati''.
Roma: 1,5 miliardi di debiti con cinquemila imprese. Dai dati ricavati dalla lettura dei siti internet, il Comune di Roma è quello più indebitato: al 31 dicembre 2018 i fornitori dell'amministrazione capitolina (pari a 4.966 imprese) avanzavano 1,5 miliardi di euro. Nella graduatoria dei peggiori pagatori scorgiamo anche il Comune di Napoli con 432,2 milioni di mancati pagamenti (599 imprese creditrici), il Comune di Milano con 338,2 milioni di euro (2.124 imprese creditrici), l'Amministrazione comunale di Torino con 299,1 milioni (1.161 aziende creditrici) e il Comune di Palermo con 137 milioni (909 imprese in attesa di essere liquidate).
Lo Stato che non paga: debiti con le imprese per 57 miliardi, ma intanto le tartassa .
Lo Stato moroso: quando la legge non è uguale per tutti (di Leonardo Johnson Scandola 27 novembre 2015). “Se entro il 21 settembre paghiamo tutti i cinquanta miliardi di debiti della pubblica amministrazione Bruno Vespa farà un pellegrinaggio a piedi da Firenze al santuario di Monte Senario”. E’ passato poco più di un anno (la puntata è del 14 marzo 2014) da quando Matteo Renzi, ospite a Porta a Porta, promise solennemente alle imprese creditrici della Pubblica Amministrazione (PA) un pronto rientro dopo anni di pesante morosità. Tutti sappiamo come andò a finire: nonostante nel biennio 2013-2014 siano stati messi a disposizione quasi cinquantasette miliardi di euro (dati del Ministero dell’economia e delle finanze) alla scadenza del 21 settembre 2014 ne sono stati pagati solo trentadue circa, pari al cinquantasei per cento del totale stanziato. Resta però una domanda: a quanto ammonta complessivamente il debito della PA? Difficile dirlo con certezza (sic!), ma un indizio verosimile lo ha dato recentemente la Banca d’Italia stimando, nella sua “Relazione annuale sul 2014”, che “il debito commerciale complessivo delle Amministrazioni pubbliche sarebbe diminuito da circa settantacinque miliardi alla fine del 2013 a poco più di settanta alla fine del 2014, segnando una riduzione di circa il cinque per cento. La stima, caratterizzata da un grado di incertezza non trascurabile per la natura campionaria di alcune informazioni, deriva dalla somma di due componenti: a) i debiti commerciali ceduti a intermediari finanziari con clausola pro soluto, rilevati dalle segnalazioni di vigilanza; b) le passività commerciali ancora nei bilanci delle imprese, stimate utilizzando le indagini campionarie sulle imprese condotte dalla Banca d’Italia.”(Relazione annuale sul 2014, Banca d’Italia, p. 107)
Se dallo stock dimensionato dalla Banca d’Italia togliamo dunque quegli 8,4 miliardi di euro che sono stati ceduti a intermediari finanziari con la clausola del pro soluto, lo stock di debito nei confronti delle imprese ammonterebbe a oltre sessantasei miliardi di euro. Seppure le stime della Banca d’Italia mostrino dunque una riduzione dei debiti commerciali della PA pari a circa il cinque per cento (Relazione annuale sul 2014, Banca d’Italia, p. 108), i dati Eurostat indicano che il debito commerciale della PA in Italia – relativo alla sola spesa corrente ed esclusi i debiti acquisiti da intermediari finanziari con clausola pro soluto – è ad oggi il 3,1% del PIL, il valore più elevato tra i Paesi dell’Unione Europea e più del doppio della media dei ventotto Paesi (“Studio tempi di pagamento della PA a 144 giorni, 92 giorni superiore alla media UE. Debito della PA verso fornitori in calo, ma rimane il più alto d’Europa”, Confartigianato Imprese). Nello specifico, nonostante i tempi di pagamento nell'ultimo anno siano scesi di ventuno giorni, Intrum Justitia riferisce che la PA italiana continua a saldare mediamente i propri fornitori dopo ben centoquarantaquattro giorni, paragonati ai trentaquattro giorni medi che si registrano nell’UE. Rispetto ai nostri principali partner economici, basti pensare che la Francia salda le proprie fatture dopo sessantadue giorni, i Paesi Bassi dopo trentadue giorni, la Gran Bretagna in ventiquattro giorni e la Germania dopo soli diciannove giorni. Eppure, ai sensi del Decreto Legislativo 9 novembre 2012, n. 192 “per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”, a partire dal 1 gennaio 2013 tutte le PA dovrebbero saldare i propri debiti al massimo entro sessanta giorni.
Dovrebbero, per l’appunto. Un altro segnale che qualcosa non torni nella gestione del rientro dalla grave morosità ce la fornisce lo stesso Governo, direttamente dalla pagina web creata per monitorare il pagamento dei debiti scaduti. I dati resi disponibili dall’esecutivo sono, ad oggi, ancora aggiornati al 30 gennaio 2015, nonostante proprio il Ministero, nel “Protocollo di impegni pagamento debiti PA” del 21 luglio 2014, si fosse impegnato a “potenziare le attività di monitoraggio, assicurando una costante pubblicizzazione dei risultati conseguiti”. La verità è che ci troviamo di fronte ad un circolo vizioso dal quale difficilmente si potrà uscire: la PA, allo scopo di garantire il proprio funzionamento, necessariamente continuerà ad acquistare beni e servizi da privati, alimentando così l’ammontare del proprio debito nei confronti delle imprese. Liquidare i debiti pregressi di per sé non ridurrà affatto l’esposizione della PA, riduzione che si potrebbe raggiungere esclusivamente qualora i nuovi debiti che si creano risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Ne consegue che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti è costato nel 2014 alle imprese italiane una cifra pari a 6,1 miliardi di euro. Tale stima è stata calcolata dal Centro Studi Impresa Lavoro prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra PA (così come certificato da Bankitalia), l’andamento della spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, il centro studi ha stimato che questo costo aggiuntivo per gli interessi sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013). Tali costi appaiono ancora più pesanti se si considera che, come riportato dalla Cgia di Mestre, in Italia sono ben tre milioni e quattrocentomila – pari al settantasei per cento del totale nazionale – le imprese che soffrono di problemi di liquidità riconducibili al ritardo nei pagamenti e che settecentomila si trovano sul punto di dichiarare il fallimento e di aggiungersi alle oltre ottantamila che lo hanno già fatto. Il cane che si morde la coda, direbbe qualcuno.
“Most, probably, of our decisions to do something positive, the full consequences of which will be drawn out over many days to come, can only be taken as the result of animal spirits — a spontaneous urge to action rather than inaction, and not as the outcome of a weighted average of quantitative benefits multiplied by quantitative probabilities”. Così scriveva John Maynard Keynes nel 1936, cogliendo intelligentemente che l’economia di un paese è determinata anche da quegli “spiriti animali” che muovono e influenzano l’azione umana. L’evidente illegalità in cui versa la PA, nella sua incapacità di rispettare i termini di pagamento previsti per legge, unita all’esosa e severa imposizione fiscale in capo alle imprese, non può che determinare un clima di forte sfiducia da parte degli investitori nazionali ed internazionali. Ecco allora che la ricetta per uscire dalla crisi parte anche da qui, dal ridisegnare un rapporto cittadino-Stato che ad oggi è eccessivamente piegato alle ragioni e alle esigenze del secondo. A nulla serviranno proclami, lotte all’evasione fiscale, riforme del lavoro se prima non si interverrà sulle inefficienze dell’azione amministrativa e giudiziaria, su una spesa pubblica improduttiva che, ad oggi, al posto di stimolare e tutelare le attività economiche finisce addirittura con l’ostacolarne l’azione. Riuscire a garantire il rispetto dei tempi di pagamento da parte della PA rappresenta dunque una sfida imprescindibile per contribuire alla ripresa economica del paese. Il rischio, al di là delle promesse di pellegrinaggio sui colli fiorentini strappate in diretta tv, è quello di rimanere inghiottiti dal debito pubblico, dalla stagnazione, da una spesa pubblica fuori controllo. A ben vedere, in tal caso, a farne le spese non saranno solo quelle centinaia di migliaia di imprenditori creditori della PA, ma tutti noi.
Debiti shock con imprese: se lo stato paga fallisce. Franco Bechis su Libero Quotidiano il 12/01/2012. La cifra ufficiale nessun governo l’ha mai fornita. Secondo Confindustria il debito dello Stato nei confronti delle imprese fornitrici ammonta a circa 70 miliardi di euro. Ma la cifra è sicuramente in difetto. La cifra ufficiale nessun governo l’ha mai fornita. Secondo Confindustria il debito dello Stato nei confronti delleimprese fornitrici ammonta a circa 70 miliardi di euro. Ma la cifra è sicuramente in difetto. All’interno del ministero dell’Economia si dà per scontato che ammonti ad almeno 90 miliardi. Una cifra che si può leggere anche in un altro modo: 6 punti di Pil. Il problema è che sia in Italia che a Bruxelles viene letta proprio in questo modo. E per uno di quei pasticci delle regole contabili che restano incomprensibili ai cittadini comuni e anche a ragionieri che da decenni lavorano in azienda, quei debiti dello Stato nei confronti delle imprese sono oggi invisibili all’Unione europea e ai parametri di Maastricht, ma se fossero pagati diventerebbero un minuto dopo debito pubblico in grado di fare impazzire i conti italiani e fare volare a cifre impensabili lo spread. In pratica un debito che oggi è vero come il pane che non possono mangiare i dipendenti delle imprese fornitrici dello Stato fino a quando non verrà saldato, non esiste invece per i guardiani dei conti pubblici comunitari. Quando invece verrà pagato alle imprese, per noi del mondo normale quel debito verrebbe estinto, per le regole di Maastricht invece emergerebbe solo a quel punto e il rapporto fra debito e Pil salirebbe di sei punti. Un disastro. La follia ha una spiegazione, che parte da due dati semplici. Il primo è un’affermazione apodittica: signori di Maastricht hanno deciso che i debiti della pubblica amministrazione con i fornitori non debbano essere conteggiati nel debito pubblico di ciascun Paese. Eurostat, secondo i principi di bilancio pubblico Sec05, non li conteggia. Così come non conteggia il debito previdenziale nei confronti dei cittadini che pure esiste. Quindi per la Ue quei 90 miliardi che l’Italia deve alle imprese fornitrici semplicemente non esistono. Il secondo motivo - che è la ragione per cui quel debito si è accumulato e non viene pagato - è banalissimo: lo Stato non ha i soldi per pagare i fornitori. Sui conti correnti di tesoreria non c’è la liquidità che servirebbe. Ogni tanto arriva qualcosa, e dopo molto tempo si paga qualcuno. Ma i soldi per tutti non ci sono. Tanto è che un coraggioso magistrato della Corte dei Conti, Aldo Carosi, ha scoperto che per ovviare a quella mancanza di liquidità sulla spesa corrente, lo Stato aveva espropriato dal fondo Tfr dei lavoratori dipendenti la bellezza di 16 miliardi di euro senza nessunprogramma di restituzione. Carosi è stato molto criticato, poi è stato promosso giudice della Corte Costituzionale e del tema non si occupa più. Se soldi per pagare i fornitori non ci sono, bisognerebbe fabbricarli. Questo potere però da quando c’è l’euro l’Italia non l’ha più. Resta una sola soluzione: emettere titoli di debito pubblico e riversare lì la liquidità ottenutadal collocamento per pagare i fornitori. Questo per piccole tranche si fa, ma per saldare una partita da 90 miliardi impossibile: altrimenti salirebbe di sei punti il rapporto fra debito e Pil e l’Italia verrebbe stangata dalleincredibili regole Ue (per cui conta la forma assai più della sostanza) e dalla speculazione internazionale che farebbe schizzare lo spread. C’è chi ha proposto di saldare il debito con i fornitori pagando invece che con la liquidità, in titoli di Stato. Lo aveva ipotizzato anche il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, alla vigilia del decreto salva-Italia. Non è stato fatto perché nella sostanza nulla cambierebbe: per pagare in titoli, il debito dovrebbe crescere nello stesso modo. Emettere titoli destinati alle imprese fornitrici e poi con la liquidità ottenuta riacquistare debito pubblico risolverebbe il problema con una mezza truffa contabile che sposterebbe solo temporalmente più in là negli anni il buco che si verrebbe a creare. In questa situazione è inutile sperare nella direttiva europea che impone agli Stati di pagare le imprese entro 60 giorni: se non si trova una soluzione tecnica, l’Italia non l’applicherà come tante altre direttive, prendendosi tirate d’orecchie e magari anche sanzioni comunitarie che costano meno del pagamento immediato ai fornitori. Bisogna anche dire che tutto questo caos ha un’origine chiara: la stretta di cassa operata dal 1996 in poi dal trio Romano Prodi - Carlo Azeglio Ciampi - Dino Piero Giarda. Grazie a quella stretta, che di fatto iniziò a congelare il pagamento dell’Italia alle imprese fornitrici per almeno 50 mila miliardi di lire dell’epoca (26 miliardi di euro circa), il governo Prodi riuscì a imbellettare i conti pubblici in modo da essere accolto fin dal primo momento nell’area dell’euro. Un prezzo talmente alto che ancora oggi ci si chiede se valeva davvero la pena pagare. Questo macigno al momento non ha soluzione: i tecnici del ministero dell’Economia stanno cercando tutte le soluzioni possibili per sbloccare almeno in parte quei 90 miliardi facendoli passare attraverso strutture indirette (ad esempio Cassa depositi e prestiti) e coinvolgendo il sistema bancario. Ma la fantasia finora non ha trovato la soluzione e i margini sono sempre più stretti. Nel frattempo rischiano di fallire migliaia di imprese fornitrici.
Lo Stato non paga i debiti e fa fallire 100mila aziende. La denuncia delle coop: «Una chiusura su quattro è colpa dei ritardi della Pa». Sicilia maglia nera. Gian Maria De Francesco, Mercoledì 25/07/2018 su Il Giornale. «Negli anni della crisi sono fallite 100mila imprese a causa dei ritardi di pagamento della pubblica amministrazione». Non ha usato mezze misure il presidente dell'Alleanza delle Cooperative, Maurizio Gardini, ieri nel corso dell'assemblea della federazione che riunisce circa 40mila coop italiane, un piccolo gigante da 150 miliardi di fatturato, ossia l'8% del Pil del nostro Paese. L'incapacità dello Stato di onorare i propri debiti condanna all'estinzione il tessuto sano dell'imprenditoria italiana. «A conti fatti - ha aggiunto Gardini - tra i fallimenti, uno su quattro è stato determinato dai mancati pagamenti della pubblica amministrazione». Per quanto riguarda il sistema della cooperazione, i debiti dello Stato ammontano a circa 3 miliardi di euro, ossia il 5% del totale di 60 miliardi. Ecco perché il numero uno di Confcooperative e dell'Alleanza ha avanzato una richiesta semplice quanto precisa al governo. «Con la dovuta considerazione del delicato equilibrio dei conti pubblici, occorre intervenire perché le imprese continuano in troppi casi a fare da banche alla Pa». Non si tratta di una metafora azzardata perché in alcuni casi fornire beni e servizi alle amministrazioni pubbliche significa equivale a finanziarle. Ne sanno qualcosa le coop sociali della Sicilia: i tempi di pagamento della Regione sono di 18 mesi in media, mentre quelli dei grandi Comuni si attestano sui 12 mesi. Cioè si aspetta da un anno fino a un anno e mezzo per il saldo delle fatture quando la normativa europea, recepita in Italia, impone di onorare i debiti entro 30 giorni che possono arrivare a 60 solo per giustificati motivi. Altri problemi provengono, poi, dalle imprese che si costituiscono fittiziamente in cooperativa giocando al massimo ribasso su tutti gli appalti (inclusi quelli per la gestione del sistema di protezione dei rifugiati e dei centri di identificazione ed espulsione) gettando anche discredito sull'intera categoria. Le false cooperative, infatti, eludono il fisco per oltre 750 milioni di euro e rischiano di «far morire di legalità» oltre 4.000 cooperative della logistica e del welfare che operano correttamente sul mercato. Di qui la necessità di «una legge per misurare l'effettiva capacità delle tante associazioni di rappresentanza sia dei lavoratori sia delle imprese: le associazioni devono rappresentare gli interessi reali delle imprese o dei lavoratori che associano», ha ribadito Gardini. Un punto condiviso dal ministro del Lavoro, Luigi Di Maio. «Faremo una legge sulle false cooperative iniziando dalla calendarizzazione della proposta di legge di iniziativa popolare», ha detto ricordando che «molte nascono negli studi dei commercialisti per aggirare la fiscalità di impresa: combatteremo questo fenomeno con una lotta senza quartiere». Giudizio sospeso sul decreto Dignità: all'Alleanza piacciono le norme che premiano chi investe in Italia e non delocalizza ma, allo stesso tempo, è stato posto l'accento sull'opportunità di reintrodurre i voucher, «strumento utile per far emergere il lavoro nero». Analoga preoccupazione per la reintroduzione delle causali nei contratti a termine che rischia di far impennare il contenzioso.
· Gettoni d'oro mai coniati, truffa da 700mila euro.
Gettoni d'oro mai coniati, truffa da 700mila euro. Cinque dirigenti della Zecca indagati. I premi erano legati a trasmissioni famose come "I fatti vostri". Alla Rai venivano fatte pagare false fatture, scrive il 4 aprile 2019 La Repubblica. Fatturavano alla Rai le spese dei gettoni d'oro per i concorsi a premi legati a trasmissioni televisive, ma le monete non erano state coniate. I finanzieri del Comando provinciale di Roma hanno scoperto una truffa da oltre 700 mila euro a danno della Rai e stanno notificando l'avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di cinque dirigenti ed ex dirigenti dell'Istituto Poligrafico dello Stato Spa per i reati di truffa aggravata e frode nelle pubbliche forniture. Un'altra truffa dopo quella smascherata da Report tre anni fa, quando in alcuni gettoni mancavano 5 grammi per chilo, come denunciato da una concorrente. E Il caso coinvolse la Banca Etruria che era il fornitore a cui si rivolgeva il Poligrafico dello Stato. L'accordo, sottoscritto tra la Rai e dell'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato per la fornitura, nel triennio 2013 - 2016, di gettoni d'oro da consegnare ai vincitori di concorsi a premio promossi dall'emittente pubblica nell'ambito di varie trasmissioni televisive, tra le quali "Red Or Black", "Uno Mattina", "Super Brain - Le Super Menti", "I Fatti Vostri", "Mezzogiorno In Famiglia", "L'anno Che Verrà", "La Terra Dei Cuochi", "La Prova Del Cuoco" e "Affari Tuoi". I dirigenti facevano coniare le monete solo nel caso in cui i concorrenti sceglievano di averle al posto dei soldi, ma fatturavano ugualmente le spese con una documentazione falsa. In questo modo i dirigenti facevano risparmiare le spese del conio e, allo stesso tempo, raggiungevano gli obiettivi aziendali loro assegnati, ottenendo incentivi annui pro capite fino a circa 45.000 euro.
· I tesori di lady Eni.
Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 24 ottobre 2019. Eni l'ha ribadito più volte, anche con comunicati ufficiali: "Le negoziazioni con gli advisor finanziari di Malabu non hanno avuto buon fine e si sono interrotte nel novembre 2010". Erano le trattative per acquistare i diritti d' esplorazione di Opl 245, il gigantesco giacimento petrolifero al largo delle coste nigeriane, avviate con la società Malabu attraverso la mediazione dell'"advisor finanziario" Evp di Emeka Obi. Ora Eni e i suoi dirigenti (tra cui l' amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni) sono a processo a Milano per corruzione internazionale, con l' accusa di aver pagato una mega-tangente di 1,092 miliardi di dollari. Ma davvero "le negoziazioni si sono interrotte nel novembre 2010"? No, a guardare i nuovi documenti arrivati da Ginevra dopo una faticosa rogatoria della Procura di Milano: Emeka Obi continua nei mesi seguenti a incontrare gli uomini ai vertici dell' Eni (Claudio Descalzi e Roberto Casula) a Milano, a Parigi, a Londra e anche nella capitale della Nigeria, Abuja. Perché i manager della compagnia petrolifera italiana hanno continuato a incontrare Obi almeno fino al febbraio 2011? Che motivo avevano di parlare con lui, anche dopo che avevano raggiunto un accordo diretto con il governo nigeriano? Per quale motivo incontrarlo ripetutamente, se davvero Obi era solo il mediatore della società Malabu, che ormai era stata esclusa dalla trattativa? Sono le prime domande suggerite dalla valigetta di documenti più contesa della Svizzera, arrivata a Milano, al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, dopo tre anni di braccio di ferro e sei pronunce delle autorità giudiziarie elvetiche. Il trolley era stato sequestrato a un fiduciario svizzero nell' aprile 2016 dai magistrati di Ginevra che stavano indagando su un' altra vicenda. Conteneva documenti, un hard drive con 41 mila file elettronici, chiavette usb e passaporti britannici e africani. Il tutto apparteneva a Emeka Obi, che con la sua Evp (Energy Venture Partners) - e con l' intervento di mediatori italiani come Luigi Bisignani e Gianluca Di Nardo - aveva tentato di vendere a Eni la licenza di Opl 245 per conto di Malabu, società riconducibile all' ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete, il quale se l'era fatta concedere dal governo per una cifra bassissima. La trattativa dura fino all' ottobre 2010, quando lo schema cambia e l' operazione, prima apertamente indecente, diventa safe sex fatto "con il condom", scrive l' Economist già nel 2012: Eni paga 1,092 miliardi di dollari non a Malabu e a Etete, bensì versandoli su un escrow account di Jp Morgan a Londra su cui opera il governo della Nigeria, che poi provvede a distribuirli ai conti nigeriani di Malabu per farli arrivare - secondo l'ipotesi d'accusa - a Dan Etete, al presidente della Repubblica Goodluck Jonathan, ad altri politici e mediatori nigeriani e forse anche italiani. Per questo affare, Obi è già stato condannato per concorso in corruzione internazionale, in primo grado con rito abbreviato, a 4 anni di carcere. Ora le sue carte segrete arrivate da Ginevra aggiungono elementi agli argomenti dell' accusa. Tra queste, c'è una lunga e meticolosa cronologia su foglio elettronico. Rivela che ha continuato a seguire l' affare almeno fino al febbraio 2011. Domenica 31 ottobre 2010, Obi incontra Etete a Parigi, all' Hotel Bristol. Lunedì 1 novembre, ai due si unisce anche l' ex diplomatico russo Ednan Agaev, che faceva da mediatore per Shell, partner di Eni nell' affare Opl 245 (e sua coimputata nel processo di Milano). Giovedì 4 novembre, Obi incontra direttamente Descalzi, nel quartier generale di Eni a Milano. Il 16 e il 17 novembre, Obi incontra Descalzi a Milano in maniera più riservata, ai grandi magazzini Coin. La cronologia aggiunge, tra parentesi: "drinks". Sempre al Coin di Milano, il 30 novembre avviene un incontro con Descalzi e Casula ("drinks"). Lo stesso giorno, il meeting si sposta all' Hotel Four Seasons di Milano, con la partecipazione di Etete, Casula e Agaev. Il 1 e il 2 dicembre, sempre al Four Seasons, s' incontrano Etete e Agaev. Venerdì 10 dicembre è Casula a incontrare Obi, a Milano, per un pranzo ("lunch") alla Scala. Poi, il 13 gennaio 2011, Casula incontra Obi in Nigeria, ad Abuja. Il 17 gennaio il meeting è nell' ufficio dell' Attorney general nigeriano, Mohammed Bello Adoke. Il 31 gennaio Casula incontra Obi nel quartier generale della Nae (Nigerian Agip Exploration), la consociata nigeriana di Eni. Il 2 febbraio, Obi incontra Descalzi a Londra, in hotel, e domenica 14 febbraio vede Descalzi, Casula e il manager Eni in Nigeria Vincenzo Armanna all' Hilton Hotel di Abuja. Se questi documenti entreranno nel processo di Milano sulla presunta corruzione internazionale in Nigeria, Eni e Descalzi dovranno spiegare perché hanno continuato a negoziare con Obi e quali erano i contenuti di questa trattativa fuori tempo massimo, visto che ormai l' affare Opl era stato concluso - almeno formalmente - direttamente con il governo nigeriano. Per chi lavorava Obi? Secondo Eni rappresentava la Malabu di Etete. Secondo Armanna, era invece uomo di Scaroni e Descalzi, platealmente cacciato da Etete che non lo riconosceva come mediatore. Saranno i giudici a decidere.
Da ilfattoquotidiano.it il 18 ottobre 2019. “Mia moglie è una imprenditrice che ha molteplici attività all’estero, dove vive e lavora, come posso essere a conoscenza di tutti gli investimenti che ha effettuato nel tempo o che intende fare? Allo stesso modo, lei non s’interessa delle mie attività“. L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, risponde così, in un’intervista al direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini, alla domanda sulla società Petrol Service che ha lavorato per l’Eni in Africa e che secondo la procura di Milano faceva capo a Maria Magdalena Ingoba, moglie di Descalzi e insieme a lui indagata per omessa comunicazione di conflitto di interessi per questa vicenda, oltre che per corruzione internazionale in Congo. Tamburini gli chiede se la Petrol Service “era di sua moglie” e il manager risponde di non saperlo. Nel box dedicato alle indagini che lo coinvolgono – intitolato “Sono tranquillo e confido che la verità sia accertata” e a parte rispetto alla lunga intervista – Descalzi espone la sua linea difensiva e sulla vicenda delle commesse alle società della moglie afferma che “primo è stato fatto un audit esterno al gruppo, durato un anno, da cui risulta che ogni commessa è sempre sta assegnata in un contesto competitivo. Secondo, le prestazioni sono state effettivamente rese e corrispondevano agli standard contrattuali e di qualità richiesti. Terzo stiamo parlando di vicende la cui genesi risale a prima che diventassi amministratore delegato. Quarto, nessuna delibera al riguardo è mai arrivata all’attenzione del consiglio di amministrazione né alla direzione generale. Quinto, quel tipo di appalti esulava dalle mie competenze manageriali. Infine, se mai avessi avuto conoscenza di un possibile conflitto, lo avrei comunicato”, conclude. Descalzi si dice “del tutto tranquillo” per le inchieste sulla corruzione internazionale in Algeria e Nigeria. “No”, è la sua risposta alla domanda se ritenga di aver fatto errori. “Confido nel pieno accertamento della verità, che sarà completo alla fine del dibattimento in corso”. “Il processo è in corso. Non voglio fare commenti su un imputato, prima che testimone”, dice poi quando viene interpellato a proposito degli interventi del supertestimone e grande accusatore Vincenzo Armanna.
Sandro De Riccardi per ''la Repubblica'' il 28 settembre 2019. L' amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, indagato per omessa dichiarazione di conflitto di interessi. La moglie, Maria Magdalena Ingoba, indagata per corruzione internazionale. L' indagine della procura di Milano sulle concessioni petrolifere al Cane a sei zampe in Congo, dopo le inchieste per le presunte corruzioni sui giacimenti in Algeria e Nigeria, è partita quasi due anni fa sull' ipotesi che pure per il giacimento nello stato dell' Africa Centrale siano state pagate tangenti milionarie, anche a funzionari locali. Ed è nell' analisi dei contratti e dei flussi finanziari che il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, con i suoi sostituti Sergio Spadaro e Paolo Storari, s' imbatte nei rapporti tra Eni e società riconducibili a Ingoba.
Le scatole cinesi. Sono cinque entità (Petro Services e Petro Serve Shipping) in Congo, Gabon, Ghana e Mozambico, che (dal 2009) la moglie di origini congolesi dell' ad di Eni non controlla in modo palese, ma attraverso una complessa catena societaria. Le rogatorie le riconducono a Petroserve Holding (in Olanda), a sua volta controllata da Cardon Investments (in Lussemburgo), di proprietà di due fiduciarie cipriote. In cui gli investigatori sono convinti di aver scoperto lo stretto legame di Ingoba con Alexander Anthony Haly, uomo d' affari britannico residente a Monaco, che si rivelerà il vero fulcro dell' inchiesta. Cardon Investments è infatti controllata dal 2009 da due ulteriori società: al 66% da Cambiasi Holding, riconducibile a Ingoba, e al 33% da Maggiore Ltd, di Haly. Quote che l' 8 aprile 2014, pochi giorni prima della nomina ad amministratore delegato di Descalzi, Cambiasi vende (ad appena ventimila euro) a Maggiore, lasciando Haly unico proprietario.
Gli appalti coniugali. Per la procura, tra il 2007 e il 2018, sono circa 300 i milioni di dollari in commesse assegnate da Eni alla galassia Petroservice, senza informare gli organi societari. E nonostante queste società - ha verificato la Guardia di Finanza di Milano - non avessero una vera organizzazione aziendale. Rispetto anche ad altre realtà del mercato africano - per esempio quello angolano - con un know-how più sviluppato e a costi più vantaggiosi nel settore dello shipping. Per questo Ingoba - insieme al marito - è stata iscritta nel registro degli indagati per omessa dichiarazione del conflitto d' interessi. Ma a far scattare l' accusa di corruzione internazionale - esclusa allo stato per Descalzi - sono invece i legami societari di Ingoba proprio con Haly, ritenuto dalla procura suo prestanome, e attivo negli affari per lo sfruttamento del giacimento Marine XI. «Non ho mai avuto rapporti con Cardon», aveva assicurato la moglie di Descalzi. «Accuse nei miei confronti prive di fondamento», ha detto due giorni fa anche l' ad Eni.
La concessione miliardaria. Marine XI è un pozzo petrolifero valutato circa due miliardi di euro. Nel 2013, Wnr Congo acquista una quota del 23% del giacimento. I suoi azionisti però rimangono a lungo schermati dietro trust e società off shore. È stato L' Espresso a svelarne, un anno fa, la composizione azionaria, riconducibile in buona parte a soggetti legati a Eni, tutti ora sotto inchiesta per corruzione internazionale a Milano: oltre a Andrea Pulcini, ex dirigente Agip e per il settimanale registrato come procuratore Eni, sua moglie e i manager Eni Roberto Casula (ex) e Maria Paduano, tra gli azionisti compare proprio Haly.
La cassaforte nel Principato. Presente in Wnr e socio di Ingoba, la figura di Haly è da mesi centrale nell' inchiesta. Tanto che i pm hanno inoltrato rogatoria ai colleghi del principato di Monaco - dove Haly nei mesi scorsi è stato perquisito per avere la documentazione bancaria di Petro Services. I 300 milioni in appalti incassati da Eni sono ancora depositati lì o sono stati dirottati altrove, per esempio su conti svizzeri? E chi ne sono i beneficiari finali? Per avere le risposte a queste domande, il procuratore De Pasquale invia la rogatoria a Monaco il 2 febbraio 2018. Ricevendo, solo il 6 giugno scorso, un secco no a causa di errori degli stessi monegaschi sull' analisi del materiale informatico. «Un blocco degno d' altri tempi», commenta un investigatore con amarezza. Mitigata dal fatto che proprio ieri sono arrivati in procura, dopo tre anni di attesa, i documenti della valigetta sequestrata a Ginevra nel 2016 a Obi Emeka, presunto mediatore già condannato per corruzione internazionale nel processo Eni-Nigeria. «Se ci sono tutte queste indagini, non è che va tutto perfettamente - ha commentato ieri il viceministro allo Sviluppo economico, Stefano Buffagni (M5S) -. Qualcosa in quell' azienda va cambiato».
Luigi Ferrarella per il “Corriere della sera” il 27 settembre 2019. «Conflitto di interessi» sotto il tetto coniugal-aziendale di Eni. Dal 2009 al 2014 cinque società «Petro Services» in Congo, Gabon, Ghana e Mozambico, possedute da una catena di società o di trust che tra Olanda, Lussemburgo, Cipro e Nuova Zelanda era controllata in maniera non pubblica dalla moglie Maria Magdalena Ingoba dell' attuale amministratore delegato dell' Eni Claudio Descalzi, hanno affittato, per un controvalore contrattuale di oltre 300 milioni di dollari nel 2007-2018, navi e servizi logistici all' Eni di cui Descalzi era già top manager, senza che questo rapporto commerciale fosse comunicato al consiglio di amministrazione Eni e agli azionisti della multinazionale italiana quotata in Borsa. Descalzi e sua moglie congolese sono perciò indagati per l'ipotesi di «omessa comunicazione di conflitto di interessi» (da 1 a 3 anni in base all' articolo 2629 bis del codice civile, ma soltanto «se siano derivati danni alla società o a terzi»): la Procura di Milano ieri ha ordinato alla GdF di perquisire la loro casa (lui era presente, lei è in Giappone), in una attività coordinata con i magistrati francesi che in tutt' altra vicenda esplorano i rapporti tra Ingoba e la figlia del presidente del Congo, Denis Sassou Ngueso, il cui entourage è sospettato di arricchimenti illeciti in Francia. «Non ho mai sentito parlare della società "Cardon", non ho mai avuto a che fare con questa società», aveva risposto il 20 dicembre 2018 la signora Ingoba la prima volta che il Corriere aveva indicato il possibile nesso tra lei e quella società lussemburghese apparentemente attestato da informazioni lussemburghesi. E anche Eni aveva smentito, depositando in Procura un audit esterno che concludeva per un «sostanziale rispetto delle procedure di approvvigionamento», oltre che per la regolarità dei contratti e delle condizioni di mercato, senza favoritismi ai fornitori o costi in più per Eni. Ma ora le rogatorie dei pm De Pasquale-Storari-Spadaro ricostruiscono che le 5 «Petro Services» fornitrici di Eni in Africa erano controllate dall'olandese «Petroserve Holding Bv», la quale era tutta della lussemburghese «Cardon Investments Sa», che almeno dall'aprile 2009 era controllata da due fiduciarie cipriote: al 66% la «Cambiasi Holding Ltd» riconducibile alla moglie di Descalzi, e la «Maggiore Ltd» (nel restante 33%) riconducibile al 35enne uomo d' affari britannico-monegasco, Alexander Anthony Haly. A metà 2012 «Cambiasi Ltd» passa sotto un trust della Nuova Zelanda, il «Loba Trust», che come settlor (cioè soggetto disponente) ha la moglie di Descalzi, e come beneficiaria economica Simone Antoniette Ingoba: stesso cognome di Magdalena Ingoba, e domicilio in passato a casa della moglie e poi della figlia di Descalzi. L'8 aprile 2014, 6 giorni prima che il governo Renzi indicasse Descalzi al vertice di Eni, la società cipriota «Maggiore» (quindi Haly) compra tutto, cioè rileva anche il pacchetto della «Cardon» detenuto dall'altra cipriota «Cambiasi» (cioè da Ingoba). Per altro anche questa apparente cessione del 2014 è ora ritenuta dubbia dai pm in base a tre indicatori. Uno è il prezzo troppo basso, 20.000 euro. L'altro è che fino al 22 dicembre 2015 Ingoba appaia beneficiaria (dal 2012) di un conto intestato alla «Cardon». Il terzo è che Haly è già indagato (quale ritenuto prestanome in Congo di quote societarie per conto dell' allora n.3 di Eni Roberto Casula e della manager ambientale Eni Maria Paduano) nella pregressa inchiesta milanese che ipotizza «corruzione internazionale» di Eni in Congo, fascicolo in cui ieri emerge coindagata anche la moglie di Descalzi. «Contesto fermamente l'accusa, è priva di fondamento - ribatte Descalzi -. Le transazioni tra Eni Congo e il gruppo Petroservice non sono mai state oggetto di mie valutazioni o decisioni, in quanto totalmente estranee al mio ruolo. Tengo inoltre a sottolineare che se mi fossi trovato in una qualunque situazione di conflitto di interesse, o ne avessi avuto conoscenza, non avrei esitato a dichiararlo. Ho l'assoluta certezza di avere sempre operato correttamente, in modo lecito, nell' interesse di azienda e azionisti».
I tesori di lady Eni. Dal colosso statale italiano 310 milioni di dollari alle società africane della moglie dell'amministratore delegato. Mentre la signora Descalzi paga regali di lusso per 700 mila dollari alla figlia del dittatore del Congo. Ecco i segreti africani dell'Eni svelati dalla nuova inchiesta dell'Espresso in edicola da domenica 10 marzo, scrive Paolo Biondani l'8 marzo 2019 su L'Espresso. Il gruppo Eni ha versato oltre 310 milioni di dollari a una cordata di aziende africane di appalti petroliferi che risultano costituite, attraverso un’anonima società di Cipro, dalla signora Marie Madeleine Ingoba Descalzi, moglie dell’amministrazione delegato del colosso dell’energia controllato dallo Stato italiano. La consorte di Claudio Descalzi, numero uno dell’Eni dal 2014, risulta anche titolare di un conto estero che ha pagato per anni regali di lusso, per oltre 700 mila dollari, soprattutto prodotti italiani di moda e design, a Julienne Sassou Nguesso, figlia del presidente-dittatore del Congo francese, dove la multinazionale milanese ha ottenuto ricchissimi giacimenti. Sono alcuni dei segreti africani dell’Eni rivelati da un’inchiesta giornalistica dell’Espresso, pubblicata nel numero in edicola da domenica 10 marzo e già disponibile su Espresso+ , che ricostruisce la rete di rapporti tra il gruppo petrolifero controllato dal governo italiano, il regime congolese e alcuni familiari di Descalzi, in particolare la moglie e il marito della figlia. L’inchiesta si fonda sui Paradise Papers, i documenti riservati delle società offshore dei potenti del mondo, svelati dal consorzio Icij di cui fa parte L’Espresso, e sui primi risultati delle indagini internazionali avviate l’anno scorso dalla Procura di Milano, che ipotizza colossali corruzioni dell’Eni in Congo, con presunte mega-tangenti divise tra il regime africano e alcuni manager italiani. A collegare la signora Descalzi alle aziende straniere arricchite dai maxi-contratti dell’Eni è una segnalazione ufficiale delle autorità anti-riciclaggio del Lussemburgo, trasmessa nell’autunno scorso ai magistrati italiani. Le imprese interessate fanno parte del gruppo Petroserve, che fa capo a una società di Cipro, Cambiasi Holding Limited, fondata nel 2009 ma totalmente anonima. Secondo la denuncia anti-riciclaggio, la signora Descalzi ne è stata titolare per almeno cinque anni, fino alla nomina del marito al vertice dell’Eni, quando ha ceduto il controllo di quella piramide di società estere al suo manager di fiducia, Alexander Haly, già amministratore delle stesse aziende africane. Haly è un manager inglese con residenza a Montecarlo che da qualche mese è indagato a Milano per corruzione internazionale insieme a Roberto Casula, che si è auto-sospeso dalla carica di numero due dell’Eni dopo le prime perquisizioni, ma respinge ogni accusa. Questo troncone dell’indagine giudiziaria sulle presunte tangenti italiane in Congo era nato dalla prima inchiesta giornalistica del nostro settimanale sui Paradise Papers, pubblicata nell’aprile 2018. Ora L’Espresso ha scoperto nuovi documenti che portano alla luce l’intera rete di rapporti d’affari tra il regime congolese, alcuni manager legati all’Eni e i familiari di Descalzi. Quando fu interpellata sulle offshore di cui risultava titolare, la signora Descalzi dichiarò che le sue società estere “non hanno mai avuto alcun rapporto con l’Eni” e suo marito “non c’entra niente”.
Eni, gli affari segreti in Congo e quel giro di denaro tra la famiglia Descalzi e il dittatore. Dal gruppo italiano 310 milioni di dollari alle società africane della moglie del numero uno Descalzi. Che paga regali di lusso alla figlia del dittatore. Ecco i documenti dello scandalo, scrive Paolo Biondani il 7 marzo 2019 su L'Espresso. Nella sua posizione di amministratore delegato dell’Eni, la più grande industria pubblica italiana – una multinazionale con 33 mila dipendenti e oltre 70 miliardi di fatturato, controllata dal governo in carica e quotata in Borsa a Milano e New York – Claudio Descalzinon ha mai potuto, né voluto permettersi di detenere anonime società offshore, mescolare progetti aziendali con investimenti personali o siglare affari privati con clan di dittatori africani. Ad avere questa rete di interessi economici e legami politici, infatti, non è lui, ma sono alcuni suoi familiari e partner aziendali: la moglie, il suo manager di fiducia e il marito della figlia. Cambiasi Holding Limited è una società di Cipro con azionisti anonimi. I proprietari si nascondono dietro lo schermo legale di una fiduciaria che li rappresenta. Attraverso altre società estere, la Cambiasi controlla una cordata di aziende africane di appalti petroliferi, che hanno incassato dal gruppo Eni una montagna di soldi: almeno 310 milioni di dollari. Secondo una segnalazione ufficiale dell’autorità anti-riciclaggio del Lussemburgo, trasmessa ai magistrati italiani, quella società-cassaforte di Cipro è stata creata nel 2009 da Marie Madeleine Ingoba Descalzi, la moglie del numero uno dell’Eni. Poi, tramite la Cambiasi, la signora risulta aver trasferito il controllo delle aziende africane al suo manager di fiducia, Alexander Haly, nell’aprile 2014, poco prima della nomina di Descalzi al vertice del colosso statale italiano. Haly è un manager inglese con residenza a Montecarlo che da qualche mese è indagato dalla Procura di Milano per corruzione internazionale: presunte tangenti targate Eni nella Repubblica del Congo. Il nuovo troncone di questa indagine è nato da un’inchiesta giornalistica dell’Espresso, pubblicata nell’aprile 2018, sugli affari italiani nell’ex colonia francese che ha per capitale Brazzaville. La moglie di Descalzi è cittadina di quella nazione africana, dove lui iniziò la sua carriera come direttore della filiale locale dell’Eni. Tra gli indagati per le presunte corruzioni in Congo, oltre a Haly, spicca Roberto Casula, che si è autosospeso dalla carica di numero due del gruppo dopo le prime perquisizioni, ma ha sempre respinto le accuse. Haly ufficialmente è il top manager di una società olandese, Petroserve Holding Nv, che controlla diverse aziende africane con nomi simili, come la Petro Services Congo, che affittano navi commerciali e gestiscono appalti di logistica e trasporti per le multinazionali del petrolio. Secondo i primi contratti sequestrati dalla Guardia di Finanza, solo la controllata congolese ha incassato dal gruppo Eni, dal 2012 al 2017, oltre 104 milioni di dollari. Dopo la segnalazione del Lussemburgo sul presunto ruolo della signora Descalzi, i magistrati di Milano hanno acquisito le carte di altri appalti privati, ottenuti sempre da aziende controllate dalla Petroserve olandese, ma con basi in Mozambico, Gabon e Ghana. In totale, secondo i conteggi della Guardia di Finanza, quelle società africane risultano aver incassato oltre 310 milioni di dollari, appunto, solo dal gruppo Eni. Il bilancio però è parziale, perché la rete di Petroserve lavora per l’azienda statale italiana almeno dal 2009. Di qui l’interrogativo al centro dell’indagine: chi ha incassato i profitti di tutti quegli appalti africani? Chi sono i proprietari delle anonime società estere arricchite dall’Eni? La catena di comando non è visibile nei registri pubblici. Sopra la Petroserve olandese, c’è una società anonima lussemburghese, chiamata Cardon Investment, fondata nel 2009, che è a sua volta controllata dalla misteriosa capogruppo Cambiasi Holding di Cipro. Tutti gli azionisti sono segreti: si fanno rappresentare dai professionisti della Fiducenter Secretaries Limited, uno dei tanti studi che garantiscono l’anonimato ai padroni delle offshore. La svolta è arrivata dopo la perquisizione degli uffici di Haly a Montecarlo, che ha fatto scattare la segnalazione anti-riciclaggio trasmessa alla Procura di Milano: le autorità lussemburghesi hanno identificato come primo titolare della Cardon la signora Ingoba Descalzi, che attraverso la società di Cipro ha poi ceduto l’intera piramide di aziende al suo manager di fiducia, Alexander Haly, che ne era già l’amministratore. Ora i magistrati di Milano hanno chiesto la documentazione completa ai giudici lussemburghesi, per verificare se l’Eni abbia versato tutti quei milioni a una rete di società estere effettivamente intestate prima alla signora Descalzi e poi al suo presunto braccio destro. In astratto, non si può escludere un errore. Finora però non è mai successo che un’autorità estera anti-riciclaggio sbagli a identificare gli effettivi titolari di una società e dei suoi conti bancari. Quando fu interpellata su altre offshore, la signora Descalzi dichiarò che le sue società estere «non hanno mai avuto alcun rapporto con l’Eni». E che suo marito «non c’entra niente». I magistrati di Milano attendono carte riservate sulla signora Descalzi anche dai colleghi francesi. I giudici di Parigi indagano da tempo su enormi tesori nascosti all’estero dalla famiglia del presidente del Congo, Denis Sassou Nguesso, un ex generale che è al potere da quarant’anni ed è stato più volte denunciato dai leader dell’opposizione (ora in esilio) come un dittatore corrottissimo. La sua nazione è molto ricca di gas e petrolio, ma metà della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. In questo quadro, la polizia francese ha perquisito uno dei suoi presunti tesorieri-prestanome, accusato di riciclaggio: avrebbe usato una rete di società offshore per reinvestire decine di milioni sottratti alle casse statali africane. Soldi spesi tra Parigi e la Costa Azzurra, in particolare, per comprare ville e palazzi a beneficio di Julienne Sassou Nguesso, figlia prediletta del presidente, a sua volta indagata per riciclaggio insieme a suo marito. Secondo i documenti francesi, la figlia del dittatore avrebbe ricevuto per anni regali molto costosi anche da altre persone, soprattutto prodotti italiani di moda e design, per un valore di almeno 700 mila dollari. E a pagare tutte quelle fatture, sempre secondo l’accusa, sarebbe stata la signora Ingoba Descalzi, attraverso il conto bancario di una sua società congolese. Le carte scoperte in Francia, già esaminate dagli inquirenti italiani a Parigi e Bruxelles, confermano anche un incrocio societario rivelato dall’Espresso: la moglie dell’amministratore delegato dell’Eni viene indicata come socia occulta della figlia del dittatore in una offshore delle Isole Mauritius, un paradiso fiscale che garantisce l’anonimato totale. I bonifici per i regali di lusso a Julienne Sassou Nguesso, per circa 150 mila dollari all’anno, iniziano nel 2007 e continuano almeno fino al 2012, quando viene creata la società delle Mauritius, tuttora attiva. La signora Descalzi ha però dichiarato di non aver mai avuto rapporti d’affari con la figlia o altri familiari del presidente congolese. Dopo le prime rivelazioni dell’Espresso, il vicepremier Luigi Di Maio, interpellato dal Fatto Quotidiano, aveva annunciato richieste di chiarimenti. Nel frattempo Descalzi, che fu nominato dal governo Renzi, ha saputo conquistarsi l’appoggio della Lega. Quindi il premier Giuseppe Conte gli ha riconfermato la fiducia del governo gialloverde, dichiarando che «la responsabilità penale è personale». Eventuali problemi, insomma, riguardano solo la moglie. I coniugi Descalzi hanno anche una figlia, la primogenita, ben introdotta nei palazzi del potere congolese. Cindy Descalzi ha sposato un ricco uomo d’affari africano, Serge Pereira, che controlla un impero immobiliare e una grande società di costruzioni, Unicon. Il suo gruppo ha ottenuto grossi appalti, senza gara, dal regime congolese: il più costoso è la costruzione di un polo universitario da oltre 300 milioni di dollari, intitolato a Sassou Nguesso, che dovrebbe ospitare più di 25 mila studenti. L’opposizione grida però allo scandalo: la nuova università sarebbe stata progettata su terreni sabbiosi, minati dalle esondazioni del fiume Congo. Intervistato dalla stampa locale, Pereira ha difeso con forza questo «progetto importantissimo per il futuro dell’Africa», spiegando che i problemi sono dovuti ad «alluvioni eccezionali» e soprattutto ai «ritardi nei pagamenti per le difficoltà finanziarie del governo congolese». Tra gli investimenti nel settore energia del marito di Cindy Descalzi spicca l’acquisto del 5 per cento di una società di gas e petrolio, Cap Energy, che opera in Africa e ha come direttore generale un ex dirigente dell’Eni, Pierantonio Tassini, che ha lavorato per 42 anni nel gruppo italiano, diventando un fedelissimo di Descalzi. Nel suo consiglio d’amministrazione siede anche Alexander Haly, che risulta titolare, dietro un’immancabile società offshore, di oltre il 70 per cento delle azioni della Cap Energy. L’azienda guidata da Tassini, dunque, collega anche il genero di Descalzi al manager delle aziende africane che risultano create dalla signora Ingoba e arricchite dall’Eni. In compenso nell’ottobre scorso, dopo le perquisizioni milanesi, i proprietari della Cambiasi Holding di Cipro, chiunque siano, hanno preferito chiudere le saracinesche: la capogruppo del sistema Petroserve ora è in liquidazione. L’indagine della Procura di Milano era partita da un’altra società privata, la congolese Aogc, che nel novembre 2013 ha ottenuto quote tra l’8 e il 10 per cento di quattro enormi giacimenti di gas controllati dall’Eni. Secondo l’accusa, quell’azienda è una tesoreria del regime, creata da Denis Gokana, capo della società petrolifera statale (Snpc) fino al 2010 e poi consigliere speciale del presidente per gli affari dell’energia. Tra i soci della Aogc ora identificati compaiono altri tre politici del governo congolese. Interpellato all’assemblea dell’Eni dalle organizzazioni anticorruzione Re:Common e Global Witness, Descalzi ha risposto con grande franchezza che «Aogc non l’abbiamo scelta noi». Come dire che fu il regime congolese a imporla. Dopo i primi articoli dell’Espresso, l’indagine giudiziaria si è però allargata a un altro giacimento di gas, chiamato Marine XI, che ha una storia opposta. Mentre l’Eni otteneva altre licenze miliardarie in Congo, infatti, proprio la Aogc, la presunta società-cassaforte del regime, ha venduto il 23 per cento di Marine XI: solo quella quota ha un valore di 430 milioni di dollari. L’affare con la Aogc l’ha fatto una fortunata società anonima, Wnr Congo, che ha versato appena 15 milioni. Una vendita che per i magistrati è molto «anomala». Nei decreti di perquisizione, la Procura ha descritto il «meccanismo corruttivo» come uno scambio segreto di giacimenti milionari. «L’Eni trasferisce quote di partecipazione a società collegate al presidente Sassou Nguesso». Quindi «il corrotto, per invogliare il corruttore, gli restituisce una parte delle tangenti», proprio attraverso la cessione di un altro giacimento. I Paradise Papers, le carte riservate delle offshore pubblicate dal consorzio Icij (di cui fa parte L’Espresso), documentano che dietro la Wnr, tra il 2013 e il 2015, c’erano tre italiani e un inglese, tutti legati all’Eni. Tra quegli azionisti originari spicca un’amica fidatissima di Casula, che ha poi ceduto la sua quota ed è stata assunta come dirigente dal gruppo statale. Ma tra i soci del giacimento che è al centro del presunto scambio di tangenti tra Italia e Congo c’è anche il solito Haly. Che ora sembra avere un ruolo più chiaro: è lo storico amministratore e attuale intestatario delle società africane di appalti che sarebbero state create, via Cipro e Lussemburgo, dalla signora Ingoba Descalzi.
IL CASO RUSSIAGATE ORA TOCCA UFFICIALMENTE ANCHE L'ENI. Davide Milosa per il “Fatto quotidiano” il 24 settembre 2019. Il caso Russiagate ora tocca ufficialmente anche l' Eni. Nella prima settimana di settembre, infatti, la Procura di Milano ha inviato una richiesta di acquisizione atti alla sede centrale del colosso petrolifero. Richiesta alla quale la società del cane a sei zampe ha risposto esibendo alla Guardia di finanza quanto chiesto dai pm Gaetano Ruta e Sergio Spadaro. Si tratta di un'acquisizione di atti e non di una perquisizione. Al momento nessun dirigente di Eni risulta iscritto nel registro degli indagati. Ma certo il passo della Procura, arrivato dopo tre mesi dall' acquisizione dell' audio dell' hotel Metropol e dall' iscrizione di Gianluca Savoini per corruzione internazionale, è di quelli importanti perché segna con chiarezza la direzione presa dall' indagine. Al centro dell'inchiesta c'è una compravendita di petrolio per 1,5 miliardi di dollari (6 milioni di tonnellate metriche di gasolio).Vende uno dei colossi russi (Rosneft e Gazprom), acquista, stando all' audio registrato il 18 ottobre ai tavoli dell' hotel Metropol di Mosca, proprio l'Eni che, però, fin dal luglio scorso, quando si è saputo dell' inchiesta giudiziaria, ha negato ogni suo coinvolgimento. Da questa vendita, spiegherà l' avvocato d' affari Gianluca Meranda - anch' egli indagato per corruzione internazionale come pure il consulente finanziario Francesco Vannucci (entrambi presenti al Metropol con Savoini e tre russi) - dovranno uscire 65 milioni di dollari da far arrivare sui conti della Lega di Matteo Salvini in vista delle elezioni europee del maggio scorso. In quel momento, Savoini rappresenta l' uomo dell' allora vicepremier per i rapporti con personaggi influenti vicini a Putin. La richiesta avanzata dalla Procura all' Eni riguarda elementi emersi durante l' indagine. I pm hanno delegato la Finanza ad acquisire tutti i documenti relativi a rapporti finanziari tra società del gruppo Eni e società terze. Il riserbo resta massimo. Sul tavolo della Procura, al momento, non sono arrivate informative relative all' analisi degli atti che sono ancora in via di acquisizione e di studio da parte degli esperti della Guardia di finanza. Rapporti tra società terze e società del gruppo Eni sono già emersi in atti pubblicati dall' Espresso e acquisiti dalla Procura. Durante l' incontro del Metropol, al quale sono presenti due russi legati all' entourage del presidente Putin, Meranda spiega: "Abbiamo Eni che sarà dalla parte italiana. Abbiamo una compagnia petrolifera russa e abbiamo due società nel mezzo. La banca e una società russa che firmerà il contratto con la banca". Meranda, nel periodo del presunto affare, è il general counsel della banca d' affari londinese Euro-Ib che già il 29 ottobre 2018 prepara una richiesta di fornitura a Rosneft. I parametri sono quelli discussi al Metropol. Su tavoli diversi si muove Savoini che invia una richiesta di fornitura anche a Gazprom. La società russa, però rifiuta perché, spiega, non è specificato l'acquirente, che dall' audio del 18 ottobre dovrebbe essere Eni. Savoini invia la lettera a Meranda che l' 8 febbraio gli risponde allegando un documento di referenze commerciali firmato da Eni Trading and Shipping (società del gruppo Eni) a favore della Euro-Ib di cui Meranda è consulente. L'avvocato, nella lettera, spiega a Savoini che la banca acquista per vendere a Eni. Questo quanto emerso dalle indagini. Al momento, però, non vi è conferma che gli atti acquisiti in Eni riguardino proprio il rapporto tra Euro-Ib ed Eni Trading and Shipping. Di certo, come scritto dal Fatto, anche Savoini ha avuto rapporti con il colosso petrolifero italiano. Una fonte politica qualificata lo colloca con Salvini a un incontro con l'ad di Eni Claudio Descalzi avvenuto a primavera. Incontro che la società ha negato. Nessun mistero, invece, sulla reciproca stima tra l' ex vicepremier e Descalzi. Oggi, intanto, si terrà l'incidente probatorio per acquisire i messaggi della chat segreta di Savoini. Mentre dai dati analizzati negli altri telefoni si capisce che la preparazione del vertice al Metropol inizia a giugno con un primo incontro con i russi avvenuto a Roma già nel mese di luglio.
Sandro De Riccardis e Luca De Vito per “la Repubblica” il 24 settembre 2019. Documenti per capire quali sono i rapporti tra il gruppo Eni e società terze, nell' ambito dell' inchiesta Moscopoli. A inizio settembre, la procura di Milano ha chiesto e ottenuto dalla società di San Donato carte aziendali per far luce sull' eventuale ruolo del Cane a sei zampe nella presunta trattativa intavolata al Metropol di Mosca il 18 ottobre: incontro che secondo l' accusa è stato organizzato dal leghista Savoini per discutere una compravendita di petrolio russo con lo scopo di finanziare la Lega. Non è chiaro quali siano i riscontri che i pm Segio Spadaro e Gaetano Ruta, coordinati dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, stanno cercando. Al momento, l'unico collegamento tra Eni e altre società emerso in questa vicenda è quello di cui ha scritto l' Espresso, citando un carteggio tra Meranda e Savoini, i due partecipanti all' incontro insieme a Vannucci (tutti e tre indagati per corruzione internazionale): in una lettera di referenza commerciale firmata da Eni Trading and Shipping si dice che la Euro IB Ltd, la banca d' affari per cui lavorava Meranda, avrebbe avuto a che fare con la società in diverse occasioni. Dalla registrazione al Metropol emerge come Eni, nei dialoghi degli italiani, dovesse essere l' acquirente finale. Da qui la necessità di vederci più chiaro. Oggi il Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza proverà anche a estrapolare informazioni dal cellulare di Savoini, alla presenza del suo legale Lara Pellegrini, aprendo la app Signal, rimasta bloccata. Intanto, nell' ambito del processo Eni-Nigeria in corso a Milano per corruzione internazionale, la procura ha ottenuto dalla Corte suprema federale della Svizzera la valigetta sequestrata nel 2016 a Obi Emeka, uno dei presunti mediatori, già condannato in abbreviato a 4 anni dal gip di Milano. Al suo interno, documenti, hard disk, usb e passaporti.
· Signoraggio: "Su che libri avete studiato?"
Signoraggio, rivolta social contro il servizio di "Povera Patria" su Rai 2: "Su che libri avete studiato?" Un servizio del nuovo programma di Rai2 ricco di imprecisioni scatena la rivolta di economisti e semplici utenti, scrive Flavio Bini il 26 Gennaio 2019 su La Repubblica. La nuova Rai in salsa sovranista parte con il turbo ma rischia di sbattere alla prima curva. Sta facendo molto discutere in queste ore la scheda trasmessa ieri sera dal nuovo programma di Rai 2 "Povera Patria" sul signoraggio bancario. Un servizio ricco di imprecisioni che non sono sfuggite ad economisti e molti semplici utenti, che su Twitter contestano i contenuti del filmato. Tra i più accalorati c'è Riccardo Puglisi, professore associato di economia all'Università di Pavia. "Su quali libri di testo e articoli di economia vi siete basati per questo orrore?", scrive in uno dei tanti messaggi inviati alla trasmissione. "Questa è la condizione in cui è ridotta la Rai, oggi. Una discarica di fake news, con pagamento del canone in bolletta", osserva invece Mario Seminerio, gestore di fondi e creatore di Phastidio, blog di temi economici molto seguito. Insieme a loro, decine di commenti di spettatori indignati per quanto trasmesso dalla Rai.
Che cosa dice la scheda del programma. Innanzitutto il servizio ricorda che "l'Italia è uno delle nazioni più ricche al mondo eppure ha un debito pubblico di oltre 2300 miliardi di euro. Com'è possibile?" Al di là di "sprechi, ruberie e spese allegre una risposta sta nella parola signoraggio". Il servizo definisce signoraggio come "il guadagno del signore che stampa la nostra moneta", in sostanza - secondo il video - la differenza tra quanto incassato per il valore e il costo per produrla. Quindi si ripercorre brevemente la storia del signoraggio in Italia, suddividendo tre fasi. La prima, fino al 1981, quella in cui "il signore è lo Stato, cioè noi tutti, e attraverso la banca centrale che è di sua proprietà stampa moneta e la presta a sé stesso per offrire servizi e costruire ponti, gallerie e strade". Sempre la banca centrale è obbligata ad acquistare i titoli che il Paese non riesce a piazzare sul mercato. La seconda fase è quella che scatta nel 1981 quando Ciampi e Andreatta "liberano la Banca d'Italia dall'obbligo di acquistare titoli invenduti", la banca centrale diventa così "un istituto privato" che continua a prestare soldi allo Stato con tanto di interessi. "Il signoraggio diventa così un lievito del nostro debito pubblico". Si arriva quindi alla terza e ultima fase, quella della moneta unica. "L'adozione dell'euro e la nascita della Bce completano l'espropriazione", si spiega, ricordando che nessuno ha chiesto l'opinione al popolo italiano su questa materia.
Gli errori. L'errore più clamoroso dell'intero servizio sta nel non citare mai in alcun passaggio il tema dell'inflazione. Nella prima fase, quando cioè la Banca d'Italia poteva "stampare moneta" liberamente, per ripianare disavanzi pubblici causati da un eccesso di spesa rispetto alle entrate, l'effetto è stato quello di aumentare l'inflazione. È aumentata cioè la massa monetaria in circolazione e con essa sono aumentati i prezzi, con l'effetto di ridurre il potere di acquisto delle famiglie. Nel 1981 quando venne deciso il "divorzio" sopra citato, l'inflazione (già alta a livello mondiale) viaggiava intorno al 18%. È scorretto dunque ripercorrere i benefici della prima fase, la possibilità di avere una sorta di salvadanaio illimitato e basso costo per finanziare la spesa, senza considerare le conseguenze negative. Allo stesso modo e alla rovescia, è fuorviante descrivere la seconda fase dimenticando le conseguenze sui prezzi. Il "divorzio" (anche se la Banca d'Italia non diventa un istituto privato come detto nella scheda) ha effettivamente costretto lo Stato a cominciare finanziarsi a tassi molto alti, quelli offerti dal mercato a fronte del nostro merito creditizio, cioè la nostra affidabilità, ma questo ha anche arginato sensibilmente la crescita dell'inflazione che, anche grazie a questo intervento, ha cominciato a calare sensibilmente nel corso degli anni 80 fino a poco sopra il 5% nel 1985. Il nostro debito ha sì cominciato a salire vertiginosamente, ma il calo dell'inflazione ha permesso di erodere sensibilmente la perdita del potere di acquisto che un aumento invece comporta. La scheda commette lo stesso errore anche trattando il tema della moneta unica. Si parla di "esproprio" della politica monetaria (anche se la politica monetaria oggi è condivisa con gli altri 18 stati dell'Unione monetaria), ma trascura un punto importante. L'ingresso nell'euro ha contribuito in maniera rilevante ad abbattere i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico che il Tesoro emette, gli stessi che erano schizzati negli anni '80 dopo il "divorzio" della Banca d'Italia. In altre parole proprio la condivisione di uno stesso spazio economico e poi monetario ha consentito all'Italia di prendere in prestito denaro sul mercato a prezzi più bassi, risparmiando sulla spesa per interessi, e utilizzando quelle stesse risorse per altro.
Marco Pizzuti il 28 gennaio 2019 sulla sua pagina facebook. Effetto Foa: alla Rai per la prima volta viene spiegato che la Banca d'Italia in realtà è un ente privato. Vediamo perchè.... Nel 1936 venne classificata come ente pubblico con decreto regio in quanto per statuto la maggioranza dei partecipanti al capitale doveva essere composta da enti pubblici. Nel dopoguerra però la situazione si è radicalmente capovolta e oggi circa il 94% dei partecipanti è costituito da banche e assicurazioni private. La lista con l'elenco dei partecipanti era stata sempre mantenuta nel massimo riserbo per non creare scandalo ma nel 2003 il prof. Fulvio Coltorti ha diretto uno studio per Ricerche & studi di Mediobanca con cui è andato ad indagare a ritroso sui bilanci delle banche, delle assicurazioni e degli enti pubblici. Dal suo dossier si è così scoperto e dimostrato che i partecipanti al capitale della nostra banca centrale sono quasi tutti privati. Ciò significava che il regolamento della Banca d'Italia era stato violato per decenni ma il governo Prodi invece di ristabilire la legalità e di punire severamente le banche e le assicurazioni che si sono impadronite della Banca d'Italia, ha lasciato che la banca centrale cambiasse impunemente il suo statuto per legittimarne lo stato di fatto e mantenere nello stesso tempo la maschera della classificazione giuridica come ente pubblico. Per quanto concerne poi il governatore dobbiamo sapere che viene scelto dal governo solo dopo previa consultazione della Banca d'Italia e che i suoi veri poteri sono di rappresentanza nei confronti di terzi. I suoi poteri decisionali infatti, si esauriscono in proposte di decisione che per avere qualche valore esecutivo devono essere stati previamente approvati dagli organi nominati e controllati dall'Assemblea dei partecipanti (banche e assicurazioni private). Un gruppo di privati insomma si è impadronito dell'emissione della nostra moneta che non ha alcun valore intrinseco e che acquista valore solo grazie alle leggi dello Stato. Nell'attuale situazione quindi lo Stato ha perso la sovranità monetaria (che resta esclusivamente per le monete metalliche) ed esiste anche un insanabile conflitto d'interessi poiché la banca centrale dovrebbe essere un arbitro imparziale delle banche commerciali ordinarie mentre sono proprio queste ultime a controllare di fatto la Banca d'Italia. Con l'entrata nell'euro infine, il potere di emissione della moneta è passato nelle mani della BCE, un altro ente finanziario totalmente indipendente dai parlamenti .... In questo modo lo Stato deve pagare interessi salati sui suoi titoli che in massima parte vengono acquistati da banche e assicurazioni private con i fondi comuni d'investimento. Nel caso poi che i soggetti dominanti del mercato decidano di non acquistare i nostri titoli (le agenzie di rating private Standard & Poor, Fitch e Moodys sono libere di declassarli a proprio piacimento), lo Stato può essere costretto dagli speculatori finanziari ad eseguire le politiche economiche a loro più favorevoli con la minaccia della bancarotta. Il debito generato dagli interessi è enorme perché dagli anni 90 in poi il saldo primario dello Stato (differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi) è andato sempre in pareggio ma il debito pubblico è continuato comunque ad aumentare proprio a causa degli interessi sui titoli. Lo Stato dunque, potrebbe liberarsi dai ricatti dei mercati riappropriandosi della sua sovranità monetaria ed emettendo una vera moneta statale non gravata da interessi.
Perché l'editoriale sul signoraggio di "Povera Patria" ha fatto tanto rumore. Le critiche mosse all'autore del servizio Alessandro Giuli, le sue ragioni, la soddisfazione del direttore Carlo Freccero e la posizione dei vertici della Rai, scrive Antonella Piperno su Agi il 27 gennaio 2019. Non c’è giornata in cui Carlo Freccero non faccia parlare di sé. Nel bene e nel male. Il direttore di Raidue c’è riuscito di nuovo, e alla grande, con l’esordio di Povera Patria, il programma di informazione economica condotto da Annalisa Bruchi che, sbarazzatosi del vecchio titolo Night tabloid (Freccero lo trovava orrendo) ha debuttato il 25 gennaio in seconda serata su Raidue. E’ successo che l’editoriale dell’autore Alessandro Giuli, dedicato al signoraggio bancario, non sia piaciuto per niente al popolo del web. Scatenando una bufera social che a colpi di "ma su che libri avete studiato?" è stata condita dalla sonora bocciatura di due esperti come Mario Seminerio, gestore di fondi e creatore di Phastidio, un blog a tema economico molto seguito ("Questa è la condizione in cui è ridotta la Rai, oggi. Una discarica di fake news, con pagamento del canone in bolletta") e Riccardo Puglisi, professore associato di economia all'Università di Pavia ("Su quali libri di testo e articoli di economia vi siete basati per questo orrore?").
La posizione dell'autore del servizio, Alessandro Giuli. Indignati per l’omissione da parte di Giuli di un tema cruciale come l’inflazione e, tra l’altro, per aver definito il passaggio all’euro "un esproprio". Talmente sferzanti, i tweet, che Giuli si è sentito "trattato come un no vax". Che fosse materiale controverso, ha precisato all’Agi, l’aveva annunciato già in conferenza stampa. "E comunque era un editoriale, un mio punto di vista, e non era no euro. Povera Patria non ha intenzione di sparare verità nel cielo e non pretende che tutti siano d’accordo. Tant’è che nella prossima puntata continueremo a parlare di questo tema, invitando in trasmissione chi la pensa diversamente". Giuli ha spiegato quindi che non è escluso che nella prossima puntata a dibattere di signoraggio siano invitati addirittura proprio i suoi due detrattori Puglisi e Seminerio (e sarebbe in effetti un altro bel colpaccio per Freccero) "A patto che" dice l’editorialista nel mirino "la smettano con i toni forti, perché noi di Povera Patria teniamo molto al confronto civile". L’esternazione di Giuli è arrivata a metà pomeriggio dopo una fase molto concitata in azienda, dovuta alla circolare che, recapitata a dirigenti e dipendenti pochi giorni fa, vieta qualsiasi intervista e commento non autorizzato dalla direzione della comunicazione. Proprio la centrale della comunicazione Rai ha poi deciso che tra la conduttrice Bruchi, Freccero e Giuli, fosse l’autore dell’editoriale a dover spiegare la linea dell’azienda e della trasmissione che al suo esordio ha raddoppiato lo share (5,9 per cento) rispetto allo scorso anno quando si chiamava Night tabloid: "Lo scudo più bello è il risultato di di share. Povera Patria è un programma pluralista, con una storia e temi in movimento. Torneremo a parlare di signoraggio in varie puntate e non è detto che alla fine sia la mia tesi a risultare quella prevalente", ha sottolineato Giuli.
Il contenuto del suo editoriale-scandalo. Ma che diceva il suo editoriale-scandalo? "Ricordando che "l’Italia è uno delle nazioni più ricche al mondo eppure ha un debito pubblico di oltre 2300 miliardi di euro" spiegava così la contraddizione: "Al di là di sprechi, ruberie e spese allegre una risposta sta nella parola signoraggio, il guadagno del signore che stampa la nostra moneta".
Ripercorreva quindi la sua storia in Italia suddividendola in tre fasi.
La prima, fino al 1981, quella in cui "Il signore è lo Stato e attraverso la banca centrale che è di sua proprietà stampa moneta e la presta a sé stesso per offrire servizi e costruire ponti, gallerie e strade".
La seconda scattata nel 1981 quando Ciampi e Andreatta "liberano la Banca d'Italia dall'obbligo di acquistare titoli invenduti, la banca centrale diventa così un istituto privato che continua a prestare soldi allo Stato con tanto di interessi e il signoraggio diventa così un lievito del nostro debito pubblico".
La terza e ultima fase (criticatissima dai social) era, diceva, quella della moneta unica: "L'adozione dell'euro e la nascita della Bce completano l’espropriazione". Sull’omissione dell’inflazione Giuli, che nell’editoriale della prossima puntata resterà "in campo europeo" spiega: "Non ne ho parlato perché su questo punto ci sono molte scuole di pensiero.
A un certo punto si è anche teorizzato che l’inflazione al 18 per cento dipendesse da ragioni petrolifere", ha spiegato, ammettendo però un unico errore: "Trattando il tema della moneta unica ho parlato di esproprio. Magari avrei dovuto usare un termine meno forte. Ma il fatto, sicuramente c’è stato". E alla fine, sul tema politico-televisivo di giornata si è sentito in dovere di esternare alla fine anche Freccero, che, trionfante per il 5,9 di share ottenuto dalla puntata d’esordio, ha letto le critiche in chiave positiva. "Abbiamo affrontato un tema così complesso in una scheda di due minuti, evidentemente di grande interesse. Verrà sviscerato ancora nella prossima puntata".
Il direttore di Raidue si è tolto anche qualche sassolino dalla scarpa in merito alla campagna social che punta a boicottare con l’hashtag #facciamorete il programma "C’è Grillo", in onda lunedì prossimo in prima serata su Raidue, e alle critiche del pd Francesco Verducci, che ha definito il programma sul fondatore del Movimento 5 stelle "un megaspot e un’umiliazione per il servizio pubblico" chiedendo che l’ad Fabrizio Salini ne risponda in Vigilanza.
"Evidentemente la censura non muore mai". "Evidentemente la censura non muore mai. Abbiamo ritirato fuori Ultimo tango a Parigi dal rogo ma evidentemente Beppe Grillo rappresenta uno scandalo ancora maggiore", ha detto, riservando una staffilata a Verducci: "Alcuni esponenti del Pd spaziano dall’inquisizione al maccartismo". Difendendo il programma dedicato a Grillo (un format con gli spezzoni della sua storia tv, che sarà poi dedicato anche a Roberto Benigni, Enzo Tortora e Gianfranco Funari) Freccero ha ricordato all’Agi che "Grillo ha creato la satira in tv, ignorarlo avrebbe voluto dire censurarlo". E sulle tante polemiche che stanno accompagnando i suoi primi passi da direttore di Raidue dice: "Se qualcuno vuole togliermi da questo posto, che faccia una petizione contro di me", sostenendo anche di non sentirsi sufficientemente supportato dai vertici Rai: "L’azienda non mi sta aiutando molto, non mi difende come dovrebbe. In fondo sono l’unico che sta innovando la tv pubblica. Ma io vado avanti, contro ogni censura". In realtà in suo soccorso è arrivato prontamente Giampaolo Rossi, il consigliere d’amministrazione di area Fratelli d’Italia che sedeva in prima fila alla conferenza stampa di presentazione di Povera Patria. Derubricando a "tweet di qualche economista social compulsivo" la rivolta social scatenatasi contro l’editoriale di Giuli sul signoraggio. "Lo storico risultato di ascolti del programma", dice all’Agi "dimostra quanto sia stato vincente, invece, trattare finalmente in Rai argomenti economici e politici finora censurati dal mainstream".
Rossi ha ricordato anche il ministro Paolo Savona, presente in studio, non ha avuto nulla da obiettare. Rivendicando quindi che "La nuova Rai sta scardinando l’ipocrisia del mainstream. La prima puntata di Povera Patria ha proposto anche un’inchiesta sulla mafia nigeriana, argomento che prima era tabù, parlarne portava ad essere tacciati di razzismo e xenofobia. Raidue è un laboratorio di nuova informazione". La difesa si è estesa anche alla questione Grillo: "In questi anni la Rai è stata soggetta a una manipolazione di tipo partitico e politico. Siamo sicuri che Roberto Saviano non fosse più associabile alla politica di Grillo?". Se ne riparlerà lunedì sera, sui social, durante "C’è Grillo".
Povera patria, vietato criticare l'euro sulla Rai: perché i professoroni hanno perso le staffe, scrive Giuliano Zulin il 27 Gennaio 2019 su Libero Quotidiano. Guai a toccare i totem dell'economia in Rai, perché altrimenti i professori si arrabbiano. Ieri sui social abbiamo assistito a una rivolta surreale nei confronti del programma "Povera Patria", andato in onda venerdì sera su Rai2. La contestazione riguardava un servizio che voleva far luce sulle cause del debito pubblico, che ricordiamo essere arrivato a 2.300 miliardi di euro. Nel mirino dei custodi del sapere economico, docenti ed espertoni, sono finiti tre punti: il signoraggio, il divorzio Tesoro-Bankitalia e l'euro. Tra i più accalorati c'era Riccardo Puglisi, professore associato di economia all' Università di Pavia. «Su quali libri di testo e articoli di economia vi siete basati per questo orrore?», ha scritto in uno dei tanti messaggi inviati alla trasmissione. «Questa è la condizione in cui è ridotta la Rai, oggi. Una discarica di fake news, con pagamento del canone in bolletta», osservava invece Mario Seminerio, gestore di fondi e creatore di Phastidio, blog di temi economici molto seguito. Chi ha ragione? Certamente non gli esperti. Non perché non siano preparati, anzi. Però non è possibile che, per attaccare questo governo seppur sgangherato, si cerchi di nascondere gli errori madornali commessi da chi guidava l'Italia negli anni-decenni precedenti. In fin dei conti è colpa loro se ci ritroviamo senza sovranità economica e con un indebitamento sempre più alto. E soprattutto è sotto gli occhi di tutti che, con l'euro, l'economia italiana si sia fermata: crescita zero. Vediamo però di capire i punti che hanno mandato in escandescenza i social network.
SIGNORAGGIO. Il servizio contestato definisce signoraggio come «il guadagno del signore che stampa la nostra moneta». Le critiche si basano sul fatto che le teorie secondo le quali le banche centrali lucrino siano paragonabili a chi crede nelle scie chimiche, nella Terra piatta. Sarà, intanto sul sito di Bankitalia leggiamo questo: "Per signoraggio viene comunemente inteso l'insieme dei redditi derivanti dall' emissione di moneta. Per le banche centrali, il reddito da signoraggio può essere definito come il flusso di interessi generato dalle attività detenute in contropartita delle banconote in circolazione o, più generalmente, della base monetaria... lo Statuto della Banca d' Italia prevede che l'utile netto sia destinato: ai partecipanti titolari di quote fino alla misura massima del 6% del capitale (le banche) e allo Stato, per l'ammontare residuo.
IL DIVORZIO DEL 1981. In particolare, con riferimento agli esercizi 2014 e 2015, a fronte di dividendi corrisposti ai partecipanti al capitale in misura pari a 340 milioni per ciascun anno (4,5% del capitale), l'ammontare dell'utile netto assegnato allo Stato è stato pari a poco più di 4 miliardi (oltre a imposte per oltre un paio di miliardi). Insomma, è vero che c' è chi percepisce soldi in quanto batte moneta... Agli inizi degli anni '80 il governo decise che Banca d' Italia non avrebbe più comprato titoli di Stato in asta. L' obiettivo era quello di togliere alibi ai politici, i quali sarebbero stati costretti a rivedere la spesa. In questo modo, riducendo la massa monetaria in circolazione, sarebbe scesa l'inflazione. Accadde il contrario: i prezzi salirono (anche perchè dipendevano dall'andamento delle quotazioni petrolifere), la spesa pubblica esplose e il debito iniziò a correre. Questo perché il Tesoro fu costretto ad alzare i rendimenti - già alti per via di un'inflazione a doppia cifra - per piazzare le sue obbligazioni. Non si capiscono dunque le critiche al servizio andato in onda su Rai2. I numeri dimostrano l'infelice mossa decisa da Ciampi e Andreatta. Chi afferma il contrario è ideologico.
EURO BUONO? Ultima contestazione rivolta a "Povera Patria": l'euro è stato un bene, non un male, perchè ha fatto scendere i tassi e quindi l'inflazione. Certo, è vero. Peccato che la moneta unica sia stato un affare solo per i tedeschi. Lo dicono parecchi Nobel. I regolamenti europei e la debolezza della politica hanno poi fatto perdere l'Italia e vincere lo straniero. Che problema c' è se l'Italia ora prova a riprendersi un po' di sovranità? Finalmente in Rai si vede qualcosa di non paludato.
· Quando la Dc ordinò l’assalto a Bankitalia.
Quando la Dc ordinò l’assalto a Bankitalia. Le sfide tra palazzo Koch e palazzo Chigi hanno attraversato la prima e la seconda Repubblica, scrive il 12 Febbraio 2019, su Il Dubbio. «L’ assalto dei politici alla Banca d’Italia è paragonabile all’agguato delle Br in via Fani», scrisse il New York Times nel marzo 1979. Il commento basta a chiarire quanto violento fu in quell’occasione lo scontro tra potere politico e banca centrale. Il conflitto in corso è serio e minaccioso ma sembra una scaramuccia a confronto di quando la guerra divampò davvero, con tintinnar di manette. Era il 24 marzo 1979 e per definire l’arresto il solito termine ‘ eccellente’ non basta: finì in carcere il vicedirettore della Banca centrale con delega alla vigilanza bancaria Mario Sarcinelli ma solo l’età salvò dall’umiliazione dell’arresto il governatore Paolo Baffi, incriminato anche lui come il suo vice dalla procura di Roma per non aver trasmesso alla magistratura i risultati di un’ispezione sul Credito Industriale sardo, istituto che finanziava il gruppo chimico SIR, oggetto di indagine da parte della stessa Procura. A firmare l’ordine di arresto era il giudice istruttore Antonio Alibrandi, neofascista conclamato, da sempre di area missina, ma anche vicino ai Caltagirone. Giocava di sponda più con la Dc che il partito di Almirante. Lo scontro tra Dc e Bankitalia proseguiva già da un anno. La prima bordata era partita dal governo. Il ministro del Tesoro Stammati e il sottosegretario alla presidenza del consiglio Evangelisti, entrambi andreottiani di ferro, avevano convocato per due volte Baffi e Sarcinelli chiedendo di ‘ sistemare’ l’esposizione di Caltagirone nei confronti di Italcasse. I vertici della banca non avevano ceduto. Non paghi di avere sciolto il cda di Italcasse, principale feudo Dc nel settore bancario, avevano disposto l’ispezione presso il Banco ambrosiano di Roberto Calvi e impedito il salvataggio degli istituti di Michele Sindona, il cui commissario liquidatore era Giorgio Ambrosoli. L’incriminazione d Baffi e Sarcinelli era la risposta durissima del potere politico. Un plotone composto dai migliori economisti italiani scrisse una lettera di protesta. Molti tra i leader dell’epoca, incluso Berlinguer si schierarono con gli accusati. Andreotti preferì restare in silenzio. I due dirigenti furono prosciolti nel giugno 1981. Baffi, che non si riprese mai dal colpo, si dimise nell’agosto 1979. Un mese prima Ambrosoli era stato ucciso su mandato di Sindona. Da allora di scintille tra palazzo Chigi e palazzo Koch ce ne sono state parecchie, anche in tempi recenti. Nel 1994 Tomaso Padoa Schioppa sarebbe dovuto diventare direttore generale, postazione seconda solo a quella del governatore. Il governo Berlusconi si oppose e Padoa Schioppa fu dribblato da Vincenzo Desario. Quando nel 2011 Draghi diventò presidente della Bce, Fabrizio Saccomanni, direttore generale, avrebbe dovuto sostituirlo come governatore. Non incontrava il favore del governo e a prendere il timone fu Vincenzo Visco, attuale numero 1. Tra il governatore Antonio Fazio e il secondo governo Berlusconi la guerriglia fu senza tregua. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti rinfacciava al governatore di tutto e di più: il mancato rimborso dei bond argentini che nel gennaio 2002 lasciò esposti per 14 mld 450mila risparmiatori, il crack della Cirio poi, soprattutto, quello della Parmalat. Tremonti denunciò di fronte alle commissioni congiunte Finanze e Attività produttive di Camera e Senato di non vigilato su Parmalat. Tra le fine del 2003 e l’inizio del 2004 la tensione arrivò ai massimi livelli, con Fi che chiedeva la dimissioni di Fazio, uno scambio di scortesie tra il governatore e il presidente del Senato Marcello Pera ai limiti del conflitto istituzionale. Tremonti fu costretto a dimettersi dopo una serie di conflitti altrettanto permanenti con Fini. Al suo posto subentrò Domenico Siniscalco. Un anno dopo lo stesso Siniscalco chiese a gran voce la testa di Fazio, coinvolto nel frattempo nello scandalo ‘ Bancopoli’ per aver permesso l’acquisizione della Banca popolare di Lodi da parte d Antonveneta nonostante il parere di illegittimità dell’operazione emesso dalla stessa Vigilanza di Bankitalia. Berlusconi si oppose alla richiesta di Siniscalco, che si dimise riaprendo le porte del Mef a Tremonti nel settembre 2005. Tre mesi dopo gettò la spugna. Dopo le sue dimissioni le norme che regolano la guida della banca centrale sono state cambiate: non più governatorato a vita ma mandato di sei anni rinnovabile una sola volta. Meno di un anno e mezzo fa, nell’ottobre 2017, fu il Pd renziano a presentare una mozione di sfiducia contro la riconferma di Visco alla guida di Bankitalia. In sede di commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche il Pd muoveva allora al direttorio della banca centrale e ai vertici di Consob esattamente le stesse accuse che partono ora da Lega e M5S: il non aver vigilato sulla situazione delle banche poi fallite o salvate in extremis dal governo, ma non a costo zero. E’ certo che l’offensiva del Pd, poi finita in nulla di fatto, cercasse di parare l’inestimabile danno d’immagine inflitto a Renzi proprio dai fallimento bancari ma l’accusa era probabilmente fondata lo stesso ed era ovvio che i soci del nuovo governo la riprendessero, tanto più dopo la durissima opposizione di Bankitalia alle manovre inserite nella legge di bilancio. Ma avere deciso di scatenare l’attacco in un momento di massima fragilità, con previsioni di crescita raso terra e il rischio di sentirsi chiedere dalla Ue una manovra correttiva monstre a breve potrebbe rivelarsi una pessima idea.
· Il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità)
Mes e Patto di Stabilità: l’Europa umilia (ancora) l’Italia. Federico Giuliani su Inside Over il 20 dicembre 2019. È bastata una frase fuoriuscita dalla bocca di Valdis Dombrovskis per infrangere le speranze di Giuseppe Conte. “Non si può aprire il tema delle regole di bilancio se non c’è la ragionevole possibilità di concludere il lavoro con un risultato migliore rispetto al punto di partenza”, ha dichiarato ieri al quotidiano La Stampa il vicepresidente della Commissione Ue. Che, spiegato in termini più semplici, vuol dire che il Patto di Stabilità non si tocca per nessun motivo. E pensare che il premier Conte si era illuso di poter allargare le maglie economiche di Bruxelles puntando sull’emergenza climatica e sulla necessità di mettere in pratica provvedimenti green. L’abbaglio del premier si aggiunge alla frustrazione di Paolo Gentiloni, sulla carta commissario europeo per gli affari economici ma nella realtà dei fatti “allievo” del citato Dombrovskis responsabile di tutti i portafogli economici della Commissione.
Gentiloni e Conte zittiti da Dombrovskis. Gentiloni aveva preso coraggio per lanciare una proposta contraria alla logica dell’Ue: “Il Patto di Stabilità era stato pensato in un momento di crisi. Adesso va rivisto. Le sue regole erano nate nel contesto di una crisi. Ora però da questa crisi siamo fuori e abbiamo altre sfide davanti a noi”. Insomma, non che Gentiloni avesse minacciato di trascinare l’Italia fuori dall’Unione europea o chissà cos’altro. L’ex premier chiedeva soltanto di rivedere il Patto di Stabilità, una richiesta tra l’altro legittima ma subito stroncata sul nascere dai tecnocrati Ue. Dombrovskis, da buon tutor, ha ripreso il suo allievo “ribelle” tirandogli metaforicamente un bel ciaffone in pieno volto. In definitiva, a causa delle “troppe divisioni tra i governi” è molto “difficile cambiare il Patto di Stabilità”. Questione chiusa ancor prima di essere aperta.
Minacce silenziate. Oltre a disinnescare la possibile bomba rappresentata dalla richiesta di Gentiloni, Dombrovskis è passato a tematiche ancora più recenti e scottanti. Conte aveva chiesto più tempo per discutere la riforma del Mes, fino almeno a giugno. Il vicepresidente della Commissione è stato inflessibile: non se ne parla neanche per scherzo. “Sono emerse alcune preoccupazioni “last minute” dell’ Italia e bisogna vedere come affrontarle nel modo migliore. Ma in ogni caso credo che nel giro di un paio di mesi si troverà un accordo”: è questa la presa di posizione dell’eurofalco lettone, che combacia con la stessa dell’Ue. Oltre al Patto di Stabilità e al Meccanismo europeo di stabilità, nelle parole di Dombrovskis c’è dell’altro: una minaccia neanche troppo velata all’indirizzo del nostro Paese. Se Roma non firma il Mes saranno guai amari, anche perché – ha ricordato il lettone – “l’Italia è a rischio di non conformità con le regole Ue, sia per quest’ anno che per il prossimo”. Di fronte ad affermazioni del genere cosa ha fatto il governo giallorosso? Si è lasciato sottomettere collezionando l’ennesima umiliazione in ambito europeo. Anzi: riguardo alla riforma del Fondo salva-Stati, l’ultima presa di posizione di Roberto Gualtieri è quasi sconcertante. Il ministro dell’Economia ha infatti dichiarato che “il Mes è il più sovranista dei meccanismi europei, perché amministra bilanci nazionali gestiti dai ministri delle Finanze dei Paesi su mandato dei rispettivi Parlamenti”.
ECCO COME E PERCHÉ DIVAMPANO LE POLEMICHE SUL MES (MECCANISMO EUROPEO DI STABILITÀ). Manola Piras per startmag.it il 18 novembre 2019. Lievitano dibattito e polemiche sulla riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, che dovrebbe veder la luce entro il prossimo mese di dicembre. In questi giorni si registrano le preoccupazioni della Banca d’Italia che hanno innescato la reazione della Lega, da tempo sulle barricate e che già durante il governo Conte 1 – di cui faceva parte – ha presentato un’interrogazione all’allora ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria. In tutto questo si apre un ulteriore dibattito fra giornalisti e analisti sull’attenzione prestata al tema dalla stampa nazionale accusata- in alcuni casi – di edulcorare la pillola.
COS’E’ IL MES. Nato nel 2012 per sostituire i preesistenti Fondo europeo di stabilità finanziaria e Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria, il Mes (o Esm, secondo l’acronimo inglese) vuole essere una sorta di Fondo monetario europeo per sostenere i membri dell’area euro in difficoltà cui si offre un programma di aiuti in cambio di riforme strutturali.
IL DIBATTITO SULLA RIFORMA DEL MES. La riforma del Mes desta allarme per il nostro Paese perché prevede che il supporto finanziario sia attivato in caso di turbolenze sui mercati del debito pubblico ma qualora ricorrano alcune condizioni: non trovarsi in procedura d’infrazione, avere da due anni un deficit sotto il 3% e un debito pubblico sotto al 60%. Dunque, l’Italia sarebbe esclusa dal supporto cui potrebbe accedere – in seconda battuta – solo se accettasse una ristrutturazione del debito.
L’INTERROGAZIONE DEL CARROCCIO E LE PAROLE DELL’EX MINISTRO TRIA. Già lo scorso giugno Claudio Borghi e altri deputati leghisti hanno presentato un’interrogazione al titolare di via XX Settembre sull’iter della riforma e lo stesso Tria, durante il suo intervento all’assemblea dell’Abi, a luglio, aveva affermato che la trasformazione del Meccanismo di stabilità in un fondo monetario europeo con compiti di sorveglianza fiscale può comportare “possibili ripercussioni negative sui mercati internazionali”.
COS’HA DETTO IL GOVERNATORE VISCO SULLA RIFORMA DEL MES. Sulla questione il 15 novembre è intervenuto il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, secondo cui la riforma del Mes deve essere gestita attentamente perché potenzialmente comporta “rischi enormi” . Parlando al seminario congiunto Official Monetary and financial institutions forum OMFIF-Banca d’Italia, il numero uno di Palazzo Koch ha spiegato che “i piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default”. Inoltre, secondo Visco, “dovremmo tutti tenere a mente le terribili conseguenze dell’annuncio del coinvolgimento del settore privato nella risoluzione della crisi greca dopo il vertice di Deauville a fine 2010”.
IL TWEET DI JONES (REUTERS). Parole chiare che però hanno forse innescato qualche ripensamento a Via Nazionale. O almeno così pare leggendo il tweet del corrispondente Reuters da Roma, Gavin Jones: “Comunque Bankitalia abbastanza schizofrenica. Come se avesse paura delle proprie parole. Noi facciamo pezzo sul "huge risk" e i vari avvertimenti e proposte. Arriva chiamata in redazione da Bankitalia chiedendoci di ammorbidirlo un po’”.
L’AUDIZIONE DI GALLI E IL COMMENTO DI BORGHI E BAGNAI. Da registrare, la scorsa settimana, pure l’audizione in commissioni riunite Bilancio e Politiche Ue di Montecitorio di Giampaolo Galli, ex capo economista ed ex direttore generale di Confindustria ed ex deputato Pd, oggi docente alla Luiss. Per Galli, la riforma Mes – tra l’altro – è un “pericolo per l’Italia e per gli italiani”. Parole che hanno suscitato la reazione di Borghi e dell’economista Alberto Bagnai, senatore della Lega: “E’ impressionante sentire queste parole da un osservatore esterno e non sospettabile di antieuropeismo. Il professor Galli ha inoltre dichiarato a chiare lettere che una ristrutturazione del debito, implicita nei nuovi meccanismi del fondo, ‘sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di risparmiatori”, hanno scritto Bagnai e Borghi in una nota. Ricorda poi il parlamentare del Carroccio: “Abbiamo sempre denunciato il sospetto segreto con cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e l’ex ministro dell’Economia Giovanni Tria, hanno condotto le trattative senza mai informare il Parlamento, pur essendone obbligati per legge. La loro reticenza ci aveva indotto persino ad interrogazioni parlamentari addirittura quando eravamo parte della stessa maggioranza”. A Borghi, ha replicato Galli su Facebook: “La campagna #stopMES è una sciocchezza demagogica. Il MES, pur con limiti, è un’istituzione preziosa, uno strumento di solidarietà dei paesi più solidi (Germania) nei confronti di quelli più esposti alle crisi, Italia in primis. Ecco perché”.
LE CRITICHE DI LUCIANO BARRA CARACCIOLO ALLA RIFORMA DEL MES. Una condanna della riforma arriva anche da Luciano Barra Caracciolo, magistrato ed ex sottosegretario agli Affari europei con Paolo Savona ministro nel governo M5s-Lega, come sottolineato su Twitter dall’analista Giuseppe Liturri: “Magistrale ricostruzione di @LucianoBarraCar della catena causale e temporale che ha portato ad una bozza di Trattato che #Bankitalia stessa definisce fonte di "rischi enormi" per l’Italia. Una stampa degna di questo nome dovrebbe parlarne per settimane”. In un lungo e articolato intervento sul suo blog Orizzonte48.com Barra Caracciolo evidenzia: “La riforma Esm impone una scelta, obbligata e senza alternative, tra ristrutturazione del debito pubblico o definitiva ristrutturazione sociale italiana, cioè uno sconvolgimento ordinamentale e dunque costituzionale, – o meglio la sua brusca e intollerabile accelerazione, che è totalmente non voluta dal popolo sovrano”. “Quando finiremo di pagare per i problemi delle intenzionali pecche istituzionali dell’eurozona?”, si domanda l’ex sottosegretario. Inoltre, la preoccupazione di Barra Caracciolo è che si determini “un effetto di sbilanciamento sull’Esecutivo di decisioni che non solo sfuggiranno sempre più all’autonoma deliberazione parlamentare e alla indipendenza di giudizio degli organi costituzionali di garanzia, ma che sono assunte, in modo crescente e divorante, in sede sovranazionale, e quindi al di fuori del circuito di deliberazione dell’indirizzo elettorale, democratico e costituzionale”.
LA POCA ATTENZIONE DELLA STAMPA AL PROBLEMA SECONDO BORGHI. Il leghista Borghi in questi giorni ha anche evidenziato la scarsa attenzione al problema da parte della stampa nostrana. Ha scritto su Twitter: “Io veramente non ho parole. Guardate che tipo di forze sono in atto e la manipolazione sfacciata. A sinistra l‘agenzia con le dichiarazioni di Visco sul Mes, a destra il titolo dell’UNICO giornale che ne parla a parte @LaVeritaWeb. Incredibile, i RISCHI ENORMI diventano BENE”. Il riferimento è al titolo dell’articolo che il Sole 24 Ore ha dedicato alle parole di Visco: “Bene la riforma dell’Esm, ma serve un safe asset europeo”. Critiche raccolte da Stefano Fassina, sempre su Twitter, che però più che della stampa si preoccupa degli effetti della riforma. Dopo aver ringraziato Borghi, il parlamentare di Leu ed ex viceministro Pd all’Economia ha colto l’occasione per lanciare una proposta: “In Parlamento dobbiamo dare mandato a @GiuseppeConteIT di non firmare revisione #Esm” perché “è non solo conflitto tra Stati, ma conflitto di classe: gli interessi delle nostre imprese esportatrici sono allineati a quelli delle imprese esportatrici tedesche”. In effetti sulla stampa nazionale l’argomento non sembra trovare grande spazio, nonostante l’intervento del governatore della Banca d’Italia. Le critiche di Borghi al giornale di Viale dell’Astronomia, però, ieri hanno trovato l’eco che non ti aspetti: un articolo del Fatto quotidiano dal titolo “Le paure di Visco e l’ottimismo del Sole, giornale della vie en rose”. Eloquente l’incipit: “L’ottimismo, si sa, è il sale della vita e quale giornale, se non Il Sole 24 Ore, è più adatto a vivere la vie en rose o almeno en saumon? Prendiamo il discorso di Ignazio Visco di cui il giornale della Confindustria dà conto ieri”.
(LaPresse il 18 novembre 2019) - "Pare che, nei mesi scorsi, Conte o qualcuno abbia firmato di notte e di nascosto un accordo in Europa per cambiare il Mes, ossia l'autorizzazione a piallare il risparmio degli italiani. Non lo lasceremo passare. Sarebbe alto tradimento, se qualcuno senza interpellare Parlamento avesse trasformato il fondo salva stati in un fondo ammazza stati. #StopMes è primo su Twitter. Se qualcuno ci infilerà in questa gabbia, i titoli italiani varranno in prospettiva men che zero. Rischia di essere un crimine nei confronti dei lavoratori e dei risparmiatori italiani. Si ponga rimedio adesso, prima che sia tardi o sarà alto tradimento. E per i traditori il posto giusto è la galera. Ogni giorno chiederemo al signor conte, ex avvocato del popolo, attuale avvocato di se stesso, se lui qualcuno del suo governo ha messo la testa degli italiani". Così su Facebook il leader della Lega, Matteo Salvini.
(LaPresse il 18 novembre 2019) - Accogliamo con sconcerto le parole del prof. Giampaolo Galli che ritiene la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) un "pericolo per l'Italia e gli italiani". Eravamo a conoscenza del rischio insito nella riforma, ma è impressionante sentire queste parole da un osservatore esterno e non sospettabile di antieuropeismo. il Professor Galli ha inoltre dichiarato a chiare lettere che una ristrutturazione del debito, implicita nei nuovi meccanismi del fondo, "sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di risparmiatori". Abbiamo sempre denunciato il sospetto segreto con cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e l'ex ministro dell'Economia Giovanni Tria, hanno condotto le trattative senza mai informare il Parlamento, pur essendone obbligati per legge. La loro reticenza ci aveva indotto persino ad interrogazioni parlamentari addirittura quando eravamo parte della stessa maggioranza. Anche il presidente dell'Eurogruppo, Mario Centeno, ha rivelato che la riforma è stata sostanzialmente approvata dai presidenti in giugno. Questo enorme rischio per l'Italia si sta preparando tra le segrete stanze di Bruxelles, senza che il Parlamento, al di là delle nostre interrogazioni e di queste audizioni, abbia mai potuto dire una singola parola in merito. Cosa ha approvato a nostra insaputa il presidente Conte? In cambio di cosa ha dato il suo assenso a questa possibile bomba, che potrebbe azzerare il risparmio di milioni di Italiani? La riforma del MES deve essere bloccata senza se e senza ma, e il presidente deve riferire immediatamente in parlamento". Lo dichiarano in una nota i parlamentari della Lega Claudio Borghi e Alberto Bagnai, in seguito all'audizione sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes) del Prof. Gianpaolo Galli, ex dirigente di Bankitalia e vicedirettore dell'osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, presso la commissione Bilancio della Camera.
IL MECCANISMO EUROPEO DI STABILITÀ: FUNZIONAMENTO E PROSPETTIVE DI RIFORMA. Dagospia il 18 novembre 2019. Estratto da giampaologalli.it (audizione presso le Commissioni riunite V e XIV della Camera dei Deputati, 6 novembre 2019). (…) È evidente che la riforma riguarda in particolare l’Italia che è il paese con lo spread più alto e che non ha creato le condizioni, né dal lato della finanza pubblica né dal lato delle riforme per la crescita, per mettere il debito su un trend discendente in rapporto al Pil. Le organizzazioni internazionali e i mercati hanno smesso di credere alle promesse delle autorità di intervenire, in futuro, per risolvere il problema. Nella previsione base della Commissione Europea il debito aumenterebbe di altri 10 punti di Pil in meno di un decennio; secondo il Fondo Monetario, il debito salirebbe oltre il 160% del Pil nell’arco di un quindicennio. Entrambe queste previsioni sono del luglio scorso. (….) Nel complesso, si può forse dire che la prospettata riforma del MES aiuta la stabilità dei paesi virtuosi dell’eurozona, ma è probabile che renda meno stabili paesi come l’Italia. (…) Il punto che vale la pena sottolineare è che non vi è molta coerenza in chi sostiene che gli aiuti alla Grecia sono in realtà serviti per salvare le banche estere e al tempo stesso rifiuta di considerare uno schema di ristrutturazione preventiva dei debiti sovrani. La nostra opinione su questo punto è che l’idea di una ristrutturazione “early and deep” non avesse senso nella Grecia del 2010 e, a maggior ragione, non abbia senso nell’Italia di oggi. In particolare, occorre considerare che l’Italia ha risparmio di massa e che il 70% del debito è detenuto da operatori residenti, tramite le banche e i fondi di investimento. In queste condizioni, una ristrutturazione sarebbe una calamità immensa, generebbe distruzione di risparmio, fallimenti di banche e imprese, disoccupazione di massa e impoverimento della popolazione senza precedenti nel dopoguerra. Nessun governo può prendere una decisone del genere se non nel momento in cui perdesse l’accesso al mercato e non fosse più in grado di pagare stipendi, pensioni, fornitori ecc. Una ristrutturazione preventiva sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di persone che hanno dato fiducia allo Stato comprando titoli del debito pubblico. Sarebbe un evento di gran lunga peggiore di ciò l’Italia ha vissuto negli ultimi anni a causa dei fallimenti di alcune banche. Anche per questo motivo, azioni o parole che possano ingenerare il timore di una ristrutturazione o, peggio, di un default, vanno considerati come un pericolo per l’Italia e per gli italiani. Per questo motivo ci preoccupano le proposte di revisione del Trattato istitutivo del MES. (…)
Conclusioni. Il MES è un’istituzione molto utile che deve continuare ad avere il pieno sostegno dell’Italia. Le proposte di riforma che sono state formulate dall’Eurogruppo dello scorso giugno presentano aspetti positivi, ma anche alcune delle criticità per un paese come l’Italia. In particolare, preoccupa l’idea che, in certe circostanze, la ristrutturazione del debito pubblico possa diventare una precondizione per avere accesso alle risorse del MES. Occorre rafforzare il ruolo della Commissione rispetto al MES, evitare che le CAC “single limb” – i cui dettagli tecnici non sono ancora stati resi noti – facilitino eccessivamente la ristrutturazione del debito, sottolineare con forza che la ristrutturazione del debito pubblico non può essere decisa sulla base di valutazioni meccaniche e va valutata con grande attenzione, con il pieno coinvolgimento delle autorità nazionali, perché rischia di aggravare la condizione economica e sociale di una nazione, nonché di avere effetti di contagio molto negativi sull’intera eurozona.
Mes: cos'è e come funziona il "fondo salva stati". La riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità è tema di dibattito politico nazionale. Ecco cosa cambierà e come. Barbara Massaro il 27 novembre 2019 su Panorama. Il MES, il cosiddetto Fondo Salva Stati è un meccanismo burocratico che va a limitare la libertà degli Stati membri dell'Eurozona o è una boccata d'ossigeno per quei Paesi a rischio defoult? Ruota intorno a questo interrogativo il dibattito delle ultime settimane circa la riforma del cosiddetto MES, ovvero il Meccanismo Europeo di Stabilità.
Cos'é il MES. Si tratta di un'organizzazione intergovernativa dell'Eurozona istituita nel 2012 con lo scopo di andare in aiuto dei Paesi in difficoltà economica. Come fosse un enorme fondo cassa dove i ricchi mettono di più e i poveri di meno e quando qualcuno ha problemi si rompe il porcellino. Detta così sembra l'uovo di Colombo che ci salverà tutti, ma le cose sono un po' più complesse. Il MES ha una dotazione di 80 miliardi di euro il 27% dei quali arrivano dalla Germania che, con ogni probabilità, non utilizzerà mai i propri risparmi e quindi detta le regole per gli altri. Il MES, inoltre, emette titoli con la garanzia degli Stati che ne fanno parte e per questo è in grado di raccogliere sui mercati finanziari fino a 700 miliardi di euro.
I parametri per accedere al MES. Il problema è che per gli Stati in difficoltà non basta alzare il ditino e chiedere l'aiuto da casa, ma per attingere a quella che sembra l'oasi nel deserto devono sottoscrivere tutta una serie di condizioni da lacrime e sangue. Il primo luogo devono accettare la sorveglianza della cosiddetta Troika il comitato costituito da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale che avrà il compito di vigilare sulla realizzazione di una serie di riforme e cambiamenti nazionali imposti giocoforza dall'Europa. Si tratta di misure politicamente impopolari come il taglio della spesa pubblica, l'aumento delle tasse, nuovi leggi sul lavoro nazionalizzazione o privatizzazione di enti, pensioni stipendi pubblici e così via. In pratica è l'Europa che decide la linea politica del paese in crisi. Al momento del MES hanno usufruito Grecia, Cipro, Portogallo e Irlanda.
La riforma del MES. Da tempo si parla di una riforma di questo Meccanismo, una riforma che però va in due direzioni antitetiche. I Paesi ricchi (sostanzialmente quelli del nord Europa) chiedono maggiori garanzie sui prestiti e maglie più strette affinché le nazioni meno forti non prendano alla leggera i propri impegni finanziari sapendo che tanto poi ci pensa il MES, mentre le nazioni potenzialmente in difficoltà (tra cui l'Italia) vorrebbero che la mano dell'Europa stesse lontana dalla sovranità popolare. Da inizio 2018 il braccio di ferro tra "ricchi" e "poveri" (per dirla in soldoni) della zona Euro prosegue senza sosta nel tentativo di arrivare a una riforma equa che non strozzi le nazioni in difficoltà ma che non marci sulle tasche dei paesi più forti. Tra i punti chiave della riforma i meccanismi di accesso al credito. I paesi più indebitati, tra cui l'Italia, chiedevano che le linee di credito precauzionali del MES (che si chiamano in termini tecnici PCCL e ECCL) venissero concesse anche senza bisogno di sottoscrivere un accordo dettagliato di riforme impopolari. Nella versione finale questa richiesta è stata sì accolta, ma a patto che i paesi che hanno bisogno di accedere al MES rispettino i parametri di Maastricht e in realtà su 19 Paesi dell'Eurozona, ben 10 (e cioè i più indebitati e quindi quelli che avrebbero potenzialmente bisogno del MES) questi parametri non li rispettano. Vittoria dei "poveri" invece è stata l'introduzione del cosiddetto backstop per il Fondo di risoluzione unico, un fondo finanziato dalle banche europee ideato per aiutare istituti finanziari in difficoltà. Ora il MES potrà finanziare il Fondo di risoluzione fino a 55 miliardi rendendo le banche più sicure.
E poi c'è la terza modifica, quella vinta dai "ricchi" che non solo non piace all'Italia ma preoccupa i più deboli. La riforma cerca di rendere più facile ristrutturare il debito pubblico di un paese che chiede aiuto al MES. Questo significa che i privati che hanno prestato denaro alle nazioni in crisi perderanno parte del loro investimento nel momento in cui scatterà un pacchetto di aiuti con un complesso sistema di compravendita di titoli di Stato. Questo determina sì che un paese in difficoltà possa restituire meno di quello che deve ai suoi creditori, ma implica che i creditori, consci del maggior rischio del proprio prestito, finiscano per chiedere interessi proporzionalmente elevati al livello di difficoltà del Paese in oggetto.
Lorenzo Salvia per “il Corriere della sera” il 28 novembre 2019.
1. Che cosa è il Mes? La sigla sta per Meccanismo europeo di stabilità. Si tratta di un' organizzazione intergovernativa della quale fanno parte i 19 Paesi della zona euro. Creato nel 2012 ha il compito di aiutare gli Stati membri che si trovano in gravi difficoltà finanziarie o ne sono minacciati.
2. Da dove vengono i soldi per gli aiuti? I fondi vengono dagli stessi Stati del Mes, in maniera proporzionale al peso delle loro economie. Il capitale ammonta a 80 miliardi di euro. L' Italia ha contribuito con 14,3 miliardi, terzo posto dietro Germania e Francia. Emettendo titoli con la garanzia degli Stati membri, il Mes può raccogliere sui mercati fino a 700 miliardi.
3. Ma perché adesso se ne parla? A giugno di quest' anno prima l' Eurogruppo, dove siedono i ministri dell' Economia della zona euro, e poi il vertice euro, dove siedono i capi di governo e il presidente della commissione Ue, ha varato una revisione delle regole del Mes. Per l' approvazione definitiva del testo manca però un' ultima riunione dei capi di governo, che si terrà a dicembre.
4. Cosa cambia con questa riforma? Per accedere agli aiuti, cioè a una linea di credito precauzionale, i Paesi più indebitati non dovranno firmare un accordo che indica le riforme da adottare. Basterà una semplice lettera di intenti. Ma solo per quei Paesi che rispettano i parametri di Maastricht, tra cui il tetto del 60% nel rapporto tra debito pubblico e Pil. Secondo una simulazione del think thank Bruegel, tra i 19 Paesi della zona euro ben 10, compresa l' Italia, non rispettano Maastricht. E quindi non avrebbero alcun vantaggio da questa misura.
5. Ci sono modifiche che riguardano le banche? Sì, è il meccanismo del backstop. Il Mes potrà contribuire con 55 miliardi di euro al Fondo di risoluzione unico, finanziato dalle banche della zona euro per aiutare gli istituti di credito in difficoltà.
6. E la ristrutturazione del debito cosa c' entra? La riforma rende più semplice la ristrutturazione del debito pubblico, cioè una riduzione concordata del valore del prestito fatto allo Stato, per i Paesi che chiedono aiuto al Mes. Questa semplificazione, che prevede un solo voto dei creditori al posto delle procedure complesse previste oggi, scatterà nel 2022. È possibile che i creditori chiedano interessi più alti proprio a quei Paesi, come l' Italia, considerati meno solidi. Questo farebbe salire il costo del servizio del debito pubblico, rischiando di innescare una pericolosa spirale.
Andrea Bassi per “il Messaggero” il 28 novembre 2019. Perché il Mes, il meccanismo salva stati, agiti i sonni è presto detto. Lo scopo del Fondo è quello di aiutare un Paese in caso di crisi, come era avvenuto con la Grecia. Per questo il Mes ha a disposizione una dote di 700 miliardi di euro. I Paesi del Nord, a partire da Olanda e Germania, si erano battuti per introdurre una condizione precisa in caso di richiesta di aiuto: una ristrutturazione quasi automatica del debito pubblico. Un taglio, per intendersi, al valore dei Btp in portafoglio. L'Italia è riuscita a far eliminare questi automatismi. Ma il rischio che rientrino dalla finestra è sempre alto. A sorpresa, per esempio, nel resoconto finale dell'Eurogruppo del 7 novembre, stilato soltanto il 20 novembre e messo in rete ieri, è spuntato un «working document», un documento di lavoro, per introdurre una metodologia comune per calcolare la sostenibilità dei debiti pubblici dei Paesi e la loro capacità di rimborsare i prestiti. I contenuti di questo documento non sono ancora noti ma, secondo alcuni osservatori, il rischio è che rientri dalla finestra ciò che era uscito dalla porta. Se si stabiliscono dei criteri rigidi per valutare se un debito pubblico è sostenibile, i mercati faranno in fretta a fare i calcoli. Un meccanismo, insomma, da maneggiare con cura. Ieri Roberto Gualtieri si è battuto come un leone per difendere il compromesso raggiunto in Europa sulla riforma del Mes. Il ministro del Tesoro italiano ha soprattutto minimizzato le modifiche concordate il 13 giugno scorso dall'Eurogruppo e adottate il 21 giugno dai Capi di Stato dei Paesi membri. Modifiche «marginali» secondo Gualtieri. Ma davvero la riforma del meccanismo salva Stati con cambia nulla? In realtà le modifiche decise, non sono completamente neutrali. Il fondo salva Stati garantisce già di per se una posizione di maggior forza all'asse Parigi-Berlino. Non tutti Paesi all'interno del Mes sono uguali. Le decisioni più importanti, ha ricordato ieri Gualtieri, come la decisione di intervenire a sostegno di un Paese, devono essere prese all'unanimità. Ma perché una decisione possa essere presa è necessario che siano presenti i due terzi dei Paesi e che questi rappresentino almeno i due terzi dei diritti di voto. Nel Mes, però, si vota non per testa, ma per quanti soldi si versano nel capitale. Le Germania vale il 27%, la Francia il 20% e l'Italia il 17%. Alla Germania basterebbe aggregare un piccolo Paese per far mancare i quorum. Germania e Francia hanno poi un potere di veto sulle più importanti nomine, come quella del presidente dei governatori, l'organo principe che prende le decisioni, e sul direttore generale, l'organo tecnico più importante che, non a caso, oggi è un tedesco, Klaus Regling. In questo caso il quorum per le decisioni è l'80%. Tutto questo non è stato modificato. Ma questo potere sbilanciato verso Francia e Germania rischia di pesare, in futuro, sulle decisioni importanti che dovranno essere prese in caso di crisi. La più delicata riguarda proprio la possibilità di una ristrutturazione del debito pubblico. È vero, come sostiene il ministro Gualtieri e come ha spiegato al Messaggero l'ex ministro Giovanni Tria (che con l'Europa aveva trattato sugli emendamenti), che i maggiori pericoli per Roma, come i meccanismi automatici di ristrutturazione del debito che la Germania e l'Olanda avrebbero voluto introdurre, sono stati evitati. Ma, come visto, il rischio che rientrino dalla finestra è sempre presente. Gualtieri nel suo intervento in Senato, ha ricordato che l'allora ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Shauble, voleva che il Mes diventasse il ministero delle finanze europeo e facesse politica economica. Questo rischio è stato sventato, ha spiegato, rimarcando il primato della Commissione europea sul meccanismo salva stati. Ma diversi aspetti della visione di Schauble, sono comunque rimasti. L'intervento precauzionale del Mes, quello che potrebbe essere attuato all'inizio di una crisi, prima che il Paese abbia guai più seri, è stato legato al rispetto di alcuni parametri, tra cui il rispetto del rapporto tra debito e Pil al 60% o la sua riduzione di un ventesimo l'anno. Al Fondo salva stati, come detto, è stata data la possibilità di fare valutazioni preventive sulla sostenibilità del debito. Gualtieri ieri ha voluto ribadire con forza che l'Italia non ha nessun bisogno dell'aiuto del Mes. Probabilmente ha ragione. Ma semmai dovesse accadere il contrario l'intervento non sarebbe indolore.
Il Meccanismo europeo di stabilità (Mes): cosa è vero (o falso) sull’intesa europea. Nessun segreto sul negoziato, un anno fa già noti tutti i dettagli. E sulle perdite per i risparmiatori il rischio resta uguale a oggi. Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 su Corriere.it da Federico Fubini. In un’Italia polarizzata, ogni tema assume una valenza simbolica. Essere pro o contro qualcosa diventa un segnale di appartenenza e non una scelta nel merito. Dietro i simboli però ci sono i fatti, che in un Paese vengono dati per scontati al punto da dimenticarli. È allora che il terreno per le manipolazioni si fa fertile e poche volte ciò stato vero come con il Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Ma fare chiarezza forse si può.
Che cos’è il Mes? Il fondo salvataggi Mes — il cui segretario generale è il perugino Nicola Giammarioli - è un ente dei governi dell’euro nel quale l’Italia ha una quota del 17,7% (pari al peso economico del Paese nell’area) che corrisponde in proporzione a un capitale versato di 14,3 miliardi su un totale di 80,5. Il compito del Mes è prestare agli Stati in dissesto che non riescono più a finanziarsi sul mercato, o altri Paesi dai conti sani eppure in difficoltà. L’Italia non dà al Mes 125 miliardi, come si è detto. In realtà l’ente può emettere bond per raccogliere sul mercato risorse garantite pro-quota dagli Stati fino a 705 miliardi. L’Italia garantirebbe dunque per 125. Non è questa però la somma a rischio e il Mes non ha mai subito perdite (anche se i rimborsi di Atene sono rinviati).
Accordo «di nascosto»? La riforma del Mes è stata trattata in negoziati fra governi, che non sono mai pubblici. Tuttavia, i termini esatti della questione lo erano da un anno. Dal 4 dicembre 2018 sul sito del Consiglio Ue si trova un documento che illustra in dettaglio ciò che poi sarebbe stato concordato sei mesi dopo. Tutto trasparente, per chi voleva informarsi.
«Mancato rispetto del Parlamento»? Il 19 giugno scorso il premier Giuseppe Conte alla Camera spiega la bozza di accordo sul Mes in agenda al vertice Ue del giorno dopo. Poco dopo la maggioranza di M5S e Lega approva una risoluzione, che vincola il governo a rifiutare accordi sul Mes «che finiscano per costringere alcuni Paesi verso percorsi di ristrutturazione predefiniti ed automatici». Automatismi nell’imporre default ai Paesi che chiedano un prestito dal fondo salva-Stati (Mes) erano stati proposti da Germania, Olanda e altri, ma l’idea non è passata. La Camera chiede a Conte anche di rifiutare intese che «minino le prerogative della Commissione europea in materia di sorveglianza fiscale». Ma neanche questo rischio c’è. Il premier a Bruxelles rispetta dunque in pieno il mandato della Camera. Comunque nel 2020 il parlamento dovrà di nuovo pronunciarsi per la ratifica.
Perché il Mes cambia? La riforma serve in primis per permettere al Mes dal 2024 di prestare a un «Fondo unico di risoluzione», costituito dalle banche europee per finanziare l’operatività degli istituti che falliscono. Se i 60 miliardi del Fondo di risoluzione non bastano, il Mes potrà fornire altre risorse. Eviterebbe così di dover prestare attraverso gli Stati nei quali si trovano le banche fallite e dunque di aumentarne il debito pubblico. È un passo dell’Unione bancaria che può servire (anche) all’Italia. Non è scontato che queste risorse vadano alle banche tedesche, perché finora la Germania ha sempre gestito i propri dissesti da sola.
Altre novità nel Mes? È la novità più controversa: il Mes stesso affianca formalmente la Commissione Ue nel valutare se un governo che chiede un salvataggio sia in grado di rimborsarlo. Se si concludesse che non lo è, il Mes può rifiutare l’aiuto. Ciò obbligherebbe il governo in crisi a imporre perdite ai suoi creditori di mercato (famiglie, banche, fondi esteri) in modo da ridurre i debiti preesistenti e accedere così al salvataggio del Mes. L’analisi di sostenibilità del debito finora era della sola Commissione Ue, più attenta all’interesse generale. Ora invece collabora anche il Mes, si specifica, «dal punto di vista del creditore» e dunque probabilmente più severo. Se Commissione e Mes non concordano, quest’ultimo di fatto prevale. Il punto è controverso perché se gli investitori iniziassero a temere che il Mes voglia imporre un default, potrebbero chiedere interessi sempre più alti per prestare a uno Stato fragile. La crisi dunque rischierebbe di auto-avverarsi. Questo però non dipende dalla riforma del Mes, ma dall’orientamento politico del maggiore creditore: la Germania. Già con le vecchie regole oggi in vigore, il Mes prevede in pieno la possibilità di default pilotati dei creditori privati e la Germania è legalmente del tutto in grado — se vuole — di mettere un veto sul salvataggio di un Paese in dissesto che non imponga perdite sui propri creditori. La lite su questo punto della riforma oggi in Italia è dunque futile.
Credito «leggero» È previsto dal 2012, non da oggi, che il Mes metta a disposizioni linee di credito con poche o nessuna condizione anche a Paesi dai saldi di bilancio sani ma colpiti da choc (magari l’Irlanda con la Brexit) o in uscita da una crisi (la Grecia oggi). Ma anche qui si fa confusione: per l’Italia, il tema è irrilevante.
Mes, finisce a sedie sfasciate alla Camera. Il leghista Belotti da solo contro tutto il Pd. Libero Quotidiano il 27 Novembre 2019. In Parlamento si "discute" di Mes e finisce a sedie sfasciate. Il leghista Daniele Belotti, fuori di sé dalla rabbia, durante il parapiglia che si è scatenato a Montecitorio nel tardo pomeriggio scaglia una sedia di uno stenografo. È il momento più eclatante di uno scontro politico al calor bianco. Il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri parla di documento "inemendabile", Lega e FdI insorgono scagliandosi contro il premier Giuseppe Conte, che aveva garantito come non ci fosse "alcun accordo firmato" dall'Italia. Claudio Borghi, presidente (leghista) di Commissione bilancio della Camera, pensa addirittura di accusare Conte di "eversione", Giorgia Meloni di "vergogna".
Il dem Piero De Luca capovolge l'accusa: "Il Mes porta la firma del governo gialloverde e quindi di Matteo Salvini". A quel punto, urla e fischi dai banchi della Lega con Belotti, raccontano i testimoni alle agenzie di stampa, che "si lancia in picchiata dai banchi della Lega e, prima ancora di scontrarsi con Emanuele Fiano e gli altri deputati del Pd che hanno alzato una barricata umana, travolge e spacca una poltrona utilizzata dagli stenografi d'aula". Seduta, ovviamente, sospesa.
(ANSA il 28 novembre 2019) Scontro in Aula alla Camera sul Mes. Le opposizioni hanno chiesto al premier Conte di riferire con urgenza in Aula, dopo le parole del ministro Roberto Gualtieri e lo scontro si è infiammato quando dai banchi del Pd Piero De Luca ha ricordato che le trattative sul trattato si sono svolte quando la Lega era al governo. I deputati leghisti sono insorti, protestando al grido di "Venduti, venduti" e il diverbio si è esteso anche ai banchi del centrodestra quando hanno visto un deputato di Fi fare un video. Roberto Fico ha sospeso i lavori d'Aula. Ad aprire lo scontro è Claudio Borghi, presidente leghista della commissione Bilancio della Camera, che prende la parola durante i lavori sul decreto terremoto per attaccare il governo sul Mes. E gli animi si infiammano al punto che il deputato della Lega Daniele Belotti, a quanto viene riferito, sfascia una delle poltrone in Aula. Mentre un altro collega, Marzio Liuni, segretario di presidenza, si avvicina a Roberto Fico per protestare. Il presidente della Camera sospende i lavori d'Aula e riunisce la capigruppo, per decidere se e come proseguire sul dl sisma, visto il clima infuocato dell'Aula. L'accusa, rilanciata da Claudio Borghi e Giorgia Meloni, è avere scavalcato il Parlamento, dando il via libera a un testo "inemendabile", come spiegato oggi da Roberto Gualtieri. "Il Parlamento a giugno con una risoluzione", ricorda il leghista, si era espresso sul trattato: se fosse sottoscritto si tratterebbe di "infedeltà in affari di stato, è un reato, l'avvocato del popolo dovrà cercarsi un avvocato, il Parlamento è stato completamente scavalcato. Una cosa gravissima". "Sottoscrivo le parole di Borghi", afferma Meloni e chiede a Conte di riferire. Poi prende la parola dai banchi del Pd Piero De Luca, che difende il governo e contrattacca accusando la Lega di aver condotto le trattative proprio sul Mes quando era al governo. "Venduti, venduti", gridano dai banchi dell'opposizione. A quel punto la situazione si fa ingestibile: Roberto Fico richiama i deputati e poi sospende la seduta.
Domenico Conti per l'ANSA il 29 novembre 2019. Il Meccanismo europeo di stabilità, ovvero il fondo salva-Stati che dopo mesi di negoziati è ormai a un passo dal traguardo, infiamma la politica italiana. Ed è bagarre a Montecitorio dopo l'audizione del ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, che definisce "comico" il rischio paventato dall'opposizione che vedrebbe l'Italia messa a rischio dalla riforma del trattato istitutivo del Mes. L'opposizione usa la mano pesante e insorge alle parole di Gualtieri con cui, in un'audizione fiume a Palazzo Madama, risponde a deputati e senatori che, "no", il testo ormai non si può più rinegoziare, "è stato chiuso". Il ministro, che fa muro sul Mes, si attira l'accusa di "alto tradimento" da parte della presidente di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni. E di "infedeltà in affari di Stato", parole di Claudio Borghi, della Lega, che invita il governo a riferire alla Camera o "porteremo Conte in tribunale". Ma il titolare di via XX Settembre è vittima anche - in un certo qual modo - di “fuoco amico”: il leader di M5S, Luigi Di Maio, durante la registrazione di Porta a Porta, chiede infatti una valutazione complessiva del pacchetto ammettendo che "ci sono perplessità, anche nei 5s" e che "un conto è il negoziato, e un conto è se conviene all'Italia". In serata Gualtieri prova a stemperare gli animi - che nel frattempo a Montecitorio hanno sfiorato la rissa in Aula costringendo il presidente Fico a sospendere la seduta e convocare una Capigruppo - affidando ad una nota una precisazione che spiega che il testo non è chiuso a modifiche di dettaglio anche se da un punto di vista politico, a suo avviso, non esistono spazi di cambiamenti: "il consenso definitivo e formale del governo alla riforma del Mes e al pacchetto non è ancora stato espresso - spiega via XX Settembre - e, come ho detto in Commissione, se da un lato il testo non è ancora stato firmato e sono tuttora in corso discussioni e negoziati su aspetti minori, la mia valutazione che non ci sia reale spazio per emendamenti sostanziali è di natura politica e non giuridica, in quanto come è noto in questa procedura vige la regola dell'unanimità". Durante l'audizione, oltre tre ore con decine di domande, Gualtieri di fatto ribadisce quanto detto in questi giorni. A partire dal fatto che la versione finale della riforma del Mes fu avallata nel dicembre scorso proprio dal governo giallo-verde. E che quella riforma nella sostanza poco cambia della precedente versione del Mes, salvo la possibilità di fare da "backstop" al fondo dei salvataggi bancari raddoppiandone la potenza di fuoco, dunque "una vittoria per l'Italia". E' del tutto "falso" - dice - che ci sia una stretta ai criteri per la concessione dei salvataggi. Quanto al criterio di sostenibilità del debito, "devo annunciarvi che c'era ed è rimasto" dice ai parlamentari dell'opposizione: "non cambia una virgola". Falso anche - prosegue il ministro - che la riforma, che è al vaglio dell'Eurogruppo il 4 dicembre, prima di passare al Consiglio Ue e nei prossimi mesi ai parlamenti nazionali, tolga poteri alla Commissione Ue, considerata più 'morbida' e politica, per assegnarli a un organismo tecnico come il Mes. Lo avrebbero voluto i tedeschi, l'Italia con altri ha resistito e prevalso. E falso anche, a detta del ministro ed ex presidente della Commissione Affari economici dell'Europarlamento, che sia prevista una ristrutturazione automatica del debito. Il confronto a Palazzo Madama passa anche dai dubbi espressi - richiamati dal senatore Adolfo Urso - dell'ex alta dirigente per il debito pubblico al Tesoro Maria Cannata, del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, del presidente dell'Abi Antonio Patuelli. Dichiarazioni riprese dall'opposizione e rivolte all'opinione pubblica "come un corpo contundente", in maniera "falsa e manipolatoria", dice Gualtieri. Il ministro si sforza di spostare l'attenzione sull' "approccio complessivo" voluto dall'Italia, e fatto proprio dall'Eurosummit, al tema delle riforme europee: accanto alla revisione del Mes, "l'introduzione di uno strumento bilancio per la competitività e convergenza, e la definizione di una roadmap per il completamento unione bancaria". Dove, ribatte, il governo non intende cedere all'intenzione tedesca di realizzare l'assicurazione comune sui depositi solo dopo aver dato una stretta al trattamento prudenziale dei titoli pubblici nei bilanci bancari. Ma il 'Mes' - tema rimasto silente per mesi e mesi per spuntare a cose ormai quasi fatte - è ormai terreno di scontro totale, tutto italiano, con le dinamiche europee scese in secondo piano. E con il governo - con Conte o Gualtieri - che "a brevissimo", assicura Fico, riferiranno in Aula.
Mes, Lega all'attacco di Conte: "Riferisca qui o in tribunale". Rissa sfiorata alla Camera tra Fdi, Lega e Pd. Seduta sospesa. Meloni: "Il Parlamento è stato totalmente scavalcato". Nico Di Giuseppe, Mercoledì 27/11/2019, su Il Giornale. Bagarre, con tanto di sospensione della seduta decisa dal presidente Roberto Fico, nell'Aula di Montecitorio sul Meccanismo europeo di stabilità. Le opposizioni - Fratelli d'Italia in testa, con Giorgia Meloni - hanno chiesto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte di riferire nell'emiciclo sulla riforma del Mes. Il deputato del Partito democratico, Piero De Luca, ha preso la parola e ha sostenuto che in realtà le trattative sul Mes sono andate avanti da mesi, anche durante il governo gialloverde, e quindi anche con la "complicità", "la consapevolezza" - a suo avviso - di Matteo Salvini. Il che ha provocato la rivolta, in particolare del parlamentari del Carroccio, al grido di "venduti, venduti". A un certo punto si è anche sfiorata la rissa nell'Aula della Camera con una trentina di parlamentari coinvolti, il tutto sotto gli occhi di un gruppo di ragazzi che in quel momento stava assistendo ai lavori d'Aula. Diversi deputati di maggioranza riferiscono di colleghi della Lega che si sono diretti in numero consistente verso i banchi del comitato dei nove, apostrofando in maniera dura e sgarbata le deputate del Pd. Insomma, la tensione in Aula è alle stelle. Quando parla il dem De Luca, riferiscono ancora, dai banchi della lega vengono urlati insulti e improperi verso i banchi del Pd. Tra i più accaniti Giorgetti e Molteni, che vengono ripresi formalmente più volte dal presidente Fico. A un certo punto, proseguono ancora nel racconto, un deputato leghista si dirige con foga verso il banco della presidenza, rivolgendosi verso Fico con il dito puntato, per poi accusare i 5 stelle andando verso di loro. I commessi hanno bloccato il leghista. Ma anche un altro deputato leghista, Belotti, è stato protagonista di una scena di forte protesta: dopo aver rivolto parole dure verso il Pd, è sceso verso i banchi occupati dai dimafonisti e ha spaccato una sedia. "Banalmente - ha spiegato Giorgia Meloni - abbiamo fatto notare la vergogna delle parole del ministro Gualtieri" dopo aver scoperto che il trattato "è stato sottoscritto ed è inemendabile" e che il Parlamento "è stato totalmente scavalcato". Si tratta di 125 miliardi di euro che di fatto servono "a salvare le banche tedesche", ha aggiunto ribadendo la richiesta che il premier, Giuseppe Conte, venga a riferire alle Camere. E ancora: "Ci era stato detto che sul Mes era tutto da definire e scopriamo non solo che è stato scritto ma che sarebbe inemendabile, cioè che il Parlamento sarebbe stato totalmente scavalcato" per salvare le banche tedesche. Abbiamo chiesto che Conte riferisca su quale base e con quale mandato è stato autorizzato a sottoscrivere questa roba senza che ci un pronunciamento del Parlamento italiano. Vogliamo sapere se Conte ha pagato con il sangue degli italiani cambiali alla Francia e alla Germania, che servivano per mantenere il suo posto di presidente del Consiglio". "Sono stati violati i diritti costituzionali", ha sottolineato la leghista Barbara Saltamartini. "Quanto detto da Gualtieri sul Mes è gravissimo ed evidenzia comportamenti che potrebbero anche configurare eversione. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha nei fatti approvato un testo definitivo e inemendabile senza informare il Parlamento. Una cosa gravissima. È stato scavalcato il Parlamento su un trattato internazionale ratificato a scatola chiusa. Questa è infedeltà in affari di Stato. Vogliamo che Conte riferisca subito in Parlamento. Se non arriva, lo porteremo in tribunale. L'avvocato del popolo si cerchi un avvocato", ha tuonato il deputato della Lega e presidente della Commissione Bilancio della Camera, Claudio Borghi.
Gualtieri difende il Mes. Ma nasconde la "trappola" per l'Italia. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha difeso a spada tratta il Mes. Ma le sue spiegazioni sono piene di contraddizioni. Federico Giuliani, Mercoledì 27/11/2019, su Il Giornale. Nel corso dell’audizione in commissione Finanze del Senato sulla bozza di riforma del trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità, il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha provato a difendere Giuseppe Conte in merito al Fondo salva-Stati. Eppure, il lungo elenco dei presunti vantaggi e degli improbabili benefici che il Mes porterà all’Italia non convince nessuno. Per prima cosa Gualtieri ha ribadito, come già prima di lui avevano fatto Pierre Moscovici, Bruxelles e la Deutsche Bank, che i cittadini italiani sarebbero “meno sicuri” e “meno forti” nel caso in cui “decidessimo di uscire dal Mes”. Ma il problema, in ogni caso, non si pone perché il trattato sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità verrà firmato a febbraio. Il messaggio è chiaro: possiamo discuterne, ma il testo è concordato e “se chiedete se è possibile riaprire il negoziato vi dico che secondo me no, non è possibile farlo”. In attesa della fumata bianca si possono fare solo delle limature. Tutto già deciso? Eppure secondo il leghista Claudio Borghi tutto è nelle mani dei deputati e dei senatori, che possono ancora “dare un mandato preciso di non firmare a Conte e Gualtieri. Poi spetterà a loro eseguire il mandato. Se ancora una volta non rispetteranno il mandato… vedete voi”.
Le spiegazioni di Gualtieri non convincono. Parlando del Mes in modo più specifico, Gualtieri ha respinto nel modo più categorico l’eventualità che la riforma del trattato possa introdurre un criterio di sostenibilità del debito per la concessione dei fondi. A detta del ministro, si tratterebbe soltanto di “tesi divertenti”, dal momento che tale criterio era già presente nel Meccanismo e lì è rimasto. Tant’è, perché per Gualtieri questo basterebbe per affermare che “chi dice o chi scrive che con la riforma del Mes si introduce una ristrutturazione automatica del debito dice una cosa falsa”. Gualtieri ha proseguito dichiarando che la riforma del Mes “non cambia nulla di sostanziale”. Non è vero, perché secondo alcuni documenti circolati nei giorni scorsi pare che Roma si sia impegnata con Bruxelles a versare nel Fondo salva-Stati una somma di 125,40 miliardi di euro per rimpinguare le casse dello stesso fondo. E all’appello ne mancherebbero ancora 110. Il ministro ha poi rimarcato il fatto che il potere della Commissione non sarà spostato o alterato in nessun modo perché “chi decide sono gli Stati membri azionisti del Mes”. Sarà anche vero, ma nell’ipotetico caso in cui un Paese dovesse aver bisogno di risorse, questo sarà costretto a obbedire ai diktat provenienti da Bruxelles.
Il “falso problema della riforma”. Per uscire dall’impasse, Gualtieri ha pensato bene di usare un jolly inedito: “La riforma del Mes interviene su altre due linee di intervento più leggere, la precautionary e la enhanced rafforzata. Condizioni che non si sono mai usate, e dubito si useranno mai”. Sorge un dubbio: perché impegnarsi a fare una riforma sostanzialmente inutile? Il passaggio successivo è ancora più emblematico della confusione che aleggia nell’aria: “La riforma del Mes è un falso problema. L'impegno del governo è di negoziare i criteri e i principi di rilancio dell'Unione bancaria con un chiaro impegno alla salvaguardia e alla tutela dell'interesse europeo e dell'interesse nazionale”. Sì, ma il Mes, come confermato nei giorni scorsi da Moscovici, altro non è che uno step fondamentale per arrivare alla citata Unione bancaria. La riforma del Mes, ad ascoltare il ministro, è qualcosa di fondamentale e non quella “terribile innovazione che definisce due categorie di paesi e mette l'Italia sotto osservazione o che attenti alla stabilità dell'Italia lo trovo comico”. Eppure a trarre i maggiori vantaggi del Mes saranno Francia e Germania, non certo Roma, che era sì presente al tavolo di discussione inerente al Fondo salva-Stati, ma non nelle vesti di commensale bensì di pietanza.
Mes, Gianluigi Paragone contro Roberto Gualtieri: "L'uomo che ha firmato le norme sul bail-in". Libero Quotidiano il 28 Novembre 2019. Nel mirino di Gianluigi Paragone ci finisce ancora il Mes, il controverso e contestatissimo fondo salva-Stati: "Ho denunciato la gravità di quel meccanismo e di quella riforma che, quindi, non si deve votare. Perciò mi auguro che il M5S sia coerente con quello che ha sempre detto e con quello che ha scritto nel programma elettorale", spiega il senatore grillino in un'intervista ad Affaritaliani.it. Dunque, nel mirino ci finisce il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri: "È complice del sistema. È il perfetto ministro del neo-liberismo europeista: aveva già scritto il primo Mes, ha scritto il bail-in ed è uno degli estensori di quelle norme che buttano fuori la politica dall'Europa - ricorda il pentastellato -. Sono falsi e bugiardi quando dicono che vogliono più Europa politica perché il Mes è l'opposto dell'Europa politica - rimarca - . Questo non lo dice Matteo Salvini, ma è scritto nell'intelaiatura di tutte queste norme". Dunque, fanno notare a Paragone come "le sue parole sono molto simili a quelle del leader leghista". E il grillino da par suo non si scompone: "Io le dicevo con il Movimento, le dicevo prima quando ero giornalista e le dico adesso con la casacca del M5S", afferma Paragone. "Questa non è una battaglia solo di Matteo Salvini, che dovrà spiegare perché fa la guerra al Mes e poi candida Mario Draghi al Quirinale, che è quello delle riforme che si fanno con il pilota automatico. Io sono contro il Mes e anche contro Mario Draghi presidente della Repubblica". Infine, Paragone ribadisce che nel caso in cui il Mes venisse approvato non lascerà di sua sponte il M5s, ma dovrà essere cacciato: "Se passa il Mes e il M5S vota a favore avrà un problema perché nel programma elettorale del Movimento che mi ha portato in Parlamento c'è scritto esattamente il contrario. Io difendo il programma elettorale, dovranno espellermi semmai. Io non esco dal M5S", conclude Gianluigi Paragone.
Mes, Paolo Becchi svela il tradimento di Conte: "Perché nasce tutto a giugno". Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero Quotidiano il 27 Novembre 2019. Roberto Gualtieri, nel tentativo di difendere il Presidente del Consiglio sul Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità), in realtà lo inguaia. E lo fa in una sede ufficiale, nel corso dell’audizione alle commissioni riunite di Finanze e Politiche Ue tenutasi oggi al Senato. Gualtieri ha affermato che l’accordo stretto da Giuseppe Conte a Bruxelles a fine giugno “è in coerenza con il mandato parlamentare che la risoluzione gli attribuiva”. Il ministro dell’economia si riferisce alla risoluzione delle Camere del 19 giugno, che però dicono una cosa completamente opposta a quello che ha tentato di far passare il titolare di Via XX Settembre. Leggiamola questa risoluzione. Il Parlamento impegnava il Governo “a render note alle Camere le proposte di modifica al trattato ESM, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato” e a “non approvare modifiche che prevedano condizionalità”. Bene. Invece di informare il Parlamento su quello che stava facendo, Conte ha probabilmente venduto il sì dell’Italia alla riforma del Mes – contro ogni determinazione delle Camere – in cambio della riconferma a Palazzo Chigi nel ribaltone della crisi d’agosto. Se prima v’era un dubbio, ora si ha la quasi certezza. A giugno Conte ha dato l’ok italiano alla riforma del Mes accreditando la sua persona al cospetto della tecnocrazia europea e contro l’interesse nazionale. Quell’impegno, che ora sembra addirittura non più rinegoziabile, spingerà il nostro Paese sotto la mannaia di nuovi meccanismi finanziari distruttivi, nel solo intento di salvare le banche tedesche. Infatti il Presidente del Consiglio non ha informato il Parlamento della riforma (restrittiva) del Mes, impegnando l’Italia nel percorso di ratifica di un Trattato capestro ben peggiore della precedente versione. In questo Conte ha palesemente violato l’art. 5 della Legge 24 dicembre 2012 n. 234, che al primo comma prevede che “il Governo informa tempestivamente le Camere di ogni iniziativa volta alla conclusione di accordi tra gli Stati membri dell’Unione europea che prevedano l’introduzione o il rafforzamento di regole in materia finanziaria o monetaria o comunque producano conseguenze rilevanti sulla finanza pubblica”. Ma non solo. Il secondo comma dell’art. 5 prevede che “il Governo assicura che la posizione rappresentata dall’Italia nella fase di negoziazione degli accordi di cui al comma 1 tenga conto degli atti di indirizzo adottati dalle Camere. Nel caso in cui il Governo non abbia potuto conformarsi agli atti di indirizzo, il Presidente del Consiglio dei Ministri o un Ministro da lui delegato riferisce tempestivamente alle Camere, fornendo le appropriate motivazioni della posizione assunta”. Il Presidente del Consiglio, quindi, non solo non ha rispettato il contenuto della risoluzione del Parlamento, ma ha addirittura avallato la riforma franco-tedesca del Mes senza neppure informare il Parlamento, come dettagliatamente previsto dalla risoluzione parlamentare del 19 giugno. Il Parlamento è stato tradito, e con esso una legge dello Stato. Conte è peggio di Monti, ma le opposizioni devono ora fare le opposizioni e presentare immediatamente la mozione di sfiducia nei confronti del peggior governo di sempre. Paolo Becchi e Giuseppe Palma
Cecilia Guerra: «Il problema non è il Mes ma le garanzie che mancano nell’Ue». Rocco Vazzana il 27 Novembre 2019 su Il Dubbio. Intervista Cecilia Guerra sottosegretaria Mef. «A Di Maio dico: sull’Emilia valutate attentamente. Ma articolo 1 non rientrerà nel Pd, semmai proveremo a far nascere un nuovo soggetto tutti insieme». «Il problema non è la riforma del Mes, semmai, ciò che manca da quella riforma». Maria Cecilia Guerra, sottosegretaria all’Economia in quota Leu, prova a fare ordine sulla riforma del Fondo salva- Stati.
Molti temono che il trattato sul Mes renda più semplici le richieste di ristrutturazione del debito. Non è così?
«La possibilità di richiedere la ristrutturazione del debito c’era prima e c’è ancora adesso, non è diventata più probabile. È vero che nella formulazione attuale ci sono dei punti che rendono più esplicita l’ipotesi della ristrutturazione, ma non più probabile. È solo una questione di procedure più chiare».
Perché allora il M5S chiede modifiche al Trattato?
«Credo che il motivo di preoccupazione sia relativo alla governance del sistema, cioè al rafforzamento del ruolo del Mes stesso rispetto alla Commissione. Ma nel Mes ci sono rappresentati tutti i governi, anche il nostro, che detiene una quota consistente del Fondo, tale da consentirci di metterci di traverso ad alcune decisioni».
Quindi non c’è motivo di allarmarsi?
«Il punto più critico, semmai, riguarda l’assenza di un tema dirimente come la mutualizzazione del debito. Che non significa far gravare il proprio debito pubblico sulle spalle di altri Paesi, ma creare una rete di sostegno europea più ampia, come faceva fino a poco tempo fa la Bce. L’Italia deve provare a seguire una logica di pacchetto, portando avanti contemporaneamente la discussione sul Mes ma anche su altro, come l’assicurazione europea sui depositi bancari, contrastando l’idea tedesca secondo cui per ricapitalizzare le banche si deve pesare il debito in relazione al rischio Paese».
Tradotto per i profani?
«Le nostre banche, che hanno sottoscritto massicciamente il debito pubblico italiano, dovrebbero essere considerate più a rischio di altre perché hanno comprato il debito di un paese con un ranking più basso di quello tedesco per esempio. Per noi è inaccettabile».
Come mai il M5S si è accorto solo adesso della riforma?
«Per me è difficile interpretare la loro posizione, ma hanno sollevato dei problemi anche tecnici a cui il ministro Gualtieri ha risposto e su cui ora rifletteranno. Diversa ancora è l’offensiva della Lega, che parla di “alto tradimento” quando i documenti in questione erano già pubblici dalla fine di giugno. Avrebbero potuto alzare la voce all’epoca».
Patuanelli ha proposto un rinvio di sei mesi per la tassa sulla plastica. Ma non era un nodo centrale del vostro “Green new deal”?
«Il governo non ha rinunciato a questa scelta. Serve il tempo per consentire alle imprese di adeguarsi. Bisogna tenere conto delle difficoltà del settore».
E anche delle difficoltà di Bonaccini, candidato governatore in una Regione che produce buona parte degli imballaggi?
«Il rinvio è dettato solo dalla necessità di confrontarsi con gli operatori, ma l’imposta verrà mantenuta».
Ma dopo le elezioni…
«Se questa scelta fosse così determinante per l’esito delle Regionali l’avremmo tolta completamente. Seguiamo altre logiche».
Da modenese, come giudica la scelta di Di Maio di correre contro il centro sinistra in Emilia?
«Devono valutare attentamente le loro scelte. Credo che ci sia ancora lo spazio per un confronto vero sul futuro della Regione e sulla possibilità di fare un patto, un’alleanza analoga a quella stretta a livello nazionale. Ognuno con le proprie differenze da far valere poi nel governo della Regione, senza subalternità. Come faremo noi di Articolo 1».
Se il Pd perdesse a causa dei voti mancanti dei grillini ci sarebbero conseguenze sul governo?
«Da emiliana mi infastidisce che non si parli della mia regione in campagna elettorale. Mi rendo conto che l’Emilia sia un simbolo e che quindi abbia un valore che va oltre la competizione regionale, ma non credo che il risultato, qualunque risultato, avrà conseguenze sul governo».
Forse il M5S non si sente proprio a suo agio insieme al centro sinistra…
«Non mi sembra. Vedo, al contrario, una grande spinta alla collaborazione. Sicuramente stanno attraversando una fase di travaglio interno che li mette in difficoltà. Ma stanno lavorando per superarlo. Nel governo c’è un confronto franco, ma non ho mai percepito insofferenza da parte di nessuno».
È troppo presto per immaginare un ritorno nel Pd degli ex “scissionisti” di Articolo 1?
«Abbiamo abbandonato un partito che non era più casa nostra. I motivi per cui siamo usciti sono molto seri e non esiste l’ipotesi di un ritorno. Semmai proveremo a stimolare anche i militanti dem a rilanciare insieme un soggetto nuovo di centro sinistra più radicale contro le diseguaglianze. Auspichiamo che ci sia una rinascita e una ricostruzione tutti insieme. Ma in un contenitore diverso».
Dagospia il 18 novembre 2019. Nota stampa di Palazzo Chigi. La Presidenza del Consiglio ha l’obbligo di chiarire le notizie infondate e false diffuse, anche oggi, dal senatore Matteo Salvini. Innanzitutto, la revisione del Trattato sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) non è stato ancora sottoscritto né dall’Italia né dagli altri Paesi e non c’è stato ancora nessun voto del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, o degli altri Capi di Stato e di governo europei sul pacchetto complessivo di questa riforma. In definitiva, nessuna firma né di giorno né di notte. La sottoscrizione è calendarizzata per il prossimo mese di dicembre e il Ministro dell’Economia Gualtieri ha già chiarito, per iscritto, la sua disponibilità a riferire alle Camere l’avanzamento dei lavori e a illustrare nel dettaglio i contenuti della riforma, anche con riguardo all’intero pacchetto. Si ricorda che, in ogni caso, il Parlamento ha un potere di veto sull’approvazione definitiva della revisione Trattato MES, e avrà modo di pronunciarsi in sede di ratifica, quindi prima di ogni determinazione finale in merito alla sua entrata in vigore. Si ricorda, inoltre, che il Presidente Conte ha riferito alle Camere il 19 giugno scorso, accogliendo la risoluzione parlamentare che impegnava il Governo ad esprimere una valutazione finale sul negoziato soltanto all’esito della definizione dell’intero pacchetto di riforme che, oltre alla revisione del MES, prevede la creazione di uno strumento di bilancio per la competitività e la convergenza nell’Eurozona (BICC) e l’approfondimento dell’Unione bancaria. Coerentemente con questo indirizzo del Parlamento, il 21 giugno scorso il Presidente Conte ha insistito perché fosse inserito, nelle comunicazioni finali dell’Eurosummit, un chiaro riferimento a proseguire la revisione del trattato promuovendo le differenti riforme in base ad una “logica di pacchetto”. A seguito di questo intervento e dell’intenso confronto che ne è seguito, nel testo delle comunicazioni finali dell’Eurosummit è stata inserita la seguente formula: “…invitiamo l’Eurogruppo in formato inclusivo a proseguire i lavori su tutti gli elementi di questo pacchetto globale”, formula, questa, che non compariva nel testo precedente. Il giorno stesso, 21 giugno, dopo la conclusione dei lavori dell’Eurosummit, il testo delle comunicazioni finali è stato pubblicato sul sito del Consiglio europeo (consilium.europa.eu). Il senatore Salvini, all’epoca era Vicepresidente del Consiglio dei Ministri nonché Ministro dell’Interno, e avrebbe dovuto prestare più attenzione per l’andamento di questo negoziato, tanto più che l’argomento è stato discusso in varie riunioni di maggioranza, alla presenza di vari rappresentanti della Lega (Viceministri all’Economia e Presidenti delle Commissioni competenti). Il fatto che il senatore Salvini scopra solo adesso l’esistenza di questo negoziato è molto grave. Denota una imperdonabile trascuratezza per gli affari pubblici. Chi pretende di guidare l’Italia senza premurarsi di studiare i dossier dovrebbe quantomeno evitare di diffondere palesi falsità. Con la propaganda intrisa di menzogne non si curano certo gli interessi dei cittadini italiani.
Quando Conte supplicò la Lega di “addolcire” la risoluzione sul Mes. Federico Giuliani su it.insideover.com il il 23 novembre 2019. Ci sono tre soggetti, ovvero Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, un oggetto, il Mes, e un contorno, cioè l’Unione europea. L’intera vicenda ruota attorno alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità avallata da Conte senza riferire alcunché al Parlamento. Il premier, attaccato da Salvini e accusato di svendere l’Italia a Germania e Francia, ha provato a uscire dall’angolo citando a sua volta il leader leghista. In poche parole, l’avvocato del popolo si è difeso obiettando che attorno ai tavoli sul Mes gravitava anche Salvini, lo stesso che adesso sembra cadere dalle nuvole. Il segretario del Carroccio ha schivato il destro ribattendo che la Lega ha sempre espresso “netta contrarietà” a quel tipo di modifica. Poi nella ressa si è inserito anche Di Maio, che ha sottolineato come non vi siano stati battibecchi né tra lui e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, né tra lui e Conte: “Non vedo nessun rischio di scontro con il presidente del Consiglio e nessun rischio di scontro nel governo”. In mezzo c’è il Mes, vero pomo della discordia che potrebbe contribuire ad allontanare l’Italia dall’Europa.
La mossa di Conte. Dietro la vicenda principale sopra descritta si nasconde un retroscena, lo stesso descritto nei minimi termini all’Huffington Post da Claudio Borghi, deputato per la Lega Nord nonché presidente della commissione Bilancio della Camera: “Il premier ci ha supplicato di modificare la risoluzione parlamentare che avevamo preparato. Disse che era troppo dura e che impediva, per come era stata scritta, la possibilità di negoziare all’Eurosummit condizioni non penalizzanti per l’Italia”. Quanto dichiarato da Borghi è riferito al periodo compreso tra lo scorso giugno e luglio, proprio quando il governo gialloverde si trovava nel bel mezzo delle trattative con la Commissione Europea per evitare la procedura d’infrazione, alle prese con le nomine Ue e in balia della citata riforma del Fondo salvastati. Secondo la Lega, Conte sapeva quale sarebbe stata la posizione del Carroccio su quest’ultimo punto. Il testo di riforma doveva essere dunque bocciato con l’intesa del Movimento 5 Stelle in una risoluzione alla vigilia dell’Eurosummit dello scorso 21 giugno. Così non è andata, perché il premier avrebbe disatteso il piano violando l’indirizzo parlamentare, nonostante lo stesso Conte aveva chiesto prima di ammorbidire la risoluzione.
La rivelazione di Borghi. La riforma del Mes è emersa per la prima volta, nero su bianco, lo scorso 13 giugno, nel corso di una riunione molto importante per l’allora governo gialloverde. Tra le varie questioni anche la modifica del Fondo salvastati. Borghi disse che Salvini aveva avvisato Conte: “Approvala e sei fuori”. Passano pochi giorni e scoppia una disputa in Aula tra i gruppi parlamentari e la presidenza del Consiglio sul testo della risoluzione da presentare. Borghi aggiunge altri particolari: “Il premier ci supplicò di addolcire il testo, disse che così com’era gli impediva di negoziare. Per questo ci chiese di modificarla, inserendo peraltro quel passaggio sull’approccio a pacchetto”. Il testo originario della risoluzione era più vincolante rispetto alla versione definitiva approvata dal Parlamento. Passano le settimane e la nebbia non si dirada. Nessuno sa cosa fare con la riforma del Mes e l’esperienza del governo gialloverde si avvia verso la sua conclusione. Il resto è storia recente.
Mes, Giuseppe Conte replica a Matteo Salvini: "Pronto a querelarlo per calunnia". Libero Quotidiano il 28 Novembre 2019. Esplode, nel modo più brutale, lo scontro su fondo salva-Stati, il Mes al centro di tante polemiche. Esplode sull'asse più incandescente della politica italiana, quello che contrappone Matteo Salvini e Giuseppe Conte, con il secondo che ora addirittura minaccia di passare alle azioni legali. Si tratta della risposta al duro attacco piovuto nelle ore precedente dal leader della Lega, che ha invocato l'intervento di Sergio Mattarella: "Chiederemo al garante della Costituzione di farla valere. Questo è un attentato alla sovranità nazionale". Dunque, contro il presidente del Consiglio, Salvini ha picchiato durissimo: "A giudizio nostro e dei documenti il presidente Conte ha commesso un atto gravissimo, un attentato ai danni del popolo italiano, dice il leader leghista". Parole alle quali, come detto, il presunto avvocato del popolo ha replicato in modo altrettanto duro. Dopo aver annunciato che il prossimo lunedì riferirà in aula alla Camera, ha aggiunto: "Spazzerò via mezze ricostruzioni, menzogne, mistificazioni. A chi oggi si sbraccia a minacciare, io dico: Salvini vada in procura a fare l'esposto, e io querelerò per calunnia". Parole accolte da Riccardo Molinari, capogruppo leghista alla Camera, con la richiesta di dimissioni indirizzata a Conte. Il premier viene difeso da Nicola Zingaretti, che attacca il Carroccio: "La Lega vive alimentando paure. Quando era al Governo, Salvini ha condiviso e approvato la riforma del fondo salva stati. Ora, come al solito, diffondono teorie false per danneggiare l'Italia, la sua forza e credibilità, per allontanarla dall'Europa e indebolirla. Non lo permetteremo mai". Zingaretti però, forse, scorda la contrarietà del M5s, o quanto meno di Luigi Di Maio, al Mes e alla sua approvazione.
Mes, Matteo Salvini replica a Giuseppe Conte: "Mi querela? Bimbo con la coscienza sporca". Libero Quotidiano il 28 Novembre 2019. Non si è fatta attendere la replica di Matteo Salvini all'annuncio da parte del premier Giuseppe Conte di querelarlo per calunnie. Il campo di battaglia è la riforma del Mes, con Conte che - secondo Salvini- avrebbe firmato senza consultare il Parlamento, tradendo la volontà e gli interessi degli italiani. Da un evento a Roma, Matteo Salvini bacchetta così il presidente del consiglio: "Umiltà... secondo Conte lui sa tutto e noi non sappiamo nulla. Dovrebbe essere più umile". E poi la similitudine che suggestiona la platea: "Giuseppe Conte è come un bambino beccato dalla mamma con le mani nel vasetto di marmellata, e che con la faccia sporca dice: non sono stato io; ti querelo". La contrapposizione non si ferma qui. Conte è atteso lunedì alla Camera dei deputati per riferire sulla riforma del Mes.
"Non firmiamo un c...". Il messaggio di Salvini inchioda Conte. Un messaggio del leader leghista ai suoi parlamentari smaschera le accuse di Conte e dei grillini sul Mes. Angelo Federici, Venerdì 29/11/2019, su Il Giornale. È stato il giallo dell'estate: perché, a un certo punto, Matteo Salvini ha deciso di staccare la spina, facendo così cadere il governo giallorosso? C'entra la finanziaria, diceva qualcuno. Lo hanno deciso gli Stati Uniti, rispondeva qualcun'altro. La verità, come spesso accade, potrebbe essere molto più semplice. Quasi banale: i rapporti tra Lega e Movimento 5 Stelle si erano ormai deteriorati su questioni parecchio importanti. Come il Mes, appunto. E un tweet di Claudio Borghi Aquilini ci aiuta a scandagliare i momenti pre crisi. È il 12 giugno di quest'anno e, all'interno della Lega, si sta decidendo che posizione prendere sul Mes. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte spinge per firmarlo, così come chiede l'Europa. Il Movimento 5 Stelle fa quello che gli riesce meglio: tentenna. La lega cerca di frenare, ma evidentemente non sono tutti convinti e così Salvini scrive nella chat dei parlamentari una frase lapidaria: "Non firmiamo un cazzo". Quattro parole che chiudono la partita e che, allo stesso tempo, fugano ogni dubbio su chi oggi si chiede cosa faceva la Lega quando poteva davvero decidere ed era al governo? Risposta: era già all'opposizione. Conte, infatti, aveva già preso accordi con l'Europa. E la Lega si era trovata così all'opposizione.
''NON FIRMIAMO UN CAZZO''. Elisa Calessi per ''Libero Quotidiano'' il 30 novembre 2019. È un mercoledì mattina. La seduta 192, come si legge nel resoconto parlamentare, comincia alle 9,35. C' è l' aria condizionata, perché siamo al 19 giugno. Nella guerra che si è scatenata in queste ore tra Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte, proseguita ancora ieri, bisogna tornare a quel mercoledì di metà giugno: prima della pausa estiva e della rottura del governo gialloverde. Come prassi, il presidente del Consiglio, in prossimità di un vertice europeo, viene a riferire al Parlamento. Conte spiega che, tra l' altro, si parlerà della riforma del trattato sul Meccanismo europeo di stabilità. La bozza in discussione, ricorda, è il frutto in un vertice del dicembre 2018. A proposito dei ruoli tra Commissione e Mes spiega che il fondo, «se necessario, potrà seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei suoi membri, compresa la sostenibilità del loro debito pubblico». Lega e M5S hanno dubbi. E li illustrano, senza molti convenevoli. Parla per primo Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera: «La riforma prospettata è pericolosa». Ricorda che la Lega si è opposta, a suo tempo al Fiscal Compact e al voto sul Fondo salva-Stati. «Ma l' evoluzione che si sta pensando è ancora più spaventosa», dice, perché il Fondo salva-Stati «ha già dimostrato che cos' è: andate a chiederlo ai bambini greci! È quello strumento che, con i soldi di tutti, è stato utilizzato per salvare le banche francesi e tedesche che avevano fatto speculazione finanziaria in Grecia sulla pelle della gente, andando a chiudere gli ospedali, andando a privare la Grecia delle infrastrutture strategiche, andando a tagliare i diritti sociali in quel Paese». Qui, si legge nel resoconto, scattano gli applausi dai banchi della Lega e del M5S. «E ora noi vorremmo far sì che tale strumento entri nei Trattati europei? Che sia qualcosa di vincolante da cui non si possa più uscire? Noi vogliamo che il controllo sulla tenuta dei conti pubblici dei Paesi Ue non sia più fatto dalla Commissione ma dal Fondo salva-Stati? Vogliamo che, con i soldi di tutti, intervenga a sua discrezione, senza un controllo politico, ad aiutare soltanto i Paesi che hanno i conti a posto?». Pausa. «Questa è una follia e noi non possiamo permetterlo». Di nuovo applausi. Conclusione: «Non possiamo parlare di Europa sociale e poi portarci la troika in casa». Francesco D' Uva, capogruppo del M5S, non è da meno: «Avallare nella sua forma attuale la riforma del Trattato del Mes significherebbe legittimare proprio quelle stesse regole fiscali che stiamo criticando da anni». La bozza attuale «prevede che l' accesso alle linee di credito precauzionali per gli Stati richiedenti sia subordinata al rispetto di parametri fiscali come il rapporto deficit-Pil non superiore al 3%, un rapporto debito pubblico-Pil al di sotto del 60% o, in caso di valori superiori, che il rapporto sia ridotto di un ventesimo in media nei due anni che precedono la richiesta. Sulla base di questi tre parametri ci sono otto Paesi dell' area euro, tra cui l' Italia, che sarebbero esclusi dalla possibilità di richiedere assistenza al Mes, a meno che non firmino un memorandum che commissarierebbe il Paese». Chiede, quindi, che «l' Italia» si faccia «sentire con inflessibilità. Non si deve procedere oltre su questa riforma, se non vengono affrontati seriamente due altri dossier: l' assicurazione europea sui depositi bancari e il bilancio unico dell' Eurozona». Conte, nella replica, dà ragione a Lega e M5S: «Ritengo sia un buon suggerimento quello di invitare», e cita la risoluzione della maggioranza, «"a promuovere, in sede europea una valutazione congiunta dei tre elementi del pacchetto di approfondimento dell' Unione economica e monetaria"». Perciò esprime parere favorevole alla risoluzione 6-00076, firmata dai capigruppo di Lega e M5S. Un documento che impegna il governo «a non approvare modifiche che prevedano condizionalità che penalizzino quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti, e che minino le prerogative della Commissione europea in materia di sorveglianza fiscale». La risoluzione è approvata. Fin qui il passato. Ma la polemica è destinata a continuare almeno fino a lunedì, quando Conte riferirà al Parlamento. «Ho molti dubbi e timori», ha detto ieri il vice ministro allo Sviluppo economico, Stefano Buffagni, M5S, ricordando che anche Bankitalia «si è espressa evidenziando dubbi e criticità». Mentre Matteo Salvini ancora ieri ha insistito a chiedere un incontro con il presidente della Repubblica. Quanto a Conte, «se qualcuno ha firmato qualcosa senza dirlo agli italiani ne pagherà le conseguenze».
Federico Capurso per ''La Stampa'' il 30 novembre 2019. A palazzo Chigi c'è una certa agitazione per il clima che sta montando intorno al Meccanismo europeo di stabilità, il fondo salva-Stati sbarcato anche su Twitter con il poco benaugurante hashtag #StopMes. I sovranisti di destra, ma anche quelli di governo, pentastellati, accarezzano con diverse intensità la tesi del complotto ordito dall' Europa ai danni dell' Italia. E sono fiancheggiati, seppur con altre argomentazioni, da istituzioni bancarie come Abi e Bankitalia, decise a chiedere delle modifiche al testo. Ecco perché il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, chiamato lunedì a riferire in Parlamento, inizia a pensare che non si risolverà tutto con un bel discorso. Osserva invece con preoccupazione l'ennesimo distanziamento dal Pd dei grillini, stavolta mosso da Alessandro Di Battista che chiede di «non votare il Mes», - sussurrano nel Movimento - con il placet di Luigi Di Maio per ricompattare il gruppo parlamentare. Il premier si trova stretto tra due fuochi. Se in Italia parte della sua maggioranza e mondo bancario spingono per delle modifiche; oltre confine, a Bruxelles e in quelle cancellerie "amiche" che spesso, negli ultimi mesi, hanno riservato all' Avvocato del popolo elogi e onori, considerano il testo blindato e si aspettano di non restare delusi da un veto italiano. Di fronte alle difficoltà di palazzo Chigi, Di Maio insiste: «Abbiamo avuto una riunione del gruppo parlamentare del M5S e siamo tutti d' accordo sul fatto che questo accordo deve essere migliorato». Ma parlando con i giornalisti a margine della cerimonia di inaugurazione della sede di Napoli di Cassa depositi e prestiti, Di Maio lascia anche aperto uno spiraglio: «Non c' è solo il Mes - dice -, ma ci sono anche una serie di strumenti che sono oggetto di riforma in questo momento, come l' assicurazione sui depositi, l'unione bancaria, e altri meccanismi. Nei prossimi giorni faremo presente tutte le perplessità che abbiamo sul Mes». Quelli citati da Di Maio sono i tre pilastri oggetto delle riforme in cantiere a Bruxelles. E proprio sulla «logica del pacchetto» Conte insisterà lunedì, durante il suo discorso in Aula, cercando di convincere la sua maggioranza della necessità di apportare modifiche al sistema nel suo complesso, e non solo ai singoli strumenti come il Mes. Di Maio e Di Battista però vogliono entrambe le cose. E Dibba, su Facebook, mette da parte la diplomazia: «Se fossi un parlamentare non voterei il Mes perché reputo che solo chiamarlo Meccanismo-Salva-Stati sia una balla colossale». E «agli ex-colleghi del Movimento dico: accelerate! Soprattutto adesso. Luigi lo sta facendo e lo sostengo per questo. Accelerate sul conflitto di interessi, sulla nazionalizzazione delle autostrade, sulla commissione di inchiesta sul finanziamento ai partiti, sul recupero dell' Imu non versato dagli istituti religiosi». Nessuno spostamento a destra del Movimento - sostiene Dibba - ma ci pensa Matteo Salvini a tirare a sé i Cinque stelle: «Noi non abbiamo cambiato idea e se anche il Cinque Stelle non lo ha fatto, CcIl leader della Lega, insieme al capogruppo alla Camera Riccardo Molinari vorrebbe portare il premier di fronte a un voto del Parlamento sul Mes prima che arrivi la possibile firma a Bruxelles e l' occasione potrebbe presentarsi la settimana prossima, quando Conte riferirà in Parlamento prima di recarsi al vertice dell' Eurogruppo. Salvini vorrebbe di più, una «nuova risoluzione», per sfidare in aula la compattezza della maggioranza. Proprio sul leghista Conte punterà il mirino lunedì. Ennesimo scontro tra i due.
Mes, Salvini si appella al Colle: «Sovranità italiana a rischio». Conte: «Lo querelo». Rocco Vazzana il 29 Novembre 2019 su Il Dubbio. Scontro sul meccanismo europeo di stabilità. Zingaretti contro il leader leghista: dice solo falsità. Lunedì il premier risponderà in Aula. Meloni contro il ministro Gualtieri: il governo ha già detto sì. Anche la vicenda del Mes rischia di finire a carte bollate davanti a un giudice. Matteo Salvini minaccia «un esposto ai danni del governo e di Conte» per come hanno gestito la riforma del fondo salva Stati. E l’avvocato del popolo replica a tono: «Se è un uomo d’onore vada in Procura a fare l’esposto», dice il premier, «lo querelerò per calunnia». Conte tiene però a precisare che, a differenza del suo ex ministro dell’Interno, non gode dell’immunità parlamentare, in quanto non eletto. «Lui ce l’ha e ne ha già approfittato per il caso Diciotti. Adesso veda questa volta di non approfittarne più». Lo scontro politico sulla riforma del Mes si fa dunque rovente. Lunedì il capo del governo si presenterà davanti all’aula di Montecitorio per «riferire su tutte le circostanze e verranno spazzate vie mezze ricostruzioni, mistificazioni, mezze verità e palesi menzogne di chi oggi si sbraccia a fare dichiarazioni altisonanti». Ma la Lega passa al contrattacco, accusando Palazzo Chigi di tradimento per aver portato a termine «un atto gravissimo, un attentato ai danni del popolo italiano», accettando la riforma del Mes che dovrebbe essere ratificata a dicembre. Per impedirlo, Salvini chiama in causa il Parlamento e chiede un incontro col «Presidente della Repubblica, che è garante della Costituzione e per evitare la firma su un trattato che sarebbe mortale per l’economia italiana». Il Trattato di riforma del fondo salva Stati, del resto, richiede un passaggio parlamentare di ratifica. «Si torna in Parlamento», tuona l’ex inquilino del Viminale. «Sospendiamo tutto. Fermi, ci spiegate in Parlamento cosa state facendo e poi semmai si va avanti. Occorre un altro atto parlamentare». Il segretario del Carroccio, però, sorvola su un dettaglio: l’ultimo incontro europeo per definire i dettagli della riforma risale a giugno, quando la Lega governava ancora insieme al Movimento 5 Stelle. Salvini sostiene semplicemente di essersi fidato di Tria e Conte, che all’epoca rassicuravano la Lega affermando di non aver preso «alcun impegno». Una ricostruzione poco credibile, quella del leghista, secondo il segretario del Pd Nicola Zingaretti: «La Lega vive alimentando paure», scrive su Facebook. «Quando era al Governo, Salvini ha condiviso e approvato la riforma del fondo salva Stati. Ora, come al solito, diffondono teorie false per danneggiare l’Italia, la sua forza e credibilità, per allontanarla dall’Europa e indebolirla. Non lo permetteremo mai». In mezzo al guado si posiziona il Movimento 5 Stelle, diviso tra quanti vorrebbero far saltare il tavolo e i prudenti. «Non è il fatto che si modifichi il Mes il problema, ma il come», ha detto ai suoi Luigi Di Maio, chiedendo all’assemblea dei parlamentari il mandato per discutere con il ministro dell’Economia e il presidente del Consiglio la posizione del partito. «C’è massima fiducia in Conte e Gualtieri, ma è evidente che occorre migliorare il negoziato difendendo gli interessi dell’Italia. Resta solida la nostra appartenenza a Euro e Europa, malgrado ciò se qualcosa non è accettabile va migliorata. E la riforma del Mes si può migliorare, siamo qui per questo». Ma il tempo a disposizione sta per scadere. Entro dicembre l’Europa attende una risposta.
Mes, Tria: "Conte si congratulò. I suoi vice dovevano sapere". Giovanni Tria, ex ministro dell’Economia del Conte I, ha dichiarato che a giugno, nel corso di trattative sulla bozza di riforma del Mes, ha ricevuto una telefonata di Conte soddisfatto per il risultato ottenuto. Gabriele Laganà, Venerdì 29/11/2019 su Il Giornale. L’ex ministro dell’Economia del governo Conte I, Giovanni Tria, attacca Matteo Salvini e Giorgia Meloni che in queste ore stanno attaccando il premier colpevole di aver tradito gli “interessi nazionali” e addirittura, come ha dichiarato il leader leghista, di “alto tradimento”. Tria, infatti, dichiara a La Repubblica di ricordare quanto avvenuto lo scorso giugno quando si definì l’accordo su una bozza di riforma del Mes da sottoporre al summit dei giorni successivi. “Si trattava di tradurre in un testo definito l’accordo che era stato raggiunto nel dicembre precedente. Le trattative andarono avanti fino all’alba a Bruxelles perché il mandato era quello di non cedere su una questione non secondaria”. Secondo l’ex ministro, “alcuni Stati volevano che si prevedesse che le metodologie specifiche per valutare la sostenibilità dei debiti sovrani fossero rese pubbliche. Per noi era inaccettabile perché significherebbe aprire una corsa a valutazioni prospettiche anche fantasiose su un tema per noi di stretta competenza della Commissione che è un organo politico. Ci opponemmo e la spuntammo”. Nelle prime ore del mattino “mi arrivò la telefonata di Conte che si complimentò per il risultato raggiunto”. Tria, con una non troppo velata nota polemica, afferma di immaginare che i due vicepresidenti del Consiglio di allora fossero stati informati di quanto accaduto. L’ex ministro sostiene che sia in Italia che negli altri Paesi si dovrebbe capire che l’interesse nazionale si difende mostrando che esso coincide con gli interessi dell’Europa e delle altre nazioni. Questo perché qualsiasi problema in uno Stato provocherebbe effetti devastanti, che ricadrebbero in ogni caso anche sugli altri paesi per le interdipendenze delle economie. È sbagliato anche dire che il Mes sia un danno per l’Italia perché la riforma del trattato“non ci danneggia. Ed è meglio che ci sia il Mes piuttosto che non ci sia, anche se noi non abbiamo bisogno di essere salvati”. Il tema di rafforzare il “fondo salva-stati” nacque “con l’idea di introdurre anche il cosiddetto backstop, cioè un paracadute per rafforzare la capacità di intervento sulle crisi bancarie con risorse aggiuntive da utilizzare quando quelle del Single resolution fund fossero terminate”. Per Tria, si trattava di una esigenza sostenuta da tutti. Alcuni Paesi del Nord però posero “delle contropartite in termini di revisione del trattato istitutivo del Mes per noi inaccettabili”. Due in particolare. La prima, ha riferito l’ex ministro, era il conferimento al Mes di più poteri in caso di crisi rispetto a quelli della Commissione. La seconda era la previsione di regole di ristrutturazione dei debiti sovrani in caso di richiesta da parte degli Stati di un intervento di sostegno. “Ciò era inaccettabile perché si sarebbe rischiato di rendere plausibile l’idea che la ristrutturazione di un debito sovrano potesse avvenire. Ci opponemmo ad entrambe queste richieste e la spuntammo”. Tria ricorda anche che il negoziato si sviluppò nell’autunno del 2018 quando “la nostra legge di Bilancio ebbe grossi problemi con l’Europa e la nostra posizione negoziale era assai debole per i riflessi sui mercati finanziari”. Nel giugno scorso, il quadro cambiò e le trattative andarono meglio. In quella fase “eravamo più forti, stavamo varando un aggiustamento di bilancio strutturale e in Europa eravamo più credibili e riuscimmo ad evitare formulazioni inappropriate e pericolose”. Il premier Conte era a conoscenza di tutto perché veniva informato ad ogni passo compiuto. L’accordo, ritiene Tria, fu soddisfacente. “Poteva essere migliore ma qualsiasi istituzione è frutto di un negoziato tra molti governi”.
Roberto Petrini per “la Repubblica” il 29 novembre 2019. «Ricordo il giugno scorso, quando si definì l'accordo su una bozza di riforma del Mes da sottoporre al summit dei giorni successivi. Si trattava di tradurre in un testo definito l' accordo che era stato raggiunto nel dicembre precedente. Le trattative andarono avanti fino all' alba a Bruxelles perché il mandato era quello di non cedere su una questione non secondaria: alcuni Stati volevano che si prevedesse che le metodologie specifiche per valutare la sostenibilità dei debiti sovrani fossero rese pubbliche. Per noi era inaccettabile perché significherebbe aprire una corsa a valutazioni prospettiche anche fantasiose su un tema per noi di stretta competenza della Commissione che è un organo politico. Ci opponemmo e la spuntammo. Nelle prime ore del mattino mi arrivò la telefonata di Conte che si complimentò per il risultato raggiunto. Immagino che i due vicepresidenti del Consiglio fossero informati del buon risultato». Giovanni Tria, ministro dell' Economia nell' anno difficile del governo gialloverde, ha lasciato i conti dell' Italia in ordine e non vuole neppure prendere in considerazione la bagarre sollevata da Salvini e da Giorgia Meloni a colpi di «interessi nazionali» e addirittura di «alto tradimento».
Che effetto le fanno le critiche in Parlamento?
«Si dovrebbe capire in Italia, ma anche negli altri paesi, che l' interesse nazionale si difende mostrando che esso coincide con gli interessi dell' Europa e delle altre nazioni. Non è nell' interesse di nessuno né creare difficoltà alla gestione del debito in Italia, né ostacolare la gestione di una crisi bancaria in Germania. Gli effetti devastanti cadrebbero in ogni caso anche sugli altri paesi per le interdipendenze delle economie. La riforma del Mes non ci danneggia. Ed è meglio che ci sia il Mes piuttosto che non ci sia, anche se noi non abbiamo bisogno di essere salvati».
Professor Tria,come andò la trattativa?
«Il tema di rafforzare il Mes nacque essenzialmente con l' idea di introdurre anche il cosiddetto backstop, cioè un paracadute per rafforzare la capacità di intervento sulle crisi bancarie con risorse aggiuntive da utilizzare quando quelle del Single resolution fund fossero terminate. Si trattava di una esigenza sostenuta da tutti. Alcuni paesi del Nord tuttavia posero delle contropartite in termini di revisione del trattato istitutivo del Mes per noi inaccettabili».
Quali?
«In particolare due. La prima era il conferimento al Mes di più poteri in caso di crisi rispetto a quelli della Commissione; la seconda era la previsione di regole di ristrutturazione dei debiti sovrani in caso di richiesta da parte degli Stati di un intervento di sostegno. Ciò era inaccettabile perché si sarebbe rischiato di rendere plausibile l' idea che la ristrutturazione di un debito sovrano potesse avvenire. Ci opponemmo ad entrambe queste richieste e la spuntammo perché si è affermata la ragionevolezza della nostra posizione, peraltro sostanzialmente condivisa anche dalla Commissione».
Fu difficile?
«Sì, non fu una impresa facile».
Come proseguì il negoziato?
«Il negoziato si sviluppò nell' autunno del 2018, quando la nostra legge di Bilancio ebbe grossi problemi con l' Europa e la nostra posizione negoziale era assai debole per i riflessi sui mercati finanziari. Andò tuttavia meglio nel giugno scorso, quando l' accordo di massima fu tradotto in un articolato: in quella fase eravamo più forti, stavamo varando un aggiustamento di bilancio strutturale e in Europa eravamo più credibili e riuscimmo ad evitare formulazioni inappropriate e pericolose».
Conte era informato?
«Costantemente come è ovvio».
Oggi come giudica quell' accordo?
«Soddisfacente. Poteva essere migliore ma qualsiasi istituzione è frutto di un negoziato tra molti governi».
Allarme di Bankitalia inascoltato. Francesco Forte, Venerdì 29/11/2019 su il Giornale. Il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha affermato, in una audizione parlamentare, che la firma del nuovo Fondo di risoluzione unico, creato presso il Mes, Meccanismo Europeo di Solidarietà, sino ad ora utilizzato per i salvataggi degli stati con debito pubblico insolvente come la Grecia o la Spagna impegnata a finanziare la ristrutturazione delle sue banche, è pericolosissima, perché può generare una crisi bancaria e finanziaria, anche se non lo utilizziamo. E lo stesso sostengono, ora, Salvini per la Lega, Giorgia Meloni per Fratelli di Italia e Mariastella Gelmini per Forza Italia. Vi si si è affiancato anche Di Maio, leader dei 5 Stelle, ora Ministro degli Esteri, nel governo con il PD; che era Vice Presidente del Consiglio nel precedente governo. Il documento che istituisce questo ramo del Mes è gradito alla Germania e piace alla Francia, da cui proviene; è firmato da tutti i ministri dell'economia dei governi del 2018, fra cui Tria, tecnico indipendente, ma va firmato da tutti i parlamenti europei per andar in vigore quale Trattato Internazionale. Il ministro dell'economia Gualtieri, del Pd, esorta a firmarlo, anche perché in cambio il governo italiano ha il via libera al suo bilancio preventivo per il triennio 2020-22, che, per il 2020, ha un deficit che oscilla sul 2,4 % invece che scendere all'1,8 e che fa tale deficit non per spese di investimento urgenti come i lavori per Venezia e le zone terremotate, ma per quelle correnti. Gualtieri, che non è esperto di politica monetaria, ma di bilanci fiscali, è - credo - in buona fede, quando dice che aggiungere un ramo del Mes a quelli vigenti, non cambia nulla, se noi non vogliamo farne uso, onde evitare il rischio d'esser commissariati per potervi accedere. Per altro, una cosa cambia, cioè: noi diamo soldi nostri a quel fondo, a cui la Germania può accedere senza rischio di commissariamento, in quanto non ha certo un debito eccessivo ed ha un surplus di bilancio. Ma Ignazio Visco, che presiede la nostra Banca Centrale ed è responsabile, perciò, del sistema bancario, che in regime di moneta convenzionale è il principale creatore di moneta, che diventa quasi unica, se si penalizza il contante, spiega che proprio il fatto che viene creato questo ramo del Mes, per scopi precauzionali e che noi ci mettiamo i nostri euro, dimostrando di volerlo, che può scatenar il panico sulla solidità delle nostre banche e del nostro debito e far fuggire i capitali rendendo vera una profezia in sé errata: dato che noi, realmente, non ne abbiamo un bisogno. La parola credito, vuol dire credere, aver fiducia. Si dice che Salvini e Meloni, «sovranisti», non vogliono l Europa, essendo espressione di ceti antiquati (sic !). Ma a parte il fatto che la Gelmini non è sovranista, Visco è un europeista, che vuole una politica fiscale europea, e cita il rapporto Mc Dougall della Commissione europea, che - nel 1979 - la chiese. E che, in questa parte, fu scritto da me, come «esperto» europeo.
Gli uomini di Merkel e Macron nel Mes. It.insideover.com il 24 novembre 2019. Da Bruxelles dicono che il Mes, cioè il Meccanismo europeo di stabilità, meglio noto come Fondo salva-Stati, sia uno strumento potenzialmente utile per tutti i Paesi d’Europa, oltre che rappresentativo delle esigenze dei singoli governi. Eppure, se diamo un’occhiata al Management Board dello stesso Mes, notiamo otto personaggi attivi nel mondo dell’economia e della finanza, tutti rigorosamente non italiani. Già, perché il ruolo di Managing Director è ricoperto da un tedesco, Klaus Regling, lo stesso che viene anche soprannominato “il re d’Europa”. Proseguiamo e leggiamo gli altri nomi, un misto tra francesi e tedeschi: David Eatough è General Counsel, Rolf Strauch è lo Chief Economist, Christophe Franklen è il Deputy Managinh e Director and Chief Risk Office, Kalin Anev Janse è lo Chief Finanzial Officer. I rimanenti posti, due, cioè quello di Chief Operating Officer e Chief Corporate Officer, sono affidati rispettivamente a Sofie de Beule-Roloff e Francoise Blondeel.
Un Management Board a trazione franco-tedesca. Una domanda, dunque, sorge spontanea: indipendentemente dai costi, com’è possibile che il Mes possa fare gli interessi di tutta l’Europa, Italia compresa, se il suo Consiglio di amministrazione straripa di personaggi solo tedeschi o francesi? Certo, guai a pensar male, anche se Parigi e Berlino stanno attraversando serie turbolenze e le loro banche avrebbero bisogno di un bel po’ di sostegno. E i membri del Management Board, guarda caso, provengono per lo più da Francia e Germania. Sarà sicuramente un caso, ma di profili italiani neanche l’ombra. Figurarsi se Roma, secondo una buona fetta dell’opinione pubblica globale, merita di sedersi al tavolo dei grandi. Tuttalpiù il governo italiano può essere interpellato quando Bruxelles ha bisogno di un appoggio, ma niente di cui strapparsi i capelli. Il profilo più importante del Mes è Klaus Regling, classe 1950 e nato a Lubecca, in Germania. Agisce da dietro le quinte, e le informazioni sul suo conto scarseggiano e perfino su internet è complicato trovare notizie. Secondo Politico, Regling è “affidabile e riservato”, e nei modi assomiglierebbe molto più a Draghi che non ai fautori dell’austerity.
Calendario e retroscena. Il Fondo salva-Stati finirà al vaglio della riunione dell’Eurogruppo di Bruxelles il prossimo 4 dicembre, quindi, una settimana più tardi, passerà al Consiglio europeo che dovrà solo ratificare. Il fondo in sé nasce nel 2010, all’indomani della crisi dei debiti sovrani in Europa; due anni più tardi. Il pomo della discordia sul Mes nasce dal fatto che il 14 giugno l’Eurogruppo ha concordato una bozza di riforma, e l’Italia, per mano di Giuseppe Conte, avrebbe avallato la modifica senza dire niente al Parlamento. La Lega si è subito scagliata contro l’esecutivo giallorosso e anche Luigi Di Maio ha iniziato a riservare qualche dubbio su uno strumento costoso quanto inutile e dannoso per il nostro Paese. Intanto perché l’Italia presta e ha prestato al Mes (o chi per lui) poco meno di 15 miliardi di euro. Poi perché quei governi che dovessero mai accettare la ciambella del fondo, rischiano di finire stritolati dall’obbligatoria ristrutturazione preventiva del proprio debito pubblico, laddove questo non fosse considerato sostenibile. Per tornare al Management Board a trazione franco-tedesca, la riforma in cantiere sembra configurarsi più come un regalo alle banche francesi e tedesche in grande difficoltà che non un assist all’intera Ue.
Dagospia il 23 novembre 2019. Lettera di Renato Brunetta. Caro Dago, Per stemperare la tensione altissima che si è venuta a creare attorno alla questione delle riforme europee (Mes e Unione bancaria), dare al ministro dell’economia Roberto Gualtieri e al presidente del consiglio Giuseppe Conte utili strumenti in vista della negoziazione dei trattati, nonché fornire ai parlamentari consigli opportuni in vista della delicata discussione parlamentare, abbiamo ideato un decalogo semiserio di regole da seguire, partendo dal punto di vista dei mercati finanziari e dalle loro possibile reazioni:
1. Mantenere sempre la calma, ai mercati non piace il nervosismo.
2. Parlarne il meno possibile sulla stampa e sui social network, discutendone solo in Parlamento. I mercati finanziari stavano snobbando la questione, perché provocarli?
3. Mantenere sempre un low-profile. Ai mercati non piace chi alza troppo la voce.
4. I mercati non correranno a vendere titoli di stato italiani a dicembre, anche dopo la firma del trattato, perché il programma di acquisto di titoli di stato della Bce (Quantitative Easing) è in azione e la prima regola di un buon trader è “mai sfidare la banca centrale”. Il motivo è semplice: Perderebbero solo soldi.
5. Esiste un vecchio adagio del trading che consiglia di “acquistare la notizia, vendere il fatto” (buy the rumours, sell the facts). I trader scontano i fatti, acquistando in anticipo. Quindi, se nel caso della riforma Mes non ci sono stati movimenti di mercato, vuol dire semplicemente che i trader hanno reputato la vicenda una non notizia. Perché, allora, doverla creare per forza?
6. I trader venderanno Btp quando la Bce dichiarerà di voler cessare il Quantitative Easing. A quel punto metteranno tutto nel conto. Occorre non farsi trovare impreparati.
7. Ricordare sempre che la ristrutturazione del debito avviene quando il debito è insostenibile. Piuttosto che criticare le regole, perché non risolvere il problema alla radice, ovvero ridurre il debito?
8. Per i trader, chi dice no al Mes dice no all’euro. Domanda retorica: cosa ci si può aspettare che facciano in questo caso?
9. Giusto o sbagliato che sia, i mercati sono europeisti. Non vedono di buon occhio i paesi che tentano di creare conflitti in Europa, punendoli con la vendita dei loro titoli di stato.
10. Ai trader piace la coesione nazionale, la responsabilità e la razionalità delle scelte. Inutile aspettarsi clemenza da loro, se maggioranza e opposizione sono afflitti da continui mal di pancia e continuano a litigare su tutto.
Fabio Dragoni per “la Verità” il 22 novembre 2019. La toppa è peggiore del buco, recita un vecchio adagio. Il dibattito sulla modifica dello statuto del Fondo salvastati ha preso quota e le rassicurazioni di Giuseppe Conte in merito a una non scontata firma dell' Italia nel Consiglio europeo di dicembre non fanno altro che alimentare e confermare le paure e le ambiguità emerse in questi giorni di discussione. Così come ancor più pericolose appaiono le rassicurazioni di chi afferma che l'ultima parola spetta al Parlamento. Far arrivare in Parlamento un documento così pericoloso già eventualmente approvato dall' esecutivo espone il legislatore a pressioni - anche internazionali - tali che potrebbero ripercuotersi sulla stabilità dei prezzi dei titoli di Stato. Ma andiamo con ordine, sorvolando per ora sul non trascurabile dettaglio - sarcasticamente riportato dall' onorevole Alberto Bagnai - in relazione al quale le modifiche proposte prevedono per i funzionari del Mes ciò che è stato tolto all' Ilva: un particolare status giuridico assimilabile a uno scudo penale. Il Mes ha già sborsato 295 miliardi di finanziamenti «agevolati» di cui hanno usufruito soprattutto Grecia, Spagna, Portogallo, Cipro e Irlanda. Il fondo si finanzia attraverso la contribuzione diretta dei 19 Paesi investitori dell' Eurozona che hanno versato un capitale di 80 miliardi e anche emettendo obbligazioni, che nel 2019 sono state pari a circa 10 miliardi. E sembrano anche piacere questi titoli, dal momento che la domanda di fronte alla prima emissione del 2011 ha superato di oltre nove volte l' offerta. I Paesi finanziati hanno ottenuto risparmi sugli interessi grazie a queste operazioni pari a circa 17 miliardi di euro. La durata dei tanti finanziamenti concessi può arrivare a oltre 40 anni, come nel caso della Grecia, per la quale il Mes copre oltre il 70% del totale dei finanziamenti esteri e oltre il 50% del debito. Il tasso medio pagato al Mes si aggira intorno allo 0,8%. Può sembrare un tasso di favore, ma se confrontato con le lacrime e il sangue dei piani di austerità imposti ai Paesi che hanno accesso a quelle linee di credito, l' entusiasmo muore. Il Fondo è stato particolarmente attivo dal 2011 al 2015 quando, a detta dei suoi esponenti, le risorse sborsate hanno superato i prestiti concessi dal Fmi di ben 2,5 volte. Al Fondo rimane ancora a disposizione una capacità creditizia di circa 400 miliardi, pari al 4% circa dei quasi 10.000 miliardi dell' intero debito pubblico dell' Eurozona. Già questi numeri ci lasciano capire come questo tanto strombazzato strumento di stabilizzazione sembri utile come un mestolo con cui svuotare il lago. Per i lettori della Verità questa non è certo una sorpresa. E neppure per il ministro dell' Economia Roberto Gualtieri che ha pronunciato queste inequivocabili parole lo scorso 7 ottobre alla Camera: «Ciò che effettivamente ha salvaguardato l' integrità dell' Eurozona è stata la capacità di iniziativa della Bce sintetizzata nella famosa frase di Mario Draghi "whatever it takes", che peraltro - proprio perché potenzialmente illimitata - ha messo in campo una misura che non è neanche stata utilizzata, a dimostrazione del fatto che quando si dispone di una potenziale sovranità monetaria questa è più efficace del conferimento di risorse ai vari Fondi salvastati. Questi sono i fatti». Acclarato quindi che il Mes è sostanzialmente inutile, rimane da capire in quale misura possa essere dannosa la riforma del suo statuto, da cui ora anche Conte sembra prendere le distanze. Di nuovo cadono a fagiolo le parole del governatore della Banca d' Italia Ignazio Visco che ha detto: «I piccoli e incerti benefici di un meccanismo per la ristrutturazione dei debiti sovrani devono essere soppesati considerando l' enorme rischio che il semplice annuncio della sua introduzione inneschi una reazione a catena di aspettative di default, che può diventare una profezia che si autoavvera». Frasi chiarissime cui hanno fatto seguito le dichiarazioni del presidente dell' Abi Antonio Patuelli: «Smetteremo di acquistare titoli di Stato». Il Fondo salvastati prevede infatti fin dalla sua costituzione il deleterio principio dell' eventuale coinvolgimento del settore privato nel salvataggio di uno Stato. Che tradotto significa più o meno che i detentori di titoli di Stato possono vedere decurtati in tutto o in parte capitale e interessi o procrastinati pagamenti e rimborsi. Prima di questo punto è stata ora inserita la previsione che il supporto del Fondo salvastati potrà essere concesso solo se il debito sarà ritenuto sostenibile dallo stesso Fondo. E come hanno ricordato i turboeurpeisti Giampaolo Galli e Pier Carlo Padoan, è voce comune negli ambienti finanziari e governativi che il debito italiano sia ritenuto insostenibile. In buona sostanza, il Mes è un fondo alimentato dagli Stati dell' Ue (che nel caso dell' Italia hanno determinato un aumento del debito pubblico dal 131% al 135%) che presta i soldi agli Stati Ue in cambio di riforme gradite all' Ue, ovvero cessioni di sovranità. Il tutto per poter ambire a vivere negli Stati Uniti d' Europa guidati dalla Germania, che questo fondo lo vuole per i motivi per cui lo ha messo in piedi nel 2011. Far sì che accollasse i crediti delle banche francesi e tedesche ai Paesi europei in difficoltà. In altre parole, dovremmo pagare pur di venderci.
Antonio Grizzuti per “la Verità” il 26 novembre 2019. Come si cambia per non morire, o meglio per non perdere la poltrona. Oggi il Partito democratico e Italia viva rappresentano gli unici tifosi della riforma del Meccanismo europeo di stabilità, ma in passato non è sempre stato così. L' ultimo in ordine temporale a ribadire la necessità di firmare senza indugi la revisione del fondo salva Stati è stato Vincenzo Amendola, ministro in carica per gli Affari europei. «Il governo ritiene che il trattato presenti elementi di novità positivi», ha dichiarato Amendola in un' intervista rilasciata domenica per Bloomberg, «nonostante la pressione da parte del Movimento 5 stelle, il governo non ritarderà il piano d' azione stabilito per la riunione dei leader europei in programma il 12 e 13 dicembre». Prima ancora, durante la festa del Foglio tenutasi venerdì a Firenze, era stato il commissario agli Affari economici e monetari in pectore Paolo Gentiloni a definire l' intesa sul Mes «frutto di una trattativa più che accettabile fatta dal governo gialloblù», schierandosi al fianco del ministro dell' Economia Roberto Gualtieri: «Fa bene a difendere l' accordo». Nel corso della riunione di maggioranza che ha avuto luogo venerdì, Gualtieri ha illustrato «i contenuti della riforma, difendendone i punti di forza ed i miglioramenti che interessano l' Italia». Senza nascondere un certo imbarazzo per essersi trovato a difendere la «bontà» di un negoziato condotto dal precedente governo. Tra i più agguerriti tifosi della riforma, troviamo il capogruppo dem in Commissione Ue, Piero De Luca: «Basta soffiare sul fuoco divulgando fake news sul Mes [] Nel complesso, il nuovo Trattato presenta aspetti innovativi [] Non vi è alcun rischio che l' entrata in vigore del nuovo Mes possa contribuire ad alimentare, piuttosto che risolvere, crisi economico-finanziarie degli Stati membri interessati». Luigi Marattin (Italia viva) ha definito la polemica scoppiata in queste settimane «il festival delle cialtronate», aggiungendo che «nelle condizioni scritte per accedere alla linea rafforzata non c' è nessuna fantasmagorica ristrutturazione del debito». Dalle parti del Pd sembrano dunque tutti d' accordo: la riforma del Mes va approvata e anche in tempi stretti. Ma è sufficiente riavvolgere il nastro all' indietro di qualche mese per scoprire come la linea dettata dal partito fosse completamente diversa. Torniamo al 19 giugno 2019. Sono passati sei giorni dall' Eurogruppo che ha sancito il «broad agreement» sulla revisione del fondo salva Stati, e mancano appena 24 ore all' Eurosummit che confermerà quanto già deciso dai ministri dell' Economia e delle finanze dell' eurozona. Stesso presidente del Consiglio, diversa maggioranza: tra i banchi del governo siede infatti la Lega. Giuseppe Conte si presenta alla Camera per le comunicazioni in vista del Consiglio europeo dell' indomani. Dopo il suo intervento, incassa il «no» secco alla riforma da parte della sua stessa maggioranza, con i durissimi interventi di Francesco D' Uva (M5s) e Riccardo Molinari (Lega). Dai banchi dell' opposizione, una scatenata Lia Quartapelle incalza il premier: «Forse lei non si è accorto che quella che sarà in discussione è l' idea che, a maggioranza, altri Stati europei possano decidere di ristrutturare il debito italiano; allora, ci deve dire quale sarà quello che lei dirà (sic), perché il capogruppo della Lega ha detto che la Lega è contraria, il suo ministro dell' Economia all' Eurogruppo, invece, ha votato a favore di questo meccanismo che penalizzerebbe pesantemente il nostro Paese», tuona la deputata dem, «allora, lei con chi sta, con Molinari, con Tria, con l' Italia o con chi? Ce lo dica, ce lo spieghi». Un intervento che ha il singolare pregio di sconfessare la narrativa, molto in voga in questi ultimi giorni, secondo la quale la Lega non fece nulla per bloccare la riforma. Le parole della Quartapelle dimostrano come ai presenti in aula, opposizione compresa, fosse ben chiara la posizione contraria del Carroccio. Ma l'elemento forse più sorprendente è un altro. Solo pochi mesi fa il Pd, infatti, metteva in guardia il premier e l' esecutivo sui rischi della stessa ristrutturazione del debito pubblico della quale oggi nega spudoratamente l' esistenza. Se è pur vero che da un lato la risoluzione proposta dai dem (della quale De Luca e la Quartapelle risultano firmatari) suggeriva di «sostenere la revisione del trattato del Meccanismo europeo di stabilità con l' obiettivo di migliorare l' efficacia degli strumenti esistenti», d' altro canto si raccomandava di evitare di «attribuire al Mes i compiti di sorveglianza macroeconomica già esercitati dalla Commissione europea». Un modo blando per contestare il cuore della riforma, che prevede appunto la sorveglianza macroeconomica degli Stati membri in vista del ricorso agli aiuti. Perché il Pd ha cambiato idea in un così breve lasso di tempo? Vuole forse evitare di contraddire Conte per non mettere a rischio la tenuta della maggioranza, o cos' altro? D' altronde, l' unico elemento che risulta variato da giugno è proprio l' avvicendamento con la Lega al governo. Nel frattempo, nel partito permane ancora qualche traccia di scetticismo. L' ex vicepresidente del Parlamento europeo (e oggi senatore del Pd) Gianni Pittella, in una nota congiunta diffusa mercoledì con il capogruppo a Palazzo Madama Andrea Marcucci, invita a non prendere «decisioni frettolose» sul Mes. Pittella, uno che di temi europei se ne intende, avvisa che «non sono accettabili condizionalità che rischiano di asfissiare paesi come l' Italia che già stanno seguendo un percorso virtuoso di rispetto delle regole europee».
Fabio Dragoni per “la Verità” il 26 novembre 2019. Vi piacerebbe essere clienti di una banca dove entrate alle sette di sera per chiedere un' apertura di credito e ritrovarvi alle sette della mattina successiva con il fido sul conto corrente già pronto da spendere? Bene c' è una buona notizia ed una cattiva notizia. La buona notizia è che questa banca esiste. La cattiva è che di questa banca nessuno di noi sarà mai cliente. Stiamo parlando di un'istituzione a caso: il Mes il cui acronimo significa Meccanismo europeo di stabilità meglio noto fondo salva Stati «per gli amici». Già il prefisso «salva» dovrebbe indurvi a mettere subito mano alla pistola. Ogni volta che lo leggete la fregatura è in arrivo. Ricordate il decreto salva Italia preparato da Mario Monti? Le tasse sugli immobili quintuplicarono nel gettito. Il tutto condito con l' arrivo della famigerata legge Fornero. Oppure ricordate il decreto salva banche approvato dal governo Renzi? Gli obbligazionisti con in mano i bond subordinati di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara si trovarono azzerati per legge i loro investimenti dalla sera alla mattina. Il fondo salva Stati non sfugge a questa legge universale. Teoricamente creato per salvare la Grecia in realtà servì a salvare le banche francesi e tedesche che a dicembre 2009, secondo un'inchiesta del Sole 24 Ore del 2015 si ritrovavano in bilancio oltre 120 miliardi di prestiti incautamente erogati alla Grecia. Intervenne quindi il Mes, fondo di investimento giuridicamente privato con sede in Lussemburgo ancorché partecipato dagli Stati dell' eurozona. E l'esposizione delle banche francesi tedesche era scesa a circa sedici miliardi in tutto. Ebbene poiché il Mes eroga i fondi reperiti sul mercato e versati dagli azionisti, si dà il caso che l' Italia sempre nel dicembre 2014 si ritrovava ad aver contribuito con circa 41 miliardi. Di meno certo rispetto ai 62 della Germania ed ai 47 della Francia. Ma considerate che le banche italiane avevano nel 2009 un' esposizione al rischio Grecia di circa 7 miliardi non minimamente paragonabile ai quasi 80 degli istituti francesi ed ai 45 della Germania. Insomma abbiamo pagato per loro. Cosa su cui l'allora ministro Giulio Tremonti, prima che il governo Berlusconi fosse dimessionato, tento un' eroica quanto soccombente resistenza. Oggi il Mes ha un capitale sottoscritto di circa 705 miliardi. Ma il capitale effettivamente versato è di poco superiore agli 80. In caso di necessità ci saranno quindi da sborsare 625 miliardi. E circa 110, di questi 625, dovremo sborsarli proprio noi. Il capitale sottoscritto dall' Italia è infatti pari a 125 miliardi e per ora ne abbiamo versati giusto 14. Insomma l' equivalente di quattro clausole di salvaguardia o se preferite la metà della nostra spesa sanitaria annua. Vabbè - direte voi - mica ce li chiederanno tutti subito e comunque di tempo ne avremo. Si in effetti di tempo ne abbiamo abbastanza. Giusto una settimana dal momento in cui il direttore generale del Fondo decidesse di inviare la lettera di richiesta a tutti gli azionisti. Recita infatti l' ultimo paragrafo del comma 3 dell' articolo 9 dello statuto del Fondo che «i membri del Mes si impegnano incondizionatamente e irrevocabilmente a versare il capitale richiesto dal direttore ai sensi del presente paragrafo entro sette giorni dal ricevimento della richiesta». Il Mes - ve lo avevamo detto all' inizio - è una banca sprint sia nell' erogare che nel chiedere i soldi. Del resto con la riforma in arrivo il Mes potrà erogare entro 12 ore il «dispositivo di sostegno» che altro non sarebbe che una linea di credito dedicata al Fondo di risoluzione unico che quasi sicuramente sarà chiamato a mettere soldi per accompagnare la ristrutturazione di molte banche tedesche sulle cui prospettive l' agenzia di dating Moodys ha complessivamente abbassato la qualità dei giudizi nei giorni scorsi. Il Mes è un finanziatore veramente particolare. Inserito nel tritacarne delle disposizioni europee contribuisce a stringere la camicia di forza fatta di austerità cui molti Paesi richiedenti sono di fatto costretti. Ma zitto zitto riesce anche ad essere, se necessario, particolarmente flessibile nel riavere indietro i soldi prestati e che i vari Paesi contribuenti gli hanno a loro volta, conferito. La tanto decantata Irlanda, modello di sviluppo ed austerità espansiva a detta di tanti fenomeni, si ritrova ad avere dodici emissioni di titoli di stato sottoscritte dal Mes. A luglio del 2016 avrebbe dovuto rimborsare 5,5 milioni. Ha chiesto ed ottenuto giusta una proroghetta. Due di questi miliardi saranno pagati nel 2032 e gli altri nel 2033. Niente male vero? Il Portogallo invece, altro supposto benchmark di riferimento per i vari Alesina e Giavazzi, si è trattenuto un po' di più. Per i sei miliardi che avrebbe dovuto restituire la dilazione è stata di appena nove anni; fino al 2025. In compenso si è mosso per tempo ed ha ottenuto che i quasi quattro miliardi da restituire nel 2021 fossero spostati di appena quindici anni, al 2036. La Grecia non ha richiesto invece nessuna proroga. E ci mancherebbe altro visto che inizierà a pagare il capitale dal 2034 per finire intorno al 2060. Quei soldi noi li rivedremo più. Se arrivasse la letterina del direttore generale che ne chiede di nuovi entro sette giorni che dite? Ci proviamo pure noi con la proroga?
Lorenzo Bini Smaghi, Economista, già membro della BCE, per il “Corriere della sera” il 23 novembre 2019. A pochi giorni della firma del nuovo trattato relativo al Meccanismo europeo di stabilità (Mes), negoziato per 18 mesi da due successivi governi e discusso in vari consessi, tra cui il Parlamento italiano e quello europeo, alcuni in Italia si pongono il problema se firmarlo o meno. Il nuovo trattato prevede vari rafforzamenti del Mes, tra cui l' incremento delle risorse, anche per finanziare il Fondo di risoluzione unico europeo. Consente ai Paesi che rispettano il patto di Stabilità di ottenere un programma «precauzionale», per evitare il contagio in caso di crisi sistemica. Il sostegno del Mes consente peraltro di accedere all' intervento illimitato della Banca centrale europea (Omt), con forte effetto stabilizzatore sui mercati. L'aspetto critico riguarda la ristrutturazione del debito di un Paese che fa ricorso al Mes. L' intenzione è quella di evitare, come è avvenuto nel caso della Grecia (unico caso di ristrutturazione finora), che un Paese il cui debito non è sostenibile utilizzi i fondi del Mes per rimborsare i creditori privati senza che questi abbiano contribuito, attraverso una riduzione del valore dei titoli di Stato nel loro portafoglio. Si vuole anche evitare che un debito troppo elevato determini un aggiustamento fiscale eccessivo, con effetti fortemente recessivi. Durante il negoziato alcuni Paesi hanno chiesto che la ristrutturazione del debito fosse automatica, da mettere in atto quando viene fatta la richiesta di sostegno al Mes. Tale automatismo rischia tuttavia di far precipitare la crisi, perché l' aspettativa di un ricorso al Mes spingerebbe i mercati a vendere i titoli di Stato del Paese. L' Italia si è opposta da sempre all' automatismo. Il nuovo trattato, pur facendo riferimento esplicito alla possibilità di ristrutturazione del debito, esclude automatismi. La ristrutturazione avviene solo dopo una valutazione della sostenibilità del debito da parte della Commissione europea e del Mes. Il punto importante, che si stenta a capire nel dibattito italiano, è che la decisione del Mes di concedere o meno il sostegno finanziario a un Paese, e a quali condizioni, dipende - nel nuovo come nel vecchio trattato - dalla volontà politica degli Stati membri creditori. Perché allora questa riforma? Essa nasce dall' intenzione di ridurre la tentazione che un governo potrebbe avere di non rispettare i vincoli europei di bilancio, nell' aspettativa che, in caso di crisi finanziaria, il Paese verrebbe comunque salvato. Questo è probabilmente il motivo per cui alcuni esponenti politici italiani, che hanno preconizzato questa strategia in passato, sono contrari alla firma. Quali sono a questo punto le opzioni sul tavolo, oltre a quella di firmare il testo concordato? La prima è quella di non firmare, a meno di cambiamenti drastici del testo, che sarebbero tuttavia difficilmente ottenibili nel breve periodo. Questa soluzione isolerebbe politicamente l' Italia, non tanto nei confronti dei Paesi creditori, che comunque dispongono del diritto di veto anche nel regime attuale, ma di Paesi come la Spagna, il Portogallo e altri che intendono beneficiare della nuova linea precauzionale per ridurre ulteriormente il costo del loro debito. Non si può peraltro escludere a questo punto che gli altri Paesi procedano alla firma anche senza l'Italia, trattandosi di un trattato intergovernativo. La seconda opzione è di rinviare, legando la firma alla conclusione di altri negoziati ancora aperti, come quello sull' Unione bancaria. Questo legame rischia però di essere controproducente, poiché qualsiasi modifica a nostro favore nel trattato Mes verrebbe accettata solo in cambio di concessioni in senso opposto nel negoziato sull' unione bancaria. In realtà, il problema per l' Italia non è il nuovo trattato del Mes ma l' incapacità di improntare negli anni recenti una politica di costante riduzione del debito pubblico, come hanno fatto altri Paesi europei. Non firmare il trattato potrebbe dare il segnale che non si tratta di incapacità, ma di mancanza di volontà.
Carlo Cottarelli per “la Stampa” il 22 novembre 2019. Di cosa si sta discutendo quando si parla della riforma del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) e perché tale riforma, che sta ora coinvolgendo i vertici politici del paese, è così problematica per l' Italia? Il Mes è il fondo europeo salva-Stati, ossia il fondo che può prestare soldi ai paesi in crisi. In passato ha fatto prestiti a Grecia, Irlanda, Spagna, Cipro e Portogallo, paesi che qualche anno fa hanno avuto difficoltà a finanziarsi sui mercati, cioè a prendere a prestito soldi dal settore privato. Il Mes, in pratica, ha la stessa finalità del Fondo monetario internazionale, ma a livello europeo. La riforma del Mes comporta il chiarimento di alcune modalità con cui opererebbe in futuro. Non si tratta di cambiamenti enormi, ma, come vedremo, quello che preoccupa sarebbe il segnale che alcuni di questi cambiamenti darebbero rispetto a una questione fondamentale e cioè se il Mes possa prestare a paesi in crisi senza chiedere loro una ristrutturazione del debito pubblico esistente. Facciamo un esempio. Un paese dell' area euro, che chiameremo Belpaese, va in crisi, nessuno vuole più finanziarlo e il Belpaese si rivolge al Mes. Il Mes può prestare al Belpaese soldi europei (cioè risorse fornite o comunque garantite dagli altri paesi europei), ma vuole essere ragionevolmente certo che i soldi saranno restituiti. Chiede quindi che il Belpaese ponga in atto certe azioni: tagliare la spesa pubblica, aumentare le tasse, insomma mettere a posto i propri conti. Questo è il principio della condizionalità: i prestiti del MES sono erogati a patto che il Belpaese sia disposto a fare certe cose. La questione di cui si sta discutendo è se tra queste cose ci sia la ristrutturazione del debito pubblico. Ristrutturare il debito significa ripagare solo in parte i creditori, insomma, quello che ha fatto la Grecia nel 2012. Perché il Mes dovrebbe chiedere la ristrutturazione del debito come condizione per prestare soldi? Per diversi motivi.
Primo, il debito del Belpaese si ridurrebbe immediatamente, rendendo quindi più facile ripagare il Mes.
Secondo, riducendo il debito iniziale si potrebbero avere delle politiche meno austere, cioè meno aumenti di tasse e tagli di spesa: il conto lo pagherebbero i creditori, secondo un principio di equa distribuzione del costo dell' aggiustamento tra debitore e creditore.
Terzo, se si fa pagare il conto ai creditori, questi ultimi staranno più attenti la prossima volta a prestare a paesi che sono poco affidabili, riducendo il rischio di future crisi. Insomma, dicono i sostenitori della riforma, troppo comodo prestare a casaccio se poi, nel caso le cose vadano male, i soldi ti vengono comunque restituiti prendendoli in prestito dal Mes.
Messa così la cosa sembra tanto ragionevole da giustificare la richiesta avanzata nella primavera scorsa di rendere addirittura obbligatoria la ristrutturazione automatica del debito come condizione per accedere al Mes. Ora non si parla più di questo, grazie anche all' opposizione dell' Italia. Si parla di misure molto più modeste. Già ora il Mes può prestare solo se, in base a un giudizio discrezionale, il debito è ritenuto essere sostenibile e, quindi, non richiedere una ristrutturazione. La riforma riguarderebbe per esempio, la divisione di responsabilità tra il Mes e la Commissione Ue nel giudizio sulla sostenibilità del debito e alcuni cambiamenti tecnici nelle caratteristiche dei titoli di stato emessi che ne renderebbero più facile la ristrutturazione. Niente di stravolgente, ma sono segnali che, si teme, potrebbero comunque indicare una maggiore propensione alla ristrutturazione del debito rispetto alla situazione attuale. Altrimenti, perché fare quei cambiamenti se non per segnalare un cambiamento di regime? Ma perché l' Italia dovrebbe opporsi a tali segnali di cambiamento? Il motivo principale è che riforme che suggeriscano ai mercati finanziari che la probabilità di una ristrutturazione del debito è aumentata possono causare una crisi o almeno accelerarla. Pensiamo a una situazione in cui il nostro spread inizi a crescere. Se gli investitori sanno che il fondo salva stati, quello che può intervenire in caso di problemi, richiederà probabilmente la ristrutturazione del nostro debito come condizione per un prestito, come pensate che si comportino? Smetterebbero di comprare titoli di stato al primo segnale di tensione: un momento di difficoltà che potrebbe essere superato, potrebbe trasformarsi in una crisi profonda, che porterebbe effettivamente alla necessità di ricorrere il Mes e alla ristrutturazione del debito. Insomma la rete di protezione serve anche a rendere l' equilibrista meno nervoso e quindi a ridurre la probabilità di caduta. Si noti anche che uno dei vantaggi principali di una ristrutturazione del debito-quello di far pagare ai creditori il rafforzamento dei conti pubblici piuttosto che ai cittadini del paese in questione-sarebbe molto inferiore nel caso dell' Italia dove il 70 per cento del debito è detenuto dagli italiani stessi: la ristrutturazione del debito sarebbe per oltre due terzi una tassa che gli italiani dovrebbero pagare. Quindi non un' alternativa all' austerità, ma una forma di austerità (la patrimoniale di cui oggi tanti parlano). Quindi l' Italia fa bene a opporsi a questi aspetti della riforma del Mes. Il Mes è però un' istituzione essenziale perché è necessario avere un meccanismo europeo di sostegno ai paesi in crisi. In realtà l' ondata di critiche al Mes è venuta proprio da chi critica non tanto la riforma in questione ma l'esistenza stessa di una istituzione, il Mes, che interverrebbe sì in sostegno dei paesi, ma in cambio di condizioni. Si vorrebbe un intervento senza condizioni, un regalo dall' Europa a chi non ha tenuto i conti in ordine. Questo, francamente, mi sembra irrealistico. Un' ultima annotazione: non dimentichiamoci il problema fondamentale. La questione del Mes suscita tanta eccitazione nell'opinione pubblica italiana perché il nostro debito pubblico è troppo alto e va ridotto. Chi ha i denti sani non si preoccupa delle modalità con cui interviene il dentista. Noi i denti sani non li abbiamo.
Cottarelli: «Riformare il Mes ora sarà dura». Rocco Vazzana il 22 Novembre 2019 su Il Dubbio. Carlo Cottarelli presidente osservatorio sui conti pubblici italiani. «Difficile ottenere ora modifiche. Gli aiuti potrebbero essere elargiti solo in cambio di una ristrutturazione preventiva del debito. Ma il debito italiano è in mano nostra al 70%». La riforma del Mes, così come concepita, potrebbe «accelerare alcune crisi». Parola di Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano.
Professore, cominciamo dalle basi: cos’è il Mes?
«È il fondo salva Stati, cioè il fondo che aiuta i Paesi in difficoltà, come poteva essere la Grecia in passato, il Portogallo, la Spagna e la stessa Italia, che nel 2011 è stata vicina a chiedere il sostegno finanziario del Fondo monetario internazionale. Questo è un Fondo europeo».
Cosa prevede la riforma di cui si parla in queste ore?
«In realtà non è una riforma così invasiva. Poteva esserlo all’inizio, quando c’erano ancora sul tavolo delle proposte molto più pesanti come quella di obbligare uno Stato a ristrutturare il proprio debito per accedere agli aiuti del Mes. Questo automatismo per fortuna è caduto anche grazie alla forte opposizione dell’Italia. Però alcune cose importanti sono state comunque modificate, a partire da chi deve giudicare l’opportunità o no di ristrutturare il debito di un Paese».
E chi dovrà esprimersi sulla sostenibilità del debito?
«Il Mes stesso, un organismo tecnico percepito come un po’ più cattivo perché, come sta scritto sul Trattato, presterebbe maggiore attenzione al punto di vista dei creditori ( gli altri paesi europei che forniscono le risorse per il Fondo), invece di guardare agli interessi generali dell’Unione o dell’area Euro. Ed è proprio questo aspetto che fa presumere una maggiore propensione a chiedere la ristrutturazione del debito. È un segnale ai Paesi più in difficoltà».
Ma una ristrutturazione del debito potrebbe paradossalmente scongiurare politiche di austerità?
«Supponiamo che il debito sia il 135 per cento del Pil, come nel caso italiano, e lo si vuole ridurre al 70 o all’ 80 per cento per non esporre il Paese a una crisi. Ci sono due possibilità: non pagare i creditori ( ristrutturazione del debito) o aumentare le tasse e tagliare la spesa. In questo secondo caso il bilancio migliorerebbe, magari raggiungendo un surplus, ma si porterebbero avanti politiche di austerità, nel primo caso no. La mia obiezione a questo ragionamento è che in un Paese come l’Italia, in cui il 70 per cento del debito è detenuto dagli italiani stessi e dunque anche una ristrutturazione comporterebbe una politica di austerità. Perché se hai prestato 100 allo Stato e lo Stato ti ridà 50 significa che ti sta tassando per la metà del prestito. Secondo me certe volte è questa la strada migliore da seguire, ma si sta facendo una riforma che farebbe pensare che questa cosa diventi troppo facile. O almeno il dubbio viene».
Quindi è un problema solo italiano, viste le dimensioni e le caratteristiche del nostro debito?
«In queste dimensioni sì. Il debito greco, per esempio era detenuto dai greci solo per un quarto. Di certo non c’è nessun Paese con un debito così alto, per questo ce ne preoccupiamo».
Lei dice che questa riforma paradossalmente potrebbe provocare crisi peggiori. Perché?
«Non dico provocare ma almeno accelerare alcune crisi sì. Pensiamo a uno scenario in cui per qualche motivo lo spread comincia a crescere e i mercati cominciano a innervosirsi. Teoricamente i creditori dovrebbero essere tranquillizzati dall’intervento del Mes che copre l’esposizione. Ma se il Mes, che dovrebbe essere il pompiere, ti chiede di ristrutturare il debito come condizione per darti i soldi, gli investitori scappano. Il rischio è che anche una piccola crisi potrebbe comportare la ristrutturazione del debito, che non è una cosa semplice né piacevole: fa perdere credibilità al Paese e rappresenta una tassa ai residenti. Per questo in passato abbiamo evitato ristrutturazioni. Sarebbe meglio se riuscissimo a far cambiare un po’ di paroline in questo Trattato. Ma il governo precedente aveva già dato l’ok a questa riforma in primavera».
Quali sarebbero le “paroline” da modificare?
«La parte riguardante il soggetto che dovrà giudicare la sostenibilità del debito e quindi l’eventuale necessità di una ristrutturazione».
Come giustifica le proteste di Movimento 5 Stelle e Lega, insieme al governo all’epoca dell’ultimo incontro europeo sulla riforma?
«Non so se siano proteste immotivate, di certo erano lì quando si discuteva della riforma. Forse non se ne sono accorti o dormivano. Ma non ci si può trincerare dietro al “Tria non ce l’ha detto”, perché queste non sono mica negoziazioni segrete, sono cose pubbliche che avevano il dovere di seguire all’epoca. Invece si svegliano adesso, quando è tutto più difficile».
La riforma del Mes dovrebbe essere firmata a dicembre. Non ci sono più margini di manovra?
«Volendo i margini ci sono, ma è molto più complesso riuscire a operare delle modifiche perché è già stato dato un assenso politico alla riforma. Il Consiglio europeo ha dato l’ok ai ministri delle Finanze a finalizzare i dettagli della proposta già incardinata. Dunque, tecnicamente è ancora possibile operare delle modifiche, politicamente è molto più complicato».
Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ripete che ancora nulla è deciso, che l’ultima parola spetta comunque al Parlamento. Ma davvero Camera e Senato hanno il potere di bloccare il Trattato?
«Certo, il Trattato deve essere ratificato dai singoli Paesi. Ma non siamo davanti a un potere di veto. In teoria gli altri Paesi potrebbero decidere di andare avanti senza di noi. Ma sarebbe piuttosto strano, perché così l’Italia non avrebbe accesso al Mes e sarebbe come spararsi su un piede. È come se uno che si sente poco bene chiedesse l’abolizione dell’ambulanza».
Carlo Di Foggia per ''il Fatto Quotidiano'' il 20 novembre 2019. Una volta era un posto ambito, uno degli snodi cruciali del capitalismo di relazione italiano. Oggi non c'è più competizione per la guida dell' Associazione delle banche italiane (Abi), il potere è altrove, gli interessi delle grandi banche sono lontani dall' Italia e quelle medio-piccole hanno come massima ambizione la sopravvivenza, non certo la guida del Paese. La Confindustria delle banche è talmente spompata da aver chiesto il quarto mandato consecutivo al suo presidente, Antonio Patuelli, ultimo superstite della schiatta liberale, passato indenne alle macerie della Prima Repubblica facendosi banchiere. Forse si ispira a Franklin Delano Roosevelt: il presidente americano decise di violare la regola non scritta stabilita da George Washington di non superare i due mandati (ne fece quattro anche lui). Patuelli aggira la regola stabilita da lui stesso nel 2012 (il "lodo Patuelli") di alternare alla guida esponenti delle grandi e piccole banche. Avrebbe dovuto lasciare a fine anno, invece resterà fino al 2022 grazie alle modifiche allo Statuto decise nei giorni scorsi. Un grande classico in casa Abi. Il numero uno di Palazzo Altieri aveva già fatto il terzo grazie a un'altra modifica. Adesso si torna alle regole precedenti al regno di Giuseppe Mussari, l'ex padre padrone di Mps eletto alla guida dell' Abi nel 2010 per acclamazione e confermato nel luglio 2012 nonostante lo scandalo Antonveneta. Anche allora fu modificato lo statuto per lasciare alla guida dell' Abi un banchiere disoccupato. Patuelli, suo avversario, divenne vicepresidente vicario. Quando nel gennaio 2013 Mussari viene travolto dall' inchiesta, ne prende il posto, grazie al lodo da lui inventato, e sempre "per acclamazione". "Crediamo e operiamo per banche indipendenti, distanti e distinte dalla politica e da ogni interferenza", esordì il giorno dell' elezione. E chi meglio di un politico poteva dirlo? Nel secolo scorso, Patuelli, classe 1951, avvocato e imprenditore agricolo, fu enfant prodige del Pli: già negli anni 70 guidava la Gioventù liberale e nel 1983, a soli 32 anni, approdò a Montecitorio. Viene rieletto nel 1992, quando diventa pure sottosegretario alla Difesa del governo Ciampi. Un anno prima era diventato vicesegretario vicario dell' ultimo leader, Renato Altissimo, poco dopo condannato per la maxi-tangente Enimont. Pautelli s' era già fatto banchiere nel 1991, agli albori della lottizzazione del credito avviata con la nascita delle fondazioni bancarie. Diventa vicepresidente della Cassa di risparmio di Ravenna, nel 1995 sale alla presidenza, carica che ricopre da 24 anni per cui prende uno stipendio di 170 mila euro, che si somma al vitalizio parlamentare. Siede in una decina di società, tra cui diverse controllate della banca. Negli anni è stato in una ventina di cda. Oggi rivendica di non avere legami con la politica, né sponsor a cui render conto: s' è dimenticato la tessera del Pli e la Prima Repubblica in cui la Dc deteneva il potere politico e lasciava a laici e massoni un po' di spazio nel mondo della finanza (pubblica). Difficile trovare un banchiere che parli male di Patuelli, stimato pure dai sindacati. La sua forza è l' assenza di alternative. È considerato il meno peggio del mondo bancario di provincia, il più danneggiato dai nuovi criteri sul patrimonio (a partire da Basilea 2) e dall' ipertrofia normativa dell' Unione bancaria europea contro cui la lobby del credito capitanata da Patuelli ha combattuto, con pochi successi. Oggi Patuelli denuncia i pericoli del bail in, la normativa Ue che impone di far pagare la crisi ad azionisti, obbligazionisti e correntisti più ricchi. Ma quando fu recepita nel 2015 spiegò che sarebbe stata "l' eccezione estrema, non la regola". Indimenticabile il depliant a fumetti distribuito dall' Abi nelle filiali per rassicurare i risparmiatori ("Tu e il tuo bail in"). La vicenda di Etruria&C. ha mostrato l'errore di valutazione. Oggi Patuelli sostiene che il bail in vìola la tutela del risparmio sancita dalla Costituzione (art. 41). Mai una parola, però, sull' altrettanto grave violazione compiuta dalle banche piazzando miliardi di obbligazioni subordinate alle famiglie (anche CariRavenna lo fece per oltre 150 milioni). Patuelli è il simbolo di questa contraddizione. Ripete sempre che il "debito pubblico è la palla al piede del Paese", però difende "il contributo per stabilizzare la Repubblica" che danno le banche acquistando i Btp. E infatti la sua Cassa di Ravenna ne ha in pancia per 1,6 miliardi su un patrimonio netto di 450 milioni, quattro volte il rapporto di Intesa o Unicredit. Ha predicato per anni che la crisi bancaria fosse finita, mentre vari istituti di credito saltavano. Si è scagliato contro la stretta della Bce sui crediti deteriorati per poi festeggiare ogni volta i risultati delle banche nello smaltimento delle sofferenze, ignorando gli effetti sui debitori. Quando nell' estate 2017 lo Stato ha salvato Mps, per mesi ha chiesto di pubblicare la lista dei grandi debitori degli istituti salvati. La filastrocca che avrebbero ingannato gli ingenui banchieri facendosi prestare denaro commettendo mendacio bancario si è poi scontrata col fatto che nessun banchiere aveva mai presentato denuncia. Il risultato migliore lo ha raggiunto nella battaglia contro le nuove norme sui requisiti di onorabilità dei banchieri, a suo dire troppo severe. La direttiva Ue che le prevede risale al 2013, ma da sei anni il ministero dell' Economia si scorda di emanare le disposizioni che decimerebbero i consigli di amministrazione.
Mes, Conte alla Camera: «Contro di me accuse gravissime e infamanti». Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 da Corriere.it. Parla di accuse gravissime e infamanti, di spregiudicatezza e di scarsa conoscenza delle regole. Giuseppe Conte nella sua informativa alla Camera sul Mes si difende, ma i toni e i concetti espressi dai banchi del governo di Montecitorio sono un deciso attacco a chi da giorni lo prende di mira sul tema fondo Salva-Stati: «Da alcune settimane i massimi esponenti di alcune forze di opposizione hanno condotto una insistita, capillare campagna mediatica accusandomi di condotte talmente improprie e illegittime nella trattativa con l’Ue da essermi reso responsabile di alto tradimento - afferma il premier -. Sarei uno spergiuro perché venuto meno al vincolo di essere fedele alla Repubblica: si è perfino adombrato che avrei tenuto questa condotta per biechi interessi personali». Conte si dice «sorpreso, se posso dirlo, non della condotta del senatore Salvini, la cui “disinvoltura” a restituire la verità e la cui “resistenza” a studiare i dossier mi sono ben note, quanto del comportamento della deputata Meloni» nel «diffondere notizie allarmistiche, palesemente false» sul Mes. E ancora: «Quando sono venuto dinanzi a voi per chiedervi la fiducia ho invocato, per questa nuova stagione politica, un «linguaggio mite», ho auspicato che la Politica, con la P maiuscola, potesse riporre una particolare attenzione alla «cura delle parole». Le accuse che mi sono state rivolte, tuttavia, trascendono ampiamente i più accesi toni e le più aspre contestazioni che caratterizzano l’odierna dialettica politica, già di per sé ben poco incline alla «cura delle parole». Siamo al cospetto di un’accusa gravissima».
(LaPresse il 2 dicembre 2019) - Il capo politico del M5S, Luigi Di Maio, riunirà la squadra di governo del Cinquestelle, intorno alle ore 18, a Palazzo Chigi, per fare un punto sui temi in campo prima del Consiglio dei ministri delle 20. Lo confermano fonti di maggioranza. La riunione segue di poche ore gli interventi del premier, Giuseppe Conte, sul Mes alla Camera e al Senato.
Paolo Decrestina per corriere.it il 2 dicembre 2019. Parla di accuse gravissime e infamanti, di spregiudicatezza e di scarsa cultura delle regole. Denuncia resistenza allo studio, irresponsabilità e costruisce le sue frasi con verbi come “insinuare”, “permettersi”. È il giorno di Giuseppe Conte in Parlamento e nella sua informativa alle Camere sul Mes, il premier si difende sì, ma i toni e le immagini espressi dai banchi del governo sono invece un deciso attacco a chi lo prende di mira sul tema fondo Salva-Stati: «Da alcune settimane i massimi esponenti di alcune forze di opposizione hanno condotto una insistita, capillare campagna mediatica accusandomi di condotte talmente improprie e illegittime nella trattativa con l’Ue da essermi reso responsabile di alto tradimento - afferma il premier -. Sarei uno spergiuro perché venuto meno al vincolo di essere fedele alla Repubblica: si è perfino adombrato che avrei tenuto questa condotta per biechi interessi personali». E poi arrivano i nomi: Conte si dice «sorpreso, se posso dirlo, non della condotta del senatore Salvini, la cui “disinvoltura” a restituire la verità e la cui “resistenza” a studiare i dossier mi sono ben note, quanto del comportamento della deputata Meloni» nel «diffondere notizie allarmistiche, palesemente false» sul Mes. D’altronde nel Consiglio dei Ministri del 27 febbraio 2019 si parlò di Mes e «nessuno dei ministri presenti, compresi quelli della Lega, ha mosso obiezioni sul punto e, in particolare, sulla relazione da presentare alle Camere», chiarisce il presidente del Consiglio mentre i deputati del Pd applaudono Conte quando cita il ringraziamento che il senatore della Lega Alberto Bagnai gli fece durante l’esame del Mes al Senato.
Il fondo previsto dall’Europa. La differenza, per il premier, non è solo nei toni ma nei contenuti delle accuse mosse contro di lui: «Una falsa accusa di alto tradimento della Costituzione è questione differente dall’accusa di avere commesso errori politici o di avere fatto cattive riforme: è un’accusa che non si limita solo a inquinare il dibattito pubblico e a disorientare i cittadini, è indice della forma più grave di spregiudicatezza perché pur di lucrare un qualche effimero vantaggio finisce per minare alle basi la credibilità delle istituzioni democratiche e la fiducia che i cittadini ripongono in esse».
La terza via europea che può salvare l’Italia sul Mes. E ancora: «Quando sono venuto dinanzi a voi per chiedervi la fiducia ho invocato, per questa nuova stagione politica, un «linguaggio mite», ho auspicato che la Politica, con la P maiuscola, potesse riporre una particolare attenzione alla «cura delle parole». Le accuse che mi sono state rivolte, tuttavia, trascendono ampiamente i più accesi toni e le più aspre contestazioni che caratterizzano l’odierna dialettica politica, già di per sé ben poco incline alla «cura delle parole». Siamo al cospetto di un’accusa gravissima». Pur di «attaccare la mia persona e il governo», sottolinea ancora Conte, «non ci si è fatti scrupolo di diffondere notizie allarmistiche, palesemente false, che hanno destato preoccupazione nei cittadini e, in particolare, nei risparmiatori. È stato detto che sarebbe prevista la «confisca dei conti correnti dei risparmiatori» e, più in generale, che «tutti i nostri risparmi verrebbero posti a rischio». È stato detto che il Mes servirebbe solo a beneficiare le banche altrui e non le nostre. È stato anche detto che il Mes sarebbe stato già firmato, e per giunta di notte». E invece per Conte sembra quasi «superfluo» confermare alla Camera «un fatto di tutta evidenza, ossia che né da parte mia né da parte di alcun membro del mio Governo si è proceduto alla firma di un trattato ancora incompleto: nessun trattato è stato infatti ancora sottoposto alla firma dei Paesi europei». Nessuno, insiste, può permettersi, «non dico di sostenere apertamente ma anche solo di insinuare velatamente l’idea che il processo di riforma del Mes sia stato condotto segretamente o, peggio, firmato nottetempo. Non solo c’è stata piena condivisione all’interno del Governo, ma su questa materia vi è stato, con il Parlamento italiano, un dialogo costante, un aggiornamento approfondito», aggiunge. Il nuovo Trattato, per il premier «non lascia a una valutazione tutt’altro che automatica la verifica della sostenibilità del debito e delle condizioni macroeconomiche dei paesi beneficiari dell’intervento del Mes, coerentemente con quanto preteso dall’Italia che si è opposta ad altri paesi che avrebbero invece voluto maggiori automatismi». Anzi, il Mes «non è indirizzato contro un Paese o costruito a vantaggio di alcuni Paesi a scapito di altri. È una assicurazione contro il pericolo di contagio e panico finanziario, a vantaggio di tutti. Nel negoziato abbiamo ottenuto regole che fossero vantaggiose per l’Italia sia nel remotissimo caso in cui dovessimo arrivare a chiedere anche noi fondi al Mes, sia in quelli, molto più frequenti, in cui l’Italia si ritrovasse dal lato di coloro che erogano il prestito». «Il Governo italiano ha rispettato la lettera e la sostanza della risoluzione votata dal parlamento lo scorso giugno e, come in passato, agirà sempre nel rispetto del mandato conferitogli», conclude il premier.
Ore 13.13 - Il premier cita Salvini: «La sua resistenza sui dossier è nota». Live dall’Aula. Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 da Corriere.it. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è in Parlamento (alle 13 alla Camera, alle 15.30 al Senato) per un’informativa urgente sul Mes, o salva- Stati. Il Meccanismo europeo di stabilità, approvato nel 2012 in attuazione di una decisione adottata dal Consiglio dell’Unione europea, ha la funzione principale di intervenire in aiuto degli Stati in dissesto. Lo si vuol modificare perché possa aiutare anche le banche in default. Nel Governo ci sono ancora posizioni diverse sulla riforma.
Ore 13.31. Quarto sbadiglio di Durigon. «Le accuse mosse in questi giorni circa l’assenza di comunicazioni sono completamente false», dice Conte. Borghi contesta. Il deputato di Forza Italia Andrea Ruggieri mostra ai colleghi una banconota da 5 euro con un'immagine stilizzata di Di Maio: «Appena finisce di parlare Conte gliela sventolo in faccia». Quinto sbadiglio del leghista Durigon.
Ore 13.27. Nell’indice dei nomi del discorso di Conte, il senatore euroscettico leghista Alberto Bagnai guadagna la palma del più citato. Senso del messaggio del premier: non aveva mai contestato il Mes.
Ore 13.20. Conte parla del Mes. Labiale dell’ex sottosegretario Durigon: «Ma che c...dice?». Conte fa l’elenco di coloro che, mesi fa, «contestarono» in Parlamento il Mes. Tra costoro non figura in nome di Salvini. «E al Senato nemmeno quello di Bagnai». Di Maio ascolta Conte immobile. Una sfinge. Nessuna smorfia, nessun sorriso, nulla. Gualtieri, l’uomo a cui il governo affiderà la trattativa con Bruxelles col Mes, annuisce di continuo.
Ore 13.16. Imponente schieramento di commessi in prossimità dei banchi della Lega e Fratelli d’Italia. Segno che si temono tensioni? Cinque commessi a presidiare la zona in prossimità dei banchi dell’opposizione. Nessuno, in questo istante, vicino i banchi della maggioranza.
Ore 13. 13. Conte cita per la prima volta Salvini: «La sua resistenza sui vari dossier è ben nota. Non si è fatto scrupolo di diffondere notizie false». Giorgia Meloni urla e viene ripresa dal presidente dell’Aula Roberto Fico. «Deputato Borghiiii, deputato Borghiii. La richiamo all’ordineeee» (Fico).
Ore 13.10. Primo fendente di Conte a Salvini (senza citarlo): «Se fossero vere le accuse di alto tradimento, mi dovrei dimettere. Ma se non sono vere, chi le lancia dimostra di non avere rispetto per le istituzioni». Primo applauso dai banchi della maggioranza.
Ore 13.05.Conte fa il suo ingresso in Aula. Saluti e applausi dal II circolo didattico del distretto vesuviano, la scuola presente tra i banchi del pubblico. I rumors dell’Aula: Conte andrà all’attacco di Salvini, come il 20 agosto. «Ho sempre, e dico sempre, cercato di assicurare l’interlocuzione col Parlamento».
Ore 13.00. Mancano pochi minuti all’informativa di Conte sul Mes. Si annuncia l’ennesima giornata decisiva per il governo. Gualtieri ha fatto il suo ingresso in Aula. In Transatlantico il ministro Enzo Amendola smorza la tensione raccontando alcuni retroscena del vertice di maggioranza di ieri notte: «Conte e Speranza, romanisti doc, con un più di un occhio allo smartphone per controllare il parziale di Verona-Roma. Al fischio finale hanno esultato entrambi».
Fabrizio Roncone per il “Corriere della sera” il 3 dicembre 2019. Tanto per inquadrare il pomeriggio. La buvette di Palazzo Madama: senatori al bancone che divorano noccioline (sono gratis), laggiù si sente la voce allegra - esatto: allegra - di Matteo Renzi. Arriva Matteo Salvini, sposta la ciotola con le noccioline e ordina due piadine al prosciutto e un tramezzino. Pallido, teso. Il nodo della cravatta allentato. Morde nervoso. Mastica nervoso. Gli hanno appena finito di raccontare il durissimo intervento con cui Giuseppe Conte, due ore fa, ha riferito alla Camera sulla storia del fondo salva-Stati. E hanno aggiunto: ti ha attaccato ed è stato convincente. L' avvocato ha fatto l' avvocato. Date, circostanze, incontri, nomi, cognomi, chi c' era, chi non c' era, documenti, commi. Tutti i ministri, ha detto, sapevano. Salvini si volta e chiede: «Mi ha dato anche del bifolco, vero?». Ha detto che lei ha una scarsa propensione alla lettura dei dossier.
«Quindi non sono solo un sovversivo, ma pure un ignorante».
Mangi più lentamente.
«Ho una fame tremenda. E sono incavolato nero. Sono venuto solo per lui, per Conte».
Ha portato qualche documento?
«Di che genere?».
Qualcosa che dimostri la fondatezza delle accuse che lei e la Meloni gli rivolgete.
«Quattro fogli di appunti scritti a penna».
Da chi?
«Da me».
Pochino.
«Macché! Mi bastano. Tanto una cosa è chiara, sul Mes: o ha mentito il ministro Gualtieri, o ha mentito lui, Conte.
Oppure». Oppure? «Non ha capito niente Di Maio».
In aula, tra poco, lei e Conte come quel 20 agosto della scorsa estate.
«Però questa volta, per fortuna, sarò distante, seduto tra i banchi della Lega, e non potrà battermi la manina sulla spalla».
Lei sembra un po' giù di giri.
«No, guardi: è Conte ad essere meno pimpante. Mi dicono che prima, alla Camera, fosse livido». (Flashback: Montecitorio, ore 13). Il presidente del Consiglio parla per 43 minuti. Citazioni in inglese, francese, latino, greco. Il tono di voce che conoscete, nel taschino della giacca il fazzoletto bianco senza le celebri quattro punte, la sensazioni è che si rivolga a Salvini sperando che anche Di Maio intenda. «Dalle opposizioni accuse infamanti contro di me. Accuse che, se fossero vere, dovrebbero costringermi alle dimissioni Ma mi sembra quasi superfluo confermare a quest' aula un fatto di tutta evidenza: ossia che né da parte mia, né da parte di alcun membro del mio governo, si è proceduto alla firma di un trattato ancora incompleto». Applausi dai banchi giallorossi. Immobile, invece, Luigi Di Maio: tiene ostentatamente lo sguardo, imbronciato, nel vuoto. «Di Maio, dimettiti!», prova a scuoterlo il leghista Claudio Borghi, consigliere economico del Capitano che voleva rifilare agli italiani quei pezzacci di carta chiamati mini-bot. Visto il deputato del Pd Emanuele Fiano alzarsi e fare maramèo con la mano. Occhiata severa di Marco Minniti, ex ministro dell' Interno vestito tutto di nero. Ancora Conte: «Mi sono sorpreso - dice - non della condotta del senatore Salvini, le cui resistenze a studiare i dossier mi sono ben note, quanto dal comportamento della deputata Meloni». Replica urlante di Giorgia Meloni, molto attesa dai cronisti sensibili ai sondaggi che la danno in forte ascesa: «Presidente, ma perché non dice queste cose anche a Di Maio, che è lì accanto a lei? Di Maio sostiene le nostre stesse tesi». Ma Di Maio, come se parlassero di un altro Di Maio, sempre con lo sguardo nel vuoto. Intanto si è alzato Renato Brunetta, ex generale di Forza Italia, e fa un gran discorso, da vero economista. (Graziano Del Rio, capogruppo del Pd, cita Shakespeare. Luigi Marattin, vicecapogruppo di Italia viva, Goebbels).
Adesso - sono le 15.50 - Matteo Salvini esce dalla buvette e si dirige verso l' emiciclo di Palazzo Madama, dove Giuseppe Conte ha già preso posto, per riferire ai senatori. L' agenzia Ansa sostiene che Renzi saluti Salvini alzando il pugno chiuso e dicendo: «Ciao, compagno!». A tratti, c' è un' atmosfera di diffusa, inspiegabile euforia. Renzi - in completo blu, leggermente dimagrito - comincia a parlare di un Fiorentina-Inter di tanti anni fa. Passa il leghista Stefano Candiani e fa: «Si paga il biglietto per ascoltare?».
Renzi: «Accetto solo prestiti" (battutona riferita al prestito dell' anziana madre di quel suo amico imprenditore, grazie al quale riuscì a comprarsi una villa a Firenze). Vanno in aula così: sottobraccio e ridacchiando, si sa che Conte replicherà il suo discorso, si attende la replica di Salvini, ma succede poco. Il premier cita il leghista Alberto Bagnai, e Bagnai ringrazia con un inchino. Poi un altro leghista tira fuori un Pinocchio in miniatura, allora la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, urla: «Vedo un Pinocchio!», e sospende la seduta per tre minuti. Si riprende con Emma Bonino che cita Victor Hugo. Salvini chiude il suo intervento dicendo a Conte: «Si vergogni!». Accenno di rissa. L' ex ministro Gian Marco Centinaio, con un imbarazzante finto accento siciliano, grida al capogruppo del Pd, Andrea Marcucci: «Stai seduuuuuuuuuuto!», solo che Marcucci è toscano. Finisce in tristezza. Due senatori, un grillino e un leghista, sono già alla buvette e vanno di prosecco. Il leghista è alticcio. Ma non insistete per sapere chi è (ha due bambini piccoli).
Conte: «Salvini irresponsabile, crea allarme tra i cittadini». Ma è gelo con Di Maio. Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 su ‐ Corriere.it da M Galluzzo. È il secondo grande attacco di Giuseppe Conte contro Matteo Salvini dopo quello di quest’estate durante la crisi di governo. Il leader della Lega sul Mes è per Conte «disinvolto, irresponsabile, ha creato allarme nei cittadini e nei mercati, è spregiudicato, sta dando prova di scarsa cultura delle regole e mancanza di rispetto per le istituzioni». E questo è solo l’inizio, per rispondere alle «accuse gravissime» che gli sono state rivolte, coinvolge nell’attacco anche Giorgia Meloni: «Mi sono sorpreso, se posso dirlo, non della condotta del senatore Salvini, le cui resistenze a studiare i dossier mi sono ben note, quanto del comportamento della deputata Meloni nel diffondere notizie allarmistiche, palesemente false». Mentre difende il Mes e i negoziati, mentre ricorda che tutti erano sempre stati informati, compresi i Cinque Stelle, Conte in 50 minuti di discorso alla Camera, che replicherà interamente in Senato, riceve gli applausi del Pd, quelli timidi dei 5 Stelle, e smonta le accuse che gli sono state rivolte. È stato detto che sarebbe prevista la «confisca dei conti correnti dei risparmiatori» e, più in generale, che «tutti i nostri risparmi verrebbero posti a rischio. È stato detto che il Mes servirebbe a beneficiare le banche altrui e non le nostre. È stato anche detto che sarebbe stato già firmato, per giunta di notte: falso, ma una falsa accusa di alto tradimento della Costituzione è questione differente dall’accusa di aver commesso errori politici, è un’accusa che non si limita solo a inquinare il dibattito pubblico e a disorientare i cittadini, è indice della forma più grave di spregiudicatezza perché pur di lucrare un qualche effimero vantaggio finisce per minare alle basi la credibilità delle istituzioni». Insomma più pesante di così, contro Salvini e Meloni, Conte non poteva essere. Ma il suo intervento è anche qualcosa di più: è una difesa a spada tratta del Mes per come è stato negoziato. E anche per questo Roberto Gualtieri annuisce continuamente: ogni concetto esposto da Conte vale un cenno con la testa, un assenso, come se alla destra ci fosse il Pd intero, mentre alla sinistra del premier invece Luigi Di Maio è una statua di marmo, dopo l’intervento va via senza salutare, evidentemente si è sentito chiamato in causa: il premier attacca la Lega, ma nelle parole e nei 20 allegati che ha portato con sé c’è anche la storia della sintonia grillina sul Mes, dunque parla a nuora perché suocera intenda. Il gelo fra il premier e Di Maio è quasi palpabile, il leader dei 5 Stelle non applaude nemmeno una volta, nemmeno quando lo fanno, timidamente, i suoi deputati. Appena termina di parlare, Conte si volta verso Gualtieri, riceve le congratulazioni, alla sua sinistra nemmeno si gira, ha capito l’antifona, il discorso non è stato gradito da Di Maio, perché di accenni indiretti al leader dei 5 Stelle, o ai suoi ministri, l’intervento del premier è pieno zeppo: perché se il leader grillino dice che ci vogliono delle correzioni al Mes e che non vuole firmare «nulla al buio», Conte sciorina le date e gli incontri, i Consigli dei ministri, in cui nessuno del M5S, non solo i leghisti, negli scorsi 12 mesi, ha mai alzato un dito. «È stato spalmato sul Pd», dirà stizzito Di Maio, che non andrà in Senato. «Preoccupati dalle fibrillazioni degli alleati», replicano fonti dem. Conte a fine giornata prova a ricucire, ma Di Maio riunisce i ministri prima del Cdm e la storia del Mes da correggere va avanti. Così come l’ipotesi di un asse in chiave elettorale fra Conte, Zingaretti e Grillo, con Di Maio depotenziato.
Gualtieri: «Da Salvini campagna terroristica sul Mes». Il Dubbio l'8 Dicembre 2019. Il ministro dell’Economia replica a muso duro alle polemiche della Lega sulla riforma del Fondo salva-Stati. «Quella sul Mes è una discussione che ci sarebbe stata comunque, a prescindere da questo dibattito sopra le righe, ma è avvenuta in un contesto in cui la Lega, Salvini e Borghi con cinismo hanno iniziato a fare una campagna terroristica per spaventare le persone» su una riforma che «in sostanza non cambia nulla». Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri non usa mezze misure per lanciarsi all’attacco della Lega che sul Fondo salva-Stati a condotto una battaglia parlamentare e mediatica senza esclusione di colpi. «Certo, se non ci si riesce a esprimersi con competenza e serietà sulla Nutella è evidente che la credibilità su ciò che si dice sul Mes sia piuttosto scarsa», insiste Gualtieri, intervistato a Mezz’ora in più, alla vigilia di un’altra settimana di passione per la maggioranza, con Conte chiamato ancora a riferire in Aula sulla riforma del Mes. «C’è stato un dibattito vivace per usare un eufemismo, c’è spesso una attenzione eccessiva al giorno per giorno e troppa poca capacità di tenere i nervi saldi e di guardare le cose un po’ più in prospettiva. Alla fine abbiamo saldato il conto del Papeete, siamo riusciti a fare un miracolo con una manovra che rilancia la crescita e l’equità dell’Italia», aggiunge il ministro dell’Economia, continuando la sua polemica con Matteo Salvini. La replica dell’ex ministro dell’Interno non si fa attendere. «Sulla manovra, da parte di Gualtieri è tutto un rinvio. accadrà a giugno, luglio, agosto, settembre», replica Salvini dallo stesso studi televisivo. «L’unica cosa che accadrà dal primo gennaio, gli asili nido gratis a tutti i bimbi, ma è palesemente una fesseria priva di fondamento. Ci saranno alcune migliaia che lo potranno fare. Ma ci troviamo il primo gennaio e vediamo se è stata una bufala, una balla spaziale». Infine, il leader del Carroccio accetta la sfida a un confronto Tv lanciata da Gualtieri. «Molto volentieri», dice Salvini, accettando la data suggerita da Lucia Annunziata: il 12 gennaio.
Di Maio e Di Battista in tandem: il Mes così com’è non lo approviamo. Pubblicato martedì, 03 dicembre 2019 su Corriere.it da Alessandro Trocino. L’ex deputato M5Stelle: «Noi saremo l’ago della bilancia». Il grande gelo lo hanno percepito tutti in Aula, a cominciare dal presidente del Consiglio. Resta da capire se resterà solo una sensazione momentanea o se Luigi Di Maio ha intenzione di procedere fino in fondo, ibernando un governo che è sempre più in difficoltà. Il giorno dopo le dichiarazioni di Giuseppe Conte in difesa di se stesso e del Mes (il Fondo Salva Stati), il capo politico dei 5 Stelle torna sulla vicenda con una dichiarazione via facebook. Che ottiene il pronto commento di Alessandro Di Battista, che lo segue nella linea dura: «Concordo. Non così, non conviene all’Italia. Punto». Nel post Di Maio affronta il punto che gli ha fatto più male: «Giuseppe Conte ha detto ieri, nel suo discorso alle Camere, che tutti i ministri sapevano di questo fondo. Certamente sapevamo che il Mes era arrivato ad un punto della sua riforma, ma sapevamo anche che era all’interno di un pacchetto, che prevede anche la riforma dell’unione bancaria e l’assicurazione sui depositi». Di Maio spiega che con il Fondo l’Italia «rischia di finire sotto ricatto» e che serve «tempo per fare delle modifiche». Ma soprattutto rivendica per se stesso il ruolo di ago della bilancia: «Decideremo noi come e se dovrà passare questa riforma del Mes, che è una cosa seria e su cui gli italiani debbono essere informati accuratamente». Il sottotesto, neanche tanto sotterraneo, è che Di Maio si attribuisce anche l’onere di decidere «come e se» questo governo deve andare avanti. Difficile che il Pd apprezzi di essere relegato in un ruolo passivo, come se non avesse voce in capitolo. Ma Di Maio, naturalmente, spiega che non gli interessa «la bagarre politica e le polemiche da stadio»: «Parliamo della riforma, e parliamo anche della volontà tedesca di introdurre un indice di rischio per i titoli di Stato, il che vorrebbe dire far accrescere lo spread ed infierire un colpo devastante al nostro sistema bancario». Conclusione: «Le proposte per migliorare questa riforma ci sono. Ora ci aspettiamo una revisione dei punti critici». Difficile capire quale sia l’obiettivo di Di Maio. Se abbia davvero intenzione di mandare all’aria il governo, intenzione che nega, o se la sua sia solo una posizione tattica per contrastare mediaticamente l’offensiva leghista di Matteo Salvini. Fatto sta che il comunicato di oggi non è così duro come avrebbe potuto essere. A parte la forma, Di Maio chiede un rinvio, la logica di pacchetto dei provvedimenti e modifiche all’unione bancaria. Molto meno di quello che sembrava fino a poco tempo fa e, forse, non del tutto impossibile da realizzare. Il 12 e 13 dicembre si terrà il Consiglio europeo che dovrebbe dare il via libera al Mes. Il giorno prima, però, potrebbe votarsi in Parlamento una risoluzione che rischia di trasformarsi in un momento drammatico per il governo. Sarà l’ex l’europarlamentare M5S e sottosegretario agli Affari Europei Laura Agea a scrivere la risoluzione del movimento sul Mes. E sarà sempre lei a dover trovare un’eventuale intesa col Pd per la risoluzione di maggioranza. Ma anche le posizioni dentro il Movimento sono distanti e non sarà facile trovare una quadra. Anche per questo lo stesso Conte sarebbe intenzionato a lavorare per ottenere un rinvio di almeno un mese del Mes. Prendere tempo per rasserenare gli animi. Oggi il ministro Gualtieri all’Eurogruppo verificherà se altri Paesi, a cominciare dalla Francia, sono interessati a un rinvio. Comunque vada, resterà questa drammatica spaccatura tra Di Maio e il premier, che in questa vicenda è sembrato molto più vicino alle posizioni del Partito democratico. Una difficoltà di rapporti che potrebbe avere conseguenze nei prossimi mesi.
Da ansa.it il 03 dicembre 2019. "Concordo. Così non conviene all'Italia. Punto". Lo scrive Alessandro Di Battista in un commento in cui plaude al post con cui Luigi Di Maio rilancia, via Facebook, la trincea del M5S sul Mes. "Giuseppe Conte ha detto ieri che tutti i ministri sapevano di questo fondo. Sapevamo che il Mes era arrivato ad un punto della sua riforma, ma sapevamo anche che era all'interno di un pacchetto, che prevede anche la riforma dell'unione bancaria e l'assicurazione sui deposito. Per il M5S, queste tre cose vanno insieme e non si può firmare solo una cosa alla volta". Lo scrive su Fb Luigi Di Maio.
Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 03 dicembre 2019. Alla fine, come nella filosofia dell’“eterno ritorno” cara a Nietzsche ci ritroviamo nuovamente a nominare Alessandro Di Battista, l’invisibile grillino prodigio. A prospettarne, appunto, una nuova ascensione nell’orizzonte di carta uso bollo della Casaleggio Associati, l’imminente pubblica visualizzazione come possibile salvavita per il M5S in caduta libera e presumibilmente in prospettiva rovinosa, definitiva. Indicato da molte parti come possibile sostituto-erede naturale dei cocci prodotti finora da Luigi Di Maio, il genero ideale su sfondo di una fallimentare prova di governo. In presenza di un salasso di consensi, alla fine, davanti allo spettro del baratro, proprio al nostro “Dibba” verrà presto richiesto di issarsi, convinto di sé, sugli scudi del Movimento alle prese con un’ormai evidente seconda possibilità di pubblica sopravvivenza, come in un gioco di ruoli. Torniamo dunque a parlare di lui, Di Battista, senza enfasi, attribuendogli semmai alcune misteriose qualità finora mai affiorate nel suo operato politico. Sì, stoffa degna di un predestinato ad archiviare le pretese e l’ingordigia iniziali – “l’abolizione della povertà”, metti - a favore invece di un più naturale istinto di conservazione. Detto con parole semplici: da formazione da gazebo-trampolino di governo, su suggerimento imperioso di Grillo, il tutto sembra adesso virare verso una tenda “canadese” lì unicamente a scopo di presidio, pronta a sentirsi paga di un decoroso 15%. Poco male, se è vero che Bettino Craxi, in tempi di vacche grasse, come molti ricorderanno, mai superò quel tetto, ritenendosi comunque convinto che con una simile cifra “si possono fare molte buone cose” (sic). Anche il prossimamente ripescato (dalla propria invisibilità) Di Battista potrà ora sposare le stesse esatte rassicuranti parole, utilizzando la paradigmatica scatoletta di tonno come proprio astuccio-rifugio. Magari soprattutto nel regno del Sud, dove i pentastellati, “quelli del reddito di cittadinanza”, variante post-moderna assistenziale del “Todos caballeros” pronunciato da Carlo V, sovrano di Spagna, ad Alghero nel 1541, sembrano mantenere un vantaggio elettorale, a fronte di una loro pressoché desertificazione a favore della Lega lassù al Nord. Da quali piloni e stralli dialettici, di più, da quali promesse affabulatorie ricomincerà ora a mostrarsi “Ale”? Quasi sicuramente, visto il tratto familiare del suo profilo, dai consigli ricevuti da “Dibba Senior”, come già si qualificava in una t-shirt indossata al raduno del Circo Massimo suo padre Vittorio, gagliardo fascistone di Civita Castellana che non perde occasione di suggerire soluzioni immediate al proprio campione. Non è molto, ma si tratta pur sempre di una figurina pop chiara e netta, ottima in tempi di semplificazione generale. Archiviata la ripartenza editoriale da Bibbiano, a meno che il nostro non ambisca alla fascia tricolore di primo cittadino del comune associato alla leggenda dei ladri di bambini, si tratterà di mettere innanzitutto in atto, tra talk, video privati e post sotto l’egida di Casaleggio, una possibile collezione di chiodi a quattro punte, utensili di una demagogia destinata a scontrarsi inevitabilmente con la messaggistica salviniana e il piccolo coro meloniano, e ancora presentarsi come faccina critica in nome dell’onestà, si spera, depurata infine dell’H iniziale. Di sicuro, anche questo è decisivo, il nuovo corso non potrà ripartire da Roma, acclarato che l’esperienza di Virginia Raggi in Campidoglio appare, nuovamente tornando a Nietzsche, aldilà del bene, del male e perfino del così-così. Dunque, al netto della post- politica che si nutre di semplici narrazioni, anche in questo caso, come abbiamo già rilevato circa il “cullega” Di Maio, qualsiasi nostra riflessione deve limitarsi all’umana comprensione delle ambizioni personali, in questo caso coltivate dal “giovane” Di Battista. Come fosse idealmente nostro nipote, siamo costretti a ritenere delittuoso semplicemente immaginare che la sua carriera si possa interrompere prim’ancora di un vero decollo, come accade, metti, alle promesse canore mancate o agli sportivi traditi dalla rottura di un legamento crociato: cartellini buttati al vento. Al contrario, occorre immaginarne il prosieguo ben oltre le sue vaghe competenze, assecondato da ciò che un altro pensatore direbbe “Idola tribus”, nel senso che Di Battista in ogni suo pubblico gesto rimanda a certo mondo escursionistico casual, estraneo, sì, alle competenze, ma segnato da una sorta di volontarismo da giro-faccio-vedo gente. Peccato che le autoconvocate “sardine” gli abbiano scippato anche quel genere di possibile piazza. Eppure maestrino di improvvisazione, negato di talento, talvolta perfino orgoglioso di un inesistente bagaglio culturale work in progress, perché, appunto, i “valori” è bene che siano anteposti al sapere stesso, e Alessandro Di Battista con il suo eloquio da perenne laureando in attesa di scegliere l’argomento della tesi – già, Neil Young o Noam Chomsky? - appare perfetto per avanzare, compagna e figlio al fianco, alla testa di questo genere di ipotetica comitiva elettorale. Visivamente parlando, c’è perfino da immaginarlo in una ennesima rivisitazione grafica del “Quarto Stato” di Pellizza Da Volpedo (lo stesso che nel caso della Lavazza mostra un popolo in marcia verso la “pausa caffè”, diversamente da Bertolucci che lo ha voluto nei titoli di testa di “Novecento”), non più la “canaglia pezzente” dei canti anarchici e socialisti del tempo del dipinto, ma trasfigurati in vincitori di una sorta di Erasmus politico, lui e i suoi assistenti parlamentari. Alla fine, su tutto, per lui sembrano però risultare perfette le parole che un giornalista puntuto, sempre in altri tempi, parafrasando Churchill, utilizzò a proposito di un ministro del partito del sole nascente, da noi ora modellate ulteriormente in funzione dello stile e dell’epoca del personaggio: “Arrivò una macchinetta, si aprì lo sportello, non scese nessuno: era Di Battista”.
Matteo Salvini «carica» le piazze: premier servo dei poteri forti. Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 su Corriere.it da Marco Cremonesi. Al match d’aula Matteo Salvini ci teneva. I due precedenti, quello del 20 agosto e quello del 10 settembre, non lo avevano lasciato soddisfatto. E così, quando ha avuto la certezza che Giuseppe Conte avrebbe preso la parola anche in Senato, non ha avuto esitazioni. Convinto di avere in mano delle buone carte, ha cambiato il programma europeo: a Bruxelles, invece che ieri, sarà questa mattina. Tutto l’intervento del leader leghista dalle prime parole in cui si dispiace per il premier «perché vive male chi vive di rancore, minacce e insulti» sino alle due ultimissime parole («Si vergogni») è un’unica tirata contro il presidente del Consiglio. Che ormai i leghisti chiamano, così come fa da giorni il loro capo, «il presidente bugiardo». Tanto che Salvini si è raccomandato con i suoi di guardare tutti quanti Le Iene di ieri sera che conterrebbe le prove «delle bugie di Conte non soltanto sul Mes ma anche sulla sua carriera». Un servizio del programma di Italia 1, infatti, ha diffuso una lettera d’incarico professionale del 2002 a Giuseppe Conte e all’avvocato Guido Alpa. Il premier ha sempre sostenuto che non c’era alcun collegamento, se non d’indirizzo dello studio, con il legale genovese. Che alcuni mesi più tardi fu uno dei componenti della commissione che valutò Conte per una cattedra all’università di Caserta. L’idea è quella, spiega Salvini, «di far capire agli italiani in maniera chiara che il premier mente. E in tutti i Paesi civili, quando un presidente è scoperto a mentire, poi deve dare le dimissioni». I leghisti ricordano Nixon, costretto alle dimissioni quando era stato da poco rieletto, o anche Bill Clinton «che si salvò dall’impeachment per un pugno di voti». Insomma, per Salvini è il giorno in cui inchiodare Conte. E si rivolge ai 5 Stelle quando dice che là, sui banchi del governo, c’è «qualcuno che mente». I casi, secondo Salvini, sono due: «Presidente Conte, lei o non capisce o capisce fin troppo bene. Quando il ministro Gualtieri dice in Commissione che il trattato non è emendabile, su quei banchi c’è qualcuno che mente». Per quanto lo riguarda, il leader leghista dubbi non ne ha: «Se qualcuno ha mentito, credo sia stato Conte, perché Gualtieri ancora non c’era». E dunque, Salvini esorta gli stellati: «Ho sentito che chiedete modifiche al Mes, avete riserve anche sull’Unione bancaria. Io condivido le vostre richieste. E spero che non vi renderete complici di questa menzogna che ricadrà sulle teste e sui risparmi dei cittadini italiani». Poco prima di parlare in aula aveva sottolineato con i suoi senatori che «Lega e M5S su questa vicenda hanno sempre avuto la stessa posizione. Chissà che qualcuno non se ne ricordi». Osservazione che qualcuno interpreta come segno dei «movimenti tellurici» che potrebbero spingere verso la Lega alcuni stellati insofferenti al nuovo corso. Di certo, Salvini annota che «tra poco ci sarà una riunione dei 5 stelle e un’altra del Pd. Non credo saranno rose e fiori». Quanto agli altri italiani, Salvini li informerà a modo suo: «Sabato e domenica la Lega sarà in mille piazze italiane per spiegare cosa è il Mes per raccogliere le firme contro un trattato che svende il futuro dei nostri figli». Infine, Salvini lascia il Senato e punta su Anversa: in serata partecipa a un appuntamento del Vlaams Belang, gli indipendentisti fiamminghi, “gemellati” con la Lega. «Abbiamo un premier che è servo dei poteri forti dell’Europa e nemico degli italiani», affonda Salvini. Ad attenderlo, ha trovato anche nelle fiandre le «sardine». Meno delle 6.000 annunciate: ma comunque diventate prodotto da esportazione.
Daniele Capezzone per ''la Verità'' il 2 dicembre 2019. Se Giuseppe Conte è «l' avvocato che patteggia l'ergastolo per il suo cliente» (copyright Giulio Tremonti), Giovanni Tria è il testimone che fa condannare pure l' avvocato. Ieri i due ex ministri erano ospiti di Lucia Annunziata, a Mezz' ora in più su Rai3. Ma mentre Tremonti ha giocato all' attacco, sparando a palle incatenate contro il Mes («Una galleria di orrori fabbricata da élite di tecnici e da gente interessata. Abbiamo pagato più di altri, devono smetterla») e ha invitato a fermarsi («Non firmare il Mes, ultimo di una catena di errori e orrori. Sospendere il tutto, discutere sul futuro dell' Europa. L' Europa è una casa comune, non una banca comune»), chiarendo opportunamente che «fermare la revisione del Mes non comporta niente», Tria è stato sulla difensiva per tutto il tempo, essenzialmente preoccupato di proteggere sé stesso («Non mi sento un traditore»), anche se l' ex ministro è incappato in un lapsus notevole: «Altrimenti non avrei tradito». Lapsus freudiano a parte, Tria ha cercato di rivendicare a proprio merito dei presunti miglioramenti nel negoziato («Le critiche erano condivise da tutti, ma il negoziato sul Mes ha eliminato i punti di pericolo che c' erano») al punto che, nel racconto dell' ex titolare del Mef, Conte si congratulò con Tria. Va notato che un impreciso live tweeting della trasmissione sull' account @mezzorainpiu ha sovrapposto e unito due distinte risposte di Tria, combinandole in un' unica frase mai pronunciata in questi termini dall' ex ministro, ma che a quel punto è stata ripresa da molte agenzie di stampa («Matteo Salvini all' inizio aveva ragione, ma il negoziato ha eliminato i punti su cui non era d' accordo»), quasi accreditando un coinvolgimento del leader leghista. Che invece non c' è stato, come vedremo subito. E infatti nella «testimonianza» televisiva di Tria ci sono state almeno due clamorose scivolate, che rendono ancora più difficile l' intervento di oggi di Giuseppe Conte in Parlamento. La prima, quando Tria ha testualmente detto, riferendosi a Salvini e a Luigi Di Maio: «I viceministri non erano miei viceministri ma di Conte, quindi non dovevo avvertirli io della trattativa», di fatto ammettendo di non aver informato i due leader politici sull' andamento e sull' esito del negoziato, e scaricando ogni responsabilità su Conte. La seconda scivolata si è verificata quando, imbarazzatissimo, Tria ha balbettato un «in Consiglio dei ministri non se n' è parlato perché non è quello il luogo». Anche qui, un assist involontario a Salvini e Di Maio, ma un autogol rispetto a sé stesso (e a Conte), considerando invece l' esplicita risoluzione parlamentare che vincolava il governo al momento della trattativa. Nel corso della domenica, intanto, è proseguito il tentativo - non propriamente glorioso, come vedremo - di alcune figure che si erano esposte con critiche forti verso il Mes di ricalibrare la propria posizione, per riallinearsi ai desiderata di Berlino, Parigi e Bruxelles. La correzione di tiro meno riuscita pare quella di Bankitalia, che difficilmente potrà far dimenticare l' espressione «enorme rischio» testualmente usata alcuni giorni fa dal governatore Ignazio Visco. In compenso, da Palazzo Koch si alimentano retroscena (ieri il più vistoso sulla Stampa) per mettere toppe, con virgolettati anonimi provenienti da Via Nazionale per dire che Visco «non ha mai espresso un giudizio negativo sulla riforma». Su tutto questo ha agevolmente maramaldeggiato su Twitter il corrispondente della Reuters Gavin Jones: «Che disastro! Vedo solo imbarazzanti contorsioni lessicali e di logica da parte di Visco e/o Bankitalia». E ancora, confrontando il recente discorso di Visco con le successive correzioni: «Nel discorso Visco parla in modo chiaro di una cosa chiara. Poi lui e/o Bankitalia sostiene che parlava di qualcos' altro. Imbarazzante, appunto». Ha in qualche modo tenuto il punto invece, intervistato dal Corriere della Sera, il presidente dell' Abi Antonio Patuelli, che nei giorni scorsi si era spinto a ventilare uno stop all' acquisto dei titoli di Stato italiani da parte delle banche. Pressato sui presunti benefici del fondo, Patuelli non è andato oltre un poco rassicurante: «Speriamo». E invece ha sottolineato tutti i rischi connessi alla cosiddetta «ponderazione», cioè all' introduzione di una valutazione dei rischi dei titoli di Stato («Si ritroverebbero etichettati con un livello di rischiosità»). Chi infine non ha cambiato versione, ma solo perché è da sempre allineato ai diktat Ue, è Paolo Gentiloni, che alla sua prima intervista da commissario in carica, sentito sempre dal Corriere, ha parlato come un commissario tedesco, presentando la discussione come già conclusa, e addirittura escludendo che la Commissione possa proporre un compromesso rispetto al testo attuale: «Il compromesso è stato raggiunto nel giugno scorso. E non c' è alcun motivo tecnico o politico per definire quell' intesa un rischio per l' Italia». E, per chi non avesse ancora capito, l' avvertimento finale: «Non vedo ragioni che possano spingere un singolo Paese a bloccare l' intesa».
Concita De Gregorio a PiazzaPulita: "Il Mes? Non so cosa sia", ma lo difende. Libero Quotidiano il 6 Dicembre 2019. Il Mes, questo sconosciuto. Eppure lo difendo a spada tratta. Questo, in sintesi, il pensiero espresso da Concita De Gregorio a PiazzaPulita, il programma condotto da Corrado Formigli su La7. In studio si parlava del famigerato fondo salva-Stati, il meccanismo al centro di mille polemiche e che sta minando il futuro del governo Conte, o quanto meno lo sta mettendo molto a rischio. E la firma di Repubblica, con candore, spiega: "Mes? Io ne so poco ma vorrei essere governata da persone che sanno più di me". E ancora, la De Gregorio aggiunge: "C’è bisogno di persone competenti. Non è vero che uno del popolo può andare a trattare in Europa sulle banche perché se non lo sai non lo sai fare", conclude. Insomma, la De Gregorio non sa bene cosa sia il Mes, eppure lo difende. Ma non solo: di fatto sostiene che gli unici "competenti" al governo siano, appunto, quelli che il fondo salva-Stati lo difendono.
«IL FATTO» SI INCARTA SUL MES. Da ''La Verità'' il 5 dicembre 2019. Cortocircuito ieri al Fatto Quotidiano. Per supportare Giuseppe Conte è sceso in campo Antonio Padellaro, che a pagina 3 ha difeso il Mes, ha parlato di «figura di melma» di Matteo Salvini e ha lanciato un invito al premier: «Caro presidente, si faccia un regalo e li molli lì da soli...». Tutto bene, quindi: nessuno ha negato informazioni al Parlamento, nessuno metterà a rischio i risparmi degli italiani. Peccato che basti girare la pagina per sentire tutta un' altra musica. Un'articolessa di Barbara Spinelli illustra «I rischi sui debiti e i lati oscuri del salva Stati». In un battibaleno il Mes diventa un pericolo, visto che si basa su un trattato «per alcuni versi migliorato, per altri peggiorato». La morale: neanche i più tenaci difensori di Giuseppi riescono a dargli ragione...
Barbara Spinelli per ''il Fatto Quotidiano'' il 5 dicembre 2019. Col passare dei giorni, le discussioni attorno al Meccanismo Europeo di Stabilità - alias Fondo salva-Stati - si fanno più confuse invece di chiarirsi, e i cittadini faticano a farsi un' idea sulla vera natura dell' accordo fra Stati dell' eurozona. Invece di rispondere ai molti dubbi espressi da esperti e addetti ai lavori, i principali politici e giornalisti dirottano l' attenzione sulla natura ideologica dello scontro - sovranisti contro europeisti, M5S accusato di rimpiangere la Lega - senza preoccuparsi di studiare a fondo i quesiti, di esaminare le obiezioni di merito e di leggere, almeno, il Trattato rivisto così come è stato negoziato. Trattato per alcuni versi migliorato, per altri peggiorato. Come accade sin dall' inizio della crisi greca e delle politiche di austerità, le condizioni di funzionamento del Mes vengono presentate come ineluttabili: affermazione impropria, che tra l' altro sorvola sulla necessaria ratifica finale di tutti i Parlamenti dell' area euro. Hanno contribuito alla confusione il tardivo risveglio sia di Lega sia di 5Stelle, le cui obiezioni non furono esposte all' opinione pubblica durante i negoziati, dando l' impressione di un subitaneo scontro che non riguarda il Mes, ma la sopravvivenza del governo 5Stelle-Pd-LeU. La lezione greca ha insegnato poco, e la ricetta neoliberale viene riproposta pur non avendo generato crescita né giustizia sociale. "Le cattive idee hanno una morte lenta", constata l' economista Stiglitz. Quel che in effetti colpisce è la permanenza dei vecchi parametri di stabilità. Nel Trattato vengono ribaditi, nonostante i cambiamenti promessi da alcuni governi: l' accesso ai crediti cosiddetti precauzionali presuppone tra altre pesanti condizionalità un deficit non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico sotto il 60% (allegato nr. 3 del Trattato). Andrebbe ricordato che fin dal 2001 Prodi definì "stupidi" i parametri, e nel 2013 disse al Sole 24 Ore: "Non è stupido che ci siano i parametri come punto di riferimento. È stupido che si lascino immutati 20 anni". Riassumiamo a questo punto i principali difetti elencati dagli esperti.
Quelli esposti da Ignazio Visco in prima linea, che non è ostile al Mes, ma ha indicato i pericoli legati alla ristrutturazione del debito in caso di sua acclarata o sospetta non sostenibilità (la ristrutturazione è un rinegoziato su condizioni e scadenze del debito: un' insolvenza "pilotata"). Vero è che la ristrutturazione non sarebbe automatica, ma diventa obbligatoria se il Mes giudica insostenibile un indebitamento. La sostanza non cambia molto e Visco parla addirittura di enormi rischi: "I piccoli e incerti benefici di un Meccanismo per la ristrutturazione dei debiti sovrani devono essere soppesati considerando l' enorme rischio che il semplice annuncio della sua introduzione inneschi una reazione a catena". Rischi simili sono temuti dall' Associazione bancaria (Abi), che detiene la maggior parte dei titoli di Stato. Non meno interessanti le criticità enumerate il 6 novembre - in un' audizione alla Camera - da Giampaolo Galli, vicedirettore dell' Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani. Anch' egli è contro il veto al Mes, sottolineando aspetti virtuosi come la rete di sicurezza per le banche in crisi (il cosiddetto backstop), ma non nasconde i vizi dell' impianto. Il primo concerne il passaggio dell' asse del potere economico nell' Eurozona dalla Commissione Ue al Mes, che diventa un organo con funzioni di vero sovrano e prestatore di ultima istanza. Questo spostamento, e la natura intergovernativa del Mes, eliminano ogni controllo da parte del Parlamento europeo e anche il costante coinvolgimento dei Parlamenti nazionali suggerito nel 2016 dall' Istituto Delors e dalla Fondazione Bertelsmann. Diminuisce anche, a nostro parere, la possibilità di un' intromissione della Corte europea di giustizia in politiche non più condotte in prima persona da organi comunitari (Commissione o Bce), e di cui non sarebbe semplice valutare la compatibilità con il diritto europeo e la Carta dei diritti fondamentali (compatibilità su cui la Commissione deve vegliare, secondo la sentenza Ledra della Corte). Quanto alla ristrutturazione preventiva del debito, Galli la elenca fra le criticità "preoccupanti" perché indicata come "precondizione pressoché automatica" per ottenere i finanziamenti. A suo parere, l' idea che si debba stabilire una regola che obblighi alla ristrutturazione un Paese che chiede l' accesso ai fondi del Mes e abbia un debito giudicato non sostenibile, è stata espressa ripetutamente da esponenti tedeschi (tra cui il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann). Condizionando gli aiuti a una ristrutturazione preventiva si eviterebbe quell' effetto di azzardo morale che sarebbe il motivo per cui alcuni Paesi non hanno fatto l' aggiustamento di bilancio. L' idea dunque è che prima di fare operazioni che comportino condivisione di rischi - assicurazione comune sui depositi, bilancio più forte dell' Eurozona - occorra indurre i Paesi devianti a ridurre i rischi. I prestiti precauzionali a favore dei Paesi che hanno bilanci in ordine sono facilitati, ma a tutti i costi si deve evitare il contagio da parte di paesi giudicati potenzialmente inaffidabili. Nulla è del tutto immodificabile, a dispetto di quanto detto dal ministro Gualtieri. Sarà possibile esprimere riserve, e almeno attendere risultati paralleli (Unione bancaria, assicurazioni dei depositi, fiscalità comune). È il metodo del pacchetto prospettato dal presidente del Consiglio Conte. Sarà utile cercare alleanze, e sondare anche i nuovi dirigenti socialdemocratici in Germania. Comunque si tratta di uscire da una fraseologia disorientante perché troppo contraddittoria (il Mes è un progresso ma contiene "enormi rischi"; i parametri sono "stupidi ma necessari": Prodi 2001) Dicono che sia in gioco la credibilità italiana, quando in gioco è quella dell' Unione. Come spiegò molto bene la Fondazione Heinrich Böll (rapporto di Ricardo Cabral e Viriato Soromenho-Marques, 2018) il Mes adotta il paradigma del Fondo Monetario (prestiti basati su condizionalità socialmente dirompenti). Nei negoziati del 1944, Keynes si oppose a preventive politiche di austerità per i debitori, e difese "una soluzione secondo cui il peso dell' aggiustamento doveva cadere molto più sulle nazioni creditrici con forti surplus dei conti correnti". Sconfitto Keynes prevalse la posizione Usa, primo Paese creditore. Lo stesso scenario si presenta oggi, nonostante i ripetuti fallimenti del Fmi.
Anche Tremonti boccia il Mes: "È un cappio per l'Italia". L'ex ministro dell'Economia contro il fondo salva-Stati: "È l'ultimo anello di una catena di errori ed orrori. Bisogna dire no e basta, subito". Luca Sablone, Mercoledì 04/12/2019, su Il Giornale. Mentre sul Mes il governo giallorosso si spacca, avanza sempre di più l'ombra dei pessimisti sulla riforma in questione. Giulio Tremonti ha sposato senza indugi la fazione dei contrari. Come riportato dall'edizione odierna di Libero, sul Meccanismo europeo di stabilità si è fatto un'idea abbastanza chiara e drammatica. Ascoltandolo in convegni, conversazioni private e interviste televisive appare evidente il suo disappunto. L'unica risposta accettabile che l'esecutivo targato M5S-Pd dovrebbe dare è semplice: "No!". E potrebbe essere ancora in tempo, in occasione del Consiglio europeo di Bruxelles. "No, basta così, nessuna riforma del Mes. Cari fratelli tedeschi e francesi, abbiamo finito di porgere il nostro collo alla vostra catena che ci strozza", si potrebbe affermare a gran voce.
"L'ultimo di mille errori". L'ex ministro dell'Economia ha dunque bocciato categoricamente il fondo salva-Stati: "È l'ultimo anello di una catena di errori ed orrori". A destare sospetti è il capo del Mes, il tedesco Klaus Regling: "Mi ricorda quello che diceva Ciano di Ribbentrop: ha una forma del cranio che fa male all’Italia". Perciò il responso italiano dovrebbe restare uno solo: "Dire no, e basta. Subito". Lo stesso Regling però recentemente ha tentato di tranquillizzare il nostro Paese: "Non mi aspetto che l’italia abbia bisogno di noi. Non ha mai perso l’accesso al mercato nemmeno al culmine della crisi". Ed è apparso piuttosto cuauto relativamente al nostro debito pubblico: "Non c’è un rischio immediato, il debito in rapporto al Pil è circa lo stesso di 8–10 anni fa. Il problema dell’italia è la crescita bassa, ma questo già da prima dell’unione monetaria. Il problema è il denominatore nel rapporto debito/pil". Pochi giorni fa Tremonti aveva già attaccato il governo, facendo un commento ironico sul presidente del Consiglio Giuseppe Conte: "Sta per fare l’avvocato che patteggia l’ergastolo per il cliente". E aveva invitato l'Italia a non firmare: "Sospendere il tutto, discutere su futuro Europa, rinviare discussione su futuro delle banche. L’Europa è una casa comune, non una banca comune". A suo giudizio lo stop alla revisione "non comporta niente". Perciò ha parlato molto male del Mes: "Si tratta di una galleria di orrori fabbricata da elite di tecnici e da gente interessata, abbiamo pagato più degli altri. Adesso devono smetterla".
Pier Carlo Padoan: "Il Mes? No, il problema è la proposta tedesca sui titoli di Stato italiani". Libero Quotidiano il 3 Dicembre 2019. A lanciare l'"allarme tedesco" è Pier Carlo Padoan. L'ex ministro dell'Economia, intervistato da TgCom24, parla del Mes e, di fatto, difende il meccanismo: "Le logiche di Paese purtroppo dominano su qualunque cosa riguarda l'Europa, se io dovessi concentrare lo sforzo dell'interesse italiano non lo farei sul Mes, che tutto sommato è un meccanismo che va bene", premette. Dunque, aggiunge: "Mi preoccuperei di cose che nel Mes non ci sono come la proposta tedesca di dare una valutazione diversa dei rischi dei titoli di Stato italiani rispetto a quelli della Germania nei bilanci delle banche", rimarca. Il punto, secondo Padoan è che "in questo modo si indebolirebbe molto il debito pubblico italiano mettendo in difficoltà le nostre banche. Questa è una minaccia molto più seria di quanto possa esserlo qualche aspetto tecnico del fondo salva Stati". Secondo il piddino, insomma il problema non sono tanto i tecnicismi quanto piuttosto il fatto che "bisogna evitare una malattia e questa malattia potrebbe essere accentuata da cure sbagliate come quelle sui titoli di Stato". Infine, Padoan difende Roberto Gualtieri, il ministro dell'Economia: "Non so se il governo cadrà su questo, ma vorrei chiedere a Luigi Di Maio quali sono precisamente i punti del Mes che vogliono cambiare perché fino ad ora non è emersa cosa non va bene secondo loro", conclude Padoan.
Gisella Ruccia per ilfattoquotidiano.it il 4 dicembre 2019. “L’informativa del presidente del Consiglio Conte sulla revisione del Mes? Innanzitutto, c’è un dato positivo, perché il Parlamento è tornato centrale. Come avevamo richiesto, Conte è venuto in Aula e tornerà il 10 dicembre, in vista del Consiglio Europeo del 12 e del 13 dicembre”. Sono le parole pronunciate ai microfoni di Radio Radicale dal deputato di Forza Italia, Renato Brunetta, intervistato dal giornalista Lanfranco Palazzolo. “Il 10 dicembre – puntualizza- si voterà per una risoluzione di maggioranza, auspicando che ci sia una maggioranza su questi temi. Noi di Forza Italia proporremo delle bozze di risoluzione, Lega e Fratelli d’Italia le faranno su altre posizioni. Noi siamo per la Ue, per l’euro, per il Mes, per l’unione bancaria, per il bilancio unico della Ue. Ma siamo anche per la conferenza sul futuro della Ue, affinché entro i prossimi due anni si rimetta tutto in discussione e si trovi una strategia forte di rilancio della costruzione europea. E siamo anche per risolvere le criticità che si dovessero presentare”. E aggiunge: “A parte i toni caldissimi di alcuni, abbiamo visto che le perplessità esistono, come quelle evocate qualche settimana fa da Banca d’Italia, proprio sulla costruzione del Mes. Credo che siamo ancora in tempo per discutere con mente serena di queste criticità e trovare anche delle soluzioni. Come ben sappiamo, oltre la morte, nulla è già deciso nella vita, tanto più nella vita istituzionale. Il Mes non è stato firmato, come non è stata firmata l’unione bancaria. Quindi, tutto il pacchetto economico è ancora discutibile. Tutto è ancora possibile“. Stoccata del parlamentare a Lega e Fratelli d’Italia: “Il Parlamento può avere un enorme ruolo, se lo sa prendere nel senso positivo. Pertanto, individuiamo le criticità, perché è ancora possibile porvi rimedio. E il governo può farlo certamente trattando a Bruxelles, sulla base di un mandato parlamentare che sia il più ampio possibile, il più serio possibile, il più responsabile possibile e non certamente con invettive, accuse, violenze, che, in questa fase, non solo non servono a nulla, ma fanno il gioco degli speculatori“. Brunetta si rende protagonista di un esilarante botta e risposta con Palazzolo, quando il giornalista gli chiede se sta dalla parte di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini o da quella di Giuseppe Conte. “Sto dalla parte di Brunetta che è il più bravo di tutti – risponde il deputato – Una domanda del genere al professor Brunetta non poteva che comportare una risposta simile“. “No, ma io, da alunno, mi conformo immediatamente”, replica ironicamente Palazzolo. Brunetta poi chiosa: “Il giorno chiave è il 10 dicembre, quello che dirà Conte in Aula, la proposta che farà, l’esistenza o meno di una maggioranza. Noi stiamo parlando di Lega e di Fratelli d’Italia, ma il problema di oggi è: c’è una maggioranza che approvi una risoluzione di mandato al presidente Conte per trattare, rinviare, rivalutare, migliorare quanto si sta discutendo in sede europea? Ah, a saperlo”.
Lo schiaffo della Ue a Conte: "Il testo del Mes non si tocca". Il presidente dell'Eurogruppo durissimo coi giallorossi: "Non vedo motivo per riaprire il testo. Si firma a inizio 2020". E Gentiloni rincara: "La riforma non ci penalizza". Andrea Indini, Mercoledì 04/12/2019, su Il Giornale. Giusto questa mattina, in una intervista alla Stampa, il premier Giuseppe Conte ha assicurato che il negoziato sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) "non è chiuso". "Finché non è stata apposta alcuna firma ci sono sempre margini per migliorare", ha poi aggiunto, quasi a rincuorare Luigi Di Maio. I rapporti tra i due sono ai minimi storici: il leader pentastellato non ha preso affatto bene l'informativa del presidente del Consiglio e, dopo essersene andato da Montecitorio senza nemmeno salutarlo, ha rivendicato il peso grillino in parlamento per far passare il nuovo Fondo salva-Stati. Ma la promessa dell'avvocato del popolo ("Finché non si firma tutto è in discussione") si è subito schiantata contro il muro di Bruxelles. Il presidente dell'Eurogruppo, Mario Centeno, ha messo in chiaro che non ci sono motivi per modificare il testo: "La firma sarà il prossimo anno, come previsto". "Questa firma ci impegnerà per i prossimi cinquant'anni". In mattinata Di Maio ha rilanciato dalla propria pagina Facebook la crociata contro il Fondo salva-Stati. "Finché non avremo la certezza al 200% che l'Italia sarà al sicuro, non apporrò nessuna firma". Nelle scorse ore ha ottenuto da Conte il via libera a trattare la riforma del Mes in una logica di "pacchetto" con l'unione bancaria e l'assicurazione sui depositi. Nel Partito democratico molti pensano che sia solo una tattica per attendista nella speranza che nel frattempo qualcuno ceda: l'Unione europea o i parlamentari pentastellati. La pazienza, però, non è illimitata e, dopo lo scannatoio giallorosso è stato reso pubblico, da Bruxelles e da Strasburgo sono iniziate ad arrivare le prime bordate. "Il testo sarà firmato l'anno prossimo", ha messo in chiaro il portoghese Centeno aggiungendo, in apertura dei lavori dell'Eurogruppo, che non vede "alcun motivo" per modificare la bozza della riforma. "Abbiamo preso una decisione a giugno - ha poi chiosato - ora possiamo solo affrontare questioni tecniche". L'accordo politico, insomma, è chiuso. E difficilmente il governo italiano riuscirà a cavarsene fuori indenne. Uno schiaffo in pieno viso a Conte che si era speso per garantire al parlamento italiano l'ultima parola sull'impalcatura del Mes. A dar man forte al presidente dell'Eurogruppo ci ha subito pensato il commissario europeo agli Affari Economici, Paolo Gentiloni (video). "I cambiamenti che sono stati in linea generale concordati - ha garantito - non penalizzano nessun paese, non vedo perché debbano danneggiare l'Italia". Non è, infatti, un mistero che, mentre i CInque Stelle si aspettano da Conte la determinazione per chiedere le modifiche al trattato, al Nazareno non gradiscono toni troppo aspri nel dibattito con i partner continentali. Per i dem il Mes è "un nuovo ombrello protettivo" e nella loro propaganda nascondono tutti i rischi per l'Italia. Il nuovo sistema è un grandissimo favore a Berlino e a Parigi. Non a caso, non appena è arrivato a Bruxelles, il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, ha auspicato una ratifica rapida in tutti gli Stati membri. Italia compresa, ovviamente. Nelle prossime ore le pressioni (indebite) su Conte si faranno sempre più stringenti. Il vero test, dopo l'Eurogruppo di oggi a cui ha partecipato il ministro dell'Economia Riccardo Gualtieri, sarà il Consiglio europeo che si terrà il 12 e 13 dicembre prossimi e in cui toccherà a Conte fare la propria parte. E in quell'occasione il bluff del premier sarà definitivamente smascherato.
DAGONEWS il 5 dicembre 2019. La chiave per capire il bordello del MES è una, ed è brutale: le regole comunitarie, tanto più quelle contenute nel trattato di cui si parla, si interpretano su un piano tecnico e su un piano politico. Non esiste al mondo un apparato simile all'Unione Europea, dove la componente tecnocratica è così forte e in parte slegata da un controllo politico ''di ultima istanza''. Persino negli USA, dove Trump ogni giorno si lamenta del potere del deep state, il Presidente mantiene l'ultima parola su tutto: ha potuto licenziare il capo dell'FBI, cambiare il ministro della Giustizia e far partire una contro-inchiesta sull'inchiesta (il Russiagate) che lo riguardava in prima persona, senza temere (almeno in questi casi) di infrangere i principi della Costituzione. Invece nell'attuale assetto dell'Unione Europea, una volta che i governi scelgono i commissari europei, quelli per la durata del loro mandato hanno un potere assoluto sul settore di competenza, se gli Stati membri hanno ceduto la relativa sovranità. Sulle tasse, per esempio, la Commissione ha di fatto zero poteri: al massimo può infliggere sanzioni quando un regime fiscale altera la concorrenza e diventa aiuto di Stato (vedi il caso Apple/Irlanda). Invece per quel che riguarda i bilanci pubblici, partendo da Maastricht e arrivando a Fiscal Compact e pareggio di bilancio in Costituzione, la Commissione ha l'ultima parola. E qui però arriviamo a un'impasse. Perché se è vero che i commissari non rispondono politicamente delle loro scelte (non sono eletti), la politica e il volere dei governi in quel momento entrano in gioco. Lo abbiamo visto quando Germania e Francia hanno sforato i parametri senza subire nessuna procedura d'infrazione; quando l'anno scorso il governo gialloverde è stato costretto a tagliare drasticamente le loro proposte di deficit; quando quest'estate Tria è riuscito a evitare una procedura per debito eccessivo attraverso degli stratagemmi discutibili; infine, in questi giorni: il governo giallo-rosso, avendo il favore della Commissione, ha potuto infilare nella manovra dei numeri totalmente aleatori, come quelli derivanti dal recupero (stimato) dell'evasione, senza che nessuno a Bruxelles facesse chissà che rumore. Insomma, come nelle migliori tradizioni, le regole si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici. Il Mes, che essendo solo per la zona euro non fa parte delle istituzioni principali dell'Unione Europea, è stato però costruito in modo da blindarlo totalmente dalle ingerenze degli stati membri, eppure ovviamente opera secondo le politiche che dall'Unione sono state adottate (vedi il richiamo ai parametri di Maastricht, che Prodi e molti come lui ritengono ''stupidi''). Ecco allora che un governo europeista (e soprattutto le sue banche, perché sono quelle che rischiano di averne bisogno nel futuro prossimo) potrebbe ricevere un aiuto più facilmente rispetto a un governo sovranista. È poco poetico ma comprensibile: perché i paesi dell'Area Euro dovrebbero offrire una scialuppa di salvataggio a un governo che vuole vedere affondare la baracca, cioè la moneta unica? E perché invece non impostare un sistema, vedi la Grecia, che ti rimette in riga con le cattive? In fondo ad Atene, dopo l'intervento lacrime e sangue, non c'è Alba Dorata ma un governo ''istituzionale'' che ha fatto secco pure l'ex pasionario Tsipras. È su questo che si spacca la politica italiana. Salvini e Di Maio davvero non ne sapevano una mazza del Mes fino a poche settimane fa, non era un tema che seguivano loro, troppo tecnico. A giugno, nella trattativa con Tria, c'erano Garavaglia per la Lega e Laura Castelli per il M5S. Erano loro che avrebbero dovuto sollevare eccezioni più ''pesanti'' al testo. Invece poi è caduto il governo, l'attenzione si è spostata sul Papeete e Conte, pur essendosi impegnato in Parlamento a non accettare condizioni troppo sfavorevoli all'Italia, sperava che la questione passasse liscia senza trambusto. Anche perché nel frattempo aveva cancellato il discorso in cui si era definito fieramente ''sovranista'' e aveva indossato la pochette europeista, pomiciando con Ursula e con le cancellerie comunitarie. In più, sperava di passare indenne sul tema Mes perché coincide con la famigerata manovra, e ha bisogno di tutta la benevolenza europea possibile. Invece la faccenda è stata riaccesa dalla Lega che vuole indebolire il premier e soprattutto vuole evitare che un domani (più o meno vicino), un Salvini premier si trovi con il bazookone del Mes puntato alle tempie. Il testo va ammorbidito il più possibile, e lo deve fare questo governo ''amico'' di Bruxelles, così che anche in sede di interpretazione delle regole – che nei trattati internazionali è importantissima – emerga come i lavori preparatori intendessero proteggere pure i paesi spendaccioni e indebitati come il nostro. Che farà la Francia, che domani affronta uno sciopero generale pesantissimo e dove i gilet gialli sono sempre in agguato? Non chiederà il rinvio, ma se sarà l'Italia a proporlo nell'Eurogruppo, appoggerà la proposta. D'altronde siamo in una fase economica delicatissima: la Germania è paralizzata sul piano industriale ma pure politico, con la grande coalizione che rischia di crollare dopo la sconfitta del ministro delle Finanze Scholz all'interno dell'Spd. Il 12 dicembre vota il Regno Unito, con Boris in vantaggio e lo spettro Brexit. Trump continua a fare come gli pare e ha annunciato che la guerra con la Cina potrebbe risolversi anche dopo le elezioni del 2020, quindi tra oltre un anno. Questa totale imprevedibilità politica si unisce alle borse globali che secondo gli analisti più pessimisti sono sopravvalutate del 30-35%, la disoccupazione ai minimi e una serie di bolle che non vedono l'ora di scoppiare: gli serve solo la scusa…Ovviamente la faccenda si potrebbe anche sgonfiare: c'è ancora una chance che Boris non vinca, ad esempio con un patto di desistenza tra laburisti e lib-dem, simile a quello già stretto tra Brexit party e Conservatori; Trump trovare un accordo con la Cina o continuare a convincere il mercato che sia dietro l'angolo; l'accordo sul Mes essere rimandato e ritoccato quanto basta per sgonfiare i nemici e placare gli investitori.
Marco Bresolin per “la Stampa” il 19 dicembre 2019. Chi si aspetta un ammorbidimento del Patto di Stabilità e Crescita Ue, magari con una regola ad hoc per escludere gli investimenti verdi dal deficit, rischia di rimanere seriamente deluso. Perché la strada è tutta in salita. Idem chi spera in un ulteriore rinvio della riforma del Fondo Salva-Stati (MES). Valdis Dombrovskis, vice-presidente esecutivo della Commissione europea con responsabilità su tutti i portafogli economici (compreso quello di Paolo Gentiloni), raffredda le speranze italiane e lancia un nuovo avvertimento sul debito.
Nonostante i richiami, il debito continua a salire: hanno ragione i governi che vi criticano per non aver messo l' Italia sotto procedura?
«Ci siamo andati molto vicino, due volte. Ma poi, grazie al dialogo, il precedente governo aveva adottato un significativo taglio del deficit. Già oggi, però, vediamo che l' Italia è a rischio di non conformità con le regole Ue. Sia per quest' anno che per il prossimo. Per questo chiediamo di riportare il deficit in linea con quanto previsto dal Patto di Stabilità e Crescita».
E se non succedesse? La Commissione non ha mai sanzionato i Paesi che violano le regole.
«In passato abbiamo proposto sanzioni per Paesi con alto deficit, ma poi Parlamento e Consiglio le hanno respinte».
Sta dicendo che la Commissione dovrebbe avere nuovi strumenti per intervenire con maggiore efficacia?
«Certamente sarà uno dei temi da discutere nel contesto della revisione del Two Pack e del Six Pack (i regolamenti introdotti nel Patto di Stabilità e Crescita, ndr). Al momento prevediamo una revisione non legislativa, ma lanceremo una discussione. Ci sono diverse questioni sul tavolo: gli aspetti legati al Green Deal, la semplificazione delle regole, ma anche un meccanismo rafforzato per la loro applicazione. Ci sono alcuni Stati che vogliono più flessibilità, altri che chiedono maggiore disciplina di bilancio».
Come se ne esce?
«Se ne esce soltanto trovando un accordo. Per questo dico che non si può andare ad aprire il tema delle regole di bilancio se non c'è la ragionevole possibilità di concludere il lavoro con un risultato migliore rispetto al punto di partenza».
Sembra una «mission impossible».
«Le regole di bilancio sono state introdotte e poi aggiustate, quindi in teoria non è impossibile. Ci sono alcuni elementi su cui molti Stati sembrano essere d' accordo.
Per esempio sulla necessità di abbandonare alcuni indicatori come il deficit strutturale, che è basato sull' output gap, il quale non è direttamente osservabile e difficile da spiegare. L'European Fiscal Board ha suggerito di usare il parametro della spesa e dovremmo muoverci su questa linea».
Vi ha anche suggerito di introdurre una «golden rule» per scorporare gli investimenti green dal deficit. Lo consentirete?
«Il Patto si chiama di Stabilità e Crescita perché va trovato il giusto equilibrio tra sostenibilità dei conti e crescita economica. Nella revisione dovremo tenerne conto. Perché è importante che i Paesi ad alto debito ne assicurino la riduzione».
Quindi niente «sconto» per gli investimenti green?
«Ma già oggi abbiamo una clausola di flessibilità per gli investimenti cofinanziati dall' Ue, l'abbiamo introdotta nel 2015. Si può discutere se estenderla a quelli "green", ma in ogni caso bisogna essere molto cauti sui limiti da non superare: va garantita la sostenibilità di bilancio».
Il Consiglio Europeo ha invitato l'Eurogruppo a «continuare il lavoro» sulla riforma del Fondo Salva-Stati (Mes): è un rinvio a giugno come chiede il governo italiano?
«La revisione del Mes sarà la prima riforma tangibile del nostro più ampio lavoro di riforma dell' unione economico-monetaria. Sono cautamente ottimista che nel giro di un paio di mesi si potrà chiudere questo capitolo perché i negoziati sono già in una fase avanzata. Sono emerse alcune preoccupazioni "last minute" dall' Italia e bisogna vedere come affrontarle nel modo migliore. Ma in ogni caso credo che nel giro di un paio di mesi si troverà un accordo».
La Germania ha salvato con denaro pubblico la banca NordLB, l' Italia sta per fare lo stesso con Banca Popolare di Bari: è la morte del bail-in, che invece prevede un «prezzo» per gli investitori privati?
«Il principio del bail-in è parte dell' unione bancaria e stiamo lavorando per renderlo sempre più attuabile nella pratica. Su NordLB c' è stata una decisione della nostra Concorrenza che ha giudicato il finanziamento pubblico in linea con il mercato. Sulla Popolare di Bari stiamo valutando la situazione. Abbiamo preso nota del decreto e siamo in contatto con il governo, pronti a discutere le condizioni e gli strumenti possibili nel quadro della normativa Ue».
Pasticcio Mes, il metodo offende il Parlamento. Andrea Cangini il 4 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il merito è forse discutibile, il metodo è senz’altro sbagliato. Si può essere favorevoli o contrari al nuovo Meccanismo europeo di stabilità (Mes), ma è difficile accettare che la trattativa tra il governo Conte 1 e i partner europei sia avvenuta senza coinvolgere adeguatamente il Parlamento, i media e persino l’Associazione bancaria italiana. Nessun dibattito pubblico, nessun mandato politico, nessun confronto con i diretti interessati. La riforma del fondo europeo deputato a prestare soldi agli stati in crisi arriverà nelle aule parlamentari sostanzialmente chiusa: prendere o lasciare. Un metodo non nuovo né casuale. Tutte le decisioni più importanti assunte dai governi lungo la strada tortuosa dell’Europa unita sono state prese così: «Senza che le popolazioni si accorgano di quanto sta accadendo», teorizzava già nel 1952 Jean Monnet. Il metodo funziona finché tutto va bene, ma ai primi venti di crisi ci si accorge che senza coinvolgere “le popolazioni” e responsabilizzare i parlamenti non prende vita quel sentimento di identità comune in mancanza del quale il sogno europeista delle élite è destinato a trasformarsi in incubo nella coscienza delle masse. La colpa, però, non è della cosiddetta Europa, ma della Politica. Accadde anche con il bail-in, recepito dall’Italia nel 2015. Tutti fingevano di ignorare l’incombenza di quella nuova regola europea in base alla quale se una banca fallisce a rimetterci sono correntisti, azionisti e obbligazionisti. Il Parlamento la approvò con indifferenza quasi all’unanimità senza percepirne i rischi. Li capirono quando fummo obbligati ad applicarla rettorativamente a quattro banche (Banca Marche, Etruria, Cariferrara, Carichieti) con effetti devastanti. Nel luglio 2012, con il recepimento del Fiscal compact, non andò meglio. L’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione e il piano serrato di rientro per chi ha un rapporto debito-Pil superiore al 60% furono liquidati dalla Camera con un dibattito dai tempi contingentati, Nessun giornale diede la notizia in prima pagina. L’Europa ha le sua colpe, non c’è dubbio. Ma le colpe di un’Europa tendente alla tecnocrazia riflettono le colpe di una Politica e di un sistema mediatico inclini all’irresponsabilità. La stessa irresponsabilità dei due vicepremier del Conte 1, che fingono oggi di ignorare quel che con tutta evidenza ieri ben sapevano. La stessa irresponsabilità del Conte2, che, al pari del Conte1, licenzia una manovra in deficit guardandosi bene dal dare anche solo un vago segnale di discontinuità aggredendo quello che, a torto o a ragione, viene considerato dai partner europei e dai mercati il nostro più gravoso fardello: il debito pubblico.
Silvia Pieraccini per ilsole24ore.com il 6 dicembre 2019. «La riforma del fondo salva-Stati è essenziale per il futuro dell'unione monetaria europea». Pablo Hernandez de Cos, 48 anni, governatore della Banca centrale spagnola (da giugno 2018), a Firenze per il progetto ‘Young factor' dell'Osservatorio permanente giovani-editori, ha difeso con forza la modifica del meccanismo europeo di stabilità (Mes) di fronte a 800 studenti delle scuole superiori italiane che hanno riempito il Teatro Odeon. E di fronte ai dubbi che in Italia si sono levati sulla riforma, il governatore ha tagliato corto: «Non so quali siano gli aspetti su cui alcuni in Italia non sono d'accordo, ma il dissenso non è giustificato. È una questione di solidarietà e di responsabilità. Questa riforma permetterà di migliorare la governance del fondo: dobbiamo approvarla, e poi dobbiamo portare avanti le altre riforme compresa quella fiscale per arrivare a una vera unione bancaria europea». De Cos ha cercato di convincere i giovani della necessità di «un'Authority europea che intervenga quando le banche dei vari Paesi si trovano in difficoltà», ad esempio quando hanno problemi ad emettere titoli di finanziamento: «Il meccanismo europeo in questi casi fornirà i prestiti al governo del Paese che ha queste difficoltà», ha semplificato sottolineando la necessità di essere chiari sul fronte lessicale. Salvare le banche è una terminologia sbagliata - ha detto - in realtà il Mes non salva gli azionisti della banca ma i depositi e dunque i risparmi dei cittadini: «Sono i risparmiatori che devono essere garantiti ed è quello che è successo in Spagna». Sulla crisi profonda vissuta dalla Spagna a partire dal 2012, e sul modo in cui è riuscito a risollevarsi fino a raggiungere oggi una crescita «superiore a quella italiane e superiore anche a quella media europea», il governatore si è soffermato a lungo, spiegando che il segreto è stato aver fatto riforme importanti - dal sistema pensionistico al mercato del lavoro - che però non sono ancora concluse. «Dobbiamo ancora fare riforme strutturali - ha detto riferito al proprio Paese - perché soffriamo di indebitamento, siamo poco produttivi, abbiamo ancora una forte disoccupazione. Se avessimo avuto un governo stabile - ha aggiunto - il tasso di crescita sarebbe stato più elevato. Non avere un governo stabile è un costo che avrà conseguenze negative in futuro. L'incertezza politica non fa bene all'economia e la Spagna non è un'eccezione». De Cos ha poi elogiato il programma di alfabetizzazione economico-finanziaria ‘Young factor' dell'Osservatorio permanente giovani-editori guidato da Andrea Ceccherini, così come ha fatto, aprendo l'incontro, il presidente dell'Acri Francesco Profumo: «Sono cresciuto con voi - ha detto Profumo agli studenti in sala riferendosi all'altro progetto dell'Osservatorio, il ‘Quotidiano in classe' che avvicina alla lettura dei giornali - quindici anni fa sono stato pioniere di questa avventura che coinvolge le scuole di tutto il Paese e insegna il pensiero critico e il modo per saper analizzare: continuiamo su questa strada». Continua dunque e si rinnova l'alleanza tra Osservatorio giovani-editori, Acri e fondazioni di origine bancaria per educare i giovani alla cittadinanza, che prevede anche incontri con personaggi di rilievo del sistema economico- finanziario tra cui molti governatori di banche centrali europee (Italia, Germania, Francia, Olanda, Portogallo, Austria, Belgio, oltre a quello della Bce) che si sono alternati in questi anni.
Mes, il consigliere di Emmanuel Macron lo boccia: "Meccanismo troppo rigido, non conviene". Libero Quotidiano il 6 Dicembre 2019. E' una bocciatura totale quella dell'economista ed ex consigliere di Emmanuel Macron, Shahin Vallée: "Sul Mes l'Italia ha ragione a obiettare". Attualmente passato al gruppo Soros, non esattamente un "sovranista che non studia", come lo definirebbe il premier Giuseppe Conte, sulla riforma del meccanismo di stabilità europeo dà sostanzialmente ragione a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni. "La riforma del Mes, così come è adesso, non vale la carta su cui è scritta", attacca Vallée secondo quanto riporta il Tempo. Anzi, sarebbe necessario rimandarla "e definire con la nuova Commissione Europea un testo più equilibrato e più ambizioso". Sottolineando che "un mancato accordo, a volte, è meglio di un accordo". Entrando nel merito del Mes, Vallée rileva una architettura estremamente rigida, che di fatto rende il fondo salva Stati inaccessibile a chi, in linea di massima, potrebbe averne maggiore bisogno. "La linea di credito messa a disposizione è accessibile solo dai Paesi che rispettano una serie di criteri 'ex ante' molto stringenti". Il meccanismo, infatti, presterebbe soccorso solo ai Paesi con un debito inferiore al 60 per cento del Pil. Una regola fatta apposta per la Germania, che può godere proprio di questo rapporto debito/Pil. Ma che metterebbe fuori gioco, "Francia, Italia, Spagna e persino la Finlandia". In sostanza, gli Stati più indebitati, per accedere ai fondi, dovrebbero procedere a una ristrutturazione forzosa del debito. Una rigidità che dimostra il fallimento della riforma, che era stata avviata proprio per rendere più flessibile il meccanismo di stabilità. Quindi l'Italia ha ragione. "Un criticismo costruttivo", conclude, "avrebbe come obiettivo la necessità di cambiare la governance del Mes, per porre fine alla competizione distruttiva tra il fondo e la Commissione Europea, portando il meccanismo sotto il controllo e la responsabilità del Parlamento Europeo".
Mes, Guido Crosetto e il governo omertoso: "Non solo il salva-Stati, su cosa sta discutendo ora l'Europa". Libero Quotidiano il 7 Dicembre 2019. Non bastava il Meccanismo Europeo di Stabilità a pesare sul groppone degli italiani e su un governo a dir poco traballante. Ora ci si mette pure il MFF, il "quadro finanziario pluriennale dell'UE" o, come lo definisce Guido Crosetto, gli "appostamenti di bilancio per i prossimi 7 anni". È lo stesso coordinatore nazionale di Fratelli d'Italia a denunciare l'omertà, a riguardo, giallo-rossa: "Questa mattina a Napoli, il Presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, ha lanciato una provocazione che va colta - ha inveito su Twitter. In tutta Europa stanno parlando di Mff, in Italia non una parola". Proprio così Giuseppe Conte e compagnia bella non si sono pronunciati sul Mff complici, con ogni probabilità, le terribili conseguenze (in termini di consensi) piovute dopo il Mes. Ma non è tutto perché nella giornata di giovedì 5 novembre Fanpage dava questa notizia: "Secondo il prossimo Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027, l'Italia contribuirà al bilancio dell'Unione europea con una media di 15,27 miliardi di euro all'anno. Si tratta di 0,36 miliardi in più di quanto versato nel periodo 2014-2020, in cui il nostro Paese ha contribuito con 14,91 miliardi annuali". Insomma l'ennesima proposta ammazza-Italia.
Dagospia il 9 dicembre 2019. Da “Circo Massimo - Radio Capital”. "Il Mes non è come avremmo voluto, ma è stato evitato il rischio principale, cioè l'obbligo di ristrutturazione del debito pubblico per chi ne chiedeva sostegno": lo dice Carlo Cottarelli, direttore dell'Osservatorio sui Conti Pubblici dell'Università Cattolica di Milano, in un'intervista a Circo Massimo, su Radio Capital. "Meglio andare avanti con la proposta attuale che dire non firmiamo e andare fuori dal Mes", dice l'economista, "Vorrebbe dire camminare sul filo senza rete piuttosto che con una rete diversa da quella che si vuole". E a chi dice che le modifiche al meccanismo europeo di stabilità favorirebbero le banche tedesche, ribatte: "Questa cosa è sbagliata, non si conosce la sostanza del dibattito. Un paese come la Germania, che prende a prestito soldi a tassi negativi sui mercati, non ha bisogno di andare dal Mes a prendere in prestito soldi se ci sono problemi con le sue banche. In una situazione di tensione, sarebbe l'Italia ad avere difficoltà a prendere soldi a prestito sui mercati. E i tedeschi stessi insistevano perché anche ai prestiti fatti dal Mes per sostenere le banche ci fosse condizionalità. Non volevano che quello fosse un sentiero agevolato". Il dibattito sulla manovra, intanto, verte soprattutto sulle microtasse: "Si discute e si minaccia di far cadere il governo per cose piccole: la plastic tax originariamente doveva rendere 1 miliardo, quella sullo zucchero 200 milioni, su 750 miliardi di entrate da tasse e tributi pagati. E lo stesso l'Imu sulle finte prime case: sarebbero 200 milioni", sottolinea Cottarelli, "Ci si vuole fare vedere come quello che evita le ingiustizie, e la gente spesso non sa che si parla di queste cifre. Non si può far cadere un governo per cose di questo genere, sarebbe assurdo".
Amedeo La Mattina per “la Stampa” il 9 dicembre 2019. Giorgia Meloni propone a Salvini e Berlusconi di presentare una risoluzione parlamentare che impegni il governo a non sottoscrivere la riforma del Mes. L'appuntamento è previsto per mercoledì prossimo al Senato quando in Aula la maggioranza giallo-rossa presenterà la sua risoluzione a favore del meccanismo salva-Stati.
Onorevole Meloni, il ministro dell'Economia Gualtieri accusa lei e Salvini di fare del terrorismo sul Mes a scopi elettorali. Chi si candida a governare non dovrebbe essere più prudente?
«Io sono sempre stata prudentissima ma mi aspetto che qualcuno risponda alle mie osservazioni senza dire che siamo terroristi e nazionalisti che portano alla guerra. È vero o non è vero che con la riforma il Mes diventa sempre più un fondo salva-banche, e che le banche oggi più in difficoltà sono quelle tedesche, le più esposte sui derivati? È vero o no che chi accede a fondo potrebbe essere costretto a ristrutturare il suo debito? È vero o no che questa ipotesi potrebbe rendere meno appetibili i titoli di Stato italiani? Ecco, domani (oggi per chi legge, ndr) sarò a Bruxelles con tutti i parlamentari di Fdi per dire che non siamo disposti a farci prendere in giro».
Il premier Conte ha detto che si meraviglia di lei che si applica mentre Salvini parla senza studiare i dossier.
«Appunto, io studio le carte e so quel dico, ma il premier dovrebbe stupirsi di quel signore che aveva accanto, Di Maio: anche lui ha sollevato molti dubbi sul Mes. Voglio ricordare che i 5 Stelle nel loro programma elettorale del 2018 sostenevano il superamento del fondo salva-Stati, quello originario. Ora invece stanno votando la riforma del Mes».
È possibile che mercoledì una parte dei senatori 5 Stelle votino contro la risoluzione della maggioranza?
«Noi presentiamo la nostra risoluzione ma propongo ai gruppi di Lega e Fi di presentarne una comune del per impegnare il governo a non firmare la riforma del Mes. Confido che molti grillini la votino. Spero che ci sia ancora qualcuno nei 5 Stelle disponibile a non svendere tutto quello che ha detto per anni e si ribelli».
Sarebbe la crisi di governo. Il centrodestra è pronto a governare? Ha programmi e squadra?
«Il programma lo avevamo già scritto per buona parte nel 2018. Certo, va aggiornato ma sulle grandi questioni siamo d'accordo. Tra di noi c'è una compatibilità di base, una visione comune, sicuramente maggiore a quella della vecchia maggioranza M5S-Lega e dell'attuale. Sulla squadra, ognuno sta lavorando alla sua».
Con voi al governo è esclusa l'uscita dall' Europa?
«Non abbiamo mai proposto l'uscita unilaterale dall'euro ma non penso che per stare in Europa si possa accettare tutto quello che fa male all'Italia. Vanno valutati vantaggi e svantaggi. Alcuni Paesi, come la Germania, si sono avvantaggiati, altri, come l'Italia, si sono impoveriti. Sono necessarie compensazioni: sulle infrastrutture, per esempio, con finanziamenti europei».
Fdi nei sondaggi supera il 10%. Come spiega questa crescita degli ultimi mesi?
«In un mondo in cui tutti sembrano foglie al vento, Fratelli d'Italia è un albero con radici forti, saldo a terra. È un partito affidabile. Per tanti anni abbiamo ballato sulla soglia del 4%, ma quando cresci nessuno pensa che il suo voto sia inutile e ininfluente».
Con queste percentuali non le converrebbe una riforma elettorale proporzionale?
«Converrebbe a me ma non all'Italia. Ripeto, voglio un governo stabile per 5 anni. Per questo preferisco una legge elettorale maggioritaria, che abbia comunque un premio di maggioranza».
Che ne pensa dell'incontro tra Renzi e Salvini? Crede a un accordo per far vincere a Renzi in Toscana in cambio della crisi di governo?
«Impossibile che noi, come centrodestra, possiamo mai fare accordi a perdere sulla pelle dei toscani. In Toscana lavoriamo per vincere e battere il candidato renziano».
L'Espresso pubblica un servizio sulle lobby che finanziano il suo partito.
«Voglio ringrazia sinceramente l' Espresso per avere fatto un' inchiesta per dimostrare che Fdi è un partito che ha tutte le carte in regola. Sono molto fiera di me e per il mio partito. È quindi giusto dedicarci la copertina».
Mes, Claudio Borghi contro Roberto Gualtieri: "Anche il sito del Mes ha smentito le sue balle". Libero Quotidiano il 10 Dicembre 2019. "Abbiamo ottenuto una cosa importante" festeggiava il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri al termine della riunione dell'Eurogruppo sulla questione più spinosa per il governo giallo-rosso: il Mes. Quello che tanto andava dichiarando come una sua conquista, ossia "la possibilità di una sub-aggregazione dei titoli", in realtà è stata smentita. A rivelare la verità sulle Cacs, le clausole di azione collettiva, è Claudio Borghi. L'economista della Lega ha chiarito quanto sarebbe successo, con tanto di documento allegato: "Il sito del MES prima toglie la pagina dove dice che le CACS servono per la ristrutturazione del debito - ha cinguettato - poi la rimette per smentire le balle di Gualtieri che faceva passare la possibilità di subaggregazione come una sua grande conquista! Non cambia nulla!!!". Non cambia nulla no e lo si legge chiaro e tondo nell'allegato a firma Ue. Nel nuovo trattato Mes è stata inserita una modifica di sostanza alle Cacs, per cui a decidere la ristrutturazione del debito è previsto un singolo voto. Una clausola che all'Italia non va giù e che Gualtieri vorrebbe sostituire con un doppio voto per il quale prima serve il parere della maggioranza di tutti i possessori dei titoli, e poi quello dei possessori delle singole emissioni. Il motivo per cui tutto questo preoccupa è semplice: la modifica rende la ristrutturazione del debito (le condizioni originarie di un prestito vengono cambiate) più semplice e la concessione all'Ue di fare dei nostri titoli di Stato ciò che vuole. No ma è FANTASTICO!!! Il sito del MES prima toglie la pagina dove dice che le CACS servono per la ristrutturazione del debito, poi la rimette per SMENTIRE le balle di Gualtieri che faceva passare la possibilità di subaggregazione come una sua grande conquista! Non cambia nulla!!!
Attenti al Mes. Perché il Fondo Salva Stati è un rischio per i nostri risparmi che, stando alla Costituzione, andrebbero invece tutelati. Maurizio Belpietro il 9 dicembre 2019 su Panorama. Con molta ironia Indro Montanelli raccontò di un politico che descrisse la Costituzione come se fosse una bottiglia di Barolo: più invecchia e più migliora. Roberto Benigni, invece la definì la più bella del mondo, salvo poi convertirsi alla riforma di Matteo Renzi che la voleva cambiare. Tra una bottiglia di Barolo e una battuta di Benigni ho però la sensazione che pochi la conoscano e quasi nessuno sia disposto ad applicarla. Quanto meno in alcune sue parti. Prendete per esempio l’articolo 47, quello in cui la carta si occupa del risparmio. «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme», recita il primo comma. E il secondo aggiunge: «Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese». Vi pare che il primo e secondo paragrafo siano stati rispettati e applicati? A me pare di no. Basta ricordarsi quanto è accaduto nel 2015 con le banche in difficoltà. Invece di tutelare il risparmio di migliaia di pensionati e investitori, il governo dell’epoca, dopo aver anticipato una riforma europea, cancellò azioni e obbligazioni degli istituti, scaricando i costi del crac su inconsapevoli e incolpevoli risparmiatori e lasciandoli con in mano un pugno di mosche. Non ci fu nessuna tutela del risparmio, nessun controllo su consigli di amministrazione in evidente conflitto d’interessi, nessuna azione preventiva per impedire che le banche dilapidassero il patrimonio dei clienti. Oltre a non aver difeso il risparmio, non c’è poi stata neppure una stretta per punire chi avesse danneggiato i risparmiatori, con il risultato che tutti o quasi i banchieri responsabili dei crac non pagheranno per ciò che hanno provocato. Se ricordo fatti che Panorama ha raccontato con inchieste dettagliate non è per rinfrescare la memoria ai lettori, ma per avvisare che la storia potrebbe ripetersi e ancora una volta a pagare potrebbero essere quegli italiani che producono ricchezza per sé o per i loro figli. Immagino che molti abbiano sentito parlare del Mes. Nonostante il nome non sia accattivante e la materia un po’ ostica, il Meccanismo europeo di stabilità ci riguarda da vicino e la sua approvazione dovrebbe richiedere da parte di tutti un supplemento di attenzione. Non è con i grandi discorsi sull’ambiente o su Venezia fatti da Ursula von der Leyen che si cambia l’Europa: è con i trattati che regolano le materie economiche. Da Maastricht in poi, credo che tutti abbiano capito che un parametro è per sempre e costa più di un diamante. Dunque, il Mes rischia di costarci una montagna di soldi, quelli che gli italiani hanno messo da parte per il loro futuro. Tra i primi a lanciare l’allarme è stato proprio un banchiere, anzi: il capo dei banchieri, cioè Antonio Patuelli, che senza giri di parole ha fatto capire che la riforma studiata a Bruxelles rischia di essere per il nostro Paese un autentico disastro. E, con toni più felpati, gli stessi concetti sono stati ribaditi anche dal governatore di via Nazionale, Ignazio Visco. Un’analisi più o meno simile l’hanno fatta anche gli esperti della Luiss, l’università di Confindustria. Ma che cos’è che allarma tanto banchieri, imprenditori e professori e non sembra scuotere la politica che deve prendere decisioni? Il fatto che il Meccanismo europeo di stabilità, ossia quello che in maniera colorita noi giornalisti chiamiamo il fondo Salva Stati, cambierà le sue regole. Si spenderà di più, cioè a noi italiani costerà il doppio di ciò che ci costò salvare la Grecia, e dunque dovremo indebitarci di più, perché se facciamo fatica a trovare 10 miliardi per le pensioni è evidente che sarà ancor più difficile trovarne 100 da versare nel salvadanaio europeo. Ma oltre a questo aspetto, la cosa più inquietante è che a usufruire di quei soldi potranno essere solo i Paesi con un rapporto debito/Pil sotto il 60 per cento, cioè non noi. In pratica, pagheremo, ma già sapendo di non avere alcun beneficio a meno che quegli Stati con i conti in disordine non si rassegnino a lasciare ad altri le decisioni sulla ristrutturazione del proprio debito. Non è finita: il Mes potrà servire anche per aiutare qualche Paese che debba fare i conti con le crisi bancarie. Fuori dal linguaggio arido dei numeri e dei commi, significa due cose. La prima è che nel caso avessimo bisogno di quei soldi sarebbero altri, Francia e Germania, a dettare le regole e nel nostro caso potrebbero spingere l’Europa a costringerci a interventi come quelli visti in Grecia, ossia tagli alle pensioni, imposta di successione e tassa patrimoniale. La seconda è che il Mes servirà a salvare le banche tedesche, che come tutti sanno sono sull’orlo del crac. La Germania ha un rapporto debito/Pil sotto il 60 per cento e un paio di bombe a orologeria nel suo sistema del credito, dunque il nuovo regolamento del Mes sembra scritto apposta per evitare che scoppino. In pratica, si ripeterebbe quanto è accaduto in Grecia, quando l’Italia fu chiamata a pagare 63 miliardi per salvare Atene, o meglio le banche tedesche e francesi che avevano investito in quel Paese e che in caso di default sarebbero state trascinate nel fallimento. Tutti sanno che l’Italia rappresenta una grande anomalia, perché ha il più grande debito pubblico dell’area euro, ma allo stesso tempo tutti, in particolare Francia e Germania, sono a conoscenza che il nostro Paese ha la più grande ricchezza privata che ci sia in Europa. Il risparmio, quello tutelato dall’articolo 47. Ecco, questo è il punto. Qualcuno ci ha messo gli occhi e qualcun altro ci vorrebbe mettere le mani. Ora capite perché questa faccenda del Mes non è solo cosa per gli addetti ai lavori?
Mes, Antonio Patuelli a Senaldi: "Italia, difenditi. L'Europa maltratta le nostre banche". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 10 Dicembre 2019. «Bisogna avere il coraggio di ricordarlo: le banche italiane sono state maltrattate in Europa, non in termini generali ma dalla Commissione Ue. Io sono uno dei promotori dell' impugnativa per la gestione del caso Tercas, la prima crisi di un nostro istituto di credito, dalla quale sono derivate tutte quelle successive, Ferrara ed Etruria comprese. La Commissaria alla Concorrenza, la signora Margrethe Vestager, si oppose al salvataggio della banca da parte del Fondo interbancario di tutela dei depositi, giudicandolo aiuto di Stato, ma il 19 marzo scorso il Tribunale Ue che ha sede a Lussemburgo ha accolto il nostro ricorso, sostenendo che la signora aveva torto. Mi sono molto stupito quando, a maggio, la Commissione ha impugnato la sentenza e confido che in sede d' Appello la decisione a noi favorevole sia confermata, altrimenti dovremmo dedurre che in Europa ci sono due pesi e due misure, a seconda della nazionalità degli istituti di credito esaminati».
Allude al fatto che proprio la settimana scorsa l' Europa, con la Vestager confermata alla Concorrenza, non ha giudicato aiuti di Stato i 3,6 miliardi stanziati da due Lander tedeschi per evitare il fallimento della banca Nord Landesbank?
«Non entro in polemica. È un fatto però che Moody' s ha promosso le banche italiane».
Ritiene che la prossima crisi arriverà dalla Germania?
«Spero che non arrivi da nessuna parte. Quanto alle agenzie di rating, esse giungono sempre in ritardo. Quando Lehmann fallì, loro la consideravano ancora una banca sicura. Però attenzione, il rallentamento industriale della Germania è per noi una pessima notizia, perché la nostra economia è interconnessa a quella tedesca in modo importante.
Se vanno male loro, noi non riusciamo ad andare bene».
Per questo nel 2011 le nostre banche si sono tassate per salvare quelle tedesche, imprudentemente troppo esposte con la Grecia?
«Fu una decisione europea. Certo, la Repubblica italiana fu molto generosa e questo in giro per l' Europa spesso non lo vogliono ricordare».
I nostri istituti erano esposti per il 5% dei debiti di Atene ma ne sanammo il 18
«Quel grande sacrificio ci ha procurato molti problemi, ma la Ue lo vede come un episodio, non gli dà il corretto valore, come io invece auspicherei».
Ma come stanno i nostri istituti?
«Non dispongo dei dati sui flussi singoli di Vigilanza. Il valore dell' aggregato dimostra che il settore ha fatto grandi progressi. Poi certo, c' è chi va bene e chi va male».
Antonio Patuelli è difensore di lungo corso del credito italiano. Un combattente romagnolo che non ha avuto paura di denunciare un paio di settimane fa sui giornali i pericoli connessi al fondo Salva-Stati. Arrivò fino a minacciare di smettere di comprare titoli di Stato, se si fosse penalizzato il debito pubblico. «Mi sono allarmato quando ho scoperto che gli Stati nordici volevano far seguire al Mes la valutazione della rischiosità dei titoli di Stato degli Stati membri nella valutazione della solidità dei sistemi. Avrebbe ridimensionato il valore dei nostri istituti, costringendoli a forti ricapitalizzazioni, e sarebbe stata una leva automatica per lo spread». Oggi il presidente dell' Abi è un po' più tranquillo, perché la ponderazione dei titoli di Stato non è entrata nell' accordo, ma soprattutto per lo scenario mutato. «Ho fatto bene a tracciare la linea del Piave», commenta soddisfatto, «ora il commissario Gentiloni, che io reputo un combattente, deve schierarsi in trincea e difenderla. Non deve fare come la Mogherini, che se ne è appena andata senza che nessuno in Italia sentisse il bisogno di ringraziarla per come ha svolto il suo mandato».
Presidente, in Europa ci hanno provato ancora una volta a giocarci un tiro mancino?
«L' Europa si muove in un quadro di grande incertezza. Manca una Costituzione che dia dei principi e delle norme inderogabili a tutela di tutti. E pertanto ogni trattato diventa una singola negoziazione che può nascondere dei pericoli, perché ogni volta si riparte da zero nel gioco delle reciproche garanzie».
Qual è il pericolo insito nel Mes?
«Il fatto che il Mes sia basato su un accordo intergovernativo e non trovi origine nella legislazione europea e pertanto con un ridotto ruolo del Parlamento europeo».
Quindi c' è un deficit democratico, visto che i Paesi hanno diritto di veto ma possono anche essere messi nelle condizioni di non potersi permettere di esprimerlo?
«Finché non ci sarà una Costituzione, una cornice giuridica ai trattati, l' Europa resterà sempre un posto dove vige anche la regola del più forte. L' Italia non è storicamente un Paese prepotente, in più abbiamo un enorme debito pubblico. Le regole, lo Stato di diritto, ci convengono».
Sta descrivendo i negoziati Ue come una discussione da Far West?
«In Europa oggi devi difenderti, e a volte non ce la fai. Per questo ho alzato la voce».
Le quattro banche italiane fallite, Etruria, Marche, Chieti e Ferrara, andarono a gambe all' aria perché il governo di Renzi non riuscì a difenderle?
«L' Unione europea impedì l' intervento del fondo interbancario che le avrebbe salvate e questo diede luogo a una crisi molto più ampia, che ci costò molto di più e fece pagare retroattivamente il conto anche ai piccoli risparmiatori che avevano investito in obbligazioni subordinate. In altre circostanze e altri Paesi questo diniego non scattò o non sarebbe scattato».
Ma la famosa unione bancaria, entrata in funzione nel 2014, non avrebbe dovuto salvare le quattro banche?
«L' unione bancaria è in funzione solo parzialmente, nei suoi compiti di vigilanza. Le decisioni relative alle garanzie della Ue sui depositi però non sono mai state attuate, perché c' è chi teme di pagare i nostri debiti. C' è una grande contraddizione: abbiamo una vigilanza unica ma sono rimaste diverse le normative nazionali di diritto bancario e le leggi penali che regolano la finanza. Ma se un' operazione è vietata in uno Stato e permessa in un altro, i soldi si spostano nel Paese più attrattivo, lasciando in povertà quello più rigoroso. Senza un' omogeneizzazione giuridica che tuteli tutti allo stesso modo non ci sarà mai una vera Europa».
Quanto è vero che i tedeschi puntano i risparmi degli italiani, che singolarmente sono più ricchi di loro, per costringerci a sanare il nostro debito pubblico e i loro debiti bancari con una maxi-patrimoniale?
«Noi italiani siamo culturalmente fermi all' epoca romana, ci illudiamo di essere ancora il centro del mondo. Gli altri però ci vedono per quel che siamo realmente, una lunga propaggine meridionale dell' Europa, che ha il suo centro sul Reno, tra Francia e Germania, e che ora con l' allargamento a est sta ancora cambiando geografia».
Quindi?
«Quindi dobbiamo cominciare a pensare a tirarci fuori dai guai da soli. Il debito pubblico sale ininterrottamente da 52 anni, chiunque governi, e questo malgrado l' euro garantisca tassi d' interesse bassi. Bisogna assolutamente fermarne l' aumento, perché esso impedisce gli investimenti di cui avremmo bisogno ed è il vero freno alla crescita e alla ripresa. In una fase di stagnazione come quella attuale gli investimenti pubblici sono una delle leve principali dell' economia».
Colpa della politica se il debito corre?
«Insegue il consenso e non prende decisioni strutturali importanti, dimenticando che per non perdere i voti conquistati non bisogna pensare solo alla scadenza elettorale più imminente, altrimenti le crescite sono volatili. Ne abbiamo già tanti esempi. Altrettanto nocivo è che la politica si dilani in reciproche delegittimazioni anziché favorire un clima di fiducia nel Paese».
I soldi però in Italia ci sarebbero. Abbiamo 1.700 miliardi fermi sui conti correnti: perché?
«Sono tutti quattrini pronti per essere investiti. Un tempo i privati li avrebbero utilizzati per comprare Bot, ma visto che oggi i titoli di Stato non rendono nulla o quasi, la gente preferisce restare liquida e non correre neppure i rischi minimi. Tutti restano guardinghi perché non c' è certezza sul futuro politico, normativo, giudiziario».
Perché non siamo ancora usciti dalla crisi dopo oltre dieci anni?
«Perché l' Europa non ha avuto una reazione unitaria e non è arrivato un piano Marshall da fuori, visto che la crisi, giunta dagli Usa, ha portato l' America a chiudersi in se stessa, atteggiamento che è durato anche dopo che ne è uscita. Trump oggi lo sta estremizzando, ma non l' ha iniziato lui». Pietro Senaldi
M5S: accordo chiuso sul Mes, ci sarà un nuovo confronto a gennaio. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 da Corriere.it. La notte ha portato consiglio e una soluzione. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte può presentarsi in Parlamento per il voto sulla risoluzione riguardante la riforma del Mes con l’animo più tranquillo. «Soddisfatti per la risoluzione di maggioranza che prevede le modifiche richieste dal Movimento». Lo si apprende da fonti M5S che precisano inoltre che «la logica di pacchetto è stata confermata, ci sarà un nuovo round in parlamento a gennaio, prima del prossimo Eurogruppo». Le stesse fonti garantiscono che «ci sarà il pieno coinvolgimento del Parlamento prima dei prossimi passi sul Mes. Ogni decisione verrà presa ascoltando le Camere, non firmeremo nulla al buio». Immediata la reazione della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. «Il M5s ha fatto finta di ottenere qualcosa prima di cedere anche su questo. Ha ragione Paragone, il programma M5S prevedeva l’abolizione del Mes». Così a Radio anch’io su Radio Rai1. «Il problema della logica di pacchetto è che sappiamo cosa firmiamo sul salva Stati ma non abbiamo il testo sui depositi bancari», rimarca.
Mes: quanti soldi ci ha messo l'Italia. Nel baillame di voci sui capitali che abbiamo versato al fondo salva-Stati, Panorama è andato a cercare le fonti ufficiali sui versamenti dei 19 Stati membri. E ha scoperto che...Elisabetta Burba il 3 dicembre 2019 su Panorama. «Il Mes dà i soldi degli italiani a Francia e Germania». «L'Italia ha versato al Mes 60 miliardi di euro». «Abbiamo pagato più degli altri». «120 miliardi degli italiani per salvare le banche tedesche». Sul Mes, il fondo salva-Stati sulla cui riforma si sta accapigliando la politica italiana, sono circolate le voci più disparate. Per cercare di fare chiarezza su chi ha versato cosa (e su chi salva cosa), Panorama è andato a cercare le fonti ufficiali. E sul sito dello European Stability Mechanism ha trovato l'elenco dei capitali versati (e di quelli sottoscritti) dai 19 Stati membri all'organizzazione internazionale, attiva dal luglio 2012, che ha il compito di raccogliere fondi e sostenere i Paesi dell'area euro in caso di gravi difficoltà finanziarie. Anzitutto, i soldi versati da Roma al Meccanismo europeo di stabilità sono poco più di 14 miliardi di euro (14.330.960.000 per la precisione), pari al 17,7839 per cento del totale di 80 e passa miliardi di euro (80.482.960.000 per la precisione). Questi 80 miliardi sono i capitali versati, cioè i finanziamenti effettivamente erogati da Roma al Mes che, sorto nel 2012 sul modello del Fondo monetario internazionale, rappresenta il primo tentativo organico di dotare l’eurozona di un meccanismo per affrontare le crisi. Altro discorso sono i capitali sottoscritti, che complessivamente assommano a oltre 704 miliardi di euro. Un'ingente cifra che non è mai stata versata, né dall'Italia né da nessun altro Paese membro. Ma, come si legge in un documento del Parlamento europeo intitolato «The European Stability Mechanism: Main Features, Instruments and Accountability», quella cifra sottoscritta può essere «richiamata in qualsiasi momento, in caso di bisogno». Dei 704 miliardi di euro, la quota assegnata al nostro Paese supera i 125 miliardi di euro (125.340.600.000, per la precisione). Sotto il profilo della stretta operatività, il Mes può «solo» contare sul capitale effettivamente versato. «Come per tutto il meccanismo europeo, anche per il Mes gli Stati membri contribuiscono con proporzionalità, in funzione della loro scala economica e demografica» spiega a Panorama Carlo Pelanda, docente di Economia all'Università Marconi di Roma. La Germania è il primo contributore netto, con quasi 22 miliardi di euro di capitale versato (quasi il 27 per cento del totale), seguita dalla Francia (quasi 20,3 per cento). Con i suoi 14 e passa miliardi, il nostro Paese si trova dunque al terzo posto nella classifica dei 19 Paesi membri. Ma è vero che il potere decisionale è in mano a Germania e Francia perché sono quelle che hanno messo più soldi? «Il Mes non è un organo comunitario, è un'organizzazione intergovernativa» risponde Pelanda. «Il punto di sostanza è che negli organismi comunitari ci sono forti principi di tutela degli Stati membri, nelle organizzazioni intergovernative sono invece meno forti. Ne deriva che, come per tutti i meccanismi intergovernativi, per il Mes valgono di più i rapporti di forza, a differenza dei meccanismi comunitari, dove valgono di più i rapporti di diritti». Pelanda, che pur non definendosi euroscettico è molto critico verso il Mes, sottolinea un aspetto controverso. «Una delle condizioni per le erogazioni agli Stati da parte del Mes è che siano in regola con i parametri europei» spiega. «Poiché l'Italia non lo è, il paradosso è che potrebbe non accedere al prestiti. Certo, parliamo di scenari eventuali. E qui scatta l'ipotesi di violazione dell'articolo 47 della Costituzione, che tutela il risparmio in tutte le sue forme, e dell'articolo 11, secondo il quale l’Italia può cedere sovranità solo alla condizione di parità con altri Stati». Ma queste obiezioni non dovevano essere sollevate già nel giugno 2018? «Ah... Questo non lo dica a me: io queste cose le dico da tempo. Lo chieda ai nostri politici» è la tagliente risposta di Pelanda. Ancora più provocatoria l'ultima osservazione: «Ma più che parlare del Mes, noi italiani dovremmo parlare del fatto che non siamo capaci di ridurre il debito pubblico, pur avendo un patrimonio pubblico nazionale e locale, fatto di immobili, concessioni e partecipazioni, che io stimo fra i 700 e gli 800 miliardi di euro».
Gli stipendi d'oro dei membri del Mes. I membri che gestiscono il Mes si suddividono stipendi, al netto di benefit, di tutto rispetto. Il numero uno percepisce 324 mila euro lordi all'anno. Federico Giuliani, Mercoledì 04/12/2019 su Il Giornale. In questi giorni tanto si è parlato della riforma del Mes, del suo funzionamento e degli enormi rischi nascosti in una modifica potenzialmente letale per i Paesi dell'Eurozona ad alto debito, Italia compresa. Eppure, oltre allo spauracchio della ristrutturazione del debito e della beffa confezionata da Bruxelles ai danni del nostro Paese, chiamato a contribuire per un Fondo che non potrà mai utilizzare, ci sono altri dati che lasciano esterrefatti. Insomma, fin qui abbiamo guardato il dito ma non la luna. Il Mes, infatti, è gestito da un Consiglio di governatori formato dai vari ministri finanziari dell'area euro, ma anche da un Consiglio di amministrazione (nominato dallo stesso Consiglio dei governatori) e da un direttore generale con diritto di voto, oltre che dal commissario Ue agli Affari economico-monetari e dal presidente della Bce nelle vesti di osservatori.
Stipendi d'oro e immunità. In base a questo, l'articolo 35 del Mes prevede l'immunità penale, civile e amministrativa per tutti i componenti dell'organismo. Il numero 32, invece, concede la medesima immunità al patrimonio e ai beni. Proseguendo, notiamo come l'Italia, terzo contribuente del Meccanismo europeo di stabilità dietro a Germania e Francia, abbia già versato alla causa del Fondo salva-Stati la bellezza di 14,3 miliardi di euro. Attenzione però, perché il nostro Paese ha sottoscritto il versamento di altri 125,4 miliardi. Altri soldi, dunque, chiamati a prendere la via di Bruxelles. C'è poi da aprire una bella parentesi sui costi riguardanti gli stipendi del Mes. In altre parole: quanto guadagnano i membri del Fondo salva-Stati? Come fa notare il quotidiano Il Tempo, al 31/12/2018, le 179 persone del Fondo si suddividono stipendi, al netto di benefit, di tutto rispetto. Il numero uno percepisce 324 mila euro lordi all'anno mentre la Cancelliera Merkel 190 mila. Il personale con funzioni direttive intasca una somma che oscilla tra i 64 e i 167 mila euro. Arriviamo infine agli assistenti e al personale ausiliario, che possono mettersi in tasca un compenso che va dai 22 mila ai 72 mila euro. In altre parole, ben 8 dei 19 Paesi membri dell'Eurozona dovranno sborsare ingenti quantità di denaro per rifocillare le casse di un fondo senza trarne alcun beneficio. Già, perché Stati come l'Italia, dotati di un debito pubblico troppo alto, in caso di bisogno non potranno appigliarsi al Meccanismo economico di stabilità, che pure contribuiscono a mantenere in piedi. Non solo, questi governi dovranno pure contribuire per pagare lauti stipendi a una vasta schiera di personaggi più o meno conosciuti. E tutto, come detto, senza ottenere niente in cambio.
Così il Mes ha spaccato il Movimento 5 Stelle. Federico Giuliani su it.insideover.com il 12 dicembre 2019. Un’enorme crepa è apparsa sul logo del Movimento 5 Stelle. A differenza del passato, quando varie scaramucce avevano alimentato tensioni in seno al partito, adesso la situazione è decisamente più seria, se non altro perché ci sono in ballo questioni di fondamentale importanza come la tenuta del governo giallorosso e il futuro dell’Europa. Già, perché ieri la creatura di Beppe Grillo è riuscita a sfuggire alla logica per la quale era stata creata (cioè combattere contro i “poteri forti”) abbracciando al tempo stesso proprio quelli che avrebbero dovuto essere i suoi nemici numero uno: i tecnocrati di Bruxelles. Certo, non tutti i grillini sono stati ipnotizzati dal premier Giuseppe Conte, che in occasione delle comunicazioni sul Mes ai due rami del Parlamento ha usato l’ennesimo gioco di prestigio per incantare la platea eludendo i punti più caldi all’ordine del giorno. Eppure la maggior parte dei pentastellati ha abboccato all’amo preparato da Giuseppi, distruggendo in un colpo solo l’immagine anti sistema che in tanti anni si era costruita il Movimento 5 Stelle.
Il tradimento dei grillini. In base a quanto accaduto, tre sono le riflessioni da fare sul Movimento 5 Stelle. La prima: il partito di Grillo ha tradito per l’ennesima volta il suo elettorato, consegnando l’Italia alla mercé di Bruxelles, tanto bistrattata dagli stessi grillini in campagna elettorale (e non solo). La seconda: la quasi totalità dei pentastellati ha dimostrato di apprezzare la comodità dei delle poltrone che contano, sbugiardando la narrazione dei grillini lontani dalle “logiche del palazzo”. La terza: all’interno del partito si sta consumando una spaccatura ben visibile anche dall’esterno. La prova del nove sul Mes di ieri ha soltanto accelerato un processo inevitabile per un Movimento 5 Stelle sempre più diviso. In un clima surreale, l’aula del Senato si è trasformata in una sorta di Caporetto “a Cinque Stelle”. Quattro senatori grillini non hanno votato la risoluzione di maggioranza su cui M5S, Pd, Italia Viva e Leu avevano trovato l’accordo sul Fondo salva-Stati: si tratta di Gianluigi Paragone, Elio Lannutti, Stefano Lucidi e Francesco Urraro, gli stessi che già nei giorni scorsi avevano espresso numerosi dubbi sulla riforma del Meccanismo Europeo di stabilità.
Dalla fiducia a von der Leyen al Mes: l’incoerenza del Movimento 5 Stelle. La risoluzione presentata dal governo al Parlamento alla fine è passata – in Senato hanno votato a favore in 164, con 122 contrari e 2 astenuti, mentre alla Camera il testo è stato approvato con 291 voti a favore e 222 contrari – e il Movimento 5 Stelle dovrebbe teoricamente trovarsi sul carro dei vincitori. In realtà i grillini hanno ben poco da festeggiare, visto che il Mes è stato l’ennesimo banco di prova sul quale si è palesato tutto il dilettantismo di un partito ormai in confusione. In generale, sulle tematiche europee, i pentastellati hanno più volte dato dimostrazione di procedere nel migliore dei casi a fari spenti e privi di una linea comune, nel peggiore senza sapere quale strada imboccare. Prima delle mille contraddizioni sul Fondo salva-Stati, vale la pena ricordare un altro precedente – tra l’altro molto recente – che ha spaccato il Movimento 5 Stelle: il voto di fiducia alla Commissione Ue di Ursula von der Leyen. Meno di un mese fa, i 14 eurodeputati grillini non votarono compatti per la squadra presentata dalla tedesca al Parlamento europeo (2 astenuti e 2 contrario), e anche in quel caso il partito fu attraversato da tensioni e scintille. A son di scivoloni e spaccature in campo europeo il logo del Movimento 5 Stelle è davvero a rischio rottura.
Mes, oggi Conte alla Camera: Aula mezza vuota per l’informativa. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 da Corriere.it. Dopo l’accordo stretto nella notte, oggi nell’Aula della Camera ci saranno, sia alla Camera che al Senato, le comunicazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte in vista del prossimo Consiglio europeo sul Mes, il fondo Salva-Stati.
Ore 9.59. Di Maio ancora non c’è, ma i suoi mandano un video del capo politico sul Mes. Sta parlando da qualche parte a Montecitorio (si vede un commesso in divisa), ma è ancora lontano dall’aula dove parla Conte.
Ore 9.57. Buongiorno ai ministri Speranza Dadone Bonafede Franceschini Amendola Guerini. Di Maio e gli altri bloccati nel traffico?
Ore 9.56. Bilancio Ue 2021 - 2027, per Conte la proposta della presidenza finlandese (1087 miliardi) è insufficiente. Più soldi, please.
Ore 9.52. “Mille miliardi per il Green Deal”. Giuseppe Conte sogna in verde.
Ore 9.51. Il “metodo inclusivo” di Conte per placare Maio: far partecipare il Parlamento, far partecipare il Parlamento, far partecipare il Parlamento...
Ore 9.49. Il premier Conte cerca toni alti e auspica una maggiore coesione tra i leader europei: “Non è questo il tempo per dividersi...”
Ore 9.45. Conte inizia a parlare del Mes con l’emiciclo di Montecitorio mezzo vuoto. (Ma non era questione di vita o di morte, per i partiti italiani?)
Ore 9.37. Ecco Conte. Stretta di mano con Fico e classifica dei cronisti sui premier più ritardatari. Vince Renzi, che “soltanto Putin faceva aspettare”.
Ore 9.35. Fico scherza con i giornalisti: “Avete visto la notizia del giorno?”. Il Mes, presidente? “Ma no, Gattuso... va prima al Senato poi viene da me alla Camera”. Risate bipartisan.
Ore 9.32. Commessi di Montecitorio in ansia: “Il presidente Conte non ha ancora imboccato il sottopasso di Palazzo Chigi...”. E Roberto Fico aspetta.
Ore 8.00. Il dispiaccio fuorisacco dei Di Maio’s boys piomba alle 8. 11 sugli smartphone dei giornalisti: “Accordo sul Mes chiuso alle 2.30 di notte, confermata la logica di pacchetto”.
Mes, Conte ai partner europei: non è il momento di dividersi. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 da Corriere.it. «Non è il tempo per dividersi o per lasciarsi dividere. Serve una maggiore coesione tra i partner europei». Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte apre il suo intervento alla Camera sulla riforma del meccanismo europeo di stabilità lanciando un appello all’unità e invitando a non sopravvalutare il ruolo dell’asse franco-tedesco. «Rivendico un metodo inclusivo nelle decisioni europee» sottolinea il premier per mettere in guardia da intenzioni egemoniche o da fughe in avanti. Sul Mes la posizione del governo è netta: «Non bisogna insinuare dubbi negli italiani. Alcune posizioni sono mirate a portare l’Italia fuori dall’euro. Se così fosse, bisogna dirlo chiaramente. Io e il ministro Gualtieri abbiamo dimostrato che la riforma non apporta modifiche sostanziali e non introduce alcun automatismo nella ristrutturazione del debito ma lascia all’Ue il fondamentale ruolo di valutarne la sostenibilità e di assicurare la coerenza complessiva delle analisi macroeconomiche effettuate sui Paesi membri». E poi ancora, a sgombrare il campo dalle illazioni: «L’Italia non ha nulla da temere anche perché il suo debito è pienamente sostenibile, come dimostrano le valutazioni delle principali istituzioni internazionali, inclusa la Commissione, e come confermano i mercati». Sulle polemiche che hanno caratterizzato le scorse settimane, il presidente del Consiglio spiega: «Sul Mes, in questa sede, quanto da me già evidenziato nell’informativa resa al Parlamento lunedì 2 dicembre, circa la coerenza e la trasparenza informativa che hanno caratterizzato sempre l’interlocuzione tra Governo e Parlamento su un tema così complesso e sensibile». Nella notte è stato raggiunto, dentro la maggioranza, un accordo con il M5S sul testo della risoluzione che verrà votata in giornata. Infine, per chiudere sul tema il premier assicura «Il Governo continuerà a operare secondo una logica «di pacchetto», assicurando l’equilibrio complessivo dei diversi elementi al centro del processo di riforma dell’Unione economica e monetaria e valutando con la massima attenzione i punti critici. Nel caso di eventuale richiesta di attivazione del Meccanismo europeo di stabilità, il Parlamento sarà pienamente coinvolto, con una procedura chiara di coordinamento e di approvazione». Conte nel suo discorso affronta diversi temi. «La `scatola negoziale´ sul Quadro Finanziario Pluriennale è stata presentata dalla Presidenza finlandese solo lo scorso 2 dicembre. Essa contiene alcune ipotesi di allocazione dei fondi, peraltro non esaustive, che il Governo italiano reputa insoddisfacenti. Si tratta di una proposta al ribasso, poiché comporta riduzioni di spesa rilevanti, ma soprattutto risulta complessivamente sbilanciata». «Questi tagli indebolirebbero in maniera ingiustificata gli sforzi di modernizzazione che riteniamo essenziali introdurre nel bilancio europeo del 2021-2027 per affrontare sfide che peraltro sono coerenti con l’Agenda strategica dell’Unione», aggiunge. «La discussione sul Quadro finanziario pluriennale, al Consiglio Europeo di domani, sarà comunque prevalentemente procedurale, in ragione del fatto che, come l’Italia, diversi Stati membri reputano inadeguata la proposta della presidenza finlandese. È dunque da attendersi che il Consiglio europeo si limiti ad auspicare ulteriori progressi negoziali. Continuerò quindi ad affermare, in sede europea, la posizione italiana - sottolinea il presidente del Consiglio -. Il Governo intende continuare a rivendicare un approccio più equilibrato, chiedendo una profonda revisione della proposta finlandese che converga verso l’architettura proposta dalla Commissione europea sin dal 2018. Tale rivendicazione verrà da noi declinata lungo tutto l’arco del negoziato». In relazione al percorso per una Conferenza sul futuro dell’Europa che Germania e Francia auspicano possa essere sviluppato dagli Stati membri e dalle istituzioni europee dal 2020 fino alla presidenza francese dell’Ue (primo semestre del 2022), il presidente del Consiglio chiarisce: «Il contributo franco-tedesco, a differenza di quanto enfaticamente apparso su qualche quotidiano, si è limitato a una proposta di carattere procedurale, con un definito cronoprogramma. Riguardo a tale esercizio, non solo intendo esprimere sostegno all’obiettivo di trasmettere segnali concreti di riavvicinamento delle istituzioni europee ai cittadini, ma preannuncio che non faremo mancare nostre proposte». Il premier, nel corso delle sue comunicazioni alla Camera in vista del Consiglio europeo del 12 e 13 dicembre 2019, poi precisa: «Rivendicherò, tuttavia, un metodo inclusivo, nei confronti degli Stati membri e delle istituzioni europee, a partire dai Parlamenti, per la realizzazione di un percorso che non deve avere un carattere elitario, ma - al contrario - deve essere ampiamente partecipato e, per questo, capace di favorire politiche realmente rispondenti ai bisogni dei cittadini».
Da rainews.it il 13 dicembre 2019. L'Eurosummit ha accolto la proposta italiana di modificare le conclusioni che riguardano il negoziato sul Mes, il meccanismo europeo di stabilità. Secondo quanto si apprende, la modifica che rende più esplicito il concetto che il negoziato deve proseguire e non finire a gennaio non cambia però la tabella di marcia che si è dato l'Eurogruppo per l'approvazione, ovvero resta l'idea di avere un accordo finale entro i primi mesi del 2020. "Incoraggiamo l'Eurogruppo a proseguire il lavoro sul pacchetto di riforme del Mes, in attesa della procedure nazionali, e di continuare a lavorare su tutti gli elementi di un ulteriore rafforzamento dell'Unione bancaria, su base consensuale": è quanto si legge nelle conclusioni dell'Eurosummit. "Incoraggiamo che sia portato avanti il lavoro su tutti questi temi su cui torneremo al più tardi entro giugno 2020", aggiungono i leader. Sul Mes sono stati fatti "importanti progressi" ma "dobbiamo continuare a lavorare a livello di ministri", ha detto il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel al termine del vertice Ue senza indicare alcuna data per la conclusione del negoziato e la firma dell'accordo. "Dobbiamo fare progressi", ha detto ancora Michel anche sull'Unione bancaria e il bilancio dell'Eurozona. "Non è facile ma dobbiamo lavorare per un buon accordo". Il premier Giuseppe Conte, nel suo intervento all'Eurosummit, aveva chiesto "una modifica del punto 2 delle conclusioni in modo da dare atto che c'è ancora da lavorare per la revisione del Mes". La modifica chiesta da Conte era di inserire il passaggio: "Chiediamo all'Eurogruppo di continuare a lavorare al pacchetto di riforme dell'ESM...", modificando così la dichiarazione "Chiediamo all'Eurogruppo di finalizzare il lavoro tecnico riguardante il pacchetto di riforme...". Il premier, poi, interpellato a margine del Consiglio europeo su possibili nuove uscite dalla maggioranza, ha detto che "chi vuole lavorare, ha la possibilità di farlo con noi fino al 2023. Può capitare che qualche parlamentare si senta più trascurato: io dico a tutti i parlamentari, attenzione noi siamo solo all'inizio dell'opera, abbiamo un arco di tempo importante, abbiamo riforme da offrire al Paese. Chi vuole lavorare per migliorare il Paese lo fa adesso, qui con noi". Prevede nuove uscite di parlamentari dalla maggioranza? "No, assolutamente no - dice il premier - chi vuole lavorare ha la possibilità di farlo con noi fino al 2023".
· Quell’errore di Bruxelles che ha fatto fallire le banche italiane.
Quell’errore di Bruxelles che ha fatto fallire le banche italiane, scrive il 19 marzo 2019 Andrea Muratore su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Quella tra la Commissione, la Banca centrale europea e gli istituti italiani trovatisi ad affrontare, negli ultimi anni, periodi di difficoltà (banche venete, istituti toscani, Carige e via dicendo) è stata una relazione problematica. Una vicenda, quella dell’osservazione sulle banche italiane, passata per numerosi punti che rimangono ancora oscuri. Le recenti dichiarazioni di Giovanni Tria, secondo cui il suo predecessore Maurizio Saccomanni sarebbe stato letteralmente ricattato dalla Germania, nel 2013, per accettare l’introduzione del bail-in nell’ordinamento europeo, vanno di pari passo con l’ondivago atteggiamento dei governi Renzi e Gentiloni, che non sono stati in grado di far valere la propria voce nel contesto europeo mentre la Commissione e la vigilanza bancaria Ue massacravano i nostri istituti.
La vigilanza contro le banche italiane. L’ultima banca salita alla ribalta della cronaca, Carige, come le banche coinvolte nel primo bail-in, fu oggetto dei pesanti controlli sui crediti deteriorati (non-performing loans) da parte della Vigilanza della Bce guidata dalla francese Daniele Nouy, che negli ultimi anni si è distinta per un’eccessiva attenzione ai rischi connessi a questi titoli rispetto al problema ben più grave posto dai derivati che ingolfano le banche franco-tedesche. L’Italia aveva a disposizione, in teoria, il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) come strumento politico per agire in favore degli istituti deteriorati.
Quando l’Ue frenò il Fitd. Il Fitd, consorzio obbligatorio riconosciuto dalla Banca d’Italia che ha il compito principale di assicurare la liquidità a tutti i depositanti che ne facciano richiesta, per garantire il loro diritto alla piena disponibilità dei depositi, era intervenuto nel 2015 per scongiurare il fallimento di Banca Tercas, cassa di risparmio tarantina dal capitale di poco superiore ai 200 milioni di euro, e veicolarne l’unione con Popolare di Bari, prima che l’Antitrust Ue intervenisse, su mandato della Commissione che, nella figura di Margrethe Vestager, aveva accusato il nostro Paese di aver imposto una politica non autorizzata di aiuti di Stato. La decisione Ue creò un precedente decisivo per impedire un’azione analoga da parte del Fitd nel caso, ben più ampio, della procedure di risoluzione di Banca Etruria, CariChieti, CariFerrara e Banca Marche nel biennio successivo. Tali istituti furono dapprima soggetti alla normativa del bail-in, ricoperti da un’iniezione di fondi pubblici e, infine, liquidati sul mercato privato dopo la polverizzazione del valore di azioni e obbligazioni. Un patrimonio azionario vicino ai tre miliardi di euro fu letteralmente cancellato, migliaia di correntisti e acquirenti persero completamente i loro risparmi e quando nel frangente più acuto della crisi emerse la possibilità di proporre il meno doloroso intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi, che prevedeva l’utilizzo di denaro privato (non pubblico) per un’iniezione di capitale a favore delle banche sofferenti la risposta del ministro dell’Economia Padoan fu: l’Europa è contraria. Sebbene il Fitd non rappresentasse un braccio diretto dello Stato italiano, la decisione sul caso Tercas ne paragonava l’intervento a una violazione delle regole di mercato.
La corte di giustizia riabilita il Fitd. A diversi anni di distanza la Corte di Giustizia Ue ha giudicato come erronea la decisione della Commissione, accogliendo il ricorso italiano e stabilendo che l’intervento del Fitd non rappresentò un aiuto di Stato. “La Corte Ue”, scrive l’Huffington Post, “ha smontato per intero l’impianto della Commissione Ue nel caso Tercas, salvata dalla Popolare di Bari grazie al sostegno del Fondo. Ma il suo impatto è dirompente soprattutto per le quattro banche (Etruria, Chieti, Ferrara e Marche) mandate gambe all’aria con l’applicazione delle norme sul burden sharing in fretta e furia per evitare gli effetti ancora più nefasti dell’entrata in vigore della direttiva Ue sul bail-in (Brrd) dal gennaio successivo. […]. Escluso il Fitd, le soluzioni alternative al burden sharing erano allora state considerate da Palazzo Koch più penalizzanti per azionisti e creditori – come la liquidazione coatta – o non percorribili – come l’intervento volontario delle banche”. Le banche fallite erano dunque salvabili in maniera molto meno onerosa tanto per i contribuenti quanto per azionisti e obbligazionisti che hanno visto andare in fumo risparmi e guadagni accumulati in una vita o in generazioni intere. Il rigore mercantilista dell’Ue, applicato in maniera estrema contro le banche italiane, si è rivelato un eccesso di zelo persino nell’attuale contesto comunitario. L’atteggiamento tenuto verso l’Italia e l’impedimento alla modesta azione del Fitd in Tercas, che ha causato una slavina di così ampia portata per il nostro sistema, stride con l’attuale lassismo che Commissione e Vigilanza sembrano dimostrare rispetto alle acrobazie bancarie della Germania di Angela Merkel, dal caso della fusione Deutsche Bank-Commerzbank al salvataggio di Nord Ld. Ma ai doppi standard europei, purtroppo, noi italiani abbiamo dovuto da tempo abituarci.
Tercas, Tribunale Ue dà ragione a Popolare di Bari: non fu aiuto di Stato. L'istituto: chiederemo i danni. «Non ci fu aiuto di Stato»: annullata la decisione della commissione Ue sul salvataggio del 2014, scrive il 19 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Non ci fu «aiuto di Stato» nei fondi concessi dal Fondo Interbancario (Fitd) alla Popolare di Bari per il salvataggio di Tercas nel 2014 e bocciato dall’Antitrust Ue all’epoca. Il tribunale Ue. accogliendo il ricorso dell’Italia e della Popolare di Bari (sostenuto dalla Banca d’Italia) ha così annullato la decisione della Commissione Ue «che non ha dimostrato che i fondi concessi a Tercas a titolo di sostegno del Fitd (dove sedeva nel consiglio un rappresentante di Bankitalia ndr) fossero controllati dalle autorità pubbliche italiane». In particolare la Corte del Lussemburgo spiega come «spettava alla Commissione disporre d’indizi sufficienti per affermare che tale intervento è stato adottato sotto l’influenza o il controllo effettivo delle autorità pubbliche e che, di conseguenza, esso era, in realtà, imputabile allo Stato. Nel caso di specie, la Commissione non disponeva d’indizi sufficienti per una siffatta affermazione. Al contrario, esistono nel fascicolo numerosi elementi che indicano che il FITD (il fondo di tutela depositi alimentato dalle stesse banche private ndr) ha agito in modo autonomo al momento dell’adozione dell’intervento a favore di Tercas». In seguito, il Fotd ha dovuto creare uno schema volontario 'clonandò quello esistente, per procedere ad alcune operazioni di salvataggio o sostegno di altri istituti come alcune casse e Carige. Il Tribunale ritiene che «il mandato conferito al FITD dalla legge italiana consista unicamente nel rimborsare i depositanti (entro il limite di 100 000 euro per depositante), in quanto sistema di garanzia dei depositi, quando una banca membro di tale consorzio è oggetto di una liquidazione coatta amministrativa. Al di fuori di tale ambito, il FITD non agisce in esecuzione di un mandato pubblico imposto dalla normativa italiana. Gli interventi di sostegno a favore di Tercas hanno quindi una finalità diversa da quella derivante da detto sistema di garanzia dei depositi in caso di liquidazione coatta amministrativa e non costituiscono l’esecuzione di un mandato pubblico». Il Tribunale sottolinea poi che l’autorizzazione, da parte della Banca d’Italia, dell’intervento del FITD a favore di Tercas non costituisce un indizio che consenta d’imputare la misura di cui trattasi allo Stato italiano. I delegati della Banca d’Italia che assistevano alle riunioni degli organi direttivi del FITD hanno avuto in questo caso un ruolo puramente passivo di meri osservatori. Inoltre, l’intervento della Banca d’Italia nei negoziati tra il FITD, la BPB e il commissario straordinario di Tercas è solo espressione di un dialogo legittimo e regolare con l’autorità di vigilanza, senza che quest’ultimo abbia avuto un impatto sulla decisione del FITD d’intervenire a favore di Tercas».(ANSA). In particolare la Corte del Lussemburgo spiega come «spettava alla Commissione disporre d’indizi sufficienti per affermare che tale intervento è stato adottato sotto l’influenza o il controllo effettivo delle autorità pubbliche e che, di conseguenza, esso era, in realtà, imputabile allo Stato. Nel caso di specie, la Commissione non disponeva d’indizi sufficienti per una siffatta affermazione. Al contrario, esistono nel fascicolo numerosi elementi che indicano che il FITD (il fondo di tutela depositi alimentato dalle stesse banche private ndr) ha agito in modo autonomo al momento dell’adozione dell’intervento a favore di Tercas». In seguito, il Fotd ha dovuto creare uno schema volontario «clonando» quello esistente, per procedere ad alcune operazioni di salvataggio o sostegno di altri istituti come alcune casse e Carige. Il Tribunale ritiene che «il mandato conferito al FITD dalla legge italiana consista unicamente nel rimborsare i depositanti (entro il limite di 100 000 euro per depositante), in quanto sistema di garanzia dei depositi, quando una banca membro di tale consorzio è oggetto di una liquidazione coatta amministrativa. Al di fuori di tale ambito, il FITD non agisce in esecuzione di un mandato pubblico imposto dalla normativa italiana. Gli interventi di sostegno a favore di Tercas hanno quindi una finalità diversa da quella derivante da detto sistema di garanzia dei depositi in caso di liquidazione coatta amministrativa e non costituiscono l’esecuzione di un mandato pubblico». Il Tribunale sottolinea poi che l’autorizzazione, da parte della Banca d’Italia, dell’intervento del FITD a favore di Tercas non costituisce un indizio che consenta d’imputare la misura di cui trattasi allo Stato italiano. I delegati della Banca d’Italia che assistevano alle riunioni degli organi direttivi del FITD hanno avuto in questo caso un ruolo puramente passivo di meri osservatori. Inoltre, l’intervento della Banca d’Italia nei negoziati tra il FITD, la BPB e il commissario straordinario di Tercas è solo espressione di un dialogo legittimo e regolare con l’autorità di vigilanza, senza che quest’ultimo abbia avuto un impatto sulla decisione del FITD d’intervenire a favore di Tercas».
L'ISTITUTO: VALUTEREMO RIVALSA E RISARCIMENTI - La Banca Popolare di Bari valuterà «determinazioni su eventuali azioni di rivalsa e di richiesta di risarcimenti nei confronti della Comunità Europea». Lo afferma lo stesso istituto in una nota dopo la decisione della Corte di Giustizia Ue che ha accolto le ragioni del ricorso avanzate dalla Banca contro la decisione della Commissione Europea di considerare «aiuto di Stato» l’intervento del Fidt (costituito da soli fondi privati) per il salvataggio di Tercas.
Tutti i "ricatti" della Germania all'Europa: dal Fondo salva-banche al nostro Jobs Act. Così il tandem Merkel-Schäuble ha piegato le resistenze di Grecia e Italia, scrive Gian Maria De Francesco, Venerdì 01/03/2019, su Il Giornale. L'uso del termine «ricatto» come evocativo dell'attitudine tedesca nei confronti dei Paesi Ue recalcitranti ad accettarne i diktat è stato parzialmente ritrattato dal ministro dell'Economia, Giovanni Tria. Il titolare del Tesoro ha irritato la Germania parlando di come il suo predecessore Saccomanni fu costretto a «ingoiare» il bail in, però non è andato lontano dalla verità. I precedenti sono numerosi e, d'altronde, lo stesso bail in altro non è che una delle tante cambiali pagate dall'Eurozona alla Germania per il solo fatto che abbia accettato la costituzione del Fondo salva-Stati. Basta tornare indietro al 2011 per trovare un precedente nel tormentato vertice di Cannes del 3 e 4 novembre. Il premier greco Giorgos Papandreou aveva annunciato in quei giorni un referendum sul nuovo piano di aiuti che l'Ue aveva programmato per la crisi ellenica. La Bundeskanzlerin Angela Merkel e il presidente Nicolas Sarkozy intimarono: «L'euro andrà avanti con la Grecia o senza la Grecia». Di fatto una minaccia. Papandreou si dimise, il referendum fu annullato e si costituì un esecutivo guidato dal «tecnico» Papademos. Ricorda qualcosa? La stessa soluzione «politica» fu adottata quell'anno nei confronti dell'Italia dove il governo Berlusconi, regolarmente eletto, fu scalzato tramite spread. Il ministro dell'Economia di quell'esecutivo, Giulio Tremonti, imputò successivamente tale avvicendamento al rifiuto italiano a utilizzare il Fondo salva-Stati per le crisi bancarie o quanto meno a determinarne la partecipazione di ciascun Paese in base al rischio degli istituti che per l'Italia a quel tempo era basso. Il risultato? A fine 2014 l'esposizione delle banche francesi e tedesche sulla Grecia si era ridotta dai circa 125 miliardi del 2009 a soli 15 miliardi anche grazie al «contributo» di 40 miliardi dell'Italia tutti computati a deficit e poi a debito. Si arriva così al famigerato 2013 quando Saccomanni fu costretto a cedere sul bail in nonostante la contrarietà di Bankitalia. Come spiegato dall'ex ministro in commissione banche a fine 2017 «c'era il rischio che si riattivasse il circolo vizioso fra rischi bancari e rischi sovrani» e l'Italia, sorvegliata speciale, non poteva opporsi né, tanto meno, aveva alleati tra i Paesi del Sud tutti sotto Troika. Non era un ricatto ma gli assomigliava molto. Nel 2015 la Grecia, guidata oggi come allora da Alexis Tsipras, provò a rimettere in discussione gli aiuti dell'Ue con un referendum. Il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, racconta l'ex ministro Yanis Varoufakis, spiegò al suo omologo ellenico: «Yanis, tu devi capire che nessun paese è sovrano oggi. Specialmente uno piccolo e in bancarotta come il tuo». Sottolineò poi che «le elezioni non possono cambiare un programma economico di uno Stato membro!». In quello stesso anno, secondo quanto Varoufakis narra nel suo libro Adulti nella stanza, anche l'Italia fece nuovamente le spese dell'egemonia tedesca. «Pier Carlo (il ministro Padoan; ndr) mi disse che aveva chiesto a Schäuble cosa potesse fare per ottenere la sua fiducia e questa risultò essere la riforma del mercato del lavoro». In buona sostanza, secondo questa fonte interessata (Varoufakis è leader della nuova sinistra europea), il Jobs Act e l'abolizione dell'articolo 18 sarebbero frutto di un «accordo» per compiacere la Germania e ottenere il suo sì al maggior deficit italiano. Va detto che le riforme strutturali del mercato del lavoro facevano parte del menu del governo Monti, ma furono disattese causa pressing del Quirinale. Il dubbio persisterà. Il controllo tedesco su tutti i gangli vitali dell'Ue pure.
TRIA CON LE PALLE - "IL BAIL-IN, IL MECCANISMO CHE CONSENTE DI SCARICARE I COSTI DEI SALVATAGGI BANCARI ANCHE SU INVESTITORI E RISPARMIATORI, FU INTRODOTTO PERCHÉ IL MINISTRO SACCOMANNI (GOVERNO LETTA) FU RICATTATO DALLA GERMANIA" - IL MINISTRO DELL'ECONOMIA IN AUDIZIONE: "SE NON AVESSIMO ACCETTATO SI SAREBBE DIFFUSA LA NOTIZIA CHE IL NOSTRO SISTEMA BANCARIO ERA PROSSIMO AL FALLIMENTO" Da Repubblica.it del 27 febbraio 2019. Il ministro dell'Economia Giovanni Tria lancia un'accusa pesante alla Germania, quella di avere "ricattato" il nostro Paese, obbligando l’Italia di fatto ad accettare le norme sul bail-in, il meccanismo che consente di scaricare i costi dei salvataggi bancari anche su investitori e risparmiatori. Sull'introduzione, ha detto davanti alla Commissione Finanze del Senato, "erano tutti contrari. Il ministro di allora era Saccomanni che fu praticamente ricattato dal ministro delle finanze tedesco" che gli disse che se l'Italia non avesse accettato "si sarebbe diffusa la notizia che il nostro sistema bancario era prossimo al fallimento". Tria ha aggiunto: "Non vedo la possibilità che in tempi brevi possa essere abolito" il bail-in. Il ministro si è anche soffermato sulla questione dei rimborsi per i risparmiatori truffati. All'Ue, ha spiegato, sulla questione "finora c'è stata solo una richiesta di informazioni su una serie di punti, a cui noi abbiamo preparato una risposta in difesa della legge con un'interpretazione che consenta di non violare le norme comunitarie. Quindi abbiamo preparato una bozza di decreto che avalla questa interpretazione".
Così Etruria e banche venete sono saltate in aria. Monti barattò regole ferree in cambio dello spread nonostante Bankitalia fosse contraria, scrive Gian Maria De Francesco, Giovedì 28/02/2019, su Il Giornale. Il termine bail-in ha fatto la sua comparsa sui grandi media europei il 16 marzo 2013 quando la Troika stabilì che il sistema bancario di Cipro, collassato a causa della crisi greca, dovesse essere salvato con il contributo di azionisti, obbligazionisti e depositanti e non solamente del Fondo salva-Stati. La misura consentì di reperire risorse per 10 miliardi. Ma come accadde che il bail-in, allora presentato come una tantum, diventò la base portante di tutti i salvataggi degli istituti dell'Ue? Occorre tornare indietro di ulteriori 9 mesi al tormentato Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 2012 nel quale si posero le basi dell'Unione bancaria a fronte dell'uscita programmata dal regime di aiuti di Stato, in vigore proprio fino al 2013 (in Germania sono stati spesi 250 miliardi pubblici), per la soluzione delle crisi bancarie. Il governo Monti, tutto concentrato a tutelarsi dal pericolo spread, «barattò» il primo via libera a questo nuovo set di regole con un regime un po' meno penalizzante per gli aiuti in caso di crisi del debito. Fu il 18 dicembre 2013, tuttavia, che la direttiva Brrd contenente il bail-in vide la luce. Il ministro dell'Economia del governo Letta, Fabrizio Saccomanni (e con lui il governatore di Bankitalia Ignazio Visco), espresse forte contrarietà poiché «l'intervento pubblico potrebbe essere preferibile al rischio di contagio generato da un esteso bail-in», ma fu costretto ad accettare la proposta tedesca avanzata dal ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble. I clienti delle banche avrebbero dovuto contribuire ai salvataggi almeno fino all'8% degli attivi. Il risvolto tragico di questo episodio, denunciato da Saccomanni, è la minaccia della Germania di scrivere la normativa computando i titoli di Stato come asset a rischio in caso di rifiuto italiano, una bomba per il sistema-Italia visto che banche e assicurazioni detengono circa 350 miliardi di Btp. Peccato, però, che durante gli stress test bancari la Vigilanza europea tenda a seguire questo modello teorico penalizzando puntualmente i nostri istituti. La direttiva Brrd fu approvata dal Parlamento Ue, ormai in scadenza, il 15 maggio 2014 con il governo Renzi in carica da soli 3 mesi, per altro spesi a contrattare flessibilità per il bonus da 80 euro. Quella normativa fu recepita nell'ordinamento italiano a fine novembre 2015 in occasione del salvataggio delle quattro banche locali (CariChieti, Banca Marche, Banca Etruria e CariFerrara), reso ineludibile dalla decisione Ue di equiparare a un aiuto di Stato l'intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi anche se questo è totalmente privato sebbene soggetto a coordinamento da parte di Bankitalia. Quanto accaduto successivamente, dal flop del Fondo Atlante (che ricapitalizzò Veneto Banca e Popolare Vicenza) alla nuova ondata di fusioni bancarie, è una conseguenza del nuovo sistema di regole che obbliga gli istituti a ingegnarsi per evitare di incorrere in quella pericolosa tagliola. A ogni stormire di spread, tuttavia, per i banchieri italiani l'incubo ritorna. E il fatto che quella del 2015 rimanga l'unica applicazione del bail-in post-Cipro in tutta l'Eurozona (per Mps e le due Popolari venete il processo è stato mitigato) conferma che Visco e Saccomanni avevano ragione, ma sono stati lasciati soli.
E Tria rivela il ricatto: "Il bail-in imposto dalla Germania a Letta". Il ministro dell'Economia chiama in causa Saccomanni poi fa retromarcia: io frainteso, scrive Camilla Conti, Giovedì 28/02/2019, su Il Giornale. Il ministro dell'Economia Giovanni Tria ha lanciato la bomba ieri pomeriggio davanti alla Commissione Finanze del Senato dopo aver riferito sugli esiti dell'Ecofin: quando vennero introdotte le nuove regole europee sul bail-in in Italia «era ministro Fabrizio Saccomanni che venne praticamente ricattato dal ministro delle Finanze tedesco», Wolfgang Schaeuble. Il quale avrebbe detto che «se l'Italia non avesse accettato, si sarebbe diffusa la notizia che l'Italia non accettava perché aveva il sistema bancario prossimo al fallimento e questo avrebbe significato il fallimento del sistema bancario». L'affondo di Tria contro Berlino è partito quando il presidente dell'Abi, Antonio Patuelli, ha definito quella sul bail-in una norma desueta che va abrogata. «Condivido il fatto che dovrebbe essere abolito», ha spiegato Tria sottolineando che «quando è stato introdotto in Italia fossero quasi tutti contrari, anche la Banca d'Italia in modo discreto si oppose». In sostanza, dice Tria, l'Italia ha accettato le regole Ue sul salvataggio interno delle banche in crisi perché sotto ricatto della Germania. La minaccia era quella di diffondere la notizia, e quindi il panico sui mercati, di un sistema bancario italiano prossimo al «fallimento». E il falco tedesco Schaeuble avrebbe ricattato il suo omologo italiano durante il governo Letta, appunto Saccomanni. In serata il Mef è corso ai ripari: «Con un'espressione evocativa ma infelice» il ministro dell'Economia Giovanni Tria in Senato «ha voluto fare riferimento a una situazione oggettiva in cui un rifiuto isolato dell'Italia di approdare la legislazione europea sul bail-in avrebbe potuto essere facilmente interpretato come un segnale dell'esistenza di seri rischi nel sistema bancario italiano. Con questo il ministro non intendeva certamente lanciare un'accusa specifica né alla Germania né al ministro delle Finanze tedesco dell'epoca», si legge in una nota. In realtà quella di Tria è la sintesi un po' tirata di ciò che Saccomanni ricostruì davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulle banche della scorsa legislatura. Basta riprendere il resoconto stenografico dell'intervento fatto dall'ex ministro, oggi presidente di Unicredit, nella seduta del 21 dicembre del 2017. Quel giorno al quarto piano di Palazzo San Macuto era stato ascoltato anche un altro ex del Tesoro, ovvero Vittorio Grilli. Da entrambe le ricostruzioni era emerso che la posizione delle autorità italiana era stata fin dall'inizio a favore del bail-in applicabile solo sulle specifiche passività degli istituti e non su quello «allargato» che poi è stato adottato dalla direttiva Ue. Saccomanni aveva ricordato che «il negoziato si è svolto in condizioni di urgenza, si doveva chiudere l'unione bancaria entro fine 2013 perché il Parlamento concludeva il mandato», e un fallimento rischiava di riattivare la crisi del debito sovrano. L'Italia, aveva spiegato l'ex ministro, è rimasta «in netta minoranza in una votazione che si svolse a maggioranza e quindi non era possibile lo strumento del veto». «Fra gli investitori e il mercato era seguita con grande attenzione la negoziazione sull'Unione bancaria, che doveva spezzare il circolo vizioso fra rischi bancari e sovrani», e quindi un fallimento avrebbe portato conseguenze negative. Ma quali fattori pesarono sulle negoziazioni del 2013? Per Saccomanni, «la linea severa di coinvolgimento dei creditori delle banche» adottata da moltri paesi europei, in primis il gruppo «capeggiato dalla Germania» fu dovuta all'alto debito pubblico che caratterizzava l'Italia, Verso il nostro Paese «c'era una posizione come quella vissuta da De Gasperi dopo la guerra, di solo personale rispetto verso chi era lì. Privatamente - aveva aggiunto Saccomanni - si riconosceva la validità delle nostre argomentazioni» ma poi in votazione l'Italia finì in minoranza, visto che anche diversi altri Paesi come Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna avevano ricevuto aiuti europei. Si temeva, queste le parole dell'ex ministro, che «nel lungo periodo forme di condivisione dei rischi fossero potenzialmente devastanti visto che l'Italia ha il terzo debito pubblico del mondo e l'impressione era che l'Italia potesse essere un rischio dirompente».
Da ilfattoquotidiano.it il 12 dicembre 2019. “Un pessimo esempio di arte di governare“, che “avrà l’unico risultato di peggiorare le condizioni per compromessi politici fra Germania, Italia e altri Paesi dell’Unione”. È il giudizio del Financial Times, che commenta così in un editoriale l’approvazione da parte della Commissione europea del salvataggio con soldi pubblici della banca statale tedesca NordLB. Il quotidiano londinese riconosce che in quel caso l’intervento pubblico “può essere legale”, ma sottolinea che “rafforza la comparsa di doppi standard nell’Eurozona”. E aggiunge: “Le lamentele tedesche relative ai problemi bancari italiani irrisolti ostacolano i progressi verso l’unione bancaria e una più ampia integrazione dell’eurozona”, ma “ci sono tanti scheletri nell’armadio delle banche tedesche”. Il Ft ricorda come si è arrivati all’attuale normativa (bail in) che in linea di principio vieta il salvataggio delle banche con soldi dei contribuenti e, in caso di crisi, impone perdite ad azionisti e obbligazionisti. Nel 2012 i leader europei hanno deciso “di tagliare il cordone ombelicale fra le banche e i loro governi, adottando regole per limitare futuri bailout di banche in perdita a carico dei contribuenti e forzare gli obbligazionisti a fare la loro parte per coprire le perdite”. “Ma i vecchi vizi sono duri a morire”. Gli autori dell’articolo proseguono affermando che le regole messe in campo si sono dimostrate inadeguate, poiché ci sono troppe scappatoie regolamentari che le autorità nazionali possono sfruttare: “Alcuni Paesi possono cavarsela. Altri no”. Il quotidiano della City ricorda brevemente la vicenda della NordLB, che ha respinto le offerte di due fondi di private equity statunitensi Cerberus e Centerbridge e verrà salvata con 1,5 miliardi messi sul piatto dal Land della Bassa Sassonia e altri 1,2 dalle case locali. “Non è così che i politici tedeschi normalmente chiedono che le cose siano fatte quando si tratta di gestire le banche malate nell’Europa meridionale”, chiosa il Financial Times. Che poi mette in discussione quanto deciso dalla commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager. “Gli esperti hanno esplicitamente criticato“, scrive l’Ft, “la decisione secondo la quale il bailout è a condizioni “che un privato avrebbe accettato” e per questo è in linea con le norme europee con gli aiuti di Stato“. Ma “se anche la signora Vestager è tecnicamente nel giusto, crea tre grossi problemi”. La prima domanda è perché le autorità europee non abbiano valutato la fattibilità di un coinvolgimento degli obbligazionisti prima che i soldi pubblici venissero tirati in ballo. La seconda questione è che” la riluttanza a ricapitalizzare NordLB ristrutturando i crediti degli obbligazionisti mostra quanto i decisori europei non siano all’altezza delle promesse fatte nel 2012″: è solo l’ultimo di tanti casi in cui si indietreggia di fronte alla possibilità di attuare un bail-in. “I policy-maker si comportano come persone dipendenti da abitudini che sono incapaci di abbandonare”. Alcuni commentatori nelle scorse settimane hanno criticato la decisione della Commissione ricordando che in una situazione simile all’Italia era stato vietato il salvataggio della Tercas con soldi del Fondo interbancario. A marzo in effetti la Corte di giustizia dell’Ue ha accolto il ricorso presentato nel marzo 2016 dall’Italia e dall’istituto di credito pugliese, sostenuto dalla Banca d’Italia, e annullato la decisione dell’esecutivo Ue.
Risparmi a rischio, se la banca è tedesca l’aiuto di Stato vale. Leopoldo Gasbarrocirca il 13 dicembre 2019 su NicolaPorro.it. Pagano solo i risparmiatori italiani. Le regole europee sul fallimento delle banche, il famoso bail-in sembrano non valere per tutti, sembrano non valere soprattutto per la Germania che, con l’avvallo di Bruxelles, salva le proprie banche con denaro pubblico. L’episodio, passato come sempre sotto traccia, non sfugge però al Financial Times. Dal quotidiano inglese arrivano dure critiche per il salvataggio pubblico di Nord Bank, Istituto di credito tedesco. Nell’articolo si legge: “I vecchi vizi muoiono duramente. Esistono semplicemente troppe lacune nei regolamenti che le autorità nazionali possono sfruttare. Alcuni paesi possono cavarsela. Gli altri non possono. Ne è un esempio la recente approvazione di Bruxelles di una nuova iniezione di denaro dei contribuenti nella banca regionale tedesca NordLB. NordLB ha eroso il proprio capitale perdendo miliardi di euro in prestiti di spedizione tossici e ha bisogno di fondi per la ricapitalizzazione. I gruppi di private equity si erano offerti di acquistare una partecipazione, subordinata al sostegno pubblico, ma i governi regionali proprietari della maggior parte della banca hanno optato per una soluzione pubblica che coinvolgesse solo i proprietari esistenti, comprese le banche di proprietà comunale. La conseguenza, tuttavia, è un maggiore contributo complessivo da parte del settore pubblico. Non è così che dovevano essere fatte le cose nel nuovo mondo coraggioso dell’unione bancaria europea. E non è così che i politici tedeschi normalmente richiedono che si facciano cose quando si tratta di gestire banche di panieri nell’Europa meridionale”. Perché le autorità europee non hanno valutato la redditività della banca in base alle regole che richiedono che gli obbligazionisti contribuiscano prima che possa essere investito denaro pubblico, così come è accaduto per le banche italiane nel corso degli anni passati? Due pesi e due misure che non possono essere sempre accettati con leggerezza. Del resto il quotidiano finanziario in rosa continua in maniera durissima la sua filippica contro la pratica usata per NordLB. “La decisione rafforza la comparsa di doppi standard nella zona euro. Le denunce tedesche relative a problemi bancari italiani irrisolti hanno da tempo ostacolato i progressi verso l’unione bancaria e una più ampia integrazione della zona euro. In realtà, ci sono tanti scheletri nell’armadio bancario tedesco. Quest’ultima dimostrazione di protezione politica estesa a una banca tedesca non farà che peggiorare le condizioni per i compromessi politici che devono essere raggiunti tra Germania, Italia e altri paesi dell’Ue”. Sin qui il Financial Times. Ora ci si chiede. Come si porrà il governo italiano rispetto a tutto quello che è successo in Germania? I risparmiatori italiani hanno dovuto pagare per una legge, quella del Bail-In, andata in vigore con effetto retroattivo rispetto alle scelte dei sottoscrittori di obbligazioni subordinati. Nessuna deroga è stata fornita per le quattro banche fallite nel 2015 e neanche per le due venete. Mentre i tedeschi impongono le loro regole nel silenzio generale. È giusto? Leopoldo Gasbarro, 13 dicembre 2019
Da “la Verità” il 27 febbraio 2019. Leggerezza e incapacità di sostenere le pressioni tedesche. Fatto sta che la norma più rivoluzionaria in tema bancario viene inghiottiti dall' Italia come una caramellina zigulì. Il governo di Enrico Letta decide di affidarsi mani e piedi alle scelta della Commissione Ue che in tema di burden sharing ha poteri assoluti senza aver discusso i termini contrattuali. In altre parole, nessuno stila un piano di gestione delle sofferenze bancarie, né decide i criteri di valutazione dei Btp nei bilanci delle banche. Per non saper né leggere né scrivere Matteo Renzi ha fatto di tutto per trasformare in legge l'impegno di Letta, con tre anni di anticipo sulla tabella di marcia Ue, nel 2015. Tutto ciò porta alla situazione attuale. La tanto decantata battaglia di Bankitalia per la tutela del sistema del credito è stata un po' troppo sussurrata. Quando il governo Renzi pasticciò per far saltare l'aumento di capitale di Mps finendo con l' infilare Siena in un vicolo cieco, né l' Abi né Bankitalia si sono lanciate in una valutazione ex ante. L' approccio al bail in in effetti era cambiato soltanto a maggio del 2016, quando sempre il governo Renzi dopo aver chiesto aiuto a Giuseppe Guzzetti per salvare la Popolare di Vicenza bruciò Atlante. Si trattava del fondo alimentato dai risparmi delle Fondazioni e dal capitale delle banche sane. Entrato in modo «spintaneo» nell' istituto di Gianni Zonin, si è trovato da solo contro Bruxelles e regole completamente fuori mercato. La finanza cattolica ha perso qualcosa come 4,5 miliardi. Da lì si sono aperti gli occhi e si è capito che la vigilanza Ue non funziona. Eppure il governatore Ignazio Visco si limitava a dire: «Ho fiducia che arriveremo a una soluzione che rispetti le regole Ue e salvaguardi il risparmio». Non è andata così, ma il mea culpa si fa solo a buoi scappati. D'altronde, Visco non è solo a lamentarsi delle falle. L' altro potere italiano, quello degli industriali, almeno al proprio vertice, sembra soffrire della stessa retroattività. Vincenzo Boccia - e arriviamo al secondo esempio da letteratura - chiudendo la convention dei giovani ha sparato a zero sulle fesserie dei politici che che non capiscono nulla di macroeconomia. «Penso che uno prima di entrare in politica dovrebbe fare un corso di macroeconomia. Se ci fosse una tassa sulle fesserie», ha sintetizzato, «avremmo risolto il problema del debito pubblico». Varrebbe la pena ricordare che a dicembre del 2016 Boccia appose la propria firma a uno studio del suo Centro studi relativo agli effetti del No al referendum costituzionale. «Subiremo», recitava il report, «4 punti percentuali in meno nel triennio sullo scenario di base. Salterebbero 60.000 posti di lavoro e 20 punti percentuali di investimenti». Il 25 maggio del 2017 (sei mesi dopo) Confindustria, come se nulla fosse, stimava il Pil in crescita dello 0,3%, con un acquisito dello 0,6%. «La risalita si va consolidando, grazie a investimenti ed export», concludeva il Centro studi. Insomma, Boccia ha abituato la politica troppo bene. Se il leader di Confindustria deve fare delle critiche si limita ormai a farle a posteriori e mai troppo chiare. D' altronde, dovrebbe prima fare il punto delle proprie stime e delle scelte che ha imposto all' associazione degli industriali schierandola senza se e senza ma al fianco della corsa al potere di Matteo Renzi. Così buon ultimo è arrivato anche il numero uno degli industriali. Parlando durante un convegno di banca Intesa ha detto la sua contro il bail in. «Sì, sarebbe necessario rivedere tutta l'Europa in termini di una stagione riformista. Però con proposte, non solo con critiche». Quali? Adesso la sfida è evitare che le banche debbano accantonare entro il 2020 240 miliardi di euro. Per tutelare il sistema bisognerà fare in modo che la Bce prosegua con l'erogazione di liquidità. Aspettiamo che chiudano i rubinetti? O meglio fare una battaglia prima?
Roberta Amoruso per “il Messaggero” il 26 febbraio 2019. Non è un caso se a vent' anni dall' introduzione dell'euro gli italiani sono meno entusiasti di avere scelto la moneta unica di altri europei. Così come non è un caso se Germania e Olanda sono i due partner che hanno maggiormente spinto per l'ortodossia di bilancio e criticato il salvataggio dei partner più indebitati. Tedeschi e olandesi sono infatti i veri e unici beneficiari di quella scelta: in questi vent' anni ogni cittadino tedesco ha infatti guadagnato in media oltre 23 mila euro, mentre l'olandese ha accresciuto il suo patrimonio di 21.000 euro. Lo rivela l'ultimo studio del Centrum für europäische Politik (Cep). Lo studio aggiunge che in vent' anni gli italiani hanno invece perso ben 73.000 euro a testa. E poco meglio è andata ai francesi (in rosso di 56.000 euro). Come si è arrivati a tanto? Seguendo il ragionamento del think tank tedesco, che arriva a un tale risultato applicando un algoritmo molto particolare e forse eccessivamente temerario, si giunge alla conclusione che certi risultati negativi non sono dovuti soltanto all' arrivo dell'euro, che però da subito - si sottolinea - ha spinto «il Pil in una fase di ristagno»; sono dovuti, sostiene il Cep, soprattutto all' incapacità di alcuni Paesi «di diventare competitivi all'interno del sistema euro». Per esempio, si sostiene, è pur vero che l'Italia «non ha più potuto svalutare la sua moneta» come aveva fatto in passato, ma non ha nemmeno fatto «le riforme necessarie», come invece «ha fatto puntualmente la Spagna» (i cui cittadini in vent' anni hanno perso solo 5.000 euro). Ora, è difficile negare che qualcosa non ha funzionato in Paesi come l'Italia negli stessi anni in cui la Germania ha continuato a macinare punti di Pil. Ma per capire come il Centro studi di Friburgo è arrivato a questo risultato, occorre descrivere il metodo di controllo utilizzato. Ed è qui che sorge qualche dubbio sulla bontà delle conclusioni. Il report di Alessandro Gasparotti e Matthias Kulas misura i guadagni e le perdite di Pil legati all' ingresso nell' area euro con un metodo definito di «controllo sintetico». Di fatto viene confrontata la performance dei Paesi entrati nell' euro con quella di altri Stati che, oltre a non adottare l'euro, negli anni precedenti avevano evidenziato andamenti economici vicini a quelli del Paese considerato. Lo studio si concentra su otto paesi dei 19 dell'area euro, ma non tiene conto di eventuali riforme messe in campo nei Paesi considerati. Sicché l'Italia si trova in un gruppo di controllo costituito da Gran Bretagna, Australia, Israele e Giappone, tutti Paesi che nel periodo pre-euro avevano Pil pro capite abbastanza simili a quelli italiani. La Germania è stata messa invece a confronto con un paniere che comprendeva il Bahrain, il Giappone e di nuovo la Gran Bretagna. Il risultato è che «in nessun altro Paese come l'Italia», sostiene lo studio del Cep, «l'euro ha causato simili perdite di prosperità». Lo studio ha anche analizzato quanto sarebbe stato alto il Pil pro capite se i Paesi analizzati non avessero introdotto l'euro. Ebbene, senza la moneta unica, calcolano i ricercatori del Cep, oggi il Pil di Roma sarebbe stato più alto di 530 miliardi, che corrisponde a 8.756 euro in più per ogni cittadino italiano. Dunque, l'algoritmo utilizzato sarà anche un po' temerario, ma certi numeri fanno impressione. E spiegano in larga parte perché tanto sospetto da parte di numerosi italiani verso l'Europa. Non bastasse il rapporto del Cep, a mettere di cattivo umore il cittadino italiano ieri ci ha pensato anche l'Eeag, un gruppo di sette economisti internazionali guidato da Giuseppe Bertola costituito dall' Istituto tedesco per la ricerca economica (Ifo). «Se lo scontro con tra Italia e Ue dovesse riaccendersi e se i premi al rischio (ossia i rendimenti dei titoli di Stato, ndr) non dovessero scendere - ha avvertito Bertola - alla lunga sarebbe a rischio la solvibilità dello Stato italiano».
Luca Romano per Il Giornale il 4 marzo 2019. Nell'Italia della burocrazia tutto è possibile. Anche questo. Una signora ogni mattina si sveglia per tenere aperto il suo negozio di articoli vintage a Schio, piccola frazione in provincia di Vicenza. La speranza è quello di venderlo a qualche appassionato, così come i tanti mobili dell''800 o del '900. A un certo punto un distinto signore si avvicina alla vetrina e nota un televisore portatile arancione. Risale agli anni '60. Bello, bellissimo. È un Radiomarelli che meriterebbe un posto in ogni casa. Chissà, forse Fabiola Ruaro (la titolare del negozio) avrà pensato che quell'uomo fosse interessato ad acquistarlo. Costo: appena 40 euro. Un elemento di arredo. Ma quel signore in realtà è un ispettore Rai, come spiega il Giornale di Vicenza. "Lei lo paga il canone per quell'apparecchio", avrebbe chiesto alla titolare del negozio. "No, non so nemmeno se funziona, è inattivo da lustri. E comunque senza decoder non potrei ricevere i programmi. L’ho messo in vetrina perché è colorato e lo vendo a 40 euro come elemento di arredo", spiega lei. Ma è tutto inutile. Il canone, ovvero la tassa sul possesso del televisore, va pagata per il semplice possesso del tivvù. E così la Ruaro sarà costretta a versare l'obolo. "Pagherò", dice lei. "Ma ho già dato disdetta. Mai più tv in negozio". "Non bastavano la fattura elettronica, le tasse e la burocrazia: a questa commerciante viene imposto il pagamento del canone rai per una tv d'antiquariato utilizzata solo per esposizione- commenta Giorgia Meloni - Ma che bisogna fare per liberare le imprese da uno stato così cretino?".
Vietato parlare del flop tedesco. Nicola Porro, Sabato 27/04/2019, su Il Giornale. È incredibile come si stia tenendo sotto traccia la situazione, drammatica, del settore bancario tedesco. Per anni la vigilanza europea, i grandi esperti, ci avevano raccontato che il malato sono le nostre banchette. Sono mesi invece che si cerca di trovare una soluzione, un salvataggio parliamoci chiaro, alle due reginette tedesche: Deutsche Bank e Commerzbank. Il terzo incomodo fu acquisito anni fa da Unicredit, e guarda caso oggi, almeno in Germania, è in sicurezza. Abbiamo pagato la follia della rigidità comunitaria obbligando le nostre banche a vendere alla velocità della luce i prestiti in sofferenza a cifre da saldo che giravano tra i 17 e i 20 centesimi per euro di capitale, e non ci accorgevamo che i giganti tedeschi stavano affondando. Abbiamo preteso che non si utilizzasse il nostro privatissimo fondo interbancario per ristorare gli obbligazionisti subordinati intrappolati dal bail in e non ci rendevamo conto che Deutsche e Commerzbank, di cui una parte del capitale è in mano diretta al ministero delle Finanze tedesche, sommate insieme non valgono le quotazioni di Borsa di Intesa-Sanpaolo. Anzi ad essere più precisi le due banche tedesche insieme valgono 24 miliardi, mentre la sola Intesa ne quota 40 di miliardi. È incredibile e se ne parla troppo poco. Una prima considerazione rende ancora più clamorosa la vicenda. La Germania che negli ultimi anni ha prosperato grazie al suo marco svalutato, e cioè l'euro, è sempre stata la locomotiva d'Europa, è sempre cresciuta a tassi superiori alla media Ue e di gran lunga maggiori rispetto all'Italia. Per essere più espliciti le banche tedesche hanno prestato soldi ad imprese che mediamente hanno sofferto la crisi meno di quelle italiane. E dunque la loro attività principale e cioè impiegare i quattrini raccolti dai risparmiatori in investimenti produttivi ha subito meno scossoni che da noi. Come sia possibile che le loro banche siano in acque così agitate, nonostante i loro investimenti tipici siano stati rivolti ad un tessuto produttivo che non ha subito la crisi è la domanda che ci si deve porre. Una serie di risposte esiste. Forse le autorità europee invece di accanirsi sui nostri prestiti incagliati, avrebbero potuto ragionare in modo più complessivo. Tutti sanno infatti di una doppia peculiarità del mercato del credito tedesco. La prima risiede nel fatto che ci siano una serie di superprotette banche regionali, equivalenti delle nostre banche locali, ma tutelate dai potenti politici locali. Ebbene esse sono di fatto fuori dal mercato. E spingono le due reginette, di cui sopra, ad una concorrenza piuttosto sleale. Deutsche quando combatte con la banchetta locale deve adeguarsi a condizioni non di mercato e dunque viene spiazzata. O se preferite deve trovare forme alternative di guadagno, tipicamente quelle da commissioni. Hanno spinto così fino all'inverosimile sull'investment banking, oggi in crisi, e su investimenti finanziari in derivati, la cui trasparenza è simile a quella di uno stagno nelle Everglades. La seconda caratteristica del mercato creditizio tedesco è che banalmente il rapporto tra costi e ricavi è di molto superiore a quello italiano. Il folle sistema duale, che per qualche follia qualcuno vorrebbe introdurre in Italia, è rigidamente pensato, compreso per Deutsche e Commerz, con un importante peso della componente dei lavoratori in consiglio di sorveglianza. Quando l'economia tira, la cosa funziona. Ma quando c'è da tagliare, da ammodernare, da rivedere iniziano i guai. La fusione tra le due banche tedesche, è inutile girarci tanto intorno, in gran parte nasce dal fatto che i consigli delle due banche avrebbero dovuto votare anche il taglio di almeno trentamila lavoratori: sarebbe mai potuto passare con una governance di questo tipo? Sia chiaro, anche in Italia si è proceduto ad una pesante ristrutturazione con le principali banche che hanno ridotto la loro forza lavoro fino ad un quarto del totale pre-crisi. Ma gli accordi sugli scivoli, cioè vai prima in pensione e ti garantisco per tot anni il 70-80% dello stipendio fino all'ottenimento dell'assegno previdenziale, ebbene questi accordi sono stati ottenuti con l'accordo del sindacato da una posizione di tipo contrattuale e non proprietaria. La morale di questa storia è che il sistema bancario italiano, i nostri risparmiatori, hanno pagato un prezzo eccessivo per la crisi che ha investito la finanza nel post 2007, mentre quello tedesco, ritenuto a torto più solido, è stato tenuto falsamente in piedi, con la colpevole negligenza della vigilanza bancaria comunitaria così occhiuta nei nostri confronti. È stato ricapitalizzato per la bellezza di 240 miliardi di euro. E oggi ci troviamo, viene quasi da ridere a scriverlo, nell'imbarazzante situazione di trovare qualcuno che si accolli il fardello della Deutsche Bank e della Commerzbank e che ci metta dentro altro capitale per non farle saltare.
· Quando le banche truffano ed i truffati ci stanno.
VAFFANBANKA! (ANSA il 15 giugno 2019) - Ricavi stabili a 82 miliardi di euro e utili in salita del 2%, grazie anche a una “spending review” da 2,2 miliardi (-7,2%) sui costi per il personale oltre che per minori accantonamenti e svalutazioni relativi a crediti deteriorati per 6,4 miliardi (-33%). E' questa la fotografia sui conti del 2018 del settore creditizio italiano scattata dalla Fabi (Federazione autonoma bancari italiani) a pochi giorni dall'avvio del negoziato per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro di 300.000 bancari. Secondo la ricerca della Fabi, che ha elaborato dati della Banca d'Italia, nell'ultimo anno i costi delle banche sono scesi da 56,8 a 54,8 miliardi del 2017: il taglio e' stato tutto a carico dei lavoratori con interventi pari al 7,2%, da 30,7 miliardi a 28,5 miliardi. Per quanto riguarda i primi 5 gruppi bancari del Paese, i costi totali sono scesi di 2,8 miliardi (-8%) da 25,1 miliardi a 32,3 miliardi; tra questi, le spese per il personale sono diminuite di 2,4 miliardi (-12,4%) da 19,7 miliardi a 17,3 miliardi.
Per quanto riguarda le sofferenze, la Fabi rileva che "non sono più un problema per il settore bancario italiano: negli ultimi anni, infatti, sono crollate e sono sensibilmente cresciute le cosiddette coperture". Rispetto al picco del 2015, quanto la massa di crediti deteriorati superò quota 350 miliardi e il tasso di copertura era al 45%, nel 2018, il totale dei prestiti rischiosi o in perdita è sceso sotto quota 200 miliardi. Il tasso di copertura è salito, invece, al 52,8%: si tratta di un valore assai più alto rispetto a quello delle più grandi banche europee. Nel corso del 2018, i crediti deteriorati netti sono calati a 90 miliardi, con una riduzione di 40 miliardi rispetto al 2017: una discesa legata a significative operazioni di cessione di non performing loan (55 miliardi nel 2018, 42 miliardi nel 2017, 26 miliardi nel 2016). Rispetto allo stock di finanziamenti, gli npl valgono il 4,3%, nel 2015 erano al 9,8%. Tale miglioramento ha consentito alle banche di ridurre sensibilmente gli accantonamenti, liberando risorse in bilancio.
I ricavi del settore, invece, risultano sostanzialmente immobili, come dimostrato dall'andamento dei più importanti valori di conto economico: il margine di intermediazione dell'intero settore è salito di appena 741 milioni (+0,9%) nel 2018, attestandosi a 82,7 miliardi; per i primi 5 gruppi bancari italiani, questa voce si è attestata a 51 miliardi in salita di 1,1 miliardi (+2,3%). Il settore ha messo insieme utili per 12,5 miliardi nel 2018, rispetto ai 15,8 del 2017. Il risultato di gestione si è attestato a 27,9 miliardi, in crescita di 2,7 miliardi rispetto al 2017 (+10,8%); per i primi 5 gruppi, si è trattato di 18,6 miliardi nel 2018, con un aumento di 3,9 miliardi (+27%) sull'anno precedente. I costi del personale assorbono il 34,4% dei "ricavi" nel 2018 rispetto al 37,5% del 2017.
"Dai banchieri mi aspetto nuove idee, strategie e progetti per allargare il business e aumentare i ricavi, che invece sono sostanzialmente fermi. In quest'ottica le lavoratrici e i lavoratori non vanno sacrificati a vantaggio della tecnologia". Lo afferma il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, commentando lo studio sul taglio dei costi del personale delle banche. "Negli ultimi anni - prosegue Sileoni - i conti delle banche italiane si sono chiusi con importanti risultati, raggiunti, però, solo con riduzione degli npl e tagli ai costi. Finita la pulizia dei bilanci, svendendo le sofferenze, le banche proseguiranno a macinare utili solo sforbiciando le spese per il personale dirottando le risorse su consulenze e dividendi?".
Giuseppe Guastella per il “Corriere della sera” il 3 ottobre 2019. «L' investimento mi è stato proposto per diversificare il portafoglio titoli di Vasco Rossi mediante l' acquisizione di un bene rifugio» come «un investimento sicuro, non soggetto a oscillazione di valore e anzi in grado di garantire un rendimento molto elevato nel tempo», dichiarava a verbale la segretaria del rocker di Zocca. Il Blasco è solo una delle circa 300 vittime individuate nella truffa da circa 500 milioni di euro venduti in banca. Ma, come si legge negli atti della venduti in banca per le quali sono state chiuse le indagini nei confronti di 87 indagati che ora rischiano il processo, il raggiro riguarderebbe «decine di migliaia di risparmiatori». Secondo le accuse ipotizzate dal Pm milanese Grazia Colacicco, che ha coordinato le indagini del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Gdf, i diamanti sarebbero stati venduti agli ignari clienti, che come Vasco Rossi immaginavano di fare un investimento vantaggioso, a prezzi gonfiati rispetto al loro valore reale dal 30 al 50%, ma ci sono casi in cui il prezzo sarebbe lievitato dell' 80%. La compravendita, sostiene l' accusa, avveniva negli uffici delle agenzie bancarie con la complicità di alcuni dipendenti e delle stesse banche. I clienti venivano invogliati ad acquistare le pietre preziose vendute dalla Intermarket diamond business e dalla Diamond private investment, mentre gli istituti incassavano laute commissioni che arrivavano fino al 18% del presunto investimento. «Mi è stato fatto capire che l' importo corrisposto costituisse espressione del valore del bene acquistato», aggiungeva la collaboratrice di Vasco Rossi, il quale aveva investito 2,5 milioni di euro versati con tre bonifici il 20 luglio 2009, il 22 febbraio 2010 e il 14 ottobre 2011, rispettivamente da 1,043 milioni di euro, 520 mila euro e poco più di un milione. Non è l'unico personaggio famoso finito nel raggiro, perché nell' avviso di conclusione delle indagini notificato dalle Fiamme gialle agli indagati figurano anche l' industriale milanese della farmaceutica Diana Bracco, per più di un milione, la conduttrice televisiva Federica Panicucci, 54 mila euro, e l' ex showgirl Simona Tagli, che di euro ne avrebbe persi 29 mila. Oltre alle due società che commercializzavano i diamanti, sono coinvolte in base alla legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle imprese anche il Banco Bpm, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mps e Banca Aletti. I funzionari delle banche, sostiene l' accusa del sostituto procuratore Colacicco, sarebbero stati ricompensati lautamente. La Idb, ad esempio, avrebbe elargito «una serie di regali ai vertici del Banco Bpm e di Unicredit». Gli stessi istituti, insieme con le persone fisiche indagate, avevano subito a febbraio scorso un sequestro preventivo pari da oltre 700 milioni di euro disposto dal giudice per le indagini preliminari Natalia Imarisio. Gran parte delle persone che hanno acquistato i diamanti sono state nel frattempo risarcite dalle banche alcune delle quali, come Unicredit, hanno subito ricomprato le pietre allo stesso prezzo alle quali erano state vendute.
Diamanti, la Finanza sequestra 700 milioni di euro. Anche Vasco Rossi tra i truffati. Cinque banche coinvolte nell'inchiesta della procura di Milano: sotto indagine Banco Bpm e Banca Aletti, Unicredit, Intesa Sanpaolo e Mps. Tra i raggirati anche Federica Panicucci e Simona Tagli, scrive Flavio Bini il 19 Febbraio 2019 su La Repubblica. L’inchiesta sulla presunta truffa nella vendita di diamanti a risparmiatori e investitori si allarga alle banche e svela anche nomi eccellenti tra i clienti colpiti, come la rockstar Vasco Rossi, la conduttrice Federica Panicucci, l'ex show girl Simona Tagli e l’imprenditrice Diana Bracco. La Guardia di Finanza ha eseguito oggi un sequestro preventivo di oltre 700 milioni di euro nell’ambito dell’inchiesta in cui risultano indagate anche Banco Bpm e Banca Aletti, Unicredit, Intesa Sanpaolo e Mps.
L'inchiesta. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Riccardo Targetti e dal pm Grazia Colacicco, riguarda fatti avvenuti tra il 2012 e il 2016 quando, secondo l’accusa, due società - la Intermarket Diamond Business spa (Idb) e la Diamond Private Investment spa (Dpi) - avrebbero venduto attraverso l’intermediazione degli sportelli bancari, diamanti ad un prezzo molto superiore al loro reale valore. Il decreto di sequestro, firmato dal gip di Milano Natalia Imariso, è stato eseguito a carico di 7 persone indagate e di 7 enti, cioè le 5 banche e le due società, per le ipotesi di reato di truffa aggravata e autoriciclaggio. Quasi settanta gli indagati totali: tra questi anche il direttore generale di Banco Bpm Maurizio Faroni, a cui vengono contestate le accuse di concorso in truffa, autoriciclaggio e ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza.
Maxi sequestri: 83,8 milioni a carico di Banco Bpm. Tra le più colpite dal sequestro le due società di vendita: sommando entrambe le contestazioni, 253 milioni sono a carico di Dpi e 328 milioni di Idb, nei cui confronti però il Tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento lo scorso gennaio. Il provvedimento cautelativo si abbatte pesantemente anche sugli istituti di credito: 83,8 milioni sono a carico di Banco Bpm e di Banca Aletti, 32 milioni nei confronti di Unicredit, 11 milioni nei confronti di Intesa Sanpaolo e 35,5 milioni a carico di Mps.
Da Vasco a Simona Tagli, i clienti vip coinvolti. Si tratta di una svolta importante in una vicenda che vede coinvolte diverse decine di migliaia di risparmiatori. Nell'inchiesta, gli investigatori hanno ricostruito le posizioni di circa un centinaio di clienti. Tra questi come detto anche Vasco Rossi, che secondo quanto emerge dalla carte avrebbe investito 2,5 milioni di euro. Simona Tagli avrebbe fatto un investimento da circa 29mila euro e Federica Panicucci da circa 54mila euro.
Le multe dell'Antitrust. Ad accendere un faro sulla vicenda, dopo diverse inchieste giornalistiche, era già stata l'Antitrust che al termine della sua istruttoria aveva irrogato nell'ottobre 2017 sanzioni complessive per 12,35 milioni di euro a carico delle due società (Idb e Dpi) e di Banco Bpm, Unicredit, Intesa Sanpaolo e Mps. Gli stessi istituti, per rispondere alla proteste dei risparmiatori, per cui era risultato impossibile rivendere le pietre ad un prezzo almeno uguale all'acquisto, pur essendosi sempre dichiarati estranei alle operazione di vendita, avevano comunque deciso in alcuni casi di provvedere a un rimborso di quanto investito da parte di alcuni risparmiatori.
I numeri. Secondo i dati della corposa indagine condotta dall'Antitrust, dal 2011 al 2017 Idb e Dpi, hanno perfezionato vendite per oltre un miliardo di euro. Di questi, più della metà, 600 milioni di euro, sono riconducibili al solo Banco Bpm che grazie al suo ruolo di intermediario per circa 30-40 mila clienti ha incassato nel periodo oltre 100 milioni di commissioni. Stesso ruolo svolto da Unicredit, che ha regsitrato 40-50 milioni di commissioni in sei anni. Più marginale il ruolo degli altri istituti. Intesa Sanpaolo, attiva da metà 2015, ha dichiarato 7000 clienti nel 2016, Mps circa 14 mila operazioni (alcune riconducibili a più soggetti) dal 2013 al 2016 e commissioni totali tra i 30 e i 50 milioni di euro.
Giuseppe Guastella per il Corriere della Sera il 20 febbraio 2019. Un diamante è per sempre, diceva la pubblicità. E doveva essere per forza così per decine di migliaia di risparmiatori i quali se avessero rivenduto le pietre che avevano comprato spinti e invogliati da funzionari di banca, ci avrebbero rimesso fino al 50 per cento dell'investimento. Una truffa, secondo un'indagine della Procura della Repubblica di Milano che coinvolge 75 indagati, cinque banche e due società, ha portato al sequestro di oltre 700 milioni di euro e vede tra le presunte vittime nomi del calibro del cantante Vasco Rossi. Ci sono voluti più di due anni agli investigatori per venire a capo di un'inchiesta nata da un servizio della trasmissione Report del 2016 sui cosiddetti «diamanti da investimento». Un mercato nel quale spiccavano la Intermarket diamond business spa di Milano, che operava attraverso UniCredit, Banco Bpm e Banca Aletti, e la Diamond private investment di Roma spa, che si appoggiava ad Mps e Banca Intesa Sanpaolo. Gli accordi formalmente prevedevano che le banche mettessero solo a disposizione nelle loro filiali il materiale pubblicitario delle due società, ma in realtà, secondo le indagini della Guardia di finanza di Milano coordinate dal pm Grazia Colacicco e dell'aggiunto Riccardo Targetti, erano i loro direttori e consulenti finanziari che «proponevano ai clienti l'investimento» presentandolo in modo «parziale, ingannevole e fuorviante». I diamanti, cioè, venivano fatti apparire come un «bene rifugio» garantendo un rendimento costante annuo del 3-4% del capitale, molto più di un qualsiasi titolo di Stato. Lo dimostravano, dicevano, le quotazioni di mercato stampate su un giornale economico, che però non erano che un listino prezzi (gonfiato rispetto ai valori reali) pubblicato a pagamento furbescamente sulle pagine dei titoli di Borsa. Non era assolutamente così, e i clienti se ne sarebbero resi conto, è proprio il caso di dirlo, a loro spese. Autorizzando il sequestro preventivo, il gip Natalia Imarisio scrive che le vittime non erano in grado di capire che metà dei loro soldi se ne andava tra Iva, commissioni delle banche e profitto delle società e che se avessero voluto disinvestire avrebbero dovuto versare un ulteriore 10%. A convincerli erano i consulenti finanziari o i direttori di filiali delle banche «che conoscevano da anni e di cui si fidavano» e che nella sostanza garantivano «l'intrinseca genuinità dell'investimento e l'affidabilità delle due società». Un centinaio, per ora, le vittime identificate, anche se sono migliaia i clienti che si sono già mobilitati per una class action. Il rocker Vasco Rossi ha investito oltre 2,5 milioni nei diamanti della Idb, come ha fatto l'imprenditrice farmaceutica milanese Diana Bracco, che ha versato più di 1,3 milioni. Anche la conduttrice tv Federica Panicucci potrebbe averci rimesso parte dei suoi 55 mila euro, un po' meno la ex showgirl Simona Tagli, che ne ha messi 30 mila. Il lungo elenco contempla anche molti piccoli imprenditori e semplici risparmiatori. Le banche, precisa il gip, si sono difese sostenendo di «essersi limitate a segnalare la possibilità di investire in diamanti» ottenendo solo «ricavi marginali». Che nei loro uffici si fosse consapevoli che le cose non erano proprio chiare lo dimostrerebbe, ad esempio, una telefonata intercettata in cui un dipendente del Banco Bpm parla di un cliente e dice che «compra a 100 e vale 44, perché se legge (bene la documentazione, ndr ) non lo compra». In un caso, quello di un signore che ha versato 400 mila euro, una perizia gemmologica ha accertato che le pietre valevano addirittura appena il 20% di quanto erano state pagate. Per ingraziarsi i dipendenti degli istituti di credito e garantirsi la loro collaborazione, Intermarket diamond business e Diamond private investment non lesinavano regali come viaggi e benefit, in un caso anche donazioni per 150 mila euro a una Onlus fondata in memoria del figlio scomparso di un manager, ma anche investimenti per milioni in azioni delle stesse banche, garantendo così ai dirigenti di raggiungere gli obiettivi di budget e ottenere i premi di risultato. Questo ha fatto scattare anche l'accusa di corruzione tra privati, di autoriciclaggio e reimpiego di capitali di provenienza illecita.
I trucchi delle banche per aumentare i costi dei conti correnti. Il Corriere del Giorno il 13 Maggio 2019. Gli ultimi dati di Bankitalia evidenziano che la gestione dei conti diventano sempre più cara. La concorrenza aumenta ma anche i costi dei conti correnti crescono. I nostri consigli per capire se ci stanno applicando aumenti e “fregature” mascherate. ROMA – Secondo gli ultimi dati disponibili di Bankitalia risalenti al 2017 la spesa per gestire un conto corrente è salita a 79,4 euro, cioè 2 euro in più rispetto ai costi dell’anno 2016. Anche i costi per la gestione di un conto online è comunque più conveniente in confronto ad un conto “allo sportello” sono saliti, passando da0,6 a 2,1 euro. Secondo gli analisti di Bankitalia, il motivo di questo rincaro, è da attribuire principalmente ai canoni di base. Resta da chiedersi come tutto questo sia possibile, quando sono sempre di più le banche che pubblicizzano conti a “zero spese”? Il problema è che non sempre si tratta di offerte illimitate, come spiega in un vademecum l’Unione Nazionale Consumatori , in quanto periodicamente scadono per lasciare il posto ai costi di gestione, che non sempre sono bassi. Sono proprio i clienti di lunga data quelli che devono stare maggiormente in guardia. il “mercato” dei conti correnti bancari è molto simile a quello delle compagnie telefoniche, infatti, anche le banche propongono spesso offerte molto allettanti per attirare nuovi correntisti, ma non fanno nulla per mantenere quelli già “fidelizzati”, ai quali invece continuano ad applicare delle precedenti condizioni economiche, sicuramente non più competitive. Un metodo per capire quanto effettivamente ci costa un conto corrente, è quello di controllare l’Isc, cioè l’Indicatore Sintetico di Costo che viene comunicato nell’informativa periodica di fine anno ed “offre una visione complessiva del costo totale di gestione del conto”, comprese le spese e le commissioni annuali per un cliente-tipo, al netto, ovviamente di interessi e commissioni su eventuali scoperti. Il consiglio più importante è quello di leggere attentamente il contratto con la vostra banca: è lì che sono contenuti fuori i costi reali che la pubblicità ed i vari opuscoli cercano di omettere e spesso nascondere. Chi fa molte operazioni dovrebbe avere sempre l’accortezza di effettuarle online invece che recarsi allo sportello, che ha sempre un costo ben più alto. La maggior parte delle volte gli aumenti riguardano il bancomat, il libretto degli assegni o la carta di credito. Ecco perchè è molto importante controllare periodicamente queste voci di spesa sull’estratto conto. Una banca può cambiare le condizioni contrattuali e aumentare alcune voci di costo, ma è sempre obbligata ad avvisare i clienti almeno due mesi prima. Se il cliente non è d’accordo con le nuove condizioni può trasferire i propri soldi ad un nuovo istituto di credito e chiudere il precedente conto della banca precedente senza alcun costo. Infatti non tutte le modifiche contrattuali sono legittime, e pertanto devono essere motivate. E negli ultimi anni sono stati diversi gli istituti di credito che hanno applicato addebiti assolutamente ingiustificati ai propri clienti. Come ricorda l’ associazione di consumatori Altroconsumo è successo con il Banco Popolare e la Deutsche Bank che, nel 2016, hanno usato il fatto di aver partecipato al Fondo nazionale di risoluzione, come giustificazione degli aumenti applicati : il Fondo è una specie di salvadanaio custodito da Banca d’Italia che viene utilizzato per aiutare le banche in difficoltà ed evitare che sia lo Stato a farsene carico. Nell’agosto del 2017 Intesa Sanpaolo ha applicato un rincaro a circa il 30% dei correntisti (incredibilmente i più “fedeli”) sostenendo che che la misura applicata si era necessaria per far fronte ai tassi d’interesse di mercato. Tassi negativi, infatti, possono trasformare la liquidità dei clienti in un costo per la banca se questa lascia i depositi nei forzieri della Bce. “Le giacenze sul conto non sono remunerate da Intesa San Paolo e dunque ci sembra difficile poter trovare una qualche correlazione diretta tra costo del conto corrente e riduzione del tasso di riferimento della Banca Centrale Europea” spiegano da Altroconsumo.
Risparmio, vatti a fidare delle banche! Un giornalista di Panorama si è finto cliente interessato a investire 50 mila euro. Il risultato? Molte proposte di prodotti cari e complicati, scrive Guido Fontanelli il 27 gennaio 2019 su Panorama. Le banche hanno perso un po’ di pelo, ma non il vizio di piazzare prodotti che fanno più l’interesse loro di quello dei clienti. Lo ha verificato sul campo un giornalista di Panorama che, fingendosi alla ricerca di consigli per un investimento, ha visitato le filiali di alcune banche per scoprire quali sono le proposte più gettonate allo sportello per poi farle valutare da AdviseOnly.com, piattaforma di educazione finanziaria e consulenza indipendente, che ha bocciato cinque soluzioni su otto.
Polizze e i "certificate". Ora i prodotti più in voga in banca sono le polizze assicurative e i «certificate» che garantiscono agli istituti margini molto più alti rispetto a un Btp o un’obbligazione, anche se non sempre rappresentano un vantaggio per il cliente. Certo, non si tratta di bidoni, come i diamanti o i titoli emessi dalle popolari che poi non si riescono più a vendere. Il problema semmai è che sono prodotti spesso complicati e costosi. «Ora gli istituti di credito sono in pieno ciclo assicurativo» sostiene Lando Sileoni, segretario generale del sindacato dei bancari Fabi, «non solo nel campo del risparmio ma anche in quello della salute. Per questo sono sempre più frequenti i matrimoni tra aziende di credito e compagnie di assicurazione. Nel 2019 le prime otto banche italiane chiuderanno il 2019 con 12,5 miliardi di utili, contro i 10 del 2018: un aumento dovuto proprio ai maggiori margini garantiti dalle polizze collocate presso i clienti». Il sindacato denuncia che «le banche italiane si stanno trasformando in supermarket finanziari, con le pressioni commerciali sui lavoratori bancari in costante crescita».
Tendenza confermata da Vincenzo Somma, direttore del periodico Altroconsumo Finanza, che ha aperto un canale diretto via mail con i risparmiatori. Dalle loro segnalazioni emerge la grande pressione da parte delle banche a collocare polizze e, più di recente, «certificate», che Somma descrive come «un derivato travestito da obbligazione». «Non si tratta di strumenti molto pericolosi» aggiunge «ma certamente sono cari e alla fine rendono meno di un titolo di Stato». «In genere i clienti che si rivolgono al mio studio» rivela Letizia Vescovini, avvocato che tra l’altro cura gli interessi dei risparmiatori incappati nelle maggiori crisi bancarie, «lamentano la scarsa chiarezza con cui sono stati venduti prodotti che non offrono la garanzia del capitale, nonostante le promesse in tal senso del funzionario dell’istituto di credito. Oppure il collocamento di polizze che di fatto si sono rivelate dei meri prodotti finanziari».
Il finto cliente. Un copione che il giornalista di Panorama ha vissuto di persona, presentandosi come un potenziale cliente di 55 anni, lavoratore dipendente con due figli che frequentano le scuole medie e un capitale di 50 mila euro da investire con un orizzonte di cinque anni e una tolleranza al rischio piuttosto bassa: dopo la crisi del 2008 e gli alti e bassi dei mercati azionario e obbligazionario, il risparmiatore vorrebbe un prodotto che protegga il capitale, anche a costo di guadagnare poco. Qui sotto trovate il resoconto dei colloqui avuti con sei banche, le Poste e le Generali, i relativi commenti di Advise Only e infine il voto assegnato a ogni proposta. «La cosa che colpisce nella prova effettuata da Panorama» sottolinea Raffaele Zenti, cofondatore di Virtual B (a cui appartiene Advise Only) e responsabile del team di finanza e data science, «è che, nonostante la normativa Mifid e un gran parlare ovunque di consulenza finanziaria sui giornali, in televisione, ai convegni, poi in pratica, sul terreno di gioco, l’enfasi è tutta sui prodotti, non sui bisogni del cliente. Insomma è piuttosto evidente che spesso la filosofia è: ci sono dei prodotti da “spingere” e al cliente si vendono quelli, punto». Zenti non boccia a priori la tendenza a spingere sui prodotti assiurativi, ma con qualche distinguo: «Se davvero ci fosse l’esigenza di garanzia del capitale, i prodotti assicurativi sarebbero probabilmente i prodotti migliori, dal punto di vista del cliente: diventano cattivi se i costi sono a livello di rapina, come accade in qualche caso, anche se non sempre. I prodotti assicurativi offrono anche alcuni benefici fiscali, oltre a impignorabilità e insequestrabilità. Ciò non giustifica però costi esagerati...» Poche delle banche interpellate hanno fatto riferimento alla Mifid (Markets in Financial Instruments Directive), la normativa che impone agli intermediari una serie di regole per evitare di rifilare ai risparmiatori prodotti non adeguati al loro profilo di rischio. In particolare, la banca dovrebbe raccogliere, attraverso un questionario, le informazioni utili a valutare il grado di esperienza del cliente in materia di investimenti, la sua situazione finanziaria e i suoi obiettivi. E verificare che il servizio proposto corrisponda effettivamente agli obiettivi dichiarati dal risparmiatore e non lo esponga a rischi che non è in grado di comprendere o sopportare. Nel caso della nostra indagine la maggioranza dei funzionari non ne hanno fatto cenno: «Invece la profilazione Mifid è necessaria» dice Zenti «e anche nell’ambito di un colloquio conoscitivo, una ricognizione come quella effettuata, ne va fatta necessariamente menzione».
UNICREDIT. La proposta. La prima banca visitata è l’Unicredit. Dopo un’attesa di mezz’ora, una signora sorridente accoglie il potenziale cliente e risponde con gentilezza alle sue domande. Esordisce sconsigliando i titoli di Stato: «Coprono l’inflazione al pelo, per portare qualcosa a casa è meglio puntare un po’ sull’azionario». In particolare, la funzionaria suggerisce di investire subito 10-15 mila euro in un Pir, «che offre l’esenzione della tassazione sul capital gain». I Pir sono piani individuali di risparmio introdotti della legge di bilancio 2017, creati come forma di investimento a medio termine per veicolare i risparmi verso le piccole e medie imprese. Ai risparmiatori viene garantita, se il programma è mantenuto per 5 anni e se vengono soddisfatte altre condizioni, l'assenza di tassazioni. Accanto al Pir, la dipendente dell’Unicredit consiglia di avviare anche un piano di accumulo in un fondo azionario, cioè un investimento a rate per «ridurre il rischio». In realtà si tratta di un prodotto assicurativo, UniBonus Strategy, che prevede versamenti ricorrenti annuali o mensili. Nessun accenno alla normativa Mifid. Successivamente, via mail, la funzionaria propone un Certificato di investimento a sette anni, emesso da Unicredit, con protezione al 100 per cento del capitale alla scadenza: legato all'indice Euro Stoxx dividend 30 (l'indice composto dalle 30 azioni che hanno il maggior rapporto tra dividendo e prezzo dell'azione) prevede cedole annuali crescenti a partire dal 4 per cento se alle date di valutazione il valore del certificato sarà superiore al valore dell'indice. «Sembra un po' macchinoso ma in realtà è più semplice di quanto si possa pensare: consideri che con i recenti storni delle Borse il valore dell'indice Euro Stoxx si è notevolmente ridotto, pertanto i margini di crescita sono decisamente più ampi, in sostanza non entriamo certo ai massimi».
Il commento. Proporre il Pir, che è un concentrato di rischio Italia con sfumature di Europa, per un 10-15 per cento di portafoglio è a nostro parere eccessivo. Il secondo prodotto tirato in ballo, UniBonus Strategy, una unit-linked, sfora sicuramente l’obiettivo temporale dichiarato dal cliente (5 anni), come si vede dalla descrizione online che indica un orizzonte addirittura di 15 anni e in cui si sottolinea che «si sta per acquistare un prodotto che non è semplice e può essere di difficile comprensione». I costi associati a questo prodotto sono alti: 3,75 per cento su ciascun versamento (sia premio iniziale che premio ricorrente), spesa fissa annua di 24 euro, commissioni di gestione annue dall’1,6 al 2,2 per cento in base ai fondi scelti. Il terzo prodotto, un certificato protezione 100 per cento è uno strumento finanziario strutturato, ma che protegge il capitale. Ha durata pari a 7 anni, più lunga di quella richiesta. I certificates hanno un rischio emittente, legato alla solvibilità della banca: in caso di insolvenza l'investitore sarà un mero creditore chirografario e non beneficerà di garanzia alcuna per la soddisfazione del proprio credito nei confronti dell'emittente. In generale, la proposta di Unicredit appare molto focalizzata nel piazzare i propri prodotti, più che a capire realmente il cliente e le sue esigenze. Voto: 4
UBI BANCA. La proposta. Il funzionario che si occupa di investimenti riceve immediatamente il giornalista (in incognito) di Panorama. Premette che Ubi Banca è uno degli istituti più solidi del Paese ma aggiunge che non può entrare troppo nei dettagli, perché il cliente dovrebbe prima compilare il modulo Mifid. Poi però si azzarda a consigliare una polizza assicurativa denominata Aviva Twin: «È una formula a capitale garantito sull’80 per cento del patrimonio investito, mentre il restante 20 per cento è messo in fondi bilanciati e azionari» spiega il bancario, che poi aggiunge: «Suggerirei di allungare l’investimento oltre i 5 anni». In alternativa, propone un mix di obbligazioni e di titoli di Stato da definire nel dettaglio dopo l’apertura del conto presso la banca.
Il commento. La polizza multiramo, con una componente garantita e una a scelta, possibilmente bilanciata, potrebbe essere una soluzione ragionevole. La polizza ha costi piuttosto contenuti (che nel complesso con la partizione della quale si è parlato, sono inferiori al 2 per cento). Quanto alla seconda soluzione ventilata, il portafoglio obbligazionario, se ben costruito, potrebbe essere una buona soluzione per questo ipotetico cliente. Voto: 7
BANCO BPM. La proposta. È il direttore della filiale ad accogliere nel suo ufficio il risparmiatore che non deve fare alcuna coda. Il funzionario va subito al sodo e consiglia di investire nella polizza Beldomani Gold del gruppo Vera Vita (Cattolica): «È un po’ come un fondo» spiega «ma in più ha la garanzia del capitale e una fiscalità più bassa. Dal quinto anno nessuna penale se si esce e in media ha reso tra il 2,5 e il 4 per cento all’anno». Il cliente replica che un titolo di Stato ha caratteristiche simili, cioè garanzia del capitale a scadenza e tasse basse e inoltre si pagano meno commissioni. Ma il direttore della filiale risponde che investire in un titolo di Stato espone a rischi maggiori, soprattutto se si deve vendere prima della scadenza.
Il commento. Inquietante che il direttore di filiale sia andato dritto sul prodotto, senza esitazione e senza cercare di capire meglio il cliente. La polizza Beldomani Gold, non è poi nemmeno male, perché è semplice, adatto anche a investitori poco esperti e con bassa propensione al rischio, ha la garanzia sul capitale, un contenuto assicurativo (caso morte a vita intera) e costi contenuti dopo il quarto anno. I rendimenti sono allineati con quelli dei titoli di Stato (Btp, che non sono affatto risk-free, perché lo Stato italiano può fare default), ma c’è in più un contenuto assicurativo, il che non è da buttare via. Voto: 5
POPOLARE DI SONDRIO. La proposta. L’istituto lombardo supera a pieni voti la prova sul campo, perché non dà consigli. Sembra un paradosso, ma il funzionario che rifiuta di fornire alcun tipo di consulenza senza prima aver fatto compilare al cliente il lungo modulo Mifid, trasmette un’immagine di grande professionalità. Comunque, dopo parecchie insistenze, il bancario della Sondrio si limita a spiegare che l’ideale sarebbe investire i 50 mila euro in un portafoglio diversificato tra fondi, Etf e singoli titoli obbligazionari. E a domanda se non sia invece il caso di mettere tutti i soldi in un prodotto assicurativo, risponde che non lo consiglierebbe mai: «Assolutamente no perché sio violerebbe il principio della diversificazione del rischio».
Il commento. Il funzionario ha fatto ciò che doveva fare. Inoltre, spinto a fornire qualche idea, ha citato soluzioni di assoluto buon senso, da esplorare successivamente. Voto: 10
BANCO DESIO. La proposta. Dopo una decina di minuti di attesa, l’esperto di investimenti riceve il risparmiatore in una grande ed elegante sala. Non fa alcun cenno alla normativa Mifid e risolve il colloquio in modo sbrigativo: «Se lei cerca la sicurezza» dice «può investire in un Btp a sette anni. Oppure, se accetta un po’ di rischio, può acquistare un fondo Arca, o similare, di tipo bilanciato che versa una cedola periodica. Altrimenti potrebbe costruire un portafoglio diversificato formato da più titoli». Per definire i dettagli consiglia un nuovo incontro dopo l’apertura del conto.
Il commento. Non è bello che non si sia accennato alla Mifid e che l’attenzione verso il cliente sia stata sbrigativa. Ma va anche detto che il funzionario ha chiaramente detto che serve un incontro dedicato. Le indicazioni fornite informalmente sono state un po’ vaghe, il che in fondo è corretto. Quelle fornite nel complesso seguono il buon senso anche se non è vero che un Btp a 7 anni è privo di rischi. Voto: 6
INTESA SANPAOLO. La proposta. Per incontrare il funzionario dedicato agli investimenti è stato necessario fissare un appuntamento. Al giorno stabilito il risparmiatore viene accolto da una giovane dipendente e dalla direttrice della filiale. Nessuna delle due cita la normativa Mifid. Il loro primo suggerimento è di diversificare i 50 mila euro in un paio di fondi di investimento. In particolare la direttrice parla del fondo Eurizon Equity Target che, spiega, gradua gli acquisti in borsa nel tempo in modo da ridurre i rischi e cogliere i momenti migliori del mercato. «Un’altra soluzione per proteggere il capitale» aggiunge «è il Certificate Nikkei collocato fino alla fine di gennaio che è agganciato all’andamento della Borsa di Tokyo. Dura sette anni e garantisce la restituzione dell’intero capitale e cedole crescenti nel tempo». Il potenziale investitore chiede se la banca offre anche soluzioni di tipo assicurativo e la dipendente della banca accenna anche alla possibilità di investire in una polizza, la Prospettiva: si tratta di una Unit linked che permette di scegliere tra 23 fondi suddivisi in cinque diverse aree di gestione del capitale.
Il commento. Il fondo Eurizon Equity Target è in buona sostanza, un impacchettamento di un piano di accumulo azionario, con una buona diversificazione, innestato su una base a reddito fisso. Ha un orizzonte temporale grosso modo quinquennale e costi in linea con la media di mercato. Non è male, come idea. Peggio il secondo, il certificate sul Nikkei, che punta su una singola asset class (azioni Giappone), con scarsa attenzione all’idea di diversificazione, con durata 7 anni e con tutti i problemi dei certificati, a cominciare dal rischio di credito dell’emittente del quale s’è già detto. Infine, si è parlato di Prospettiva 2.0, unit linked a premio unico e a vita intera, piuttosto flessibile, ma con costi che possono andare da 1,12 per cento (bassino) a 3,47 per cento (alto), in funzione dei fondi scelti. Voto: 5
POSTE. La proposta. Anche alle Poste è stato necessario fissare in anticipo l’incontro con il funzionario addetto agli investimenti. L’addetto è una giovane signora che ha iniziato la sua carriera come portalettere. Al risparmiatore, che intende investire 50 mila euro su cinque anni con la massima prudenza, la signora propone due soluzioni: la prima è la polizza Postemultiscelta, «una multiramo in cui il capitale va per l’80 per cento nella gestione separata (cioè un patrimonio separato da ogni altro patrimonio della Compagnia: quindi, qualsiasi cosa succeda, nessuno potrà toccarlo) e il resto in un fondo bilanciato. Si può anche aumentare la parte investita nel fondo, se vuole più rischio» aggiunge la funzionaria. «I soldi che vanno invece nella gestione separata sono garantiti al 100 per cento alla scadenza». La commissione di ingresso, aggiunge, sarebbe del 2 per cento, ma ora c’è una promozione ed è ridotta all’un per cento. Poi c’è una commissione dell’1,1 per cento sul rendimento della gestione separata e dell’1,25 per cento sulla quota investita nel fondo. Per quanto riguarda il rendimento del prodotto la dipendente delle Poste non si sbilancia: «Un guadagno non è garantito, dipende dai mercati». La seconda soluzione è un altro prodotto assicurativo, Postefuturoperte, una polizza a gestione separata, «ancora più sicura», con commissione di ingresso del 3 per cento e capitale garantito. «E i buoni postali?» chiede il cliente. La signora risponde che «sì, ci sono anche quelli, con una tassazione conveniente, come quella dei Bot, del 12,5 per cento. Il rendimento dei buoni postali a sei anni è dell’1,5 per cento, ma a differenza dei Bot i buoni non sono quotati e il loro prezzo non può scendere». In altre parole, il capitale non è in pericolo. La funzionaria però sembra propendere per le polizze.
Il commento. Postemultiscelta, è una polizza multiramo, a basso rischio, costi piuttosto contenuti e orizzonte temporale consigliato quinquennale, con una modesta copertura assicurativa e rendimenti più o meno in linea con i Btp, un’idea tutto sommato difendibile. Il secondo prodotto (Postefuturoperte) è ancora più orientato al breve termine, ha prospettive di rendimento davvero modeste. I costi in assoluto non sono alti, ma lo diventano se paragonati alle prospettive di rendimento. Voto: 5,5
GENERALI.La proposta. Dopo aver fatto firmare al potenziale cliente un documento sulla privacy, il dipendente delle Generali presenta due possibili investimenti: il primo, in un’unica soluzione, è in Generali One, una polizza a gestione separata con capitale garantito. «Offre un interesse composto del 2 per cento e prevede una commissione d’ingresso del 3 per cento. All’uscita si paga una tassa sul guadagna del 18-19 per cento. Date le sue caratteristiche, è più sicura di un conto deposito». In alternativa l’addetto propone la polizza Generali Premium Abbinato: «Ha una commissione d’ingresso più bassa, pari all’un per cento, e prevede versamenti aggiuntivi in fondi azionari. Lei potrebbe investire subito 40 mila euro nella gestione separata e poi fare dei versamenti periodici nei fondi, in modo da spalmare i rischi ne tempo».
Il commento. Nessun riferimento alla normativa Idd (il corrispondente per le assicurazioni della Mifid). Nessun approccio consulenziale cliente-centrico. Tutta l’attenzione è sul vendere il prodotto. Per quanto riguarda Generali One, il costo non è esoso se il prodotto è detenuto 5 anni o più, ma nemmeno economico, e i rendimenti sono grosso modo in linea con quellii dei titoli di Stato italiani. Generali Premium Abbinato ha un periodo di detenzione raccomandato di 10 anni. Sul periodo quinquennale, secondo i documenti dell’emittente, il costo, a seconda della scelta dei fondi, oscilla tra il 4,7 e il 5,5 per cento annuo: un’enormità. Impresentabile. Voto: 4
L'Europa scopre il Cartello che "drogava" i titoli di Stato. Indagine su otto big del credito: sotto accusa gli scambi dal 2007 al 2012, quando governava il Cavaliere, scrive Camilla Conti, Venerdì 01/02/2019, su Il Giornale. L'accusa rivolta da Bruxelles a otto banche è pesante: aver fatto cartello per distorcere la concorrenza nel trattare i titoli di Stato europei in diversi periodi tra il 2007 e il 2012. La Commissione Ue ha avviato un'indagine formale: il timore è che gli impiegati alle scrivanie del trading si scambiassero informazioni sensibili e coordinassero le proprie strategie di negoziazione su bond denominati in euro. Spifferi e contatti avrebbero avuto luogo principalmente - ma non esclusivamente - attraverso chat room online. «Uno schema collusivo» lo definisce in un comunicato l'Antitrust Ue che ha dunque inviato una lettera alle parti interessate. Queste ultime possono esaminare i documenti e chiedere un'audizione orale per presentare i loro commenti sul caso. Se la Commissione concluderà che la violazione c'è stata, potrà imporre una multa fino al 10% del fatturato mondiale annuale delle aziende coinvolte. Chi è finito nel mirino? Bruxelles non fa nomi limitandosi a precisare che l'indagine riguarda solo gli operatori delle otto banche e questo «non implica che il presunto comportamento anticoncorrenziale fosse una pratica generale nel settore» dei titoli di debito sovrano. Già a dicembre, però, l'autorità guidata da Margrethe Vestager aveva accusato quattro istituti di far parte di un cartello sui bond, citando anche in quell'occasione l'utilizzo di chat da parte di operatori. In quel caso il periodo citato erano gli anni dal 2009 al 2015 e il sospetto riguardava soprattutto un «cartello» sul mercato secondario dove venivano scambiati bond sopranazionali, sovrani e di agenzie denominati in dollari (noti come «SSA bonds»). In quel caso l'agenzia Reuters aveva citato Credit Suisse, Credit Agricole, Bank of America Merrill Lynch e Deutsche Bank. La stessa banca tedesca su cui ha indagato anche la Procura di Milano per la speculazione in titoli di Stato italiani effettuata nel primo semestre del 2011. Operazione che contribuì a far volare lo spread dei rendimenti tra i Btp e i Bund tedeschi e a creare le condizioni per dimissioni del governo Berlusconi, a cui subentrò l'esecutivo di Mario Monti. La vicenda riguardava la forte riduzione negli investimenti in titoli di Stato italiani avvenuta nei primi sei mesi del 2011, quando Deutsche Bank smobilitò 7 dei circa 8 miliardi dei Btp che deteneva. Comunicando tutto soltanto il 26 luglio. Una notizia bomba, tanto che il Financial Times titolò in prima pagina sulla «fuga degli investitori internazionali dalla terza economia dell'Eurozona». Quel che accadde veramente nell'estate in cui gli italiani scoprirono l'esistenza dello spread è tutto nelle cronache dei giornali dell'epoca: dall'esplosione della crisi del debito al rischio di declassamento dell'Italia, dall'indebolimento del governo alla lettera della Ue che impose al Paese la cura da cavallo anticrisi, fino al precipitare della situazione e l'autunno del Cavaliere, culminato con le dimissioni e la nascita del governo Monti. Il 4 gennaio 2011 lo spread tra i Btp e gli omologhi Bund tedeschi è a 173 punti. Il 30 dicembre arriverà a quota 528, con un incremento di 355 punti. Termometro della fragilità economica italiana. Ma anche di una speculazione che sembrava aver fatto perno sulla crisi finanziaria del Paese, causandone poi anche quella politica.
Banca Etruria, condannati vertici a 5 anni per il crac, scrive il 31 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. L'ex presidente di Banca Etruria Giuseppe Fornasari e l'ex direttore generale Luca Bronchi, imputati di bancarotta fraudolenta, sono stati condannati a 5 anni di reclusione per il crac dell'istituto di credito aretino. È questa la sentenza di primo grado emessa, con rito abbreviato, questa sera, dal giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Arezzo, Giampiero Borraccia. Per i due condannati, il giudice ha accolto le richieste che erano state formulate durante la requisitoria dal pool di sostituti procuratori che si sta occupando delle indagini sul dissesto di Banca Etruria, guidato dal procuratore capo Roberto Rossi. Il giudice ha poi condannato a due anni l'ex vice presidente Alfredo Berni per bancarotta fraudolenta e a un anno l'ex membro del cda Rossano Soldini per bancarotta semplice. I quattro condannati erano gli unici ad aver chiesto il rito abbreviato. Per gli altri 26 indagati, tra ex dirigenti e consiglieri di amministrazione, il gup ha deciso per il rinvio a giudizio con rito ordinario per tutti. Gli avvocati dei quattro condannati avevano chiesto l'assoluzione per i loro clienti. Leggermente più basse le condanne inflitte dal giudice rispetto alle richieste formulate dalla Procura per Berni (erano stati chiesti due anni e sei mesi) e Soldini (un anno e sei mesi). Nel corso della requisitoria, che aveva visto impegnati pm Andrea Claudiani, Angela Masiello e Julia Maggiore, erano state indicate tutte le attività che avevano portato al crac della banca aretina: dall'acquisto dello yacht di Civitavecchia (registrando una perdita di 25 milioni di euro), che avrebbe dovuto essere il panfilo più grande del mondo e che è rimasto in un cantiere, ai finanziamenti al relais di lusso villa San Carlo Borromeo dello psicanalista Armando Verdiglione; dai prestiti alle società del finanziere Alberto Rigotti ai prestiti all'impresa Sacci per una cinquantina di milioni di euro, registrando la maggiore sofferenza nei conti della ex Banca Etruria. L'ex dg Bronchi era accusato anche per la sua liquidazione, pari a 700 mila euro netti, che secondo la Procura è anch'essa una distrazione da comprendere nella bancarotta fraudolenta. L'ex vicepresidente Berni era accusato in particolare di un prestito al gruppo Saico, mentre l'ex consigliere di amministrazione Soldini era accusato per il prestito Sacci. Soldani, nelle tormentate vicende di Banca Etruria dell'ultimo decennio, fu tra i primi a contestare la gestione dell'allora presidente Fornasari. Tra i rinviati a giudizio con rito ordinario figura, tra gli altri, anche l'ultimo presidente di Banca Etruria, Lorenzo Rosi, a cui è contestata la concessione della liquidazione all'ex dg Bronchi.
Carige, Di Maio: "Sull'orlo del fallimento per colpa dei rapporti con la politica". Il vice presidente del Consiglio, Luigi Di Maio. Il vice premier alla Camera: "Non è stata solo incompetenza dei manager. Intervento dello Stato per tutelare risparmi". E torna alla carica con i nomi dei debitori, scrive l'1 Febbraio 2019 La Repubblica. La crisi della Carige è dovuta alla "gestione scellerata non solo per l'incompetenza dei manager ma anche per le commistioni della politica". Lo ha detto il vice premier, Luigi Di Maio che intervenendo alla Camera, ha parlato di "segreto di Pulcinella" con "vecchia politica e banche andate a braccetto". Il vice presidente del Consiglio è tornato sulle possibilità di intervento da parte dello Stato, che dopo il decreto apposito licenziato in Cdm riguardano la garanzia sulle obbligazioni e l'intervento diretto nel capitale. "Non so se interverremo ma se mettiamo dei soldi, la banca diventerà dei cittadini", ha detto Di Maio. "In passato i soldi andavano solamente a coprire chi aveva creato il danno. Noi eviteremo che questo pesi sui lavoratori e i cittadini del territorio". "I risparmiatori non dovranno pagare le colpe dei manager - ha aggiunto - Ai responsabili chiederemo di restituire i mega-bonus visto il disastro che hanno creato". Di Maio è quindi tornato alla carica con il motivo della divulgazione dei nomi dei debitori dell'istituto. Già in passato aveva promesso di "pubblicare l'elenco di utti i debito di Banca Carige", oggi ha detto chi "c'è dietro la cortina dei nomi" ed ha citato Alessandro Scajola, fratello dell'ex ministro, Luca Bonsignore, figlio di un ex eurodeputato, Giovanni Marongiù, sottosegretario di Prodi, e Alberto Repetto, parlamentare dell'Ulivo. D'altra parte, come ricostruiva Repubblica l'11 gennaio scorso, l'elenco dei debitori si trova facilmente fra gli atti dell'azione di responsabilità per danno reputazionale che la Cassa di Risparmio, con l'avvocato Andrea D'Angelo, ha appena intentato per la cifra di 138 milioni all'ex presidente dell'istituto Giovanni Berneschi e al presidente del comparto assicurativo Ferdinando Menconi, entrambi condannati in primo e secondo grado per truffa. Informazioni per altro già presenti nel dossier che nel 2013 gli ispettori di Bankitalia consegnarono alla Procura di Genova. Tra i nomi che sono girati, un riferimento a Enrico Preziosi, patron del Genoa e industriale del giocattolo, con il suo sconto di 15 milioni concesso su un debito di poco superiore ai 50 milioni. Con la partita delle sofferenze da giocare, tra le posizioni citate ci sono quelle di Beatrice Cozzi Parodi, a capo di un impero dei porti turistici nel ponente ligure, che solo a fine 2016 ha raggiunto un accordo per la ristrutturazione del debito, o ancora il debito ristrutturato da 20 milioni della società Prelios. Ancora, altri nomi noti quelli legati al mutuo da 35 milioni concesso al gruppo Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone per la costruzione del nuovo porto di Imperia. Un altro credito difficile - per 230 milioni - è quello che Carige vanta con il parco degli Erzelli (dalle "incerte prospettive" per Bankitalia nel 2013) una cittadella tecnologica sorta a metà sulla collina di Cornigliano, un tempo roccaforte dell'acciaio. Se da Erzelli si guarda verso il mare a ponente, ecco la Marina Aeroporto, porto turistico con annessi immobili. L'imprenditore Giuseppe Rasero, a capo dell'operazione, ha con Carige un'esposizione da 90 milioni. Ancora, tra i finanziamenti circolati di rosso ad esempio quelli per la famiglia Orsero (oggi il Gruppo Orsero è una nuova società scollegata a quella di allora) a capo di un impero che comprendeva l'importazione di frutta e il settore immobiliare.
Prima di Etruria e Carige ci fu la banca Romana: affondò Crispi e Giolitti. Gli istituti di credito sono da sempre la maledizione dei governi italiani, scrive Paolo Delgado il 10 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Scandali, fallimenti e salvataggi, sospetti di corruzione e di interessi confliggenti. La strada della politica e quella delle banche in Italia si sono incrociate più volte e sempre con deflagranti conseguenze. La madre di tutti gli scandali, a 130 anni di distanza, è ancora la banca Romana, un fattaccio non solo senza precedenti ma anche senza epigoni di tali dimensioni che si prolungò per un paio d’anni, dal 1892 al 1894, coinvolgendo presidenti del consiglio, ministri e parlamentari vari. All’origine, proprio come nel 2008, una bolla immobiliare che aveva lasciato la banca con scoperti giganteschi, corroborati dall’abitudine a finanziare generosamente i pezzi da 90 del Palazzo dell’epoca. Ai tempi gli istituti con diritto di battere moneta erano 6 e la proposta della sinistra di concentrare l’emissione di moneta e il controllo sugli istituti bancari nelle mani di una sola Banca d’Italia, cadeva regolarmente nel vuoto. Per coprire gli ammanchi di governatore della banca Romana, il senatore Tanlongo, suo figlio e l’amministratore dell’istituto si erano inventati un metodo geniale: facevano battere di nascosto moneta a Londra con la scusa di sostituire le banconote usurate, che lasciavano invece sul mercato. Tanlongo e l’amministratore, barone Lazzaroni, finirono in manette, i documenti più scottanti furono fatti scomparire con la complicità dell’autorità giudiziaria. Due presidenti del consiglio, Crispi e Giolitti, finirono alla sbarra ma il processo finì con una raffica di assoluzioni per insufficienza di prove. Le conseguenze ci furono lo stesso: fermare la nascita della Banca d’Italia diventò impossibile e Giolitti pagò il prezzo politico per tutti, a partire da Crispi che tornò presidente del Consiglio in pochi mesi, uscendo di scena per dieci anni. Per un nuovo disastro simile ci vollero un paio di decenni e passa. La Banca italiana di sconto, Bis ma per gli amici ‘ la banca italianissima’, fu costituita tra il 1914 e il 1915 dagli interventisti, con qualche appoggio francese, per contrastare i potere delle grandi banche legate alla Germania, la Commerciale e il Credito italiano. Era una banca per la guerra alla cui presidenza fu piazzato, senza concedergli peraltro alcun potere, Guglielmo Marconi. Nel capitale sociale l’Ansaldo dei fratelli Perrone, grande produttrice d’armi, era preponderante. Nel corso del conflitto la banca finì per finanziare sempre più gli investimenti dell’Ansaldo, la cui produzione bellica marciava a pienissimo regime. Gli aumenti di capitale necessari per concedere i prestiti erano a loro volta sottoscritti da Ansaldo, in una sorta di cerchio perverso destinato a spaccarsi quando, a conflitto finito, Ansaldo dovette riconvertire la produzione bellica. Fiat, che si trovava in situazione analoga, si salvò grazie all’acquisto del Credito italiano. Ansaldo provò a fare la stessa cosa con Comit ma non ci riuscì e a pagare il prezzo fu Bis, messa in liquidazione e furono i correntisti, rimborsati ma solo al 65% per cifre inferiori alle 5mila lire e al 75% per somme superiori. Per un terremoti di magnitudo paragonabile anzi superiore bisogna aspettare gli anni ‘ 70 e la più torbida tra le crisi bancarie italiane, quella che coinvolse il finanziere Michele Sindona, il banco Ambiosiano di Roberto Calvi e lo Ior, la banca del Vaticano guidata dal discusso e discutibile cardinale americano Paul Marcinkus. Una storiaccia nella quale figura certamente Cosa nostra così come figura probabilmente la massoneria, finita con un morto, Sindona, avvelenato in carcere e un altro, Calvi, impiccato a Londra in un luogo non certo scelto a caso, il ponte dei Frati neri. Ma le sofferenze che a tutt’oggi attanagliano il sistema bancario italiano e lo rendono il vero anello debole del sistema iniziano nel primo decennio del nuovo secolo. Una raffica di fibrillazioni, scandali, amicizie sospette, tentativi di scalate ambigui che coinvolge una miriade di banche e finisce per travolgere prima il ministro dell’Economia Siniscalco, che si dimette in polemica con la decisione del governo Berlusconi di difendere il governatore di Bankitalia Fazio, indagato per aver favorito l’amico Fiorani, amministratore delegato della Banca popolare italiana. Quando Fiorani ammette di fronte agli inquirenti di aver accumulato un tesoro di 70 milioni di euro a spese dei clienti della banca e di aver concesso prestiti agevolati a esponenti del centrodestra per blindare la posizione di Fazio, al governatore non resta che rassegnare le dimissioni.
Le banche sono state la pietra al collo di anche di Matteo Renzi. In realtà i governi di centrosinistra della scorsa legislatura si sono trovati a fronteggiare situazioni molto diverse: la crisi di quattro banche tra cui banca Etruria, del cui consiglio di amministrazione aveva fatto parte il padre di Maria Elena Boschi. Non ci fu salvataggio ma le perdite degli obbligazionisti furono consistenti e le accuse rivolte alla Boschi, sospettata di aver cercato di ‘ salvare’ banca Etruria, inflissero un colpo micidiale alla popolarità del governo. Formalmente, nel 2017, Veneto banca e Popolare di Vicenza non furono salvate ma rilevate per un euro da Intesa San Paolo, che in cambio ottenne cinque miliardi di aiuti dallo Stato e i crediti deteriorati vennero acquistati da una bad bank creata appositamente dal ministero dell’Economia, la Sga. Salvataggio esplicito invece, grazie al semaforo verde della Ue, per Monte dei Paschi di Siena: costo dell’operazione 5,4 miliardi più cessione di 265 miliardi di crediti deteriorati al Fondo Atlante, formalmente privato anche se a capitale pubblico. Sono questi precedenti che rendono così difficile per la base dell’M5S, che è sempre stato molto critico nei confronti dei salvataggi, accettare un passo che era in realtà obbligato e inevitabile come il salvataggio di Carige.
Crediti a rischio e affari sballati: così è finita nei guai la più grande banca del Sud. Dopo il salvataggio pubblico della Carige ligure, ora anche la Popolare di Bari ha bisogno urgente di nuovi capitali. E si affida a un amministratore delegato appena multato dalla Consob e indagato dalla magistratura, scrive Vittorio Malagutti il 22 gennaio 2019 su "L'Espresso". Ci sono Paesi in cui il capo di un’azienda sanzionato dalle autorità di controllo lascia immediatamente l’incarico. Può anche capitare che il manager in questione faccia un passo indietro, senza perdere il posto, in attesa che la situazione si chiarisca. L’Italia invece, a quanto pare, gioca in un campionato a parte. Un mese fa, la Popolare di Bari, grande banca del Sud che naviga da tempo acque tempestose, ha richiamato in servizio il suo ex direttore generale, multato a settembre dalla Consob. Ci è scappata pure una promozione, mentre un giudice d’appello ha per il momento sospeso l’efficacia del primo verdetto. Vincenzo De Bustis, questa volta con i gradi da amministratore delegato, è così tornato al vertice dell’istituto pugliese che ad aprile del 2015 lo aveva congedato senza troppi complimenti, per altro gratificandolo con una buonuscita vicina al milione di euro. A richiamarlo in servizio è stato Marco Jacobini, patron della famiglia che da decenni tiene in pugno l’istituto pugliese. De Bustis, 68 anni è un banchiere di lungo corso e dalle sette vite. Il suo nome compare nelle cronache di due decenni fa spesso associato a quello dell’allora potentissimo Massimo D’Alema, suo amico personale. L’ascesa del manager era partita dalla Banca del Salento, da cui nel 2000 spiccò il volo verso il vertice del Monte dei Paschi, a lungo riserva di caccia del Pds -Ds-Pd. Una volta lasciata la poltronissima di Siena, dopo alterne vicende professionali l’ex pupillo di D’Alema è approdato nel 2011 alla corte degli Jacobini. L’aspetto più paradossale della vicenda è che proprio De Bustis tra il 2013 e i 2015 gestì l’affare che, oltre a innescare l’indagine della Consob, ha provocato gran parte dei guai in cui ora si dibatte la Popolare pugliese. E cioè l’acquisizione della disastrata concorrente abruzzese Tercas. Dopo un primo stop ordinato dalla Commissione di Bruxelles, la complicata operazione è andata in porto con il pieno sostegno di Bankitalia ai primi del 2016 e ha avuto l’effetto di scaricare sul compratore una montagna di spazzatura finanziaria rivelatasi molto difficile da smaltire. Nessun problema, a quanto pare. Nel dicembre scorso l’ex direttore generale è tornato al comando della Popolare pugliese con il mandato di rimettere in carreggiata una macchina che da anni sbanda vistosamente tra guai di ogni tipo. Compresa un’inchiesta della magistratura che vede indagati, tra gli altri, il presidente Marco Jacobini con i suoi figli Luigi e Gianluca, entrambi vicedirettori generali, oltre allo stesso De Bustis, per una serie di reati (truffa, falso in bilancio ostacolo alla vigilanza, maltrattamenti) che riguardano la gestione dei crediti e la compravendita di titoli ai clienti dell’istituto di credito. Un altro colpo all’immagine della banca è arrivato ai primi di gennaio, quando si è appreso delle dimissioni di Giulio Sapelli, l’economista nominato vicepresidente della popolare pugliese appena un mese prima. La scelta di un professore molto apprezzato dalla Lega come Sapelli, per qualche giorno a maggio addirittura in corsa per la presidenza del Consiglio al posto di Giuseppe Conte, era stata letta come una mossa di avvicinamento al governo in una fase a dir poco cruciale per il futuro dell’istituto. Il consigliere dimissionario non ha reso note le ragioni della sua scelta. Difficile non notare, però, che il vicepresidente ha lasciato l’incarico proprio in coincidenza con l’arrivo di De Bustis.
Azionisti in rivolta. Il nuovo amministratore delegato si trova ora ad affrontare una situazione che ben conosce, se non altro perché, come detto, una parte dei problemi della banca è emersa per la prima volta durante la sua precedente gestione. Un’inchiesta dell’Espresso aveva raccontato, già nel giugno del 2016, le crescenti difficoltà della Popolare guidata da Marco Jacobini e famiglia: i bilanci deludenti, l’aumento delle sofferenze sui prestiti, le manovre sui titoli. Tutto questo mentre migliaia tra i 70 mila soci della Popolare, comprensibilmente preoccupati, non riuscivano a liquidare le loro azioni per mancanza di compratori. Una lunga serie di operazioni straordinarie varate nei mesi scorsi, dalla vendita di crediti deteriorati (in gergo non performing loans, Npl) e il ricorso massiccio al credito interbancario per fare provvista di liquidità, non sono bastati per mettere in sicurezza i conti. La Popolare di Bari ha bisogno urgente di mezzi freschi per uscire dalle secche in cui si è arenata. Indiscrezioni di fonte finanziaria rivelano che servirebbero almeno 500 milioni, da raccogliere sul mercato sotto forma di nuove azioni e di obbligazioni. La banca d’affari Rothschild e la società di consulenza Oliver Wyman sono da tempo al lavoro per contattare possibili investitori e mettere a punto un piano di rilancio. La rimonta, già complicata di per sé, si sta però rivelando ancora più difficile del previsto per via delle crescenti tensioni sul mercato. Da settimane l’attenzione del mondo finanziario è concentrata su Genova dove, con Carige, va in scena un altro salvataggio a spese del contribuente. Questa volta però, dopo i casi delle popolari venete e di Mps, la regia è affidata al governo Lega-Cinque Stelle (quelli che «mai più un euro alle banche»). In Liguria l’esecutivo gialloverde è già intervenuto con un decreto ad hoc che estende la garanzia dello Stato alle obbligazioni emesse dall’istituto in difficoltà. Tutto questo però non basta per tappare una volta per tutte le falle in bilancio. E allora, in una spirale di dichiarazioni che spesso si contraddicono tra loro, c’è chi, come il vice premier Luigi Di Maio, arriva a prospettare la nazionalizzazione di Carige. A Bari non siamo ancora a questo punto, anche se tra gli azionisti che temono di perdere per intero il loro investimento sono in molti a invocare il salvataggio pubblico. Gli Jacobini tirano diritto, per nulla turbati, almeno in apparenza, dalle nubi di tempesta che si stanno addensando intorno alla loro banca, l’unica di peso nazionale sopravvissuta ai fallimenti e alle vendite in serie che negli ultimi decenni hanno fatto piazza pulita degli istituti di credito controllati e gestiti a Sud di Roma. Va detto che la strategia dell’arrocco ha fin qui garantito qualche successo. La Popolare di Bari, insieme a quella di Sondrio, è per il momento riuscita a sottrarsi alla trasformazione in società per azioni così come previsto dal decreto varato dal governo di Matteo Renzi nel gennaio del 2015 per gli istituti (dieci in tutto) con oltre 8 miliardi di attivo. Dopo una lunga serie di ricorsi, la questione è infine approdata alla Corte di Giustizia europea che si pronuncerà nei prossimi mesi. Nel frattempo, un prezioso assist del governo Conte, sotto forma di emendamento al cosiddetto decreto Milleproroghe, aveva già posticipato al 31 dicembre 2018 il termine ultimo entro cui varare la nuova spa.
I conti non tornano. Adesso però sono i numeri, quelli di bilancio, a far vacillare il trono degli Jacobini. I dati dell’ultima relazione semestrale, chiusa nel giugno scorso, sintetizzano una situazione allarmante. Le nuove svalutazioni su voci dell’attivo come crediti e avviamento hanno fatto salire le perdite a 139,2 milioni in sei mesi. Tenendo conto delle rettifiche già messe a bilancio, la quota dei prestiti classificati come deteriorati, cioè quelli che rischiano di non essere rimborsati (in tutto o in parte), si aggirano intorno al 18 per cento dei finanziamenti alla clientela, un livello tutt’altro che rassicurante. Nei primo semestre del 2018 sono peggiorati anche gli indici che misurano l’adeguatezza del patrimonio. Per il momento, comunque, questi valori restano superiori (ma di poco) ai minimi regolamentari prescritti dalle autorità di vigilanza. Appare quantomeno preoccupante un altro dato segnalato dalla semestrale. Il rapporto tra i costi operativi e il margine di intermediazione, cioè gli utili lordi, ha raggiunto quota 83 per cento. Significa che il motore della banca viaggia con il freno a mano tirato, perché le voci di spesa, dal personale agli altri oneri amministrativi, si mangiano quasi per intero i profitti ricavati dalla gestione del denaro. Per gli istituti più efficienti questo indicatore non supera il 50 per cento. In attesa della pubblicazione del nuovo piano industriale, prevista nelle prossime settimane (ma era già stato annunciata per l’autunno scorso), è quindi facile immaginare che eventuali possibili grandi investitori, in Italia e all’estero, non facciano la fila per scommettere il loro denaro sul salvataggio della Popolare di Bari. A maggior ragione in una fase di grande incertezza sui mercati, con le quotazioni dei Btp, risollevatesi solo in parte dopo il crollo dell’ultimo trimestre del 2018, che continuano a zavorrare i conti del sistema bancario italiano. Come se non bastasse, il caso pugliese sembra nascere dallo stesso intreccio perverso tra localismo esasperato, inamovibilità dei vertici e cattiva gestione dei crediti che nel recente passato ha innescato la crisi, e poi il fallimento, della Popolare Vicenza di Gianni Zonin e di Veneto Banca, per quasi vent’anni guidata dal patron Vincenzo Consoli. Come ovvio, i problemi della gestione Jacobini non nascono in questi mesi. I crediti deteriorati si sono accumulati per effetto di scelte compiute in anni lontani, quando nell’annuale assemblea dei soci si sprecavano gli applausi per gli amministratori e le azioni venivano vendute senza problemi a decine di migliaia di clienti convinti di investire in un istituto solido, una banca del territorio lontana dalle trame imprevedibili e pericolose dell’alta finanza. Eppure, già nel 2013, quando i soci facevano la fila allo sportello per comprare i titoli, un’ispezione della Banca d’Italia aveva attribuito alla Popolare di Bari un voto pari a 4, corrispondente a una valutazione “parzialmente sfavorevole”, in una scala che va da 1 (il massimo) fino a 6. Pochi mesi dopo quella bocciatura, la stessa Bankitalia ha però dato via libera, anzi, ha calorosamente sollecitato, l’intervento dell’istituto pugliese per salvare Tercas prossima al crack. Per far fronte agli oneri dell’intervento, Jacobini ha chiamato a raccolta i soci a cui sono state vendute azioni e obbligazioni subordinate per oltre 800 milioni tra il 2012 e il 2015. Gli stessi titoli che si sono poi trasformati in merce invendibile.
Incroci pericolosi. Il sistema ha retto fino a quando la massa dei crediti difficili da recuperare non ha superato il livello di guardia. Ogni prestito ha la sua storia, più o meno fortunata, ma dalle carte che L’Espresso ha potuto esaminare emergono nomi che rimandano ad altre vicende recenti della finanza nazionale. Un filo rosso porta a Sorgente, il gruppo immobiliare controllato da Valter Mainetti. Negli anni scorsi la Popolare di Bari ha investito oltre 100 milioni nei fondi gestiti da Sorgente sgr. La stessa società che in dicembre è stata commissariata su decisione della Banca d’Italia «per gravi violazioni normative e irregolarità nell’amministrazione». Mainetti, che ama ricordare il suo antico rapporto con il barese Aldo Moro, di cui fu assistente universitario, è molto legato alla Puglia. Negli anni scorsi aveva anche acquistato una quota del 30 per cento de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano del capoluogo pugliese. Gli affari con la Popolare di Bari hanno preso forma svariati anni fa e già nel 2013 la Vigilanza della Banca d’Italia, nel rapporto ispettivo sulla banca degli Jacobini, aveva segnalato «la prassi di sottoscrivere quote di fondi comuni che investono in immobili venduti da clienti finanziati dalla banca stessa». Ora che Sorgente sgr è stata commissariata, un provvedimento duramente contestato da Mainetti, si tratta di capire quali potranno essere (se ci saranno) le ripercussioni sui conti della Popolare. Dal groviglio di affari, pegni e garanzie incrociate descritti nei documenti ufficiali dell’istituto pugliese si dipana un’altra trama che porta fino alla Popolare Vicenza, travolta tre anni fa da un crack miliardario. Si scopre infatti che nella lista dei grandi debitori della Popolare di Bari, per un totale che supera i 100 milioni di euro, compare il gruppo che fa capo ai Fusillo, costruttori e immobiliaristi pugliesi con ottimi agganci anche a Roma. Ebbene, come L’Espresso aveva suo tempo svelato, gli stessi Fusillo sono stati finanziati per una cinquantina di milioni anche dalla Popolare di Vicenza. È stato un gioco di sponda. La banca veneta ha sottoscritto quote di fondi maltesi col marchio Futura, che a loro volta hanno comprato obbligazioni emesse da Maiora e Fimco. Il guaio è che queste due società, entrambe controllate dai Fusillo, adesso si trovano sull’orlo del fallimento e al momento non è chiaro se i soldi arrivati da Vicenza, via Malta, potranno mai essere restituiti. Ci si può chiedere per quale motivo un istituto di credito veneto abbia deciso di sostenere aziende così lontane dal proprio territorio. Una risposta chiara ancora non c’è, forse arriverà dal processo per la bancarotta della Popolare che è alle prime battute a Vicenza. Agli atti delle indagini, però, restano decine di telefonate tra De Bustis e manager di vertice della banca di Zonin. In sostanza, tra il 2013 e il 2014, l’allora direttore generale della Popolare di Bari ha avuto contatti frequentissimi con i suoi colleghi di Vicenza, gli stessi che hanno gestito i rapporti con i fondi Futura e quindi i finanziamenti alle società pugliesi dei Fusillo, a loro volta indebitate con la banca degli Jacobini. A fine 2012 De Bustis, da poco approdato a Bari, aveva rilevato azioni di Methorios, società romana di cui all’epoca era influente azionista Alfio Marchini. Il quale, pure, lui è stato finanziato per decine di milioni dalla Popolare di Vicenza, con i soliti fondi Futura che hanno comprato quote di Methorios. Dunque, ricapitolando, De Bustis si era messo in società con i veicoli finanziari maltesi, gli stessi che investivano, con i soldi della Popolare di Zonin, nelle aziende dei Fusillo, indebitatissime con la Popolare di Bari. Un corto circuito piuttosto singolare. E anche sfortunato, visto che quasi tutti i partecipanti a queste giostra milionaria ora sono falliti (Popolare Vicenza) oppure rischiano grosso (le società dei Fusillo). Si salva De Bustis, l’inaffondabile, in viaggio da Bari a Bari. Nel mezzo una banca in crisi e centinaia di milioni bruciati nel gran falò dei prestiti sballati.
Banche, il giallo della Popolare di Bari: le carte segrete che accusano Bankitalia. Migliaia di famiglie non possono più vendere le loro azioni dell'istituto pugliese. Perché la Vigilanza ha fatto comprare alla banca la Cassa di Teramo. Che era già travolta dalle perdite, scrive Vittorio Malagutti il 02 novembre 2016 su "L'Espresso". I risparmi di una vita bloccati in banca. Migliaia di famiglie che non possono attingere al loro tesoretto in titoli. E allora domande, suppliche, ricorsi, esposti in tribunale. Va avanti così da mesi, ormai: da una parte un esercito di piccoli azionisti delusi e inferociti. Dall’altra i vertici della Popolare di Bari, il più grande istituto di credito del Sud, oltre 70 mila soci e, da mezzo secolo, una dinastia al comando: Marco Jacobini, il presidente, entrato in consiglio nel lontano 1978, insieme ai suoi due figli, Gianluca, condirettore generale, e Luigi, vicedirettore generale. Ma dietro questa storia di risparmio tradito, con i soci della Popolare di Bari che non riescono più a vendere le loro azioni, c’è molto di più. C’è un complicato intreccio di prestiti incagliati, conflitti d’interessi, perdite in bilancio. E sullo sfondo il ruolo della Banca d’Italia, che già tre anni fa, dopo una lunga ispezione, aveva segnalato importanti «criticità», per dirla con il felpato linguaggio della Vigilanza, nella gestione dell’istituto pugliese. Eppure, nell’ottobre del 2013, poche settimane dopo quella severa reprimenda, proprio da Bankitalia era arrivato a Bari l’invito a farsi carico di Tercas, la vecchia Cassa di Teramo che dopo un lungo commissariamento stava per affondare travolta dalle perdite. L’intervento della Popolare, con l’esplicito appoggio del governatore Ignazio Visco, è andato in scena l’anno successivo. E così la banca di Jacobini si è trovata a gestire, oltre ai propri crediti incagliati, anche quelli dell’istituto appena comprato con un investimento complessivo di 300 milioni. L’onda lunga di quell’operazione si è scaricata sul bilancio 2015, chiuso con 297 milioni di perdite, che salgono a 475 milioni se si escludono alcune poste una tantum di natura fiscale. Ecco perché, alcune settimane fa, gli ispettori della Banca d’Italia sono tornati a bussare alla porta dell’istituto pugliese. In agenda, tra l’altro, c’è la trasformazione della Popolare in Spa, così come prevede il decreto varato nel gennaio 2015 dal governo di Matteo Renzi. Un appuntamento delicato, che va affrontato, possibilmente, con i conti in regola. Ma andiamo con ordine e torniamo all’inizio 2013, quando i funzionari della Vigilanza si presentarono al quartier generale della banca barese per restarci, nel corso di tre successivi interventi, quasi otto mesi. L’Espresso ha avuto accesso ad alcuni documenti riservati che risalgono a quei giorni. Va detto innanzitutto che il voto finale attribuito alla Popolare di Bari al termine dell’ultima ispezione, quella chiusa ad agosto 2013, è stato pari a 4, corrispondente a “parzialmente sfavorevole”, in una scala che va da 1 (il massimo) a 6. Insomma, la Banca d’Italia non sembrava affatto soddisfatta dell’operato di Jacobini e dei suoi manager. E nelle carte dell’ispezione, che l’Espresso ha potuto consultare, vengono formulati rilievi pesanti. Si parla per esempio di «eccessiva correntezza» nei crediti verso alcuni gruppi. Per correntezza, in gergo bancario, si intende la velocità con cui viene sbrigata una pratica. In sostanza, alcuni prestiti importanti sarebbero stati erogati senza verifiche adeguate sulla solidità del cliente. Gli ispettori segnalano il caso dei gruppi Fusillo e Curci, che insieme controllano la holding Maiora group. A favore di questa società, si legge nelle carte, sono stati accordati finanziamenti «non sempre sufficientemente vagliati» e neppure «esaustivamente rappresentati al consiglio». Insomma, denaro facile. E per importi notevoli. Maiora group, alla fine del 2013, aveva già accumulato debiti per 131 milioni con la Popolare di Bari. I Fusillo, a cui fa capo metà del capitale della holding, sono costruttori molto conosciuti, e influenti, nel capoluogo pugliese. C’è Nicola Fusillo, già parlamentare del centrosinistra, nel 2015 schierato alle regionali con il candidato vincente, Michele Emiliano. Il resto della famiglia è invece cresciuto a gran velocità realizzando centri commerciali, villaggi turistici, un grande polo della logistica a Rutigliano, solo per citare gli interventi più importanti. Tra le attività dei Curci, invece, va ricordata la partecipazione del 30 per cento nel capitale della “Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano di Bari. Questa quota al momento risulta ceduta in pegno alla Popolare guidata da Jacobini. Nel loro rapporto gli ispettori di Banca d’Italia segnalano anche «la prassi di sottoscrivere quote di fondi comuni che investono in immobili venduti da clienti finanziati dalla banca stessa». Una manovra, questa, che consente di fatto all’istituto di credito di azzerare la propria esposizione trasformandola, per così dire, in quote del fondo. Un esempio? Eccolo, tra quelli citati dalla Vigilanza. La Popolare di Bari, già nel 2011, ha sottoscritto tutte le quote del fondo Tiziano, comparto San Nicola, che è gestito dal gruppo romano Sorgente. Lo stesso fondo ha poi acquistato il “Grande Albergo delle Nazioni”, uno degli immobili storici del capoluogo pugliese, affacciato sul Lungomare Nazario Sauro. E chi ha messo in vendita l’hotel? Proprio la società Fimco controllata dai Fusillo, grandi debitori, come abbiamo visto, della Popolare di Bari. Quest’ultima ha quindi sostituito i propri crediti con le quote dei veicoli d’investimento targati Sorgente. La stessa Fimco ha ceduto al Fondo Donatello, anche questo gestito da Sorgente, un altro palazzo di pregio come l’Hotel Oriente, nel centro storico della città di San Nicola. Bilanci alla mano, l’investimento in fondi immobiliari assorbe una fetta importante del portafoglio titoli della Popolare pugliese. Nei conti del 2015 questa voce vale 122 milioni e rispetto all’anno precedente ha già provocato perdite per 13 milioni. Il nome dei Fusillo, invece, ricorre anche nella triste storia della Popolare di Vicenza, schiantata da perdite ben superiori al miliardo e da mesi al centro di un’indagine della magistratura. Alcune società della famiglia di costruttori hanno in passato ricevuto finanziamenti milionari da fondi offshore con base a Malta. E questi erano stati a loro volta foraggiati dalla banca veneta all’epoca guidata da Gianni Zonin. Le coincidenze non finiscono qui. Vincenzo De Bustis, direttore generale della Popolare Bari da fine 2011 ad aprile 2015, nel 2013 ha ceduto una sua società personale alla holding Methorios, partecipata dall’ex candidato sindaco di Roma, Alfio Marchini. E anche Methorios è stata finanziata da quegli stessi fondi maltesi che sono intervenuti per sostenere i Fusillo, grandi clienti della Popolare di Bari. Questo intreccio di prestiti e affari, su cui indagano i magistrati a Roma e a Vicenza, può riservare nuove sorprese. Di certo però, fin dal 2013, la Vigilanza aveva preso atto dei crediti a rischio dell’istituto pugliese. E gli aspetti critici della gestione erano stati sintetizzati in un giudizio, quel “parzialmente sfavorevole”, che avrebbe dovuto stroncare sul nascere i progetti di espansione di Jacobini e del suo direttore generale De Bustis. Tercas però andava salvata. E in fretta. In quello scorcio di fine 2013 la Banca d’Italia era alla affannosa ricerca di un compratore per l’istituto abruzzese. Nessun banchiere però intendeva accollarsi gli oneri dell’operazione, pari ad almeno 600 milioni. A questo punto si è fatto avanti Jacobini. Siamo nell’ottobre 2013. Si è appena conclusa, con esito negativo, l’ispezione della Vigilanza. Nessun problema, a quanto pare. Ad agosto dell’anno successivo, Bari si prende Tercas. Il conto viene saldato per metà dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt), finanziato da tutte le banche nazionali. La stampella di sistema non è però sufficiente per chiudere l’operazione. E così la Popolare Bari non trova di meglio che chiedere soldi ai propri soci. Nel novembre 2014 vengono piazzate azioni per 300 milioni e obbligazioni subordinate per 200 milioni circa. Nella primavera del 2015 va in porto un altro collocamento da 50 milioni. I risparmiatori accorrono in massa. A fine 2013 i soci della banca superavano di poco quota 60 mila. Due anni dopo erano diventati circa 70 mila. Le brutte sorprese cominciano ad aprile di quest’anno. Prima la Popolare Bari annuncia la maxi perdita nei conti del 2015 dovuta in buona parte agli oneri del salvataggio Tercas. E viene tagliato anche il valore delle azioni, stabilito di anno in anno dalla banca stessa con una procedura già oggetto di molte critiche, come nei casi di Popolare Vicenza e Veneto Banca. Il ribasso è del 20 per cento circa: da 9,53 a 7,5 euro. Solo pochi mesi prima, migliaia di investitori avevano sottoscritto l’aumento di capitale pagando le azioni 8,95 euro. I titoli non sono quotati in Borsa e la Popolare, che gestisce in autonomia un mercato ad hoc, è stata travolta dalle domande di vendita. Le aste mensili soddisfano richieste per poche migliaia di azioni. Tutto fermo. O quasi. La banca si è impegnata a ristabilire quanto prima «la fluidità del mercato», ma intanto monta la protesta. Alcune decine di soci, giovedì 20 ottobre, hanno manifestato in piazza a Bari con striscioni e altoparlanti. Niente da fare. Morale della storia: il conto salato del salvataggio Tercas è stato pagato dai piccoli azionisti della Popolare. E la Banca d’Italia, che poteva intervenire per tempo, resta a guardare. Per ora.
Banca nostra che comandi a Bari. La potente Popolare della città, governata da mezzo secolo dalla stessa famiglia, si prepara a trasformarsi in una società per azioni. Tra bilanci in perdita e manovre sui titoli. Perché nulla cambi nel più grande istituto di credito del Sud, scrive Vittorio Malagutti il 02 giugno 2016 su "L'Espresso". Crisi, quale crisi? Marco Jacobini parla di sviluppo, crescita, espansione. L’ultimo erede della famiglia che da oltre mezzo secolo tiene in pugno la Popolare di Bari si aggrappa a un’altra acquisizione per allontanare incubi e fantasmi. «Vogliamo CariChieti», ha detto di recente Jacobini, candidando l’istituto che presiede all’acquisto della piccola banca abruzzese azzerata dal decreto del governo del novembre scorso. Vista dalla Puglia, la crisi delle Popolari gronda promesse e propositi di riscossa. E a dire il vero, fino a poche settimane fa, da queste parti arrivavano solo gli echi lontani della tempesta che nel giro di pochi mesi ha spazzato via Vicenza e Veneto Banca, oltre all’Etruria, frantumando equilibri consolidati nel tempo, come dimostra la prossima fusione tra Popolare Milano e il Banco Popolare con base a Verona. A Bari, però, adesso la musica è cambiata. A fine aprile è arrivato il taglio del valore delle azioni: da 9,53 a 7,5 euro, con una perdita secca del 21 per cento in un sol colpo. Una sorpresa difficile da digerire per gli oltre 70 mila soci della Popolare di Bari, che con quasi 15 miliardi di attivi, 385 filiali, oltre 3 mila dipendenti, è la più grande banca del Sud, una delle poche rimaste indipendenti. Negli ultimi tre anni l’istituto guidato da Jacobini ha raccolto quasi 800 milioni piazzando titoli tra migliaia di risparmiatori. Nel 2014 sono state vendute anche 200 milioni di obbligazioni subordinate, un investimento ad alto rendimento (6,5 per cento annuo) ma anche meno sicuro dei classici bond, come hanno scoperto a loro spese nei mesi scorsi i clienti degli istituti liquidati, primi tra tutti quelli di Banca Etruria. Risultato: le fila dei soci di Popolare Bari si sono ingrossate a gran velocità. Nel 2010 il capitale era diviso tra meno di 50 mila investitori, contro i 70 mila attuali. Il fatto è che le azioni dell’istituto pugliese non sono quotate in Borsa. Chi vuol vendere o comprare, quindi, deve bussare in banca. Anche il prezzo è fatto in casa, nel senso che la quotazione viene stabilita di anno in anno dagli amministratori e poi sottoposta al giudizio dell’assemblea per il via libera definitivo. Insomma, il sistema è lo stesso che ha già dato pessima prova di sé nelle recenti crisi di Veneto Banca e della Popolare Vicenza, letteralmente travolte dalla fuga in massa degli azionisti. A Bari tutto, o quasi, è filato liscio fino al 2015. Poi, messi in allarme da ribaltoni e crisi varie nel mondo bancario, sempre più soci hanno chiesto di liquidare in tutto o in parte il proprio investimento. Del resto, come risulta dagli stessi prospetti informativi degli ultimi aumenti di capitale della Popolare pugliese, il prezzo delle azioni messe in vendita negli anni scorsi era stato calcolato in base a parametri di bilancio simili, anche se di poco inferiori, a quelli di altri istituti non quotati come le già citate Popolare Vicenza e Veneto Banca, che poi non hanno retto alla prova della crisi. Così, per far fronte alle richieste, nel corso del 2015 l’istituto con base a Bari ha comprato azioni proprie messe in vendita dai soci per un valore di quasi 15 milioni. «Tutto sotto controllo», hanno gettato acqua sul fuoco Jacobini e i suoi collaboratori. Il 18 marzo scorso, però, in una sola giornata sono passate di mano oltre 2 milioni di azioni della Popolare. Un boom senza precedenti. Tra gennaio e febbraio il mercatino interno riservato ai soci aveva aperto i battenti solo cinque volte, con scambi al lumicino: poche decine di migliaia di pezzi. La sorpresa aumenta se si considera che l’asta del 18 marzo è stata l’ultima occasione per vendere i titoli al prezzo di 9,53 euro. Gli scambi infatti sono ripresi solo il 13 maggio. Nel frattempo però, il 24 aprile, l’assemblea ha fissato la nuova quotazione, pari, come detto, a 7,5 euro. In altre parole, il fiume dei soci in uscita si è ingrossato proprio alla vigilia del ribasso. Ce n’è quanto basta per alimentare sospetti e interrogativi sull’identità dei fortunati venditori, che hanno incassato in totale circa 20 milioni di euro. A comprare, secondo quanto spiegano a Bari, è stato il gruppo assicurativo Aviva, che poche settimane prima aveva siglato un’alleanza commerciale con l’istituto pugliese. Anche la posizione degli acquirenti appare però piuttosto singolare. In pratica, d’accordo con la banca, Aviva avrebbe comprato titoli che nel giro di un mese si sono svalutati del 20 per cento per decisione della banca stessa. A prima vista non sembra granché come affare per celebrare l’intesa strategica appena firmata. Le manovre sui titoli sono andate in scena pochi giorni prima di un’altra brutta notizia. A fine marzo la Popolare di Bari ha annunciato il bilancio peggiore della sua storia: 475 milioni di perdite, ridotti a 297 milioni grazie ad alcune partite fiscali positive (e una tantum) per 177 milioni. Il vistoso peggioramento rispetto al 2014, che si era chiuso con 24 milioni di profitti, è dovuto in parte (271 milioni) alle rettifiche sui valori di alcune attività in bilancio. Per esempio, la quota di controllo nella Cassa di Orvieto e una rete di filiali comprate a peso d’oro alcuni anni fa e oggi molto svalutate alla luce di una situazione di mercato ben più complicata. Grandi pulizie anche nel portafoglio crediti. Rispetto al 2014, gli accantonamenti sui prestiti a rischio sono più che raddoppiati, arrivando a 246 milioni. A Bari sostengono che la cura da cavallo ha già dato i primi effetti e segnalano, senza però fornire cifre precise, che i risultati dei primi mesi dell’anno si sono fin qui rivelati migliori rispetto alle attese. La salita più difficile, però, deve ancora cominciare. Nel 2014 la Popolare pugliese è sbarcata in Abruzzo per scongiurare il crac di Banca Tercas, sede a Teramo, distrutta da anni di gestione dissennata. Il salvataggio è stato finanziato in parte dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) che ha corretto in corsa il suo intervento (265 milioni di contributi) dopo lo stop della Commissione europea per un presunto aiuto di Stato. L’istituto guidato da Jacobini ha fin qui investito circa 325 milioni nell’operazione Tercas, che però viaggia ancora a rilento. L’anno scorso il bilancio si è chiuso in utile per 10 milioni solo grazie a 56 milioni di benefici fiscali straordinari. La strada verso il rilancio è quindi ancora lunga, ma intanto la Popolare pugliese è attesa al varco della trasformazione in società per azioni. Il decreto del governo che obbliga le 10 maggiori banche cooperative a diventare Spa, risale all’inverno del 2015. A Bari però se la sono presa comoda e l’assemblea per deliberare il cambio di statuto andrà in scena non prima del prossimo ottobre. Dopo di allora, sulla carta, tutto è possibile. Perfino che una cordata di nuovi soci prenda il controllo del gruppo. Al momento, per la verità, il ribaltone appare piuttosto improbabile. Il presidente Marco Jacobini guida un consiglio di fedelissimi e si è già assicurato la successione con la nomina dei suoi due figli: Gianluca (39 anni) è stato da poco nominato condirettore generale e suo fratello Luigi, invece, è vicedirettore generale. Tutto in famiglia, insomma, per un assetto di vertice che non ha eguali nel variegato universo del credito. Nel 2015 è stato promosso amministratore delegato un manager esperto come Giorgio Papa, 60 anni, una carriera con incarichi importanti nel gruppo Banco Popolare e anche in Finlombarda, la holding controllata dalla regione Lombardia. Una nomina politica, quest’ultima, decisa dalla giunta di centrodestra nell’era di Roberto Formigoni. Papa ha preso il posto di Vincenzo De Bustis, un banchiere di lungo corso, partito dalla Puglia (Banca del Salento) per approdare nel 2000 al vertice del Monte Paschi di Siena con la benedizione dell’allora potentissimo Massimo D’Alema. De Bustis, insediatosi nel 2011, ha dato le dimissioni ad aprile 2015 ed è stato liquidato con una buonuscita («incentivo all’esodo», si legge nelle carte) di 975 mila euro. D’altra parte, nell’anno nero della Popolare di Bari, tutti i manager di punta hanno visto aumentare il loro stipendio, a cominciare dal presidente Marco Jacobini, che ha guadagnato 700 mila euro, 50 mila in più del 2014. Busta paga più pesante anche per i figli del presidente: il condirettore generale Gianluca ha guadagnato 453 mila euro contro i 354 mila del 2014, mentre il fratello Luigi è arrivato a 410 mila euro, con un aumento di oltre 50 mila euro rispetto all’anno prima. I manager, insomma, non possono lamentarsi: compensi più alti per tutti. I soci, invece, forse la pensano diversamente. Le loro azioni ora valgono il 20 per cento in meno e con l’aria che tira il futuro pare quanto mai incerto.
Caos Popolare di Bari, Bankitalia la commissaria e il governo litiga sul salvataggio. Il governo si riunisce d'urgenza ma senza gli esponenti di Italia Viva che poco prima della riunione si chiamano fuori: "Rottura nel metodo e nel merito". E Franceschini attacca: "Basta con le minacce agli alleati". Rinviata l'adozione di un decreto. La Repubblica il 13 Dicembre 2019. Accelerazione nella crisi della Banca popolare di Bari e conseguente caos nella maggioranza, prima, dopo e durante un consiglio dei ministri convocato d'emergenza per discutere di un decreto per salvare la banca, mettendo sul piatto una cifra stimata tra 800 milioni e un miliardo di euro. Il cdm che si è tenuto in serata è durato circa un'ora e si è concluso intorno alle 22.40. Non è stato approvato nessun decreto per il momento, ma il governo "è pronto ad assumere le iniziative necessarie alla piena tutela degli interessi dei risparmiatori e a rafforzare il sistema creditizio". La maggioranza però trema, in un tutti contro tutti che scuote Palazzo Chigi. Circola anche la voce che i renziani vogliano aprire una crisi, ipotesi che le stesse fonti del partito dell'ex premier poi smentiscono. Secondo fonti Mef riportate dall'agenzia AdnKronos, il decreto sarà sottoposto al prossimo Consiglio dei ministri "per la sua approvazione". Comune determinazione del governo è quella di "assumere tutte le iniziative necessarie a garantire la piena tutela degli interessi dei risparmiatori e a rafforzare il sistema creditizio a beneficio del sistema produttivo del Sud". Tutto è cambiato in poche ore, dopo che nel primo pomeriggio il premier Conte da Bruxelles aveva rassicurato tutti dicendo "il salvataggio non serve". Prima Bankitalia ha convocato il cda e ha deciso di commissariare l'istituto di credito pugliese, nominando Enrico Ajello e Antonio Blandini commissari straordinari e Livia Casale, Francesco Fioretto e Andrea Grosso componenti del comitato di sorveglianza. "La Banca d'Italia ha disposto lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e controllo della Banca Popolare di Bari e la sottoposizione della stessa alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi degli articoli 70 e 98 del Testo Unico Bancario, in ragione delle perdite patrimoniali", si legge sul sito della banca pugliese. Che rassicura i clienti: "La banca prosegue regolarmente la propria attività. La clientela può pertanto continuare ad operare presso gli sportelli con la consueta fiducia". Nelle stesse ore il cdm veniva convocato per intervenire sulla crisi e adottare provvedimenti straordinari: la banca ha un'esigenza di maxi ricapitalizzazione e nei giorni scorsi ha confermato una richiesta d'aiuto al fondo interbancario e l'avvio di un dialogo con il mediocredito centrale per una partnership.
Scontro politico sul salvataggio di Popolare di Bari. Ma l'accelerazione porta anche una crisi nel governo, con Italia Viva che si chiama fuori e parla di "rottura nel merito e nel metodo". Dichiara Luigi Marattin, vicepresidente deputati di Iv: "La convocazione improvvisa di un Consiglio dei ministri sulle banche, senza alcuna condivisione e dopo aver espressamente escluso ogni forzatura o accelerazione su questa delicata materia, segna un gravissimo punto di rottura nel metodo e nel merito". Continua Marattin: "Stupisce che chi per anni ci ha attaccato demagogicamente su provvedimenti finalizzati a sostenere i risparmiatori - sottolinea- si renda oggi responsabile di una operazione incredibile, finalizzata più a salvaguardare le responsabilità di chi doveva gestire e/o vigilare e non l'ha fatto. Italia viva non parteciperà al consiglio dei ministri e si riserva di valutare in aula quale posizione assumere". Ed Ettore Rosato, coordinatore di Italia viva, rincara: "Dopo che per anni i 5Stelle hanno costruito contro di noi la retorica sulle banche, oggi con il Pd votano in Cdm a difesa di chi avrebbe dovuto ben amministrare. Noi non ci stiamo e non parteciperemo a questo voto. In attesa di vedere come lo giustificheranno". A stretto giro, la risposta di Luigi Di Maio, chiamato in causa insieme a tutto il Movimento. Per il capo politico "c'è un problema con la Banca Popolare di Bari ma noi dobbiamo andare a vedere a chi hanno prestato i soldi: pensiamo a un decreto che aiuti i risparmiatori, non gli amici delle banche. Serve una riflessione sul decreto". E fonti 5s chiariscono: "Non si fanno Cdm risolutivi finchè non c'è un accordo sul metodo. Anche il Pd replica polemico, prima con un tweet di Andrea Orlando e poi con una nota di Dario Franceschini. "I ministri del Pd hanno partecipato al Consiglio dei Ministri. In ogni scelta di governo, e a maggior ragione quando si tratta di tutelare i risparmi dei cittadini, noi mettiamo doverosamente senso di responsabilità. Le minacce, le aggressioni agli alleati, le assenze per fare notizia, le lasciamo ad altri".
Ettore Rosato: Dopo che per anni i #5stelle hanno costruito contro di noi la retorica sulle banche. Oggi con il Pd votano in CdM a difesa di chi avrebbe dovuto ben amministrare. Noi non ci stiamo e non parteciperemo a questo voto. In attesa di vedere come lo giustificheranno.
Andrea Orlando: Quindi escludete che ci siano rischi per i risparmiatori in questo caso?
Salvini-Giorgetti: "Conte incapace o instabile, si dimetta". "Come può nel giro di poche ore il premier sostenere che sulla Banca popolare di Bari non ci sarà nessun intervento salvo convocare un cdm d'urgenza a distanza di poche ore mentre Bankitalia ordina il commissariamento dell'istituto? Un pacato "no comment" avrebbe evitato una farsa e sarebbe stato più serio anche a mercati aperti. Vorremmo capire cosa è successo: dal tutto bene al fallimento. Siamo nelle mani di una persona instabile o incapace che guida il governo del Paese. Conte si dimetta immediatamente: facciamo appello ai partiti di questa maggioranza per far finire al più presto questa disastrosa e pericolosa esperienza". Lo dichiarano Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti.
Fabio Pavesi per affaritaliani.it il 13 dicembre 2019. Ora toccherà alla Popolare di Bari venire salvata. E così si ripropone inalterato il consueto film delle crisi bancarie italiane che finisce per recitare sempre lo stesso copione: crediti allegri agli amici degli amici o comunque a soggetti, spesso immobiliaristi d’assalto, senza capitali propri e con grandi rischi operativi; quei prestiti con il tempo non rientrano, diventano sofferenze, cominciano le svalutazioni ma molta polvere resta sotto il tappeto perché se si svalutasse correttamente emergerebbero gravi perdite che è meglio occultare. Poi la slavina diventa non più contenibile dai semplici magheggi di bilancio. Il bubbone esplode, ma il fuoco divampava da tempo. Con un patrimonio sceso sotto i limiti regolamentari ecco la richiesta di soccorso esterno. Con azionisti e obbligazionisti subordinati che finiscono di fatto azzerati. Un copione che si perpetua e che è andato in scena a Genova alla Carige; a Siena con Mps, in Veneto con le due Popolari. Ora è la volta della Popolare gestita per oltre mezzo secolo dalla famiglia Jacobini. Il canovaccio non si discosta per nulla dalle altre crisi. Crediti facili a chi non sarà in grado di onorarli; sofferenze che superano il livello di guardia; aumenti di capitale, pagati dai soci, a prezzi che valevano due tre volte il vero valore della banca. E la pioggia di svalutazioni sui crediti malati che crea i primi maxi buchi nei conti. Ora senza il solito soccorso esterno la Popolare di Bari è spacciata. I requisiti patrimoniali con il Cet 1 sceso al 6% dopo la maxi-perdita da oltre 400 milioni del 2018 non rispettano più i criteri della Vigilanza. Occorre una nuova iniezione di denaro fresco che non si può chiedere ai martoriati vecchi soci, ma si implora il Cavaliere bianco. Che non può che essere il Fondo interbancario una volta di più e perché no il Tesoro. L’attuale ad della banca quel De Bustis che oggi la guida, dopo esserci già stato come direttore generale dal 2011 al 2014 e indagato in questi giorni a Bari per una vicenda legata a un fondo maltese che avrebbe dovuto immettere denaro nella banca, ha chiamato soccorso a voce alta accusando inoltre di gestione allegra i suoi predecessori. Servono capitali per un miliardo, c’era un comitato d’affari che gestiva in modo opaco la banca ha dichiarato a gran voce Vincenzo De Bustis chiedendo e ottenendo dal Cda l’azione di responsabilità contro la gestione passata. Che la Popolare barese nonostante le continue cessione di sofferenze negli ultimi due tre anni, navighi in acque turbolente non dovrebbe essere un mistero. Tuttora secondo l’ultimo bilancio di giugno 2019 ha in pancia ben 2 miliardi di crediti deteriorati lordi, oltre il 20% degli impieghi, un livello più che doppio della media del sistema bancario italiano. L’ultima svalutazione importante dei crediti ammalorati è del 2018 ed è pesata per 245 milioni. È stato l’anno della perdita per oltre 400 milioni della banca. Quella che di fatto ha scoperchiato la pentola. Ma tardi troppo tardi, dato che la crisi viaggiava in realtà da tempo. Pur cumulando sofferenze e incagli a velocità e intensità del tutto fuori controllo, la Popolare di Bari guidata da sempre dalla famiglia Iacobini, effettuava rettifiche sui crediti ammalorati troppo basse per essere realistiche. Tra il 2016 e il 2017, in interi 2 anni, pur con un quarto del portafoglio crediti di difficile rientro, le rettifiche sono state di meno di 150 milioni cumulati. Per trovare una pulizia più fattiva di oltre 200 milioni occorre risalire al 2015 quando ci fu l’impatto dei crediti marci dell’acquisita Tercas. Molta polvere (leggi sofferenze non adeguatamente rettificate) è stata lasciata sotto il tappeto. Si evitava di far vedere le perdite reali, nel mentre si chiedevano soldi al mercato. Un film che ricorda il disastro delle Venete, di Carige e di Mps. L’ultimo aumento di capitale del 2015 vide i soci comprare le azioni a 8,95 euro, con una valorizzazione della banca barese che superava e di molto il patrimonio netto. Questo quando l’universo delle banche quotate italiane valeva meno della metà del suo patrimonio netto. Ora però il maquillage contabile, quello di sottostimare le rettifiche sui crediti malati, mostra la corda. La Popolare ha tuttora, e ormai non è più credibile, un tasso di copertura dei crediti deteriorati di solo il 39%. Di quei 2 miliardi di sofferenze e incagli lorde sono state svalutati solo 800 milioni, tanto che i crediti malati netti sono di 1,2 miliardi e pesano tuttora per il 15% del portafoglio impieghi: un livello oltre ogni allarme rosso. Tutto ciò significa che la grande pulizia deve ancora arrivare. Non si spiegherebbe la richiesta accorata di De Bustis per coprire urgentemente un deficit di capitale vicino al miliardo. Se solo la Bari si uniformasse alla media del tasso di accantonamento del sistema bancario italiano che è al 49% dieci punti sopra la Bari, si aprirebbe una voragine di almeno altri 200 milioni di perdite. E questo quasi sicuramente avverrà. Il cambio della guardia nel controllo della banca che necessariamente dovrà arrivare non potrà permettersi di non pulire radicalmente l’istituto dalla zavorra delle sofferenze. E allora la maxi-perdita del 2018 sarà di fatto solo l’antipasto di un nuovo grande buco nei conti del 2019. Resta sullo sfondo la pantomima di una crisi visibile da tempo già dai bilanci pubblici che vedevano sofferenze fuori controllo e rettifiche del tutto inadeguate, e su cui molti, a partire dagli organi di Vigilanza hanno preferito soprassedere nell’attesa che qualcosa cambiasse. Ma come si è visto in tutte le crisi lasciar correre il tempo senza intervenire non fa che acuire l’agonia. E come nelle sceneggiature delle crisi ecco andare in onda tutti i capitoli. Clienti in uscita con la raccolta diretta che flette, ricavi in forte calo; impieghi che dimagriscono. E azionisti e obbligazionisti imbrigliati nell’impossibilità di vendere i titoli della banca comprati a caro prezzo. Il mercatino messo in pista per scambiare i titoli della Popolare di Bari non quotata si è di fatto congelato da solo. Dal 2017 sono state scambiate azioni per solo 800mila euro, un’inezia. Con i prezzi di negoziazione da sempre deserti che giravano prima della sospensione dei giorni scorsi a poco più di 2 euro, contro i 9 euro dei prezzi di carico di molti azionisti. Che in questo tragico film come negli altri saranno quelli che con i dipendenti pagheranno il conto più alto.
L'AFFARE "CON I GENTILUOMINI" CHE COSTA IL POSTO A DE BUSTIS il 13 dicembre 2019 su Il Fatto Quotidiamno. Il commissariamento della Banca Popolare di Bari è ormai inevitabile e imminente. Il governatore della Banca d' Italia Ignazio Visco ha deciso che non si può salvare l' istituto pugliese senza togliere di mezzo l' amministratore delegato Vincenzo De Bustis . Solo dopo il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt) darà il miliardo di euro di capitale necessario a salvare la banca. La posizione di De Bustis si è fatta più critica dopo che, un mese fa, è stato destinato ad altro incarico Lanfranco Suardo , l' uomo della vigilanza che aveva seguito con apparente benevolenza le evoluzioni di De Bustis. E dopo le novità nell' inchiesta della procura di Bari sulla banca. Viene proprio da Bankitalia la segnalazione che ha fatto aprire un nuovo filone d' indagine sul tentativo (fallito) di De Bustis di acquisire nuovo capitale da una sconosciuta società maltese. Vigilanza e magistratura vogliono vederci più chiaro dopo aver letto il verbale del cda del 2 gennaio 2019, quando De Bustis spiegò ai consiglieri la brillante soluzione trovata per evitare il commissariamento o, peggio, la risoluzione, volgarmente nota come bail in. Per magnificare la propria abilità, De Bustis arringa i consiglieri: "Delle banche non si fida più nessuno e quindi c'è bisogno di fare ricorso alle migliori capacità relazionali. Capacità relazionali significa investire in conoscenze, coltivarle, sedersi al tavolo e discutere, perché sia ben chiaro che in una operazione commerciale o finanziaria nessuno ti usa una cortesia senza pretendere in contropartita una pari opportunità". Per cui, spiega dando l'operazione per fatta, "ho dovuto chiedere a degli investitori personalmente conosciuti la disponibilità a sottoscrivere questo strumento ibrido di patrimonializzazione". De Bustis è amministratore delegato dal 12 dicembre 2018, e ha dunque cucinato l' operazione in un paio di settimane, Natale compreso, ma probabilmente si era portato avanti con il lavoro: una settimana prima della nomina si era fatto pagare una consulenza da 127 mila euro. A usare a De Bustis la cortesia di mollargli 30 milioni al volo e sull' unghia sarebbe stata, se ci fosse riuscita, la società maltese Muse Ventures Ltd, facente capo a Gianluigi Torzi , intraprendente finanziere italiano residente a Londra. Muse Ventures era stata costituita un anno prima con un capitale non precisamente debordante: 1.200 (milleduecento) euro. Come ha ricostruito il 19 luglio scorso sul Fatto Gianni Barbacetto, "l' istituto di credito coinvolto nell' emissione dei titoli, Bnp Paribas, rileva problemi di compliance, cioè di trasparenza e rispetto delle regole" e blocca l' operazione. Diventa evidente, anche dentro la banca, "la sproporzione tra i mezzi propri del sottoscrittore" (la Muse) e il valore dell' operazione. Non solo. Siccome De Bustis propone anche di investire 51 milioni nel fondo lussemburghese Naxos Sif Capital Plus, nasce il sospetto (respinto seccamente dalla stessa Naxos) che si tratti di un' operazione circolare, cioè che i soldi siano sempre gli stessi che escono dalla banca e ci rientrano da Malta. Ma la sensazione di un collegamento tra le due operazioni nasce in alcuni consiglieri della banca proprio per la presentazione che ne ha fatto De Bustis. Quando il presidente Marco Jacobini gli chiede informazioni "sulla qualità degli investitori", l' ad sfodera il tono della televendita: "Si tratta di galantuomini, gente per bene (), hanno chiesto semplicemente di non dare molto risalto pubblicitario all' operazione, perché le condizioni della stessa sono palesemente favorevoli per la banca". Il consigliere Francesco Venturelli chiede quale sia allora l' utilità economica per l' investitore. Mister Banca 121 ripete: "Le intese sono state sviluppate e definite sulla base di modalità relazionali, le stesse che hanno consentito di ottenere un saggio di interesse del 13 per cento (alla faccia della cortesia, ndr) quando operazioni di questo tipo, normalmente, scontano tassi attorno al 19-20 per cento. Inoltre - prosegue il verbale - considerato che la banca dispone di un' ampia base di liquidità, si è condiviso con il management di realizzare un investimento di 50 milioni in un fondo lussemburghese per aumentare la redditività della banca". Pochi giorni dopo si è scoperto che Torzi, pur galantuomo e persona per bene, figura insieme al padre Enrico Torzi "nelle liste mondiali di bad press (WorldCheck) per diverse indagini a suo carico avviate dalle Procure di Roma e Larino per reati di falsa fatturazione e truffa". Inoltre è salito recentemente agli onori delle cronache per la partecipazione, insieme al finanziere Raffaele Mincione , alla "vicenda opaca" (parola del segretario di Stato Pietro Parolin ) del palazzo londinese di Sloane Avenue su cui il Vaticano ha perso un bel po' di soldi e su cui la magistratura di Oltretevere ha aperto un' inchiesta per corruzione, peculato e truffa". Collegato a Mincione è anche Giulio Gallazzi, l'uomo a cui De Bustis da mesi sta cercando di cedere la Cassa di risparmio di Orvieto, piccola controllata della Bpb. E a proposito di "modalità relazionali", ha destato la curiosità degli ispettori il contratto di consulenza per la cessione dei crediti deteriorati e per il necessario aumento di capitale stipulato da De Bustis l' 8 aprile 2019 non con una primaria banca internazionale ma con la Tundafin di Valerio Veltroni , fratello del più noto scrittore e regista Walter. Lo stesso 8 aprile la Tundafin si è fatta liquidare 10 mila euro come anticipo per le spese.
Andrea Greco per “la Repubblica” il 13 dicembre 2019. Banca d'Italia commissaria la Banca popolare di Bari. E a stretto giro il governo, pur tra le polemiche, prepara la coperta del salvataggio: tra pochi mesi la banca andrà ricapitalizzata con almeno un miliardo. Ma il governo è spaccato: ieri sera i ministri di Italia Viva e dei 5 Stelle hanno disertato la seduta, perché nessuno di loro vuole essere accusato di «salvare i banchieri», come ha detto Luigi di Maio. I renziani, addirittura, minacciano la crisi di governo sul provvedimento di salvataggio della Popolare. Così a tarda sera arriva solo un generico impegno: «Il consiglio dei ministri ha espresso la determinazione ad assumere tutte le iniziative necessarie a garantire piena tutela degli interessi dei risparmiatori e a rafforzare il sistema creditizio a beneficio del sistema produttivo del Sud». I soldi sono demandati al prossimo consiglio di ministri. Ma si stimano fino a 700 milioni "pubblici": 500 ora, altri 200 se in futuro emergeranno nuove perdite su crediti. Il piano di riassetto, già redatto da Bankitalia con il consulente Oliver Wyman, prevede infatti che il deficit della banca sia ripianato dal Mediocredito centrale (banca controllata dal Tesoro tramite Invitalia) in tandem con il Fondo di tutela dei depositi, che si impegnerebbe con una fiche da circa mezzo miliardo messa dalle banche operanti in Italia. Il provvedimento di Bankitalia, nell' aria da giorni, ha revocato l'intero cda di Bari e nominato ben cinque commissari. «È disposto lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e controllo - vi si legge - e la sottoposizione della banca alla procedura di amministrazione straordinaria, in ragione delle perdite patrimoniali». Commissari straordinari sono Enrico Ajello e Antonio Blandini, mentre Livia Casale, Francesco Fioretto e Andrea Grosso «sono nominati nel comitato di sorveglianza ». A questi tre «è affidato il presidio della situazione aziendale, la predisposizione delle attività necessarie alla ricapitalizzazione della banca nonché la finalizzazione delle negoziazioni con i soggetti che hanno già manifestato interesse all' intervento di rilancio», ovvero il Fondo interbancario e il Mediocredito centrale. La nota aggiunge che «la banca prosegue regolarmente la propria attività. La clientela può pertanto continuare ad operare presso gli sportelli con la consueta fiducia ». Tanta è la fiducia che dopo uno smottamento in corso da almeno tre anni fa resistono nei forzieri baresi 21 mila conti correnti con più di 100 mila euro, pari a oltre 2 miliardi che in caso di crac rischiano di essere intaccati dalle regole del cosiddetto "bail in". Bankitalia, si apprende dietro le quinte, ha soppesato per giorni la decisione; anche per le ricadute reputazionali che implica commissariare una banca che cinque anni fa fu autorizzata a comprare Tercas tramite aumento di capitale ed emissione di bond da 213 milioni sui risparmiatori (titoli da rimborsare nel 2021). E fu proprio la vigilanza a puntare sulla famiglia Jacobini, fondatrice della banca nel 1960, per formare tramite fusioni il "polo adriatico"; e nel 2011 a chiamare come capoazienda, per bilanciare lo strapotere Jacobini, l'ad Vincenzo De Bustis, rimasto fino al 2014, richiamato un anno fa e ora alla porta. La decisione è maturata nello stallo del piano di riassetto che avrebbe dovuto immettere i primi 100 milioni nella banca pugliese entro fine anno, per ripristinare le soglie minime di patrimonio di legge. Ma gli ostacoli di esecuzione e negli organi sociali dell' istituto hanno fatto scegliere per una cornice più dura. Il commissariamento presenta, infatti, una serie innegabile di vantaggi. Intanto consente di rinviare la redazione del bilancio 2019, in attesa di capire meglio la reale entità dei conti, e di aumentare le coperture a fronte dei 3 miliardi circa di crediti deteriorati, ormai circa un quarto dell' attivo totale; potrebbe derivarne un rosso d' esercizio vicino ai 420 milioni persi nel 2018, sempre per gli accantonamenti su crediti in mora. Altro vantaggio è la totale discontinuità nella gestione della banca. Via De Bustis, che pure nella sua lunga carriera è sembra stato in grande sintonia con Via Nazionale; in un anno non ha trovato soluzione alla crisi della banca e ha aperte diverse indagini per reati societari alla procura barese. Ma via anche Giannelli, cugino degli Jacobini, e tutti i consiglieri nuovi e vecchi. Con loro potrebbe lasciare anche una quota di dirigenti: stamattina sono tutti convocati nella sede della banca.
Andrea Greco per “la Repubblica” il 13 dicembre 2019. Si apre l' ennesimo filone di indagine sulla Banca popolare di Bari, targato Consob. L' authority di Borsa ha poco gradito il muro dell' istituto nel comunicare la situazione dei conti al mercato, e lo ha segnalato alla procura barese, che già indaga la banca e i vertici per varie ipotesi di reato. I magistrati, ricevuta ieri la lettera del presidente Paolo Savona, l' avrebbero girata alla Gdf affinché valuti la situazione. Per ora non ci sono indagati, ma in caso di riscontri l' ipotesi di reato sarebbe manipolazione del mercato. Sono sviluppi frutto di una settimana di duelli tra la Consob (anche se le azioni baresi sono sospese, sulla piattaforma Hi-Mtf si negozia un bond da 213 milioni con scadenza 2021) e una banca chiusa a riccio, forse temendo che l' uscita dei dati provochi fughe dei depositi (oltre 2 miliardi di euro sono in conti correnti sopra i 100 mila euro, soggetti al bail in dopo un dissesto). La settimana scorsa la Consob, ai sensi dell' art. 114 del Testo unico della finanza, sulle comunicazioni al pubblico "senza indugio", aveva chiesto a Bari di fotografare lo stato dei conti e del patrimonio. Uno stato più che critico, tanto che servirà fino a un miliardo di euro per il rilancio, e Bankitalia starebbe valutando se può decollare il piano che vede il Fondo tutela depositi e la banca pubblica Mcc versarli in tandem, o se prima è il caso di commissariare l' istituto. Il decreto del governo per il salvataggio, che passa per la dotazione di fondi fino a mezzo miliardo a Mcc, sarebbe già pronto: se ne potrebbe parlare già lunedì a Palazzo Chigi. La risposta di Bari alla Consob, a stretto giro, è stata un' istanza di revoca, per privilegiare la stabilità sulla trasparenza al mercato. Consob non ha accettato la richiesta, ribadendo la necessità di una comunicazione. A quel punto, la Popolare avrebbe chiesto un' istanza di ritardo, ai sensi della direttiva comunitaria Mar, che contempla la dilazione nel diffondere dati sensibili in caso ciò possa creare problemi. Ma un paio di giorni dopo questa istanza, intervistato sul Corriere della Sera , l' ad Vincenzo De Bustis ha fornito alcuni dati, tra cui un fabbisogno di patrimonio «fra 800 milioni e un miliardo». Il manager ex Mps e Deutsche Bank aveva aggiunto: «La banca ha perso un miliardo di euro e lo si può attribuire in parte alla recessione ma per altro a una gestione creditizia al di fuori delle regole, negli ultimi tre o quattro anni», parlando di «enclave ristretta» e di organi sociali «all' oscuro» per via di verbali «addomesticati e non veritieri » del comitato crediti. A questo punto il presidente della Consob ha scritto agli inquirenti per informarli della corrispondenza, nello spirito di collaborazione tra l' authority e la procura, che ha in piedi inchieste rilevanti con 10 indagati (tra cui a vario titolo i tre membri della famiglia Jacobini e l' ad De Bustis) per svariate ipotesi di reato societario. Ieri è stata anche un' altra giornata di consiglio per la Popolare, che già mercoledì aveva tenuto una seduta fiume per esaminare alcune poste di bilancio. È stato avviato il dossier per l' azione di responsabilità contro l' ex ad Giorgio Papa e due ex dirigenti Gianluca Jacobini (figlio dell' ex presidente Marco Jacobini) e Nicola Loperfido. Sembra che il cda abbia dato mandato a un revisore legale di analizzare la praticabilità dell' operazione, che per partire dev' essere votata dall' assemblea. Secondo il Piano di riassetto Bankitalia, l' assemblea si dovrebbe convocare l' 8 marzo per votare bilancio 2019, ricapitalizzazione e la trasformazione della popolare in spa. Non è detto che sia facile per il cda "incastrare" chi è stato accusato ieri: anche perché il dg Gregorio Monachino dal 1999 è stato quasi ininterrottamente coinvolto nella gestione dei crediti baresi, e lo stesso De Bustis aveva già guidato la Bari dal 2010 al 2015. Ovvio che l' ultima parola spetterà agli azionisti dell' anno prossimo: che in ogni caso difficilmente coincideranno con i 70 mila soci attuali, a rischio di perdere tutto. Intanto il consigliere Francesco Ago, avvocato dello studio Chiomenti, si sarebbe dimesso lo scorso fine settimana con comunicazione alla banca, ufficialmente per motivi personali.
Manola Piras per startmag.it il 13 dicembre 2019. Conversazione di Start Magazine con l’avvocato Domenico Romito, primo legale ad attivarsi contro l’istituto a tutela di azionisti e obbligazionisti della Popolare di Bari. La Popolare di Bari versa in condizioni molto complicate da cui può uscire solo con un deciso cambio di passo. Ne è convinto Domenico Romito, responsabile nazionale dell’associazione Avvocati dei Consumatori, primo legale ad attivarsi contro l’istituto di credito pugliese e a denunciarne la situazione di default. Su sua richiesta, tra l’altro, è stato di recente nominato il rappresentante degli obbligazionisti della banca. In un contesto assai difficile dal punto di vista di governance e di conto economico, la Popolare di Bari deve pure fare i conti con la questione delle azioni illiquide (scambiate sulla piattaforma Hi-Mtf e così chiamate perché non c’è un mercato di riferimento) di cui sono titolari tanti soci e obbligazionisti che non è certo se e quando potranno rientrare in possesso del proprio denaro vista la situazione finanziaria dell’istituto. “Il valore delle azioni – spiega Romito in un’intervista a Start Magazine – è passato da un prezzo pagato fino a 9,53 euro – soprattutto in riferimento all’aumento di capitale del 2014-2015 – che negli anni si è praticamente azzerato. La quotazione della piattaforma Hi-Mtf, un piccolo borsino in cui ci sono soprattutto titoli delle banche popolari, era già irrealistica. Poi, con l’aggravarsi della situazione, il titolo è stato sospeso”. E sul fatto che la quotazione fosse irrealistica, chiarisce l’avvocato, “ci ha dato ragione la Corte d’Appello di Bari visto che per quanto riguarda l’aumento di capitale 2014-2015 era superiore all’ipotesi più rosea stimata dalla società incaricata”. Inoltre, secondo Romito la Popolare guidata da Vincenzo De Bustis “si è servita di un profilo di rischio alterato. In 26mila casi abbiamo rilevato un profilo di rischio basso ma solo 300 risparmiatori hanno avuto l’attribuzione di un profilo di rischio del genere perché hanno detto di avere un’esigenza di liquidità”. Sul caso sta indagando attualmente la Procura della Repubblica – e anzi “l’iniziativa è prossima alla conclusione”, assicura – perché molti titolari hanno presentato denuncia per truffa “ed in effetti questo tipo di vendita massiva potrebbe presentare profili penalmente rilevanti”. Ma chi sono questi azionisti e obbligazionisti? Si tratta di “semplici risparmiatori che sono stati sollecitati a vario titolo a investire in azioni della stessa banca in contrasto con la normativa Esma (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, ndr) e con quella della Consob, che ha accolto le raccomandazioni dell’Esma e ha dato indicazioni stringenti imponendo una procedura di vendita molto dettagliata”. Attenzione, però: il problema non riguarda solo la banca pugliese: “La nostra iniziativa si estende oltre la Popolare di Bari, ci sono altri istituti come la Popolare di Ragusa o la Popolare del Lazio che si trovano in situazioni analoghe”. Oltre al fatto che i titoli hanno perso valore c’è poi il problema dello scavalcamento nell’ordine di vendita: molti hanno chiesto di vendere i titoli in proprio possesso ma si sono visti scavalcare nella fila da altri. Risultato: più il tempo passava, più diminuiva il valore e si perdevano soldi. “Su questo abbiamo vinto la causa – evidenzia Romito – e la Popolare di Bari ha dovuto fornire 70mila pagine di documenti da cui si evince una violazione del diritto di precedenza”. Da qui l’azione collettiva per il risarcimento del danno “che – se circoscriviamo solo agli ultimi aumenti di capitale, diciamo dal 2009 – è di oltre 1 miliardo”. Una cifra non piccola per una banca che già versa in gravi condizioni. “Abbiamo fiducia nel giudice del Tribunale di Bari ma siamo convinti che non si debbano attendere le sentenze e che si debbano invece trovare altre soluzioni. E’ impensabile che queste persone debbano rivolgersi alla magistratura per avere soddisfazione” nota l’avvocato che chiede “un cambio di passo da parte della banca perché affronti il problema in maniera seria e fornisca una possibilità di ristoro. Parliamo di una banca che ha titoli che non valgono più nulla”. Peraltro, ricorda, “l’Unione europea favorisce questi risarcimenti dove ci sono state violazioni di massa come, secondo noi, è accaduto in questo caso”. A tutti gli azionisti e gli obbligazionisti dell’istituto, inoltre, l’avvocato Romito raccomanda di inviare una lettera alla banca in forma di raccomandata “per interrompere la prescrizione”. “Suggerisco di mandare la lettera di messa in mora perché non si può sapere da quando decorreranno le prescrizioni e a maggior ragione nel caso di chi ha partecipato all’aumento di capitale del 2009”. Per quanto riguarda il futuro della Popolare di Bari, anche in questo caso “serve un cambio di passo”. Intanto, dice Romito, “occorre trasformarla in spa e però bisogna vedere chi crede nel progetto. Servono soggetti privati e pubblici che si facciano carico del rilancio della banca senza frapporre ulteriori indugi. Questo clima di incertezza danneggia l’istituto, mina la fiducia dei clienti e di conseguenza si rischia un depauperamento in termini di risorse e di correntisti”.
Popolare di Bari commissariata, il premier Conte: «Non tuteleremo nessun banchiere». Salvini: «Comitato di salvezza nazionale». Pubblicato sabato, 14 dicembre 2019 su Corriere.it da Cesare Zapperi. Sulle polemiche nella maggioranza: «Nessuna tensione, con Italia viva abbiamo chiarito». Come si interverrà? «Avremo una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica». «Non tuteleremo nessun banchiere». Lo dice il premier Giuseppe Conte nella conferenza stampa sui primi 100 giorni di Governo nella Sanità rispondendo ad una domanda sulla crisi della Popolare di Bari. «Lo possiamo dire: tutti i risparmiatori di Bari e dintorni devono stare assolutamente tranquilli - aggiunge il premier - Siamo un po’ vivaci, ma siamo tutti responsabili e perseguiremo l’obiettivo in massima sicurezza». E sulle polemiche con Renzi, non c’è «nessuna tensione - assicura Conte - abbiamo chiarito, con Marattin ci siamo anche sentiti a telefono, gli obiettivi sono condivisi», assicura il premier. Quanto ai prossimi passi, «ci sarà una convocazione» del Cdm «a breve. Ieri abbiamo fissato gli obiettivi che vogliamo conseguire in tempi rapidi, secondo un disegno di politica coerente che avevamo in parte già impostato, non è che improvvisiamo». Conte parla anche dei meccanismi di intervento: si utilizzerà «uno strumento che è nella pancia di Invitalia, Mediocredito Centrale. Cerchiamo di fare di necessità virtù. Assicureremo a Mediocredito centrale le necessarie risorse per poi, con un fondo interbancario, intervenire per rilanciare la Pop Bari. Avremo una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica».
Da ilmessaggero.it il 15 dicembre 2019. La trasformazione di Mediocredito Centrale in una banca di investimento, che guardi con attenzione alle imprese meridionali, una banca del Sud. Con una partecipazione pubblica che passa attraverso Invitalia, che avrà un miliardo di fondi, metà dei quali saranno travasati in Mcc proprio per ricapitalizzare la Popolare di Bari. È questo il piano contenuto nel decreto che punta al salvataggio dell'istituto barese commissariato da Bankitalia e sul quale le tensioni nel governo non sono ancora completamente placate, anche se sembrano attenuarsi: Italia Viva chiede di vedere il testo che si dice pronta a votare, mentre il leader M5S, Luigi Di Maio, suggerisce di «non correre troppo» e di trasformare la banca in un istituto dello Stato, se riceverà fondi pubblici. Il pallino è in mano al premier Giuseppe Conte che punta a presentare il provvedimento in un Consiglio dei Ministri che «si terrà a breve» con «obiettivi in tempi rapidi», come quello della «creazione di una banca del Sud a partecipazione pubblica». Non è un mistero che anche il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri prema per il varo di questo decreto-ombrello prima dell'apertura dei mercati e con molta probabilità la riunione ci sarà domenica sera, anche se ci sarebbe chi chiede di attendere lunedì, quando è già in programma un Cdm sulla legge di Bilancio. «Non tuteleremo nessun banchiere», ha assicurato Conte che invece promette «la massima tutela dei risparmiatori». Il premier indica anche la strada che sarà seguita, quella della creazione di «una banca del Sud a partecipazione pubblica», così da «fare di necessità virtù». La Popolare di Bari, che ha bisogno di un miliardo di ricapitalizzazione, non sarebbe nemmeno citata nel decreto. Metà dei fondi arriverebbero dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, che è uno strumento privato finanziato dal sistema bancario. L'altra metà dal Mediocredito, con una soluzione aperta anche ad altri istituti. Il passaggio dei fondi dal governo a Mcc non sarebbe però diretto, anzi. Il finanziamento, per il valore di un miliardo, sarebbe fatto su Invitalia - che di fatto si sta configurando proprio come una vera e propria 'Irì al servizio del Paese. Questa girerebbe poi metà della somma a Mediocredito, per ricapitalizzare con Fitd la Popolare di Bari. I commissari dell'istituto barese, a poche ore dalla nomina, sono già al lavoro a Bari. Hanno incontrato i dirigenti della banca mentre si aprono nuove inchieste: i procedimenti sono saliti a sette dopo che ne è stato aperto uno su segnalazione della Consob e su richiesta di un risparmiatore. Ma, ora che la strada per il salvataggio sarebbe stata individuata, restano da superare le fibrillazioni politiche. L'opposizione attacca, con il leader della Lega, Matteo Salvini, che chiede un «comitato di Salvezza Nazionale» mentre nella maggioranza Italia Viva e M5s sembrano fare tra loro il gioco del cerino. Ai renziani che non hanno fatto approvare il decreto al primo Cdm risponde Di Maio che chiede chiarezza, la trasformazione in una banca pubblica e lancia qualche strale sulla Banca d'Italia. «Vogliamo sapere da chi doveva sorvegliare cosa è emerso in questi anni. Quante sono state le ispezioni di Bankitalia negli ultimi tre anni? Cosa è emerso? Vogliamo sapere chi ha prestato soldi e a chi». A questo, promette, servirà la nuova commissione d'inchiesta sulle banche. «Bisogna eleggere il presidente. È arrivato il momento di farlo», sollecita Di Maio che promette:«si aprirà un vaso di Pandora e non vediamo l'ora».
PopBari, Conte: "Nessuna polemica. Ora una banca del Sud per gli investimenti pubblici". Di Maio contro Bankitalia. Il premier annuncia un consiglio dei ministri a breve e assicura che nella maggioranza non ci sono tensioni: con Italia viva "abbiamo chiarito, obiettivi condivisi". La Repubblica il 14 dicembre 2019. Giuseppe Conte difende l'operato del governo sul caso Banca popolare di Bariche ieri ha mandato in fibrillazione l'esecutivo. Parlando al ministero della Salute per illustrare i primi 100 giorni di attività del governo nel settore, ridimensiona le tensioni aperte dal caso Popolare di Bari nella maggioranza, annuncia che "a breve ci sarà una convocazione" del Consiglio dei ministri sulla questione, e indica come obiettivo finale dell'intervento "una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica". Luigi Di Maio - assente come tutti i 5S a parte Fraccaro al consiglio dei ministri di ieri, però poco dopo frena - "Decreto? Non corriamo. Prima bisogna fare chiarezza" -, attacca Bankitalia sui controlli: "Quante ispezioni ha ordinato? Il buco non lo ha creato un alieno" - e infine lancia la sua idea: "Se dobbiamo metterci soldi, la banca popolare di Bari diventi pubblica". Il leader 5S rilancia anche la commissione banche voluta dal Movimento: "E' ferma da un anno. Ancora bisogna eleggere il Presidente. È arrivato il momento di farlo. Quella commissione sono sicuro aprirà un vaso di Pandora. E non vediamo l'ora". "Ieri abbiamo fissato gli obiettivi che vogliamo conseguire in tempi rapidi, secondo un disegno di politica coerente che avevamo in parte già impostato, non è che improvvisiamo", dice il presidente del Consiglio. E sulle polemiche aggiunge: "Siamo un po' vivaci, ma siamo responsabili. Capisco che ci sia molta sensibilità, al limite dell'ipersensibilità sul tema banche, che è un nervo scoperto per molte forze politiche, è un tema divisivo. Quanto successo ieri è frutto di un equivoco. Tensioni tra me e Renzi? Non c'è nessuna tensione. Ci siamo sentiti, non con Renzi, ma con Marattin. Con Italia Viva gli obiettivi sono condivisi. Chi ci sarà nel cdm? Non lo abbiamo ancora fissato, non posso dire chi chi sarà". Conte spiega anche il motivo per cui la gravità della situazione non è emersa fino a ieri sera: "Ieri a Bruxelles non potevo anticipare alle telecamere quello che stava succedendo. Chiedo scusa ai cittadini, sono stato omissivo per la prima volta ma non potevo parlare a mercati aperti". E poi fornisce qualche indicazione su come si muoverà il governo: "Non tuteleremo nessun banchiere. Sollecitiamo azioni di responsabilità perché non possiamo permetterci queste situazioni, vogliamo i nomi e i cognomi dei responsabili. Interverremo attraverso uno strumento nella pancia di Invitalia, Mediocredito Centrale. Cerchiamo di fare di necessità virtù. Assicureremo a Mediocredito centrale le necessarie risorse per poi, con un fondo interbancario, intervenire per rilanciare la Pop Bari. Avremo una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica".
Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 15 dicembre 2019. Questa è la storia di un crac in dieci mosse. Quanti i suoi protagonisti. Dieci. Che, come i Piccoli Indiani di Agatha Christie, non sopravvivono all' architettura che credevano incrollabile perché "too big to fail", troppo grande per fallire. Dieci. Quanti, a diverso titolo, ne hanno iscritti al registro degli indagati per falso in bilancio, false comunicazioni, falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza, estorsione, i magistrati che, tre anni fa, hanno avuto il coraggio di sfidare la vischiosità del Sistema di cui la Popolare di Bari è stata ed è il perno, il Procuratore aggiunto di Bari Roberto Rossi e i sostituti Federico Perrone Capano e Lidia Giorgio. Sono Marco Jacobini, 73 anni, il padre padrone della banca, presidente del suo consiglio di amministrazione e amministratore di fatto. I suoi figli Gianluca, 42 anni, vicedirettore generale dal 2011 al 2015, quindi condirettore e direttore generale di fatto, e Luigi, 46 anni, dal 2011 vicedirettore generale. Vincenzo De Bustis Figarola, 69 anni, già direttore generale ed amministratore delegato, banchiere preceduto dalla fama di essere un highlander uscito sempre illeso da storie complicate, in Banca 121, Mps e Deutsche Bank. Che, ancora il 18 luglio scorso, dopo la pubblicazione di un' inchiesta in due puntate di Repubblica sul suo gigante dai piedi di argilla, ci querelava lamentando la «palese falsità di notizie gravemente lesive della sua immagine». Elia Circelli, 56 anni, responsabile della funzione bilancio e direttore delle operazioni della banca dal 2011. Vincenzo Marella, 53 anni, responsabile dell' internal audit. Roberto Pirola, 70 anni, ex presidente del collegio sindacale. Giorgio Papa, 63 anni, amministratore delegato dal 2015. Grazia Conti, 44 anni, responsabile della funzione compliance dal 2014 al 2016. Alberto Longo, 61 anni, presidente del collegio sindacale dal 2018. La verità sulla Popolare di Bari non si doveva conoscere. E, a Repubblica , con la querela era arrivata anche una diffida a desistere dal suo giornalismo. A «non reiterare le condotte diffamatorie» pena un risarcimento «per una somma non inferiore a 100 milioni di euro». Più o meno un decimo del buco che, ora, saranno chiamati a tamponare i contribuenti italiani per conto dei dieci indagati. E delle loro dieci mosse. Eccole, così come è possibile ricostruire da un' analisi dei bilanci, dagli atti di Consob e di Banca d' Italia e dai primi esiti del lavoro della Guardia di Finanza.
1. 2014. Tercas, la madre del Grande Rosso. Tra il 2014 e il 2015, con la benedizione della Banca d' Italia, la Popolare acquista la banca abruzzese Tercas per poco più di 300 milioni. Per farlo, contestualmente all' acquisizione, procede a un aumento di capitale attraverso la collocazione sul mercato di azioni e di obbligazioni subordinate dal rendimento spettacolare (6,5% annuo). La clientela di riferimento sono imprenditori e, soprattutto, piccoli risparmiatori, nonostante l' alto margine di rischio dei titoli. Le azioni, in quel momento, hanno un valore medio di mercato di 9,53 euro. Tercas, in realtà, non è un affare né per la Popolare, né per i suoi azionisti, né per i risparmiatori. Che ne pagheranno il costo.
2. 2014. Il primo falso in bilancio. Quanto Tercas non sia un affare è evidente assai presto. E, corre il 2015, la Banca si trova di fronte perdite per circa 250 milioni di euro che decide di occultare. Tra febbraio e aprile di quell' anno, il Cda prima, l' assemblea dei soci poi, cucinano dunque il bilancio dell' anno precedente omettendo di svalutare gli avviamenti di alcune fusioni. Ci sono, tra le altre, la Nuova banca Mediterranea, la Popolare di Calabria e, appunto, Tercas. L' operazione di maquillage consente di occultare, facendole sparire, 270 milioni di perdite.
3. 2016. L'asta per gli amici. La chiusura del bilancio 2015, non ha risolto i problemi. Anzi. Popolare sa che tra il valore reale delle azioni collocate l' anno prima e quello dichiarato, balla circa il 30 per cento. Il titolo, dunque, deve essere svalutato. Ma prima c'è da risolvere una questione. Molte di quelle azioni sono state vendute infatti a imprenditori esposti con la banca per cifre importanti. È il gioco delle "operazioni baciate" che ha già messo in ginocchio le banche venete: ti concedo un prestito a patto che ne userai una parte per acquistare le mie azioni. Accade così che, il 18 marzo, nell'ultima asta utile prima dell' assemblea dei soci del 24 aprile che svaluterà il titolo, alcuni azionisti, diciamo i più "fortunati", riescono a liberarsi delle azioni scavalcando l' ordine cronologico dei venditori. Da questo momento in poi, le azioni puntano dritte verso l' abisso. Nessuno riuscirà a venderle. Il loro valore si scioglierà come neve al sole, arrivando a poco più di 2 euro prima che le negoziazioni vengano sospese.
4. 2016. Il gioco delle imposte. Nel bilancio del 2015, Popolare lavora su un' altra voce. Perché il gioco è sempre lo stesso. Occultare le perdite o omettendone il valore o, al contrario, appostando attivi che non esistono. O, comunque, di cui non vi è certezza. In questo caso, vengono contabilizzate - a titolo di credito verso l' erario - imposte anticipate sulla perdita fiscale. Ne vengono fuori poco meno di 100 milioni.
5. 2016. Il Fondo Atlante. Anche il Fondo Atlante torna buono per aggiustare i numeri. Nel 2016, nel pieno della tempesta che sta spazzando via le banche venete, Atlante è il salvagente concepito dal governo per sottrarsi al naufragio. La Popolare partecipa al fondo per poco più di 24 milioni che, alla fine di quell' anno, si sono svalutati di un terzo (circa otto milioni e mezzo). Dunque, quella minusvalenza dovrebbe pesare nel bilancio per il 33 per cento. Al contrario, la svalutazione viene iscritta per il 25 per cento.
6. 2017. Miulli, la causa vinta che non lo era. La devotissima famiglia Jacobini merita ossequio, anche dei Santi, oltre che a loro dispetto. L' 8 maggio, come ogni anno, durante i festeggiamenti di san Nicola, patrono di Bari, la statua del santo si ferma infatti di fronte alla sede centrale della Banca. E se accade che un ente ecclesiastico, come il Miulli abbia bisogno di scontare un credito vantato nei confronti dell'Inps a valle della pronuncia di primo grado in un contenzioso amministrativo, va da sé che la Popolare sia a disposizione. La Banca sconta infatti all'ente circa 32 milioni di euro, più interessi, dando per pacifico ciò che pacifico non è. Che l'Inps continuerà a soccombere anche nei successivi gradi di giudizio. Cosa che non accadrà. Il 16 febbraio del 2017, la banca, subentrata all' Ente, viene condannata a pagare all'Inps 41,7 milioni di euro. Dovrebbe far fronte il Miulli. Ma, nel frattempo, è andato in concordato. Alla Popolare tornano solo 15 milioni. Il resto è sofferenza.
7. 2017. Investitori di carta. La situazione della Popolare, nel 2017, si è fatta già pesantissima. La banca ha sul collo la Banca d' Italia e la Consob, che chiedono spiegazioni sui bilanci, sul prezzo delle azioni, sulle loro modalità di collocamento. Sono stati infatti spacciati come navigati investitori, agricoltori ottantenni, docenti di scuole medie in pensione, casalinghe vedove, manovali con la licenza media, che avevano affidato alla banca i risparmi di una vita. In cambio, magari, di un mutuo concesso per l' acquisto di una prima casa ai figli. La Banca corre ai ripari. Agli ignari "investitori" vengono fatti firmare a posteriori moduli di accettazione del rischio. A Consob e Banca d' Italia viene raccontato che tutto è nella norma.
8. 2017. Governance di famiglia. La Popolare, sulla carta, ha, come vuole la legge, una governance che dovrebbe assicurare trasparenza e controlli interni incrociati. Ma, alla Popolare, la governance è una maschera che cela quello che sanno anche i sassi. Dentro e fuori la banca. Decide un uomo solo. Il vecchio Marco, il patriarca, che ha ereditato la banca da suo padre, e che la banca darà ai suoi due figli. Quanto allo stimato avvocato Gianvito Giannelli, non indagato e presidente al momento del commissariamento di venerdì, è suo nipote.
9. 2018. De Bustis o del "divide et impera". Marco Jacobini è uomo astuto. Quando le cose volgono al peggio, richiama in banca, come amministratore delegato, il suo vecchio direttore generale: Vincenzo De Bustis Figarola. Il banchiere capisce che la banca balla sull' orlo dell' abisso e divide la famiglia. Con un obiettivo: prendersi la Popolare. Tira a sé Luigi. Convince il patriarca a fare un passo di lato e, per provare a accreditare una discontinuità nella gestione della banca, avvia un' azione di responsabilità contro Gianluca Jacobini e altri funzionari, contestandogli la concessione di crediti facili. Come accaduto per la holding Fusillo, pugliesi di Noci (Bari). Sono a un passo dal fallimento (erano in concordato), con un buco da 200 milioni e un' esposizione con la banca per 100. La Popolare annuncia l' intenzione di «erogare nuova finanza per 40 milioni di euro».
10. 2019. Il fondo Maltese. Tra il dicembre del 2018 e il marzo 2019, l'amministratore delegato De Bustis propone al consiglio di amministrazione un' iniziativa di patrimonializzazione attraverso uno strumento che ricorda un bond per un ammontare di 30 milioni. Subito dopo, la Popolare riceve una richiesta irrevocabile di adesione da parte di una società maltese, la Muse ventures ltd. per l' intero importo: 30 milioni. Contemporaneamente, De Bustis, siamo al gennaio di quest' anno, acquista quote di un fondo lussemburghese, il Naxos plus, per 51 milioni. È un' operazione accreditata come necessaria ad aumentare il valore delle partecipazioni della Popolare e che sarebbe stata in parte coperta dall' impegno con il fondo maltese. In realtà, le cose vanno in altro modo. Il Muse è una scatola vuota, con un capitale sociale di 1.200 euro ed è riconducibile a tale Gianluigi Torzi, finanziere con una lunga coda di inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto. I 30 milioni, va da sé, da Malta non arriveranno mai, ma, dal Lussemburgo, chiedono in compenso i 51 a Bari. È l' ultima piroetta sul ciglio dell' abisso.
Teresa Bellanova, retroscena dal CdM: "Cos'ha provato a fare fino a notte, sono ossessionati". Libero Quotidiano il 16 Dicembre 2019. "Vedete Teresa Bellanova? Sono ossessionati". Dal CdM sulla crisi della banca Popolare di Bari emergono retroscena piuttosto imbarazzanti su Italia Viva. La ministra dell'Agricoltura e pugliese Doc, capodelegazione dei renziani nel governo, avrebbe insistito fino a notte, scrive il Corriere della Sera, per inserire nel titolo del decreto la parola "salvataggio" al posto di "rilancio". Un pressing che avrebbe provocato le perfide ironie dei democratici, ex colleghi di partito della Bellanova: "È la prova - sibilano riguardo ai renziani - hanno l'ossessione di Banca Etruria". Come dare loro torto, però. Per colpa di quella vicenda Matteo Renzi e Maria Elena Boschi ci hanno rimesso, di fatto, la carriera ad altissimo livello.
Popolare di Bari, Bellanova contro Conte: “Mai vista una cosa così”. Asia Angaroni il 16/12/2019 su Notizie.it. Teresa Bellanova critica Conte per la gestione della Banca Popolare di Bari: "Non ho mai visto convocare un Cdm con una telefonata mezz'ora prima". Per il sindaco di Bari, Antonio Decaro, è a rischio il “tessuto economico” della città e della Regione, mentre il governatore Michele Emiliano si dice pronto a intervenire nell’operazione con risorse della Regione. Intanto arriva il salvataggio delle Banca Popolare di Bari. Il governo, infatti, ha approvato un decreto che stanzia 900 milioni per Invitalia affinché finanzi il Microcredito centrale. In questo modo permetterà di acquisire quote della banca. Alle dichiarazioni di Giuseppe Conte, secondo il quale non verranno difesi gli interessi dei banchieri, fanno eco le rassicurazioni del ministro Gualtieri. “Il governo è al fianco dei risparmiatori e dei dipendenti della banca”, ha dichiarato. Dopo giorni di scontri interni alla maggioranza, Conte ha riconvocato il Consiglio dei ministri per approvare il decreto stoppato nella serata di venerdì 13 dicembre dalle tensioni tra Matteo Renzi e Luigi Di Maio. Tuttavia, Teresa Bellanova continua a esprimere il suo malcontento riguardante la cattiva gestione del caso da parte del premier Conte.
Popolare di Bari, critiche della Bellanova. “A meno di eventi gravissimi e improvvisi, e non è questo il caso, non ho mai visto convocare un consiglio dei ministri con una telefonata mezz’ora prima“, attacca il ministro dell’Agricoltura, capodelegazione di Italia Viva nel governo. “Ero rimasta a Roma fino a pomeriggio inoltrato, disdicendo un’iniziativa in Puglia alla quale tenevo molto. Quando l’ho saputo ero in viaggio”, ha spiegato. E ancora: “Non c’era stata la convocazione di un preconsiglio per esaminare un decreto che a oggi nessuno di noi ha visto”. La Bellanova assicura che l’assenza dei fedelissimi renziani al Consiglio dei ministri non è stata appositamente orchestrata come replica agli attacchi subiti su Banca Etruria. A Repubblica, infatti, ha dichiarato: “Agguato? E a chi? Comprendo l’imbarazzo, ma proprio per questo inviterei tutti a stare al testo. Nel confronto di maggioranza dei giorni scorsi si era deciso: nessun intervento pubblico prima di quello dell’autorità di vigilanza con la destituzione del management e nessun decreto prima di assumere decisioni definitive. Lo stesso Conte venerdì ha detto: nessun decreto. Tranne convocare poche ore dopo in fretta e furia, prima della notizia del commissariamento da parte di Bankitalia, il Cdm”. Secondo la Bellanova il metodo usato dal premier Conte è “discutibile”.
Marco Conti per “il Messaggero” il 16 dicembre 2019. Ci risiamo, ma stavolta non è un solo partito della maggioranza a scagliarsi contro Bankitalia, ma due. Italia Viva e M5S hanno duellato sino al consiglio dei ministri di tarda sera sul nome del decreto di salvataggio della Popolare di Bari. Su una cosa sembrano essere però d'accordo quando, seppur con toni diversi, si chiedono la Banca d'Italia, con i suoi poteri ispettivi, non ha avvisato in tempo dei comportamenti dei vertici della Banca Popolare di Bari. All'attacco a via Nazionale si unisce dall'opposizione Matteo Salvini che rilancia la riforma di Palazzo Koch messa a punto dal precedente governo gialloverde e, per mettere ancor più in difficoltà Di Maio, si dice pronto a votare anche Elio Lannutti alla presidenza della Commissione Banche. Un vortice di polemiche che resta fuori dal Consiglio dei ministri di ieri sera, convocato la seconda volta in due giorni dopo le polemiche assenze di venerdì sera di grillini e renziani. Stavolta il presidente del Consiglio si cautela e invia la bozza del decreto per il salvataggio della Popolare di Bari qualche ora prima, in modo che tutti i partiti possano esaminare il testo finale prima della riunione. Stavolta M5S e IV non disertano la riunione, ma proseguono a scontrarsi perché secondo i renziani il decreto parla della nascita di una banca d'investimento quando invece si tratterebbe di un salvataggio molto simile a quello fatto dai governi Renzi per Banca Etruria e dall'esecutivo Gentiloni per Mps, ai quali i grillini «devono chiedere scusa». E la parola «salvataggio» la ministra Bellanova chiede che venga messa nel titolo del decreto, ma ottiene solo una diluzione del testo dove la parola investimenti finisce in fondo. Oggi l'ex segretario del Pd, e leader di IV, parlerà al Senato in occasione delle dichiarazioni di voto sulla manovra di Bilancio, e tornerà sul tema rinnovando le critiche espresse a suo tempo sull'operato di via Nazionale e sui vertici dell'Istituto riconfermati dal suo successore a palazzo Chigi, malgrado la contrarietà dell'attuale leader di Italia Viva. Di Maio non è da meno e, oltre a rilanciare la commissione d'inchiesta sulle banche, chiede di avere i verbali delle ispezioni per sapere se ci siano stati «omessi controlli» e lancia liste di proscrizione malgrado ci siano delle inchieste della magistratura. Il Pd, che a febbraio dello scorso anno votò l'istituzione della Commissione, osserva con irritazione lo scontro tra alleati e l'attacco all'autonomia di Bankitalia che finirà col coinvolgere anche la Consob, i cui vertici sono stati cambiati dal governo M5S-Lega. Un tentativo di proteggere Bankitalia lo fa Conte leggendo in consiglio un resoconto di tutte le attività ispettive di via Nazionale dal 2010 che confermano l'attenzione con la quale l'Istituto è stato vigilato. Resta il fatto che nella maggioranza il clima è pessimo. Raccontano al Nazareno che Nicola Zingaretti è pronto anche alla crisi se non otterrà al più presto un chiarimento. I Dem spiegano che, oltre ad essere contrari a mettere nel tritacarne Bankitalia, questa sera nella riunione di maggioranza convocata da Conte per affrontare i nodi prescrizione e autonomie, Dario Franceschini andrà giù duro con gli alleati. Ma anche con Conte che i Dem accusano di non sapersi imporre su IV e M5S. Per questi ultimi «ogni occasione è buona per scontrarsi», ragionano i Dem. Secondo un ministro Dem «è difficile scommettere sulla durata» di un governo sorretto da «un partito che rincorre la propaganda dell'ex alleato» e un altro «mosso dal rancore» e «in perenne regolamento di conti». Senza contare che il tentativo di far partire la commissione banche - ferma da febbraio perché ancora senza presidente dopo la bocciatura dei senatori Paragone e Lannutti - nel pieno delle polemiche e nel bel mezzo di un salvataggio, non aiuta la credibilità di un Paese dove la politica, e non il lavoro della magistratura, mette in discussione l'autonomia della propria banca centrale. A suo tempo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella tenne ferma la legge istitutiva della commissione d'inchiesta per un mese, salvo poi accompagnare la firma da una lettera nella quale si fissavano precisi paletti. «Occorre evitare - scriveva Mattarella nel marzo scorso in una lettera al Parlamento - il rischio che il ruolo della commissione finisca con il sovrapporsi, quasi che si trattasse di un organismo ad esse sopra ordinato all'esercizio dei compiti propri di Banca d'Italia, Consob, Ivass, Covip, Banca Centrale Europea».
Banca popolare di Bari, Paragone: "Tutti promossi gli uomini che non videro il buco". Il senatore del Movimento 5 Stelle: "Salvare i risparmiatori? Il governo sta zitto e il presidente del Consiglio va a cena con il governatore di Bankitalia". Francesca Bernasconi, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Una perdita netta di oltre 73 milioni di euro. Eppure, sembra che nessuno di Bankitalia pagherà per non essersi accorto del buco della Banca popolare di Bari. "Salveremo i risparmiatori", dicono da Palazzo Chigi ma, secondo quanto sostiene il senatore del Movimento 5 Stelle, Gianluigi Paragone, "il vero salvataggio ancora una volta sarà per il sistema Bankitalia". Gianluigi Paragone spiega, in un video che ha postato su Facebook, prima del suo intervento a In mezz'ora, come la questione della Banca popolare di Bari sia diventata problematica dopo l'acquisto della TerCas, cioè la cassa di risparmio di Teramo. I vertici di Bankitalia approvarono l'acquisto, sottovalutando le perdite della cassa di risparmio e affidando il nuovo polo bancario alla famiglia Jacobini, storica della popolare di Bari. E questo, "è il primo errore di Bankitalia". Poi, vengono effettuate diverse ispezioni, prima nel 2016/2017 e successivamente nel 2019: in nessuno di questi controlli, Bankitalia rileva criticità. Ma anche questo sarebbe un errore, dato che "le cose non andavano bene per niente". Infatti, era già saltato il primo cliente della Popolare di Bari, senza che la dirigenza si chiese cosa stesse succedendo, nonostante fossero in corso le ispezioni. E ora, chi non si è accorto delle criticità di TerCas pagherà? "La verità- continua Paragone- è che il governo sta zitto sui nomi e il presidente del Consiglio va a pranzo e cena con il governatore di Bankitalia". E Paragone fa nomi e cognomi degli uomini responsabili di non essersi accorti del buco. Così, Iganzio Visco, governatore di Bankitalia, resterebbe al suo posto, nonostante "abbia visto fallire la metà delle banche", Salvatore Rossi, il cui occhio sulla TerCas fu fondamentale per guidare la fusione, sarebbe stato nominato presidente di Tim, alla vigilia di importanti operazioni finanziarie, secondo quanto riporta il Tempo. E ancora, Fabio Panette, direttore generale di via Nazionale sarebbe vicino ad entrate nella Bce come membro effettivo, mentre Carmelo Barbagallo, ex capo della Vigilanza di Bankitalia, è passato alla guida dell'Autorità di informazione finanziaria del Vaticano. Infine Lanfranco Suardo, che guidava le ispezioni su Bari, è stato promosso a novembre. Tutti salvi, quindi. "Alla fine nessuno paga", conclude Paragone.
La Banca Popolare di Bari fa ballare di nuovo il governo. Banche e politica. Scontro a tutto campo Italia Viva-Pd-M5S. Un miliardo per trasformare l’istituto in pubblico. Roberto Ciccarelli il 14.12.2019 su Il Manifesto. Dopo l’Ilva di Taranto, la Banca Popolare di Bari. Un’altra grana pugliese è scoppiata sotto il tavolo traballante del governo giallorosso sotto il quale si agitano gli spiriti di una crisi strisciante che promette una settimana di fuoco mentre si approva la legge di bilancio al Senato. La storia: venerdì è stato convocato un consiglio dei ministri last-minute. In discussione c’erano alcune misure urgenti per la realizzazione di una «banca di investimento», in realtà si trattava del salvataggio della banca. Solo poche ore prima la convocazione d’urgenza il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva escluso interventi di salvataggio spiegando che «al momento non c’è nessuna necessità di intervenire con nessuna banca». Ieri mattina invece ha annunciato la volontà di creare «una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica» a partire dalla Popolare di Bari. Si sta pensando a un decreto, da adottare con un Consiglio dei ministri nelle prossime ore (forse), con uno stanziamento di un miliardo, la metà da destinare al Mediocredito centrale controllato da Invitalia. Quest’ultima dovrebbe partecipare al rilancio della Banca popolare di Bari insieme al Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd). «Una cosa è certa – ha detto Conte – L’intervento pubblico non sarà a favore dei banchieri».
IL REPENTINO cambio di prospettiva è stato spiegato da Conte in questi termini: sono stato «omissivo» nella prima dichiarazione «per non creare allarme con i mercato aperti e per il segreto d’ufficio». Conte si è detto a conoscenza del commissariamento disposto da Bankitalia e si è «scusato». Questa condotta sembra invece avere creato panico e dissidi nella sua maggioranza. Lo ha fatto notare la ministro delle politiche agricole Teresa Bellanova che venerdì stava andando in Puglia dicendosi rassicurata dalle dichiarazioni di Conte, mentre invece è stata richiamata a Roma per partecipare a un consiglio dei ministri che doveva intervenire su una situazione opposta. Nelle agitate ore notturne alcune fonti di governo hanno fatto sapere che sia i renziani che i Cinque Stelle sapevano, si erano tenute varie riunioni. E c’è anche chi sostiene che il provvedimento avrebbe dovuto essere adottato due settimane fa. «Non ho capito perché Italia Viva ha fatto saltare il Cdm. Tocca darsi una calmata» ha detto Nicola Fratoianni (LeU). «Non si può scherzare con il fuoco» ha aggiunto il ministro della Salute Roberto Speranza (LeU). Dal Pd fanno sapere che i renziani fanno «propaganda» e che « la responsabilità ha un limite». Un avvertimento da parte di chi è rimasto con il cerino in mano. «Con Italia Viva abbiamo chiarito – ha detto Conte – Siamo un po’ vivaci ma responsabili. Le banche sono un nervo scoperto, è un tema divisivo».
COSÌ «DIVISIVO» che i Cinque Stelle hanno pensato di rallentare il decreto già dato per certo. «Non corriamo. Prima bisogna fare chiarezza» ha detto Luigi Di Maio assente i venerdì. Di parere diverso è il ministro per gli affari regionali Francesco Boccia (Pd e pugliese): «La posizione del ministro dell’economia Gualtieri è condivisa, l’ipotesi di un ingresso di Mediocredito centrale per rilanciare la banca è condivisibile». Di Maio, invece, è partito all’attacco di Bankitalia sui controlli: «Il buco non lo ha creato un alieno». E ha rilanciato la commissione banche. «Sono sicuro che aprirà un vaso di Pandora. E non vediamo l’ora». Allusione che ha irritato i renziani: «Ci hanno insultato come amici delle banche e oggi mettono soldi del contribuente per una banca e ci accusano di irresponsabilità perché vogliamo studiare il decreto» sostengono Bellanova e Ettore Rosato. Salvini, in campagna elettorale, sarà oggi alla fiera del Levante di Bari in un’iniziativa contro il governatore pugliese Michele Emiliano. Il leghista ha proposto anche un «comitato di salvezza nazionale» alle altre forze politiche. «Se salta la popolare di Bari salta la Puglia». Il «vaso di Pandora» è stato già aperto e gli spiriti giallorossi ballano vivaci sulla crisi di governo.
CON 17 MILIARDI di fatturato, sette miliardi nei conti correnti ripartiti tra 69.092 persone (nel 2018) e il 70% delle sua rete di filali concentrate al Sud, la Banca Popolare di Bari fondata nel 1960 dalla famiglia Jacopini è quello che Veneto Banca e la Popolare di Vicenza erano per il Veneto, o quello che Carige è per la Liguria: uno dei riferimenti per le imprese del territorio, e non solo. La Banca d’Italia ha sciolto gli organi con funzioni di amministrazione e controllo della banca e ha nominato Enrico Ajello e Antonio Blandini commissari straordinari. Nel capoluogo pugliese ieri è avvenuto un primo «incontro tecnico» con la dirigenza uscente della banca. La procura di Bari ha aperto due fascicoli che si aggiungo ad almeno altre cinque indagini in corso sulla gestione dell’istituto di credito. Il primo, senza indagati né ipotesi di reato, è seguito all’esposto della Consob che ha lamentato il mancato invio delle informazioni sulla situazione dei conti. Il secondo è stato aperto a seguito di un esposto presentato il 15 novembre scorso da un azionista che riguarderebbe gli aumenti di capitale del 2014 e del 2015. Il riferimento è anche alla vicenda Tercas, già al centro di un’altra inchiesta in cui sono indagate dieci persone, tra le quali l’amministratore delegato Vincenzo De Bustis e l’ex presidente Marco Jacobini. Le indagini riguardano anche i crediti deteriorati e inesigibili che avrebbero causato le principali perdite.
SONO DUE MILIARDI di crediti deteriorati lordi in discussione, oltre il 20% degli impieghi, una somma più che doppia rispetto alla media del sistema bancario italiano. L’ultima svalutazione importante di questi crediti risale al 2018 ed è costata 245 milioni. Nello stesso anno è stata registrata una perdita per oltre 400 milioni. La situazione è precipitata nella semestrale del giugno scorso quando la banca ha presentato coefficienti di vigilanza inferiori alle soglie minime previste (Tier 1 capital ratio 9,453%, total capital ratio 11,771%). Ai correntisti sono stati mandati messaggi rassicuranti; non dovrebbero esserci conseguenze per loro.
MENO TRANQUILLI sono gli azionisti e gli obbligazionisti perché rischiano di fare la fine di quelli del Monte dei Paschi di Siena o di quelli di Banca Marche, CariChieti, CariFerrara e Banca Etruria. In circolazione ci sono infatti tre bond subordinati: uno vale 6 milioni e scade il 27 novembre 2020; un altro 15 milioni di euro e scade nel 2025; il terzo è di oltre 213 milioni, paga una cedola del 6,5% e scade a dicembre 2021. Sono in migliaia ad averli sottoscritti. Sarebbero strumenti difficilmente rimborsabili in caso di default. Siti, il sindacato italiano per la tutela dell’investimento e del risparmio di Milano, sostiene di avere avviato un’iniziativa a favore degli azionisti e degli obbligazionisti» per il risarcimento del danno subito. Nella crisi potrebbero essere colpiti anche i lavoratori. De Bustis ha parlato di un maxi-taglio del personale: degli attuali 2.707 dipendenti potrebbero restare in ottocento.
Il Governo salva la Banca Popolare di Bari: 900 milioni di contribuenti per salvarla. Il Corriere del Giorno il 16 Dicembre 2019. Approvato dal consiglio dei ministri il decreto . Sì all’azione di responsabilità nei confronti degli ex vertici. Lunedì riapre Piazza Affari e gli oltre 350 sportelli della Popolare di Bari. Andare oltre la “dead line” di ieri sera sarebbe stato più che un autogol e si sarebbe esposta la banca a fughe di risparmi, a un’emorragia di clienti e depositi. Salvini: “Si troveranno per parlare della Banca popolare di Bari: io voglio vedere in galera quelli che hanno rubato i risparmi dei lavoratori pugliesi, degli imprenditori pugliesi. ROMA – Con il decreto sulla Banca Popolare di Bari approvato nella tarda serata di ieri il Governo ha stanziato un finanziamento ad Invitalia “fino a un importo complessivo massimo di 900 milioni per il 2020“, per rafforzare il patrimonio del Mediocredito Centrale “affinché questa promuova, secondo logiche di mercato, lo sviluppo di attività finanziarie e di investimento, anche a sostegno delle imprese nel Mezzogiorno, da realizzarsi anche attraverso il ricorso all’acquisizione di partecipazioni al capitale di società bancarie e finanziarie, e nella prospettiva di ulteriori possibili operazioni di razionalizzazione di tali partecipazioni“. Lunedì riapre Piazza Affari e gli oltre 350 sportelli della Popolare di Bari. Andare oltre la “dead line” di ieri sera sarebbe stato più che un autogol e si sarebbe esposta la banca a fughe di risparmi, a un’emorragia di clienti e depositi. “Questo decreto salva i risparmiatori, ma nessuna pietà per i manager e gli amici degli amici“, dice Di Maio che finge di dimenticare l’incoerenza del M5S che in passato aveva sempre criticato i salvataggi delle banche effettuati dai governi del centrosinistra, quando i grillini stavano all’opposizione. Nel decreto di stanotte che ha visto trasformato il titolo durante il CdM con l’inserimento del riferimento al Sud, è stata prevista la creazione di una Banca di investimento pubblica; “Misure urgenti per il sostegno al sistema creditizio del mezzogiorno e per la realizzazione di una banca di investimento” il titolo, mentre la relazione tecnica allegata al documento evidenziava la “dimensione eccessivamente contenuta” degli istituti del Meridione, e sottolineava che le norme previste possono “contribuire a ridurre il divario di sviluppo economico tra il Mezzogiorno e le regioni del Centro-Nord”. Le risorse per il salvataggio della Banca Popolare di Bari arrivano dal fondo del ministero dell’Economia destinato “alla partecipazione al capitale di banche e fondi internazionali“. Le risorse sono “iscritte sul capitolo 7175 dello stato di previsione del ministero dell’Economia e delle Finanze”, rifinanziato per il 2020 “con la Sezione II” della legge di bilancio approvata nel 2018. “In base al decreto verrà disposto un aumento di capitale che consentirà a MCC, insieme con il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD) e ad eventuali altri investitori, di partecipare al rilancio della Banca Popolare di Bari (BPB), confermando così la determinazione del Governo nel tutelare i risparmiatori, le famiglie, e le imprese supportate dalla BPB“, si legge nel comunicato finale del Cdm. Prevista la costituzione di una Banca di Investimento, che nascerebbe dalla "scissione" delle acquisizioni fatte dal Mediocredito Centrale. La formazione passerà attraverso un decreto con il quale il Ministero dell’Economia acquisirà attività e partecipazioni, con l’intero capitale sociale, senza dovere alcun corrispettivo. Le operazioni saranno realizzate in un regime di esenzione fiscale. Nel documento si prevede anche l’azione di responsabilità nei confronti dei vertici della Popolare di Bari. Ed eventualmente ci sarà l’impegno, da parte dell’esecutivo, su eventuali prepensionamenti, qualora nel piano industriale questi si rendessero necessari. Positivo il parere del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri: “Il governo è al fianco dei risparmiatori e dei dipendenti della banca e delle imprese da questa sostenute ed è impegnato per il suo rilancio a beneficio dell’economia del Mezzogiorno”. Il leader della Lega, Matteo Salvini, in un comizio a Bari nel pomeriggio di ieri, ha attaccato Bankitalia: “Sulla Banca Popolare di Bari qualcuno doveva vigilare. Spero che il Parlamento approvi il prima possibile la proposta di legge firmata dalla Lega e anche dai Cinquestelle per riformare la Banca d’Italia e farla passare attraverso il Parlamento, quindi attraverso il popolo italiano“. Salvini è andato giù molto “duro”: “Si troveranno per parlare della Banca popolare di Bari: io voglio vedere in galera quelli che hanno rubato i risparmi dei lavoratori pugliesi, degli imprenditori pugliesi. Voglio vedere in galera quelli che stanno rubando il futuro agli operai dell’Ilva di Taranto“. La Procura di Bari ha aperto un nuovo fascicolo d’indagine (modello 45 senza indagati né ipotesi di reato) di fatto esplorativo sulla Banca Popolare di Bari dopo la lettera inviata nei giorni scorsi dalla Consob che ha segnalato il mancato invio delle informazioni richieste alla banca sulla situazione dei conti. La notizia proviene da fonti vicine agli ambienti giudiziari. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, dovrà valutare se quanto segnalato da Paolo Savona, presidente della Consob, configuri ipotesi di reato.
Da “Libero quotidiano” il 15 dicembre 2019. Sarà Bernardo Mattarella, nipote del capo dello Stato, a guidare il salvataggio della Popolare di Bari. È lui infatti l' amministratore delegato del Mediocredito centrale, che dovrebbe entrare nel capitale dell' istituto barese dopo aver ricevuto una iniezione di fondi pubblici dal proprio azionista Invitalia. Nel primo semestre dell' anno Mediocredito centrale ha registrato una perdita di 73 milioni. L' intervento in aiuto della PopBari permetterebbe il contestuale intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi.
Precisazione. In riferimento all'articolo si precisa che il MedioCredito Centrale nel primo semestre ha registrato un utile netto di 7,7 milioni che, al 30 settembre, è salito a 16,2 milioni di euro.
Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 16 dicembre 2019. Nell' inchiesta del Procuratore aggiunto Roberto Rossi, e dei sostituti Federico Perrone Capano e Lydia Giorgio, sul crac della Banca Popolare di Bari balla una domanda cui i pm non hanno ancora trovato risposta. Quella, come hanno già cominciato a dire alcuni degli azionisti della maggioranza di governo (Di Maio e Renzi), che sarà al centro dell' agenda politica dopo che il salvataggio per mano pubblica della banca verrà completato. E che, all'osso, è questa: come si è potuti finire nel baratro? Quale vigilanza ha esercitato Banca d' Italia? È un fatto che i vertici della Popolare, sicuramente a partire dal 2014, abbiano sistematicamente ostacolato il lavoro ispettivo di Palazzo Koch. Ed è un fatto che, ciò nonostante, la Banca centrale avesse per tempo perfettamente compreso che qualcosa di molto serio non funzionasse nel più grande Istituto di credito del Mezzogiorno. Perché, dunque, nulla è accaduto fino a venerdì scorso, quando è stato disposto il commissariamento? Repubblica ha avuto accesso agli atti ispettivi di Bankitalia, al suo carteggio con la Popolare, alle relazioni della Consob. E la sequenza di eventi che se ne ricava è questa.
La prima ispezione. L' 8 ottobre del 2010, quale conseguenza dell'ispezione che aveva condotto sui conti della Popolare il 4 maggio di quell' anno, la Banca d' Italia dispone il blocco di ogni iniziativa di espansione dell' istituto. Non potrà insomma procedere all' acquisizione di altre banche. Già in quel momento, infatti, l' eventuale crescita della Popolare non viene ritenuta sufficientemente sostenuta dai fondamentali di bilancio, né da un' adeguata trasparenza di una governance ridotta di fatto ad affare della famiglia Jacobini (Marco, il patriarca, Gianluca e Luigi, i figli). E che la situazione non cambi, anzi peggiori, lo documentano le successive ispezioni. Come quella che, nella primavera del 2013, censura il modello di erogazione dei crediti ai clienti di riguardo della Popolare. Gli stessi crediti che si trasformeranno rapidamente in sofferenze inesigibili e che oggi impiombano i conti della banca. Scrivono infatti in quel 2013 gli ispettori: «Relativamente alla gestione dei rapporti con i gruppi Fusillo, Curci e la società da essi costituita nel 2012, Maiora Group S.p.a., già all' attenzione della vigilanza per il consistente supporto sotto varie forme fornito dalla banca, sono stati riscontrati ripetuti interventi creditizi non sempre sufficientemente vagliati né esaustivamente rappresentati al consiglio. In generale l' esposizione verso i citati gruppi, che è di ben 177 milioni nel 2008, al 30 giugno si è attestato a 638 milioni nonostante negli anni la banca abbia acquistato da società sovvenute cespiti per 152 milioni, dei quali 131 milioni attraverso fondi immobiliari». Quella di Fusillo, peraltro, sarà anche una delle ultime sconsiderate linee di credito aperte in questi ultimi due anni (la holding aveva già portato i libri in tribunale). Soprattutto dimostra, già in quel 2013, quello che persino il tollerante collegio sindacale della Popolare, all' epoca segnala. Che quelle linee di credito siano «particolarmente rischiose perché concentrate sempre su quegli stessi gruppi», «con l' effetto di porre la banca al di fuori dei limiti imposti dalle norme bancarie che impongono di frazionare il rischio al fine di non concentrare l' esposizione su stessi soggetti ma diversificarla ».
Gli stipendi d'oro. Ma restiamo ancora in quel 2013. Perché, il 9 settembre, gli ispettori di Bankitalia che tornano alla Popolare evidenziano quattro anomalie che dovrebbero scrivere già allora la parola fine alla banca così come conosciuta e governata sin lì dagli Jacobini. È accaduto infatti che, mentre rastrella i risparmi di una vita ai piccoli investitori-correntisti, la governance abbia alzato generosamente i propri emolumenti. I compensi al Consiglio di amministrazione si sono triplicati, attestandosi a oltre un milione e 400mila euro. Mentre il patriarca e presidente Marco Jacobini, «nonostante la Banca d' Italia avesse invitato a contenere il compenso entro i livelli assegnati in precedenza, 200 mila euro circa - scrivono gli ispettori - si è visto riconoscere dal consiglio una retribuzione annua di 600 mila euro». C' è di più. Nel verbale ispettivo del 9 settembre si denunciano: «L' assenza di un ruolo incisivo da parte dei comitati con responsabilità in tema di governance, tutti presieduti da esponenti presenti in azienda da tempo»; «la mancata sostituzione del dottor Marco Jacobini, nominato Presidente del Consiglio di Amministrazione (cessata la carica di Amministratore Delegato) che amplifica di fatto l' esigenza di presidiare accuratamente i potenziali conflitti di interesse all' interno della banca»; la «farraginosità dell' iter decisionale su tematiche di competenza dei due Vicedirettori (i figli Gianluca e Luigi, ndr ) dovute all' adozione di misure quali l' allontanamento dalle riunioni o l' astensione del Presidente per ovviare alle situazioni di conflitto, che limitavano nel contempo la funzione di coordinamento nei lavori consiliari da parte della figura del Presidente»; «l' assenza di un adeguato sistema di controlli interni che necessita di ulteriori provvedimenti e di maggiore potenziamento con la istituzione della figura del Chief Risk Officer, responsabile della funzione di Risk Management, dotato di effettive autonomia ed autorevolezza». La sanzione revocata Le anomalie riscontrate dagli ispettori di Bankitalia sono non solo gravi ma analoghe a quelle riscontrate a partire dal 2010. Le sanzioni appaiono a questo punto scontate. Ma, proprio in quel 2013, l' organo di vigilanza di Palazzo Koch non solo non ne commina nessuna. Ma dispone addirittura la revoca del provvedimento di blocco all' espansione della banca assunto nel maggio di tre anni prima. Perché? Negli atti acquisiti dalla Guardia di Finanza nell' inchiesta della Procura di Bari, allo stato, c' è soltanto una traccia. Documentata nel verbale del consiglio di amministrazione della Popolare del 17 ottobre del 2013. Quel giorno, Marco Jacobini, informa i consiglieri che «la vigilanza centrale di Bankitalia ci ha sollecitato a intervenire nell' operazione di salvataggio di Banca Tercas». È l' istituto abruzzese in quel momento sull' orlo del crac. Con cui Bankitalia è esposta per 480 milioni, il finanziamento concesso per tentare un primo salvataggio che però non era riuscito. È così? Il presidente Marco Jacobini bluffava o era sincero? Le prossime settimane e il prosieguo dell' inchiesta forse daranno una risposta. Sicuramente è intorno al nodo dell'acquisizione di Tercas che si giocherà la partita delle responsabilità del crac, tra amministratori e vigilanza. Lo sa bene uno dei due nuovi commissari scelti da Bankitalia per la Popolare: Antonio Blandini, che nel 2012 fu chiamato a far parte, sempre da via Nazionale, proprio del comitato di sorveglianza di una banca appena commissariata: la Tercas.
Quattro inchieste della procura sulla Popolare di Bari: spese allegre e fidi milionari anche alla Gazzetta del Mezzogiorno
Features. Il Corriere del Giorno il 15 Dicembre 2019. La Guardia di finanza sta verificando documento per documento. I primi esposti e denunce furono presentate nel 2010. Ipotizzati anche bilanci “taroccati”. E’ la fine del regno controllato dalla famiglia Iacobini . Secondo fonti interne all’indagine vi sarebbero anche alcune operazioni a rischio, consentite dai vertici della banca barese che riguarderebbero dei finanziamenti “allegri” al quotidiano barese LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO del quale la Popolare di Bari detiene in pegno anche le azioni. Le prime accuse di cui si ha conoscenza, avanzate dalla magistratura barese risalgono al 2010 nei confronti dei vertici della Banca Popolare di Bari che si sono succeduti nel tempo nella gestione dell’istituto di credito barese. Dieci anni di fidi milionari “allegri” concessi senza garanzie, bilanci “ritoccati”, azioni a rischio proposte e vendute a ignari correntisti, quasi sempre pensionati che investivano investire i risparmi accantonati nella loro vita. Le indagini avviate sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Roberto Rossi sono almeno quattro. Una ispezione di Banca Italia nel 2011 evidenziò la spartizione di deleghe in casa Jacobini, fra il padre Marco presidente e i due figli direttori centrali ed aggiungeva: “carenze nell’organizzazione e nei controlli interni da parte dei componenti ed ex componenti del CdA e del direttore generale (…) Carenze nei controlli da parte dei componenti il collegio sindacale “. Vennero sanzionati i componenti dei due organi con 238 mila euro e richiesta di cambiare il vertice. Due anni dopo nel 2013 una nuova ispezione della vigilanza di Banca Italia portò alla luce la facilità di erogare credito da parte della banca verso certi grandi clienti locali, di “finanziamenti non sufficientemente vagliati”. L’ultima indagine aperta è quella relativa alla sospetta operazione di aumento di capitale, con una emissione obbligazionaria da 30 milioni di euro, tentata circa un anno fa, – impiantata dall’attuale amministratore delegato Vincenzo de Bustis Figarola– che sarebbero stati sottoscritti da una società maltese, operazione questa avviata nel periodo intercorrente tra il dicembre 2018 ed il marzo 2019, che non si è mai concretizzata, gettato nuove ombre sulla gestione della banca. Tra il dicembre del 2018 e il marzo 2019, l’amministratore delegato De Bustis propose al consiglio di amministrazione un’iniziativa di patrimonializzazione attraverso uno strumento che ricorda un bond per un ammontare di 30 milioni. Subito dopo, la Popolare ricevette una richiesta irrevocabile di adesione da parte di una società maltese, la Muse Ventures ltd. per l’intero importo: 30 milioni.
Le crisi bancarie e i salvataggi (fonte: Corriere della Sera, 15 dicembre 2019) De Bustis, a gennaio di quest’anno ha acquistato quote di un fondo lussemburghese, il Naxos plus, per 51 milioni. È un’operazione accreditata come necessaria ad aumentare il valore delle partecipazioni della Popolare e che sarebbe stata in parte coperta dall’impegno con il fondo maltese. Ma alla fine le cose vanno in altro modo. Muse è una “scatola” vuota, con un capitale sociale di appena 1.200 euro ed è riconducibile a tale Gianluigi Torzi, finanziere con una serie di precedenti ed inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto. I 30 milioni, va da sé, da Malta non arriveranno mai, ma, dal Lussemburgo, chiedono in compenso i 51 a Bari. Vincenzo De Bustis amministratore delegato fino a giovedì scorso, ex direttore generale nel 2011 della stessa Popolare, è stato direttore generale di MPS e poi di Deutsche Bank Italia, era già conosciuta in Puglia per la sua disastrata esperienza della “Banca 121″ o “Banca del Salento” dei “Bot Strike “, “My Way” e “4 You”, tutti finiti male. Il suo slogan preferito era “Bisogna fare le cose ieri”. Cosa che a Bari non ha mai fatto. In questa inchiesta vi sono ancora tante cose da accertare ed approfondire, mentre continua speditamente quella per la quale la Procura di Bari ha notificato alcune settimane fa a De Bustis ed all’ex presidente Marco Jacobini ed altre 8 persone, una proroga delle indagine per i reati di “false comunicazioni sociali“, “falso in prospetto” ed “ostacolo alle funzioni di vigilanza“, oltre a una ipotesi di maltrattamenti su un ex dipendente contestata a Luigi Jacobini, dal 2011 vicedirettore generale, figlio dell’ex-presidente. Un altro della “famiglia” sistemato ai vertici della banca è Gianluca Jacobini vicedirettore generale dal 2011 al 2015, quindi condirettore e direttore generale di fatto sinora.
Uno stralcio dell’indagine è stata archiviata nel marzo 2018 che faceva riferimento ad una ipotesi di una associazione per delinquere finalizzata a truffare i correntisti. Sono invece andati avanti sulle restanti contestazioni Gli accertamenti disposti dai pm Lydia Giorgio e Federico Perrone Capano della Procura di Bari, sono stati delegati alla Guardia di Finanza . Il sospetto degli inquirenti baresi è che la Popolare di Bari abbia depositato bilanci poco trasparenti e non del tutto rispondenti al vero alla Consob, soprattutto per quanto riguarda la quantificazione dei crediti. Si indaga anche sulla vicenda dell’acquisizione di Banca Tercas.
Il bilancio della Banca Popolare di Bari (fonte: Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2019). Ai vertici dell’istituto di credito sono state però state contestate singole condotte di presunti raggiri a danno dei soci e correntisti, a partire da quella al centro dell’indagine per una presunta truffa aggravata da 130 mila euro commessa ai danni di una contribuente 84enne, conclusasi nei mesi scorsi, che dieci anni fa sarebbe stata commessa in concorso da cinque persone, l’allora presidente del Cda, Marco Jacobini, l’ex direttore generale, oggi amministratore delegato, Vincenzo De Bustis Figarola, l’ amministratore delegato all’epoca dei fatti, Giorgio Papa e due funzionarie dell’istituto di credito, Alessandra Domenica Siletti, ed Alfonsa Zotti. Quanto all’ultimo presidente al momento del commissariamento di venerdì, lo stimabile avvocato Gianvito Giannelli, sposato peraltro con un magistrato, è il nipote di Marco Jacobini ma al suo contrario, non risulta indagato. Come si legge riportato dal capo di imputazione “l’avrebbero indotta ad acquistare prodotti finanziari ad elevata rischiosità per 130mila euro, con artifizi e raggiri, profittando della particolare situazione di vulnerabilità” della 84enne, “così procurando alla Banca un ingiusto profitto con rilevante danno patrimoniale” della cliente, “determinato dalla svalutazione dei suddetti prodotti (svalutazione allo stato ancora in corso) e dalla impossibilità di monetizzarli, con conseguente incapacità della stessa di accedere ai propri risparmi di una vita”. La seconda inchiesta, trasmessa ormai un anno fa per competenza da Bari a Roma, riguarda la vicenda del Bari Calcio e lo “stratagemma“, come lo definivano i pm baresi, usato dall’ex patron della società sportiva Cosmo Giancaspro con la complicità di alcuni funzionari della Banca Popolare di Bari per evitare una penalità per la squadra fornendo documenti retrodatati alla Covisoc (Commissione di Vigilanza sulle società di Calcio Professionistiche). C’è anche l’inchiesta coordinata dal pm Lanfranco Marazia che riguarda il fallimento di due società del gruppo Fusillo di Noci (Bari) per quale al momento i vertici della Popolare di Bari non risultano indagati, che a luglio ha portato gli investigatori della Guardia di Finanza ad eseguire perquisizioni nella sede della direzione generale della banca, che “hanno consentito di far emergere il ruolo della Banca Popolare di Bari quale principale creditore delle imprese sottoposte a procedura concorsuale, risultate esposte con l’istituto di credito per una cifra di poco inferiore ai 140 milioni di euro, a seguito delle ingenti linee di credito elargite negli anni”. E’ dal 2015 che i risparmiatori in Italia vengono lasciati in balia di banchieri e bancari senza scrupoli. E le banche “saltano” : CariFerrara, CariChieti, Banca Marche e Popolare dell’Etruria, poi VenetoBanca e la Banca Popolare di Vicenza sono state liquidate con conseguenze non da poco per i risparmiatori che avevano azioni ed obbligazioni di quegli istituti. Il clima di sfiducia è cresciuto anche per il coinvolgimento di altre banche importanti come il Monte dei Paschi di Siena e Carige nel novero degli istituti in crisi. Ed ora è il “turno della Banca Popolare di Bari.
Come hanno raccontato i colleghi Carlo Bonini e Giuliano Foschini, del quotidiano La Repubblica, il 18 luglio scorso, dopo la pubblicazione di un’inchiesta in due puntate del quotidiano romano sulla Popolare di Bari, sono stati querelati per una “palese falsità di notizie gravemente lesive della sua immagine”. Evidentemente la Popolare di Bari non voleva far conoscere ancora ila verità. Alla Repubblica, con la querela era arrivata anche una diffida a desistere dal suo giornalismo. A “non reiterare le condotte diffamatorie” con la minaccia di un risarcimento “per una somma non inferiore a 100 milioni di euro”. I riferimenti politici della Popolare di Bari ? Un tempo Raffaele Fitto e Gaetano Quagliariello poi Michele Emiliano e Francesco Boccia il quale ha più volte tentato di cambiare la “riforma Renzi” delle Popolari, che interessava in particolar modo la Popolare di Bari, spendendosi molto in parlamento per la famiglia Jacobini. Ne avrà tratto anche lui qualche vantaggio? La Popolare di Bari nonostante fosse creditrice di oltre 100 milioni di euro, nel marzo 2019 avrebbe erogato in favore delle società in crac nuova finanza per circa 40 milioni di euro, rinunciando anche a più di 80 milioni di euro di crediti vantati. Secondo fonti interne all’indagine vi sarebbero anche alcune operazioni a rischio, consentite dai vertici della banca barese che riguarderebbero dei finanziamenti “allegri” al quotidiano barese LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, confiscato dal Tribunale Antimafia di Catania, concessi alla società editrice EDISUD spa, della quale la Popolare di Bari detiene in pegno anche le azioni , e di finanziamenti a rischio concessi ad alcuni azionisti dell’emittente televisiva TELENORBA. Solo per avere la stampa locale “amica”? Questa sera si terrà alle 21 a Palazzo Chigi un Consiglio dei ministri che dovrà decidere se adottare lo schema di decreto sulla Banca Popolare di Bari riunione che arriva 48 ore dopo la precedente fallimentare riunione disertata da M5s e Italia Viva, che non sono d’accordo sulle misure da adottare. La riunione del governo dovrebbe essere preceduta da un vertice di maggioranza. All’ordine del giorno risulta un decreto recante misure urgenti per la realizzazione di una banca di investimenti. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla fine del concerto di Natale in Senato ha confermato il proposito di salvataggio: “Sì, stasera chiuderemo su Banca Popolare di Bari. Faremo un intervento. Tuteleremo i risparmiatori e non concederemo nulla ai responsabili di quella situazione critica e auspichiamo anzi azioni di responsabilità a loro carico” ha aggiunto il premier ” creeremo le condizioni, attraverso l’intervento di Mediocredito Centrale e anche potenzialmente del fondo interbancario, per rilanciare una banca che potrebbe essere la banca del Sud, che darà respiro, un polmone creditizio finanziario del Sud“. “Tuteleremo i risparmiatori e non concederemo nulla ai responsabili di quella situazione critica e auspichiamo anzi azioni di responsabilità a loro carico” ha concluso Conte.
Per i salvataggi delle banche lo Stato ha speso 10 miliardi in 4 anni. Alessandro Galiani su Agi il 14 dicembre 2019. Il conto, che si basa su uno studio dell'Osservatorio dell'Università Cattolica di Milano, potrebbe lievitare a oltre 15-20 miliardi di euro.
SALVATAGGI BANCHE. Negli ultimi 4 anni lo Stato italiano, in termini di liquidità, ha speso oltre 10 miliardi di euro per i salvataggi bancari, che potrebbero lievitare a oltre 15-20 miliardi di euro. Il conto definitivo, secondo quanto si rileva da una ricostruzione dell'Osservatorio dell'Università Cattolica di Milano, dipende da due incognite. In primo luogo da quanto si ricaverà dalla vendite delle sofferenze delle Banche Venete per rientrare dei 6,4 miliardi di euro di garanzie del governo concessi a Banca Intesa. Sempre sulle banche Venete ci sono poi anche altri 12,4 miliardi di garanzie statali, che non è ancora possibile sapere se verranno impiegate o meno. Comunque finora lo Stato è intervenuto, o si è impegnato a intervenire per coprire parzialmente le perdite di Mps e delle 2 banche venete e, più in generale, per salvaguardare, in caso di crack bancario, i risparmiatori depositanti sopra i 100 mila euro (i depositanti con meno di 100 mila euro sono coperti dai rischi), oltre agli azionisti e agli obbligazionisti ritenuti truffati. Ecco comunque, più nel dettaglio, la storia dei principali salvataggi, pubblici e privati di banche italiane degli ultimi 4 anni.
LA RISOLUZIONE DELLE 4 BANCHE - L'era dei salvataggi con perdite anche per i piccoli risparmiatori è iniziata in Italia nel weekend del 21-22 novembre 2015 quando vennero messe in risoluzione 4 piccole banche (Carichieti, CariFerrara, Banca Marche e Banca Etruria). Fino ad allora i salvataggi erano stati guidati con rapidità dalla Banca d'Italia e dal Tesoro, accollando le banche in difficoltà ad altri istituti e scaricando cosi' i costi a livello di sistema generale. Ma a partire dal caso di Banche Venete la strada intrapresa è stata quella del 'burden sharing, la procedura disciplinata da una direttiva Ue, che prevede il coinvolgimento anche degli obbligazionisti e non solo degli azionisti. La decisione scateno' furiose polemiche e, nel 2017, un duro attacco da parte del governo guidato da Matteo Renzi alla vigilanza di Bankitalia. Di fatto Renzi disse di aver commesso "un errore nell'essersi affidato alla Banca d'Italia" per i controlli e corse ai ripari varando, dopo una discussione con la Ue, un meccanismo di ristoro per i risparmiatori. Il risultato fu che il conto finale di oltre 5 miliardi di euro venne caricato sul Fondo di Risoluzione, pagato dalle altre banche private, mentre le 4 banche vennero cedute a Ubi per un euro. I soldi del Fondo sono serviti a ricapitalizzare le 4 banche, il cui capitale è stato azzerato, a coprire le perdite derivanti dai crediti sofferenti e a creare l'istituto destinato al recupero di tali crediti (le cosiddette bad bank). Non c'è stato quindi alcun contributo in termini di liquidità da parte dello Stato.
LA BUFERA MONTE DEI PASCHI (MPS) - L'istituto senese finisce nella bufera nel 2013 con la scoperta di bilanci ritoccati per coprire i costi dell'operazione Antonveneta. Arrivano 4 anni di inchieste e aumenti di capitale oltre a lunghe interlocuzioni fra Francoforte, Bruxelles, la banca e le autorità italiane. Infine, a fine 2016, dopo non aver passato lo stress test, il fallimento del piano di salvataggio con risorse private e la regia di Jp Morgan, condizionato anche dall'incertezza per la fine del governo Renzi, caduto nel dicembre 2006 dopo l'esito negativo del referendum sulla riforma costituzionale. Il 21 dicembre il nuovo governo Gentiloni è costretto a correre in salvataggio del Monte con 5,4 miliardi (di cui 1,5 miliardi di rimborso agli obbligazionisti). Il Tesoro, dopo la ricapitalizzazione eseguita a luglio 2017, è ora l'azionista di maggioranza del Monte con quasi il 70%, quota che dovrà dismettere fra qualche anno ma che per ora ha perso molto del suo valore, visto il crollo dei valori azionari. Diversamente da quanto successo alle 4 banche del Centro Italia, nel caso di Mps lo Stato ha finanziato parte dell'operazione, attingendo a un fondo di 20 miliardi di euro presi a debito varato a questo scopo. Di questi, circa 3,9 sono stati spesi per la ricapitalizzazione e fino a un massimo di massimo 1,5 miliardi sono stati riservati al ristoro degli investitori al dettaglio che detengono le passività subordinate della banca oggetto di conversione in azioni nell'ambito del burden sharing. Azionisti e obbligazionisti hanno da parte loro contribuito per altri 2,8 miliardi, secondo il principio della condivisione degli oneri previsto dalla normativa dell'Ue. A pagare sono stati quindi sia i contribuenti sia i privati, e anche in questo caso i soci proprietari hanno visto il proprio capitale azzerarsi mentre parte dei risparmiatori è stato tutelato.
IL CASO DELLE BANCHE VENETE - Anche la Popolare di Vicenza e Veneto Banca cadono per un mix di cattiva gestione ed effetti della crisi economica e dopo i fallimenti di una serie di piani di rilancio, che iniziano nel 2013 e vengono alle luce nelle ispezioni della vigilanza del 2015. Il governo, dopo il fallimento dell'aumento di capitale nel 2016, auspica una soluzione privata e, sotto la sua regia, il fondo Atlante, cui partecipano le banche e la Cdp rileva la proprietà dei due istituti con un esborso totale di 3,5 miliardi che perderà del tutto. La fuga dei depositanti e la conseguente crisi di liquidità portano lo Stato a dover garantire obbligazioni delle due banche per complessivi 8,6 miliardi nel febbraio 2017 ma, a marzo, i tentativi di reperire nuove risorse private non riescono e a giugno le banche vengono poste in liquidazione. La Commissione Ue e la Bce non permettono infatti la ricapitalizzazione precauzionale. Intesa Sanpaolo rileva cosi' i due istituti evitandone la chiusura e le pesanti ricadute sull'economia locale e nazionale. Per questo lo Stato versa a Intesa 4,8 miliardi di euro per la cassa e 6,4 miliardi ulteriori in garanzie, contando di recuperare il denaro attraverso la vendita, negli anni, delle sofferenze. L'operazione più importante, in termini di contributo dello Stato, è stata quella che ha riguardato la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, acquisite a giugno del 2017 dal Gruppo Intesa Sanpaolo dopo la liquidazione coatta amministrativa. A perdere sono stati principalmente i titolari di azioni, mentre depositi e obbligazioni sono stati tutelati, anche se non integralmente per le obbligazioni subordinate. Ancora una volta a essere colpita è stata la proprietà delle banche (cioè gli azionisti, anche se questi includono certamente anche piccoli risparmiatori), mentre i depositanti e gli altri prestatori di fondi sono stati in buona parte tutelati. L'obiettivo perseguito con la liquidazione è stato di evitare "una improvvisa cessazione dei rapporti di affidamento creditizio per imprese e famiglie, con conseguenti forti ripercussioni negative sul tessuto produttivo e di carattere sociale, nonchè occupazionali". Dai bilanci dell'esercizio 2016 delle due banche popolari si evince, in assenza di intervento pubblico, che si sarebbero persi 7,6 miliardi di obbligazioni e 11,5 miliardi di conti correnti (in parte comunque tutelati, sotto i 100mila euro). Intesa San Paolo, che ha acquistato le due Banche Venete alla cifra simbolica di 1 euro, ne ha ereditato principalmente le attività sane, come prestiti concessi ai debitori affidabili. I crediti deteriorati sono stati invece trasferiti a una bad bank, che raccoglie le attività non più esigibili. L'intervento per cassa dello Stato è stato pari a circa 4,8 miliardi di euro, destinati a soddisfare il fabbisogno di capitale, nonché la ristrutturazione aziendale. A questi vanno aggiunti circa 400 milioni di garanzie, a fronte di un capitale garantito di 12,4 miliardi. Risorse che non è ancora possibile sapere se dovranno essere impiegate o meno.
IL COMMISSARIAMENTO DI CARIGE - Un altro caso è quello che riguarda la genovese Carige. Il cda dell'istituto ligure è stato commissariato dalla Bce nel gennaio 2019 dopo che i soci, alla fine del 2018, hanno bocciato un aumento di capitale da 400 milioni, necessario per ripagare un bond subordinato da 320 milioni sottoscritto d'urgenza dallo schema volontario del Fitd, il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, un consorzio di diritto privato sottoposto alla supervisione diretta della Banca d'Italia e che ha il compito di salvaguardare i depositi dei clienti delle banche. I commissari e il fondo hanno cercato a lungo un partner industriale per mettere in sicurezza la banca ma i primi tentativi, che hanno coinvolto anche il fondo americano Blackrock, sono andati a vuoto. La soluzione individuata è passata per un maggior coinvolgimento del Fondo interbancario di tutela, anche con il braccio obbligatorio, e per un aumento da 700 milioni di euro in cui far entrare, come partner industriale, anche Cassa Centrale Banca. Al termine, di una complessa trattativa, il salvataggio di Carige ha previsto un rafforzamento patrimoniale complessivo di 900 milioni di euro: 700 tramite aumento di capitale, con dei warrant gratuiti (1 ogni 4 azioni sottoscritte), che consentiranno in un secondo tempo di comprare le azioni sul mercato a metà prezzo. Altri 200 milioni verranno poi raccolti tramite un prestito subordinato sostanzialmente già tutto prenotato. La ricapitalizzazione, per al quale non è previsto alcun intervento dello Stato in termini di liquidità, sarà distribuita per 312,2 milioni allo Schema volontario del Fondo interbancario, che convertirà i bond sottoscritti a novembre 2018, quando già per la prima volta il consorzio delle banche italiane aveva salvato Carige. La trentina Cassa centrale banca investirà inizialmente 63 milioni per arrivare al 9,9% di Carige, potendo però tra luglio dell'anno prossimo e la fine del 2021 acquistare in opzione le quote del Fitd e dello Schema volontario e diventare azionista di controllo dell'istituto ligure. Lo stesso Fitd interverrà direttamente nell'aumento di capitale per altri 238,8 milioni, garantendo poi l'eventuale inoptato della quota riservata agli attuali azionisti. Ai vecchi soci andrà in opzione solo una quota di 85 milioni di euro della ricapitalizzazione. A partire dallo scorso 4 dicembre, è in corso la ricapitaliazzazione della banca e la terza tranche dell'aumento di capitale è stata sottoscritta per 16,8 milioni.
POPOLARE BARI E TERCAS - Nel 2014, mentre era già in difficoltà, la Popolare di Bari si è impegnata a rilevare la Tercas, la Cassa di Risparmio di Teramo. Dopo due anni di commissariamento, la Popolare di Bari è stata accusata da Bruxelles di aver ricevuto 265 milioni di euro di aiuti di stato, illegittimi, dal Fitd sotto forma di ricapitalizzazione di Tercas ante cessione. Nel marzo scorso però il Tribunale dell'Unione Europea ha dato ragione all'Italia e torto alla Commissione Europea, sugli aiuti di Stato. Bruxelles ha fatto ricorso e la vicenda non è ancora conclusa.
Camilla Conti per “il Giornale” il 16 dicembre 2019. La fiche che dovrà essere messa sul tavolo della Banca Popolare di Bari aggiunge un altro miliardo agli oltre dieci che sono già costati allo Stato per i salvataggi bancari. È solo l' ultima operazione passata sul tavolo di Bankitalia, che da anni ha acceso i riflettori sull'istituto pugliese ma che nel 2014 ha anche autorizzato l'acquisizione della concorrente abruzzese Tercas, la Cassa di Risparmio di Teramo in difficoltà. Che ha avuto l'effetto di scaricare sul compratore, ovvero la Popolare di Bari, una zavorra di sofferenze difficile da smaltire. Non solo. La Bari è stata accusata da Bruxelles di aver ricevuto 265 milioni di aiuti di Stato, illegittimi, sotto forma di ricapitalizzazione di Tercas ante cessione. È partita una guerra di ricorsi e la questione è approdata alla Corte di Giustizia europea, che si pronuncerà nel 2020. Ora il decreto messo a punto dal governo giallorosso prevede l' attribuzione di fondi fino appunto a un miliardo ad Invitalia (ovvero l' Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d' impresa, di proprietà del Ministero dell' Economia), che li girerà alla sua controllata Mediocredito Centrale. Sarà quest' ultima, poi, a entrare nel capitale della Popolare: un ingresso azionario che sarà affiancato dal ricorso allo strumento privato finanziato dal sistema bancario, cioè dal Fondo Interbancario. Per il resto, ecco un altro obolo pubblico destinato a far salire il conto già salato dei salvataggi di Stato: più di 10 miliardi negli ultimi quattro anni che, secondo i calcoli dell' Osservatorio dell' Università Cattolica di Milano, potrebbero lievitare a oltre 15-20 miliardi.
VENETO BANCA. Dipenderà dai futuri rientri di investimenti in Mps e nei crediti in mora delle banche venete. Nel caso del «Monte di Stato», a fine 2016 il governo Gentiloni è stato costretto a correre in salvataggio del Monte con 5,4 miliardi (di cui 1,5 miliardi di rimborso agli obbligazionisti). Il Tesoro, dopo la ricapitalizzazione eseguita a luglio 2017, è così diventato l' azionista di maggioranza di Mps con quasi il 70%, quota che dovrà dismettere entro il 2021.
MONTE-PASCHI. L' operazione è stata finanziata attingendo a un fondo di 20 miliardi, di cui circa 3,9 sono stati spesi per la ricapitalizzazione. Azionisti e obbligazionisti hanno da parte loro contribuito per altri 2,8 miliardi, secondo il principio della condivisione degli oneri previsto dalla normativa dell' Ue. A pagare sono stati quindi sia i contribuenti sia i privati. Ai corsi attuali lo Stato perde oltre 4,5 miliardi sui 5,4 versati due anni fa per salvare Rocca Salimbeni. L'obiettivo era quello di scendere dal Monte in fretta e senza farsi troppo male ma di cavalieri all' orizzonte ancora non se ne vedono e anche la soluzione studiata al momento dai tecnici di via XX Settembre sembra complicare la exit strategy perché contempla l' ipotesi di scindere i crediti deteriorati, girandoli ad Amco, la ex Sga al 100% del Tesoro, a un prezzo più vicino al valore di carico del bilancio Mps che a quelli di mercato. Insomma un altro «aiutino».
RISPARMIATORI BANCA POPOLARE VICENZA. Quanto alle ex cooperative venete, nel 2017 Intesa Sanpaolo ha acquisito alla cifra simbolica di 1 euro Popolare Vicenza e Veneto Banca dopo la liquidazione coatta amministrativa. Intesa ha ereditato principalmente le attività sane. I crediti deteriorati sono stati invece trasferiti a una bad bank. L' intervento per cassa dello Stato è stato pari a circa 4,8 miliardi, cui vanno aggiunti circa 400 milioni di garanzie, a fronte di un capitale garantito di 12,4 miliardi (la spesa sarà bilanciata dal valore dei crediti recuperati dalla Sga, la società per la gestione delle di attività controllata totalmente dal Tesoro).
Banca Popolare di Bari tra fake news e giudizi affrettati, interessati e razzisti. Banca Popolare di Bari: mentire sapendo di mentire. Da Mercati24.com. Tra le tante riforme proposte dal governo Renzi quella delle banche popolari è sicuramente la meno peggio. Tralasciamo il palese conflitto di interessi di Maria Elena Boschi, figlia di un galantuomo di campagna indagato per puro caso dalla Magistratura per il crack della Banca Popolare dell’Etruria (sicuramente è innocente eh) e andiamo alla sostanza. Il merito della riforma delle banche Popolari sta nel fatto che fa uscire dal pantano dei controlli opachi, delle votazioni con metodologie alto-medioevali e soprattutto dalla oggettiva impossibilità di valutare il valore delle partecipazioni nelle banche popolari stesse. In pratica, come ha dimostrato la vicenda della Popolare di Vicenza, era il Consiglio di Amministrazione a decidere, di fatto, il valore delle azioni. E non importa se questo valore era lontanissimo dagli effettivi valori del mercato. E la domanda per le nuove azioni era semplicemente creata dando consigli che non si potevano rifiutare. Vuoi il mutuo? Vuoi aumentare l’affido per la tua impresa? Nessun problema, basta che utilizzi il 10% della somma per sottoscrivere azioni, il valore lo decidiamo noi. Un meccanismo perverso perché a cedere al ricatto erano soprattutto i debitori che altre banche, più sane, non ritenevano affidabili. Di fatto è stato anche questo perverso meccanismo a determinare l’ammontare mostruoso dei crediti in sofferenza di queste popolari. Le popolari italiane funzionavano più o meno come 1k Daily Profit, un sistema che promette soldi facili ma che in effetti fa perdere tutto. Però all’inizio ti sembra di guadagnare, eh!
Popolare di Vicenza ha perso più del 90% del
valore in un anno. Banca Popolare di Bari ha fatto molto meglio, ha perso solo
il 20%. Ora, probabilmente gli sventurati soci di Popolare di Bari sono meno
sventurati di quelli di Popolare di Vicenza. Forse, dopo tutto il coperchio è
stato sollevato solo ora e chissà che cosa si troverà nel pentolone.
Quello su cui oggi vogliamo riflettere è la risposta data (in modo ufficiale)
dalla Popolare di Bari a chi appunto faceva notare questo forte crollo del
valore delle azioni della Banca: Quanto al prezzo delle azioni, scese a 7,50
euro, «si è trattato di una piccola svalutazione», visto che il 20% di passivo
non può essere paragonato a quello registrato altrove, nel mondo bancario, pari
al 60-80%. Peraltro la svalutazione «non l’abbiamo determinata noi, ma è stata
resa indispensabile dopo che attraverso un decreto del governo siamo stati
obbligati a diventare una società per azioni. Che cosa dire? Che è una
falsità. Che si tratta di una bugia consapevole. Certo chi crede che
la svalutazione è stata resa indispensabile dopo che attraverso un decreto del
governo siamo stati obbligati a diventare una società per azioni merita comunque
di perdere tutti i suoi risparmi, non solo il 20%. Ripetiamo, la trasformazione
in società per azioni ha solo reso un poco più trasparente un meccanismo arcaico
e di solito utilizzato in maniera opaca. I soci della Popolare di Bari farebbero
bene ad aprire occhi e orecchie da subito, senza aspettare ulteriori brutte
notizie. E magari farsi qualche domanda sul management. Ad esempio, a proposito
di una multa corposa comminata da CONSOB a Banca Popolare di Bari, di cui è
stata data notizia, guarda caso, in un giorno festivo, 1 Maggio 2016. Il sistema
bancario italiano è solido, sano, rispettoso delle regole, trasparente. E poi
c’era la marmotta che incartava la cioccolata.
Dal governo il decreto per la popolare di Bari «risparmiatori salvi» ma
restano le tensioni, fonte: Gazzetta dello sport il 16 Dicembre 2019. Il
consiglio dei ministri vara l’ intesa sull’ istituto commissariato fino a 900
milioni dal fondo del tesoro per ripianare i debiti m5s: «serve una
nazionalizzazione». attacchi da Italia viva. Il governo Conte sta salvando una
banca in crisi, la Popolare di Bari, commissariata dalla Banca d’ Italia. Ieri
sera il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto da circa 900 milioni di
euro. Serviranno a ripianare le perdite dell’ istituto, pari a circa 500 milioni
solo nell’ ultimo periodo. Il governo, in due atti, intende creare una banca
pubblica di investimento con la ricapitalizzazione di Mediocredito centrale
attraverso Invitalia, l’ agenzia del Tesoro, per il rilancio della Popolare.
«Tuteliamo i risparmiatori, non i banchieri. Le colpe verranno appurate», ha
ripetuto il premier Giuseppe Conte. Il governo assicura l’ azione di
responsabilità nei confronti dei passati vertici della banca. Il varo del
decreto, prima della riapertura delle Borse e degli sportelli, serve a mettere
al riparo dal rischio di mancanza di liquidità. L’ accordo è arrivato dopo
ulteriori tensioni. Venerdì sera, poche ore dopo il commissariamento di
Bankitalia, c’ era stato un Consiglio dei ministri senza decisioni, «un
gravissimo punto di rottura nel metodo e nel merito», il commento di Italia
Viva, che aveva disertato e criticato il governo per «la convocazione». Ma anche
ora Iv e M5S alzano i toni. Il capo grillino Luigi Di Maio ha chiesto di
«nazionalizzare» la banca, dopo l’ intervento pubblico. Ed è tornato a chiedere
di portare in Consiglio dei ministri «i nomi degli imprenditori vicini alla
politica che hanno preso soldi e non li hanno restituiti». Di Maio ha ribadito
l’ esigenza di una commissione d’ inchiesta sul sistema bancario. La
commissione, in realtà, già c’ è, ma è ferma da un anno. Due giorni fa Di Maio
aveva anche accusato Bankitalia di non aver vigilato sulla Popolare di Bari,
collassata sostanzialmente senza un campanello d’ allarme. «Salvi i risparmi,
ora nessuna pietà per manager e amici degli amici», ha ripetuto anche ieri il
leader grillino. Il premier Conte, invece, chiederà a Bankitalia di essere
informato sull’ accertamento delle responsabilità sul caso. C’ è da capire
perché l’ istituto sia crollato. La Banca popolare di Bari, fondata nel 1960,
può contare su 350 sportelli, su quasi 70 mila soci e oltre 2.700 dipendenti. Si
è identificata per decenni con la famiglia Jacobini, che ha guidato l’ istituto
sin dal 1989. Nel disastro contabile ha sicuramente avuto un ruolo l’
acquisizione della abruzzese Banca Tercas, per quasi 300 milioni, nel 2014, con
l’ ok della Banca d’ Italia. Da lì, una serie di manovre finanziarie giudicate
ardite, dalla partecipazione al Fondo Atlante a quello del Lussemburgo, Naxos
Plus. Ora i manager indagati a Bari sono 10, e 7 le inchieste in corso. E ieri
l’ allarme per la sorte della Popolare di Bari è arrivato anche dal sindaco,
Antonio Decaro: «Se non si salva la banca, salta il tessuto economico di tutto
il territorio». La polemica non manca neppure da Italia Viva. I renziani, pur
accettando di sedersi in Consiglio dei ministri, dopo averlo disertato venerdì,
ieri hanno fatto le pulci anche al titolo del decreto: «Si parla di “misure per
realizzare una banca d’ investimento”, manco fossimo a Wall Street, mentre si
sta ricapitalizzando la Popolare di Bari. L’ ossessione degli slogan deborda
pure nei titoli», ha ironizzato il renziano Marattin. E la crisi della Popolare
di Bari è diventata anche l’ occasione per un affondo di Matteo Salvini: «Serve
riformare Bankitalia. E chi ha derubato i risparmiatori, vada in galera», ha
detto il leader della Lega, citando una proposta di legge avanzata insieme al
M5S. E intanto, il Codacons nazionale annuncia un esposto contro la vigilanza di
Bankitalia e della Consob. Il soccorso alla Popolare di Bari sembra l’ occasione
per Renzi per togliersi il classico sassolino dalla scarpa. Nel 2015 il suo
governo approvò il cosiddetto Decreto Salva-banche, con cui vennero sostenuti
quattro istituti in crisi: Etruria, Banca Marche, la Cassa di risparmio di
Ferrara e anche di Chieti. «Il mio governo fece un intervento coordinato e
richiesto da Banca d’ Italia senza tirar fuori un centesimo pubblico. Nel 2017
il governo Gentiloni fece un’ operazione giusta in difesa soprattutto delle
banche venete massacrate da una vergognosa rete di connivenze politiche ed
economiche», ha ripetuto ieri Renzi. «Quel modello è stato copiato per Genova. E
oggi per Bari si fa molto di più. Se ci fosse un briciolo di onestà
intellettuale, chi ha fatto quello sciacallaggio contro di noi oggi dovrebbe
riconoscere che è sempre giusto salvare i risparmiatori».
Altro che addio bailout, e BP Bari non è l’unica. Da 2015 per Etruria & Co, Mps e banche venete Stato ha versato 21 miliardi. Laura Naka Antonelli il 16/12/2019 su Finanza Online. Stavolta si chiama BP Bari ovvero Banca Popolare di Bari. Il governo italiano salva l’ennesima banca italiana malata, e la domanda è d’obbligo. Ci saranno ripercussioni sulle banche quotate o sugli spread del debito pubblico? Giovanni Razzoli di Equita SIM risponde, facendo i paragoni con alcuni precedenti salvataggi, come quelli delle banche venete e MPS, per descrivere la portata dell’intervento pubblico. “Non vediamo rischio contagio sugli spread del debito pubblico o impatti particolarmente negativi sulle banche quotate in quanto: Le dimensioni dell’intervento pubblico (900 milioni) sono inferiori rispetto a quello realizzato per le banche venete (circa 11 miliardi fra contribuzione diretta per la ricapitalizzazione e garanzie varie) e Banca Monte dei Paschi di Siena (4 miliardi) .
– le dimensioni di BP Bari sono limitate sia in termini assoluti (340 sportelli, totale attivo 14bn, 8bn di depositi) che relative, anche se all’istituto fa capo il più ampio franchise bancario del sud le criticità di BP Bari erano note da tempo (l’NPE ratio 25% già nel 2016). Si tratta comunque dell’ennesima operazione di salvataggio, ovvero di bailout, che porta in molti a ricordare che l’obiettivo dell’Ue di porre fine alle pratiche di bailout – salvataggi finanziati dallo Stato o anche, per dirla meglio, dai contribuenti – per sostituirle con quelle di bail-in – continui a essere oculatamente ignorato.
Sempre Equita SIM ha calcolato che la ristrutturazione del settore bancario italiano ha richiesto interventi per complessivi 33 miliardi di euro a partire dal 2015: “In base ai nostri calcoli, dal 2015, la ristrutturazione del settore bancario ha assorbito risorse per circa 33 miliardi di cui 21 miliardi a carico dello Stato (11 miliardi per le banche venete, 4 miliardi per BMPS) e 11 miliardi delle banche: il salvataggio di BP Bari pesa per il c4% del totale di queste risorse”. Tutto, mentre i bailout continuano a ripresentarsi, e non solo in Italia visto che la Commissione Ue ha dato l’ok, proprio all’inizio del mese di dicembre, al piano di salvataggio della tedesca NordLab, negando che la ricapitalizzazione da 3,6 miliardi di euro sia un aiuto di stato. Eppure a salvare NordLab saranno i governi degli stati federali della Bassa Sassonia e della Sassonia-Anhalt, con una iniezione di 1,7 miliardi di euro. Il resto, ovvero 1,1 miliardi di euro, arriverà dalle casse di risparmio tedesche. Insomma, non proprio una operazione condotta con soldi di privati. Lo stesso ricorda come alla fine l’era dei bailout nell’Unione europea non sia davvero mai realmente finita.
I salvataggi delle banche italiane negli ultimi anni:
BP Bari solo l’ultima, prima Mps banche venete & Co.
Nel 2015 il governo italiano – guidato all’epoca da Matteo Renzi – approva il decreto salva banche, salvando così le quattro banche locali Banca Marche, le Casse di Risparmio di Ferrara, di Chieti e Banca Etruria. L’allora premier Matteo Renzi difenderà il decreto con queste parole: “Il Governo italiano quando ha visto che quattro banche rischiavano di chiudere e rischiavano di perdere migliaia di posti di lavoro e i soldi dei contribuenti è intervenuto e sono molto lieto delle misure che ha preso perché ha salvato i soldi dei conti correnti e i posti di lavoro”.
Banche venete: è di qualche mese fa la notizia secondo cui il conto per il loro salvataggio pagato dallo Stato (alias contribuenti) potrebbe salire a 7 miliardi di euro. Le banche venete vengono rilevate da Intesa Sanpaolo al prezzo di 1 euro. Ma l’allora e anche attuale amministratore delegato Carlo Messina precisa: Nessun regalo. E senza di noi lo stato avrebbe perso subito 10 miliardi. Vale la pena ricordare che nell’aprile del 2018 l’Istat alza le stime sul deficit e debito italiani, spiegando che sul loro ammontare aveva inciso anche il salvataggio di Mps e delle banche venete.
E che dire inoltre di Mps, salvata con una operazione di ricapitalizzazione precauzionale che si è tradotta in una quota del 70% nelle mani dello Stato? (con tanto di benestare della Commissione europea) Il titolo Mps è tornato poi in Borsa a fine ottobre del 2017 dopo essere stato sospeso dieci mesi prima.
Carige, inizio 2019: il governo M5S-Lega approva il decreto salva-Carige all’inizio del 2019 dopo la constatazione di problemi ormai ingestibili che, a fine 2018, avevano alimentato anche i rumor su una fusione tra zoppi tra il gruppo genovese e Mps.
E alla fine abbiamo, per l’appunto, BP Bari. Rizzoli di quita SIM riassume quanto avvenuto nelle ultime ore: “Con una mossa ampiamente attesa il Governo ha varato un decreto che prevede uno stanziamento da 900mn per il salvataggio di BP Bari, commissariata venerdì da Banca d’Italia (il commissariamento ha come effetto immediato la decadenza dell’organo amministrativo). L’operazione si configura come l’approvazione alla ricapitalizzazione per pari importo del MedioCredito Centrale (controllato dallo Stato) che, insieme al Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD), parteciperà al ‘rilancio della BP Bari’ (6,2% CET1 nel primo semestre). E’ quindi ragionevole ipotizzare un intervento dello schema volontario del FITD per un importo di almeno 500mn (<1% della mkt cap delle banche quotate) che porterà l’entità complessiva dell’intervento vicino a 1,5 miliardi rispetto a 1 miliardo riportato dalla stampa nei giorni scorsi. A differenza dell’intervento su Carige, non sono state al momento stanziate garanzie pubbliche sulle passività di nuova emissione di BP Bari”.
Rizzoli va avanti: ” Lo schema prevedrà secondo noi (a) una svalutazione rilevante dello stock di NPE (2 miliardi, ie 23% del portafoglio coperti al 39%) in previsione di una contestuale cessione degli stessi e (b) un ampio ricorso a riduzione dei dipendenti via esodi incentivati. MCC diventerà quindi l’anchor investor della nuova BP Bari, ricapitalizzata, ripulita dagli NPE e con molte meno filiali”.
Da Montepaschi a Banca Etruria tutti i crac che il Pd non può cancellare. Gian Maria De Francesco, Giovedì 19/10/2017 su Il Giornale. La protervia di Matteo Renzi nell'imputare al governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ogni responsabilità della cattiva gestione delle crisi bancarie ha una genesi ben precisa. Ed è quella descritta dall'ex direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli, nella sua autobiografia: la moral suasion di Maria Elena Boschi presso l'ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, affinché trovasse un partner per l'allora periclitante Banca Etruria di cui il padre era vicepresidente. Il conflitto di interessi, in quel caso, era duplice: non tanto perché vi fosse coinvolta la famiglia di un'importante componente di quel gabinetto, ma perché la Toscana, cuore del potere renziano, è una terra nella quale il confine tra politica e finanza non è praticamente mai esistito. I prestiti facili agli «amici degli amici» non hanno fatto saltare solo Etruria, ma hanno messo in difficoltà realtà più piccole come il credito cooperativo Chianti Banca (che il Giglio magico avrebbe voluto conservare come spa autonoma e che invece Bankitalia farà confluire nella grande centrale Iccrea) e come la Cassa di risparmio di San Miniato, «salvata» dai francesi di Crédit Agricole tramite l'intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi assieme alla riminese Carim e a Caricesena, realtà bancarie di una zona rossa come la Romagna. Insomma, queste «bombe» sono esplose proprio mentre Matteo Renzi era a Palazzo Chigi senza riuscire a trovare soluzioni efficaci. Con quella mozione il segretario del Pd ha trovato il capro espiatorio perfetto. Oggi come oggi viene difficile ricordare che si tratta dello stesso Matteo Renzi che a inizio 2016 invitava le famiglie a investire nella Mps risanata da Alessandro Profumo (che oggi guida Leonardo-Finmeccanica su designazione renziana), quella stessa Mps nazionalizzata da Gentiloni e dal ministro dell'Economia Padoan perché il precedente esecutivo non era riuscito a cavare un ragno dal buco. Il Fondo Atlante, creato su pressing dell'ex presidente del Consiglio, ha però bruciato 3,4 miliardi su Popolare Vicenza e Veneto Banca, rilevate a fine giugno da Intesa Sanpaolo a un euro prima che un nuovo bail in devastasse tutto. E se si guarda agli altri casi di crisi (Carige, Banca Marche, Cariferrara, Carichieti, la teramana Tercas salvata a caro prezzo dalla Popolare di Bari) ci si ritrova in scenari simili a quelli del Monte dove Fondazioni con il cuore a sinistra intervenivano direttamente nella gestione delle banche seguendo criteri «politici». Renzi, va detto, ha pagato il prezzo di un passato dissennato, ma anche l'insipienza nel trattare con la Vigilanza Bce e con la Commissione Ue condizioni meno vessatorie. Trattative impossibili visto che l'unica cosa che gli interessava era ottenere più deficit per bonus e mance.
Popolare di Bari, il salvataggio e la corsa agli sportelli (che non c’è). Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 su Corriere.it. È ancora fresco l’inchiostro sul provvedimento del governo che finanzia con 900 milioni il Mediocredito centrale, controllato da Invitalia, l’agenzia che è posseduta a sua volta al 100% dal ministero dell’Economia. La messa in sicurezza è arrivata solo all’ultimo momento, ma qui a Bari sono tutti piuttosto bene informati. Più che una ricerca del colpevole, si avverte fra i clienti di una filiale del centro una presa di coscienza degli errori commessi. Quelli dei banchieri e del loro rapporto con la politica, ma anche quelli dei singoli risparmiatori. Dice Vito Lorusso, un 54 enne che aveva comprato azioni per quasi 50 mila euro, uscendo dalla filiale della Popolare di Bari su Corso Vittorio Emanuele: «Mi sento truffato o ho sbagliato io a fidarmi? Entrambe le cose». Massimo Morrone, un pensionato di 71 anni, ex distributore della Lancia in Puglia, sa di aver perso i 15 mila euro che aveva investito in azioni della banca. Non dimentica che è stato oggetto di una sollecitazione di risparmio che si è dimostrata scorretta o impropria, ma si assume anche la responsabilità di essersi lasciato convincere: «La richiesta di comprare quei titoli veniva dai consulenti della banca e non era facile dire di no. Erano persone che conoscevamo da anni – ricorda -. Ma non ho cercato di vendere tutto, solo una parte, perché con la Popolare c’è ancora un rapporto di affetto».
Banca Popolare di Bari: cosa prevede il decreto. Il Governo ha deciso di stanziare 900 milioni di euro per salvare l'istituto e rilanciare investimenti al sud. Barbara Massaro il 16 dicembre 2019 su Panorama. Dopo 48 ore dal commissariamento di Banca Popolare di Bari deciso da Bankitalia il Governo ha sbloccato 900 milioni di euro per il salvataggio di uno dei più grandi istituti di credito del meridione. Il denaro arriva dal fondo del Ministero dell’Economia destinato "alla partecipazione al capitale di banche e fondi internazionali" ed verrà girato a Invitalia, l’Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia, e servirà per finanziare Microcredito Centrale - banca anch'essa controllata dal ministero dell’Economia - che poi li verserà alla Popolare di Bari per comprarne delle quote.
Cosa prevede il decreto salva BpB. E' quanto prevede il decreto varato dal Governo al termine di un fine settimana di duro scontro interno tra le diverse anime della maggioranza. L'Italia Viva di Renzi, infatti, auspicava una profonda riforma del concetto stesso di banca popolare, mentre Di Maio con i cinque stelle voleva sventare un Banca Etruria -bis e insisteva perché il vecchio consiglio di amministrazione di BpB pagasse per le sue eventuali responsabilità nel tracollo dell'istituto pugliese (il 2018 è stato chiuso con perdite per 420 milioni di euro e un tracollo del valore azionario). Proprio l'introduzione di quest'ultimo punto all'interno del decreto ha convinto i pentastellati a firmare la norma varata nella notte di domenica 15 dicembre.
Le tappe del salvataggio. Il finanziamento di 900 milioni a Invitalia per incrementare il patrimonio di Mediocredito centrale serviranno tra l'altro a promuovere attività finanziare e di investimento al sud con la nascita di una nuova banca d'investimento che sorgerebbe dalla scissione delle acquisizioni. Lo schema del decreto prevede l'attuazione di un primo aumento di capitale che consentirà a MCC, insieme con il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD) e a eventuali altri investitori, di partecipare al rilancio della Banca Popolare di Bari e poi operare in maniera espansiva nei confronti dello sviluppo del meridione d'Italia. In Consiglio dei ministri Di Maio avrebbe anche ottenuto il via libera ai lavori immediati della commissione banche e l’impegno formale del premier di chiedere a Bankitalia cosa farà per accertare le responsabilità dei vertici della Banca e cosa, nelle ispezioni fatte dal 2010 a ora, non ha funzionato per arrivare all'attuale tracollo.
Popolare Bari, il crac della banca «ostaggio» della famiglia Jacobini. Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 su Corriere.it da Mario Gerevini. Come Marco Jacobini, fino a luglio scorso, cioè per oltre 40 anni, al vertice della Popolare di Bari, pur avendo un solo voto sui 70mila disponibili (nelle banche cooperative si vota per testa e non per numero di azioni). Ma controllandone migliaia con le radici ben piantate nel terreno di potere, relazioni e favori che ha fertilizzato per anni. Alcune «pratiche» vanno ricordate, ribadite e sottolineate nelle vicende di questo istituto che è arrivato fino a 386 filiali e 3.200 dipendenti. Il presidente Jacobini ha portato i suoi due figli, Gianluca e Luigi, ai massimi livelli dirigenziali della banca: condirettore e direttore generale. Entrambi senza alcuna precedente significativa esperienza altrove. Gli introiti della famiglia Jacobini si misuravano in milioni di euro. Bankitalia, sempre con grande cautela e cortesia, ha provato ad arginare il potere della famiglia. E loro, forti del consenso popolare e politico hanno alzato le spalle o al massimo mischiato le carte e fatto un po’ di fumo. Nell’assemblea del 2016, la trentottesima di Jacobini al vertice, la banca presentava un bilancio con quasi 300 milioni di perdita, di fatto bruciando quanto raccolto con l’aumento di capitale per Banca Tercas. Poteva essere questo il momento della svolta, un cambio di regia, di management, discontinuità. Ma anche in quell’occasione, come sempre, Jacobini fa il pieno di applausi compresi il governatore pugliese Michele Emiliano e l’allora presidente della Commissione Bilancio della Camera e oggi ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, presente in assemblea. Boccia «afferma come il bilancio - si legge nel verbale – sia stato redatto con molta serietà, a conferma della serietà della banca che nonostante le difficoltà è riuscita comunque a fare acquisti caricandosi sulle spalle pesi cospicui della comunità». Se è vero che l’acquisto di Banca Tercas (fine 2014) è una delle cause all’origine dell’attuale dissesto vuol dire che era un «boccone» difficile da digerire, gestire e integrare con la rete della Bari. Tra l’altro ci hanno messo 300 milioni (subito bruciati come abbiamo appena visto) migliaia di risparmiatori che hanno sottoscritto un aumento di capitale della Bari e altri 300 milioni il Fondo interbancario. Ci voleva, insomma, un manager di grande esperienza da mandare in Abruzzo anche per tutelare quei capitali raccolti. E chi ci ha messo Marco Jacobini? Suo figlio Gianluca: amministratore delegato. Tra l’altro anche la nuora, moglie di Gianluca, è in banca, ufficio customer satisfaction: tempi duri per lei. Il titolo per decenni non ha dato preoccupazioni. Per forza: il prezzo delle azioni Popolare Bari lo stabiliva il consiglio di amministrazione che si avvaleva di perizie della Deloitte Financial Advisory (con il bilancio 2019 Deloitte è il nuovo revisore dopo 10 anni di Pwc), «sentito» il collegio sindacale. Parentesi sul collegio che è l’organo di controllo e vigila sull’attività degli amministratori: il presidente guadagnava 170mila euro annui e i sindaci 120mila. Nelle grandi multinazionali come l’Eni i compensi dei sindaci sono nettamente inferiori. Naturalmente la Borsa non è mai stata una vera opzione, così come la spa, perché se la banca fosse diventata «maggiorenne», se si fosse confrontata con il mercato, che fa prezzi veri, sarebbe uscita dalla tutela della famiglia e si sarebbe scoperto il giochino del prezzo artificiale. «Chi sottoscrive le nostre azioni – dichiarava Jacobini compiendo 38 anni di banca – sa che sono azioni da cassetto: acquistano sempre valore». Allora stavano a 9,53 euro, oggi virtualmente a zero. Di fatto le azioni sono da anni invendibili. È questa la grande differenza tra la Bari e storie di crac come la Carige o Mps o Popolare Etruria: qui, in Puglia, sono state messe «sotto sequestro» là invece, a Siena, Genova o Arezzo con la quotazione in Borsa potevano essere vendute o acquistate sul mercato, accettandone i rischi. La formula del mutuo che ti incolla all’azione è stata una delle più ingegnose trovate per attirare nuovi azionisti. Qualcuno è ancora «murato» dentro. Era un mutuo che con l’aumentare della partecipazione azionaria (le azioni dovevano essere inderogabilmente depositate presso la banca) permetteva di aumentare parallelamente l’importo finanziabile diminuendo lo spread: -0,10% fino a 1.000 azioni e poi via via fino a -0,20% oltre le 7.500. E guai a venderle, la penalità è un aumento immediato di 0,50 punti sul tasso stabilito nel contratto. Il socio, o socio potenziale, accettava dunque di legarsi per anni alla banca di cui diventava socio senza poter vendere, salvo vedersi rialzare il tasso. È un immenso groviglio di azionisti-debitori-creditori e prestiti mai rientrati, compresi quelli al gruppo barese Fusillo (Edilizia e turismo), ampiamente sostenuto dalla banca e protagonista di una crac da oltre 200 milioni sotto la lente della Procura di Bari. Ottocento sono i milioni persi nei bilanci della Bari in quattro anni (fino a giungo 2019), altre centinaia di milioni presumibilmente in carico all’esercizio 2019, 1,5 miliardi di risparmio (il valore delle azioni) di fatto bruciati. I numeri sono impietosi.Ma fino a ieri scrosciavano gli applausi alle assemblee della Popolare Bari dove mai si sono visti i presunti rappresentanti dei risparmiatori o gli avvocati che adesso tuonano contro il risparmio tradito. Solo un farmacista del Gargano, Raffaele Siniscalchi, ha avuto il coraggio di metterci la faccia, impugnare il microfono e criticare sua maestà Jacobini. Che cinque mesi fa, dopo 41 anni al vertice, ha lasciato lo scranno da presidente. A chi? Al nipote. Poi però, finalmente, sono arrivati i commissari inviati da Banca d’Italia.
Popolare Bari, le azioni a mogli e cognati: così i bancari hanno rovinato le loro famiglie. Federico Fubini il 17 dicembre 2019 su Il Corriere della Sera. Nel 2014 la signora era nel sesto anno di una sclerosi multipla complicata da una progressiva sordità da entrambe le orecchie e da un’osteoporosi grave. È allora che l’addetto della sua filiale della Banca popolare di Bari le fa una proposta. La signora dovrebbe comprare sempre nuove quote dell’istituto stesso, a un prezzo «speciale» del 6% più basso del valore di 9,53 euro per azione. Oggi valgono zero. La signora, un’ex insegnante di religione delle scuole elementari, vedova, obbligata alla sedia a rotelle e con figli da mantenere, ha investito nella banca popolare della sua città 181 mila euro. Tutti i risparmi della sua famiglia. Nel suo caso pende un ricorso all’Arbitro per le controversie finanziarie e al Tribunale per ottenere un indennizzo completo, ma a discolpa degli impiegati della Popolare di Bari vale una constatazione: spesso, hanno rovinato i loro stessi familiari. Fra il 2014 e il 2016 hanno venduto azioni senza mercato e ora senza valore ai loro fratelli, alle sorelle, alle madri e ai padri anziani. Le hanno vendute agli amici e ai cognati. «Sto difendendo una valanga di parenti stretti dei dipendenti della banca», dice l’avvocato Antonio Pinto, che per Confconsumatori sta presentando ricorsi per circa duecento risparmiatori. «Sempre più spesso mi capita di fare lo psicologo fra fratelli e sorelle, mogli e mariti». Nelle ondate di aumenti di capitale più recenti, stima Pinto, la Popolare di Bari ha distrutto 550 milioni di euro di risparmio delle famiglie. Il fatto stesso che i direttori di filiale e i consulenti finanziari vendessero ai loro parenti dimostra che, fino a tre anni fa, neanche loro si rendevano conto di cosa stavano facendo: riempivano i conti di analfabeti finanziari sempre con lo stesso titolo impossibile da rivendere, a prezzi assurdi, senza informare dei rischi, a volte senza neanche tutte le firme necessarie. Forse non era malafede (in certi casi, nelle filiali). Sempre e comunque era il punto di arrivo di una piramide di incompetenza: un’azienda che seleziona quadri capaci di rovinare i loro familiari non può avere manager degni di questo nome. L’ex presidente Marco Jacobini, i suoi figli Gianluca e Luigi - già condirettore e vicedirettore generale, oggi l’uno contro l’altro - l’ex direttore generale e poi amministratore delegato Vincenzo De Bustis si difenderanno in tribunale dai reati di cui sono accusati (tra i quali l’ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia). La sentenza c’è però già sul fatto che un mondo e un modello siano finiti. Prima della grande crisi e dell’Unione bancaria in area euro, che sposta poteri di controllo a Bruxelles e Francoforte e limita l’intervento pubblico proprio quando gli istituti sono più fragili, la Banca d’Italia aveva una sua strada. Dal 1936 la legge le assegna come prima missione, oltre alla politica monetaria, la stabilità finanziaria e non la tutela dei consumatori: ancora oggi quest’ultima non figura fra le funzioni indicate nel sito web dell’istituto. In un Paese paralizzato dal debito pubblico e dalla vita breve dei governi, i banchieri centrali si sono dunque affidati spesso a banchieri privati di provincia perché questi assorbissero concorrenti falliti e ne tamponassero i dissesti. Anche a costo di dover chiedere sempre nuove risorse ai correntisti. Anche a costo di ritrovarsi alla fine gonfi di hybris , di clientele opache, crediti inesigibili (e di segnalazioni alle Procure, quando serviva, da parte della stessa Banca d’Italia). È stata questa per anni la storia di Cesare Geronzi con Banca di Roma, di Gianni Zonin con la Popolare di Vicenza e degli Jacobini a Bari, quando si è trattato di salvare la teramana Tercas nel 2014. Ma ormai i tempi erano cambiati. La Commissione Ue decreta che i 270 milioni versati a Bari dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) per favorire l’operazione sono aiuto di Stato. Nel 2018 la Corte di giustizia Ue sconfesserà quel giudizio perché il Fitd è privato, ma ormai è tardi: la Bari aveva già colmato l’ammanco aggredendo ancora una volta i risparmi dei propri ignari clienti. Uno di questi è Salvatore Squillace, 42 anni, imprenditore barese nel turismo e nella rivendita di computer. Con il suo socio chiede un mutuo da 100 mila euro per l’acquisto di un immobile, che gli viene concesso solo dopo che ha comprato azioni della Popolare. «Siamo stati sprovveduti - ammette -. Eravamo ignoranti, non pensavamo che uno scandalo del genere fosse possibile». Ora Squillace spera di riavere parte dei 60 mila euro che ha perso, ma c’è qualcos’altro che lo preoccupa: ha letto che il governo nazionalizzerà la Bari. L’idea di una banca pubblica non lo tranquillizza affatto. «Ho sempre paura della politica e della burocrazia - dice -. Lei non immagina neanche cosa vuol dire aprire un’attività qui. Devi combattere con tutti».
Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 17 dicembre 2019. Contro le accuse di non aver vigilato abbastanza sulla Banca Popolare di Bari (Bpb), che il governo ha deciso di salvare con 900 milioni di euro di soldi pubblici, Banca d' Italia tenta la carta dell' autodifesa. Un dossier di sette pagine, tabelle comprese, è stato diffuso ieri da via Nazionale, allo scopo di ricostruire «l' intensità dell' azione di vigilanza» sulla banca pugliese. Rispetto alla quale Bankitalia aveva condotto «accertamenti ispettivi» dal 2010, cui era seguita una «valutazione parzialmente sfavorevole» a causa di «carenze nell'organizzazione e nei controlli interni sul credito». Nello stesso momento il governatore Ignazio Visco partecipa a un evento programmato: la presentazione della docufiction Rai su Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, che negli anni 70 pagò con la vita l' aver portato alla luce un sistema politico-finanziario corrotto. Visco coglie l' occasione per ricordare che Bankitalia «era allora, è adesso, e resterà sempre un' istituzione all' esclusivo servizio dello Stato». E aggiunge: «Oggi viviamo in un clima difficile, la situazione economica non è favorevole, si è spesso alla ricerca di illusori capri espiatori». Un' allusione che fa emergere il senso di accerchiamento che si vive a Palazzo Koch dopo gli attacchi di Lega, M5S e Italia viva. Così si prova a reagire, facendo sapere che non era prevista alcuna designazione del nuovo direttore generale nella riunione di venerdì del Consiglio superiore. Perché bisogna attendere che venga formalizzato il passaggio del direttore uscente Fabio Panetta alla Banca centrale europea. Si cerca così di difendere la candidatura dell' ex Ragioniere dello Stato, Daniele Franco, messa in discussione dall' inedita coppia M5S-Iv. E poi c' è la nuova commissione d' inchiesta sulle banche in arrivo giovedì prossimo, per la cui presidenza parte del M5S vorrebbe fosse scelto Elio Lannutti, e parte Carla Ruocco o Laura Bottici. Un'altra partita delicatissima. E poi la Lega che vuole la riforma della Vigilanza, una richiesta sostenuta anche dal segretario della Cisl, Annamaria Furlan. E infine ieri l'attacco dei grillini al neocommissario della Bpb, Antonio Blandini, appena nominato da Bankitalia, ritenuto non super partes per aver fatto parte del comitato di sorveglianza di Tercas. Ma intanto c' è da difendersi dall' accusa principale sulla mancata vigilanza. In particolare sull'acquisto da parte di Bpb di Banca Tercas, autorizzato da via Nazionale nel 2014. Il sospetto è che l' operazione servisse all' istituto per rientrare dai 480 milioni di finanziamento concessi a Tercas per un primo salvataggio, finito male. Il dubbio è che Bpb, cui nel 2010 Bankitalia, in seguito a un' ispezione, aveva vietato manovre espansive, tre anni dopo non fosse nelle condizioni di acquisire Tercas. Sul punto Bankitalia chiarisce che nell' ispezione del 2013 di Bpb erano emersi «progressi» rispetto alla precedente ispezione, accanto al «permanere di alcune aree di debolezza», per il cui superamento la banca aveva «un piano di iniziative di rimedio». La cui efficacia sarebbe stata verificata prima di procedere su Tercas. Un'operazione che venne però sospesa dal veto dell'Ue, e che accumulò così ritardi nel processo di integrazione. Così come fu un'ordinanza del Consiglio di Stato a sospendere la necessaria trasformazione della Bpb in spa. Allo stesso modo rimane tuttora appeso al giudizio della Commissione europea, ancora non intervenuto, l'utilizzo ai fini del salvataggio della norma del decreto Crescita del governo gialloverde sugli incentivi fiscali che avrebbe potuto favorire le aggregazioni. In tutto questo, secondo Bankitalia, non sarebbero mancate sollecitazioni ai vertici di Bpb, ispezioni e sanzioni fino all' epilogo finale. Necessario, si fa sapere, per evitare che il Fondo interbancario sborsi 4,5 miliardi per rimborsare i depositanti.
Alessandro Barbera e Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 17 dicembre 2019. Un prestito da 480 milioni di euro concessi da Banca d' Italia a Cassa di risparmio di Teramo rimborsato dopo l' acquisizione da parte di Popolare di Bari. Non c' è traccia di questo passaggio nel pur dettagliato resoconto - ben sette pagine - con cui Banca d' Italia ricostruisce l'annunciato dissesto della banca pugliese. Vigilare sulle banche in uno dei Paesi a più alto tasso di corruzione dell'Occidente non è semplice. Ieri mattina Ignazio Visco lo ricordava alla presentazione di una fiction dedicata all' eroe borghese, Giorgio Ambrosoli, liquidatore della banca privata di Michele Sindona. «Oggi viviamo in un clima difficile, si è spesso alla ricerca di illusori capri espiatori. La Banca d' Italia era allora, è adesso e resterà sempre un' istituzione all'esclusivo servizio dello Stato». Visco non fa nomi, ma allude alle polemiche innescate dai Cinque Stelle dopo l'esplosione del caso pugliese. Un caso che - con tutto il rispetto all' istituzione- per l'ennesima volta denota una certa lentezza nel prendere decisioni a fronte di una precaria situazione finanziaria. L'omissione della ricostruzione di Banca d' Italia sul prestito è rilevante per almeno due ragioni. La prima: l' acquisto di Tercas fu sollecitato proprio da via Nazionale. La seconda: per le dimensioni e le condizioni finanziarie di Bari 480 milioni non sono poca cosa. Della vicenda si trova traccia nel bilancio del 2013 della banca salvata e commissariata nel week-end con un complesso intervento statale da novecento milioni: «A novembre è stato erogato dalla Banca (Popolare di Bari, ndr) a Banca Tercas un finanziamento per euro 480 milioni. Detto finanziamento è stato concesso per permettere a Banca Tercas di estinguere un precedente mutuo erogato dalla Banca d' Italia». Fonti della vigilanza spiegano così l'accaduto: «Si trattava di un prestito per far fronte ad una carenza di liquidità. I tempi per restituire questo tipo di erogazioni non sono lunghissimi, nell' ordine di mesi. Non appena ce ne sono state le condizioni, è stato restituito». In apparenza, tutto regolare. Con un però: la restituzione di quel prestito viene imposta ad una banca a sua volta in condizioni precarie. La prova ancora più evidente che l' acquisizione di Tercas da parte di Bari fu una scommessa finita molto male.
Facciamo un passo indietro a quell' autunno del 2013. Tercas è sull' orlo del fallimento. Dopo il crac del Banco di Napoli e il fallimento Sindona, piuttosto che far fallire una banca, a Palazzo Koch cercano istituti più grandi in grado di assorbirla. Bari non potrebbe intervenire perché dal 2010 le è vietato espandere le attività dopo una durissima ispezione: più di 1,2 miliardi di crediti deteriorati. A giugno 2014 Bankitalia toglie i vincoli a Bari, e un mese dopo approva l' acquisizione di Tercas. All' operazione partecipa anche il Fondo di tutela dei depositi con 330 milioni. Il risultato si vede nei conti dell' anno successivo: i crediti deteriorati di Bari passano da 1,2 a 2,6 miliardi. Nel 2014 Bari converte il credito residuo verso Tercas - ovvero il prestito servito a rimborsare Bankitalia - in nuove azioni Tercas con un aumento di capitale. Eppure nel 2013 era stata proprio la vigilanza a segnalare l' eccessiva esposizione di alcuni imprenditori. Un caso emblematico è quello dei Fusillo e dei Curci, ai quali fa capo la holding Maiora Group. Nel 2011 vendono un immobile ad un fondo gestito da Sorgente Sgr: con l' incasso abbattono il debito verso la Popolare, la quale a sua volta sottoscrive tutte le quote. Quello che era un prestito «difficile» è diventato un investimento. La vigilanza segnala, Bankitalia redarguisce, la sostanza non cambia. Tra il 2014 e il 2015 la Popolare di Bari rafforza il proprio capitale per 550 milioni di euro tra emissioni di nuove azioni - 330 milioni - e obbligazioni subordinate, altri 220 milioni. È in questo periodo che la base sociale di Bari si dilata fino agli attuali settantamila soci. L' Europa nel frattempo non ha aiutato: nel 2015 la Commissione di Bruxelles dichiara l' intervento del Fondo interbancario su Tercas aiuto di Stato. Solo pochi mesi fa la Corte di giustizia ha dato ragione all' Italia annullando la decisione della Commissione. Ma ormai la frittata era fatta.
Popolare di Bari, quella retromarcia della Vigilanza per salvare Tercas. Gli esiti dell'ispezione letti da Carmelo Barbagallo e la revoca del divieto di acquisizioni bancarie: ecco tutti i passaggi. Luca Sablone, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Nel governo continua a tenere banco la questione relativa alle responsabilità tra vigilanza e amministratori per quanto riguarda il caso della banca popolare di Bari. Sotto la lente di ingrandimento è finito il via libera della Banca d'Italia per l'acquisizione della banca abruzzese Tercas che ha provocato effetti evidenti alla BPB: tra il 2015 e il 2016 i crediti deteriorati passarono da circa 700 milioni di euro a 1 miliardo e 400 milioni; si raddoppiarono inoltre le sofferenze, passate da 250 milioni a poco meno di 500. Ci si domanda quale sia stata la motivazione per la quale venne rimosso il provvedimento di blocco ad altre acquisizioni bancarie adottato dalla Banca d'Italia verso la Popolare nel 2010. Come riportato dall'edizione odierna de La Repubblica, le risposte si troverebbero nelle mosse di Carmelo Barbagallo, che può vantare di aver ricoperto ruoli di prestigio come alto dirigente di Bankitalia, direttore centrale per la Vigilanza bancaria e finanziaria, capo del dipartimento vigilanza bancaria e ora presidente dell'Aif, l'Autorità di informazione finanziaria antiriciclaggio del Vaticano.
Le tappe. Tutti i vari step verificatisi tra il 2013 e il 2014 sono stati riassunti in una nota ufficiale di Bankitalia: "Nel 2013 la Popolare viene nuovamente sottoposta ad accertamenti mirati sul rischio di credito, sulla governance aziendale, sul sistema dei controlli interni e sulle tematiche di compilance". Le verifiche in questione mettono in luce "progressi rispetto a quanto riscontrato durante l'ispezione del 2010". Inoltre viene evidenziato il "permanere di alcune aree di debolezza, per il cui superamento la banca programma un piano di iniziative di rimedio". Successivamente la Vigilanza richiede alla funzione di Internal Audit e al Collegio sindacale "una specifica verifica sull'efficacia di questo piano". A galla vengono una "sostanziale idoneità delle misure adottate" e il "rispetto della tempistica programmata". Considerando gli interventi posti in essere e le relazioni fornite, nel giugno del 2014 "vengono rimossi i suddetti provvedimenti restrittivi". Dunque nel luglio del medesimo anno la Banca d'Italia "autorizza la banca popolare di Bari ad acquisire il controllo di Banca Tercas". Con l'intento principale di garantirne la sostenibilità, l'intervento viene accompagnato "da un contributo di €330 milioni alla banca popolare di Bari da parte del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi". Il coinvolgimento della BPB nell'operazione di acquisizione di Tercas si profila come "un intervento di 'salvataggio'" con l'obiettivo di salvaguardare "l'interesse dei depositanti" e di rilanciare "commercialmente il gruppo abruzzese".
Il dietrofront. Tuttavia, i documenti della popolare di Bari in possesso de La Repubblica, testimoniano l'avvenimento di due episodi insoliti: nello specifico si tratta di un verbale del consiglio di amministrazione della banca barese del 23 ottobre 2013. Quel giorno alla BPB non sono ancora noti gli esiti dell'ispezione, ma alle 11.00 del mattino "il presidente (Marco Jacobini, ndr) accoglie in sala consiliare il dott. Carmelo Barbagallo [...] perché proceda alla lettura del rapporto ispettivo". Il quotidiano fa notare che "non è esattamente consuetudine che il direttore della Vigilanza di Bankitalia dia lettura di un rapporto ispettivo del cda della banca ispezionata". Tenendo in considerazione soprattutto il fatto che il suo ruolo in quel momento è quello di informare che i risultati sono stati "parzialmente sfavorevoli" per le medesime ragioni che portarono al blocco del 2010 ad attività di acquisizione da parte della Popolare. Ma è proprio ciò che sarebbe accaduto quel 23 ottobre, quando si sarebbe verificata una singolare coincidenza: mediante una lettera inviata alla Tercas, la banca popolare di Bari avrebbe manifestato la volontà di partecipare al salvataggio dell'istituto abruzzese "per un importo complessivo non inferiore a 280 milioni di euro". E anche di erogare "un mutuo di 480 milioni che consenta allo stesso istituto di estinguere il finanziamento" concesso dalla Banca d'Italia a titolo di liquidità di emergenza. Le mosse per acquisire Tercas avvengono dunque sotto gli occhi della Banca d'Italia, nonostante vige il blocco del 2010 che impedisce di farlo. Il 10 giugno del 2014 arriva la rimozione del divieto al termine di due passaggi "suggestivi": l'erogazione del mutuo di 480 milioni a Tercas e le controdeduzioni alle osservazioni "parzialmente sfavorevoli dell'ispezione".
I soldi dei magistrati nella banca (quasi) fallita. Giovanni Altoprati il 17 Dicembre 2019 su Il Riformista. A chi ha affidato le proprie – ingenti – risorse economiche il Consiglio superiore della magistratura? Alla Banca popolare di Bari. L’istituto di credito pugliese salvato dal fallimento grazie ad uno stanziamento urgente di 900 milioni di euro deciso domenica scorsa dal governo. Per la cronaca, la Bpb ha anche uno sportello all’interno di Palazzo dei Marescialli e, sembra, in questo caso la privacy è d’obbligo, abbia pure stipulato condizioni estremamente vantaggiose per i signori magistrati in servizio al Csm. La vicenda, considerata la disastrata condizione patrimoniale della Bpb, nota a tutti da anni, ha semplicemente dell’incredibile. Soprattutto se si considera la velocità con cui il Csm, senza alcun processo, ha costretto alle dimissioni cinque togati macchiatisi della “gravissima” colpa di essere andati a cena con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, insieme all’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Il Csm, in quanto organo di rilevanza costituzionale, non è assoggettato per legge alla tesoreria unica. Essendo in regime di “autonomia finanziaria” si avvale, dunque, di un istituto di credito privato. Che fra i tanti istituti di credito della Penisola la Bpb fosse uno di quelli messi peggio, però, non è una novità di questi giorni. Nel 2010, infatti, la Banca d’Italia aveva evidenziato, a seguito di ispezioni, «carenze nell’organizzazione e nei controlli interni sul credito». Nel 2014, l’acquisto della traballante Cassa di risparmio di Teramo (Tercas), con la partecipazione per 330 milioni del Fondo interbancario di tutela dei depositi, al quale si oppose la Commissione europea ritenendolo un aiuto di Stato, aveva aggravato la situazione. Il 2015 segna l’inizio della fine: le azioni della banca pugliese crollano, suscitando la rabbia dei soci. Nel 2016 altra ispezione della Banca d’Italia che rileva «significativi ritardi rispetto agli obiettivi prefissati» e, nuovamente, «l’esigenza di rafforzamento nel sistema dei controlli sui crediti». Nel 2017 scatta l’ultimatum di via Nazionale: urge un aumento di capitale per impedire il baratro. Il 2018 si chiude con un rosso record per il sistema bancario italiano. Il buco nella casse della Bpb ammonta ad oltre 430 milioni. Lo scorso giugno, infine, l’ennesima visita degli ispettori della Banca d’Italia con annessa stroncatura. Si evidenzia, scrivono gli uomini di Ignazio Visco, «l’incapacità della governance di adottare le misure correttive per riequilibrare la situazione patrimoniale. Le gravi perdite portano i requisiti prudenziali di Vigilanza al di sotto dei limiti regolamentari». Da lì il commissariamento. Ma come se non bastasse questo quadro di “mala gestio” finanziaria, che avrebbe suggerito maggiore prudenza da parte del Csm nel continuare ad avvalersi dell’istituto di credito pugliese per gestire le proprie risorse, c’è anche il risvolto penale. Nel 2016 la Procura di Bari ha aperto un fascicolo per associazione a delinquere, truffa, ostacolo alla vigilanza, false dichiarazioni in prospetto, nei confronti dei vertici della Bpb. Fra gli indagati, il suo presidente Marco Jacobini e l’amministratore delegato Vincenzo De Bustis. La scorsa estate, il presidente De Bustis era stato sostituito da Gianvito Gianelli, un professore la cui moglie è Isabella Ginefra, sostituto procuratore a Bari fino al mese di settembre del 2018, prima di essere nominata procuratore a Larino (CB). Nomina poi annullata questo agosto dal Tar del Lazio.
Banca di Bari, mutui “stracciati” per i membri del Csm. Giovanni Altoprati il 18 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il Consiglio superiore della magistratura affidò alla Banca popolare di Bari, salvata dal fallimento lo scorso fine settimana, il proprio servizio di tesoreria durante il week end di Ferragosto del 2015. Se non fosse vero ci sarebbe da ridere. Invece andò proprio così. In una Roma deserta e con l’attività istituzionale di Palazzo dei Marescialli cessata da almeno un paio di settimane per la pausa estiva, l’ultimo Plenum si tenne alla fine di luglio, venne deciso il nome della banca che avrebbe gestito per i successivi cinque anni un patrimonio di oltre cento milioni di euro. Il Csm, organo di rilevanza costituzionale e dotato di ampia autonomia, non era e non è assoggettato alla tesoreria unica, e si è sempre avvalso per tale incombenza di un istituto di credito privato. Una “anomalia” evidenziata anche dal Collegio dei revisori dei conti. L’affidamento, per legge, è sempre avvenuto mediante una gara pubblica. Come accadde quell’anno. Il termine ultimo per presentare le domande, nella torrida estate del 2015, venne fissato alle ore 14.00 del 16 agosto, una domenica. Alle banche che volevano concorre per il prestigioso incarico erano stati concessi solo otto giorni di tempo: l’avviso del bando di gara comparve nella Gazzetta ufficiale del 7 agosto. Un annuncio, semi nascosto, fra le oltre 250 pagine che componevano il numero 92 della Gazzetta ufficiale di quell’anno. A firmare il bando era stato il segretario generale del Csm, Paola Pieraccini, un magistrato fuori ruolo. Per allettare il Csm, la Banca popolare di Bari mise sul piatto un pacchetto di condizioni estremamente vantaggiose per tutti. C’era infatti la possibilità, per i magistrati del Csm, di avere mutui a tassi stracciati, conti correnti con spese di gestione irrisorie, finanziamenti a tassi bassissimi. L’unico requisito voluto dal Csm per aggiudicarsi la ricca posta era quello di produrre “l’offerta economicamente più vantaggiosa”. Nessun punteggio sulla solidità finanziaria della banca, sulla sua diffusione sul territorio, sul benchmark. Nulla di nulla. Solo “l’offerta economicamente più vantaggiosa”. Anche perché sarebbe stato molto difficile competere con chi fino a quel momento gestiva la cassa. E cioè Banca Intesa San Paolo, il primo gruppo bancario italiano, fra i primi dieci in Europa. Alla Banca popolare di Bari, con solo cinque filiali in tutto il Lazio, di cui quattro a Roma, riuscì quindi l’impresa di scalzare un colosso da 100.000 dipendenti, oltre 30 miliardi di fatturato e filiali in 85 Paesi. Il resto è cronaca, drammatica, di questi giorni. Il buco di bilancio della Banca Popolare di Bari ha raggiunto dimensioni record. Circa mezzo miliardo che il governo ha iniziato a ripianare con un maxi finanziamento di 900 milioni disposto domenica scorsa. Già nel 2015, comunque, per la banca pugliese la situazione non era affatto rosea. Come certificato dalle numerose ispezioni della Banca d’Italia. Ma, evidentemente, per il Csm era importante solo “l’offerta economicamente più vantaggiosa”.
Banca Popolare di Bari, spuntano i prestiti agli amici della Lega. La banca pugliese ha finanziato un imprenditore di Varese (poi fallito), vicino a Giorgetti. Altri soldi al costruttore Parnasi che ha investito cinque milioni di euro nei titoli dell'istituto in grave crisi. Vittorio Malagutti il 20 dicembre 2019 su L'Espresso. Si fa presto a dire «banca del territorio». Per anni un esercito di commentatori, analisti, politici e cortigiani di ogni ordine e grado ha difeso con dotti articoli il ruolo insostituibile di istituti come la Popolare di Bari nel sostenere l’economia locale, ovvero quella rete di piccole aziende, artigiani e famiglie altrimenti facili prede dei colossi globali del denaro, macchine infernali che da Udine a Siracusa schiacciano il cliente negli ingranaggi dell’alta finanza. Tutto vero, tutto giusto, in teoria. Se non fosse che la retorica del campanile è stata infine smentita dai fatti. E dai bilanci. La banca pugliese gestita per tre decenni dalla famiglia Jacobini, il presidente Marco e i due figli direttori generali Gianluca e Luigi, è arrivata nei giorni scorsi al capolinea del commissariamento sotto il peso di prestiti a rischio per 1,2 miliardi, pari, al netto delle rettifiche, al 15 per cento del totale dei crediti. Una montagna di spazzatura finanziaria che si è accumulata negli anni per effetto di una lunga serie di favori agli amici e agli amici degli amici. Peggio ancora. Mentre la Vigilanza di Banca d’Italia, nonostante i conti in bilico segnalati da ispezioni e controlli, non ha mai mancato di rinnovare la propria fiducia a Jacobini e soci, i vertici della Popolare Bari si sono lanciati in una corsa spericolata per salvare il salvabile, in una spirale di affari sul filo del rasoio difficili da spiegare se non con la ricerca disperata di consenso nel mondo della politica. Niente a che fare con il territorio, questa volta. I soldi generosamente elargiti dalla banca hanno preso il volo con destinazioni molto lontane dalla Puglia. Dalle carte che L’Espresso ha potuto esaminare si scopre così che la banca degli Jacobini ha finanziato per esempio la famiglia Monferini, costruttori con base a Varese. È finita male. Le società del gruppo, cresciute a passo di carica un decennio fa, sono andate in bancarotta nel 2017. L’esposizione della Popolare di Bari verso questi creditori falliti ammontava a circa 10 milioni. Difficile non notare, a questo punto, che il prestito è stato accordato proprio quando al timone dell’istituto, con i gradi di amministratore delegato, c’era Giorgio Papa, anche lui di Varese, un manager molto vicino alla Lega, tanto da approdare nel 2011 alla poltrona di direttore generale di Finlombarda, holding pubblica della regione Lombardia. Nella primavera del 2015 gli Jacobini scelsero Papa per sostituire Vincenzo De Bustis, destinato a tornare in sella, con il via libera di Bankitalia, a gennaio di quest’anno, quando la Popolare si stava ormai avvitando in picchiata. Quattro anni fa, il nuovo amministratore delegato si era portato in dote, tra l’altro, ottimi rapporti con i vertici della Lega, a cominciare dal numero due del partito, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, un altro varesino che ben conosce i Monferini, i costruttori falliti finanziati dalla Popolare Bari. Nel consiglio di amministrazione della banca pugliese aveva peraltro trovato posto di recente anche Giulio Sapelli, l’economista proposto da Matteo Salvini per la presidenza del Consiglio dopo le elezioni del 2018. Per il cattedratico sponsorizzato dalla Lega fu poco più che una toccata e fuga: nominato nel board della banca ad aprile dell’anno scorso e poi designato vicepresidente, otto mesi dopo Sapelli si era già dimesso, proprio in coincidenza con il ritorno al vertice di De Bustis. Ben più consolidata nel tempo risulta invece la frequentazione tra Giorgetti e il costruttore romano Luca Parnasi, anche lui beneficiato da prestiti per decine di milioni dalla banca degli Jacobini. Come noto, Parnasi, coinvolto in un’inchiesta giudiziaria della procura di Roma, è stato arrestato nel giugno del 2018 e gran parte delle sue aziende, da tempo in difficoltà, adesso sono in liquidazione. Le indagini hanno rivelato che l’imprenditore capitolino era ben conosciuto nel mondo politico: ha finanziato fondazioni vicine alla Lega e al Pd e aveva trovato una sponda sicura anche nei Cinque stelle grazie ai rapporti con l’avvocato Luca Lanzalone (pure lui arrestato), a lungo consulente prediletto del sindaco di Roma, Virginia Raggi. Nel 2015 il gruppo del costruttore doveva già far fronte a una grave crisi. L’indebitamento aveva superato da tempo il livello di guardia e le banche, in prima fila Unicredit che era la più esposta, facevano pressioni per rientrare dai loro prestiti. È a questo punto che arriva la ciambella di salvataggio gentilmente offerta dalla Popolare di Bari, pronta ad aprire i cordoni della borsa con l’imprenditore in difficoltà. I crediti targati Jacobini, con il leghista Papa amministratore delegato, andarono a finanziare Figepa, holding di Parnasi a cui faceva capo il controllo di Parsitalia, la principale società del gruppo con i conti in rosso profondo. A ottobre del 2015 l’istituto pugliese ha accordato un mutuo da 20 milioni a Figepa, che senza quei soldi rischiava di portare i libri in tribunale. Nonostante le gravi difficoltà di bilancio, la holding di Parnasi non ha però rinunciato a comprare azioni della Popolare di Bari per 5 milioni di euro. L’operazione ha tutte le caratteristiche di quelli che in gergo vengono chiamati “finanziamenti baciati”. In altre parole la banca presta denaro che viene in parte reinvestito dal debitore in azioni della banca stessa. L’affare dev’essere sfuggito alla Vigilanza del governatore Ignazio Visco. Non sono emerse “significative evidenze di operazioni baciate”, questo infatti è quanto si legge nota ufficiale diffusa lunedì 16 dicembre dalla Banca d’Italia per riassumere le attività di verifica e controllo svolte negli anni scorsi a Bari. Da notare che a partire almeno dal 2014, Jacobini ha fatto una gran fatica a rastrellare nuove risorse sul mercato. Il salvataggio della decotta Tercas, caldeggiato e pilotato da Bankitalia, aveva affossato i conti dell’istituto pugliese, chiusi nel 2015 con 275 milioni di perdite. Nel frattempo, migliaia di piccoli azionisti, nell’esercito degli oltre 70 mila soci, cercavano senza successo di mettere in vendita i loro titoli, trattati in una sorta di borsino informale gestito dalla Popolare. Parnasi invece, a quanto risulta dalle carte ufficiali, è andato contro corrente. Forte anche dei soldi incassati grazie al prestito targato Bari, il costruttore ha scommesso 5 milioni sulla banca in crisi. Gli è andata male. Il valore di quei titoli è ormai prossimo allo zero. D’altra parte anche l’istituto farà molta fatica a recuperare il proprio credito: Figepa ha perso 26 milioni nel 2017, altri 6 milioni l’anno scorso e ad aprile è stata messa in liquidazione. Vale lo stesso discorso per Ferrara 2007, un’altra società della galassia di Parnasi che a giugno è arrivata a fine corsa con un debito di 30 milioni nei confronti della Popolare di Bari. Quest’ultima, a conti fatti, ha quindi elargito almeno 50 milioni a un imprenditore con l’acqua alla gola, denaro che ora rischia di andare in fumo nel gran falò dei conti dell’istituto. Qui la Puglia non c’entra. Il prestito è partito in direzione Roma per finanziare attività che nulla hanno a che fare con il territorio che la banca degli Jacobini sarebbe chiamata a presidiare. Di recente è anche capitato che la Popolare ora commissariata sia stata costretta a giocare di sponda nella capitale per aggiustare partite a rischio aperte a Bari. La pista questa volta porta a pochi metri da Fontana di Trevi, in uno dei luoghi più visitati della città e forse del mondo. Il fiume dei turisti scorre a fianco di un palazzo Art Nouveau che fino a pochi anni fa ospitava gli uffici dell’Authority delle comunicazioni. Due anni fa l’immobile ha cambiato proprietario. A vendere sono stati i Fusillo, famiglia di costruttori pugliesi pesantemente indebitata con la Popolare di Bari. Nel ruolo di compratore è invece sceso in campo l’immobiliarista Salvatore Leggiero, che ha sborsato circa 50 milioni per aggiudicarsi gli oltre 5 mila metri quadrati su quattro piani e una magnifica terrazza sul tetto che si affaccia su via delle Muratte. Come confermano i documenti ufficiali consultati da L’Espresso, il conto dell’operazione è stato in buona parte pagato dalla banca degli Jacobini che ha finanziato una società di Leggiero, la Roma Trevi, con un mutuo di 32,5 milioni, cioè il 75 per cento circa del prezzo d’acquisto. Un altro prestito di circa 6 milioni servirà invece a pagare i lavori di ristrutturazione. Il cerchio si è chiuso, quindi. La Popolare di Bari è riuscita a cambiare cavallo in corsa trasferendo il proprio credito da un debitore in gravissima difficoltà a un altro che offriva maggiori garanzie. Una scelta azzeccata, possiamo dire con il senno di poi. Due mesi fa il gruppo Fusillo, già proprietario, tra molto altro, del palazzo a due passi da Fontana di Trevi, ha fatto crack. Per gli Jacobini è stata una mazzata pesantissima. Per anni l’istituto aveva finanziato le iniziative della famiglia di costruttori finiti nei guai: centri commerciali, villaggi turistici, un polo della logistica a Rutigliano, solo per citare gli interventi più importanti. Già nel 2013 il Maiora group controllato dai Fusillo e dichiarato fallito a fine settembre, era il principale debitore della Popolare di Bari, esposta in totale per 131 milioni di ero. Questa situazione a dir poco allarmante era ben conosciuta da Bankitalia. Infatti, il rapporto della Vigilanza a conclusione dell’ispezione del 2013 nella banca barese recita testualmente che a favore del Maiora group “sono stati riscontrati ripetuti interventi creditizi non sempre sufficientemente vagliati né (….) esaustivamente rappresentati al consiglio (della Popolare Bari, ndr)”. Già all’epoca, peraltro, le aziende dei costruttori pugliesi erano in difficoltà. Nella relazione ispettiva si legge che «la concreta realizzazione» del piano di rilancio dell’azienda «andrà scrupolosamente monitorata». Sono passati sei anni e nel frattempo qualcuno deve essersi un po’ distratto. I Fusillo sono andati dritti verso il crack, mentre la banca ha fatto i salti mortali per tappare le falle sempre più numerose nei propri bilanci. Maiora, per esempio, ha venduto immobili a un fondo comune del gruppo Sorgente interamente controllato dall’istituto barese. Tutto sotto gli occhi di Bankitalia, che solo pochi giorni fa ha finalmente deciso di staccare la spina. Troppo poco. Troppo tardi.
Popolare di Bari, le registrazioni segrete: “È tutto truccato, Bankitalia è dalla nostra parte”. Esclusiva di Fanpage.it: il 10 dicembre 2019, a tre giorni dal consiglio dei ministri che avrebbe commissariato la banca, l’Ad e il Presidente di Bpb parlavano ai manager della banca negando la possibilità di un intervento del governo e squarciando il velo sulle reali condizioni della Banca Popolare di Bari. Un istituto “dalla redditività inesistente” con un management “cattivo, irresponsabile, esaltato” e direttori di filiali che “hanno truccato tutti i conti”. Francesco Cancellato il 17 dicembre 2019 su Fanpage.it. “Non c’è rischio di commissariamento. Entro Natale la banca sarà salva”. È il 10 dicembre quando Gianvito Giannelli e Vincenzo De Bustis, rispettivamente presidente e amministratore delegato della Banca Popolare di Bari prendono la parola in una riunione con i manager della banca pugliese. Tre giorni prima del Consiglio dei Ministri del 13 dicembre che ha deciso per il commissariamento dell’istituto, cinque prima di quello che ha deciso per il salvataggio della banca attraverso un esborso complessivo di 900 milioni di euro. Nella registrazione di quell’incontro, che Fanpage.it pubblica in esclusiva, i due parlano a ruota libera ai dipendenti di quel che sarà il futuro prossimo della banca, e ostentano un’insolita tranquillità nel delineare gli scenari, quasi davvero non si aspettassero l’intervento a gamba tesa Consiglio dei Ministri: “Ci appoggia il mondo politico, e ci appoggia anche la vigilanza”, continua Giannelli. “Bontà loro, e per ragioni strategiche altissime, qualcuno ha deciso che la banca debba sopravvivere”, gli fa eco De Bustis. Loro, per la cronaca, sono il Ministero del Tesoro e Bankitalia, che attraverso l’iniezione di capitale di 1 miliardi di euro attraverso il Mediocredito Centrale e il Fondo interbancario di tutela dei depositi avrebbero dovuto mettere in sicurezza il patrimonio dell’istituto. Gli stessi che daranno il via libera al commissariamento, meno di 72 ore dopo. Resta da chiedersi come mai, quindi Giannelli e De Bustis fossero così sicuri del loro, tanto da esporsi personalmente coi manager della banca. Addirittura, l’amministratore delegato delinea una road map che passa dall’assemblea dei soci del 18 di dicembre, quella in cui la Popolare di Bari diventerà una Spa – dopo la quale «non ci sono più le regole: si funziona come una spa, contano solo i risultati» – sino a un nuovo piano industriale in cui la banca dovrà aumentare notevolmente i ricavi attraverso politiche commerciali aggressive. Su questo De Bustis è più che didascalico: “La banca diventerà molto forte dal punto di vista patrimoniale, avrà lo Stato dietro – istruisce i suoi direttori di filiale -, quindi potrete dire che la Popolare di Puglia e Basilicata ‘sta un po’ così’, che la Banca Popolare Pugliese traballa, che i soldi vi conviene darli a noi che c’abbiamo lo Stato dietro. Li sfondate, se c’avete la forza e l’energia commerciale”. Curioso, al pari, che quegli stessi direttori di filiali che De Bustis sferza ad andare dai clienti “col coltello tra i denti”, e ai quali imputa “qualcosa come 6-7 miliardi di raccolta che mancano”, siano gli stessi che lo stesso amministratore delegato, pochi minuti dopo, accusa di aver truccato i conti della banca per anni: “Quando sono arrivato la prima volta (De Bustis è già stato direttore generale dell’istituto barese tra il 2011 e il 2015, ndr) c’era un signore coi capelli bianchi a capo della pianificazione e controllo, a cui chiesi di vedere i dati delle filiali. Tutti truccati. Truccavate persino i conti economici delle filiali. Taroccati. Chiesi anche di vedere la lista delle prime 50 aziende affidatarie e non me l’hanno mai portata. Quell’epoca è finita. Su queste cose i nuovi padroni vi faranno l’esame del sangue”, sembra quasi minacciarli.
“Un taglio degli organici molto importante”. Nella sua disamina, De Bustis sorvola l’ultima delle indagini in cui è stato coinvolto – di cui si è avuta notizia il 5 dicembre, cinque giorni prima dell’incontro registrato -, indagine relative all’emissione di un bond da 30 milioni di euro, sottoscritto dalla società maltese Muse Ventures Ltd con un capitale di soli 1.200 euro. Un’operazione di cui De Bustis informerà il consiglio d’amministrazione a fine 2018, dandola per conclusa, ma che salterà pochi giorni dopo quando l’istituto di credito coinvolto nell’emissione dei titoli, Bnp Paribas, rileverà problemi di trasparenza, di rispetto delle regole e di gestione dei rischi finanziari. Al contrario, l’amministratore delegato di PopBari è molto loquace e diretto quando si tratta di parlare dei tagli del personale e dei nuovi strumenti finanziari della banca: “Il piano di ristrutturazione prevede un taglio degli organici molto importante”, racconta, facendo eco ad interviste in cui parla di 800 uscite, senza licenziamenti. Prepensionamenti, quindi, ma anche in questo caso il De Bustis privato alimenta dubbi, anziché fugarne: “Si va a tagliare i rami secchi e i rami secchi sono fatti di numeri. Non ci sono giovani e vecchi, figli e figliastri. Sono i risultati a parlare”, spiega. Parole che paiono preludere a licenziamenti, più che a prepensionamenti.
“Che c… me ne frega del verde?” Anche relativamente a nuovi strumenti finanziari come i green bond De Bustis è molto diretto: “Perché ho rotto tanto le scatole per lanciare questo green bond? Mica per il verde! A me che cazzo me frega del verde? Niente! Per carità è un settore importante, ma è la tecnica che mi interessa tantissimo, è il capital light. Cioè di fare assistenza alle imprese cercando di non assorbire il patrimonio e portare i soldi a casa – spiega ai suoi manager – Certo, abbiamo cominciato con una cosa un po’ sofisticata, che è quella del verde, perché abbiamo un problema di reputazione della banca”. Ed è qui, in fondo, il cuore di tutto: come può una banca che ha perso il 90% del valore delle sue azioni in pochi anni, che ha truccato i conti delle filiali, che ha fatto comprare ai propri correntisti obbligazioni e azioni della banca in cambio di credito, fidi e mutui – esattamente come accadeva per le banche venete – e che da anni provano invano a vendere quei titoli e che ha il management e la proprietà, al netto della vicenda del bond maltese, sotto inchiesta per associazione per delinquere, truffa, ostacolo all’attività della Banca d’Italia, false dichiarazioni, mobbing e minacce, a salvarsi dal proprio enorme problema di reputazione? “È stato veramente irresponsabile quello che è successo negli ultimi tre, quattro anni. Questa banca è un esempio di scuola di cattivo management, irresponsabile, esaltato”, conclude De Bustis. E dargli torto, in questo caso, è davvero difficile.
Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 17 dicembre 2019. Se è vero come è vero che il via libera da parte della Banca d' Italia all' acquisizione, nel 2014, della decotta Banca abruzzese Tercas, scaraventò la Popolare di Bari in un abisso che non sarebbe più riuscita a rimontare (nel giro di un anno dall' incorporazione, tra il 2015 e il 2016, i crediti deteriorati della Popolare passeranno da circa 700 milioni di euro a 1 miliardo e 400 milioni e si raddoppieranno le sofferenze, da 250 milioni a poco meno di 500), la domanda su cui si gioca in queste ore la partita politica delle responsabilità tra vigilanza e amministratori, torna ad essere una sola.
Cosa giustificò quel via libera? In altre parole, perché, nel 2014, venne rimosso il provvedimento di blocco ad altre acquisizioni bancarie adottato dalla stessa Banca d' Italia nei confronti della Popolare nel 2010? (è la vicenda di cui "Repubblica" ha dato conto ieri). La risposta, lo vedremo, è nelle mosse di un alto dirigente di Bankitalia, un catanese di 63 anni che ha trascorso la sua intera vita professionale a Palazzo Koch, fino a diventare prima Direttore Centrale per la Vigilanza bancaria e finanziaria (febbraio-dicembre 2013) e quindi capo del Dipartimento vigilanza bancaria (dal gennaio 2014 al giugno scorso). Che di nome fa Carmelo Barbagallo e che, poche settimane fa, alla fine di novembre, Papa Francesco ha chiamato in Vaticano per affidargli la presidenza dell' Aif, l'Autorità di Informazione Finanziaria antiriciclaggio della Santa Sede. Barbagallo, la Popolare di Bari, l' acquisizione di Tercas, dunque.
La ricostruzione di Bankitalia. Come sono andate le cose? Di quanto accade tra il 2013 e il 2014, la ricostruzione di Bankitalia, affidata a una lunga nota scritta, è questa: «Nel 2013 - si legge - la Popolare viene nuovamente sottoposta ad accertamenti ispettivi mirati sul rischio di credito, sulla governance aziendale, sul sistema dei controlli interni e sulle tematiche di compliance. Le verifiche mettono in luce progressi rispetto a quanto riscontrato durante l' ispezione del 2010. Viene peraltro evidenziato il permanere di alcune aree di debolezza, per il cui superamento la banca programma un piano di iniziative di rimedio ». E ancora: «La Vigilanza richiede alla funzione di Internal Audit e al Collegio Sindacale una specifica verifica sull' efficacia di questo piano. Ne emerge la sostanziale idoneità delle misure adottate nonché il rispetto della tempistica programmata. In considerazione degli interventi posti in essere e delle relazioni fornite dall' internal audit e dal Collegio Sindacale, nel giugno 2014, vengono rimossi i suddetti provvedimenti restrittivi».
Dunque, «Nel luglio 2014 la Banca d' Italia autorizza la Banca Popolare di Bari ad acquisire il controllo di Banca Tercas. Al fine di garantirne la sostenibilità, l' intervento viene accompagnato da un contributo di 330 milioni alla Banca Popolare di Bari da parte del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (Fidt)... Il coinvolgimento della Popolare nell' operazione di acquisizione di Tercas si configura come un intervento di "salvataggio" volto alla salvaguardia dell'interesse dei depositanti e al rilancio commerciale del gruppo abruzzese». A leggere la nota, una traiettoria lineare, insomma. E tuttavia, i documenti interni della Popolare di Bari cui Repubblica ha avuto accesso, danno alla storia dei rapporti tra Bankitalia e la Popolare in occasione dell' acquisizione di Tercas un giro quantomeno più complesso. Un documento in particolare: il verbale del consiglio di amministrazione della banca barese del 23 ottobre del 2013.
Perché quel giorno accade una cosa insolita. Anzi, ne accadono due. Vediamo.
Quel cda con il capo della Vigilanza. Il 23 ottobre 2013, la Popolare ancora non conosce gli esiti dell' ispezione che Palazzo Koch ha condotto a Bari tra la fine di aprile e i primi di agosto di quell' anno. Ma, alle 11 del mattino - annota il verbale del Consiglio di amministrazione - «Come da accordi precedentemente stabiliti, il Presidente (Marco Jacobini ndr .) accoglie in sala consiliare il dott. Carmelo Barbagallo... perché proceda alla lettura del rapporto ispettivo, che ha riguardato il rischio di credito, la governance aziendale, il sistema dei controlli interni e la compliance». Non è esattamente consuetudine che il direttore della Vigilanza di Bankitalia dia lettura di un rapporto ispettivo al cda della banca ispezionata. A maggior ragione se - come annota ancora il verbale del cda - è lì per informare che gli esiti dell' ispezione sono stati «parzialmente sfavorevoli » per le stesse ragioni che avevano portato al blocco del 2010 ad attività di acquisizione da parte della Popolare. Ma è quel che avviene quel 23 ottobre. E la ragione è in una singolare coincidenza. Proprio quel giorno - è ancora il verbale del cda a documentarlo - la Popolare, con una lettera inviata a banca Tercas e per conoscenza a Banca d' Italia, manifesta l' intenzione di partecipare al salvataggio dell' istituto abruzzese «per un importo complessivo non inferiore a 280 milioni di euro» e ad erogare un mutuo di 480 milioni che consenta allo stesso Istituto di estinguere il finanziamento che la Banca d' Italia aveva concesso a titolo di liquidità di emergenza.
Un mutuo a Tercas per il via libera da Palazzo Koch. La Popolare di Bari, dunque, si muove per acquisire Tercas sotto gli occhi della Banca d' Italia, in costanza del divieto di farlo (il 23 ottobre 2013 valeva ancora il blocco del 2010) e degli esiti «parzialmente sfavorevoli» dell' ispezione che aveva subito. Lo fa sotto gli occhi del direttore della vigilanza e ottiene la rimozione del blocco il 10 giugno del 2014. Dopo due passaggi. Anch' essi diciamo pure suggestivi: l' erogazione del mutuo di 480 milioni a Tercas (5 novembre del 2013). E le controdeduzioni alle osservazioni «parzialmente sfavorevoli dell' ispezione » illustrati da Barbagallo (11 novembre del 2013) che Bankitalia prenderà per buone sulla parola. Come se Bankitalia fosse costretta a scegliere il male minore. Condannare Tercas e i suoi correntisti o darle un' altra chance, accollandola all' unica banca che non è nelle condizioni di dire no. Un bel dilemma.
Patuanelli contro Bankitalia: “Non esercita funzione di vigilanza”. Antonella Ferrari il 18/12/2019 su Notizie.it. "Non esercita fino in fondo la sua funzione di vigilanza e ciò è costato il fallimento di molte famiglie" ha detto Patuanelli. Durissimo attacco di Stefano Patuanelli contro Bankitalia. “È evidente che Bankitalia non esercita fino in fondo la sua funzione, cosa che è costata il fallimento di molte banche e di molte famiglie” ha detto il ministro dello sviluppo economico ed esponente del Movimento 5 Stelle durante il suo intervento a Stasera Italia parlando del caso della Popolare di Bari. Va detto, ad onor del vero, che non è la prima volta che un ministro pentastellato manifesta forti critiche contro l’operato di Bankitalia, tuttavia non era mai avvenuto un attacco così diretto derivante da un esponente chiave dell’esecutivo come Stefano Patuanelli, il quale però non si è fermato e ha detto la sua anche sulla figura di Elio Lannutti, candidato M5s alla guida della commissione sulle banche attaccato dal Pd.
Il caso Lannutti. “Non si può discutere la sua capacità per la sua storia, la sua esperienza e la sua battaglia di una vita accanto ai truffati” ha detto Patuanelli, mentre Nicola Zingaretti non sembra essere dello stesso avviso: “Non si può dare la presidenza della commissione banche a uno come Lannutti. Bisogna prendere atto che si deve trovare un altro candidato“. Il senatore pentastellato è infatti finito al centro delle polemiche per la condivisione di un post antisemita ed è ora al centro di un nuovo caso: il figlio Alessio lavorerebbe nell’Ufficio Enti della sede di Roma della Banca Popolare di Bari. Anche Emanuele Fiano si è espresso in merito: “Di Maio deve dichiarare nero su bianco che uno così il presidente della commissione anche non lo può fare“.
La replica. A stretto giro dopo decine di post di polemiche e i no arrivati dal Pd, lo stesso Elio Lannutti ha deciso di rispondere alle critiche: “Mio figlio lavora come impiegato. Dov’è il conflitto di interessi? Non esiste. E’ solo l’ennesima macchina del fango“.
Ispezioni, sanzioni, segnalazioni alle procure i limiti di legge che frenano palazzo Koch. Pierluigi Ciocca il 18 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Gli interventi dell’istituto regolati dalla legge. Governo e parlamento sollecitati ad intervenire da palazzo Koch. E la commissione d’inchiesta non ha individuato azioni alternative anti fallimenti. Sino alla fine del 2011 non si erano avuti casi di dissesto degni di nota fra le aziende di credito italiane. Sul totale dei prestiti, le sofferenze nette ( le esposizioni verso debitori insolventi, corrette per le rettifiche di valore) erano contenute nel 2,9%, salite dall’ 1,4% nel 2007. A seguito della molto meno grave recessione del 1993, le sofferenze avevano sfiorato il 6% nel 1996. La nuova recessione del 2012- 2013 si sommava agli strascichi della precedente nell’accrescere le sofferenze fino al picco del 4,8% degli impieghi toccato nel 2015. Ciò, a differenza di quanto era avvenuto dopo la recessione del 1993, allorché la ripresa dell’economia – moderata ma più rapida di quella recente- le aveva ricondotte prima del 2000 al di sotto del rapporto pre- crisi. Nello scorcio del 2017, sebbene in sicura discesa, erano ancora pari al 3,5%. Per nove decimi le sofferenze emerse sono dovute alla crisi economica. Un numero ristretto di aziende di credito hanno ceduto, anche per incapacità, imprudenza, scorrettezza dei vertici. La misura è data dall’importo del sostegno pubblico a vario titolo dato nella crisi ai sistemi finanziari nazionali: in Italia 0,8% del Pil ( 13 miliardi di euro), nell’intera Euroarea 4,5% del Pil, sebbene gli shock recessivi sperimentati dall’economia italiana siano stati più gravi. Eppure i casi di 7 banche di provincia medio- piccole in dissesto scatenavano una ridda d’interrogativi, valutazioni contrastanti, polemiche tali da disorientare l’opinione pubblica e far rischiare un crollo di fiducia nel sistema. Per 4 di quelle 7 banche, prima che scattasse il bail- in, il ricorso al fondo nazionale di risoluzione e al burden sharing ha evitato la liquidazione atomistica e salvaguardato i depositanti e gli obbligazionisti senior, mentre per le famiglie detentrici di obbligazioni subordinate sono stati poi previsti meccanismi di ristoro. Per la maggiore di quelle sette banche è stata possibile la ricapitalizzazione precauzionale. Solo per le ultime 2 si è dovuto procedere alla liquidazione, ma secondo le regole italiane e con un sostegno pubblico volto a rendere ordinata l’uscita dal mercato. Le polemiche e le critiche, spesso demagogiche, coinvolgevano tuttavia la Banca d’Italia. La Banca veniva chiamata a dimostrare di aver fatto tutto il possibile con gli strumenti offerti dalla normativa, italiana ed europea, stante l’invalicabile limite di non sostituirsi agli organi aziendali nella gestione dell’impresa bancaria. Via Nazionale documentava di aver intensificato la vigilanza cartolare, di stress testing, ispettiva, nella descritta condizione di estrema difficoltà, ciclica e strutturale, delle imprese affidate dalle banche. Del migliaio di intermediari bancari e non bancari supervisionati dal 2007, la Banca d’Italia ne poneva in amministrazione straordinaria 75, per più di una metà risanati, e liquidando gli altri; nel 2016 ne ispezionava 200, sanzionando 372 soggetti con 45 provvedimenti; nel 2017 inviava alla magistratura oltre 1.400 segnalazioni, rispondendo a più di 5.000 richieste delle Procure. Mentre le vicende economiche e finanziarie si susseguivano, la Banca d’Italia sollecitava da Governo e Parlamento gli indispensabili interventi di struttura, e nel proprio campo dava il suo apporto (…) Alla scadenza del mandato, il Governatore Visco veniva confermato dal Capo dello Stato Sergio Mattarella e dal Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. La Commissione parlamentare d’inchiesta non precisava quali concrete azioni alternative, nel contesto dato, avrebbero evitato i fallimenti, al di là della migliore informativa agli investitori. Che è sempre opportuna per il risparmiatore poco consapevole, e compete alla Commissione nazionale sulle società e la borsa pretendere dagli emittenti passività finanziarie. ( Tratto da “La Banca d’Italia e l’economia – L’analisi dei governatori” volume V ed. Aragno)
Le mani della politica su Bankitalia, ma su Bari è inattaccabile. Antonella Rampino il 18 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Cosa è successo dal 2010. Le critiche della politica per condizionare l’istituto di via Nazionale. Infinite ispezioni alla popolare barese, spinta per cambio di management, commissariamento: ma il tesoro decide. Bankitalia allertò più volte il governo sui rischi della PopBari Commissione d’inchiesta, Pd e Iv contro la nomina del 5S Lannutti. Da cosa nasce dunque l’ennesimo attacco a una delle poche istituzioni italiane che godono di largo credito anche internazionale da parte della politica, oggi dai 5stelle, ieri dalla componente renziana del Pd, e su nella storia repubblicana fino al 1979 della messa in stato d’accusa di Paolo Baffi, e all’incarceramento del direttore generale Mario Sarcinelli, nell’Italia del peggior andreottismo? Nel testo qui in basso, tratto dall’analisi dell’operato dei governatori della Banca d’Italia da Donato Menichella a oggi, lavoro in 5 volumi in uscita dall’editore Aragno, l’economista Pierluigi Ciocca ( che mancò di divenire egli stesso governatore per l’opposizione di Silvio Berlusconi, all’epoca al governo) spiega bene le crisi bancarie partite dal 2011. Crisi di cui quella della Popolare di Bari è solo l’ultimo esempio, e che se hanno pure differenti sviluppi – sia pure in un’unica culla, la crisi economica- sembrano esser state tutte affrontate dal potere politico in un unico modo: cercando un capro espiatorio. Nel solo 2017, scrive Ciocca, la Banca d’Italia ha inviato alla magistratura oltre 1.400 segnalazioni alla magistratura, e ha risposto a più di 5.000 richieste delle Procure. Per la sola Popolare di Bari, informa una nota con la quale via Nazionale ricostruisce tutta l’attività svolta sul caso, sono state quasi cinquecento le azioni ispettive, di richiamo o di intervento, fino al commissariamento finale, oltre alle interlocuzioni con la magistratura sulle quali vige ovviamente il riserbo, e comprese tre lettere di warning al governo, e la richiesta di dimissioni del management già nel 2017. Da cosa nasce dunque l’ennesimo attacco a una delle poche istituzioni italiane che godono di largo credito anche internazionale da parte della politica, oggi dai 5stelle, ieri dalla componente renziana del Pd, e su nella storia repubblicana fino al 1979 della messa in stato d’accusa di Paolo Baffi, e all’incarceramento del direttore generale Mario Sarcinelli, nell’Italia del peggior andreottismo? Forse dal non voler riconoscere le cause delle crisi bancarie, che è poi il miglior modo per non affrontare i problemi? Proviamo a spiegare cosa è accaduto a Bari. Il Pil dell’Italia di oggi è ancora inferiore del 5% a quello precedente alla crisi del 2008: ma al Sud la perdita è pari al doppio, è del 10 per cento. Cosa ancora peggiore, la produttività del lavoro nelle imprese del Mezzogiorno è inferiore di un terzo a quello delle imprese del resto d’Italia. Come fanno a sopravvivere le imprese del Sud? Sopravvivono grazie a salari nominali inferiori del 25% a quelli del resto del Paese. Inferiori non di un terzo, ma di un quarto: significa che la bassa produttività non è compensata. I lavoratori riescono a sopravvivere, accontentandosi, perché al Sud i prezzi sono in media inferiori del 10- 15%. Ma in questo terribile quadro dell’economia meridionale, una banca che opera al Sud deve trattare con imprese ad alto rischio. Per assicurarsi da questo rischio, gli istituti di credito fanno pagare alle imprese più caro il danaro. Ma rischiano lo stesso, ovvio. La Popolare di Bari è saltata anzitutto perché ha rischiato. E perché ha rischiato male. In questo quadro, spiega in buona sostanza la nota di Via Nazionale, dal 2010 la Banca d’Italia ha effettuato infinite ispezioni in quella banca, consigliando di volta in volta prudenza, di ricapitalizzare, di fare in modo di avere capitali di riserva. E via via sempre alzando l’intensità delle indicazioni a seconda dell’aggravarsi del quadro di solidità, di cambiare il management, lanciando l’allarme al governo. Fino all’azione che è il limite dell’esercizio dei poteri di Via Nazionale stabilito dalla legge, il commissariamento. Che viene esercitato dal Tesoro, su richiesta della Banca d’Italia. Per legge: la legge bancaria del 1993 pone ovviamente dei limiti all’azione di Banca d’Italia, ed è prescrittiva. Basta leggere il Titolo III del Testo Unico bancario, sulla Vigilanza: all’articolo 70 dice che “Il ministro del Tesoro, su proposta della Banca d’Italia, può disporre con decreto lo scioglimento degli organi amministrativi delle banche” in 3 casi: per gravi irregolarità e violazioni di leggi; per gravi perdite del patrimonio; in caso di scioglimento chiesto dalla banca stessa. Il caso della Popolare di Bari è il secondo, le gravi perdite patrimoniali. Per l’articolo 80 del testo unico, se l’amministrazione straordinaria non riesce a ricondurre la banca a una condizione di normalità, scatta la liquidazione coatta: il fallimento. Lo scenario peggiore, per la banca stessa e per il contagio possibile a tutto il sistema creditizio, che si cerca per l’appunto di evitare attraverso il commissariamento. Perché la Banca d’Italia non è intervenuta, a che serve la vigilanza se non ferma il tracollo di una banca?, tuona la politica di governo ( i CinqueStelle) come d’opposizione ( Fratelli d’Italia e Lega). Beh, la risposta sarebbe semplice, se si sapesse di cosa si sta parlando: la supergestione delle crisi da parte delle banche centrali non esiste in nessuna parte del mondo per la semplice ragione che le banche sono imprese. Lo dice anche la legge bancaria italiana, all’articolo 10 che definisce cosa è l’attività bancaria: “La raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria. Essa ha carattere d’impresa”. Per dirla come è stata costretto a dirlo, con disarmante semplicità, Ignazio Visco davanti alla Commissione sulle banche che voleva inquisirlo ed è finita in una bolla di sapone, “la Banca d’Italia non ha i poteri della magistratura”. Né può sostituirsi al governo delle singole banche. Il quadro, che dovrebbe essere chiaro, sembra non esserlo affatto per la politica italiana di oggi. Dovrebbe esser chiaro non solo perché chi ha responsabilità istituzionali o è un eletto in un’istituzione dovrebbe conoscere le leggi e cosa è una banca centrale. Dovrebbe esser chiaro perché a questo almeno dovrebbe esser servita la Commissione d’inchiesta sulle banche ( Renzi in persona insistette perché non fosse una semplice Commissione d’indagine, ma avesse gli stessi poteri della magistratura), finita poi nel nulla ( a parte accertare che Banca d’Italia non aveva alcuna responsabilità nei fallimenti delle banche). Adesso, di Commissione se ne vorrebbe fare un’altra, ed è di queste ore l’appello di Pd e renziani a Ennio Lanutti perché rinunci a presiederla, dopo che sembra essersi evitata la presidenza di Gianluigi Paragone. Ma perché si tiene tanto a duplicare il frastuono sul nulla? I giornali hanno riportato che il punto è la nomina dell’ex ragioniere generale dello Stato Daniele Franco a direttore generale della Banca d’Italia, in sostituzione di Fabio Panetta in partenza per la Bce. Ebbene, in ballo c’è molto di più. Poiché il governatore Visco è settantenne, non è possibile che eserciti un ulteriore mandato come governatore, e il direttore generale che si nominerà adesso sarà il futuro governatore. Le mani della politica sulla Banca d’Italia stavolta rischiano di essere perfino più lunghe del solito. E sono le mani di Luigi di Maio, di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni che l’altro giorno tuonava “Banca d’Italia deve essere sotto il controllo del governo”. Come fece un solo capo di governo nella storia d’Italia: Benito Mussolini.
Francesco Bonazzi per “la Verità” il 17 dicembre 2019. La specialità di Vincenzo De Bustis Figarola, senza la «s» davanti, è quella di tornare sul luogo del delitto. Che nel suo caso sono le banche, anche se non fa il rapinatore. Lui le dirige: Deutsche bank Italia, Banca 121, Banca del Salento, Monte Paschi di Siena e Popolare di Bari. Ma ciò che oggi ha un valore di sistema, nella sua parabola, è che ce lo fanno tornare. A cominciare da quella Banca d' Italia così lesta a giurare che anche sul disastro della più grande banca popolare del Sud «le procedure sono state corrette». Come le altre volte, come per Cariferrara, Banca Etruria, Carichieti, Banca Marche, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Carige, Monte Paschi, per restare solo agli ultimi cinque anni. Ma a Bari, chi ha fatto tornare De Bustis è stata solo formalmente l' azionista di riferimento, perché sul banchiere che nella seconda Repubblica s' illustrò come «banchiere di Massimo D' Alema» ci fu la fondamentale moral suasion di via Nazionale, con la scusa che «solo lui conosce quel groviglio». Il banchiere barese, cuore a sinistra e portafoglio anche, nella primavera del 2015 sembrava professionalmente finito. Ad aprile aveva perso la poltrona di direttore generale della Popolare di Bari, che aveva guidato una prima volta dal settembre del 2011. Non aveva per nulla sfigurato, perché per uno con il suo curriculum di banchiere d' affari cresciuto con i tedeschi quella popolare era un giocattolino. Ma la Bari è un finto istituto cooperativo, perché dal 1978 è sotto controllo di una famiglia, guidata da Marco Jacobini e dai suoi figli. Una famiglia dove i figli non vanno d' accordo con il padre, decisamente ingombrante, ma probabilmente più capace di loro. De Bustis fa un buon lavoro, ma il presidente vede bene di farsi appioppare, per compiacere Bankitalia, la disastrata Tercas e la Caripe. Credeva che fosse una polizza vita per avere vita facile con la Vigilanza. I conti ne risentono e De Bustis se ne va. A Roma, fa varie consulenze e nel 2016 spunta nella sede di via Boncompagni dell' immobiliarista e finanziere catanese Fabio Calì, legato a Denis Verdini. Obiettivamente, visto in un ufficio buio da Calì, De Bustis sembrava al capolinea. Nel 1999 aveva scatenato un' asta per la sua «banca di Internet», Banca 121 (da leggersi anche all' inglese «One to one») che guidava insieme alla fidanzata Rossana Venneri, alla quale parteciparono banca Mediolanum, Sanpaolo di Torino e Monte dei Paschi, ovvero la banca dei compagni della quale invece oggi è azionista tutto il popolo italiano noi grazie al 68% comprato da Pier Carlo Padoan. Il prezzo di Banca 121 è gonfiato dalla moda e dalla straordinaria capacità di marketing di De Bustis, e la partita la vince Rocca Salimbeni per 1 miliardo e 300 milioni. La banca aveva a stento 100 sportelli e quasi tutti in Puglia. Forse senza D' Alema a Palazzo Chigi, una simile stangata non sarebbe riuscita. E la controprova è che le banche non legate alla politica mollano la presa. De Bustis, ovviamente, utilizza l' affare per scalare Siena e diventa direttore generale del compratore. Lui con Banca 121 aveva fatto vedere il proprio genio e un pizzico di megalomania, con il famoso spot di Sharon Stone, prodotti super innovativi (e rischiosi) venduti anche ai contadini e con un pressing ossessivo sulla rete delle agenzie. Tecniche di vendita che gli valsero un sacco di guai giudiziari, dai quali uscì comunque pulito. Insomma, nel 2015, quando lascia Bari, a 65 anni, il meglio sembra alle sue spalle. Ma poi, ecco il colpo di scena. A fine 2018, da Casa Jacobini si dimette il banchiere varesotto Giorgio Papa, solido curriculum al Banco Popolare (agli amici parlerà di «esperienza da incubo»), anche per i dissidi continui nella famiglia che vuole ancora comandare nonostante gli azionisti non riescano neppure a vendere i titoli della banca, che purtroppo per loro non è quotata in Borsa, ma negoziata al mercato secondario. In pratica, il valore delle azioni è poco più che virtuale e per venderle i correntisti devono mettersi in fila per mesi. De Bustis, profeta della banca virtuale, torna come amministratore delegato sotto Natale, con il beneplacito della Banca d' Italia. «Solo lui può riportare la pace tra gli Jacobini», si dice a Roma. E solo lui sa come gestire quel groviglio di prestiti agli amici e agli amici degli amici, ma sotto la retorica stucchevole della «banca del territorio» e della banca «popolare». Il fabbisogno finanziario della Popolare di Bari cresce in 13 mesi da 350 milioni al miliardo del decreto di domenica sera. Con il suo immancabile sigaro, la camicia bianca e le bretelle da banchiere di una volta, il compagno De Bustis fa credere a tutti di essere chino sul «piano industriale», quel malloppo di slide e banalità in virtù del quale ci si fa dare «nuova finanza». In realtà, la magistratura scopre anche altro. Nei giorni scorsi salta fuori che De Bustis è indagato dalla Procura di Bari per alcune operazioni che hanno fatto scattare le segnalazioni dell' Antiriciclaggio, con triangolazioni sospette tra la maltese Muse Ventures, che compra titoli della Popolare Bari, e la lussemburghese Naxos Sif Capital Plus. Il dato che più colpisce, in attesa che la magistratura chiarisca meglio i suoi sospetti, è che De Bustis si metta a fare cose già fatte in passato e che la somma totale (presunta) delle operazioni spericolate arrivi a stento a 50 milioni. Con i quali avrebbe salvato giusto una Bcc da dieci sportelli e non un banca che ha costretto il governo a metterci 1 miliardo.
Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 18 dicembre 2019. C'è un uomo che sa. Che sa tutto. Della Banca Popolare di Bari, dei suoi bilanci taroccati, dei quattro uomini che l' hanno portata per mano nell' abisso, salvo ora far finta o provare a far credere che fossero divisi tra cavalieri bianchi e neri: il patriarca della banca Marco Jacobini, i figli Luigi e Gianluca e l' amministratore delegato Vincenzo de Bustis Figarola. L' uomo che sa è una persona per bene. Si chiama Luca Sabetta. E la Popolare di Bari gli ha rovinato la vita, distruggendogli una carriera, togliendogli la serenità e il sonno. Luca Sabetta è un professionista dell' amministrazione bancaria, con vent' anni di carriera immacolata alle spalle. Doveva essere l'"utile idiota" necessario, nell' autunno del 2013, a convincere - come in effetti avvenne - la Vigilanza di Bankitalia che i rilievi sulla gestione dell' Istituto, a cominciare dall' uso clientelare delle linee creditizie, dalla inesistente gestione del rischio nell' impiego del capitale, avessero finalmente trovato una soluzione. O, comunque, a consentirle di registrare che una discontinuità nella governance della banca c' era stata. Luca Sabetta doveva essere il "Chief Risk Officer", il capo di un' area rischio degna di questo nome, che Bari aspettava come un Godot per chiudere la partita con Palazzo Koch (sede di Bankitalia) e aprire - come in effetti avvenne - le porte all' acquisizione di un altro carrozzone bancario: l' abruzzese Banca Tercas. Le cose, in quel 2013, andranno molto diversamente. Perché Luca Sabetta è una persona integra. Scopre, dai carteggi interni della Banca, che la Popolare è una finzione. E, dunque, tre anni fa, dopo essere stato demansionato, allontanato e denunciato per tentata estorsione dalla Popolare, trova la forza e il coraggio di dire la verità. Di rompere la crosta di omertà e ricatti che tutto tiene insieme. Di salire nell' ufficio del Procuratore aggiunto di Bari, Roberto Rossi, e mettere a verbale la storia di cui oggi si cominciano nitidamente a vedere i contorni. E che è solo all' inizio. Una storia che ora vale ai tre Jacobini e a De Bustis - oltre alle contestazioni di falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza - anche un' iscrizione al registro degli indagati per maltrattamenti, lesioni personali, estorsione. Una storia - per come Repubblica è in grado di ricostruire - andata così. Il Godot di Verona È l' estate del 2013. La Popolare, ormai lo sappiamo, oltre ad essere gravata dal blocco all' acquisizione di altri istituti di credito, è alle prese con una nuova ispezione di Bankitalia che promette di concludersi come le precedenti. Con la censura della governance della banca. Vincenzo De Bustis, in quel momento vice direttore generale, ha un' idea. Conosce (per aver lavorato con lui in Mps e Banca 121) un fior di amministratore che è a Verona, al "Banco Popolare Veneto", con 20 anni di esperienza. Gli presenta i tre Jacobini, padre e figli. Lo lusinga spiegandogli che, di fatto, gli darà in mano le chiavi della Popolare. Perché non solo sarà il nuovo "Chief Risk Officer", il capo dell' Area rischio. Ma avrà poteri di veto nei confronti del Consiglio, della Presidenza e dell' ad in tutte le decisioni che dovessero andare a incrociare scelte strategiche nella gestione del capitale - linee di credito, acquisizioni, investimenti in fondi mobiliari e immobiliari - che non lo convincono. Insomma, Sabetta, che è una persona per bene, si convince che a Bari abbiano davvero bisogno di lui non solo per risanare una banca ma ricostruirne la reputazione. Si sbaglia. E lo capisce presto. Sabetta chi? Luca Sabetta viene assunto alla Popolare il 18 ottobre del 2013. La data non è casuale. Come ormai sappiamo ( Repubblica lo ha raccontato ieri), cinque giorni dopo, il 23 ottobre, in una singolare seduta del Cda cui partecipa Carmelo Barbagallo, allora capo della Vigilanza di Bankitalia, la Popolare, mentre viene informata, delle criticità che continua a presentare la sua governance, avvia con Palazzo Koch, pur essendo inibita dal farlo, il carteggio che segnala la sua intenzione di accollarsi la decotta Tercas, per cui Bankitalia cerca acquirenti. Bene, in quel 23 ottobre 2013, la nomina di Sabetta è oro. Ma Sabetta, che è uomo intelligente, capisce immediatamente che qualcosa non va. Gli hanno raccontato che è l'uomo con in mano il destino della banca. Ma, a Bari, si ritrova, senza neppure essere stato presentato al Cda, in un ufficio dove non hanno la più pallida idea di chi diavolo sia. Soprattutto, dove si ritrova tra i piedi, come vice, tale Antonio Zullo. Un uomo di Marco Jacobini. Quello che fino al giorno della sua assunzione ha gestito l' area "rischio" con i metodi della casa Jacobini. Come, ad esempio - ed è la prima cosa che inquieta Sabetta - alcune triangolazioni su fondi mobiliari che vedono la Banca Popolare, contemporaneamente, partecipare ad un Fondo e finanziare un terzo soggetto che quel Fondo vuole acquistare. Un conflitto di interesse grande come una casa. Naturalmente, c'è dell' altro. Sabetta scopre l' intenzione della Banca di acquisire Tercas a giochi ormai fatti. E quando chiede lumi, qualche straccio di numero, si ritrova tra le mani un power-point buono per le slide di un ufficio stampa. Il 15 novembre del 2013, dieci giorni dopo che la Popolare ha concesso a Tercas un mutuo in grado di rientrare con Bankitalia del prestito a titolo di liquidità di emergenza, Sabetta viene convocato De Bustis. L'unico che davvero conosce. Lo stesso cui intende dire che l' acquisizione di Tercas - anche solo sulla scorta dei pochi numeri che è riuscito a mettere insieme in meno di due settimane di lavoro nel suo ufficio prigione - è una follia che porterà la Popolare sugli scogli. L'appuntamento è nella casa che abita De Bustis quando è Bari. E l'incontro è una catastrofe. De Bustis, con fare sornione, gli annuncia che per lui la sua carriera di Chief Risk Officer alla Popolare è finita. A neppure un mese di distanza da quando è cominciata. Che per lui ha pensato a un nuovo incarico. Quello di Responsabile Finanza e Mercati di Tercas, il carrozzone che Popolare sta per acquisire e che Sabetta vede come la peste. È l'inizio della fine. Sabetta lo sa e comincia a registrare di nascosto i suoi colloqui con De Bustis. Prove a futura memoria di quel che accade nel retrobottega della Banca. La punizione e l'allontanamento Sabetta a Tercas non andrà mai. Ma la storia con la Popolare è finita non appena cominciata. Gli Jacobini e De Bustis lo parcheggiano dove non possa fare danni e soprattutto dove non possa più ficcare il naso nel cuore della banca. A gennaio 2014, diventa amministratore delegato della PBCF, una società satellite della Popolare. Dove proverebbe anche a lavorare, ma dove non c' è altro che gli venga fatto fare se non guardare il soffitto dalla mattina alla sera. Se ne ammala. E, nel dicembre del 2015, arriva il benservito. La Popolare gli contesta alcune assenze per malattia e avvia la procedura di risoluzione del rapporto. Nel 2016, al Procuratore aggiunto Roberto Rossi viene annunciata una visita.
Ilario Lombardo per “la Stampa” il 18 dicembre 2019. Luigi Di Maio è il primo a pensare quello che ancora non può dire: che Elio Lannutti non sarà mai il presidente della commissione d' inchiesta sulle banche. Non lo sarà per un semplice motivo che il capo politico del M5S lascia filtrare nella formula delle fonti anonime: «Il nome del presidente della commissione sarà frutto di un accordo di maggioranza». E siccome in maggioranza ci sono Pd, Italia Viva e Leu, tutti e tre contrari alla nomina di Lannutti, l'aritmetica della politica vuole che il senatore del M5S non siederà sullo scranno bicamerale che nella scorsa legislatura era occupato da Pier Ferdinando Casini. Decisione che era attesa per domani e che è stata prudentemente rinviata. Se dovesse spuntarla, ottenendo 21 voti necessari tra i membri della commissione, tra i quali quelli della Lega che si è detta disponibile a votarlo, vorrebbe dire mettere la parola fine alla coalizione tra M5S e centrosinistra. Di Maio non vuole correre questo rischio. Ecco perché, alla luce dell'intervista rilasciata ieri alla Stampa da Lannutti, in cui il grillino chiama in causa il capo politico e annuncia che non si ritirerà dalla corsa per la presidenza, il leader è costretto a placare la rivolta degli alleati e a rassicurarli. Dal suo staff confermano che non ci sarà nessuna difesa a oltranza del senatore da parte di Di Maio, pur nel rispetto dell' autonoma decisione del gruppo parlamentare, quei colleghi della commissione Finanze di Palazzo Madama che lo avevano scelto all'unanimità e che ancora ieri lo hanno difeso con una nota . Una difesa che è stata rinforzata dalle parole del ministro Stefano Patuanelli: «È il più adatto a guidare la commissione». E Patuanelli è l'autore con il leghista Massimiliano Romeo della legge di riforma di Bankitalia, a cui dedica un riferimento certo non tenero: «È evidente che nella vigilanza la Banca non esercita fino in fondo la sua funzione», e questo «è costato il fallimento di molte banche». A nulla è servita la questione di inopportunità fatta emergere dai parlamentari Pd sul noto tweet antisemita che riprendeva il falso storico dei Savi di Sion. Né che sia emerso che il figlio di Lannutti lavori proprio in una sede romana della Banca Popolare di Bari, l'istituto appena commissariato che ha costretto il governo a un intervento d'emergenza da un miliardo di euro. «Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo gigantesco imbarazzo» chiede la sottosegretaria dem Alessia Morani. «C'è evidentemente un conflitto di interessi, ci sono figure più efficaci» è il commento, tra gli altri, di Nicola Fratoianni, leader di Si. Lannutti si trincera dietro una reazione rabbiosa: «Mio figlio è un semplice dipendente, non c'è alcun conflitto di interessi, è macchina del fango». Lo fa all'uscita dell' Hotel Forum di Roma, dove era andato a incontrare Beppe Grillo accompagnato da Antonio Di Pietro. Da quello che si è ricostruito, il comico genovese avrebbe dato solidarietà e sostegno al senatore, specificando però di non poter fare molto, perché «deciderà la maggioranza in Parlamento». L'ex pm ed ex leader di Italia dei Valori entra invece in questa storia nel nuovo ruolo di avvocato, ma anche un po', dice, da «vecchio zio del M5S». «Mi ha chiamato lui - ci spiegava Lannutti lunedì sera - e ha detto "Elio ma perché non quereli quelli che dicono che sei antisemita?". Da giornalista non mi pareva carino querelare i colleghi. Però ora basta». Sono trascorsi sette anni da quando Lannutti ruppe con Di Pietro con una lettera che cominciava così: «Caro Antonio, io con te ho chiuso; non condivido i tuoi attacchi al Pd, alle istituzioni e primo tra tutti al presidente Napolitano; vuoi scavalcare a destra Grillo». Era il 2012. Curioso che i destini di tutti e tre tornino a incrociarsi con un capovolgimento dei ruoli. Grillo, che ha messo da parte il bazooka al vetriolo usato contro Napolitano e Pd, spinge Di Maio verso sinistra; Lannutti, diventato senatore di Grillo paga i tweet contro il filantropo ebreo Soros e le Ong con affermazioni degne di un certo sovranismo di destra. Di Pietro fa quello che gli riesce meglio: mescola il lavoro della giustizia alla politica: «Difendo l' onore di Lannutti. Piuttosto che fare al più presto questa commissione hanno paura della sua preparazione professionale».
Valentina Errante per “il Messaggero” il 18 dicembre 2019. Ventiseimila investitori avevano chiesto di rientrare in un profilo prudente, ma solo in 300 casi la Popolare di Bari, al momento di piazzare le proprie azioni e obbligazioni, ha limitato i rischi. È solo una delle tante irregolarità che emerge dalla relazione degli ispettori Consob che, da giugno ad ottobre 2016, hanno verificato le modalità di immissione dei titoli nel 2014 in vista della ricapitalizzazione. Dagli atti emerge come la banca abbia considerato parte del portafoglio di investimenti dei clienti anche i depositi bancari, come abbia bloccato la possibilità di modificare i profili di rischio da 360 giorni a 999 e indotto gli investitori a vendere titoli sicuri. Sul tavolo ci sono anche le conclusioni degli 007 di Bankitalia, che hanno verificato le esposizioni più rischiose, come quella del gruppo Parnasi, l'imprenditore finito in carcere che avrebbe voluto costruire lo stadio della Roma. E dopo il commissariamento, spunta anche un audio che la Procura ha acquisito: una conversazione del 10 dicembre tra l'ex presidente Gianvito Giannelli e l'ex ad Vincenzo De Bustis, indagato, che descrive la drammatica situazione dell'istituto. Il grado di conoscenza delle obbligazioni nel questionario riservato alla clientela, spiega la Consob allora presieduta da Giuseppe Vegas, era contenuto in un'unica domanda riferita genericamente a «obbligazioni non di Stato, obbligazioni strutturate, obbligazioni subordinate». Si legge: «L'obiettivo di investimento di tipo conservativo era associato solo a 300 clienti, benché oltre 26 mila (più della metà del totale) avessero dichiarato espressamente, nelle domande relative agli obiettivi di volere prioritariamente proteggere il capitale». Nella gamma di offerte e investimenti viene proposto alla clientela, in partnership con il gruppo Intermarket Diamond Business (Idb), l'acquisto di diamanti certificati; l'attività, avviata a ottobre 2015 ha portato alla sottoscrizione di 133 contratti per 2,8 milioni, ma a ottobre 2016 il cda approva la risoluzione anticipata dell'accordo con Idb e la stipula, in sostituzione, con Diamond Private Investment, che si impegna a investire 500 mila euro all'anno in azioni della BpB. Per valutare i profili la banca considerava anche le movimentazioni dei conto corrente. Annotano gli ispettori: «Il controllo di rischio puntuale prevedeva il raffronto tra il grado di rischio sintetico dello strumento finanziario con il profilo di rischio complessivo del cliente. La singola operazione veniva ritenuta adeguata se il totale delle attività investite era costituito in prevalenza da strumenti finanziari con rischio pari o inferiore a quello assegnato al cliente». E ancora: «Nella determinazione del portafoglio, oggetto di tale valutazione, venivano inclusi anche i depositi cash, ad esempio le giacenze di conto corrente, considerati strumenti d'investimento di tipo monetario e, dunque, a rischio basso». Risulta che il 22% dei clienti che nel 2014 ha contribuito alla ricapitalizzazione acquistando i titoli della Bpb «aveva sottoscritto una o più operazioni di disinvestimento per creare le disponibilità. E tra i disinvestimenti ci sono anche titoli sicuri come quelli di Stato. «In particolare - annota Consob - la provvista proveniente da disinvestimento, poi utilizzata per la sottoscrizione dell'aumento di capitale, ammonta a 135 milioni di euro, pari al 23% del totale collocato (500 milioni)». Sono invece gli ispettori di Bankitalia a sottolineare: «Nel governo di alcune delle principali relazioni creditizie pur prendendo atto della più prudente impostazione seguita negli ultimi dodici mesi (sotto la guida dell'ex ad Giorgio Papa, ndr), si rilevano profili di debolezza dovuti alla mancata definizione da parte del cda di chiari indirizzi su tempi e modalità di rientro dalle esposizioni e una gestione improntata a tolleranza relativamente ai gruppi Maiora, Parnasi nonché Barietitrice srl. «Quando sono arrivato la prima volta c'era un signore con i capelli bianchi a capo della pianificazione e controllo, a cui chiesi di vedere i dati delle filiali. Tutti truccati». Così parla De Bustis nell'audio acquisito dai pm, che hanno aperto l'ennesimo fascicolo sulla Popolare. L'ex ad aggiunge: «È stato veramente irresponsabile quello che è successo negli ultimi tre, quattro anni. Questa banca è un esempio di scuola di cattivo management». E il credito «è stato la palla di piombo che ha distrutto il patrimonio» della banca. «Alla fine sarà la distruzione, 800-900 milioni». Di fronte a tutto questo «un piano di ristrutturazione è imprescindibile, Bankitalia è con noi», argomenta sottolineandone l'importanza anche di fronte all'Ue. E a tre giorni dal commissariamento, l'ex presidente Giannelli assicura che «non c'è rischio» perché «c'è un piano industriale serio che prevede gli interventi di investitori istituzionali, una parte pubblica e una parte privata, cioè il Fondo interbancario, con un percorso light, non stiamo parlando di Genova, passata per il commissariamento, e meno che mai delle banche venete». Un «percorso di messa in sicurezza» che «è assistito dalla Vigilanza», sarà «molto breve per i primi passaggi, penso che si chiuderà prima di Natale».
DAGONEWS il 18 dicembre 2019. Come abbiamo anticipato in un ''flash'', ci sono tre parlamentari di Italia Viva che hanno annusato l'aria di un rientro nel Pd, temendo di finire come tante piccole Eva Braun nel bunker in cui si è cacciato Renzi, tra cause civili sparate alla cieca contro i giornalisti, querele selvagge, e attacchi alle istituzioni. Una in particolare, per cui Renzi si sta godendo una certa vendetta in questi giorni tumultuosi: Bankitalia. In un mondo dove persino il presidente degli Stati Uniti finisce sotto impeachment per una telefonata al presidente ucraino (di cui all'opinione pubblica americana non frega una mazza, ma vabbè), i vertici di via Nazionale sono come il profeta musulmano, il solo menzionarne il nome garantisce scomunica a vita, mani tagliate e dannazione eterna. Questo riflesso condizionato nasce ovviamente dai fattacci di 40 anni fa, ovvero dall'arresto pretestuoso di Baffi e Sarcinelli, quando la politica disponeva della banca centrale (per un ripasso, leggere qui: Proprio oggi Giulio Tremonti ha ricordato come nel luglio 2004 fu accompagnato alla porta del governo Berlusconi II (2001-2006) e sostituito con il direttore generale del Tesoro Domenico Siniscalco, reo di aver chiesto conto a Bankitalia del crac Parmalat. Poi Siniscalco si dimise quando il suo governo non appoggiò la richiesta di dimissioni per Fazio (aridanghete con via Nazionale). Renzi ha assaggiato l'amara medicina che può dispensare palazzo Koch quando ha visto tutte le sue transazioni finanziarie degli ultimi anni spiattellate sui giornali: l'Antiriciclaggio di Banca d'Italia ha segnalato le operazioni sospette alla Guardia di Finanza, che a sua volta ha allertato i magistrati. Tutta colpa della campagna durissima condotta da Renzi durante il rinnovo del mandato di Visco. Una posizione legittima, che oggi si potrebbe anche definire sacrosanta visto cosa è successo con la Popolare di Bari, però portata avanti con i metodi arroganti che gli sono costati il governo e i consensi politici. Il tallone d'Achille di Renzi resta sempre quello: l'idea può anche essere giusta, ma l'esecuzione è spesso tremenda, da spaccone, e riesce a far coalizzare tutti gli altri e paradossalmente a rafforzare quei politici, manager, boiardi, che avrebbe voluto sostituire. Banca d'Italia ha passato sostanzialmente indenne la ''risoluzione'' delle quattro banche del famigerato decreto del governo Renzi (tra cui Etruria) e i crac veneti. Stiamo parlando dello stesso istituto che consigliava a Etruria di fondersi con la Popolare di Vicenza, che accoglieva il vignaiolo Zonin come fosse un genio della finanza, che per evitare il tracollo di Tercas (decisamente più ''assorbibile'' rispetto alla popolare barese) ha deciso di legare quel peso al collo di Jacobini – un altro che con De Bustis era accolto con tutti gli onori a via Nazionale – così da portare a picco entrambe.
Gianni Barbacetto per “il Fatto quotidiano” il 18 dicembre 2019. Esattamente 40 anni fa. Era il 24 marzo 1979 quando scattò il più violento degli attacchi mai visti all' indipendenza della Banca d' Italia. Mario Sarcinelli, allora vicedirettore generale e responsabile della Vigilanza, fu arrestato e portato in carcere. Il governatore, Paolo Baffi, evitò la cella solo per la sua età avanzata. C' è chi ricorda questa aggressione ai vertici di Bankitalia per paragonarla a ciò che succede oggi, con il governo Cinquestelle-Lega che non ha riconfermato Luigi Federico Signorini come vicedirettore generale. Quarant' anni fa a muoversi fu la Procura di Roma, su cui aleggiava il potente influsso di Giulio Andreotti e del suo gruppo di potere. Il pubblico ministero Luciano Infelisi e il giudice istruttore Antonio Alibrandi incriminano Baffi e Sarcinelli per interesse privato in atti d' ufficio e favoreggiamento: per non aver trasmesso all' autorità giudiziaria un rapporto ispettivo del giugno 1978 sull' attività del Credito industriale sardo, banca che aveva largamente finanziato il gruppo chimico Sir dell' imprenditore Angelo Rovelli. Le accuse ai due massimi dirigenti di Bankitalia erano pretestuose: non avevano alcun obbligo di inviare ai giudici quel documento e furono completamente prosciolti nel 1981, quando fu accertata l' assoluta infondatezza dell' incriminazione. Il blitz della Procura romana aveva ben altri obiettivi, come documenta anche l' ultimo libro di Giuliano Turone, Italia occulta (Chiarelettere): punire la Banca d' Italia per il suo atteggiamento rigoroso nei confronti delle banche e delle operazioni condotte in quegli anni dagli uomini protetti da Giulio Andreotti e dalla sua cerchia. Il 5 settembre 1978, Sarcinelli era stato convocato d' urgenza dal braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Era appena tornato da New York, dove aveva incontrato riservatamente un Michele Sindona già ricercato per bancarotta fraudolenta. Sindona era latitante, sottoposto da tempo a una complessa indagine della Procura di Milano, eppure erano andati a trattare con lui, negli Stati Uniti, anche lo stesso presidente del Consiglio Giulio Andreotti e il ministro del Lavoro Gaetano Stammati. Quest' ultimo aveva in comune con Sindona l' appartenenza alla loggia massonica segreta P2 guidata dal Maestro Venerabile Licio Gelli. Di ritorno dall' incontro newyorkese, Evangelisti sottopone a Sarcinelli un piano di salvataggio per le banche sindoniane, di fatto a spese dell' erario: Sarcinelli ascolta, capisce e giudica il piano "improponibile". Erano tempi complicati. Cinque mesi prima, il 17 aprile 1978, Bankitalia aveva mandato i suoi ispettori presso il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (anch' egli iscritto alla P2 ), in cui erano state rilevate numerose irregolarità, subito segnalate al giudice di Milano Emilio Alessandrini. Sotto osservazione della Vigilanza, già dal 1977, era anche l'Italcasse, l'istituto di credito delle Casse di risparmio italiane, che poi "salta" nel novembre 1979, quando diciannove società del gruppo Caltagirone sono dichiarate fallite e vengono emessi mandati di cattura per Gaetano Caltagirone e i suoi fratelli Camillo e Francesco. Sindona, Calvi, Caltagirone: tre campioni del sistema andreottiano, coacervo armonioso di politica e affari consustanziale alla massonica loggia di Gelli. Tre personaggi del teatro italiano del potere assai disturbati dal rigore di una Banca d' Italia che vigila e controlla, valuta e analizza, segnala alla magistratura (quella milanese, non il romano "porto delle nebbie" degli anni Settanta e Ottanta) e blocca i progetti "improponibili" (come quelli che puntano a salvare il bancarottiere Sindona). Per piegare quella Banca d' Italia scatta la magistratura romana, che fa eseguire due arresti senza alcuna base giuridica. È poi il presidente del Consiglio Giulio Andreotti in persona che - andreottianamente - s' incarica di sbrogliare la matassa che aveva fatto ingarbugliare: scrive di suo pugno una assai anomala lettera al giudice Alibrandi, proponendogli la revoca della sospensione dall' ufficio che Alibrandi aveva disposto per Sarcinelli, garantendo però che "al dottor Sarcinelli, qualora riammesso in servizio, sarebbe affidato un settore diverso da quello cui si collega l' indagine giudiziaria in corso". Insomma - conclude Turone - è "personalmente Andreotti a garantire il rispetto della pesante e ricattatoria condizione imposta alla banca centrale: mai più Sarcinelli al settore della Vigilanza". Il 5 maggio 1979 ottiene la libertà provvisoria. Baffi si dimette da governatore il 16 agosto. Il commissario liquidatore delle banche di Sindona, Giorgio Ambrosoli, era stato ucciso un mese prima, la notte dell' 11 luglio 1979, dal sicario italoamericano Joseph Aricò pagato dal bancarottiere. Il 29 gennaio 1979 era toccato ad Alessandrini, ammazzato da un commando di Prima Linea. Nel 1982 fallisce il Banco Ambrosiano. Nello stesso anno viene sciolta la P2 , dopo che la Commissione parlamentare d' inchiesta presieduta da Tina Anselmi conclude che la loggia è una "organizzazione criminale" ed "eversiva". Difficile paragonare questa vicenda che puzza di massoneria e polvere da sparo con quanto accade oggi. Non solo perché un arresto ingiustificato è imparagonabile a una eventuale mancata riconferma, ma soprattutto perché la Banca d' Italia di Baffi e Sarcinelli fu duramente "punita" perché svolgeva bene il suo compito d' istituto, mentre la Bankitalia di Ignazio Visco e Signorini è sotto accusa, al contrario, per "non aver visto né sentito" e per aver gestito in modo almeno inadeguato l' ultima crisi delle banche italiane, da Montepaschi alla Popolare di Vicenza.
Dagospia il 18 dicembre 2019. Da “Circo Massimo - Radio Capital”. A Bari, con il caso di Popolare, è in corso l'ennesima crisi bancaria. "Crisi bancarie ce ne sono sempre state, nella storia del nostro e di altri paesi. Più o meno gravi, più o meno previste, più o meno segrete", dice Giulio Tremonti a Circo Massimo, su Radio Capital. Ora si lavora a una Banca del Sud: "Nel settembre del 2004 ero fuori dal governo perché avevo detto qualcosa che non andava bene sulla Banca d'Italia. Il giorno dell'inaugurazione della Fiera del Levante scrissi un articolo intitolato 'La banca che il Sud non ha': era evidente che il sistema bancario del Sud non stava in piedi ed era necessario fare qualcosa per creare una grande banca del Sud. Il mezzogiorno d'Italia è l'unica grande regione d'Europa che non ha una banca propria, specifica, autoctona. Le aveva, ma le ha tutte perse per varie ragioni. Io volevo fare la Banca del Sud come prevenzione, era in tempo; adesso la vogliono fare retroattiva, come espediente di propaganda politica. La soluzione ex post non è seria, è una cosa estremamente sbagliata". C'è chi accusa Bankitalia per mancata vigilanza. E a questo proposito l'ex ministro dell'Economia critica l'Europa: "Non è il caso specifico di oggi, ma va aggiunto che enormi problemi li ha creati anche l'Europa, perché ha accentrato la vigilanza, che era uno strumento per gestire le situazioni di crisi. Non è il caso di Bari, ma la gestione delle crisi e del risparmio fatta dalla BCE è stata oggettivamente molto discutibile, non tanto in Germania o altrove quanto in Italia. La crisi che c'è adesso sarà molto più grave", continua, "coi tassi zero, una delle ultime invenzioni europee. I tassi zero portano il sistema bancario a un'inevitabile crisi, sono uno degli enormi problemi che arriveranno, non solo al Sud o in Italia ma anche altrove. È una bomba a orologeria". Tremonti poi definisce "affidabile" la struttura di Bankitalia, ma specifica: "A volte nei vertici si creano illusioni di onnipotenza, in altri casi c'è stata connivenza, ma non è la caratteristica in sé della Banca d'Italia. Nell'insieme ci sono molte cose su cui ragionare. Ma è il momento di guardare avanti, non di fare processi". E la nuova commissione sulle banche? "L'ultima commissione è come uno che c'ha gli scheletri nell'armadio e parla dell'armadio: questo è stato il risultato finale, e se vuole un capolavoro politico", dice Tremonti, "Quella è una commissione sul passato e doveva dare indicazioni generali, che non ha dato. Adesso c'è una commissione d'inchiesta, perché tale sarebbe... secondo me questi non hanno capito che la vigilanza dal 2014 la fa la BCE. La Banca d'Italia la fa sulle banche cantonali. Non ha più senso fare un discorso sulla vigilanza della Banca d'Italia. Avrebbe un senso fare un discorso sulla vigilanza in Europa... ma lei questi li vede capaci di capire di cosa stiamo parlando? Io non credo".
Presidenza commissione banche, Pd: «Lannutti faccia un passo indietro». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Valentina Santarpia, Michelangelo Borrillo. Slitta la seduta della commissione bicamerale d’inchiesta sulle banche in calendario per giovedì alle 9. All’ordine del giorno era prevista l’elezione del presidente, del vicepresidente e dei segretari. Il candidato alla presidenza del M5S, il senatore 5 Stelle Elio Lannutti, non è gradito a Pd e Italia dei Valori dopo la polemica che lo ha investito per un articolo che prendeva per buoni i Protocolli dei Savi di Sion, un falso storico che avrebbe avvalorato l’antisemitismo. ma lui non intende rinunciare: «Io non mi sfilo da un bel niente. E nessuno mi ha chiesto un passo indietro», dice Lannutti, sostenendo poi di essere «la memoria storica di tutti i crac bancari: dal 2001 al 2018 ce ne sono stati per 98 miliardi di euro e 1,6 milioni di risparmiatori. Ho scritto un libro che si chiama `Morte dei Paschi´. La prefazione è di Di Maio. Lo ha presentato lui alla Camera. Sa bene chi sono». L’appoggio del Movimento è confermato anche da Daniele Pesco, presidente della commissione Bilancio al Senato: «Penso che Elio Lannutti sia la persona con gli skills maggiormente adeguati per quel ruolo quindi noi insisteremo con Elio Lannutti». Ma dall’alleato di governo arrivano strali. «Chi svolge quel ruolo deve essere al di sopra delle parti- sottolinea Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionali, a Radio anch’io- Conosco da anni il senatore Lannutti. Lo valuteranno i segretari dei partiti. Dico semplicemente che il presidente deve essere arbitro, non giocatore. Dipende da che impostazione Lannutti vuole dare alla commissione. Sarebbe meglio che chi si candida a presidente dica prima cosa vuole da questa commissione». Si scaglia contro Lannutti anche il Pd Emanuele Fiano, pubblicando un post su Facebook: «Uno degli estimatori dei #Protocolli Savi anziani di Sion, un testo antisemita falso diffuso dalla polizia segreta zarista all’inizio del’900, nella Germania del terzo Reich fu proprio Hitler citandoli nel #Mein Kampf. Tralascio gli altri estimatori da Hamas all’estrema destra. Poi è arrivato il Senatore Elio Lannutti del 5S che di quel testo falso e immondo ha ripubblicato su Twitter le teorie che stavano nel secolo scorso a che alla base del progetto che portò alla Shoah. Delle due l’una o vale ormai tutto e la storia è un inutile orpello, oppure #Luigi Di Maio devi dichiarare nero su bianco che uno così il Presidente della Commissione banche non lo può fare. Sicuramente non avrà i nostri voti». Alessia Morani, sottosegretaria allo Sviluppo Economico del Pd, suggerisce: «Dovrebbe essere Lannutti a ritirarsi dalla candidatura per la presidenza della commissione banche. Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo grande, gigantesco imbarazzo». Enrico Borghi, della Presidenza del gruppo Pd alla Camera, incalza: «Elio Lannutti dice bene: il presidente di una commissione parlamentare d’inchiesta non è un dittatore, ma si attiene alla maggioranza. E siccome sulla sua auto-candidatura la maggioranza non c’è, agisca di conseguenza».
Commissione banche, bufera su Lannutti: «Il figlio lavora nella Popolare di Bari»: Ma Lega e M5S lo appoggiano. L’opposizione alla candidatura del 5 Stelle. Fiano (Pd): «Di Maio dica che Lannutti non può presiedere commissione». Lannutti: «Contro di me macchina del fango, adesso denuncio». E spunta il piano B dei grillini. Valentina Santarpia, Michelangelo Borrillo il 17 dicembre 2019 su Il Corriere della Sera. È un caso politico la nomina del presidente della commissione Banche. Contro la candidatura del senatore M5S Elio Lannutti si scagliano Pd e Italia viva, che non solo ritirano in ballo l’articolo contestato del senatore sui Protocolli di Savi di Sion, ma urlano al conflitto di interessi perché il figlio del senatore, Alessio Lannutti, lavora da 4 anni proprio nella sede romana della Popolare di Bari, la banca appena commissariata, negli uffici che si occupano di rapporti con la pubblica amministrazione e i grandi enti. Il diretto interessato non solo non intende fare passi indietro ma incassa l’appoggio del M5S e della Lega. «Non si può discutere la capacità di Elio Lannutti per la sua storia, la sua esperienza e la battaglia di una vita accanto ai truffati» dichiara il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, difendendo la candidatura del senatore M5S alla guida della Commissione banche. Riguardo al potenziale conflitto di interesse del figlio, dipendente della Popolare di Bari, il ministro, intervistato da Stasera Italia si è chiesto «che conflitto c’è? Mica è un dirigente della banca». La Lega dal canto suo fa sapere che voterebbe Elio Lannutti alla presidenza della commissione nel caso fosse questa l’indicazione del Movimento 5 stelle. È quanto confermano fonti del partito di via Bellerio. Oggi sul tema Matteo Salvini aveva detto: «Di Maio non può dire che non si fa la commissione perché è colpa di Salvini. Io ho detto "Ci portino un nome e lo votiamo"». Mentre slitta la seduta della commissione bicamerale d’inchiesta sulle banche in calendario per giovedì alle 9, il senatore non intende rinunciare: «Io non mi sfilo da un bel niente. E nessuno mi ha chiesto un passo indietro», dice Lannutti, sostenendo poi di essere «la memoria storica di tutti i crac bancari» e di aver «scritto un libro che si chiama `Morte dei Paschi», con la prefazione di Di Maio, che lo ha presentato alla Camera. Lannutti respinge anche le critiche per l’impiego del figlio: «Dov’è il conflitto di interesse? Andate a vedere il conflitto di interesse di coloro che hanno fatto i crack e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare! Di Pietro mi difenda anche da questo!», esclama, annunciando di aver affidato ad Antonio Di Pietro e Antonio Tanza, presidente dell’Adusbef, la «tutela del mio onore». «Questa si chiama macchina del fango, Alessio è il più giovane giornalista professionista, è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, è stato licenziato, gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista e ha trovato lavoro come impiegato», ha aggiunto poi Lannutti a Radio Capital. L’appoggio del Movimento è confermato anche da Daniele Pesco, presidente della commissione Bilancio al Senato: «Penso che Elio Lannutti sia la persona con gli skills maggiormente adeguati per quel ruolo». Ma dall’alleato di governo arrivano strali. «Chi svolge quel ruolo deve essere al di sopra delle parti- sottolinea Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionali, a Radio anch’io- Conosco da anni il senatore Lannutti. Lo valuteranno i segretari dei partiti. Dico semplicemente che il presidente deve essere arbitro, non giocatore. Dipende da che impostazione Lannutti vuole dare alla commissione. Sarebbe meglio che chi si candida a presidente dica prima cosa vuole da questa commissione». Si scaglia contro Lannutti anche il Pd Emanuele Fiano, pubblicando un post su Facebook: «Uno degli estimatori dei #Protocolli Savi anziani di Sion, un testo antisemita falso diffuso dalla polizia segreta zarista all’inizio del’900, nella Germania del terzo Reich fu proprio Hitler citandoli nel #Mein Kampf. Tralascio gli altri estimatori da Hamas all’estrema destra. Poi è arrivato il Senatore Elio Lannutti del 5S che di quel testo falso e immondo ha ripubblicato su Twitter le teorie che stavano nel secolo scorso a che alla base del progetto che portò alla Shoah. Delle due l’una o vale ormai tutto e la storia è un inutile orpello, oppure #Luigi Di Maio devi dichiarare nero su bianco che uno così il Presidente della Commissione banche non lo può fare. Sicuramente non avrà i nostri voti». Alessia Morani, sottosegretaria allo Sviluppo Economico del Pd, suggerisce: «Dovrebbe essere Lannutti a ritirarsi dalla candidatura per la presidenza della commissione banche. Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo grande, gigantesco imbarazzo». Una posizione in linea con il capogruppo Italia viva Davide Faraone: «Il M5S ci tolga dall’imbarazzo e ritiri la candidatura: scegliamo il nome più adatto insieme». Enrico Borghi, della Presidenza del gruppo Pd alla Camera, incalza: «Elio Lannutti dice bene: il presidente di una commissione parlamentare d’inchiesta non è un dittatore, ma si attiene alla maggioranza. E siccome sulla sua auto-candidatura la maggioranza non c’è, agisca di conseguenza».
Il 5S in commissione banche, ma il figlio lavora per PopBari. Il senatore 5S, Elio Lannutti, è stato proposto dai pentastellati alla guida della commissione d'inchiesta. Ma c'è un conflitto di interessi. Giorgia Baroncini, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Il senatore del M5S Elio Lannutti non intende ritirare la sua candidatura: vuole la presidenza della commissione parlamentare di inchiesta sulle Banche. Ma dopo essere stato attaccato duramente dagli alleati di governo del Pd, ora per lui si pone un altro problema, quello del conflitto di interessi. Guerra fredda tra M5s e Pd sulle poltrone di Bankitalia. Suo figlio Alessio lavora infatti nell'Ufficio Enti della sede romana della Banca Popolare di Bari, istituto in crisi al centro di un salvataggio da parte dello Stato. Una cosa non da poco visto che Lannutti senior dovrebbe andare a ricoprire il ruolo di presidente della commissione Banche. E qualcosa torna subito alla mente: il conflitto di interessi. Il cavallo di battaglia del M5S promesso più volte da Luigi Di Maio che in un primo momento ha sostenuto con forza la corsa del senatore Lannutti. Ma su questo aspetto ci torniamo tra poco. Dal Pd, infuriato dalla proprosta del nome, è arrivata subito la richiesta del ritiro del grillino "per non creare imbarazzi alla maggioranza". Ma Lannutti, forte del sostegno dei vertici del Movimento e del gruppo cinquestelle al Senato che lo ha candidato, non ha mollato e ha deciso di andare avanti. "Penso che Elio Lannutti sia la persona con gli skills maggiormente adeguati per quel ruolo quindi noi insisteremo con Elio Lannutti", aveva dichiarato il senatore 5S Daniele Pesco, presidente della Commissione Bilancio al Senato. Così Lannutti si è recato con Antonio Di Pietro da Beppe Grillo. "Il Pd e Italia Viva non mi sostengono? Quello che fanno il Pd e Italia Viva sono affari del Pd e di Iv, mentre quel che fa il M5S è affare del M5S. Io sono il candidato del Movimento, tutto qui. Fin quando non cambieranno le cose, io sono stato scelto con elezioni democratiche e resto al mio posto", ha dichiarato all'Adnkronos il senatore grillino. Ma ecco che, poco dopo, le carte in tavola cambiano di nuovo. Dalla Libia, un arrabbiato Di Maio tuona: "Il nome del presidente sarà frutto di un accordo di maggioranza". E in un attimo il nome di Lannutti viene bruciato, pronto per essere sostituito da nuovi candidati. Ma tutto questo non fa altro che creare nuove spaccature tra i grillini. Lannutti non ci sta e, dopo l'incontro con Grillo, sbotta: "Cosa significa che mio figlio lavora in banca? Dov'è il conflitto di interesse? Andate a vedere il conflitto di interesse di coloro che hanno fatto i crack e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare. Sono stato scelto con le procedure previste, sono e resto il candidato del Movimento. Chi spacca è chi non mi vota". "Questa si chiama macchina del fango - continua su Radio Capital Lannutti -. Alessio è il più giovane giornalista professionista, è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, è stato licenziato, gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista e ha trovato lavoro come impiegato. E dov'è il conflitto di interessi? Con grande rammarico ma ora ci saranno denunce penali e civili nei confronti di colleghi per questa campagna diffamatoria". Ma come fa il M5S a chiudere un occhio su tutta la situazione dopo che lo stesso Di Maio ha fatto del conflitto d'interessi una vera e propria battaglia? "Dopo la manovra mi auguro che ci siederemo a un tavolo e lavoreremo a un calendario per il 2020. A partire da salario minimo, riforma della sanità e conflitto d'interessi", aveva dichiarato pochi giorni fa il leader 5S. La vicenda della Popolare di Bari serve ai pentastellati per aumentare il consenso: la poltrona del presidente spetta a loro, ma la maggioranza non intende fare sconti sul nome.
Da repubblica.it il 17 dicembre 2019. Il senatore del M5s Elio Lannutti - già al centro di polemiche per la condivisione di un post antisemita sui Protocolli dei Savi di Sion - non si sfila dalla corsa per la presidenza della commissione parlamentare di inchiesta sulle banche. Ma ora per lui si pone un serio problema di conflitto di interessi: suo figlio Alessio lavora infatti nell'Ufficio Enti della sede romana della Banca Popolare di Bari, istituto in crisi al centro di un salvataggio da parte dello Stato. Il Pd, contrario alla sua candidatura, gli consiglia di ritirarsi spontaneamente per non creare imbarazzi nella maggioranza. Ma lui, forte del sostegno dei vertici del Movimento e del gruppo cinquestelle al Senato che lo ha candidato, non molla e va avanti. "Penso che Elio Lannutti sia la persona con gli skills maggiormente adeguati per quel ruolo quindi noi insisteremo con Elio Lannutti", ribadisce infatti il senatore 5S Daniele Pesco, presidente della Commissione Bilancio al Senato. Ma il Pd insiste: "Luigi Di Maio devi dichiarare nero su bianco che uno così il presidente della commissione banche non lo può fare - attacca su Facebook il deputato dem Emanuele Fiano - Sicuramente non avrà i nostri voti". E ricorda: "Uno degli estimatori dei Protocolli Savi anziani di Sion, un testo antisemita falso diffuso dalla polizia segreta zarista all'inizio del '900, nella Germania del Terzo Reich fu proprio Hitler citandoli nel Mein Kampf. Tralascio gli altri estimatori da Hamas all'estrema destra. Poi è arrivato il senatore Elio Lannutti del M5S che di quel testo falso e immondo ha ripubblicato su Twitter le teorie che stavano nel secolo scorso anche alla base del progetto che portò alla Shoah". E Alessia Morani, sottosegretaria pd allo Sviluppo economico, ribadisce su Twitter: "Dovrebbe essere Lannutti a ritirarsi dalla candidatura per la presidenza della commissione banche. Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo grande, gigantesco imbarazzo". Ma sul nome di Lannutti non mancano divergenze di opininione anche all'interno del Pd. Così infatti il deputato dem di Base Riformista Andrea Romano risponde al ministro Boccia che si era detto disponibile a valutare la candidatura Lannutti sulla base di quello che "avrebbe proposto". "No, caro Francesco Boccia - scrive Romano su Twitter - non serve 'vedere cosa propone Lannutti' per valutarne la totale incapacità a guidare la Commissione Banche. La sua è una candidatura (sbagliata) del solo M5s, non di maggioranza. E ritirarla sarebbe segnale di buon senso e vigilanza su ogni manifestazione di antisemitismo".
La scelta di Lannutti per la bufera sul figlio. E Di Maio evita gli imbarazzi. Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo. Il «passo di lato» del senatore pentastellato. Il figlio assunto nell’anno della riforma Renzi, contestata da Adusbef. Il «passo di lato» di Elio Lannutti, annunciato da Luigi Di Maio a Porta a porta, non è stata una sorpresa all’interno della maggioranza. Il senatore pentastellato, candidato forte per la presidenza della commissione d’inchiesta sul sistema bancario, aveva già confidato ai colleghi più vicini di partito — non solo al ministro degli Esteri che ha incontrato ieri — di essere provato dagli attacchi arrivati al figlio Alessio. Impiegato della Banca Popolare di Bari, l’istituto al centro di un intervento di salvataggio da parte del governo, proprio mentre il padre era destinato a diventare presidente della commissione banche. «Un semplice impiegato», si era difeso il senatore, facendo scudo sul figlio 33enne, giornalista diventato bancario all’ufficio Tesoreria ed Enti, a Roma, non all’ufficio stampa, come forse ci si aspetterebbe per un giornalista. Con il «passo di lato», Lannutti senior spera evidentemente di spegnere i riflettori su Lannutti junior. Mettendo fine agli attacchi che lo hanno colpito e ferito. Alessio lavora per la Popolare di Bari dal 1° dicembre 2015 — poco dopo la promozione di Gianluca Jacobini, figlio del presidente Marco, a condirettore generale — l’anno che con il decreto Renzi cambiò la governance delle Popolari, prevedendo la trasformazione in Spa per le più grandi, mossa invisa alla Bari. Ma anche all’Adusbef di Lannutti senior, evidentemente, visto che a settembre 2015 presentò un ricorso al Tar del Lazio contro la riforma delle Popolari. Ma ormai questa, con il «passo di lato», è un’altra storia. Il «passo di lato» di Lannutti ha rappresentato anche un sospiro di sollievo per Di Maio. La nomina del senatore alla commissione Banche, infatti, gli avrebbe creato non pochi problemi. In primo luogo con la comunità ebraica, che non gli avrebbe perdonato il via libera a Lannutti, reo di aver rilanciato un tweet di stampo antisemita, poi cancellato, ma dal quale lo stesso capo dei 5 Stelle aveva preso le distanze. E poi di immagine: le posizioni euroscettiche di Lannutti di certo non avrebbe aiutato un ministro degli Esteri che non vuole apparire antieuropeista. Insomma, il presunto conflitto d’interessi sulla Popolare di Bari ha facilitato una decisione data come scontata all’interno della maggioranza — due giorni fa Nicola Zingaretti a Carta Bianca aveva detto chiaramente che la nomina di Lannutti sarebbe stata inopportuna — ma diventata difficile da gestire. Adesso, invece, non resta che capire chi possa essere il nuovo candidato. Stando alle dichiarazioni di Di Maio, messosi da parte Lannutti, la scelta sarà fatta tra Alvise Maniero e Carla Ruocco. Ma non è escluso un terzo nome a sorpresa.
Banche, Boschi silura Lannutti per l’antisemitismo. Ma le vere ragioni sono meno nobili. Robert Perdicchi mercoledì 18 dicembre 2019 su Il Secolo D'Italia. Maria Elena Boschi “silura” la candidatura di Elio Lannutti, storico presidente dell’Adusbef, alla guida della Commissione d’inchiesta sulle banche. E lo fa nascondendosi dietro la motivazione dell’apparente antisemitismo del grillino. La realtà, però, è ben diversa e non ha nulla a che fare neanche con il “conflitto d’interessi” da qualcuno sollevato. «Noi siamo stati chiari fin dall’inizio: Lannutti per noi è invotabile, e non per il conflitto di interessi con suo figlio, ma per le frasi vergognose dette sugli ebrei. Chi porta avanti pregiudizi squallidi antisemiti non avrà mai il nostro voto, qualunque attività faccia suo figlio. Mi chiedo come i 5Stelle possano continuare a sostenere questa candidatura». Lo dice, in un’intervista a Repubblica, il capogruppo di Italia Viva alla Camera Maria Elena Boschi. Che contro Lannutti ha sempre avuto un problema politico e personale. Ne subiva gli attacchi, aveva difficoltà a gestirne le bordate, soprattutto sul fronte Etruria. L’antisemitismo di Lannutti, o presunto tale, arriva dopo, molto dopo.
Boschi contro Lannutti, la sua spina nel fianco. L’astio di Boschi nei confronti di Lannutti nasce già ai tempi del governo Renzi, dello scandalo Etruria, delle conseguenze delle misure per “salvare” le banche. Lannutti, in quel periodo, era una spina nel fianco. E con la sua Adusbef “martellava” quotidianamente il governo dei “toscani”. Nel 2016, Lannutti manifestava sotto il ministero dell’Economia contro il decreto del governo Renzi sulle banche che metteva a rischio di pignoramento le aziende. «Si evince che l’appropriazione del pegno non possessorio può essere richiesta dal creditore al verificarsi di un evento non meglio specificato – attacca Lannutti -. O meglio, lasciato alla libera contrattazione tra le parti. Insomma, per il M5S, non paiono esserci più paletti chiari, stabiliti ex lege. Come accade invece per il pur ritenuto deplorevole “patto Marciano”. L’estrema libertà di stabilire quale evento autorizzi la banca a riscuotere la garanzia, dunque, farebbe sì che a stravincere sia la parte forte dell’accordo tra istituti. E ad esempio, le piccole e medie imprese italiane. Sul decreto è stata apposta la questione di fiducia dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi che ha portato al blocco dei lavori di Montecitorio…». Ecco invece cosa scriveva Lannutti, nel 2017, nella sua relazione all’assemblea dell’Adusbef. «La funzione sociale del credito e del risparmio, garantito dalla Costituzione, ha subito pesanti attacchi dal governo Renzi. Disattento alle esigenze delle famiglie e dei cittadini. Prestito vitalizio ipotecario, decreto ‘salva banche’ che ha espropriato 130.000 famiglie, decreto legislativo sui finanziamenti ipotecari del ministro Boschi. Un decreto che ha spianato la strada per espropriare le case dei legittimi proprietari in temporanee difficoltà economiche. Agevolando poi le vendite forzose degli immobili da parte delle banche. Per fortuna bocciata dal Consiglio di Stato anche dietro impugnativa Adusbef, ed una serie di norme e decreti recepite da governi camerieri dei banchieri». «L’ultimo provvedimento che regala 20 miliardi di euro alle banche, per impedire che i bancarottieri e le dormienti autorità di vigilanza potessero rispondere penalmente del loro operato, è del governo Gentiloni. Basato sul presupposto erroneo e l’ingannevole narrazione che gli istituti di credito non possono fallire. A differenza delle altre imprese portate al fallimento proprio dai comportamenti fraudolenti dei banchieri. Sia nella concessione allegra, spesso senza garanzie dei prestiti, che nella revoca dei fidi con preavviso di 24 ore». L’anno dopo quelle pesantissime parole contro Renzi e Boschi, il senatore non sembrava gradire appieno neppure il nome del premier designato Giuseppe Conte nel governo giallo-verde. «È un amico di Maria Elena Boschi. Mi continuerò a battere fino all’ultimo per Luigi Di Maio premier». Ed ancora, frasi velenose su presunti accordi dal sapore massonico, con riferimenti nella guerra per le banche a “cariatidi, lestofanti del potere marcio e corrotto, legati a cricche, combriccole, faccendieri, logge coperte, grembiulini…”. Intanto Lannutti si batteva per ottenere i risarcimenti ai risparmiatori…
Caso Lannutti, stangato per una raccomandazione. Paolo Comi il 20 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il senatore Elio Lannutti, Cinque Stelle, era candidato alla presidenza della commissione parlamentare di indagine sulle banche. Parecchi senatori e deputati, di vari partiti, avevano sollevato obiezioni e proteste vibrate. Perché? Perché recentemente il senatore Lannutti avevano citato, come vero, il famoso protocollo dei Savi di Sion, che è una bufala archeologica e che è stata alla base del tragico antisemitismo di tutto il 900. Lannutti credeva invece che quel protocollo fosse vero, e che fosse vero il fatto che l’intero sistema bancario mondiale è in mano a 15 famiglie ebree, e in particolare alla famiglia Rotschild. Quelli che contestavano la sua nomina alla testa di una commissione parlamentare di indagine sulle banche, facevano notare che mettere una macchina così delicata in mano a uno che crede vere le più oscene e false teorie antisemite, non è una buona idea. Ma Lannutti non intendeva rinunciare all’incarico. Ed il suo partito lo difendeva.
Poi l’altro giorno si è scoperto che Lannutti ha un figlio che fa l’impiegato nella famosa banca popolare di Bari, vicina al fallimento. Fa l’impiegato, eh, non è un direttore generale o un alto funzionario. Di fronte a questa notizia terrificante, anche i Cinque Stelle hanno fatto un balzo sulla sedia. Possibile – si son chiesti – che un nostro uomo compia atti così vergognosi come non dichiarare che suo figlio lavora alla Popolare di Bari? I più cattivi si sono chiesti persino se per caso il ragazzo non sia entrato in banca sulla spinta di qualche raccomandazione del padre. E così Lannutti – coperto di ignominia – è stato costretto a fare un passo indietro. Niente presidenza della Commissione. Capite il ragionamento? È importante capirlo, perché questo ragionamento è lo specchio dei nuovi sistemi di valori che stanno diventando la struttura morale della nostra società. E probabilmente vanno ben oltre l’etica a Cinque stelle. L’idea è questa: l’antisemitismo non è un gran peccato, è un’opinione, una ideologia. Né è grave l’inattendibilità di chi crede alle più incredibili fake news. Quello che è veramente grave è l’ipotesi che tu abbia fatto una raccomandazione e che abbia favorito tuo figlio a trovare un posto di lavoro come impiegato. Se questa è l’idea di fondo, siamo messi molto male.
Vedete, c’è chi pensa che lo Stato Etico (diciamo l’idea, l’aspirazione allo Stato etico) sia una via pericolosa, perché illiberale, alla modernità, ma contenga comunque un forte messaggio morale e una garanzia sulla pubblica rettitudine. Ecco, questa è una balla. L’aspirazione allo Stato Etico porta a un fortissimo corrompimento delle coscienze, che vengono militarizzate, polpottizzate, e perdono qualunque capacità di discernimento, Pèrdono cultura, sapienza, conoscenza della storia. Succede così che l’antisemitismo diventa un aspetto secondario del proprio profilo politico; e il sospetto, solo il sospetto di aver fatto una raccomandazione diventa una macchia indelebile. Dentro il dilagare di questa cultura – che nella sostanza, sempre, è totalitaria – è nato quel pasticcio di leggi orribili che è il parto fondamentale del governo gialloverde: lo spazza-corrotti, l’abolizione della prescrizione, i due cosiddetti decreti sicurezza, la legge ammazza-ladri e tutto il resto.
Da startmag.it il 17 dicembre 2019. Gli aiuti approvati dal governo per salvare la Banca Popolare di Bari non aiutano l’Italia a recuperare “la necessaria credibilità”. Lo scrive l’Handelsblatt di oggi, in un commento dal titolo “non ha imparato nulla in proposito”, riferito ovviamente al nostro Paese. “Le notizie dei fallimenti bancari in Italia arrivano con la regolarità delle previsioni del tempo – si legge sul quotidiano economico-finanziario tedesco -. Almeno una volta all’anno la sorveglianza bancaria accerta che un istituto è finito in una cattiva situazione. Il personale dirigenziale viene spodestato, commissari vengono nominati dallo Stato a assumono il management della crisi, e la politica si sforza di rassicurare risparmiatori ed elettori”. Le ragioni dei fallimenti, procede l’analisi del giornale di economia e finanza, si assomigliano: “Cattiva economia, clientelismo, e autoritari signorotti della finanza locale. A questo si aggiungono problemi strutturali, come la soppressione dei crediti deteriorati. Inoltre si trascina il consolidamento: ci sono troppe filiali, troppi dipendenti, e troppa poca digitalizzazione. L’Italia arranca”. Questa volta si tratta di una piccola banca del Sud come la Popolare di Bari, viene sottolineato e non certo di un istituto del calibro di Monte Paschi di Siena, vicenda che “fu ben più drammatica”. “I casi sono tutti però collegati dalla permissiva conferma degli aiuti di Stato”, è il commento di Handelsblatt. “Naturalmente Roma sa che la commissione europea vigila sugli aiuti di Stato e che da tre anni vale il principio del partecipazione dei creditori nel fallimento delle banche. Ma finora l’Italia ha sempre negoziato un accordo speciale”, la conclusione del quotidiano economico-finanziario sul caso della Popolare di Bari. Peccato che il giornale tedesco non faccia menzione del salvataggio pubblico in Germania della banca pubblica NordLb che ha avuto un controverso via libera da parte della Commissione europea, come peraltro ha fatto notare negli scorsi giorni anche il Financial Times. Oggi via Twitter un esperto di Germania, economia e banche come il saggista Vladimiro Giacché, che è tra l’altro presidente dell’istituto Cer (Centro Europa Ricerche), ha rintuzzato le critiche di Handelsblatt con questo tweet che evoca appunto il dibattuto caso del salvataggio pubblico di NordLb: “Non puoi festeggiare ogni giorno: dopo il grandioso salvataggio conforme al mercato della Norddeutsche Landesbank con fondi pubblici, che magicamente NON costituiscono affatto aiuti di Stato, arriviamo a una banca italiana e ora TUTTO è diverso”, ha scritto Giacché, noto come esperto di Germania ed Europa con posizioni critiche sull’attuale struttura dell’Unione monetaria.
Fabio Amendolara e Giuseppe China per “la Verità” il 19 dicembre 2019. La lista di chi ha preso a prestito dalla Banca popolare di Bari dimenticandosi di restituire è lunga e porta la firma di Bankitalia. Nel 2016 gli ispettori certificavano più di 888 milioni di euro di sofferenze del colosso bancario del Sud (oltre ai 688 portati «in dote» da Tercas), ma allo stesso tempo prestiti allegri a gruppi come quello guidato da Vito Fusillo (fratello di Nicola, ex sottosegretario e dalemiano di ferro) e a Luca Parnasi, indagato per finanziamenti al Partito democratico e alla Lega. Non solo, nella pancia della più grande Popolare del Mezzogiorno c' erano anche 400 milioni dell' Agenzia del farmaco, che il governo ora vuole recuperare entro febbraio. Ed è anche emerso che il Csm dal 2015 ha affidato la propria tesoreria all' istituto. Nonostante fossero note da anni le sue difficoltà. Fino al 2016, stando alle ispezioni di Bankitalia, il board della banca Popolare di Bari è stato molto molle sui tempi e sulle modalità di rientro delle esposizioni. «La gestione è improntata a tolleranza», ammonivano i detective bancari. Come nel caso dei Fusillo, che hanno lasciato un buco stimato in 140 milioni di euro. A loro la banca arrivò ad affidare nel corso degli anni 400 milioni tra le varie Maiora, Fimco e Soiget, le società del gruppo amministrate dai cugini Emanuele, Giovanni e Giacomo, sotto l' esperta guida di Vito, il capostipite della holding barese, fratello di Nicola, ex sottosegretario e dalemiano di ferro. I Fusillo hanno dimostrato di avere un peso notevole sul board della Popolare di Bari. In una recente perquisizione, disposta dai magistrati nelle sedi delle società del gruppo e in quelle della Bpb, i magistrati spiegano che è necessario approfondire «la disponibilità di banca Popolare di Bari a sostenere finanziariamente il piano di risanamento in corso di redazione, mediante l' erogazione di nuova finanza [...]. Gli atti in questione impongono la necessità, all' evidente fine di investigare sulle cause dell' attuale situazione di dissesto nonché sui mezzi impiegati per portare a compimento operazioni distrattive, di acquisire presso il principale creditore, Bpb (esposto nei confronti del gruppo Fusillo per oltre 140 milioni di euro), ogni documentazione relativa alla genesi e alle successive fasi dei rapporti». Ma, proprio come per la holding barese, gli ispettori rilevarono che con alcuni gruppi come Bari Editrice e Luca Parnasi (l' imprenditore indagato per aver foraggiato in modo illecito associazioni vicine alla Lega e al Partito democratico), da parte del Consiglio d' amministrazione si presentavano «profili di debolezza». Quell' anno, coincidenza, fu messo alla porta Vincenzo De Bustis, il banchiere dalemiano che prima di approdare alla Bpb mise in fila anche operazioni considerate spericolate, come quella di Banca 121. Chiamato dal padre padrone dell' istituto, Marco Jacobini, sulla poltronissima da direttore generale, ne è uscito nel 2016, per essere richiamato a fine 2018 come consigliere con deleghe. E così, incaglio dopo incaglio e una sofferenza dietro l' altra, nei conti della Bpb si sono creati grossi buchi. Poi voragini. Tanto da attirare l' attenzione della magistratura che, con sette inchieste giudiziarie, sta cercando di far luce sul crac del colosso bancario del Sud. Una di queste indagini ipotizza che ci siano stati concessi finanziamenti a imprenditori che non avevano fornito adeguate garanzie. Lo dimostrerebbero le sofferenze, che per il 2016, scoprirono gli ispettori di Bankitalia, ammontavano a 888.068.000 per banca Popolare di Bari e a 688.130.000 per Tercas, la banca di Teramo acquisita da Bpb nel 2014. Ma non erano solo le sofferenze a spaventare. Anche i crediti concessi ad aziende in difficoltà, quelle che in slang bancario vengono definite a incaglio, hanno numeri da capogiro: 603.911.000 di euro di inadempienze probabili e 141.939.000 di euro di crediti che alla data di scadenza non sono stati ancora pagati. Tra le situazioni più gravi segnalate nel 2016, ossia tra le perdite per le posizioni in sofferenza, c' era il gruppo Tandoi, dei fratelli Filippo e Adalberto. La banca si è esposta per 3.748.000 euro. Le perdite che Bankitalia prevedeva ammontavano a 2.999.000 euro. Avevano creato una filiera del grano Senatore Cappelli tra la provincia di Bari e Matera, ma andarono in difficoltà con un progetto: il pastificio Cerere. Uno dei due fratelli, Filippo, tentò di riparare lanciandosi in politica: nel 2013 si candidò senza successo al Senato in una lista denominata Con Monti per l' Italia. I Tandoi, insomma, quanto a risultati politici, non riuscirono a raggiungere i Fusillo. Ma sono riusciti ad avere, come i Fusillo, un peso notevole con la banca. Complicata, stando all' analisi di Bankitalia, era in quel momento anche la posizione dell' impresa di costruzioni meccaniche edili: 2.237.000 di affidamenti. Perdite previste per 1.162.000 euro. Con un altro colosso dell' edilizia, la Aedilia costruzioni Spa, la Popolare di Bari si era esposta per 3.246.000 euro. Gli ispettori prevedevano un buco da 2.181.000. Per le posizioni a incaglio, invece, nel 2016 venivano segnalate la Calatrava: 1.485.000 euro di esposizione e 1.427.000 di sofferenze. E la Gam Spa, con 3.000.000 di esposizione contro 613.000 di sofferenze previste. Tra i titoli ormai scaduti, invece, viene segnalata la Scaraggi veicoli industriali: 2.509.000 di esposizione e 1.469.000 di sofferenza. Tra le cifre più alte affidate, gruppo Fusillo a parte, c' è quella per la Impidue college, una Srl immobiliare: 27.425.000 di affidamenti e 6.391.000 di «probabile inadempienza». Segue il Gruppo Nitti con 12.856.000 di euro di esposizione e 5.161.000 di «probabile inadempienza». Anche per Tercas le posizioni in sofferenza vengono passate sotto la lente dagli ispettori di Bankitalia. Dierreci costruzioni Srl in liquidazione, per esempio, ha ottenuto 32.595.000 euro e in quel momento contava 21.740.000 euro di sofferenza. I vertici dell' impresa, che aveva un capitale sociale misero (10.000 euro), finirono in un' inchiesta giudiziaria per una distrazione di fondi che, a sentire i magistrati, «avrebbe contribuito al dissesto della banca». Altro potenziale buco in quel momento era previsto per la Isoldi Spa in liquidazione, una società finita a gambe all' aria nel 2015, con la quale la Tercas si era esposta per 30.517.000 euro. Gli ispettori di Bankitalia prevedevano un mancato rientro per oltre 17 milioni di euro. Andò male anche con Parco delle stelle Srl, un' imponente sala ricevimenti andata in crisi, alla quale Tercas aveva affidato 17.576.000 euro. La previsione di buco era fissata a 11.289.000 euro.
Alessandro Barbera per “la Stampa” il 19 dicembre 2019. Roma, ieri. Nelle sale barocche del Quirinale è l'ora degli auguri di fine anno. C'è la Roma dei palazzi che contano, politici, giudici, alti funzionari. E c' è il governatore di Banca d' Italia Ignazio Visco, nel vortice per la vicenda della Popolare di Bari. Fra gli invitati non si parla che di questo e del destino della legislatura. «Chi ci attacca fa errori di fatto e di diritto», dichiara Visco in un' intervista al Financial Times. Eppure fra gli advisor legali e finanziari che si sono avvicendati attorno all' ultima grande banca del Sud il commissariamento era auspicato da mesi. Secondo quanto risulta a La Stampa da tre fonti diverse, fra Roma e Bari la decisione era attesa sin da giugno, quando ormai era chiaro che il tentativo di unire l' istituto pugliese ad altre realtà più piccole con una norma ad hoc di incentivo fiscale non avrebbe funzionato. Al netto delle rassicurazioni fatte dai vertici al management, a ottobre la decisione era valutata come «inevitabile». Nel frattempo, a fine luglio, il presidente Marco Jacobini - uno dei principali artefici del dissesto - aveva lasciato le redini della banca al nipote Gianvito Giannelli con il voto dell' assemblea dei soci. Perché la vigilanza abbia atteso così tanto per risolvere il pasticcio di Bari non è chiaro. Di certo nella maggioranza e nel governo c' è irritazione per quanto accaduto nelle ultime due settimane, quando sono iniziate a filtrare le iniziative della magistratura contro i vertici e il salvataggio della banca si è fatto urgente. Spiega un' autorevole fonte di governo Pd che chiede di restare anonima: «Non c' è dubbio che a via Nazionale si siano mossi con lentezza. Ma quando il commissariamento è diventato inevitabile ci è stato sollecitato il decreto». In una riunione riservata della maggioranza convocata una settimana prima della decisione - era venerdì 6 dicembre - si inizia a discutere concretamente di aprire la rete pubblica alla banca, senza alcuna certezza sulle decisioni di Banca d' Italia. Ci sono Conte, Gualtieri, Di Maio, Dario Franceschini, Roberto Speranza, il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera. È possibile che il presidente del Consiglio e il ministro del Tesoro siano avvertiti di un provvedimento imminente, fatto è che il renziano Luigi Marattin, spalleggiato da Pd e Cinque Stelle, vincola il decreto di salvataggio all' atto preventivo di via Nazionale. La polemica innescata da Renzi e Di Maio allarma Bankitalia, a quel punto preoccupata all' idea che il commissariamento senza garanzie statali provochi il panico fra i risparmiatori. Il resto è storia recentissima. Una settimana dopo - è venerdì 13 - il governo vara un complicato intervento attraverso Invitalia e Mediocredito Centrale che Conte aveva negato fino a poche ore prima. Spiega ancora la fonte di governo Pd: «Al netto delle responsabilità della vigilanza, è innegabile che qualcuno stia soffiando sul fuoco per far saltare la nomina di Daniele Franco a direttore generale di Banca d' Italia». Franco, fino a qualche mese fa Ragioniere generale dello Stato, aveva rinunciato alla conferma dopo molti confronti muscolari con i Cinque Stelle su vari provvedimenti di spesa. Nonostante questo, a valle dell' indicazione di Fabio Panetta a membro italiano del board della Banca centrale europea, Franco è tuttora il candidato naturale alla poltrona di numero due dell' Istituto. La scelta del nuovo presidente della Commissione di inchiesta sulle banche sarà la cartina di tornasole del clima che si respira nei Palazzi: ieri il leader dei Cinque stelle Di Maio ha annunciato il «passo di lato» del senatore Elio Lannutti.
Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” 19 dicembre 2019. I vertici della Banca popolare di Bari, a cominciare dall' allora direttore generale Vincenzo de Bustis Figarola, sapevano che i 300 milioni di euro in azioni vendute nel 2014 a migliaia di risparmiatori, nelle cui mani si sarebbero trasformate in spazzatura, erano un pacco ad alto rischio. Che il loro valore di collocamento, superiore a 9 euro, era destinato a crollare nel giro di pochi mesi. Perché questo documentavano gli studi interni della Popolare. Questo suggerivano i numeri catastrofici delle sofferenze della Tercas. E su questo aveva concordato il Consiglio di amministrazione dell' Istituto, nello stesso momento in cui certificava il contrario con Consob, l' autorità di controllo di Borsa. Di più: nel verbale del Consiglio di amministrazione di Popolare del 17 ottobre del 2013 quando l' acquisizione di Tercas prende corpo - gli stessi vertici della banca svelano l' arcano di questi ultimi giorni intorno alle responsabilità di amministratori e vigilanza. L' invito ad acquisire Tercas era arrivato nei primi giorni di quell' ottobre 2013 direttamente dalla Vigilanza centrale di Banca d' Italia. Da quel Carmelo Barbagallo, cioè, che in quello stesso momento, stava chiudendo il rapporto ispettivo sulla Popolare e, contemporaneamente, avrebbe dovuto vigilare sul rispetto da parte della banca del blocco all' acquisizione di nuovi istituti che la stessa Bankitalia aveva imposto nel 2010. Bankitalia, "orgoglio" e "inganno" 17 ottobre 2013. Nell' aula consiliare di Popolare è convocata una riunione decisiva. La banca deve decidere se acquistare o meno l' abruzzese Tercas. Se accogliere o meno ne vedremo poi il dettaglio - le sollecitazioni che arrivano da palazzo Koch. Per farlo servono almeno tra i 350 e i 500 milioni di euro. E andranno chiesti al mercato. Con emissione di azioni ordinarie e obbligazioni subordinate da collocare alla clientela di riguardo, così come al parco buoi dei piccoli correntisti. Prende la parola il presidente Marco Jacobini. E - come si legge nel verbale della seduta - dice: «L' odierna riunione è stata convocata per fornire al Consiglio tutte le informazioni necessarie ad assumere in maniera informata e consapevole le determinazioni sull' invito ricevuto dalla Banca d' Italia a esaminare la sussistenza di condizioni e presupposti ritenuti favorevoli e verificare i profili operativi di un eventuale intervento della Popolare di Bari nell' operazione di salvataggio e risanamento di Banca Tercas, ora in amministrazione straordinaria». Per suonare ancora più convincente, Jacobini aggiunge un dettaglio: «Alcuni giorni fa la Vigilanza centrale, attraverso il dipartimento deputato della gestione delle situazioni di crisi, ha preso contatto con il vertice della Banca per illustrare i termini della possibile operazione (...) La Banca d' Italia eleva la Popolare di Bari a un livello superiore di dignità, riconoscendole un ruolo di grande prestigio». Che tuttavia ha un costo. Non da poco. E che è compito dell' allora direttore generale Vincenzo de Bustis riferire con franchezza al Consiglio. «È vero - osserva - la sollecitazione della Banca d' Italia è un riconoscimento della credibilità e della fiducia che la vigilanza ci accredita. E la fiducia si nutre di scelte coraggiose e si alimenta con la coerenza dei comportamenti. L'invito, però, per quanto ci riempia di orgoglio, deve essere attentamente filtrato alla luce dei presupposti dell' arte del possibile, cercando di prevedere cosa potrà accadere nel futuro. Ed evitando, se possibile, situazioni di possibile disagio. Da un punto di vista patrimoniale, Banca Tercas ha bisogno di essere ricapitalizzata con capitale fresco, per recuperare l' equilibrio e raggiungere un "Tier one" (con questo termine si intende la componente primaria del capitale di una banca, il suo nocciolo duro, ndr ) soddisfacente. Sono anche un po' a corto di liquidità. L'aspetto industriale preoccupa maggiormente, perché è stato perso del tempo importante». E, in ogni caso, chiosa, «il ritorno ad una prospettiva di redditività positiva potrebbe richiedere almeno 24/36 mesi». Insomma, i vertici di Popolare sanno che da Tercas non ricaveranno un solo euro di utile prima del 2018. Il prospetto interno Sanno anche qualcosa in più. In un prospetto interno della Banca, che porta la data del 31 ottobre 2013, elaborato dalla Direzione Generale Contabilità e bilancio e trasmesso all' ufficio del "Chief Risk Officer" (ruolo in quel momento ricoperto da Luca Sabetta, il dirigente che, come raccontato mercoledì da Repubblica, si trasformerà in whistleblower dell' inchiesta della Procura di Bari), l' operazione di acquisizione di Tercas viene valutata «potenzialmente idonea a determinare ripercussioni negative sulla redditività di Banca Popolare e sulla prospettiva di remunerazione e apprezzamento delle azioni». Di più: «A ripercuotersi negativamente sugli indici fondamentali dell' Istituto (quelli che determinano la solidità patrimoniale, insomma ndr.)». Non fosse altro per un numero di Tercas. La banca abruzzese, al momento dell' acquisizione, presenta crediti deteriorati per tre miliardi e mezzo, pari a oltre il 50% in più del cosiddetto "Risk Weighted Asset" della Banca Popolare. Vale a dire il 50% in più delle esposizioni fuori bilancio ponderate in base al rischio (un tipo di calcolo utilizzato per determinare i requisiti patrimoniali adeguati di una banca).
La favola per gli investitori. Con un quadro di questo genere, la sottoscrizione di azioni della Popolare del 2014 per l' aumento di capitale necessario ad acquisire Tercas è un doppio salto mortale. Ma i vertici della banca, nel prospetto consegnato alla Consob e al mercato il 22 novembre di quell' anno, lo raccontano come una favola per bambini. Consumando un doppio inganno. Il primo riguarda il valore di collocamento dell' azione e la garanzia per eventuali illiquidità nel loro riacquisto. Una relazione interna alla Popolare firmata da Deloitte consiglia infatti per le azioni un prezzo compreso "in un intervallo tra 8,7 e 8,9 euro". Bene, la banca lo tira fino a 9,53. Di più: per rassicurare gli investitori sulla possibilità di disfarsi rapidamente dell' investimento, Popolare certifica che nessun ordine di vendita delle azioni è stato sin lì evaso con tempi di attesa superiore ai 90 giorni (circostanza che la Banca d' Italia, proprio nell' ispezione del 2013, aveva verificato come non vera). Il secondo inganno riguarda invece l' operazione di aumento di capitale tout court e le sue ragioni: l' acquisto di Tercas. Si legge infatti nel prospetto informativo di quel 22 novembre 2014: «Si evidenzia che dall' operazione di acquisizione di Banca Tercas deriva un tipico rischio di business connesso al piano di rilancio commerciale di banche reduci da commissariamento, cui si aggiunge il rischio di una temporanea riduzione dei coefficienti patrimoniali di gruppo sotto il livello minimo regolamentare Nonché effetti peggiorativi di taluni indicatori gestionali, in particolare in relazione all' incidenza dei crediti deteriorati (incagli e sofferenze)». Non esattamente quello che Vincenzo De Bustis aveva raccontato al suo Cda. Non esattamente quello che i vertici sapevano.
Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 19 dicembre 2019. Eccolo, dunque, il de profundis della Banca Popolare di Bari. Sono quattro pagine dattiloscritte intestate Banca d' Italia, classificate "riservatissimo", che portano la data di venerdì scorso, 13 dicembre, il numero di delibera 712/2019, e la firma del Governatore, Ignazio Visco. È il provvedimento di commissariamento. Quello che dispone lo «scioglimento degli organi con funzione di amministrazione e controllo» della banca e la «nomina gli organi straordinari». È la fotografia di un disastro di governance, anche nel suo ultimo tratto, quello affidato alle mani dell' ad Vincenzo De Bustis Figarola. Di sofferenze in bilancio sottostimate fino alla fine (i crediti deteriorati). E di coefficienti di solidità patrimoniale scesi sotto la soglia di guardia. Quella oltre la quale si portano i libri in tribunale. Di una decisione presa nella consapevolezza di un' inchiesta penale condotta ormai da tre anni dal Procuratore aggiunto Roberto Rossi e dai pm Federico Perrone Capano e Lydia Giorgio e diventata necessaria prima ancora che l' ultima delle ispezioni disposte la scorsa estate da Palazzo Koch fosse completata. Per evitare che stavolta sì, si arrivasse troppo tardi. "Deterioramento irreversibile" Scrive il Governatore di Banca d' Italia Ignazio Visco: «La situazione della Banca popolare di Bari è da tempo all' attenzione della Vigilanza, a motivo di incertezze sulle prospettive strategiche e di criticità nei principali profili tecnici, riconducibili in particolare all' elevata incidenza dei prestiti deteriorati e la scarsa efficienza aziendale, che hanno determinato la progressiva riduzione dei margini patrimoniali. Dalla seconda metà del 2018, si è registrato un deterioramento della situazione tecnica, riconducibile anche alla sopraggiunta necessità di effettuare accantonamenti aggiuntivi sulle principali esposizioni creditizie, che hanno determinato una riduzione significativa dei coefficienti patrimoniali su livelli prossimi ai minimi». Il Governatore fotografa le ultime mosse della banca, l' ultimo disperato tentativo degli Jacobini e di De Bustis di ottenere una prova d' appello. «In considerazione delle perdite registrate alla chiusura dell' esercizio del 2018, la banca ha trasmesso a questo Istituto, in data 17 maggio 2019, il piano di conservazione del capitale prescritto dalla normativa prudenziale». Inutilmente, a quanto pare. Perché, come lo stesso Visco osserva, «l' implementazione di tale piano è stata pregiudicata dall' intensa e crescente conflittualità all' interno del Consiglio di amministrazione e dalle contrapposizioni tra gli organi aziendali». Il riferimento è allo scontro - di cui Repubblica ha dato conto in questi mesi - tra un autocertificato cavaliere bianco (l' ad Vincenzo de Bustis Figarola), e il vecchio patriarca, Marco, e uno dei suoi figli, Luigi Jacobini. «In questo scenario - annota il Governatore - il 18 giugno del 2019 hanno preso avvio presso la Banca popolare di Bari accertamenti ispettivi di Vigilanza a spettro esteso, tuttora in corso». E gli esiti, parziali, consigliano di non perdere tempo. Scrive infatti il Governatore: «Il sopralluogo ispettivo sta facendo emergere elementi di tale criticità da condurre il team incaricato a rilasciare riferimenti interlocutori». La delibera ne documenta il dettaglio.
Gli esiti dell' ispezione 2019. Nulla gira come deve a Bari. Scrive Visco: «Il rinnovo delle cariche sociali raccomandato dalla Vigilanza da parte dell' assemblea del 21 luglio 2019 (il riferimento è alla nomina di presidente del professor Gianvito Giannelli e dell' ingresso in consiglio di amministrazione dei consiglieri Patrizia Giangualano, di Giulio Codacci Pisanelli e Francesco Ago, poi dimessosi, di Gregorio Monachino e di Vincenzo de Bustis, ndr ) non ha prodotto con l' attesa celerità ed efficacia concreti interventi di rilancio dell' azione gestionale e di messa in sicurezza dei requisiti patrimoniali della banca. L'attuazione delle iniziative programmate, talvolta basate su aspettative poi rivelatesi infondate, è stata compromessa da ritardi e non ha prodotto risultati tangibili sull' operatività aziendale». A dispetto, dunque, di quanto Vincenzo De Bustis ha provato ad accreditare con una robusta campagna di pubbliche relazioni e comunicazione, a dispetto del nastro consegnato da mani anonime a Fanpage nei giorni scorsi dove si ascoltava un De Bustis severo, pronto a fustigare la governance, e contestualmente rassicurante sull'impossibilità di un commissariamento, le cose andavano in ben altro modo. Questo: «Il profilo reddituale della Banca popolare di Bari si mantiene deficitario a causa dell' insufficienza delle fonti di ricavo e del peso dei costi di struttura (...) La situazione al 30 settembre 2019 si è ulteriormente deteriorata, con un cost/income asceso al 108,5 per cento». La Popolare insomma brucia più denaro di quanto incassi e «al 31 dicembre 2019 la perdita inerziale sulla base delle previsioni aziendali si attesta a 194 milioni di euro, senza considerare le ulteriori rettifiche sul portafoglio crediti risultanti dall' analisi ispettiva».
Il baratro dei crediti inesigibili. Già, i crediti. Da sempre il pozzo di San Patrizio in cui la banca annega. Anche stavolta sottostimati in bilancio nel tentativo di gettare un po' di fumo negli occhi a palazzo Koch. «L'analisi del portafoglio crediti scrive Visco sulla base dei dati parziali trasmessi dai suoi ispettori - ha rivelato una sottostima della quantificazione del rischio: la revisione di un primo campione di fascicoli di fido, per un importo complessivo pari a 654 milioni, ha palesato maggiori posizioni deteriorate per 148 milioni di euro ed esigenze di maggiori rettifiche sui crediti per 109 milioni ». Il risultato, al 30 settembre 2019, è che i coefficienti di rischio «si posizionano al di sotto dei minimi regolamentari: 4,22 per cento il Cet1 (acronimo di Common Equity Tier, indice che esprime la solidità di un Istituto bancario ndr.) e 6,22 per cento il Tcr (Total capital ratio, altro indice di solidità calcolato sull' insieme del patrimonio ndr .) con un deficit di 104 milioni di euro. L' impatto di tali perdite sulle stime patrimoniali prodotte dall' azienda determinano un' ulteriore discesa dei coefficienti».
L' ultima carta. De Bustis - come annota Visco - tenta un'ultima carta il 29 novembre scorso, quando formalizza una richiesta di intervento al Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi per un intervento sul capitale che dia dell' ossigeno che non c' è più. Ma anche questa è una mossa dove alle intenzioni non seguono i fatti. Accade infatti che nonostante la disponibilità del fondo e di Mediocredito centrale ad avviare una discussione costruttiva, Bari riproponga la sua melina nel fornire documenti e chiarimenti necessari all' intervento. È la goccia che fa traboccare il vaso. Scrive Visco: «L' andamento delle trattative non è coerente con la rapida degenerazione della situazione tecnica che rende indifferibile una soluzione di mercato. Le gravi perdite patrimoniali, l' insufficiente azione degli organi aziendali in relazione alla grave criticità del contesto configurano i presupposti per l' adozione in via d' urgenza della misura di un intervento precoce». È la fine.
Giorgio Meletti per “il Fatto Quotidiano” il 19 dicembre 2019. La capacità del governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco di sostenere tutto e il contrario di tutto, à la carte, nel caso della Popolare di Bari e del suo intoccabile boss Vincenzo De Bustis è stata dispiegata per nascondere il palese appoggio sempre fornito al banchiere pugliese. Per stare ai dati oggettivi, De Bustis è stato sanzionato già nel 2001 come direttore generale della Banca del Salento (poi 121) per "trasferimenti di titoli dal comparto di negoziazione a quello immobilizzato in assenza delle prescritte condizioni". Nel 2005 è stato multato dalla Consob (144.900 euro) per irregolarità nella distribuzione dei famigerati prodotti finanziari My Way e For You, 2 miliardi di euro raccolti tra 90 mila clienti. Il 9 ottobre 2018 è stato multato ancora dalla Consob per irregolarità nei due aumenti di capitale della Popolare di Bari di cui era stato direttore generale dal 2011 al 2015. Esattamente due mesi dopo è tornato in sella alla Popolare di Bari come consigliere delegato e la Banca d' Italia non ha battuto ciglio, rilasciandogli senza esitazione il via libera. La legge dice infatti che per guidare una banca devi sottoporti all' esame della vigilanza sulle tue competenza, onorabilità e correttezza. La storia si ripete sempre uguale: la Banca d' Italia è severissima con i banchieri non obbedienti e distratta con gli amici e gli obbedienti. Poi scoppia il bubbone e alla inevitabile domanda (ma voi dove eravate?) gli uomini di Palazzo Koch rispondono sempre con una balla a scelta tra "quei delinquenti ce l' hanno fatta sotto il naso" e "non avevamo poteri sufficienti". Lunedì scorso su Repubblica un articolo di Claudio Tito ha dato voce alla seconda tesi: "I tecnici fanno anche notare che nel 2014 è stata approvata dal Parlamento una direttiva europea che renderebbe più stringenti i requisiti per i manager delle banche. Quella direttiva non è mai entrata in vigore: non è stato varato il regolamento attuativo. Quindi anche in occasione della definizione dell' ultimo vertice della Popolare sono stati utilizzati i requisiti, molto più laschi, che risalgono al 1998". Questa versione dei fatti, affidata ai sapienti "dicono a Palazzo Koch", è protetta dal segreto d' ufficio che fa credere al governatore di poter mettere in circolazione qualsiasi balla. Però da quel poco che sappiamo, i conti non tornano. Innanzitutto la direttiva Crd IV è stata recepita il 12 maggio 2015 con un decreto legislativo che modifica il Testo Unico Bancario e introduce (articolo 53 bis) il potere per Bankitalia di mandare a casa i banchieri, a suo insindacabile giudizio, "qualora la loro permanenza in carica sia di pregiudizio per la sana e prudente gestione della banca". Potere prima invocato, poi salutato con giubilo, poi esercitato solo una volta nel 2016 con il presidente del Credito di Romagna, Giovanni Mercadini. Effettivamente il nuovo articolo 26 del Tub subordina l' entrata in vigore dei nuovi criteri "più stringenti" a un decreto attuativo del ministro dell' Economia. È certamente vero che Pier Carlo Padoan dal 12 maggio 2015 al 31 maggio 2018, per tre anni, si è ben guardato di emanare il decreto; che Giovanni Tria ha fatto lo stesso dal 1 giugno 2018 all' agosto scorso; e che Roberto Gualtieri non ha avuto l' incombenza tra i suoi primi pensieri negli ultimi tre mesi. Secondo l' autorevole Studio Ambrosetti i nuovi criteri europei, qualora adottati, farebbero saltare un consigliere d' amministrazione su quattro nelle banche. E nessun ministro ha avuto finora il coraggio di sfidare l' ira dei banchieri. Lo stesso M5S , così severo coi banchieri quando era all' opposizione, nei suoi 18 mesi di governo ha sempre fatto finta di niente. La Bce (che vigila sulle banche maggiori) e la Banca d' Italia, mentre attendono senza trepidazione il decreto Godot, hanno trovato la loro astutissima quadra. Dicono di aver adottato comunque i criteri "stringenti" della Crd IV e decidono caso per caso chi supera e chi no l' esame. Per esempio il cda dell' Ubi è stato rinnovato attraverso una trattativa sottobanco per cui non si sono ricandidati i consiglieri imputati nel processo per gravi reati commessi nella gestione della banca, ma è stato rieletto l' amministratore delegato Victor Massiah, imputato anche lui. E l' essere imputato in un processo sarebbe una delle cause ostative della Crd IV . Esattamente due anni fa Visco, in audizione davanti alla commissione parlamentare d' inchiesta sulle banche, affrontò il caso di Marco Morelli, messo al vertice di Mps nonostante la pesante sanzione ricevuta da Bankitalia proprio per fatti "gravissimi" commessi come dirigente dello stesso Monte dei Paschi. Visco borbottò qualcosa, poi lasciò la parola all' allora capo della vigilanza Carmelo Barbagallo, che disse: "La differenza tra la nuova normativa e la vecchia normativa sta nel fatto che per la nuova normativa sarà obbligatorio tenere conto delle sanzioni, come anche delle procedure penali in essere. Però, pur non essendo obbligatorio, questo aspetto è stato preso in considerazione ed è stato ritenuto che non incidesse nella situazione di Morelli". Quindi Morelli è stato giudicato con le nuove regole e promosso. De Bustis invece - ma lo dicono adesso che è scoppiata la grana - l' hanno dovuto giudicare con le regole vecchie. In realtà la regola seguita è sempre la stessa, vecchissima: la Banca d' Italia esercita il suo potere nel massimo arbitrio del governatore, del direttorio e talvolta anche del singolo dirigente. E la famosa moral suasion? L' hanno usata, come sempre, ma solo per proteggere De Bustis.
Crack Banca Base: arrestati il presidente del Cda e il direttore generale. Operazione delle Gurdia di Finanza, Piero Bottino, 63 anni, e Gaetano Sannolo, 47, sono agli arresti domiciliari. E con loro altre 18 persone per il fallimento della Banca sviluppo economico di Catania (Banca Base). I reati vanno dalla bancarotta fraudolenta, al falso in prospetto, all'ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza e all'aggiotaggio. La Repubblica il 19 dicembre 2019. Il presidente del Cda e il direttore generale di Banca Base, Piero Bottino, di 63 anni, e Gaetano Sannolo, di 47, sono stati arrestati, e posti ai domiciliari, da militari della guardia di finanza di Catania e del nucleo speciale di polizia valutaria nell'ambito dell'inchiesta sul crack dell'istituto di credito. Militari delle Fiamme gialle stanno inoltre notificando un avviso di conclusione indagini nei confronti di 18 indagati emesso dalla Procura distrettuale. I reati ipotizzati, a vario titolo, dalla Procura distrettuale di Catania per gli arrestati e i 18 indagati, sono, in concorso, bancarotta fraudolenta, falso in prospetto, ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza e aggiotaggio. Al centro dell'inchiesta lo stato d'insolvenza della Banca Sviluppo Economico s.p.a. (Banca Base) dichiarato dal Tribunale civile di Catania nel dicembre 2018 e confermato in appello nell'aprile 2019. L'operazione delle Fiamme Gialle, denominata "Fake Bank', secondo l'accusa, avrebbe consentito di "tracciare la perpetrazione ripetuta di illecite condotte operate dalla governance della 'fallita' banca etnea consistenti in operazioni finanziarie anti-economiche e dissipative del patrimonio societario in dispregio dei vincoli imposti dall'Autorità di Vigilanza".
Tria beffa Salvini, Di Maio e Conte. Il titolare dell'Economia dopo avere promosso la collaboratrice che gli contestavano mette tutti nel sacco sul decreto rimborsi ai risparmiatori. I tre costretti a subire il diktat, scrive Franco Bechis il 4 Aprile 2019 su Il Tempo. A vedere Giovanni Tria, il ministro dell'Economia, ti verrebbe voglia di mettergli vicino due body guard di quelli ben piantati. Lui piccolino, sempre sorridente, all'apparenza indifeso come potrebbe cavarsela altrimenti in mezzo a tutti quegli energumeni del governo gialloverde? Un giorno gli abbaia addosso Luigi Di Maio, l'altro gli ringhia Matteo Salvini. Perfino il mite Giuseppe Conte andando con gli urlatori ha imparato ad mettere qualche grido, sia pure con voce garrula. Da qualche giorno ce l'hanno tutti con lui e quando lo vedi in mezzo a quelli lì ti fa subito simpatia, ti verrebbe da proteggerlo. In questi giorni però Tria ha mostrato di non avere bisogno proprio di alcuna scorta, perché a difendersi è bravissimo da solo, tanto è che gli energumeni li ha messi tutti nel sacco. Il ministro era finito nel loro mirino per due cose. La prima appare banale e non lo è: al ministero dalla fine della scorsa estate ha preso con sé una collaboratrice grande amica della moglie, Claudia Bugno. Ha un buon curriculum, quindi non è quello il problema. Solo che una volta salita ai piani alti del potere la signora si è allargata un po', provocando ovvio risentimento. In una situazione così se non tutto fila a regola d'arte, prima o poi te la fanno pagare. E uno scivolone la Bugno ha in effetti compiuto, perché dopo che lei era arrivata al ministero il suo compagno che fa l'imprenditore ha pensato bene (ma non troppo) di assumere il figliastro di Tria. La cosa ha fatto qualche scalpore, e anche scandalizzato la maggioranza di governo, che non ne ha fatto mistero quando il ministro ha pure proposto la Bugno per il consiglio di amministrazione di una grande società come Stm Microelettronics. Con toni burberi gli hanno chiesto di ritirare quella nomina e di lasciare a casa la collaboratrice. Tria deve avere pensato che can che abbaia alla fine non morde, e ha fatto spallucce. Anzi ha preso in giro i suoi contestatori facendo ritirare alla Bugno la candidatura per quel cda e infilandola subito in un altro prestigioso posto come l'Agenzia spaziale italiana. Tria si è dimostrato così più forte di Salvini, Conte e Di Maio messi insieme. E lo è, semplicemente perché i tre non hanno nessuno di spendibile per sostituirlo. Allora i due vicepremier si sono messi ad abbaiare su un argomento popolare come quello dei decreti attuativi per i rimborsi ai risparmiatori truffati che il ministro dell'Economia tardava a firmare. Anche Conte, incoraggiato dai due, ha provato a fare la voce grossa, annunciando che oggi quei decreti entreranno nel testo del decretone sulla crescita che deve approvare il consiglio dei ministri. Ma non è vero, perché alla fine anche qui comanda Tria: i decreti resteranno al suo ministero, e verranno firmati solo una volta sciolti i problemi che ci sono. Su questo il ministro dell'Economia ha pure ragione da vendere. Perché Salvini e Di Maio hanno promesso il risarcimento degli investimenti a tutti i risparmiatori che abbiano titoli e obbligazioni di Banca Etruria, Banca delle Marche, Cassa di Ferrara, Cassa di Chiesi e delle due popolari venete a patto che abbiano subito «ingiusto pregiudizio» nella sottoscrizione di quegli investimenti. Ma come si fa a sapere se hanno subito ingiustizia? Tria dice: «lo deve stabilire la magistratura o un'autorità competente come Anac o Consob che abbia esaminato ogni singolo caso. Altrimenti io non firmo”. Ed è sacrosanto, tanto più che la promessa di rimborso vale anche per chi abbia azioni che erano quotate in borsa come quelle di Etruria. In effetti perché mai bisogna risarcire chi liberamente avesse deciso di comprare ad esempio nel 2010 e poi aveva ancora azioni in mano quando queste avevano perso il 90% del loro valore? Lo ha fatto liberamente, conoscendo i rischi che ci sono sul mercato azionario. Perché lui deve essere risarcito alla pari di chi si è visto infilare dalla banca di fiducia titoli non quotati e obbligazioni nel proprio portafoglio, o addirittura è stato minacciato di non avere il finanziamento o il mutuo richiesto se non avesse fatto quell'investimento? Quindi ci deve essere qualcuno che esamina i casi e dice «questo sì, questo no». Altrimenti si creerebbero i presupposti per chissà quante azioni giudiziarie. Il tipo ad esempio che ha investito in Mps perché aveva sentito da Matteo Renzi premier che sarebbe stato un affarone e invece ha perso un capitale, non avrebbe lo stesso diritto al risarcimento? Così non si finisce più. Tria ha ragione su questo e torto sulla vicenda della Bugno. Ma nell'uno e nell'altro caso ha fatto quello che voleva. Mettendo tutti nel sacco e dimostrandosi più forte di loro.
Franco Bechis: "Il vero sconfitto è il ministro Giovanni Tria ma vedrete che aveva ragione lui", scrive il 9 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Il ministro Giovanni Tria, alla fine, è "il grande sconfitto, che "si è piegato", scrive Franco Bechis nel suo editoriale su Il Tempo, "visto che la soluzione di rimborso ai risparmiatori scodellata ieri a palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte rappresenta una disfatta totale del Tesoro". Ma occhio, perché alla fine di tutto, vedrete che aveva ragione lui. "L'esecutivo ha ignorato tutti i dubbi- fondati- del ministro dell'Economia e deciso una cosa in sé incomprensibile: saranno rimborsati con quelle percentuali tutti i risparmiatori che non superino un reddito lordo familiare di 35 mila euro annui". Ma, si chiede Bechis, "che c'entra il reddito con un diritto ad essere rimborsato? Nulla. E chi guadagna 36 mila o 37 mila o 40 mila euro? Si attacca al tram". "Se Tria era preoccupato come aveva fatto trapelare nei giorni scorsi di possibili azioni di responsabilità e di cause di risarcimento dopo la firma sotto i decreti di rimborso, con questo testo può mettersi l'animo in pace: le cause saranno certe", conclude Bechis. "Perché il discorso è semplice: o ci sono risparmiatori truffati, o non ci sono. Se sono truffati, vanno risarciti tutti nella stessa misura indipendentemente dal reddito dichiarato, "nemmeno i comunisti dei tempi d'oro avevano osato fare una selezione di classe in questo modo".
Truffati delle banche, passa la linea Tria: rimborsi ai redditi sotto i 35mila euro, scrive il 9 aprile 2019 Il Dubbio. Intesa nel governo. Da un lato gli azionisti del governo, Lega e Movimento 5 Stelle, dall’altro il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. In mezzo, a fare da arbitro e mediatore: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che alla fine decreta la vittoria del titolare dei Conti nella lunga partita dei rimborsi ai truffati dalle banche. I risarcimenti seguiranno un doppio binario in base a reddito e patrimonio immobiliare. I rimborsi diretti saranno destinati a chi possiede un patrimonio immobiliare inferiore ai 100mila euro al 2018 oppure con un reddito imponibile inferiore ai35mila euro lordi sempre nel corso dello scorso anno. Gli altri dovranno invece passare per un arbitrato rapido, che attraverso la tipicizzazione dell’illecito, contrattuale o extra contrattuale, definirà l’eventuale rimborso. Secondo i numeri del ministero dell’Economia, almeno il 90 per cento del totale di circa 200mila risparmiatori passerà per gli indennizzi diretti. Ai risparmiatori azionisti verrà riconosciuto il 30 per cento di quanto perso, agli obbligazionisti subordinati il 95 per cento, come a chi deciderà di passare attraverso l’arbitrato. Solo due associazioni -“Noi che credevamo nella Banca Popolare di Vicenza” e il “Coordinamento don Torta” – si schierano contro l’accordo. «Non ci hanno fatto leggere la bozza, ci hanno descritto qualcosa. Non avendo visto nulla, non mi prendo la responsabilità di firmare», dichiara amareggiato Luigi Ugone, presidente della prima associazione. «Non sappiamo come andrà avanti la questione. Al momento i numeri del Mef non sono chiari ma restiamo aperti al confronto se vi fossero gli spazi». Abbastanza soddisfatte del risultato invece la maggior parte delle associazioni, convinte «che non ci fossero reali possibilità di miglioramento» del testo.
I TRUFFATI DALLE BANCHE. Sergio Rizzo per “Affari & Finanza - la Repubblica” l'8 aprile 2019. "Rimborseremo tutti", insistono. "Senza lodi o arbitrati", ingiungono al ministro dell' Economia Giovanni Tria, disperatamente impegnato a evitare la rotta di collisione con Bruxelles e a smentire che traballi la sua traballante poltrona. Rimborsare tutti vuol dire dare soldi pure a chi aveva comprato le azioni della banca per agevolare la concessione di un fido, oppure i semplici speculatori, chi aveva coscientemente acquistato obbligazioni subordinate allettato dall' interesse astronomico (incassato magari per anni). E poi gli è andata male. Dovrebbero allora spiegare, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, perché non rimborsare pure quelli che hanno comprato in borsa titoli di banche o aziende poi crollati, oppure chi ha visto calare il valore dei btp per l' impazzimento dello spread causato dalle scelte folli della politica. Non rendersi conto che questa assurdità del rimborsare tutti può aprire un micidiale vaso di Pandora, ecco, questo non è da governanti seri. Ma da irresponsabili. Al direttore del Foglio - Considero scandaloso l’accanimento nel voler risarcire, brevi manu, i c.d. truffati dalle banche, persino se azionisti o obbligazionisti strutturati; ciò in palese violazione non solo delle regole europee, ma delle stesse norme che il governo ha introdotto nella legge di Bilancio. Premesso che non si comprendono le ragioni per cui tocchi allo stato porre riparo, con i soldi di tutti, alla dabbenaggine di alcuni e ammesso che ci sia stata, la truffa dovrebbe pur essere accertata da un tribunale. Oppure basta l’autocertificazione degli interessati, come per le vaccinazioni?
Crac bancari: lo Stato rimborsa anche gli speculatori. Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Milena Gabanelli e Fabrizio Massaro su Corriere.it. Partiamo dai numeri. Secondo la stima del sottosegretario all’Economia, Alessio Villarosa (M5S), ne beneficeranno 300.000 «vittime». Vediamole. Dalle ultime assemblee risultavano 62 mila azionisti in Banca Etruria, 43 mila in Banca Marche, 28 mila in CariFerrara, 6 mila in CariChieti. Non tutte sono persone fisiche. Per quanto riguarda Popolare di Vicenza, i singoli soci erano 94 mila (su 119 mila azionisti totali) e 75 mila in Veneto Banca (su 87 mila). Poi ci sono gli obbligazionisti: quelli delle 4 banche erano complessivamente 10.559, e avevano sottoscritto bond subordinati per 329 milioni di euro. Altre duemila persone avevano invece comprato i bond presso altri istituti. Anche le due venete avevano piazzato 200 milioni di bond subordinati a singoli risparmiatori, ma non si sa quante siano le persone coinvolte. Si sa invece che tutti i risparmiatori coinvolti hanno cercato, o cercano, di recuperare i soldi. Molti denunciano di essere stati ingannati dalla banca che avrebbe suggerito loro l’acquisto dei bond o delle azioni pur non avendo un profilo di rischio adeguato. Lo Stato è intervenuto più volte in loro aiuto. Si è cominciato con i titolari di bond delle 4 banche saltate a novembre 2015. Il meccanismo è stato poi esteso anche agli obbligazionisti delle banche venete. Due le strade percorribili: chi aveva un reddito inferiore a 35 mila euro e patrimonio mobiliare sotto i 100 mila euro poteva chiedere il rimborso forfettario dell’80% dell’investimento; in alternativa c’era il ricorso all’arbitrato dell’autorità anticorruzione. In quest’ultimo caso l’Anac valuta ogni singola «truffa» e decide in base al grado di raggiro o di consapevolezza del risparmiatore. Dove viene accertata la violazione delle norme sul risparmio, il risparmiatore può ottenere fino al 100%.A fine 2018, per quanto riguarda gli obbligazionisti subordinati delle 4 banche, su 16.038 domande di indennizzo forfettario ne sono state liquidate 15.443, per un totale di 180,85 milioni di euro. Per quanto riguarda le venete, su 8.504 istanze ne sono state liquidate 2.183, per complessivi 8,67 milioni. Le regole di mercato europee fissano un principio netto: l’azionista quando compra sa di assumersi un rischio di impresa; se lo ha fatto perché vittima di truffa, deve risarcirlo innanzitutto la banca. Se non è possibile, perché la banca non c’è più, lo Stato può intervenire solo con «misure eccezionali» in casi singoli, per ragioni sociali. Gli azionisti delle quattro banche possono provare a fare causa alle banche subentrate, ovvero Bper e Ubi Banca. Non possono farlo invece i 169.000 azionisti di Popolare di Vicenza e Veneto Banca crollate nel 2017. Dopo aver fatto vendite fraudolente di massa, le due banche venete sono state rilevate, con una legge fatta apposta, da Intesa Sanpaolo. Però nella legge una norma specifica che Intesa non deve rispondere degli illeciti pregressi ai danni dei risparmiatori. I danneggiati però possono costituirsi parte civile nei processi contro gli ex amministratori o fare causa alle società di revisione (KPMG e PwC) e a Consob e Bankitalia per mancata vigilanza. Intanto a inizio 2018 il governo Gentiloni istituisce un fondo pubblico di 100 milioni per i «risparmiatori» spalmato su 4 anni. Per la prima volta anche chi aveva inconsapevolmente acquistato un titolo di rischio può avere un risarcimento, ma tocca all’Arbitro delle Controversie Finanziarie presso la Consob valutare caso per caso. Su 976 ricorsi, che andavano presentati entro settembre 2018 (in gran parte delle Venete), ne sono stati accolti 854, riconoscendo un danno di 36 milioni di euro. Alla fine la cifra liquidata sarà di 12 milioni di euro, poiché la legge stabiliva un rimborso pari al 30% dell’importo riconosciuto dall’Arbitro, fino a un massimo di 100.000 euro. Un intervento quindi eccezionale e in linea con le norme Ue sul mis-selling.Ora Lega e M5S allargano quel fondo da 100 milioni a 1,5 miliardi, attingendo ai «conti dormienti». Cioè soldi che lo Stato ha incamerato dai depositi dimenticati da altri risparmiatori, ribattezzato Fir (Fondo indennizzo risparmiatori). Possono accedere tutti, anche coloro che sono stati già esclusi dagli arbitrati per mancanza di requisiti, e chi ha speculato in piena coscienza. Potrebbero per esempio andare a risarcire anche quel signore che a maggio 2017, un mese prima che Vicenza saltasse per aria, comprò per 72 mila euro bond subordinati pari a 150 mila euro. Gli fosse andata bene, avrebbe guadagnato il 100%. Invece gli è andata male e allora si è rivolto alla Consob per il ristoro, che però ha rigettato la domanda, perché si è scoperto che era laureato in economia e commercio, aveva lavorato in finanza e aveva chiesto espressamente di comprare quei titoli. Ora questo signore può sperare nei rimborsi automatici di Di Maio e Salvini. Se verrà ammesso, recupererà il 95%. Inoltre se il tetto della soglia di povertà sarà alzato fino a comprendere chi oggi possiede titoli e fondi fino a 200.000 euro, vuol dire che verrà rimborsato anche chi non si può definire né povero e tantomeno sprovveduto. Il bacino elettorale veneto apprezzerà. Ma ancora una volta si stanno facendo i conti senza l’oste: il Commissario Ue Margrethe Vestager.
· Banche e Fisco. Lasciate ogni speranza voi che versate...
Espropriazione proletaria dei propri risparmi sui Conti Correnti.
Tasse, l'ultima follia dei 5 Stelle: aumentare l'Iva a chi paga l'hotel in contanti. Ira degli albergatori. Libero Quotidiano il 12 Settembre 2019. Dopo la proposta di alzare le tasse su merendine, sulle bibite e i voli per finanziare gli aumenti di stipendio degli insegnanti pubblici (idea partorita dal neoministro dell'Istruzione grillino, Lorenzo Fioramonti) l'altra proposta firmata Cinque Stelle prende di mira gli hotel e tutti coloro che vi alloggiano. Già costretti a pagare l'imposta di soggiorno e l'Iva sul prezzo delle camere, i clienti ora saranno obbligati a sborsare altri quattrini per l'aumento dell'imposta sul valore aggiunto. Aumento che toccherebbe il 23 per cento rispetto al 10 attuale. A giustificare la mirabolante mossa è la "lotta all'evasione fiscale". E così - riferisce Il Giornale -, dal prossimo 1 gennaio l'Iva sui costi dei soggiorni in hotel schizzerebbe di oltre il doppio sui pagamenti in contanti così da scoraggiare l'uso delle banconote e quindi, a loro avviso, anche l'evasione. Ma attenti, l'aumento sarebbe per tutti, anche per chi paga con le carte, che rivedrebbe la quota di Iva pagata in più solo sotto forma di credito di imposta. Una complicazione, visto che circa la metà di chi soggiorna in hotel è straniero e quindi del credito fiscale non se ne fa nulla. Il progetto ha subito scatenato le proteste dai rappresentanti del settore, come Alessandro Nucara, direttore generale di Federalberghi, che su twitter ha commentato così: "Se il buongiorno si vede dal mattino, allora si può dire che iniziamo male, molto male, malissimo! Aumentare l'Iva sui servizi alberghieri e della ristorazione significherebbe mandare fuori mercato le imprese del turismo e affossare la capacità competitiva del sistema Italia". Di diverso parere gli imprenditori che - tramite Confindustria - rilancia l'idea di incentivare l'uso dei pagamenti elettronici introducendo un credito di imposta del 2% al cliente che paga con carta di pagamento. E poi di disincentivare l'uso del contante in chiave anti-evasione, mettendo una tassa del 2% su chi preleva contanti dal bancomat.
Confindustria, la proposta anti evasione: tasse sui contanti. Sarebbero esentati i prelievi fino a 1.500 euro mensili: "Si avrebbe un gettito annuale di circa 3,4 miliardi". Luca Sablone, Mercoledì 11/09/2019, su Il Giornale. Il Centro studi di Confindustria ha elaborato una proposta per contrastare l'evasione fiscale. Per il recupero del gettito fiscale in vista della prossima legge di bilancio, è stata ideata una misura volta a incentivare l'utilizzo della moneta elettronica disincentivando invece quello del contante: sconti sulle carte e tasse sui contanti. Per i pagamenti elettronici dovrebbe essere riconosciuto un credito di imposta del 2%; una commissione del 2% sui prelievi potrebbe essere messa in atto per penalizzare i contanti.
Modificare le abitudini di spesa. Nella nota diramata dal Csc si legge che tale misura non comporterebbe oneri aggiuntivi netti per la finanza pubblica. Eventualmente verrebbero esentati i prelievi fino a 1.500 euro mensili: "Ciò si traduce in un'esenzione dalla commissione per il 75% dei conti italiani. Applicando una commissione del 2% sui prelievi eccedenti tale soglia, si avrebbe un gettito annuale di circa 3,4 miliardi". È stato poi evidenziato come i passi in avanti fatti negli ultimi anni nella lotta all'evasione fiscale abbiano "portato gradualmente all'emersione di gettito. Ne è un esempio il recente intervento sulla fatturazione elettronica. Malgrado ciò, la perdita di gettito fiscale e contributivo è stimato ancora sopra ai 100 miliardi di euro (fonte Mef), solo in parte attribuibile a grandi evasori". Il Centro studi ha poi sottolineato come l'Italia sia ancora uno dei paesi con una diffusione minore dell'utilizzo delle carte di pagamento, ribadendo che "l'utilizzo maggiore di metodi di pagamento digitale può far emergere gettito fiscale modificando le abitudini di spesa dei consumatori finali".
Tassa sui contanti in arrivo? La proposta shock di Confindustria. Anna Maria D’Andrea su Money il 12 Settembre 2019. Tassa sui contanti, Confindustria lancia la proposta di una tassazione aggiuntiva nel 2020 che porterebbe ad un aumento delle commissioni sui prelievi al bancomat. In parallelo, uno sconto fiscale per chi usa mezzi di pagamento tracciabili. È in arrivo una tassa sui contanti? L’ipotesi è verosimile ed è stata Confindustria a proporre la novità in ottica anti-evasione che potrebbe vedere la luce nel 2020. Il Centro Studi Confindustria propone di tassare i movimenti in denaro contante e, in parallelo, agevolare chi usa mezzi tracciabili come carte o bancomat. Una proposta shock accolta con tutt’altro che piacere: è stata Confesercenti a dire il primo secco no ad una tassa sui contanti nel 2020, che potrebbe trasformarsi in una nuova stangata sui consumi. La proposta di Confindustria di tassare i prelievi ed i pagamenti in contanti è però razionale se si analizzano i dati: in Italia gira ancora troppo denaro contante e l’evasione fiscale ci pone in cima alla classifica in Europa. Ad essere colpiti sarebbero i prelievi al bancomat di importo superiore ai 1.500 euro al mese, per i quali verrebbe applicata una commissione del 2%, stessa percentuale da riconoscere mediante un credito d’imposta a chi paga con mezzi tracciabili.
La proposta del Centro Studi Confindustria di istituire una tassa sui prelievi di denaro contante si inserisce in un periodo in cui è acceso il dibattito su come limitarne l’uso, ritenuto da sempre una spia del rischio evasione fiscale. Una novità che, tuttavia, non colpirebbe il 75% dei titolari di conti correnti che, secondo i dati, effettua prelievi di denaro contante per importi inferiori ai 1.500 euro.
Tassa sui contanti: cosa prevede la proposta Confindustria. La ricetta del Centro Studi Confindustria è chiara: introdurre un pacchetto di incentivi e disincentivi per stimolare l’uso di mezzi di pagamento tracciabili e scoraggiare l’uso del denaro contante.
Il meccanismo proposto si articola su due interventi:
garantire un credito di imposta del 2% al cliente che effettua i pagamenti mediante transazioni elettroniche (incentivo all’uso della moneta elettronica);
introdurre una commissione in percentuale dei prelievi da ATM o sportello eccedenti una certa soglia mensile (disincentivo all’uso del contante).
È soprattutto la nuova tassa sui prelievi di contante al bancomat che crea curiosità e preoccupazioni. La proposta di Confindustria è quella di tassare i prelievi mensili di importo superiore a 1.500 euro, applicando una commissione del 2% che garantirebbe in un anno un gettito complessivo pari a 3,4 miliardi di euro. Ad essere colpiti sarebbero il 25% dei conti italiani: l’analisi effettuata dal CSC mostra come il 75% del totale dei conti correnti effettua prelievi di denaro contante inferiore a tale soglia. Meno del 50% del contante prelevato afferisce infatti a conti dove l’ammontare complessivo è inferiore a 1.500 euro, mentre il 20% del contante prelevato proviene da conti dove le uscite di contanti superano i 3.000 euro al mese.
Tassa sui contanti e sconti per chi paga con bancomat. Accanto alla tassa-commissione sui prelievi di denaro contante, la proposta di Confindustria è di stimolare l’uso di mezzi tracciabili (classico esempio è il bancomat), riconoscendo un credito d’imposta pari al 2% del valore della transazione. Una proposta chiara: concedere un’agevolazione al consumatore, o mediante un credito d’imposta da applicare in sede di dichiarazione dei redditi, ovvero mediante sconto sul prezzo d’acquisto del bene o servizio, di modo da non penalizzare i contribuenti incapienti.
Tra le ipotesi formulate, il Centro Studi Confindustria ritiene: “un approccio particolarmente adatto per rendere operativa la misura è quello usato per la detrazione degli interessi passivi sui mutui. Analogamente a quanto accade per tali rapporti contrattuali, entro la data utile per la presentazione della dichiarazione dei redditi, le istituzioni finanziarie che emettono carte di pagamento produrranno ai titolari dei conti un certificato attestante il totale dei pagamenti elettronici effettuati nel corso dell’anno solare. Grazie a tale dichiarazione, sarà possibile fruire della detrazione per un ammontare pari al 2 per cento dei pagamenti effettuati in sede di dichiarazione.” A copertura del bonus per chi usa il bancomat vi sarebbero le maggiori entrate derivanti dalla tassa sui prelievi in contante. Insomma, un disegno chiaro e di facile attuazione.
Perché è verosimile l’ipotesi tassa sui contanti nel 2020. Secondo i dati dell’ISTAT (2016), il valore dell’economia sommersa in Italia è pari al 12,4% del PIL, con valori di gran lunga superiori a quelli degli altri Paesi Europei: 11% in più della Francia, 15% in più della Germania. Ciò determina una perdita di gettito tributario e contributivo, stimato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze in 107 miliardi di euro. È per questo che la necessità di contrastare l’evasione fiscale è prioritaria. Il tema dell’uso - o meglio dire abuso - del denaro contante non è di certo una novità ed è da anni che si cerca di disincentivarne l’utilizzo, con metodi che presentano diverse criticità. Emblematica è l’obbligatorietà di dotarsi di POS per tutti i commercianti e professionisti, norma ancora oggi attuata per metà in quanto priva di una disciplina sanzionatoria. Incentivare la tracciabilità dei pagamenti è diventata tuttavia una priorità negli ultimi anni, necessità che si lega ad altre misure introdotte con l’obiettivo finale di contrastare l’evasione, fatture e scontrini elettronici in testa.
Il 2020 viene visto da molti come l’anno in cui il “progetto” di addio al contante verrà completato. La proposta di Confindustria è soltanto l’ultima pervenuta in ordine temporale; si parla da alcune settimane della possibilità di far scattare l’aumento IVA soltanto sui pagamenti in denaro contante, con un parallelo meccanismo di credito d’imposta sulle transazioni tracciabili. Il tutto mentre si fanno sempre più intensi i controlli da parte di Entrate e Guardia Di Finanza. Non è quindi azzardato ipotizzare che il 2020 potrebbe essere l’anno di avvio dell’ultima e più intensa fase della guerra ai contanti. L’obiettivo è chiaro: recuperare gettito, e quindi risorse per lo Stato, riducendo l’evasione fiscale.
Se hai dei risparmi depositati su un conto corrente bancario, renditi conto che ne perdi la proprietà.
Nuovi controlli sui conti: c'è la stretta su prelievi e versamenti. Le banche dovranno comunicare tutte le generalità dei clienti che effettueranno nei primi mesi dell'anno depositi e prelievi in contanti per una cifra superiore ai 10mila euro. Franco Grilli, Lunedì 01/04/2019, su Il Giornale. Novità sui conti correnti e sui movimenti di danaro. Le banche adesso hanno l'obbligo di comunicare al Fisco entro il 15 settembre tutte le generalità dei clienti che effettueranno nei primi mesi dell'anno depositi e prelievi in contanti per una cifra superiore ai 10mila euro. Una comunicazione da parte dell'Uif, come riporta Italia Oggi, inasprisce i controlli sui contanti legati ai conti correnti. E a determinare questo cambio di passo è l'articolo 47 del decreto antiriciclaggio che su questo punto è molto chiaro: i dati saranno usati "per l’approfondimento di operazioni sospette e per effettuare analisi di fenomeni o tipologie di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo". Gli istituti di credito dunque dovranno inviare mensilmente alla Uif tutti i dati che riguardano tutti i movimento di deposito o prelievo che superano o sono pari a 10mila euro. Ma attenzione: la comunicazione dovrà avvenire anche se questi 10mila euro sono arrivati o sono stati prelevati dal conto in più soluzioni con operazioni ad esempio superiori a 1000 euro. In caso di mancata comunicazione su questo fronte, scattano sanzioni che vanno da un minimo di 5000 euro ad un massimo di 50mila euro. Nel caso in cui la banca riscontri un movimento che supera quello registrato dall'Uif, successivamente dovrà comunicare singolarmente tutte le operazioni che hanno un importo pari o superiore ai 1000 euro. Le comunicazioni che dovranno essere effettuate dalla banca conterranno i dati esatti dell'operazione, la filiale, la data, l'importo e la causale indicata. Poi tutti questi dati verranno trasmessi all'Uif per i relativi controlli.
Limite prelievo contanti dal conto corrente. La Legge per tutti il 3 Settembre 2019. Cosa succede se prelevi molti soldi allo sportello della banca e te li fai consegnare in contanti? Quali controlli possono fare la banca e l’Agenzia delle Entrate sull’utilizzo del denaro?
Dopo aver letto la nostra guida sul limite versamenti contanti su conto corrente sai bene ora che depositare denaro contante in banca può essere molto rischioso nonostante non esista alcun limite imposto dalla normativa sull’antiriciclaggio. Questo perché c’è una norma del testo unico delle imposte sui redditi secondo cui i bonifici o i versamenti sul conto corrente, se non giustificati o giustificabili, si presumono essere reddito e, quindi, vanno tassati. Il regalo di un familiare che non può essere dimostrato, la vincita al bingo o la giocata alle scommesse potrebbero insomma costarti un accertamento fiscale se non hai una convincente difesa da opporre all’Agenzia delle Entrate. A questo punto, ti chiederai se esiste anche un limite al prelievo di contanti dal conto corrente. Anche in questo caso la risposta deve fare i conti da un lato con la normativa sulla tracciabilità dei pagamenti e, dall’altro, con quella fiscale. Ma procediamo con ordine.
Si possono prelevare dal conto più di tremila euro? Avrai di certo sentito dire che la legge vieta i trasferimenti di contanti per cifre pari o superiori a 3mila euro. Questa norma, però, non si applica né ai prelievi, né ai versamenti in banca visto che, in questo caso, la proprietà del denaro resta sempre in capo allo stesso soggetto (il correntista), essendo l’istituto di credito un mero depositario e custode.
Detto ciò, quindi, non si rischia la famigerata multa per l’uso del contante che va da 3mila a 50mila euro, né tantomeno si rischiano sanzioni penali. In teoria, quindi, puoi anche estinguere il conto corrente e chiedere di ottenere i tuoi risparmi in contanti. L’unico limite al prelievo scatta per importi superiori a 12.500 euro: in questo caso, vi è il divieto di trasferire somme di denaro senza un intermediario abilitato (come la banca), il che è richiesto dalla normativa sull’antiriciclaggio. Ma attenzione: con una recente modifica alle norme è stata prevista una segnalazione obbligatoria alla Uif (l’Unità di informazione finanziaria) da parte delle banche per tutti i prelievi superiori a 10mila euro nell’arco dello stesso mese. E ciò vale anche se si tratta di prelievi frazionati in più operazioni di importo inferiore (ad esempio 10 prelievi da mille euro). La segnalazione viene fatta non per una questione fiscale ma per un controllo sulle attività illecite. Non finisce quindi all’Agenzia delle Entrate, ma potrebbe approdare alla Procura della Repubblica. Si tratta, è bene chiarirlo subito, di « controlli» e non di «divieti», siamo fuori dal perimetro delle segnalazioni per operazioni sospette (Sos) ma comunque, secondo la Gdf e la Direzione investigativa antimafia, in un ambito che deve essere monitorato per incrociare informazioni su chi è troppo appassionato al contante, «strumento anonimo e non tracciabile». L’obbligo, già introdotto nel 2017 con le modifiche al decreto antiriciclaggio (Dlgs 231/2007) , è stato meglio dettagliato dal Provvedimento dell’Uif del 28 marzo scorso. Le comunicazioni oggettive non sono controlli fiscali né di polizia ma servono, in ultima analisi, a “raffinare” le segnalazioni di operazioni sospette, inviate oggi a decine di migliaia ma spesso solo per evitare rischi all’intermediario più che per intercettare operazioni realmente a rischio riciclaggio/terrorismo. C’è poi un ulteriore limite: una volta in possesso dei contanti, non potrai spenderli o trasferirli a un’altra persona se si tratta di importi pari o superiori a 3mila euro. Potrai conservarli a casa o utilizzarli per i tuoi acquisti solo per spese più ridotte. Se però sei un imprenditore e il conto è intestato alla tua azienda devi stare molto attento. La legge, infatti, fissa un doppio limite: se, nel fare il prelievo di contanti dal conto corrente, superi il tetto di mille euro al giorno o di 5mila euro al mese, devi conservare i documenti per dimostrare al Fisco il beneficiario del pagamento.
La richiesta di chiarimenti da parte della banca. Se il prelievo di contanti dal tuo conto è consistente – ad esempio supera cinquemila euro – lo sportellista potrebbe chiederti chiarimenti sull’uso che intendi fare di tale denaro. Lo farà non per denunciarti all’Agenzia delle Entrate, ma in ottemperanza alla normativa sull’antiriciclaggio. Nel caso in cui l’operazione dovesse risultargli sospetta, dovrà segnalarti alla direzione della banca. Quest’ultima valuterà se mandare gli atti alla Uif (Unità di informazione finanziaria) che, a sua volta, potrebbe (nei casi più gravi) segnalare l’episodio alla Procura della Repubblica per le indagini. Insomma, l’eventualità è remota e, soprattutto, confinata ai casi più torbidi.
I controlli fiscali in caso di prelievi di contanti dal conto corrente. Diverse e molto più stringenti sono le regole sui controlli fiscali in caso di prelievi di contanti dal conto corrente bancario. Ancora una volta qui dobbiamo distinguere tra contribuenti disoccupati, pensionati o che svolgono un lavoro dipendente e quelli che, invece, sono titolari di una partita Iva e svolgono attività imprenditoriale. Per i primi non sono previsti controlli da parte dell’Agenzia delle Entrate sui prelievi in banca. Il che significa che se dovessi prendere dal conto 5mila euro in contanti e spenderli in una sola giornata, nessuno potrà dirti nulla. Attento però a non comprare beni di lusso come auto o case se non hai un reddito che può supportare tali spese. In queste ipotesi, infatti, incorreresti sicuramente in un accertamento fiscale tramite redditometro. Tale accertamento scatta tutte le volte in cui mantieni un tenore di vita superiore alle tue possibilità. Per evitare sanzioni fiscali, sarà meglio che, piuttosto di spendere il contante, utilizzi i bonifici bancari. In quel caso, avrai la prova che il denaro utilizzato non deriva da evasione, ma era già “tracciato” in banca. Invece per gli imprenditori, vige una regola diversa: il denaro prelevato dalla banca, se non giustificato, si presume utilizzato per investimenti e, quindi, viene tassato. In buona sostanza, se hai un conto corrente intestato alla tua azienda devi conservare un documento con data certa che attesta l’utilizzo che hai fatto dei soldi (ad esempio il pagamento di un risarcimento a una persona che hai investito con la bicicletta); altrimenti l’Agenzia delle Entrate potrà presumere magari che hai comprato merce per venderla senza emettere fattura o altre attività rivolte all’evasione fiscale.
Chiudiamo il cerchio con i professionisti, categoria “di mezzo” che ha dato più volte problemi interpretativi. Dopo un intervento della Corte Costituzionale del 2014, anche la Cassazione ha ritenuto che medici, avvocati, ingegneri, commercialisti, ecc. dovessero essere equiparati ai “comuni” contribuenti: non essendo soggetti a una contabilità separata, i prelievi dal conto corrente non sarebbero quindi sottoposti a controlli fiscali. Questo orientamento però, di recente, è stato sconfessato da una sentenza [3], sempre a firma della Cassazione. Secondo questo orientamento – che tuttavia è rimasto isolato – i professionisti sarebbero equiparabili agli imprenditori: quindi, l’Agenzia delle Entrate può presumere che dietro i prelievi di contanti, se l’utilizzo del denaro non viene giustificato, vi sia un’evasione. Il che è assurdo: verrebbe così imposto a tutti i professionisti di tenere un conto dedicato all’attività lavorativa, distinto da quello personale con il quale fare la spesa al supermercato. Ma la legge non prevede questo onere. Maggiori informazioni sull’argomento nell’articolo I controlli del fisco sul conto corrente di professionisti e autonomi.
È guerra dichiarata al contante. Il Conte bis prepara la sua manovra. Primo obiettivo: limitare l'uso di monete e banconote a colpi di bonus e sanzioni. Chiara Sarra, Martedì 17/09/2019, su Il Giornale. Non più solo voci e ipotesi: il governo è pronto a dichiarare guerra al contante. E lo farà con la manovra autunnale con cui conta di recuperare circa 17 miliardi di euro nel 2020. Allo studio da parte di Roberto Gualtieri c'è infatti un pacchetto di misure per contrastare l'evasione fiscale aumentando la tracciabilità delle transazioni (e le imposte ad esse collegate, ovviamente) con l'incentivazione all'uso delle carte bancarie e delle altre modalità di pagamento elettronico. Tutte modalità ora - tra l'altro - soggette spesso a commissioni e balzelli a carico dei commercianti. Diverse le opzioni al momento sul tavolo. C'è quella di Confesercenti che propone l'introduzione di un credito d'imposta del 2% sugli acquisti per chi usa carte di credito e bancomat. In pratica lo Stato restituirà ai contribuenti una parte delle somme spese - a patto che non si usino contanti -. Secondo i calcoli, si parla di un costo di circa 9 miliardi di euro, coperti però dall'aumento delle entrate fiscali (Iva in primis), oltre al fatto che scenderebbe il nero non dichiarato dai commercianti. In cambio i negozianti dovrebbero ottenere l'esenzione dal pagamento delle commissioni per i micro-pagamenti (almeno fino a 30 euro). Un'altra ipotesi è quella di tassare il contante. Strada osteggiata da Confcommercio perché mette a rischio "i tantissimi che certo evasori non sono e che semplicemente fanno ricorso a moneta legale sotto forma di carta moneta o moneta metallica". Molto meglio, secondo l'associazione, legare il sistema di detrazioni e deduzioni al pagamento con carte o incentivare la diffusione di bancomat senza costi di emissione per i cittadini di età superiore ai 65 anni. Al momento ha dati pochi risultati l'idea di obbligare tutti gli esercizi commerciali a dotarsi di un pos per il pagamento con le carte: senza sanzioni per chi non lo utilizza, i commercianti possono non accettare pagamenti elettronici per somme molto basse (quelle su cui pesa maggiormente la commissione bancaria). Ma la lotta al contante è solo iniziata. E il Conte bis sembra non aver affatto intenzione di rinunciarci.
Contanti, c’è un tesoro da 200 miliardi (e la tassa del 2% sul bancomat è giusta). Pubblicato martedì, 17 settembre 2019 su Corriere.it da Ferruccio de Bortoli. In Italia solo 13 operazione su 100 con le carte. Può servire la tassa del 2% sui prelievi del contante? Forse sì. Nei giorni scorsi il centro studi della Confindustria, di cui Andrea Montanino è capo economista, ha diffuso uno studio sull’argomento. La proposta è interessante e ha fatto discutere. Confesercenti per esempio è contraria. In sintesi prevede di concedere un credito d’imposta del 2 per cento ai clienti che nelle loro transazioni usano carte di credito e moneta elettronica. La banca provvederebbe a rilasciare ogni anno un documento da allegare alla dichiarazione dei redditi. In parallelo, dovrebbe essere disincentivato l’impiego del contante applicando un’extracommissione del 2 per cento per i prelievi superiori a una soglia fisiologica, per esempio 1.500 euro al mese. La perdita di gettito della prima misura verrebbe largamente compensata dagli incassi della seconda. Ma farebbe emergere attività e imponibili prima sconosciuti al Fisco. E, dunque, con effetti positivi per l’Erario crescenti nel tempo.Ovviamente vi sono ostacoli non trascurabili da superare. Come trattare, per esempio, gli incapienti sotto il profilo fiscale? Una misura del genere dovrebbe comportare uno sconto sulle commissioni da parte degli operatori bancari e non. E, aggiungiamo noi, l’esclusione del pagamento delle commissioni per i micropagamenti. Il costo della gestione del denaro fisico, per il solo sistema bancario italiano, è di circa 3,5 miliardi all’anno. E in teoria, con un deterrente di questo tipo, potrebbe venire meno il limite all’uso del contante. L’evoluzione dei pagamenti digitali prosegue a ritmi serrati. Inutile illudersi o distrarsi. Si tratta solo di decidere se adeguarsi per tempo o inseguire pagando costi superiori e sopportando inutili disagi. L’ecommerce non accetta, ovviamente, pagamenti in contanti. E nessuno si meraviglia. Ma gli stessi clienti di Amazon o Zalando stentano a considerare normale che nella quotidianità del mondo reale possa accadere lo stesso. L’introduzione della fatturazione elettronica è stata a lungo osteggiata. Si è tentato di ritardarne l’avvio. Oggi non la contesta nessuno. E ha fatto crescere il gettito Iva, nei primi quattro mesi dell’anno, del 5,4 per cento, nonostante la stagnazione dell’economia. Un altro tema ricorrente è quello della sanatoria del contante. Uno studio della Banca d’Italia rivela che le banconote da 500 euro costituiscono il 21,16 del valore complessivo del circolante. La Bce non le emette più da quest’anno proprio perché sono impiegate largamente in attività al di fuori della legge: dall’evasione fiscale, alla corruzione, alla criminalità di vario tipo. L’Italia ne ha una montagna inimmaginabile: cento volte più di quelle che stampa. La stima del contante che sfugge al Fisco è di 200 miliardi: all’estero, nelle cassette di sicurezza, un po’ ovunque. L’insano amore degli italiani per il contante è anche e soprattutto il riflesso della voglia di evadere e di infrangere la legge. Proposte di emersione ne sono state fatte tante. Nel 2017 quella di far pagare una «tassa piatta» del 30 per cento (più o meno il costo illegale della ripulitura) è stata respinta con sdegno. Con motivazioni condivisibili, specie se le somme sono frutto, anziché dell’evasione, di attività di corruzione o peggio. Ma la voluntary disclosure del 2015, come ha ricordato Alessandro Galimberti sul Sole 24 Ore, ha fatto pagare ai capitali rientranti solo il 5 per cento. E quella del 2017 sul contante, con l’aliquota massima del 43 per cento, sugli ultimi cinque anni di redditi, è andata pressoché deserta. Un fallimento. Ora, tra le proposte di cui si discute, ve n’è una in un paper a cura di Luigi Casero, ex viceministro dell’Economia, e Maurizio Bernardo, ex presidente Commissione Bilancio della Camera, che prevede di tassare con un’aliquota del 30-40 per cento solo una parte della somma emersa, al massimo la metà, con il reinvestimento obbligatorio del resto in titoli di Stato infruttiferi per cinque anni. Ovviamente con l’impegno alla verifica dell’eventuale provenienza illecita delle somme che si spingerebbe a un arretrato non superiore a dieci anni. In una fase così delicata per i conti pubblici, alla ricerca di capitali per ridurre le tasse sul lavoro, aiutare i giovani, investire sulla scuola qualche rischio va corso. «È il momento giusto — dice Stefano Simontacchi, presidente di BonelliErede, tra i più attivi professionisti nello studio del “dossier emersione” — ma il meccanismo della sanatoria non deve essere troppo complicato. E l’aliquota intorno al 10 per cento potrebbe bastare. Aggiungerei l’obbligo d’investire parte della somma in social bond, volontariato, attività di ricerca. Certo, tutte le anomalie vanno poi indagate dal Fisco e dalle Procure. Ma sono contribuenti che d’ora in poi saranno monitorati. Toglieremmo dal circuito del nero guadagni di vario tipo. Pensate solo se si concedesse, come in Germania, la deduzione delle spese in colf, ripetizioni scolastiche, badanti, spese oggi in gran parte in nero. Si darebbe una mano al Fisco ma si combatterebbe anche l’immigrazione clandestina, lo sfruttamento del lavoro, soprattutto femminile». Certo c’è sempre il rischio che qualche delinquente la faccia franca. Ma il rischio zero non esiste. Vale la pena di provarci.
Gianni Trovati per ''Il Sole 24 Ore'' il 16 settembre 2019. L'avvicinarsi della manovra riaccende le discussioni sulla lotta all'evasione fiscale a colpi di limiti o divieti all'utilizzo del contante. Ma tanta passione non sembra coinvolgere Giulio Tremonti. «La finanziaria - ragiona l' ex ministro dell' Economia - segna tradizionalmente l' inizio della stagione venatoria, che nel caso specifico si manifesta come caccia all' evasore fiscale. Ogni autunno si aprono i cancelli dello zoo: la novità di quest'anno è la varietà e la modernità delle specie. Non è più il vicino di casa o il negoziante che nega lo scontrino, si vede un' evoluzione in senso tecnologico che arriva fino a prospettare pagamenti realizzati con l' iride o con la mano. Una gamma di strumenti ampiamente utilizzati in Cina, dove in effetti il contante quasi non c' è più. Il che forse autorizza l'idea che da quelle parti si vada configurando una vera e propria dittatura, più che fiscale, digitale».
Da Bankitalia al Comitato per la sicurezza finanziaria, però, le analisi concordano nell'indicare un legame stretto fra la diffusione del contante e il rischio di evasione fiscale e riciclaggio.
«Sono pronto a riconoscere ad altri una superiore capacità di formulare studi sull'evasione. Ma questa lotta al contante è la tipica forma di intervento demagogico e regressivo, perché il contante in Italia è prima di tutto lo strumento dei poveri e degli anziani. Con campagne di questo tipo, se anche non ti importa di perdere i voti, certamente non guadagni gettito perché spingi ancora più sul nero. Bisogna cambiare ottica».
In che senso?
«Non è una norma fiscale a modificare i comportamenti di una società, ma è l' evoluzione della società a portare con sé migliori rapporti fiscali. Solo una prospettiva graduale e progressiva può avere successo se congiuntamente rispetta e coinvolge le persone. Gli interventi strampalati di cui si parla in questi giorni rischiano di essere incostituzionali, e fuori dal quadro europeo. Gli strumenti normativi, poi, devono considerare la realtà effettiva. Dopo l' 11 settembre si pensò a un complicatissimo sistema di controllo dei flussi finanziari in funzione antiterrorismo, che però si sarebbe rivelato inutile perché gli attentati purtroppo sono continuati, ma in forma low cost».
Quando si guarda alle classifiche internazionali, però, l' Italia occupa le prime posizioni sia in termini di utilizzo del contante sia in termini di evasione. Non c' è un legame?
«Le stime sull'evasione sono ampiamente discutibili. Dai calcoli Ocse sulle voluntary disclosure si scoprì per esempio che il capitale tedesco in Austria, Lussemburgo e Svizzera era pari a quello italiano in rapporto al Pil. E guardare a quello che capita nel resto d' Europa può essere di qualche utilità. Ci sono 11 Paesi che non conoscono limiti di legge all' uso del contante, e fra questi ci sono appunto Germania, Regno Unito, Austria, Svezia. È una scelta ideologica, di libertà e anche di sicurezza perché in tanti casi il contante può essere una riserva. E perché si assume che una totale dipendenza dalle banche sia un limite gravissimo alla libertà. È poi sbagliato pensare che ci sia un legame diretto e assoluto per effetto del quale se elimini il contante elimini l' evasione. Un conto è vietare il contante, altro conto è non usarlo: in 11 Paesi in Europa convivono l'assenza di divieti con l' uso del contante comunque volontariamente limitato alle piccole operazioni. Fermo che in molti casi va per contanti l'assegnazione ai dipendenti di enormi stock di auto a chilometro zero o l' acquisto non malavitoso di beni immobiliari di valore. In tutti questi casi si parla comunque di libertà considerata non incompatibile con i doveri fiscali».
In quest'ottica, allora, più dei divieti possono tornare utili incentivi e disincentivi.
«Certo non quelli che ipotizzano aliquote Iva diverse a seconda della modalità di pagamento, anche perché l' Iva è per definizione europea e neutrale rispetto a ogni tipo di flusso finanziario».
C'è però il tema delle detrazioni e deduzioni fiscali. Alcune, per esempio quelle per le spese in risparmio energetico, sono già vincolate a pagamenti tracciabili. Non è un meccanismo da estendere?
«Non credo su scala vasta e generale. Il cosiddetto contrasto d' interessi, per cui io batto l' evasione se ti concedo deduzioni e detrazioni, realizza l'ideale concentrazionario per cui ognuno diventa il finanziere dell' altro. Se applicati sistematicamente, poi, questi sistemi sono regressivi. Poniamo per esempio di concedere uno sconto fiscale al padrone di casa che chiama l' idraulico se si fa fare la ricevuta: a parità di lavandino, l' anziano pensionato che non ha capienza Irpef paga il prezzo pieno, il benestante ottiene invece la deduzione e quindi il lavandino gli costa meno».
Questa evoluzione non è però favorita da condoni, definizioni agevolate, paci fiscali e dalle tante forme di sanatoria che periodicamente si affacciano nell' ordinamento tributario. Chiudere davvero questa stagione non potrebbe aiutare?
«Non è vero nemmeno questo. E anche in questo caso è utile vedere che cosa accade all' estero. Molti sistemi, a partire da quelli anglosassoni ma per arrivare anche a quelli continentali, conoscono meccanismi permanenti di definizione agevolata dei debiti fiscali. Il nostro è sempre stato invece un sistema dogmaticamente rigido, e un sistema rigido per forza produce rotture periodiche, sotto forma di condono. Solo negli ultimi anni abbiamo introdotto meccanismi come l' accertamento con adesione, e per esempio la Procura di Milano ha agito in questi termini nei grossi casi recenti. Se da noi i condoni sono stati saltuari, uno ogni dieci anni, in tanti altri sistemi, meno rigidi in assoluto, al posto dei condoni periodici ci sono meccanismi permanenti, addirittura preventivi».
Tassa sui contanti, il regalo del governo alle banche: con carte e bancomat incassano commissioni fino al 9%. Giuliano Balestreri su it.businessinsider.com il 17 settembre 2019. “Se torna a pagare domani in contanti le faccio volentieri lo sconto. Ovviamente – dice il ristoratore – le do lo scontrino, ma preferisco fare un favore a lei che alle banche: sa quanto mi costa accettare un pagamento con la carta di credito?” La risposta è nei documenti delle banche italiane: può arrivare fino al 9% dell’importo a cui, però, bisogna aggiungere l’affitto del Pos, le spese una tantum ed eventuali manutenzioni. Da cinque anni è entrato in vigore l’obbligo di accettare carte e bancomat, ma nonostante tutto le transazioni sono ferme al palo: in Italia, l’80% delle spese viene ancora regolato in contanti, una dato che non ha eguali in tutta Europa. “La Ue – spiega un piccolo imprenditore che vuole restare anonimo – ha imposto un tetto alle commissione interbancarie, ma gli istituti italiani aggiungono costi su costi rendendo carissimo il rispetto della legge”. Il governo, però, deve fare cassa in vista della legge di Bilancio e così pensa a una sorta di tassa sul contante con l’obiettivo – non secondario – di stanare eventuali evasori. Un progetto sicuramente meritevole, ma che rischia di trasformarsi nell’ennesimo regalo al sistema bancario. Sebbene il regolamento Ue abbia tagliato le commissioni interbancarie allo 0,2% per transazione quando si utilizza il bancomat e allo 0,3% nel caso delle carte di credito; nessun commerciante italiano paga così poco. Secondo uno studio recente la commissione media pagata dagli esercenti italiani è dello 0,9%: lo 0,54% finisce delle tasche dei circuiti internazionali (Visa, Mastercard, Amex, etc etc); il resto in quello delle banche italiane. Per i piccoli esercenti il conto è decisamente più salato: 1,32% con lo 0,78% direttamente nelle casse degli istituti di credito italiani. Calcolare le medie, però, è sempre un esercizio complicato un po’ perché non vengono considerati i costi fissi accessori come l’affitto del Pos (il terminale di pagamento); un po’ perché i contratti vengono negoziati individualmente con ampi margini discrezionali da parte della banca. Per esempio, nei contratti standard, Unicredit fornisce il proprio Pos dietro il pagamento una tantum di 100 euro a cui aggiungere un canone mensile che oscilla tra i 30 e gli 80 euro. Ancora più ampio è, invece, lo spettro delle commissioni per ogni singola transazione. Quando si tratta di Pagobancomat, per ogni pagamento, Unicredit trattiene fino al 2,25% quando l’esercente accetta una carta emessa dalla stessa banca, in tutti gli altri casa la commissione sale al 2,3%. Sono decisamente più onerose la transazioni con carta di credito: partono dal 3,55% per le carte emesse da Unicredit per arrivare al 5% (addirittura il 6% nei casi di vendite telefoniche e per corrispondenza). Intesa Sanpaolo, invece, chiede 200 euro per installare il Pos oltre a un canone mensile che varia da 40 a 55 euro (ma con una maggiorazione del 50% per i servizi stagionali). Le commissioni oscillano dall’1,8% per il Pagobancomat fino al 4,45% per alcune carte di credito: l’importo minimo a partire da 5 euro, però, è di 0,5 euro a transazione. Tradotto: per due cappuccini e due brioches si arriva pagare una commissione pari al 10% del transato. Si tratta, come detto, di indicativi dei massimali e tutte le cifre possono essere negoziate al ribasso, ma in assoluta mancanza di trasparenza verso il mercato e i consumatori. Addirittura secondo il limite indicato da Nexi le banche potrebbero arrivare a chiedere una commissione fino al 9%. “Per sostituire i contanti serve creare un sistema di pagamento elettronico che abbatta drasticamente le commissioni per gli esercenti, che sia piacevole da usare per i consumatori e che possa creare del valore aggiunto per tutti” dice Alberto Dalmasso, co-fondatore e Ceo di Satispay, la fintech italiana dei pagamenti che ha azzerato le commissioni per le transazioni fino a 10 euro e le ha fissata a 0,2 per tutti gli importi superiori. “Gli esercenti – prosegue l’imprenditore – reagiscono male alle proposte avanzate perché si parla di pagamenti elettronici associando e menzionando sempre e solo gli strumenti più tradizionali, come le carte di credito, mentre è necessario comprendere tutte le soluzioni alternative, convenienti e che possono anche sostenerli nel business. Noi siamo una ma ce ne sono anche altre con caratteristiche diverse”; da SumUp ad Axerve Easy, da MyPos Mini a Plick. Di più: la Psd2 ha regolato il ruolo delle terze parti abbattendo la barriera all’ingresso che proteggeva la banche.
Paolo Baroni per ''La Stampa'' il 28 settembre 2019. I commercianti sono favorevoli a misure che incentivano la tracciabilità ma anche tra gli esercenti più «evoluti» e aperti ai pagamenti elettronici, come quelli che ad esempio aderiscono al circuito della app «Satispay», resta alta l' attenzione ai costi dei vari strumenti di pagamento. Soprattutto per le transazioni fino ai 25 euro, ovvero quei piccoli importi che proprio in questi giorni sono finiti sotto la lente del governo che punta ad intensificare l' utilizzo della moneta elettronica in chiave antievasione. L' obiettivo dichiarato è quello di recuperare l' anno prossimo all' incirca 4 miliardi dei 33 di Iva che viene evasa ogni anno in Italia e per questo si vogliono incentivare i pagamenti tracciabili. Il caro-Pos, i costi eccessivi che un esercizio commerciale deve sostenere per gestire i pagamenti con Bancomat e carte di credito (che non a caso stentano ad imporsi sul contante), non da oggi è uno dei cavalli di battaglia della protesta dei commercianti. Perché se è vero che in base ad una direttiva europea da fine 2015 le banche devono applicare agli esercenti un prelievo massimo dello 0,3% per le carte di credito e dello 0,2% per bancomat e carte prepagate (con aliquote in proporzione più ridotte per importi sino a 5 euro), è anche vero che il costo delle macchinette tra oneri di installazione e canoni, resta sempre alto.
Quanto costa un Pos. I prezzi cambiano da banca a banca e a seconda che il Pos rientri in un pacchetto complessivo che comprende anche il conto corrente e magari altri servizi. Un Pos «fisso», se si guarda a titolo puramente indicativo ai principali operatori, con le Poste costa 15 euro al mese più Iva, 28,5 quello di Unicredit, da 9 a 18 quello di Intesa. La versione cordless arriva anche a 40 euro/mese. Per un Pos non appoggiato al conto Unicredit chiede invece 100 euro/mese. In questo modo in un anno un commerciante spende da un minino di 108 ad un massimo di 480 euro a cui occorre poi aggiungere i canoni mensili sui collegamenti: solo per stare a Intesa Sanpaolo in questo caso si va da un mino di 9 (Pos collegato ad una linea analogica) ad un massimo di 40 euro per apparecchio cordeless. Poi ci sono le commissioni applicate sulle transazioni spinte decisamente all' insù da operatori come American Express, Diners o le stesse Poste (che fanno pagare anche più del 2% su ogni operazione). Amex, ad esempio, applica una commissione del 4% sino a 100 mila euro di transato ogni anno, poi scende per gradi sino al 3,85% sopra i 10 milioni di euro. «La tariffa accordata agli esercenti - specifica il loro sito - è in realtà inferiore e solitamente si attesta attorno al 2%». Questo fa sì - sostiene l' Abi - che la media del costo delle commissioni in Italia sfori i «tetti» europei e si attesti attorno allo 0,59%. Confesercenti a sua volta parla di costo medio a carico dei negozi tra lo 0,5 e lo 0,75% del transato.
Il caso Satispay. La concorrenza dei nuovi strumenti (oltre al pressing del governo) dovrebbe indurre le banche a più miti consigli. Proliferano infatti i sistemi alternativi. Ad esempio Satispay - che proprio ieri ha diffuso i dati di un sondaggio su un campione di 3.500 negozianti, che in maggioranza (65,85) apprezza i nuovi incentivi ai pagamenti elettronici - non fa pagare nulla agli utenti mentre agli esercenti chiede solo una commissione fissa di 20 centesimi a partire da 10 euro di spesa in sù, mentre sotto questa soglia non fa invece pagare nulla. Avviato a fine 2015 questo sistema di mobil payement ha appena superato la soglia degli 800mila utenti registrati con 90 mila esercizi convenzionati in tutta Italia.
Morya Longo per ilsole24ore.com 26 ottobre 2019. È un’occasione persa per le famiglie. È un’occasione persa per quell’economia reale di cui si auspica da sempre il rilancio. E, in fondo, è l’ennesimo simbolo di un Paese bloccato. Che di occasioni ne perde tante. I circa 1.400 miliardi di euro tenuti in contanti o su depositi bancari da famiglie e aziende italiane (300 in più in 10 anni) questo sono: occasioni perse. Per le famiglie tenere un terzo dei risparmi in contanti o su conti significa farseli erodere dall’inflazione: in termini reali, mille euro lasciati cash 10 anni fa oggi equivalgono infatti a 875 euro in termini di potere d’acquisto. Per le imprese, che secondo la Banca d’Italia solo da gennaio hanno aumentato la liquidità sui conti da 265 a 304 miliardi di euro, significa tenere i soldi parcheggiati invece di investirli. Famiglie più povere, investimenti più rarefatti: troppa liquidità bloccata a questo porta. Ciò non significa che i risparmi non vadano tenuti sui conti. Non significa rinunciare alla prudenza. Significa però che non bisogna esagerare. Una gestione più equilibrata della ricchezza potrebbe trasformarsi da occasione persa a volàno per il Paese.
La tassa chiamata inflazione. I calcoli realizzati da AdviseOnly per Il Sole 24 Ore sono eloquenti. Chi avesse messo mille euro sotto il materasso 20 anni fa, oggi avrebbe ancora mille euro in termini nominali. Ma in termini reali, cioè tenendo conto che la pur minima inflazione riduce il potere d’acquisto, quei mille euro oggi varrebbero 588 euro. Di fatto la metà. Chi avesse messo gli stessi mille euro sotto il materasso 10 anni fa, invece, oggi in termini reali ne avrebbe 875. Chi l’avesse fatto 5 anni fa, oggi si troverebbe 967 euro. Per quanto riguarda i conti correnti la situazione è anche peggiore. Ormai offrono rendimenti praticamente a zero. In media (unendo conti e conti deposito) secondo la Banca d’Italia si arriva allo 0,37%. Sui soli conti correnti il tasso è invece dello 0,04%. E anche in Italia è iniziato il dibattito sui tassi negativi sopra certe soglie. Sui conti, poi, ci sono le spese di gestione: nel 2018, secondo la Banca d’Italia, sono state pari a 86,9 euro. Morale: guardando il panorama delle varie banche, ormai sui conti correnti i costi superano gli interessi. Sotto il materasso o sul conto, dunque, la ricchezza appassisce. Senza fare rumore. Nella storia gli investimenti finanziari hanno invece reso di più: gli stessi mille euro investiti sulle Borse globali 20 anni fa, secondo i calcoli di AdviseOnly sarebbero diventati in termini reali 2.154 euro. In 10 anni 2.241. Gli stessi mille euro investiti bond globali dopo 10 anni sarebbero diventati 1.156 e dopo 20 anni 2.127. È vero che i mercati sono rischiosi e volatili e che le performance del passato non sono indicative sul futuro. Ma è anche vero che negli ultimi 100 anni - secondo uno studio di Robeco - azioni e bond hanno battuto il rendimento del cash: in termini reali dell’1% medio annuo per i bond e del 4,2% per le Borse. Pur con tutta la prudenza del caso e con una buona diversificazione, sono numeri da non cestinare a priori.
Più cash, meno investimenti. C’è poi un secondo tema: quello degli investimenti nell’economia reale. Prendiamo le imprese non finanziarie, che da gennaio hanno aumentato i soldi sul conto corrente di quasi 40 miliardi di euro. Se si sommano le famiglie produttrici, cioè le micro-imprese, la cifra sale di altri 5 miliardi. Questi sono soldi che le imprese avrebbero potuto investire in impianti, in acquisizioni, in assunzioni. Almeno in parte. Invece sono rimasti fermi. A tassi zero. Più sottile il discorso per le famiglie. Le banche usano infatti i depositi della clientela come fonte di raccolta, con cui poi erogano credito alle imprese. Ridurre la giacenza sui conti può dunque togliere alle banche un po’ di “linfa” per erogare credito. Del resto, però, i soldi tolti dai conti e investiti in economia reale (in azioni o obbligazioni, dunque in imprese) vanno a loro volta a far crescere l’economia. Sul mercato esistono anche strumenti (come i Pir o gli Eltif) che a piccole dosi (hanno una elevata componente di rischio) permettono ai risparmiatori di finanziare le Pmi italiane. Ovviamente non esiste il mix perfetto tra conto e investimenti. Ognuno ha la sua propensione al rischio, le proprie esigenze, il proprio orizzonte temporale. Ma - sui grandi numeri - basterebbe un minimo “disgelo” di quei 1.400 miliardi cash o sui conti, che gli italiani potrebbero - pur senza sostituirsi al Governo o ai grandi investitori - dare linfa a se stessi e al proprio Paese.
Conti correnti e bot: perché perdiamo invece di guadagnarci. Pubblicato mercoledì, 23 ottobre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Giuditta Marvelli. Quali sono gli effetti dei tassi negativi su conti dello Stato, banche e vita quotidiana dei cittadini. Il tasso di interesse indica il guadagno che chi presta denaro otterrà in cambio. Se è pari al 3% annuo e io compro un Btp prestando 1.000 euro al Tesoro, dopo il primo anno il mio capitale sarà pari a 1.030 euro. Il vantaggio per gli Stati è quello di indebitarsi a cifre sempre più basse. L’Italia, per esempio nel 2012 spendeva per pagare gli interessi dei Btp il 5% del Pil, nel 2020 (stime del Fmi) spenderà intorno al 3,5%. Ma perché i tassi sono diventati negativi? La storia comincia dopo la crisi finanziaria del 2008: le banche centrali (dalla Fed alla Bce) hanno inondato i mercati di soldi per evitare il crollo dei prezzi di beni e servizi (la deflazione), con la conseguente paralisi dei consumi (perché devo comprare una cosa se so che domani costerà meno?) e l’innesco di una spirale che porta alla diminuzione dei salari, al fallimento delle aziende e delle banche che le finanziano. In definitiva, ad una débacle dell’economia.In questo modo le banche centrali hanno mandato a zero il costo del denaro, ma per curare l’economia hanno anche comprato 15 mila miliardi di dollari di obbligazioni, levandole dal mercato e mettendole nei loro bilanci. I loro prezzi sono quindi cresciuti e i rendimenti diminuiti. In Europa, dove c’è la moneta unica ma ogni Paese continua a far da sé la politica fiscale ed economica, i titoli degli Stati ritenuti più affidabili sono diventati merce rara. Ed ecco spiegato perché la Germania ha quasi tutti i tassi di interesse negativi e prezzi dei titoli di Stato carissimi, mentre l’Italia no. Dal 2014 si è poi disincentivato le banche a tenere i soldi parcheggiati presso la Bce: bisogna pagare per farlo, anziché incassare un interesse. L’obiettivo è quello di spingere le banche a prestare più soldi a famiglie e imprese e ad investirli da altre parti (visto che comprare titoli pregiati non rende più). Funziona la cura? Un po’ sì, visto che la spirale deflazionistica non si è messa in moto. Un po’ no, perché gli investitori non hanno rischiato granché, e a lungo andare il conto sarà salato per tutti.I tassi negativi in Europa potrebbero durare altri otto anni (stime Jp Morgan am) con due problemi all’orizzonte. Il primo riguarda il sistema bancario: se non «rovescia» sui clienti i tassi negativi pagati alle banche centrali per la sua attività monetaria all’ingrosso i conti non quadrano. Si stima che fra il 2014 e il 2018 le banche europee abbiano perso 23 miliardi. Vuol dire che oltre ad aumentare i costi per i servizi, rischiamo di pagare un interesse per tenere i soldi sul conto corrente? Il portale Biallo.de ha fatto un sondaggio tra 160 banche tedesche: ben 107 hanno chiesto ai clienti di pagare un tasso negativo sui conti correnti. Accade anche in Svizzera e Danimarca. Certo si tratta di depositi con soglie intorno al milione di euro. Intanto Unicredit ha annunciato una misura simile a partire dal 2020. Oggi mantenere i soldi sul conto corrente tradizionale costa in media a una famiglia 145 euro l’anno (l’Economia del Corriere, prime sette banche, settembre 2019) a fronte di un rendimento a zero. Quindi anche per gli italiani con poche migliaia di euro sul conto i tassi bancari sono negativi da un pezzo.I fondi pensione e le assicurazioni hanno sempre comprato titoli di Stato, proprio perché devono fare investimenti sicuri: la prestazione finale dei loro prodotti è garantita. Ora i bond con tasso negativo li stanno mettendo in difficoltà (perdono invece di guadagnare) e non possono permettersi di investire massicciamente in titoli troppo rischiosi, che espongono al pericolo di non mantenere le promesse fatte ai clienti, grandi e piccoli. Come è successo, per esempio alla Cassa di risparmio di Amburgo, che ha annunciato di dover cancellare 16 mila piani di risparmio.Come se ne esce? Con piani di investimento pubblico e di politica fiscale, almeno per i Paesi che possono permetterselo. E non lo ha detto solo Mario Draghi, in procinto di lasciare la Bce. Kristalina Georgieva, la nuova numero uno del Fondo monetario internazionale, nel suo discorso di insediamento ha citato espressamente le potenzialità di spesa della Germania: «è ora che faccia la sua parte». Berlino ha fatto bottino con i Bund, la merce rara che tutti vogliono, e dal 2014 al 2018 il rapporto debito/Pil è passato dal 75,3% al 60,9%, mentre quello dell’Italia è sempre sopra il 130%. Però nessun investimento pubblico, e ha puntato sull’export. Ma ora c’è la Brexit, i dazi Usa e un’economia globale in frenata, con tutti gli indicatori, dal manifatturiero all’export, ai minimi del 2009. Se i tedeschi spendessero di più, a cominciare dall’annunciato piano di investimenti «verdi» da 100 miliardi di euro, l’Italia, da sempre partner commerciale della Germania, ma anche tutta l’Unione ne trarrebbero beneficio.
Tenere i soldi sul conto corrente non conviene: €1.000 diventano €180 in 5 anni. Flavia Provenzani il 10 Settembre 2019 su Money. Avere soldi sul conto corrente espone i propri risparmi alla corrosione dell’inflazione: 1.000 euro arrivano a valere solo 180 euro in 5 anni. Quali soluzioni? Tenere i propri soldi in un conto corrente è sicuro (nei limiti dei 100 mila euro), ma non è una scelta intelligente. I risparmi perdono di valore nel corso del tempo, soprattutto a causa della corrosione dell’inflazione e delle commissioni bancarie. In cinque anni 1.000 euro arrivano a valere solamente 180 euro - un deprezzamento di circa l’80% al netto dell’imposta di bollo dovuta. Tra le spese dovute alla banca, le imposte e la perdita del potere d’acquisto causata dall’aumento dell’inflazione, nello stesso arco di tempo 10.000 euro arrivano a valerne solo 8.181, un deprezzamento di circa il 20%. Se con i conti correnti offerti dalle banche online si riesce a risparmiare rispetto ai costi applicati dalle banche tradizionali, la situazione rimane scoraggiante. Inoltre, scegliere di parcheggiare il denaro piuttosto che investirlo causa un danno al risparmiatore, che rinuncia in questo modo ad un rendimento annuo che viaggia dall’1,1% al 4,2%. Il tasso di rendimento derivante dall’attività di investimento, lo ricordiamo, varia in base al proprio profilo di rischio - più si è disposti a rischiare, più il ritorno è potenzialmente alto. Attualmente, secondo i dati riportati da Banca d’Italia, all’interno dei conti correnti si trovano circa 1.371 miliardi di euro, destinati a perdere nei prossimi cinque anni e in termini di potere di acquisto 54 miliardi (nel caso di inflazione allo 0,8%) e i 129 miliardi di euro (nel caso di inflazione al 2%). Il consiglio di base è quello comunque di sfruttare lo strumento del conto corrente per tenere della liquidità “pronta all’uso”, in vista di possibili momenti di bisogno o se si ha intenzione di affrontare determinate spese nel corso dei prossimi anni, e dedicarsi anche in minima parte al mondo degli investimenti. Una tipologia di investimento sempre più in voga è rappresentata dal crowdfunding immobiliare e crowdlending. Società come Re-Lender, la prima piattaforma di real estate dedicata alle riconversioni industriali, immobiliari ed ecologiche, permettono di registrarsi in pochi secondi e prestare soldi in maniera diretta alle aziende più innovative che investono nel mattone, ricevendo gli interessi previsti ogni mese. Ed è possibile investire anche solo 50 euro.
1.000 euro diventano 180 euro in 5 anni. I calcoli riportati, che evidenziano la perdita di potere d’acquisto dei soldi parcheggiati nel conto corrente, tengono conto di:
imposta di bollo annuale di 34,20 euro;
tassi d’interesse nulli;
un costo medio per conto di 145 euro l’anno;
inflazione media annua del 2% (come target della BCE; l’inflazione italiana annua al momento si aggira sullo 0,7%).
Perché i soldi sul conto corrente perdono valore. Due sono le motivazioni principali per cui i risparmi parcheggiati su un conto corrente, nel corso degli anni, sono destinati a perdere valore:
mancanza di interesse composto;
presenza di alti costi di mantenimento del conto applicati dalla banca.
E sono tre i costi principali da tenere sempre in considerazioni se si decide di conservare i risparmi su un conto per un lungo periodo di tempo:
1) Costi e commissioni. La banca addebita varie commissioni dirette per mantenere i conti correnti attivi e funzionanti, da 2 euro al mese per i conti presso le banche online ad una media di 145 euro per le banche tradizionali nel caso delle famiglie con operatività media (i costi scendono a 25 euro presso le banche online, mentre il giovane paga circa 17 euro l’anno).
Senza calcolare l’imposta di bollo annuale, che per le persone fisiche corrisponde a € 34,20 nel caso di superamento del limite di 5.000 sulla giacenza media annua.
2) Inflazione. L’inflazione peggiora il potere d’acquisto nel corso del tempo. Ciò significa che ogni anno puoi acquistare un po’ meno con la stessa quantità di denaro. In che modo l’inflazione influenza i tuoi soldi? L’inflazione influisce sul denaro in qualsiasi forma, indipendentemente dal fatto che tu l’abbia depositato su un conto, ce li abbia in casa in contanti o che tu investito in qualcosa di straordinario. L’attuale tasso di inflazione in Italia è dello 0,7% annuo. In parole povere, significa che ogni anno è possibile acquistare lo 0,7% in meno di prodotti e servizi con la stessa quantità di denaro. I calcoli sulla perdita del potere d’acquisto dei propri risparmi riportati precedentemente si basano, tuttavia, sull’effetto di un’inflazione al 2% annuo, l’obiettivo di politica monetaria della Banca Centrale Europea.
3) Opportunità mancate. Il costo-opportunità fa riferimento a tutte le possibilità che si stanno perdendo mentre i propri risparmi sono parcheggiati su un conto corrente. È un termine generico per tutti i tipi di conseguenze positive non realizzate. Il mancato rendimento è composto da tutti i vantaggi che avresti sperimentato se avessi investito i tuoi soldi, dai fondi di investimento all’avvio di un business, dall’acquisto di azioni sul mercato azionario all’acquisto di un immobile, fino ad arrivare a campi di tendenza come l’investimento in criptovalute. È bene tenere presente che se non usi i tuoi soldi è la tua banca a farlo, ad esempio concedendo un prestito ad un altro cliente. A quanto ammontano i rendimenti mancati? La stima per i rendimenti mancati, conseguenti alla decisione di non investire ma tenere fermi i propri soldi in banca, parte dall’1,1% e arriva oltre il 4% annuo. L’ampio range è dovuto non solo all’orizzonte temporale dell’investimento, ma anche al profilo di rischio dell’investitore. Secondo uno studio della London Business School, che ha preso in esame i rendimenti offerti dall’azionario e dall’obbligazionario mondiale ottenuti all’interno di portafogli diversificati tra il 1900 e il 2018, i rendimenti nominali medi calcolati per gli investimenti azionari sono del 4,2% annuo, 1,1% per i portafogli obbligazionari governativi internazionali e 2,65% per i portafogli bilanciati. Più alti se prendiamo in esame l’arco temporale a partire dal 1969: rispettivamente 4%, 3,7% e 3,8%.
Banche, è davvero rischioso superare i 100mila euro sul conto corrente? Beppe Scienza, Esperto di risparmio e previdenza, il 6 gennaio 2019 su Il Fatto Quotidiano. L’argomento è diventato improvvisamente, ma non inaspettatamente, attuale col commissariamento della Carige, un tempo Cassa di Risparmio di Genova. Voglio peraltro mettere le mani avanti, prevedendo commenti al titolo di questo post del tipo: “Ma io così tanti soldi sul mio conto non li ho mai visti. Magari!”. Lo so che, scrivendo di investimenti, mi occupo di problemi di lusso. Però a me dà comunque fastidio che uno venga ingannato, anche se altri stanno peggio di lui. E fra i tanti clienti presi in giro dalle banche, ci sono quelli con rilevanti somme liquide sul conto. Scelta per altro felice per il 2018, essendo stato uno dei pochissimi impieghi dei risparmi (o eredità) conclusosi senza perdite nominali. Qual è però una delle trovate per rifilare ai clienti fondi, polizze e altre trappole del risparmio gestito? Convocarli, se il loro conto supera i 100mila euro, e fargli presente il rischio di bail-in. Cioè la normativa che, in caso di gravissime difficoltà della banca, prevede che vengano colpite prima le sue obbligazioni, ma poi anche conti correnti e libretti per quanto supera 100mila euro a testa. Anche il fondo interbancario di autotutela dei depositi protegge solo fino a tale cifra. Spaventato così il cliente, il premuroso bancario gli indica fondi, polizze e roba simile, dove converrebbe trasferire la liquidità per evitare il rischio del bail-in. Davvero una bella faccia tosta, perché è come dire: “I nostri dirigenti sono così inaffidabili, inetti o disonesti che potremmo finire peggio della Banca Popolare dell’Etruria o di Vicenza, dove i conti correnti non furono minimamente toccati. Noi non sappiamo gestire la nostra banca, ma sappiamo consigliarle dove mettere i suoi risparmi”. E dove li indirizzano? Per esempio in fondi che gestiscono loro stessi oppure altre società con cui sono in combutta per spartirsi grasse commissioni. Da ridergli in faccia e rispondergli: “Mica matto! Me ne guardo bene”. Eppure molti ci cascano. Come stanno in realtà le cose? Per i soldi sui conti presso le banche italiane, in particolari grandi o medie, il rischio è praticamente nullo e così è sempre stato. Quando la Banca Popolare di Vicenza minacciava di saltare, come poi avvenne, io non mi preoccupavo per nulla se il saldo del mio conto superava i 100mila euro. La garanzia che conta non è di natura giuridica, bensì politica, cioè del sistema. Che vuole comunque protetti conti correnti e libretti. Per cui non si corrono veri pericoli anche oltre il massimale in questione, in particolare in banche vigilate dalla Banca Centrale Europea, come la Carige. In ogni caso, per un’ipotetica maggiore sicurezza, basta ripartire la liquidità fra più istituti. Senza comprare nulla. Non si deve parlare invece di rischio, sottoscrivendo fondi, polizze, certificati ecc. Bensì di certezza di farsi portare via soldi da gestori, emittenti, collocatori, venditori e cosiddetti consulenti.
Rebus successioni per i conti cointestati: gli eredi vantano gli stessi diritti dei titolari. Per la Cassazione la firma congiunta non implica il possesso dei depositi. Camilla Conti, Venerdì 13/09/2019, su Il Giornale. Occhio a tenere una parte dei propri risparmi su un conto corrente cointestato a marito e moglie o a madre/padre e figli. La Corte di Cassazione ha infatti deliberato che i soldi (e i titoli) depositati su un conto cointestato non sono di proprietà di entrambi. Cosa significa? La cointestazione permette ai cofirmatari di operare sul conto ma non comporta anche la cessione del relativo credito. Quindi, in caso di morte del titolare o di liti in famiglia i cointestatari non possono appropriarsi delle somme automaticamente. Nell'ordinanza 21963/2019 la Cassazione ha accolto il ricorso dei figli di una donna deceduta dopo aver cointestato il proprio conto (ed il dossier titoli) con i nipoti che alla sua scomparsa avevano prelevato l'intero saldo. La terza sezione civile ha precisato che «la cointestazione di un conto corrente, salvo prova di diversa volontà delle parti, è di per sé un atto unilaterale idoneo a trasferire la legittimazione a operare sul conto, ma non anche la titolarità del credito, in quanto il trasferimento della proprietà del contenuto di un conto corrente è una forma, di cessione del credito che il correntista ha verso la banca e, quindi, presuppone un contratto tra cedente e cessionario». Traduciamo dal «legalese» ma prima facciamo una premessa. I titolari di un conto cointestato sono due o più soggetti che possono in autonomia prelevare, effettuare pagamenti, versare contante, ricevere bonifici, staccare assegni, gestire i titoli. In questi casi, il conto cointestato è a firma disgiunta ovvero ciascun titolare ha il potere di eseguire queste attività senza il consenso dell'altro. Nel conto cointestato a firma congiunta, invece, alcune operazioni di solito quelle superiori a un certo limite di importo, fissato in anticipo con la banca richiedono la firma di entrambi i correntisti. Nella vicenda esaminata, il giudice della Cassazione è partito dal presupposto che l'atto di cointestazione non può essere considerata una donazione di tutto il denaro depositato in banca. Prendiamo il caso esaminato dalla Corte: una persona muore e il suo conto corrente passa in successione ai tre figli, i quali non provvedono a ripartire anche il deposito bancario e i titoli gestiti dalla banca. Uno dei fratelli, però, senza dire nulla agli altri, si appropria del bancomat del padre e preleva una consistente somma di denaro. Gli altri gli fanno causa per avere indietro la somma. Il problema si può porre anche in presenza di marito imprenditore e moglie casalinga: il primo versa in banca il proprio stipendio e cointesta anche alla coniuge il conto per consentirle di eseguire prelievi e operare in cassa. Se la donna dovesse prelevare più di quanto il marito ha autorizzato o se, in caso di separazione, la stessa dovesse pretendere la metà del conto, potrebbe farlo? Se il marito si oppone e dimostra in un tribunale che i soldi sul conto provengono esclusivamente dal suo stipendio, vince la causa. Se viene fornita una prova, insomma, non è automatico presumere che i titolari del conto cointestato possiedano il 50% ciascuno del denaro depositato in banca. La cointestazione non è quindi una specie di donazione della metà dei soldi presenti sul conto stesso. Torniamo all'esempio di moglie e marito: se la moglie preleva più della propria metà dovrà restituire all'altro la sua parte o ricostituire il deposito. Non solo. Se il marito dimostra che i soldi sul conto li aveva messi solo lui, la moglie che ha prelevato anche un solo euro dovrà restituirlo. La banca, dal canto suo, non è responsabile se uno dei cointestatari preleva dal conto più della propria quota, né può impedirgli di farlo. Né può porre limiti alle operazioni. A meno che non sia presente la condizione «a firma congiunta».
· Mediobanca, così conquistò il Belpaese.
Mediobanca, così conquistò il Belpaese. Il “patto d’acciaio” con gli industriali e con la politica che ha sorretto il sistema per oltre mezzo secolo. Claudio Landi su Il Dubbio il 2 ottobre 2019. Il “patto d’acciaio” con le grandi famiglie industriali italiane ( Agnelli, Pirelli, Falk); i legami con la politica e la Dc. Per oltre mezzo secolo Mediobanca, la creatura di Enrico Cuccia, è stata l’architrave del capitalismo finanziario italiano. Mediobanca è l’istituzione finanziaria che ha scritto la storia del capitalismo italiano dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni Novanta. Mediobanca, la Banca di Credito Finanziaria, e il suo patron, Enrico Cuccia, sono stati il dominus del sistema economico italiano dal 1946 fino al 1993. Hanno avuto una funzione affine a quella della Democrazia Cristiana nel mondo politico nazionale dal 1968 al 1992. Mediobanca e Dc erano al centro dei sistemi, di quello economico e di quello politico. Governavano, mediavano, innovavano. La coincidenza della leadership politica democristiana e della guida di Mediobanca negli affari del capitalismo nazionale probabilmente non sono del tutto casuali. Mediobanca, fin dalla fine del conflitto mondiale, è stato un istituto di credito molto particolare: era la più importante banca di investimento per le imprese capitalistiche private, pur essendo con un controllo azionario in larghissima parte nelle mani di banche pubbliche. Enrico Cuccia, il suo direttore generale prima, amministratore delegato poi, presidente onorario infine, la diresse con mano fermissima e sempre indipendente dal potere politico. Due sono le date chiave per Mediobanca: il 1946, l’anno della sua fondazione, e il 1993, l’anno della grande trasformazione del sistema bancario italiano grazie al “testo unico Amato”.. L’Italia è appena uscita dalla terribile prova del conflitto mondiale. Le sua economia è distrutta dalla guerra, la sua industria è da ricostruire o comunque da rinnovare profondamente. Le forze alleate occupano il paese, nazione sconfitta nonostante la Resistenza e i governi del Comitato di Liberazione Nazionale che ne hanno riscattato l’onore ma che non hanno potuto ovviamente riscrivere la storia dell’alleanza del fascismo di Mussolini con il nazismo di Adolf Hitler. Le condizioni sono tragiche. Tra il 1944 e il 1946, Raffaele Mattioli, grande figura del mondo bancario nazionale, nonchè grande mecenate della cultura politica democratica nonostante il regime fascista ( Mattioli contribuì a mettere in salvo i saggi e i libri del grande economista Piero Sraffa; contribuì alle cure di Antonio Gramsci e il servizio studi della ‘ sua’ Banca Commerciale era la covata di personalità di prestigio come Ugo La Malfa e Giovanni Malagodi), ebbe una intuizione che gli storici definiscono ‘ felice’: il mercato creditizio nazionale aveva un vuoto enorme. Non c’era in Italia nessun istituto importante che finanziasse i progetti di investimenti e di crescita delle grandi imprese private. Le BIN, Banche di interesse nazionale, ovvero Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banca di Roma, e le realtà locali svolgevano compiti di “banca commerciale”, senza alcuna proiezione nel campo del credito mobiliare. C’era l’IMI, Istituto mobiliare italiano, ma il suo spettro di attività era molto limitato. Lo stesso succedeva agli altri istituti di credito speciale. Le imprese italiane non avevano di fatto alcun sostegno reale del sistema creditizio per progetti particolarmente impegnativi. Era dunque necessario creare una nuova realtà: Mediobanca. Le perplessità e le obiezioni rispetto a questa intuizione di Mattioli non erano nè pochè nè di poco conto. Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia e futuro Presidente della Repubblica, non era del tutto d’accordo, ma Mattioli era un tipo tenace e convinse anche molti scettici come il governatore. Le resistenze al progetto Mediobanca nascevano dalla legge bancaria del 1936, il capolavoro in campo creditizio di Alberto Beneduce e di Donato Menichella, altre figure di eccezionale spessore nel capitalismo nazionale. La legge del 1936 fu fino al 1993 l’architrave della regolazione dell’attività creditizia. Essa, tra le altre cose, stabiliva una rigorosa separazione fra l’azione della banche commerciali di carattere ordinario che poi sono le normalissime banche di risparmio di noi piccoli risparmiatori, e le banche di investimento, quelle utili alle imprese e agli investimenti. Definiva la fine di ciò che veniva chiamata la “banca mista”, che invece svolgeva entrambe le attività e che era andata a gambe all’aria nel nostro paese con la grande crisi del 1929. Le banche di allora avevano in pancia abbondanti pacchetti azionari di imprese e gruppi industriali, e fornivano copiose risorse a costoro. Quando la crisi economica li travolse, le banche furono travolte con loro e rischiò di essere devastata l’intera attività di risparmio nazionale. Per proteggere quel risparmio nazionale ed evitare il “contagio” delle crisi dall’ambito industriale a quello bancario, su ispirazione del creatore dell’IRI, Alberto Beneduce, fu stabilita la separazione rigida fra le due grandi attività del credito. E furono nazionalizzate le tre grandi banche, Commerciale, Credito e BancaRoma, che divennero le BIN, Banche di interesse nazionale. Mediobanca sarebbe stato un istituto basato sul controllo azionario in particolare delle tre BIN ovvero delle tre grandi banche nazionali di carattere commerciale, e avrebbe avuto come statuto il compito di finanziare gli investimenti e i progetti di lungo periodo delle imprese. Avrebbe potuto superare lo steccato rigido istituito dalla legge bancaria: i critici e i contestatori dell’intuizione di Mattioli quindi temevano che si sarebbe rischiato di far rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta, la "banca mista" e la commistione fra attività ordinarie e mobiliari. In realtà ciò non accadde. Mediobanca assunse un ruolo centrale e fondamentale nel sistema capitalistico italiano, nonostante la sua natura di istituto a fortissima presenza pubblica ( Banca Commerciale aveva una quota del 35 per cento, Credito Italiano un’altro 35 per cento, Banca di Roma il 30 per cento) e non confuse mai attività ordinarie con quelle mobiliari. Mediobanca finanziava le sue attività in particolare con l’emissione di propri certificati di deposito bancari a scadenza vincolata che venivano collocati sostanzialmente presso gli sportelli delle banche di interesse nazionale. Con quelle risorse l’istituto di Enrico Cuccia divenne il protagonista assoluto del panorama imprenditoriale italiano. Ciò è chiarissimo se si guarda al secondo strumento della sua “egemonia”, le sue partecipazioni decisive nel capitale azionario dei grandi gruppi italiani. Per capire di che cosa stiamo parlando leggiamo in momento le sue partecipazioni ne 1982. A quella data Mediobanca aveva in pancia quote del 18 per cento in Montedison, il colosso chimico privato nazionale; del 12,66 per cento in Gemina, importan- tissima società finanziaria che ha avuto a lungo il controllo del gruppo Rizzoli- Corriere della Sera; del 12 per cento in Pirelli, la grande imprese del settore dei pneumatici; dell’ 11 per cento in Snia Viscosa, altra importante impresa chimica; del 10 per cento in Fondiaria, grande società assicurativa fiorentina; del 5,4 per cento in Falck, colosso della siderurgia; del 5 per cento delle Assicurazioni Generali, un grande gruppo assicurativo di livello europeo; del 4 per cento della SME, del 3 per cento della FIAT e del 2 per cento della Olivetti. Con queste quote ancorchè non maggioritarie Mediobanca di fatto partecipava al controllo dei rispettivi gruppi sostenendo le famiglie proprietarie: Mediobanca e famiglie storiche del capitalismo italiano, gli Agnelli, i Pirelli, i Falck, avevano stretto un patto di ferro che comportava il controllo garantito di quelle famiglie in cambio di progetti di crescita e di investimento su cui si stendeva la mano di Enrico Cuccia. Il peso di Mediobanca in FIAT, in momenti cruciali per il cambiamento della grande azienda automobilistica nazionale ha significato ad esempio il lungo periodo di leadership di Cesare Romiti o l’affare libico, l’entrata della Libyan Arab Foreign Bank nella proprietà Fiat per finanziarla in un momento molto particolare della vita imprenditoriale. L’ascesa di Cesare Romiti e l’entrata in campo di M. Gheddafi sono stati due capolavori di Mediobanca, comunque li si voglia considerare dal punto di vista storico. E dal punto di vista della classe operaia. Ma Mediobanca in realtà ha potuto avere il ruolo centrale e dominante che ha avuto, è riuscita ad essere una istituzione controllata da grandi banche pubbliche senza alcuna interferenza statale, grazia ad una figura storica, Enrico Cuccia, l’erede di Raffaele Mattioli. Mattioli fu dal 1933 al 1972 fu ai vertici della Comit, la Banca Commerciale Italiana, o come direttore generale o come amministratore delegato. Fu definito il "banchiere umanista" per la sua grande cultura e fu al centro di moltissime attività politiche democratiche anche durante il regime fascista, pur avendo ovviamente rapporti con Mussolini. Mattioli fu il banchiere privato che sostenne Enrico Mattei alla presidenza dell’ENI. Enrico Cuccia è in qualche modo l’erede o il compagno di azione del banchiere della Comit. Fu fin dall’inizio, fin dal 1946, il dominus di Mediobanca. Aveva avuto precedentemente esperienze in Banca d’Italia, aveva sposato la figlia di Alberto Beneduce, Idea Socialista ( si chiamava così…..) e aveva svolte altre attività per l’amministrazione dello Stato italiano durante il regime fascista. Nel 1936 Cuccia svolse una delicatissima missione in Africa Orientale per conto dell’amministrazione degli Scambi e delle Valute su un presunto traffico illecito di funzionari del maresciallo Rodolfo Graziani. Il 1 luglio del 1937 fu ricevuto dal capo del governo Mussolini per riferire di quei traffici. Durante la seconda guerra mondiale, fu vicinissimo agli ambienti della Resistenza e si narra che fu latore di un messaggio importante di leader antifascisti, Ugo La Malfa, Carlo Sforza, all’ambasciatore americano George Kennan ( il grandissimo diplomatico e teorico del ‘ contenimento’ strategico, il pilastro della vittoriosa ‘ grande strategia’ americana verso l’Unione Sovietica). Nel novembre del 1944 fu membro della delegazione italiana che andò a Washington per chiedere aiuti per la ricostruzione: oltre Cuccia ne facevano parte Mattioli e l’ambasciatore Egidio Ortona. Insomma fin dall’inizio Enrico Cuccia fece parte di quel mondo bancario ‘ laico’ che ha avuto un grandissimo ruolo nella crescita e nella modernizzazione europea del nostro paese. La Comit era il centro di quel mondo, con Raffaele Mattioli al timone, poi c’erano Adolfo Tito, Ugo La Malfa, Enrico Cuccia e tanti altri banchieri, uomini politici e di governo, intellettuali repubblicani, liberali, democratici. E’ questo mondo che ha inventato l’idea di una Italia attaccata all’Europa per evitare di essere risucchiata nelle infide acque politiche del Levante e del Mediterraneo. E’ questo mondo che ha fermamente portato avanti per primo il progetto europeo, con l’adesione del nostro paese al Mercato Comune, nonostante le opposizioni di forti interessi industriali, la ‘ destra economica’, protezionistici e conservatori. E’ questo mondo che ha sempre cercato di tenere attaccato il nostro paese ai ‘ valori’ atlantici ed europeistici. Un esempio importante di questo legame "atlantico" ed europeo del nostro paese è costituito dal rapporto strettissimo fra Mediobanca e una influente istituzioni finanziaria mondiale, Lazard Freres, la banca d’affari di Andre Meyer e di Felix Rohatyn, una banca a metà tra Parigi e New York, simbolo vivente di quei legami. Tutto cambiò nel 1993, un anno dopo Mani Pulite, quando fu varato il ‘ testo unico’ della riforma bancaria, con il quale venne recepita una direttiva comunitaria europea: le banche potevano diventare ‘ banche universali’. La separazione della legge del 1936 e che peraltro faceva parte degli ordinamenti economici più avanzati ( come il Glass- Steagall Act, abolito poi dal Congresso repubblicano e dal presidente democratico Bill Clinton nel 1999) fu quindi abolita. Ciò colpì il cuore il ruolo di fatto monopolistico di Mediobanca nell’intermediazione mobilitare. Mediobanca ha dovuto cambiare ragion d’essere e assetto di controllo: fu avviata la sua privatizzazione. Allora finì il ‘ sistema Mediobanca’ come lo avevamo conosciuto con Raffaele Mattioli e Enrico Cuccia. Certamente la riforma bancaria del 1993 ha modernizzato il nostro paese, almeno nel contesto internazionale di allora. Ma allora avvenne, probabilmente, un fatto importante, decisivo per il nostro paese: avvenne la "rottura" nel mondo bancario e intellettuale ‘ laico’. Fino ad allora quel mondo aveva sostenuto sostanzialmente unito per nella diversità di opinioni battaglie importantissime per la difesa della Banca d’Italia, per la modernizzazione del nostro paese, per la sua identità europea. Da allora invece le strade si sono divise e sono nate fratture profonde, come quella attorno alle privatizzazioni e quella sull’adesione del nostro paese alla moneta unica europea. Ciò ha certamente contribuito alla crisi di classe dirigente che attraversa l’Italia.
· 38 assicurazioni fallite: 500 mila in coda per i rimborsi.
La fregatura è assicurata. Polizze fasulle, incidenti fantasma e i trucchetti usati dalle compagnie per pagare meno e più tardi. Viaggio negli orrori delle assicurazioni. Guido Fontanelli il 26 novembre 2019 su Panorama. Guidate la vostra auto, vi ferma la polizia per un controllo e scoprite che la vostra assicurazione è fasulla. Rischiate multa, sequestro del veicolo e sospensione della patente. Ma potrebbe andarvi peggio: se provocate un incidente, dovete indennizzare di tasca vostra il malcapitato che avete tamponato perché non siete coperti. Cose che capitano a chi, in cerca di un contratto di Rc Auto a basso costo, si affida senza saperlo a siti internet farlocchi. Un fenomeno tutt’altro che marginale: l’Ivass, l’istituto che vigila sul settore assicurativo, ha individuato nei primi nove mesi di quest’anno ben 140 siti irregolari. Erano 103 lo scorso anno, 50 nel 2017. Utilizzano nomi fantasiosi ed evocativi come polizzafacile.net, polizzasicura.org, prontopolizza.online, polizza5giorni.it, assicurazionileoni.it, assicuraveloce.it. Le loro offerte di polizze Rc Auto (in particolare quelle temporanee) spuntano sugli schermi dei computer sotto forma di banner o inserzioni pubblicitarie nei motori di ricerca. Cliccandovi sopra si entra in pagine che replicano quasi perfettamente i siti delle società vere e che in alcuni casi utilizzano le credenziali di compagnie regolari. I truffatori alle spalle delle compagnie di assicurazione fasulle sfruttano non solo il canale internet, ma anche Facebook, Watshapp e il telefono. Secondo l’Ivass il giro di affari di queste truffe supera i 3 milioni di euro ed è in continua crescita. Il consiglio è di verificare sul sito dell’Ivass se la compagnia è iscritta nell’albo delle imprese di assicurazione italiane o negli elenchi delle imprese europee che possono operare in Italia. Di solito sono le compagnie di assicurazione a lamentarsi della disonestà degli italiani per giustificare l’alto livello dei premi che fanno pagare ai clienti. Ma tanti italiani onesti sono a loro volta vittima di fregature assicurative: non solo polizze false, ma anche «sinistri fantasma» inventati da automobilisti disonesti. E pure trucchetti e ritardi messi in campo dalle stesse compagnie regolari. Dietro il termine doppiamente horror «sinistri fantasma» si nascondono quegli incidenti che vengono attribuiti ad automobilisti inconsapevoli e del tutto estranei al danno. Sono truffe organizzate da quei furbetti che denunciano un incidente inesistente per incassare il risarcimento dell’assicurazione, attribuendo la responsabilità a chi non c’entra affatto. E se quest’ultimo non se ne accorge, si trova con una classe di merito più elevata e di conseguenza paga un premio più salato. Il problema, infatti, è che in molti casi l’assicurato viene a conoscenza del «sinistro fantasma» solo al momento in cui riceve l’attestato di rischio che riporta l’incidente e la conseguente applicazione del malus. Questo accade perché il cliente non ha ricevuto in tempo la lettera dell’assicurazione e non ha risposto entro i 30 giorni previsti per disconoscere il sinistro. Comunque l’Ivass chiede alle compagnie di rimborsare la maggiorazione del premio e di riclassificare correttamente il contratto.
I trucchi delle compagnie. Fin qui siamo nel campo delle truffe. Ma anche sul versante delle assicurazioni regolari non mancano i problemi nel rapporto tra clienti e società. Nel 2018, come documentato dall’Ivass, le compagnie hanno ricevuto 97.279 reclami da parte degli utenti: quasi la metà, il 47 per cento, riguardano il settore dell’Rc Auto (ritardi dei pagamenti al primo posto delle lamentele), seguiti dagli altri rami danni (37 per cento) e dal ramo vita (16). Ad alimentare il malcontento sono di più le compagnie straniere rispetto alle italiane, e le società che operano sul web rispetto a quelle che usano i canali tradizionali come agenti e broker. Va detto che in questi anni il numero di reclami si è ridotto, a dimostrazione dell’efficacia del lavoro svolto dall’Ivass: rispetto al 2017 il calo è stato del 6,4 per cento. E degli oltre 97 mila reclami del 2018, ne sono stati accolti finora il 28,6 per cento del totale. Inoltre l’Ivass ha ricevuto direttamente 18.332 reclami e ha notificato 1.097 atti di contestazione alle imprese per violazione della normativa assicurativa. Che cosa fa arrabbiare i clienti? Gli esempi sono tanti. Nel settore dell’assicurazione auto ci si lamenta per i ritardi nella liquidazione dei risarcimenti. Oppure i danneggiati ricevono comunicazioni di diniego di risarcimento che non sono adeguatamente motivate. Nel campo delle polizze mediche una compagnia dilazionava o negava la prestazione agli assicurati appellandosi ad aspetti formali, costringendo gli stessi a ricorrere sistematicamente al giudice: immaginatevi che bella esperienza per una persona malata. A Roma alcune società si sono contraddistinte per la lentezza nella liquidazione dei sinistri determinati dal dissesto del manto stradale. Una assicurazione ha piazzato 5.700 contratti non adeguati, relativi a prodotti particolarmente complessi, a clienti anziani. Ci sono contratti di varie compagnie, finite nel mirino dell’Ivass, stipulati molti anni fa e che stanno giungendo a scadenza, per i quali le somme liquidate rischiano di essere addirittura inferiori al totale dei premi versati dai clienti. Insomma, un brutto catalogo di cattivi comportamenti.
Chi ha ricevuto più reclami. Le compagnie che hanno ricevuto più reclami in rapporto al numero di contratti stipulati (vedi tabella) sono Axa Global Direct, Zurich e la piccola Assicurazioni di Roma. Le società invece che hanno ricevuto più reclami in assoluto sono Unipolsai, Generali, Allianz, Rbm salute. Mentre i primi tre nomi sono abbastanza scontati, trattandosi di compagnie con decine di migliaia di clienti, colpisce la presenza al quarto posto della Rbm Salute, meno nota al grande pubblico. In realtà è la più grande compagnia in Italia specializzata nell’assicurazione sanitaria per raccolta premi e per numero di assicurati. Lavora soprattutto con fondi integrativi di categoria e grandi aziende. Nel 2018 Rbm è finita anche sotto la lente di Altroconsumo: l’associazione dei consumatori ha ricevuto centinaia di reclami riguardanti i disservizi di Previmedical, a cui Rbm affida la gestione delle prestazioni sanitarie previste da diversi fondi sanitari integrativi. Altroconsumo cita per esempio il caso della socia Cinzia che per mesi si è vista respingere tutte le richieste di rimborso senza capire il perché. Più in generale, come viene spiegato sul sito di Altroconsumo, «le richieste di autorizzazione per le prestazioni odontoiatriche, quelle più costose, restano “in lavorazione” per mesi, lasciando il paziente in un limbo che non gli permette di accedere alle cure in tempi clinici ragionevoli. Procedure ostiche che, per le cure odontoiatriche, costringono il paziente a compilare lui stesso la scheda con tutti i dettagli di diagnosi e trattamento previsti: così è facile sbagliare e vedersi rifiutare l’assistenza».
Rbm replica sottolineando che si tratta di una «crescita fisiologica dei reclami direttamente collegata alla numerosità dei sinistri gestiti. Anzi, a ben guardare, nel 2018 pur a fronte di un importante incremento dei risarcimenti (più 107 per cento) il numero dei reclami ha fatto registrare una crescita meno che proporzionale (più 92 per cento)». Inoltre secondo la società è naturale che gli assicurati, tradizionalmente poco abituati ai meccanismi della sanità integrativa, facciano fatica a orientarsi tra le varie prestazioni di cui hanno diritto e le modalità di rimborso. Ma alla fine l’impressione è sempre la stessa: di avere cioè a che fare con aziende che pretendono di incassare subito e che pagano il più tardi e il meno possibile.
Dagospia il 20 novembre 2019. Truffe, società fantasma, siti fasulli e una valanga di reclami. In Italia le compagnie non solo sono vittime di raggiri legati a sinistri inesistenti, ma a loro volta allungano i tempi delle liquidazioni. Con i gruppi più piccoli che faticano a gestire i risarcimenti. E così fioccano le lamentele dei clienti. Se ne parla nell’articolo su Panorama da oggi in edicola, di cui pubblichiamo un ampio stralcio. Guido Fontanelli per “la Verità” il 20 novembre 2019. Guidate la vostra automobile, vi ferma la polizia per un controllo e scoprite che la vostra assicurazione è fasulla. Rischiate multa, sequestro del veicolo e sospensione della patente. Ma potrebbe andarvi peggio: se provocate un incidente, dovete indennizzare di tasca vostra il malcapitato che avete tamponato perché non siete coperti. Cose che capitano a chi, in cerca di un contratto di Rc auto a basso costo, si affida senza saperlo a siti internet farlocchi. Un fenomeno tutt' altro che marginale: l' Ivass, l' istituto che vigila sul settore assicurativo, ha individuato nei primi nove mesi di quest' anno ben 140 siti irregolari. Erano 103 lo scorso anno, 50 nel 2017. Utilizzano nomi fantasiosi ed evocativi come Polizzafacile.net, Polizzasicura.org, Prontopolizza.online, Polizza5giorni.it, Assicurazionileoni.it, Assicuraveloce.it. Le loro offerte di polizze Rc auto (in particolare quelle temporanee) spuntano sugli schermi dei computer sotto forma di banner o inserzioni pubblicitarie nei motori di ricerca. Cliccandovi sopra, si entra in pagine che replicano quasi perfettamente i siti delle società vere e che in alcuni casi utilizzano le credenziali di compagnie regolari. I truffatori delle compagnie di assicurazione fasulle sfruttano non solo il canale internet, ma anche Facebook, WhatsApp e il telefono. Secondo l' Ivass il giro d' affari di queste truffe supera i tre milioni di euro ed è in continua crescita. Il consiglio è di verificare sul sito dell' Ivass se la compagnia è iscritta nell' albo delle imprese di assicurazione italiane o negli elenchi delle imprese europee che possono operare in Italia. Di solito sono le compagnie di assicurazione a lamentarsi della disonestà degli italiani per giustificare l' alto livello dei premi che fanno pagare ai clienti. Ma tanti italiani onesti sono a loro volta vittima di fregature assicurative: non solo polizze false, ma anche «sinistri fantasma» inventati da automobilisti disonesti. E pure trucchetti e ritardi messi in campo dalle stesse compagnie regolari. Dietro il termine doppiamente horror «sinistri fantasma» si nascondono quegli incidenti che vengono attribuiti ad automobilisti inconsapevoli e del tutto estranei al danno. Sono truffe organizzate da quei furbetti che denunciano un incidente inesistente per incassare il risarcimento dell' assicurazione, attribuendo la responsabilità a chi non c' entra affatto. Fin qui siamo nel campo delle truffe. Ma anche sul versante delle assicurazioni regolari non mancano i problemi nel rapporto tra clienti e società. Nel 2018, come documentato dall' Ivass, le compagnie hanno ricevuto 97.279 reclami da parte degli utenti: quasi la metà, il 47 per cento, riguardano il settore dell' Rc auto (ritardi dei pagamenti al primo posto delle lamentele), seguiti dagli altri rami danni (37 per cento) e dal ramo vita (16). Ad alimentare il malcontento sono più le compagnie straniere rispetto alle italiane, e le società che operano sul web rispetto a quelle che usano i canali tradizionali come agenti e broker. []Che cosa fa arrabbiare i clienti? Gli esempi sono tanti. Nel settore dell' assicurazione auto ci si lamenta per i ritardi nella liquidazione dei risarcimenti. Oppure i danneggiati ricevono comunicazioni di diniego di risarcimento che non sono adeguatamente motivate. Nel campo delle polizze mediche una compagnia dilazionava o negava la prestazione agli assicurati appellandosi ad aspetti formali, costringendo gli stessi a ricorrere sistematicamente al giudice: immaginatevi che bella esperienza per una persona malata. A Roma alcune società si sono contraddistinte per la lentezza nella liquidazione dei sinistri determinati dal dissesto del manto stradale.[]Le compagnie che hanno ricevuto più reclami in rapporto al numero di contratti stipulati [...] sono Axa global direct, Zurich e la piccola Assicurazioni di Roma. Le società invece che hanno ricevuto più reclami in assoluto sono UnipolSai, Generali, Allianz, Rbm salute. Mentre i primi tre nomi sono abbastanza scontati, trattandosi di compagnie con decine di migliaia di clienti, colpisce la presenza al quarto posto della Rbm salute, meno nota al grande pubblico. In realtà, è la più grande compagnia in Italia specializzata nell' assicurazione sanitaria per raccolta premi e per numero di assicurati. Lavora soprattutto con fondi integrativi di categoria e grandi aziende. Rbm replica sottolineando che si tratta di una «crescita fisiologica dei reclami direttamente collegata alla numerosità dei sinistri gestiti.[] Inoltre, secondo la società è naturale che gli assicurati, tradizionalmente poco abituati ai meccanismi della sanità integrativa, facciano fatica a orientarsi tra le varie prestazioni di cui hanno diritto e le modalità di rimborso.
Ma alla fine l' impressione è sempre la stessa: di avere cioè a che fare con aziende che pretendono di incassare subito e che pagano il più tardi e il meno possibile.
38 assicurazioni fallite: 500 mila in coda per i rimborsi. C’è chi aspetta da 40 anni. Pubblicato mercoledì, 8 maggio 2019 da Milena Gabanelli e Mario Gerevini su Corriere.it. La fotografia che oggi abbiamo davanti è questa: su 38 compagnie tuttora in liquidazione, 17 lo sono da oltre 30 anni e 4 di queste hanno superato la soglia dei 40 anni dal giorno del crac, cioè quando gli azionisti e gli amministratori furono cacciati per decreto del Governo. A fronte di un passivo iniziale complessivo di 5,2 miliardi, l’attivo residuo è di 920 milioni, dopo aver diviso tra i creditori circa 800 milioni. Tutto ciò al netto di quei danneggiati che sono stati rimborsati, solo nel ramo Rc auto e nei limiti dei massimali di legge, dal «Fondo di garanzia per le vittime della strada», finanziato dal sistema che poi si rivale sulle liquidazioni. Casi concreti. Tirrena: commissariata nel 1993, con 1 miliardo di passivo, un gran patrimonio immobiliare e 49 mila danneggiati-creditori. Qui 342 milioni sono stati rimborsati, compresi 6 milioni di parcelle a professionisti e consulenti della procedura. Faro: stoppata nel 2011, oltre 1 miliardo di passivo (a fronte di 251 milioni di attivo), circa 30 mila creditori ammessi con riserva, tra loro centinaia di strutture sanitarie, soprattutto ospedali pubblici (Faro assumeva rischi sanitari). Ora si è aperta una gara per assumerne il concordato e si sarebbe fatta avanti anche la Berkshire Hathaway International Insurance di Warren Buffett. Qui, insomma, si procede. Altre (ad esempio la Compagnia Meridionale di Assicurazioni, 8.075 danneggiati, in liquidazione dal 1981) dopo qualche decennio sono state sorprese da un evento imponderabile: la morte naturale per raggiunti limiti di età dei responsabili del crac. Si prova con gli eredi, che in genere rinunciano all’eredità o l’accettano con beneficio d’inventario. E si va avanti così, pagando parcelle legali. Alla Alpi Assicurazioni, 169 milioni di passivo e appena 8,8 di attivo da distribuire a 2.027 soggetti, ben 3,5 milioni sono già andati agli avvocati. Il boom delle compagnie corsare è avvenuto dopo l’obbligatorietà (1971) della Rc auto. E, infatti, gran parte delle 38 compagnie vendeva queste polizze. Al crac è seguita la liquidazione e quindi la palla è passata ai professionisti nominati dallo Stato. Spesso si tratta di procedure molto complesse, con attivi rilevanti e che si portano dietro contenziosi enormi. E qui ci sguazzano i professionisti della melina. Un caso «sfortunato» è quello della milanese Unica Assicurazioni. Per rimborsare il più possibile i 1.510 creditori (in ballo da 35 anni) si doveva tentare un’azione di responsabilità contro i vertici colpevoli del dissesto. Ma l’avvocato ha dormito facendo scadere i termini e allora i nuovi liquidatori si sono dovuti accontentare di fargli causa incassando 300 mila euro dalla sua assicurazione. Unica è un caso a sé: il portafoglio «attivo» venne ceduto alla Ambra Assicurazioni che però poco dopo è anch’essa precipitata in una bancarotta disastrosa da oltre 100 milioni con i dirigenti finiti in carcere e condannati. Oggi a fronte di un attivo di 6,1 milioni (dopo un riparto parziale ai creditori di 21 milioni) ha provveduto a saldare parcelle professionali per 2,5 milioni. Sono passati «appena» 26 anni, e la procedura pare avviarsi verso la chiusura. L’Autorità di controllo del settore assicurativo in passato è stata a lungo latitante. Solo negli ultimi anni l’Ivass, erede della vecchia Isvap e «consolidata» in Bankitalia, ha messo paletti più stretti e uomini più «motivati» alla guida delle procedure. «Siamo ormai al giro di boa ¬– affermava nel giugno 2018 il presidente Ivass, Salvatore Rossi –. Alla fine dello scorso anno abbiamo eliminato ogni forma di compenso per i liquidatori legato al mero scorrere del tempo e valorizzato invece i risultati che riescono a contenere durata e costi delle procedure». Intanto, però, il sonno dei ragionieri-liquidatori ha generato mostri. Scriveva nel 2003, apparentemente consapevole del problema, l’allora presidente dell’Isvap Giancarlo Giannini: «Si sono intensificati gli incontri (...) per stimolare l’azione liquidatoria sia per inventariare gli ostacoli che si frappongono a una sollecita definizione delle procedure in corso». Tradotto: chiacchiere. Oggi, finalmente, chi dorme non piglia soldi ma li piglia chi è capace, rapido, professionale e «cattivo» (con i responsabili del crac e i consulenti).Torniamo alle Sorelle tuttora in «coma liquidatorio». Mai sentito parlare della Firs dei 4.829 danneggiati, messa in liquidazione nel 1994? È un pezzo di storia della finanza «brillante» anni ‘80, quella delle scorribande di un certo Florio Fiorini, ex direttore finanziario dell’Eni. Firs, all’epoca quotata in Borsa, era sua, così come la Comitas. Firs ha uno dei passivi più rilevanti (368 milioni), un attivo residuo di 46 milioni e i creditori hanno avuto finora circa 66 milioni. Ma una voce rilevante di rimborsi (14,4 milioni), riguarda i «professionisti» che godono della corsia preferenziale, prevista dalla legge, del «privilegio generale». Comitas si è trascinata nel buco (114 milioni) la bellezza di 41.735 creditori. Ma a fronte di una conclamata insolvenza e successiva liquidazione (1992), ci sono voluti 14 anni per definire i debiti. Ad oggi la liquidazione è ancora in corso, i creditori non hanno visto un euro, ai professionisti sono andati un paio di milioni. La piccola Novit ha fatto tremare una delle più grandi assicurazioni del mondo. Liquidata nel 2011 è già al riparto finale, con eccezionale rapidità rispetto alla media. Secondo i dati comunicati dall’Ivass, all’attivo non c’è quasi nulla mentre al passivo ci sarebbero 138 milioni da rimborsare. Il liquidatore è Andrea Gemma, avvocato e membro del cda dell’Eni, nominato (qui e in altre compagnie) dall’ex presidente Isvap Giannini, e poi riconfermato. Novit fu creata da Francesco Torri, morto qualche anno fa, ex numero uno della Toro per 17 anni nonché ex vicepresidente di Capitalia-Banca di Roma e dell’Ania, la Confindustria delle assicurazioni. Nella cordata dei soci Novit entrarono anche alcuni top manager Fiat, un consorzio di agenti assicurativi rappresentati da un membro dell’esecutivo nazionale dello Sna, il sindacato degli agenti, e perfino la Swiss Re con il 5%, la seconda compagnia riassicuratrice più grande al mondo. Gli svizzeri avevano anche, fino all’ultimo, un loro uomo nel collegio sindacale cioè nell’organo interno di controllo. Un parterre de roi, insomma. Ma non è bastato. Il decreto ministeriale di commissariamento contestava «gravi perdite patrimoniali» e «violazioni delle norme sul margine di solvibilità» e anche «gravi irregolarità nell’amministrazione». Cioè quella situazione di «eccezionale gravità» che impone di cacciare i vertici. Così è stato. Oggi a otto anni di distanza non risulta siano state mai avviate azioni di responsabilità, né procedimenti civili o penali nei confronti di chi ha gestito la compagnia. Nel frattempo la Swiss Re ha acquistato un portafoglio di contratti da Novit dando una buona mano alla procedura. Alcuni casi spinosi, come la Peninsulare «massacrata» anche dagli illeciti di precedenti liquidatori, sono stati affidati a Roberto Tasca, un professionista e docente universitario che è anche assessore al Bilancio del Comune di Milano. Tasca guida anche la procedura della compagnia Il Sole, finora una delle più riuscite liquidazioni sebbene duri da 36 anni: 24 milioni di acconto distribuiti ai creditori su un passivo di 33 milioni. Il dissesto (1983) fu opera di un paio di finanzieri-bancarottieri assai noti negli anni ‘80: Fausto Panzeri (Pafin) e Aldo Selvaggi (Istituto Finanziario Milanese). Anche il nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si è occupato della Peninsulare insieme a Tasca, ma nel ruolo di consigliere di sorveglianza, fino a poco prima di salire a Palazzo Chigi. In passato ha avuto analoghi incarichi (sempre a nomina Ivass) in altre compagnie in liquidazione. Era l’11 agosto 1976 quando il presidente Leone firmò il decreto di liquidazione coatta amministrativa di una piccola, insignificante compagnia: Columbia Assicurazioni. Allora la tv era ancora in bianco e nero. A gestire la procedura si sono succeduti decine di professionisti, compreso l’ex ministro di Forza Italia Cesare Previti. Se la sono presa comoda. Pagati, naturalmente. Così nell’arco di tempo esatto in cui Bill Gates e Steve Jobs creavano da zero due giganti, cioè gli ultimi 43 anni, i ragionieri della Columbia portavano a compimento la loro mission: il 16 gennaio 2019 verrà ricordato dai superstiti e dai nipoti dei 16.802 creditori come il giorno in cui la Columbia ha cessato la sua esistenza societaria. Dopo 50 anni dalla nascita, di cui 43 in liquidazione.
· La dolce vita dei Bancarottieri.
Parmalat, 16 anni senza una sentenza. Il filone su Bank of America ancora in alto mare. Incombe la prescrizione. Luca Fazzo, Giovedì 07/11/2019 su Il Giornale. Da alcuni dei fatti sono passati vent'anni. Dal fallimento di Parmalat ne sono passati sedici. Dalla fine delle indagini sono scivolati via altri dieci anni. E in un'aula del tribunale di Parma cerca faticosamente di partire solo ora l'ultimo troncone giudiziario di una vicenda che appartiene ormai a un'altra era geologica della vita economica e politica del paese, al punto che il suo protagonista, il cavalier Calisto Tanzi, è ormai fuori dal carcere da sei anni, e si avvia a finire la sua pena ai domiciliari. Invece, a Parma, un piccolo pugno di imputati inizia adesso a dover rispondere del loro ruolo nel peggior crac della storia imprenditoriale italiana. Sono gli uomini di Bank of America, l'istituto di credito che più - secondo l'accusa - aveva contribuito al dissesto di Parmalat: con in testa i managing director della filiale milanese Luca Sala e Luis Moncada. Sono tutti accusati di usura e di bancarotta fraudolenta, per un totale di 675 milioni di dollari. Le accuse di usura sono ormai prescritte, e quelle di bancarotta lo saranno nel 2021. Possibile, ma difficile, che si arrivi alla sentenza definitiva. Eppure la prescrizione per la bancarotta è lunga, diciotto anni. Ma la storia di questo processo è istruttiva, perché dimostra come i processi si affossino non per la prescrizione troppo breve, come sostengono i fautori della legge recentemente approvata, ma per le inverosimili inefficienze dell'apparato giudiziario. Le tappe del processo, quelle che hanno permesso che si arrivasse fino a questo punto, sono eloquenti. Le indagini a Parma vengono aperte nel 2006, a tre anni dall'esplodere dello scandalo e dall'arresto di Tanzi. I tempi dell'inchiesta sono accettabili, perché a luglio del 2009 i pm della città emiliana chiedono il rinvio a giudizio di tutti gli imputati del filone Bank of America. E qui scatta il primo intoppo: l'udienza preliminare, che in genere si risolve in pochi mesi, va avanti per tre anni. Il 5 aprile 2012 il giudice preliminare rinvia tutti a processo. E qui accade l'inverosimile. Come scrive il procuratore di Parma Alfonso D'Avino - rispondendo con apprezzabile franchezza alle domande del Giornale - «la prima udienza si è tenuta in data 24 settembre 2012. Da tale giorno vi sono state solo udienze di rinvio, ad eccezione di tre udienze nelle quali si è discusso di questioni preliminari e della costituzione delle parti civili». La prima «udienza istruttoria», l'inizio del vero processo, si tiene il 4 luglio 2019, dopo quasi sette anni di rinvii. Adesso ci sono state sette udienze, e trenta sono in programma. Ma di come tutto questo sia stato possibile qualcuno (non certo D'Avino, che non c'era) forse dovrebbe rendere conto.
Mps, condanna a 7 anni e mezzo per l'ex presidente Mussari. Per le operazioni legate all'acquisizione di Antonveneta condannati anche gli ex vertici Vigni e Baldassari. Confische per le banche Deutsche Bank e Nomura. La Repubblica l'8 novembre 2019. Il Tribunale di Milano ha condannato a 7 anni e 6 mesi di carcere Giuseppe Mussari, a 7 anni e 3 mesi Antonio Vigni e a 4 anni e 8 mesi Gian Luca Baldassarri, ex vertici di Monte dei Paschi di Siena tra gli imputati per le presunte irregolarità nelle operazioni effettuate dalla banca senese tra il 2008 e il 2012 per coprire le perdite dovute all'acquisizione di Antonveneta. I giudici hanno anche condannato Daniele Pirondini, ex direttore finanziario di Rocca Salimbeni a 5 anni e 3 mesi. Al centro del processo, i cui atti sono stati trasmessi dalla procura di Siena a quella di Milano per competenza nel 2015, ci sono le operazioni finanziarie che in quegli anni sarebbero servite a occultare le perdite causate dall'acquisto di Antonveneta, costata circa 10 miliardi di euro nel 2008. Sul banco degli imputati - tutti condannati - c'erano 13 persone. Oltre agli ex vertici Mps anche sei ex dirigenti di Deutsche Bank e due ex manager di Nomura. Con loro, tre società: Nomura, la sede di Londra e la sede centrale di Deutsche. Condanne sono infatti state staccate anche verso le banche che fecero da controparti nelle operazioni del Monte dei Paschi. Deutsche Bank AG e Deutsche Bank London Branch sono interessate dalla confisca complessiva di 64 milioni di euro e da una multa di 3 milioni di euro. Le due società del gruppo tedesco sono imputate in virtù della legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti. Condannata anche la banca giapponese Nomura alla confisca di 88 milioni di euro e a una multa di 3,45 milioni di euro, anche in questo caso per la legge 231. Nel dettaglio, le operazioni incriminate rispondono agli ormai noti nomi dei derivati Santorini e Alexandria, cui si sommano il prestito ibrido Fresh e la cartolarizzazione Chianti Classico. I giudici della seconda sezione penale, presieduti da Lorella Trovato, dopo la revoca di alcune costituzioni di parte civile, sono entrati in camera di consiglio nella mattinata. I reati contestati a vario titolo erano manipolazione del mercato, falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo agli organi di vigilanza, quest'ultimo in parte prescritto. Le pene più alte chieste dalla Procura erano quelle per Vigni e Mussari, 8 anni di carcere e 4 milioni di multa. Per DB e Nomura erano stati chiesti 1,8 milioni di sanzione per ciascuna, e la confisca di 440,9 milioni e 444,8 milioni di euro.
Mps, così la "sporcizia" finiva "sotto il tappeto". Il processo è cominciato nel dicembre di tre anni fa e ha visto circa 1.300 parti civili, tra piccoli investitori, associazioni di risparmiatori, Banca d'Italia e Consob. Quest'ultima però la scorsa udienza ha revocato la costituzione nei confronti dei 6 ex manager di DB e di conseguenza anche nei confronti delle due società tedesche. L'istituto di credito tedesco ha infatti raggiunto transazioni con parecchi risparmiatori che sono così usciti da processo. Anche Nomura ha risarcito alcune parti civili, che parimenti hanno ritirato la loro costituzione. Sono rimaste invece quasi tutte le iniziali parti civili nei confronti di Mps, citata come responsabile civile. I pm Giordano Baggio, Mauro Clerici e Stefano Civardi, lo scorso maggio avevano chiesto di condannare, oltre agli ex vertici e agli istituti di credito stranieri, Daniele Pirondini, ex direttore finanziario di Mps, a 6 anni di reclusione e a 1 milione e mezzo di multa, Marco Di Santo, all'epoca dei fatti responsabile Alm (Asset Liabilities Management e Capital Management) all'interno dell'area Tesoreria e Capital management di Rocca Salimbeni a 2 anni e mezzo di reclusione e 800 mila euro di multa. Per gli ex manager Michele Faissola, Michele Foresti e Dario Schiraldi era stata richiesta una pena di 5 anni e 8 mesi e 1 milione e 400 mila euro di multa e 2 anni e mezzo di carcere e 800 mila euro di multa per Marco Veroni, ex direttore-account manager di Db Ag London Branch, filiale che, in qualità di ente, per il pm va assolta. Riguardo agli ex dirigenti di Nomura, Sadeq Sayeed e Raffaele Ricci, la richiesta è stata di 6 anni e 1 milione e mezzo di multa. Riguardo, invece, agli ex manager di Deutsche Bank è stato proposto di assolvere con la formula "per non aver commesso il fatto" gli ex managing director Ivor Scott Dunbar e Matteo Angelo Vaghi. Monte dei Paschi di Siena, imputata in qualità di ente, nel luglio 2014 aveva patteggiato 600 mila euro di sanzione penale e una confisca di 10 milioni di euro. Nel processo sono stati condannati tutti gli imputati, sia persone fisiche che giuridiche. "Grande stupore" e "sicuro ricorso in Appello", il commento di Giuseppe Iannacone, difensore degli imputati di DB condannati, dopo la sentenza.
Mps, la condanna dei vertici e il caso di David Rossi. Le Iene il 9 novembre 2019. Sono stati condannati per lo scandalo finanziario, tra gli altri l’ex presidente, l’ex direttore generale e l’ex direttore finanziario della banca. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato la storia di David Rossi, capo della comunicazione dell’istituto morto in circostanze che sembrano sospette. Tutti condannati: è questo il verdetto del tribunale di Milano nel processo a carico degli ex vertici di Monte dei paschi di Siena, l’istituto travolto dallo scandalo delle operazioni finanziarie volte a coprire le perdite per l’acquisizione di Banca Antonveneta. L’ex presidente di Monte dei paschi, Giuseppe Mussari, è stato condannato a 7 anni e 6 mesi di reclusione. Oltre a lui, tra gli altri, sono stati condannati anche l’ex direttore generale Antonio Vigni a 7 anni e 3 mesi e l’ex direttore finanziario Daniele Pirondini a 5 anni e 3 mesi. Gli imputati sono tutti accusati a vario titolo di manipolazione del mercato, falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo all’autorità di vigilanza. Noi de Le Iene ci siamo occupati spesso di Mps, approfondendo in particolare la storia di David Rossi. David era il capo della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena quando il 6 marzo 2013 è volato giù della finestra del suo ufficio, mentre l’istituto era al centro della bufera finanziaria e mediatica. Ma si è trattato di un suicidio o di omicidio? Sono molti i punti che non tornano in questa vicenda, che abbiamo ricostruito nello speciale di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti che potete vedere qui sopra. Nel caso, l’orologio di Rossi gioca un ruolo importante: sarebbe infatti stato gettato dalla finestra venti minuti dopo la caduta del corpo, secondo uno studio disposto dai familiari del manager. E questo dimostrerebbe che nella stanza, subito dopo la caduta, ci sarebbe stato qualcuno. Nonostante le due archiviazioni delle inchieste sulla morte – che, chiariamo, non sono collegate alle sentenze di cui vi abbiamo dato conto sopra - considerata un suicidio, la famiglia continua a chiedere giustizia nella convinzione che qualcosa non torni nella ricostruzione della magistratura. E dopo le nostre inchieste, i parlamentari di tutte le principali forze politiche hanno chiesto che sia istituita una commissione d’inchiesta per far luce su tutti quei punti oscuri ancora aperti.
Sergio Rizzo per la Repubblica il 9 novembre 2019. Chianti classico: qualche buontempone aveva suggerito di dare questo nome all' assurda e cervellotica operazione immobiliare che avrebbe dovuto chiudere il cerchio dell' acquisizione dell' Antonveneta dal Santander di Emilio Botin. Bastava, e avanzava, per intuire l' approccio etilico che stava guidando l' allegra combriccola verso il disastro. E fermarla. Ma chi avrebbe potuto farlo non lo fece. Perché in quella partita le carte le dava la politica. Dopo quello che è successo difficilmente Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e Gian Luca Baldassarri avrebbero potuto evitare una condanna severa. Ma la sentenza di ieri non mette a fuoco del tutto le vere responsabilità del crac del Monte dei Paschi di Siena. Che sono molto più vaste e articolate. Perché se è vero che la spericolata acquisizione dell' Antonveneta fu decisa da Mussari, è altrettanto vero che le sconsiderate modalità con cui avvenne ebbero complici determinanti. Il Monte era all' epoca dei fatti l' unica banca italiana rimasta pubblica. La controllava una Fondazione emanazione del Comune e di altri enti locali: quindi di fatto era nelle mani della politica, che a Siena significava Partito democratico. E le cose sarebbero andate in tutt' altro modo se la Fondazione non avesse deciso di sostenere l' acquisizione da sola con tutti i soldi che aveva (ed erano tanti), fino all' ultimo euro. Diversamente avrebbe dovuto fare un aumento di capitale aperto al mercato, risparmiando un sacco di quattrini e senza contribuire a impelagare la banca in un mare di pasticci ben oltre i limiti del consentito. Ma sarebbe stata costretta a diluire la propria quota ben al di sotto del 50 per cento: a Siena, una bestemmia. Ugualmente avrebbe mantenuto il controllo, senza però avere la mano assolutamente libera nella gestione delle poltrone e nelle nomine anche di piccolo cabotaggio. Di sicuro, poi, le cose sarebbero andate in un altro modo se il ministero dell' Economia, che ha il potere di vigilanza sulle Fondazioni, avesse dato l' altolà a un' operazione con la quale la più ricca delle Fondazioni italiane bruciava tutte le proprie risorse per investire in una banca. Tanto più in presenza di una norma mai abrogata che dovrebbe vietare a quegli enti di concentrare il proprio patrimonio negli istituti di credito. Quanto alla Banca d' Italia, resta in dubbio se una maggiore inflessibilità nel valutare alcuni aspetti della folle operazione avrebbe potuto mutare il corso degli eventi. E non è un dubbio campato per aria.
Vittorio Puledda per la Repubblica il 9 novembre 2019. Dopo sei ore di camera di consiglio e 100 udienze, si è chiuso con pesanti condanne (e confische per 152 milioni) il processo sui derivati Mps. Tutti colpevoli gli imputati, inclusi Nomura e Deutsche Bank. Non c' era invece Mps: la banca infatti è uscita dal processo nel 2016 con un patteggiamento. Ieri i giudici della seconda sessione penale del Tribunale di Milano hanno condannato l' ex presidente della banca senese, Giuseppe Mussari, a sette anni e sei mesi, l' ex direttore generale Antonio Vigni a sette anni e tre mesi, l' ex responsabile dell' area finanza Gianluca Baldassarri a quattro anni e otto mesi e poi a seguire tutti gli altri imputati (13 complessivamente) per i reati di manipolazione del mercato, falso in bilancio, falso in prospetto e per ostacolo agli organi di vigilanza (su quest' ultimo reato in alcuni passaggi c' è stato il non luogo a procedere perché è intervenuta la prescrizione). Oltre alle persone fisiche sono state condannate anche le due banche estere, che avevano fatto da controparti con Mps sui derivati: per Nomura la confisca è di 88 milioni di euro, insieme ad una multa da 3,45 milioni mentre per Deutsche bank confisca da 64 milioni e 3 milioni di multa. Le persone fisiche invece sono state condannate a risarcire i danni nei confronti di Federconsumatori e Confconsumatori (50 mila euro) mentre Mussari e Vigni sono stati condannati in solido tra loro ad un risarcimento di 50 mila euro a favore della Banca d' Italia; alla Consob andranno risarcimenti per 300 mila euro. Agli imputati sono state concesse le attenuanti generiche, con l' eccezione di Mussari e dell' ex managing director di Deutsche Bank Ivor Scott Dunbar. Il Tribunale inoltre ha trasmesso gli atti alla Procura, per valutare la posizione di altre quattro persone. Si chiude così il processo di primo grado per i derivati Alexandria e Santorini. Processo nato a Siena e poi spostato nel 2015 a Milano per competenza, sulle operazioni finanziarie (oltre ai due derivati, il Fresh 2008 e la cartolarizzazione immobiliare denominata Chianti Classico), che secondo i giudici sono serviti a coprire nei bilanci perdite di 2 miliardi, aggravate dall' acquisto di Antoveneta. La decisione di comprare la banca dal Santander era stata presa alla fine del 2007 e fu strapagata - 9 miliardi, in più facendosi carico di altri 7 di finanziamenti che aveva Antonveneta - quasi senza effettuare controlli contabili precedenti (la due diligence). Un impegno che si rivelò troppo forte per la banca, che fece sostanzialmente due cose: per ottenere l' ok di Bankitalia all' acquisto calcolò il Fresh come se fosse capitale "nobile" ai fini della solidità patrimoniale; poi non rappresentando correttamente i derivati nei bilanci occultò le perdite che si erano create. Un modo non per risolvere le situazioni ma per «mettere la sporcizia sotto il tappeto piuttosto che buttarla nella spazzatura », aveva sintetizzato il pm Stefano Civardi nel 2017, nell' audizione alla Commissione d' inchiesta sulle banche. La sentenza «conferma la tesi da me per primo sostenuta ad aprile 2013, che la banca contabilizzava miliardi di derivati come titoli di Stato», ha commentato ieri Giuseppe Bivona, partner del fondo attivista Bluebell Capital Partners. Di parere opposto la folta di avvocati della difesa. «Mussari è innocente, anche a Siena, nel processo Alexandria, eravamo partiti con una condanna e l' esito è a tutti noto (con l' assoluzione in via definitiva, ndr ). Svanirà in appello anche questa incredibile condanna», hanno detto i difensori dell' ex presidente del Monte. Anche gli altri avvocati hanno manifestato a vario titolo stupore e delusione, riservandosi di appellare la sentenza dopo aver letto le motivazioni.
Crac bancari; nessuno li può giudicare. I processi per i crac finanziari rischiano di finire in nulla di fatto per lentezze e prescrizioni. Gli imputati ringraziano, e i risparmiatori truffati? Francesco Bonazzi il 4 novembre 2019 su Panorama. Negli Stati Uniti processano i banchieri, non le banche. In Italia, si fa il contrario. Ogni volta che c’è uno scandalo che coinvolge decine di migliaia di correntisti e di risparmiatori, si alza il solito polverone contro gli istituti di credito, come se fosse possibile farne a meno senza ritornare all’Età della pietra, mentre i banchieri finiscono per farla franca. Dall’inizio della crisi del 2012, il sistema che il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, si è ostinato per anni a definire «solido», ha regalato solo amarezze. Oltre al continuo salasso di soldi pubblici e privati per tenere in vita Mps, decine di miliardi di euro sono andati in fumo in Carige, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare dell’Etruria e le altre casse del Centro Italia. E dei vari banchieri finiti sotto inchiesta, da Gianni Zonin a Vincenzo Consoli, passando per Giuseppe Mussari, quello che sembrava messo peggio di tutti, ovvero Giovanni Berneschi, per oltre un ventennio padre-padrone di Carige, lo scorso 19 ottobre è tornato a rivedere la luce (dell’impunità). La Cassazione ha annullato per vizio di competenza la sua condanna in secondo grado a 8 anni e 5 mesi per associazione a delinquere e riciclaggio, e ora il processo dovrà ricominciare a Milano. Visto che è impossibile che si arrivi al terzo grado di giudizio entro il 2023, si può già star certi che tutte le accuse cadranno in prescrizione. Identico destino attende anche i processi per i crac di Veneto Banca e Popolare Vicenza. Banchieri in manette, condanne detentive a due cifre, passaporti ritirati, conti e patrimoni personali bloccati. Sicuramente, negli anni, abbiamo visto troppi film sui lupi di Wall Street e sulla fine che fanno quando il Dipartimento di giustizia si convince che abbiano frodato risparmiatori, investitori e soci vari. Ma in Italia, per capire che aria tira, basta rivedere il servizio del Tg regionale del Veneto di lunedì 30 settembre, dedicato all’udienza di quel giorno al Tribunale di Vicenza per il disastro della ex Bpvi, un buco da oltre tre miliardi di euro che ha distrutto i risparmi di circa 120 mila soci. Il principale imputato è Zonin, per vent’anni presidente della banca e fondatore dell’omonima casa vinicola, sempre presente in aula. Quel giorno, però, non c’è, e la Rai giustamente registra il fatto: «Presenti oggi tutti gli imputati in aula tranne l’ex presidente, Gianni Zonin, in trasferta negli Stati Uniti». In quell’essere «in trasferta» negli Stati Uniti, manco fosse, più che l’imputato chiave, il presidente della Repubblica, c’è una sintesi involontariamente perfetta di che cosa vuol dire essere un «banchiere che sbaglia» in Italia. Non solo nessuna detenzione cautelare (il che comunque, se applicato a tutti i cittadini, resterebbe un indice di maggior civiltà giuridica), ma anche sequestri patrimoniali assai tardivi e parziali, possibilità di spogliarsi di quasi tutto il patrimonio a favore dei figli e piena libertà di movimento in Italia e all’estero, dove l’imputato Zonin va appunto «in trasferta» grazie a un passaporto che sarebbe stato ritirato a chiunque. Eppure, non si pensi che a Vicenza la giustizia stia dormendo. Anzi. Il processo è probabilmente il più veloce d’Italia, con le sue udienze settimanali che, quando saltano, vengono recuperate il sabato seguente. A questi ritmi, si dovrebbe arrivare a sentenza entro l’estate. Ma la prescrizione per il reato più grave, l’ostacolo alla vigilanza, arriverà nel 2021, ed entro quel termine è impossibile immaginare che si possano celebrare anche il secondo grado e il ricorso in Cassazione. Del resto, l’unico coimputato che potrebbe davvero mettere nei guai Zonin è il suo ex a.d. Samuele Sorato. La posizione di quest’ultimo è stata stralciata per due anni per «gravi motivi di salute», ma adesso pare che stia meglio e il 31 ottobre dovrebbe essere interrogato. Altra bizzarria del processo in corso è che alcuni testimoni dell’accusa sono stati «segnalati» dal collegio giudicante alla Procura perché evidentemente reticenti. Con il senno di poi, ma forse anche del prima, avrebbero per caso dovuto partecipare al processo da imputati? E finirà tutto in nulla, a Vicenza? La Procura lo teme e allora ha già aperto una nuova inchiesta per bancarotta fraudolenta, reato con prescrizione lunga, ma gli avvocati di Zonin andranno giustamente fino in Cassazione per contestare l’insolvenza della banca quando il loro assistito si dimise, nel novembre 2015. E poi, se l’inchiesta-bis dovesse andare avanti, sarebbe complicato fermarsi solo a Zonin e «risparmiare» le gestioni seguenti, perché i bilanci della banca vanno guardati tutti, compresi quelli firmati dai «risanatori» mandati da Tesoro e Bankitalia. Ma il capolavoro assoluto sta andando in scena nella vicina Treviso, dove dopo tre anni sono tornate indietro da Roma le inchieste per truffa, aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza su Veneto Banca, un buco che da «solo» vale un miliardo ma che insieme a quello dei cugini vicentini ha costretto il governo a impegnare 17 miliardi di soldi pubblici e coinvolto 90 mila soci. A Vincenzo Consoli e alla moglie, la procura di Roma aveva «inflitto» una serie di sequestri patrimoniali, che però negli ultimi mesi sono stati in buona parte revocati dalla magistratura veneta perché con la prescrizione i capi d’imputazione sono scesi da 9 a 5. Ma a far capire come finirà tutta la storia bastano due particolari: la procura trevigiana ha scelto di processare il solo Consoli, che evidentemente ha distrutto una banca facendo tutto da sé (già si immagina come sgraneranno gli occhi in Cassazione) e a distanza di mesi non si riesce a far partire il processo perché con migliaia di parti civili non c’è un’aula sufficientemente grande. In generale, come ha lamentato più volte anche il presidente del Veneto, Luca Zaia, qui la magistratura è sotto organico. Ma all’unica toga che negli anni d’oro tentò di mandare a processo Zonin, Cecilia Carreri, viene negato il rientro in magistratura per una serie di cavilli formali sulla sua lettera di dimissioni. Un po’ più di umiltà o semplice prudenza, nel valutare le richieste degli avvocati difensori, avrebbe probabilmente salvato da questo finale inglorioso le inchieste genovesi su Carige. Oggi la banca ligure è commissariata dalla Bce ed è alle prese con il quinto aumento di capitale degli ultimi anni, un’operazione da 900 milioni di euro, mentre il titolo in Borsa è sospeso da prima di Natale. Ebbene, il 16 ottobre la Cassazione ha sancito che tutte le condanne per i reati che nel 2014 portarono all’arresto dell’ex presidente Giovanni Berneschi sono nulle. Sei anni di processi inutili sui prestiti «agli amici degli amici», sulle plusvalenze gonfiate e poi usate all’estero, su una serie di compravendite immobiliari sospette. Berneschi, processato insieme ad altri manager, si era preso in appello otto anni e cinque mesi di galera. Ora «rimbalza» a Milano, ma il reato principale, su cui s’innestano tutti gli altri, si prescrive nel 2023. Dove è saltato il processo? Le aggravanti del (presunto) riciclaggio hanno fatto diventare questo reato più grave della semplice associazione a delinquere, che era stata «organizzata» a Genova, e il riciclaggio si sarebbe invece consumato a Milano. Gli avvocati lo avevano detto fin dall’inizio. Hanno sopportato molto anche migliaia di azionisti Mps, che a fine 2015, prima della sciagurata acquisizione di Antonveneta, valeva in Borsa 12,2 miliardi di euro e oggi, nonostante continui aumenti di capitale e l’intervento del Tesoro con cinque miliardi (è arrivato al 68 per cento del capitale), vale appena 1,7 miliardi, ovvero un settimo. A fine maggio la Cassazione ha confermato l’assoluzione degli ex vertici del Monte nel processo per ostacolo alla vigilanza sul contratto in derivati con la banca giapponese Nomura. Nell’accogliere il ricorso delle difese di Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e Gianluca Baldassarri, i giudici hanno disposto un secondo appello a Firenze solo per valutare se concedere un proscioglimento più ampio «perché il fatto non sussiste». Secondo la Cassazione, nessuno aveva nascosto a Consob e Bankitalia il contratto sui derivati che avevano affossato il Monte dei Paschi di Siena. Un colpo micidiale anche alla narrazione dominante, che da noi vuole sempre i vigilanti vittime dei vigilati. Era invece attesa per ottobre la sentenza del processo milanese sui derivati Santorini e Alexandria, le cui perdite, insieme ad altre operazioni, sarebbero state occultate. Le richieste di condanna da parte dei pm sono pesanti: otto anni di carcere per Giuseppe Mussari e Antonio Vigni e sei anni per Gianluca Baldassarri. Le operazioni contestate sono andate in scena tra il 2008 e il 2011 e le prime, naturalmente, sono già cadute sotto la mannaia della prescrizione. Vedremo che cosa resterà delle altre. Ben più piccola, ma non meno sconvolgente, la storia di Banca Etruria, che ha bruciato i risparmi di 35 mila toscani, polverizzato 300 milioni di euro di azioni e obbligazioni e richiesto un intervento pubblico da 400 milioni. A settembre il gip di Arezzo ha prosciolto dall’accusa di bancarotta fraudolenta per la mancata fusione con la Vicenza gli ex amministratori, tra cui Lorenzo Rosi e Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena di Italia viva. A luglio, invece, sono stati rinviati a giudizio l’ex dg Luca Bronchi, l’ex presidente Giuseppe Fornasari e altri manager per falso in prospetto, reato che sarebbe stato commesso quando alla Consob furono mandate informazioni «edulcorate» per l’emissione di un bond. C’è anche un altro filone sulle consulenze allegre e su tutto aleggia la delicata vicenda del procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, che non si fece problemi a lavorare come consulente di un governo dove c’era la Boschi ministro. In ogni caso, la banca è stata liquidata nel 2014, siamo a fine 2019 e come si vede è tutto disperso in mille, lentissimi rivoli. E mentre si aspetta da quasi un anno che in Parlamento si degnino di partire con la nuova commissione d’inchiesta sulle banche, vengono in mente le parole pronunciate più volte da Pier Ferdinando Casini quando guidava quella precedente: «Colleghi, cerchiamo di non intralciare il lavoro della magistratura». Con il senno di poi, forse è stato uno scrupolo eccessivo.
(ANSA il 6 novembre 2019) Militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Roma hanno sequestrato all'imprenditore Danilo Coppola una villa del valore di circa 15 milioni di euro, ad Arzachena (SS) in Sardegna. All'immobiliarista, coinvolto in passato nell'indagine sui "furbetti del quartierino", e ad altre sei persone è stato inoltre notificato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari per bancarotta. Le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica della Capitale, hanno fatto emergere rilevanti anomalie in alcune operazioni commerciali realizzate dalla Faber immobiliare S.r.l., società fondata da Coppola, dichiarata fallita nel 2017, quando non è più stata in grado di onorare debiti per oltre 12 milioni di euro, soprattutto nei confronti dell'Erario. Tra il 2004 e il 2005, la Faber era stata utilizzata per la compravendita di un complesso immobiliare a Velletri (Rm): lo stesso giorno in cui il bene veniva venduto ad altra società del gruppo, quest'ultima lo cedeva a una terza impresa ad un valore (23 milioni di euro) pari quasi al doppio di quello di acquisto (12 milioni). Circa 7 milioni di euro, incassati dalla Faber, - sempre secondo gli investigatori - venivano poi trasferiti, mediante una serie di passaggi intermedi, su un conto in Svizzera per finanziare proprio l'acquisto della villa di Arzachena, nota come Villa Renè, con annessi l'abitazione del custode e un terreno di circa 12.500 mq. La compravendita, formalmente effettuata da una società sempre riconducibile a Coppola, veniva conclusa con la controparte straniera mediante il pagamento di circa 3,5 milioni di euro, previsti contrattualmente, più altri 7 milioni "in nero", bonificati su conti elvetici. Grazie alla ricostruzione dei flussi finanziari effettuata dai Finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria, il Gip del Tribunale di Roma ha emesso il decreto di sequestro preventivo, cui è stata data esecuzione con il supporto del Comando Provinciale di Sassari.
Dagospia il 6 novembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo: “La villa in Sardegna non è mai stata mia. La stessa è stata invece acquistata 15 anni fa dalla mia ex moglie Silvia Necci, e ciò è risultato almeno da cinque processi diversi che ho subito. La villa in questione era stata sequestrata già nel 2007, sempre dalla Procura di Roma, per gli stessi reati che oggi mi contestano e che vengono divulgati erroneamente. In tale sequestro venivano contestati il riciclaggio all’amministratore della società Seasi srl, proprietaria della villa, e l’appropriazione indebita per 7 milioni di euro nei miei confronti. L’amministratore delle Seasi srl è stato poi assolto con formula piena da tale reato, mentre io ho rinunciato alla prescrizione del reato che mi veniva contestato e successivamente sono stato anche io assolto. Questo calvario è terminato a maggio del 2019, pochi mesi fa, e la villa è tornata nelle disponibilità di Silvia Necci dopo che per 15 anni era stata bloccata. Adesso, sempre la Procura di Roma ripropone lo stesso sequestro per gli stessi motivi e - mi permetto di dire sommessamente - senza aver preso bene visione di tutti gli atti inerenti sia la Seasi srl sia la Faber srl per la quale contestano a me altri reati. In merito mi rivolgo al Ministro della Giustizia che prenda visione di tutti i documenti, molti dei quali - quelli più importanti, che dimostrano l’infondatezza dell’accusa e del sequestro - non sono stati presentati al Gip inducendolo in errore e facendogli emettere un sequestro basato sulla documentazione parziale presentatagli”. Danilo Coppola
LA DOLCE VITA DEI BANCAROTTIERI MILIARDARI FRA VINI, CAVALLI E NUOVE SPECULAZIONI - DA CRAGNOTTI A MUSSARI FINO A CALISTO TANZI E GIANNI ZONIN, ECCO CHE FINE HANNO FATTO GLI UOMINI AL CENTRO DEGLI SCANDALI - C'È CHI HA ABBINDOLATO 30 MILA INVESTITORI E CONTINUA A TENERE CORSI SU COME METTERSI IN PROPRIO - E C'È CHI HA PRELEVATO I SOLDI DAI CONTI CORRENTE DEI SOCI, MORTI COMPRESI, HA MEZZO DISTRUTTO UN PAIO DI BANCHE, MA NONOSTANTE QUESTO…Pubblichiamo un estratto del servizio di copertina del nuovo numero di Panorama, da oggi in edicola. Francesco Bonazzi ha firmato l’inchiesta «Bancarottieri d’Italia» sugli imprenditori che hanno provocato crac miliardari. Uscendone spesso quasi illesi. Ecco che fine hanno fatto Calisto Tanzi, Sergio Cragnotti e Giovanni Zonin. Articolo di Francesco Bonazzi pubblicato da “la Verità” il 20 giugno 2019. C' è chi ha abbindolato 30.000 investitori, ma continua a tenere corsi su come mettersi in proprio [...]. E c' è chi ha prelevato i soldi dai conti corrente dei soci, morti compresi, ha mezzo distrutto un paio di banche, ma nonostante questi successi è tornato a comprare e vendere quote di istituti di credito. [...]
Sergio Cragnotti, 79 anni, è stato patron della Lazio dal 1992 al 2003 [...]. Si è fatto sei mesi di carcere preventivo, ha incassato condanne, annullamenti della Cassazione e rinvii in un lungo calvario giudiziario che dopo 15 anni non è ancora concluso. Comunque vada a finire, la Cirio sbriciolò come croste di pane 1,1 miliardi di euro a oltre 35.000 investitori. E Cragnotti [...] a Roma non lo si vede mai. Manda avanti la tenuta agricola Corte alla Flora a Montepulciano, in Toscana, dove scontò gli arresti domiciliari e che oggi è intestata ai figli, e gira per il Centro Italia a promuovere i suoi vini in ristoranti e alberghi.
Calisto Tanzi ha appena un anno di più di Cragnotti, al quale è spesso accomunato perché come lui si muoveva sotto l' ala protettiva del banchiere romano Cesare Geronzi [...]. Il fallimento Parmalat pende su di lui [...]: un buco da 14,3 miliardi di euro e 145.000 risparmiatori danneggiati. Dal 2003 a oggi Tanzi è stato sotterrato di condanne, poi in qualche modo riviste e ridotte fino alla metà, circa 19 anni di carcere. Considerata l'età, ha ottenuto i domiciliari e ora anche la semilibertà, che significa poter uscire di casa tre ore al mattino, vicino a Parma. [...] Passa la giornata a fare il nonno e il giardiniere, nel parco di casa. Da fervente cattolico, sa che alla lunga si raccoglie quel che si semina. Ma nel Vangelo c'è anche una parabola che racconta la storia dell'amministratore infedele, ovvero colui che, quando capisce che il padrone sta per licenziarlo, chiama i debitori (del padrone, ovvio) e concede loro ampi sconti. [...]
Come deve aver fatto l'ex banchiere «cattolicissimo» Giampiero Fiorani, che ai tempi della sua Popolare di Lodi era di casa in Liguria (nel 2003 comprò il Banco di Chiavari). Nell'ottobre 2015, per i danni causati dalla scalata Antonveneta del 2005, risarcì la Banca Popolare di Lodi con 34 milioni di euro. Ma Fiorani (classe 1959), dopo una condanna a due anni e mezzo, dall' estate del 2014 è tornato in pista. L' ex banchiere vive a Lodi, ma è il braccio destro di Gabriele Volpi, l'imprenditore di Recco che ha accumulato fortune enormi in Nigeria lavorando nella logistica per l' Eni.
Volpi [...] ha investito oltre 100 milioni di euro per acquisire il 9% della Carige, che oggi è sospesa in Borsa e di milioni ne vale a stento 90 [...]. C'è chi invece vorrebbe scomparire, ma alla fine lo trovano sempre. Come Giuseppe Mussari, penalista calabrese che nell'era pre Bce dei banchieri «del territorio» fu fatto presidente del Monte dei Paschi di Siena. È passato alla storia per aver aperto una voragine nella banca più antica del mondo comprando per 10 miliardi Antonveneta. Vive in un coagulo di villette intestate alla moglie, a pochi chilometri da Siena. Cucina e va a cavallo all'alba. [...] Al centro di varie inchieste, Mussari sta aspettando la sentenza per i derivati appioppati al Montepaschi e per operazioni immobiliari disastrose. A Milano, i pm hanno chiesto per lui 8 anni di carcere e 4 milioni di multa. [...]
Chi ha solo cambiato casa è Giovanni Zonin, per 19 anni dominus incontrastato della Popolare di Vicenza e della controllata Banca Nuova, l' istituto siciliano che gestiva i soldi dei servizi segreti e all' interno della quale si sarebbe mossa, secondo Report e per la Procura di Caltanissetta, la rete spionistica gestita da Antonello Montante, l'ex numero due di Confindustria. L'appartamento nel centro di Vicenza è chiuso e sbarrato. La tenuta nella vicina Gambellara è affidata ai figli. Zonin e consorte si sono spostati tra i vigneti di Terzo d' Aquileia, in Friuli, dove possono andare a cena fuori senza che tutta la sala si metta a rumoreggiare. L'ex banchiere torna a Vicenza solo per il processo di primo grado, che non finirà prima della prossima primavera, dove si mostra sempre sorridente. [...] La prescrizione marcia inesorabile. [...]
· Il debito che piace ai partiti.
Il debito che piace ai partiti. Dal 2000 a oggi, si sono succeduti governi di ogni colore e partiti di nuovo conio, ma tutti favorevoli alla spesa in deficit. Zeffiro Ciuffoletti il 18 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Per il debito pubblico un governo vale l’altro. E così anche nel 2020 avremo una legge di bilancio in deficit, che aumenterà le ipoteche nel futuro e quindi sui giovani… che se ne vanno. Più di un milione in dieci anni. Anche perché, si è visto che il deficit non produce sviluppo, né posti di lavoro, ma semplicemente altro deficit. Dal 2000 a oggi, si sono succeduti governi di ogni colore e partiti di nuovo conio, ma tutti favorevoli alla spesa in deficit. Sta di fatto che la spesa pubblica primaria, come ci ricorda Nicola Roni,un economista che la racconta giusta, è cresciuta in termini nominali del 60,8%, mentre il PIL è cresciuto solo del 42,8%. Stando così le cose, se ne deve dedurre che i nostri governi sono tutti keynesiani impenitenti senza alcuna differenza destra o sinistra, giallo- verdi o giallo- rossi. Il povero Keynes però, non ha nessuna colpa se il tasso di crescita dell’economia italiana è, ormai, da molto tempo inferiore agli interessi pagati ( 60 miliardi) a chi ha investito nel nostro debito, italiani ( 70%) e stranieri ( 30%). Da tempo in Italia si parla di “tesori” e “tesoretti” che i bravi ministri, “maghetti” di turno, avrebbero trovato fra le pieghe dei conti pubblici. In realtà li hanno trovati direttamente o indirettamente nelle tasche dei cittadini che risparmiano perché temono il futuro. Forse è lì il “tesoretto”.Il livello del debito pubblico italiano in relazione al Pil non fa che crescere anche nelle previsioni per il 2020. Per far tornare i conti si usano i soliti refrain: lotta all’evasione, privatizzazione e vendite del patrimonio pubblico con cifre sempre gonfiate. Tutti hanno parlato di privatizzazioni, ma, sembra che da quella parte sia venuto zero nel 2017, zero nel 2018, zero nel 2019. Persino la flessibilità, tanto pretesa dall’Europa, si è rivelata inutile allo sviluppo. Considerazione finale, fra tragico e comico: tutti i governi di ogni colore, da molti anni, promettono sviluppo, ma producono flussi crescenti di spesa pubblica. Viene il dubbio che la spesa pubblica non serva a creare sviluppo, ma a creare consenso. Però sempre più effimero.
· La Tassa Rossa. Tassa patrimoniale: la storia dell'imposta che colpisce i risparmi.
Tassa patrimoniale: la storia dell'imposta che colpisce i risparmi. E' uno degli storici cavalli di battaglia della sinistra e oggi sembra un fantasma quanto mai vicino. Barbara Massaro il 2 settembre 2019 su Panorama. Se i conti devono tornare, ma i fondi non ci sono, sopra le teste dei contribuenti torna a farsi pressante lo spettro della tassa patrimoniale che altro non significa se non mettere un balzello sul patrimonio del contribuente oltre che sul reddito. E' una mossa che, nella storia italiana - soprattutto quando il centro sinistra è stato a Palazzo Chigi - è stata spesso compiuta con quello spirito da "tasto rosso" da schiacciare quando tutto va male. E in questo momento il futuro governo rosso giallo ha un gran bisogno di un "tasto rosso" da schiacciare per evitare di sforare il deficit, per far in modo di non dovere aumentare l'Iva e per regalare agli italiani l'illusione che qualcosa di buono e concreto il Conte bis lo possa fare. E allora ecco che un po' a bocca chiusa, un po' tra i denti, un po' senza dirlo troppo forte l'idea di prelevare denaro (su cui son già state pagate le tasse) dai conti correnti degli italiani non sembra un'idea così malvagia e in Transatlantico se ne inizia a parlare.
Cos'è la tassa patrimoniale. Una tassa patrimoniale, infatti, non è altro se non un balzello che grava sul capitale e sui beni mobili e immobili del cittadino. Secondo alcuni economisti e buona parte della cultura politica del centrosinistra si tratta di una sorta di "tassa dell'equità" in cui i ricchi si prendono carico dei buchi dello Stato e con i propri capitali personali li sanano. Perché una tassa patrimoniale, straordinaria o fissa che sia, è un metodo veloce per abbattere il debito pubblico e risanare i conti.
La patrimoniale nella storia. E del resto il tema della patrimoniale è uno dei grandi cavalli di battaglia del Partito Democratico e in generale del centro sinistra. Nella recente storia politica italiana la prima volta che è stato introdotto un prelievo forzoso sui capitali è stato nel 1992 durante il Governo Amato che, per evitare il crack finanziario e permettere alla Lira di restare agganciata al sistema monetario europeo, ha introdotto un prelievo forzoso del 6 per mille su tutti i conti correnti bancari. Per imposta patrimoniale, però, non si intende solo il prelievo sul conto, ma anche la tassazione diretta di beni mobili e immobili e in Italia al momento sono 15 le patrimoniali nascoste che paghiamo ogni anno per un totale di 45,7 miliardi di euro di incassi per lo Stato.
Le patrimoniali "nascoste". Imu e Tasi, ad esempio, non colpendo il reddito, ma il possesso del bene vanno considerate imposte patrimoniale e valgono da sole 21 miliardi di euro. Poi ci sono l'imposta di bollo, il bollo auto, il canone RAI, l'imposta su imbarcazioni e aeromobili, la tassa sulle transazioni finanziarie e sulle successioni e donazioni. Dal 1990 ad oggi l’aumento del gettito da imposte patrimoniali è stato pari al 400 per cento, a fronte di una crescita del 90% dell'inflazione. A fine novembre si era tornati a parlare di una nuova patrimoniale a fronte della bocciatura da parte di Bruxelles della manovra economica, ma in passato più volte i governi (soprattutto a sinistra) hanno fatto ricorso all'imposta sul patrimonio per far cassa. Tra il 1993 e il 2008, ad esempio è stato in vigore l'ICI, imposta comunale sugli immobili; mentre tra il 1993 e il 1997 è stato tassato - con un'aliquota del 7,5 per mille - il patrimonio delle imprese. Nel 2012, poi, il cosiddetto "Salva Italia" ha introdotto l'IMU e il prelievo sui beni di lusso come macchine di grossa cilindrata, seconde case, barche e aerei privati. Nel 2014, infine, è nata la IUC (imposta unica comunale) che unisce all'IMU anche Tari e Tasi. In Europa non sono molti i Paesi dove sono in vigore imposte patrimoniali e cioè Spagna, Svizzera, Francia e Norvegia, ma sono tutte nazioni che, a differenza dell'Italia, non subiscono la stessa pressione fiscale sul reddito salariale.
Chi colpisce la patrimoniale. A differenza del concetto salviniano di flat tax la patrimoniale va a colpire solo i redditi medio alti che, però, sono quelli che permettono all'economia di continuare a girare grazie a quel rapporto tra consumo e guadagno alla base del progresso economico. I benefici della patrimoniale, quindi, sono tutt'altro che scontati e se da una parte è una tassa utile per sanare i buchi momentanei di bilancio, dall'altra si tratta di un'imposta che va a minare il capitale stesso di coloro che hanno risparmiato una vita per permettersi un po' di agio.
· Fisco e presunti evasori. Italia prima in Europa per evasione fiscale. E’ vero?
Milena Gabanelli e Luigi Offeddu per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2019. Il presidente della Repubblica e garante della Costituzione l' ha detto: «L' evasione fiscale è un fatto indecente, chi evade sfrutta ciò che altri pagano. Senza l' evasione ci sarebbero più soldi per stipendi e pensioni». Era il momento giusto per dirlo: il 31 dicembre scadrà il tempo per gli emendamenti al decreto fiscale e gli italiani sapranno con certezza quante imposte dovranno pagare nel 2020. Meno degli altri anni, assicura il governo, per la riduzione di 3 miliardi del cuneo fiscale. È probabile che alla fine il carico totale sarà più pesante: si prevede un aumento del 3,5 per cento per i concessionari di servizi pubblici come porti e ferrovie e interventi su assicurazioni e autostrade, con inevitabile «ricarico» delle tariffe sui contribuenti. Intanto nel 2018, dicono Ocse e Cgia, la pressione reale ha superato già di oltre 6 punti quella ufficiale, toccando anche il 47,9%. Torna la vecchia domanda: è vero che l' Italia è il Paese più tartassato d' Europa? Ecco la classifica Ue, anno 2018, sulla pressione fiscale totale in rapporto al Pil, elaborata dall' ufficio studi Cgia su dati Eurostat, e relativa alle imposte dirette, indirette, imposte su redditi da capitale, contributi sociali: l'Italia si piazza al settimo posto con il 41,8%, contro una media Ue del 40,2%. In testa la Francia con il 48,4%, segue il Belgio con il 46,6%, Svezia, 44,3%, Austria, 42,5%; Grecia, 41,4%; Germania, 41,2%. Molto più pesanti invece i carichi sulle imprese. Dai dati di Banca Mondiale e Cgia in testa c'è la Francia: 60,7%, segue l' Italia con il 59, 1%, poi la Germania 48,8%, e l' Irlanda 23%. Poi ci sono imposte che variano a seconda delle regioni, delle dimensioni dell' impresa, del tipo di attività e dei componenti della famiglia: Imu, Tari, Tasi...Per quel che riguarda le accise, il peso fiscale su un litro di carburante in Italia è il più alto: 1 euro e 003 centesimi di euro per ogni litro, ed è previsto un aumento nel 2020. La media europea è di 89,3 centesimi, scendendo nel dettaglio di Paesi comparabili al nostro troviamo la Francia, che chiede 65,9 centesimi, e la Germania 65,5. Ci sono poi le micro imposte. In Italia continuiamo a pagare la marca da bollo da 2 a 16 euro (esiste dal 1863), anche se ormai è abolita in molti Paesi Ue. Il nostro passaporto è il più costoso: 116 euro, in Francia se ne pagano 86, in Grecia 84,4, in Austria 75,9, in Germania quasi te lo regalano: 37,5 euro. In compenso siamo il Paese che paga meno il canone tv: 90 euro, contro i 335 della Danimarca, i 215,7 della Germania e i 139 della Francia. Con il Portogallo e la Bulgaria, l'Italia è il Paese europeo dove è più complicato pagare le imposte. L'analisi di Banca Mondiale dice che a una piccola impresa italiana, ogni anno, occorrono in media 29,7 giorni lavorativi solo per raccogliere le carte necessarie. La media Ue è di 18 giorni. In Francia ne bastano 17, in Spagna 18, in Germania 27. Secondo il «Financial complexity Index» condotto in 94 Paesi dal gruppo finanziario Tfm, i primi tre Paesi al mondo con il fisco più tortuoso sono nell' ordine: Turchia, Brasile, Italia. Anche qui dunque siamo i primi in Europa. Secondo l' indice internazionale della competitività fiscale compilato dall' Ocse, su 36 Paesi, l' Italia è al 34esimo posto. I motivi della lentezza italiana sono invece noti: eccessiva burocrazia, norme complicate che cambiano ogni anno, «ingorgo» delle controversie nelle commissioni tributarie. In 10 anni, i giudici sono calati del 40,2% e l' anzianità media delle controversie pendenti è di 689 giorni, in leggero calo rispetto a 2 anni fa. Il cittadino paga le imposte e lo Stato in cambio offre i suoi servizi. Dai dati Ocse, l' Italia spende l' 8,9% del Pil per la sanità pubblica, la media europea è al 9,6%. La classifica è guidata dalla Francia (11,5%) e dalla Germania (11,3%). Nella spesa pro capite sanitaria l' Italia è all' undicesimo posto: 2.551 euro nel 2017 contro una media Ue di 2.773. Da noi come ovunque, le tasse servono a coprire le spese di tutta la macchina pubblica: dagli ospedali alla scuola, dalle infrastrutture alla manutenzione delle strade, forze di polizia, tribunali, Protezione civile, traporti, assistenza sociale, ricerca, e le costosissime cure contro il cancro, garantite gratuitamente a ogni malato. Chi evade, scarica anche questo peso su tutti i concittadini. E i Paesi che impongono meno tasse lasciano poi «scoperti» i loro contribuenti: in Italia, la sanità pubblica assicura 47 protocolli di diagnosi prenatale estesa e obbligatoria per altrettante patologie rare, la sanità irlandese solo 8. E gli irlandesi vengono a curarsi qui. Siamo fra i Paesi europei che evadono di più. La nota aggiuntiva al Documento 2019 sull'economia e la finanza certifica una differenza fra le entrate previste e quelle effettivamente pervenute di circa 109,7 miliardi di euro. L'imposta più evasa è l'Iva, dove secondo il «rapporto Murphy» presentato a luglio al Parlamento europeo l' Italia è prima nella lista Ue: ben il 25,9% del dovuto, ovvero circa 35 miliardi ogni anno. Siamo ai primissimi posti anche nell' economia sommersa. Il «nero» vale oggi 211 miliardi, il 13% del Pil. Incrociando varie statistiche, si arriva alla stima sull' evasione pro capite: 3.182 euro in Italia, 3.070 nella florida Danimarca, Francia 1.760, Germania 1.522. Le percentuali di recupero dell' Agenzia delle Entrate: dai 20,1 miliardi nel 2017 siamo scesi a 19,2 nel 2018. Lo Stato premia i Comuni che contribuiscono alle attività di recupero: nel 2018 il più attivo è stato San Giovanni in Persiceto (Bologna) che ha ricevuto da Roma 1.519.052 euro. Fra gli strumenti antievasione, il primo è il contrasto all' uso del contante, la miniera che consente di produrre il sommerso. Dal primo luglio 2020 il tetto scenderà a 2.000 euro, per arrivare a 1.000 nel 2021. Dagli ultimi dati di Banca d' Italia, la media Ue dei pagamenti tracciabili pro capite è stata di 261. In Italia siamo a quota 111, contro i 456 dei Paesi Bassi, 327 della Francia, 257 della Germania. Morale: dopo di noi c' è solo la Bulgaria e siamo a pari merito con la Grecia, che in 5 anni è passata da 27 operazioni a oltre 100. Su questo fronte sta viaggiando molto velocemente grazie a leve strategiche e incentivi. I Pos installati (obbligatori) sono 50.000 per milione di abitanti. È la più alta densità in Europa. Sono stati imposti limiti molto bassi ai prelievi e i pagamenti in contanti non possono superare i 500 euro. Le spese mediche fatte con i Pos sono tutte conteggiate per il calcolo dei crediti d' imposta. Dal 1 gennaio 2017, chi vuole godere di un credito d' imposta deve effettuare un valore minimo di pagamenti elettronici, calcolato sulla base del suo livello di reddito. Anche l' Italia ci ha pensato, si chiama «Bonus Befana»: detrazione del 19% per chi paga con Bancomat o carta di credito i conti di bar, ristoranti, idraulici. Ma scatterà dalla Befana del 2021. Sanzioni per chi non usa il Pos obbligatorio: zero (finora). I piccoli commercianti chiedono che vengano abbassate le commissioni interbancarie: per ora nulla di fatto.
"Confisca e manette? Delirante trattare tutti come fossero mafiosi". Il tributarista Enrico Zanetti: "Il decreto fiscale ci crea solo problemi, ogni reato di evasione è diverso". Camilla Conti, Giovedì 19/12/2019, su Il Giornale. «Nella stanza dei bottoni c'è gente che non prova a risolvere i problemi ma a crearne di nuovi dimostrando di essere fuori dal mondo e il caso della confisca lo dimostra». Enrico Zanetti, ex viceministro dell'Economia nel governo Renzi e oggi socio del centro studi tributari Eutekne, non usa mezzi termini per commentare le nuove norme contenute nel decreto fiscale che introduce anche la confisca per sproporzione, sinora prevista contro la mafia. Rispetto alle intenzioni dei grillini la misura patrimoniale è stata ridimensionata, ma «il fatto che ci sia una forza di maggioranza che è anche il primo partito che ha provato a fare una cosa del genere impone a tutte le persone che sanno che non tutte le evasioni sono uguali, di tenere altissima la guardia finchè loro sono al governo».
Poteva andare peggio?
«Assolutamente sì. Così come era stata inizialmente scritta era una follia delirante perché si voleva applicare la norma anche al reato di dichiarazione infedele che nel nostro Paese può anche essere figlio di complesse vicende giuridiche. Paragonare chi vi è incappato a un mafioso vuol dire essere fuori dalla grazia di Dio. Quel testo, che era tanto caro al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in sede di conversione è stato per fortuna temperato da Italia Viva».
In che modo?
«La confisca per sproporzione si applicherà solo ai condannati per reati di frode mediante fatture false con elementi fittizi superiori ai 200mila euro, ai condannati per reati di frode mediante altri artifici quando l'imposta evasa supera i 100mila euro e ai condannati per reati di sottrazione fraudolenta dal pagamento di imposte quando l'ammontare di imposte, sanzioni e interessi al cui pagamento ci si è sottratti supera i 200mila euro. Si tratta di fattispecie molto virulente. Per incappare nella violazione devi essere uno che ha fatto fatture false, castelli societari e scatole cinesi. Ma l'indignazione suscitata dalla norma è legittima per come è stata presentata e per come è stata impostata. Il lavoro fatto in sede di conversione ha evitato il peggio, ma è un continuo dover arginare le tendenze manettare, arginare i disastri. In ambito tributario posso dire che questo è un caso sintomatico, chi pensava di applicare le stesse regole sulle confische per la criminalità organizzata anche alle dichiarazioni infedeli non sa di cosa sta parlando. Chi si sta assumendo la disponibilità di tenerli nella stanza dei bottoni deve tenere alta la guardia e così pure opposizioni parlamentari e opinione pubblica. Il problema è che l'azione del governo è frenata proprio dal fatto che una delle sue componenti va tenuta sotto controllo costante».
Si tratta del solito trucco da Prima Repubblica quando le Finanziarie trovavano la quadra con l'inevitabile voce lotta all'evasione?
«Non sempre misure antievasione e cifrature di gettito vanno a braccetto. Anzi, le norme antievasione vere non sono quelle che possono essere cifrate. La cifratura del gettito va a restringere i diritti dei contribuenti, limitando ad esempio le compensazioni o introducendo nuovi, astrusi, adempimenti che aumenteranno il peso della burocrazia».
Con il via libera al dl fiscale si è approvato anche il carcere per gli evasori, bandiera sempre del M5S.
«Il carcere per i grandi evasori è già da molto tempo parte integrante del nostro ordinamento giuridico. Con la riforma del 2000, il decreto legislativo numero 74 prevede pene da 1,5 a 6 anni di reclusione per frode fiscale e da uno a tre anni per dichiarazione infedele non fraudolenta, oltre a sanzioni pecuniarie salatissime che vanno dal 135 al 270% per la frode fiscale e dal 90 al 180% per la semplice dichiarazione infedele. Il punto è che non si può creare un sistema dove chi evade è punito penalmente più di chi va a rubare nelle case della gente».
Imprese, la maxi frode allo Stato: 105 miliardi di tasse non pagate. Pubblicato domenica, 15 dicembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Fabrizio Massaro. È il debito verso l’Erario lasciato dalle imprese che vengono «svuotate» e da quelle che «nascono per fallire»: non pagano imposte, contributi, banche, e muoiono dopo due anni. Sono cifre che riguardano un numero molto grande di imprese: ogni anno ne saltano circa 13-15 mila. Fra queste ci sono quelle che nascondono la crisi spostando in avanti l’insolvenza sperando di farcela. In nove casi su dieci il dissesto si aggrava. Secondo l’esperienza dei magistrati fallimentari sono le situazioni meno gravi, perché l’intento non è di frodare i creditori, e inoltre non rappresentano la maggior parte dei crediti fiscali. C’è poi una seconda tipologia di imprese che vanno male: sono quelle nelle quali gli imprenditori o gli amministratori allungano i tempi per svuotare l’azienda di quello che è rimasto. È un fenomeno più grave perché spesso non versano l’Iva, vendono immobili e macchinari utilizzando prestanome per nascondere le responsabilità. Si arriva così alla bancarotta per distrazione, che si lascia dietro crediti a carico dei fornitori, delle banche e del fisco.Negli ultimi anni però si sta ingigantendo il dissesto di impresa di «terzo tipo», quello più destabilizzante per l’economia. «Sono società costituite apposta per durare uno-due anni, pianificando il non pagamento di imposte e contributi previdenziali», spiega Roberto Fontana, sostituto procuratore nel dipartimento Crisi d’impresa della procura di Milano. Si tratta in particolare di cooperative o piccole srl, che si aggiudicano a basso costo contratti di appalto o subappalto e che spariscono in poco tempo. È un fenomeno diffuso in alcuni settori produttivi, nelle attività di servizi, ma soprattutto nella logistica. Lo schema è sempre lo stesso: il committente, spesso un soggetto internazionale, affida gran parte della gestione delle merci a società esterne, che a loro volta si affidano a piccole società, a cooperative, spesso con l’interposizione fittizia di un consorzio. Queste società di solito non hanno mezzi propri, perché glieli mette a disposizione il committente. Di fatto, gestiscono solo la manodopera, hanno pochissimo capitale, ma assumono molti dipendenti che operano anche in violazione delle norme sul lavoro. Il loro scopo è quello di portare a casa appalti sottocosto. Come fanno a stare in piedi? Fin dal primo giorno di attività non versano l’Iva e non pagano le ritenute d’acconto e i contributi previdenziali ai dipendenti. Dopo uno-due anni i lavoratori — spesso extracomunitari — vengono licenziati e riassunti da una nuova coop, gestita dagli stessi amministratori (a loro volta, spesso, dei prestanome), che lavora per lo stesso committente. E ricomincia la giostra.Un caso emblematico è quello di Ceva Logistics. Lo scorso maggio la sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Milano ha disposto un’inedita «amministrazione giudiziaria» di uno degli stabilimenti di Ceva Logistics Italia Srl, divisione italiana del colosso quotato a Zurigo e con 7 miliardi di fatturato in 170 Paesi per 58.000 impiegati. Nel mirino i rapporti con Premium Net, un consorzio di cooperative che operava a Pavia: gestiva la distribuzione dei libri per le principali case editrici. Solo che dietro al consorzio, scrivono i giudici, si nascondeva un «sistematico sfruttamento di lavoratori, con straordinari imposti sotto minaccia di licenziamento, retribuzione difforme dalle ore davvero lavorate (anche 11) e omesso versamento di contributi». Il committente Ceva è coinvolto perché secondo i giudici avrebbe dovuto sapere che i prezzi praticati erano troppo bassi per operare nella legalità. Allarmi simili sono stati sollevati di recente sull’Ortomercato di Milano, e anche altre società della logistica oggi sono indagate.Il risultato è la distruzione del sistema della concorrenza, perché falsando il mercato vengono espulse le imprese che rispettano le regole. A terra restano lavoratori non pagati e domina il caporalato, mentre sulle spalle dei cittadini gravano i miliardi di euro sottratti all’erario e alla previdenza. È un sistema che trascina verso il basso stipendi e diritti dei lavoratori, e che tutti noi contribuiamo a tenere in piedi quando acquistiamo online senza pagare la spedizione. Pensando pure di fare un buon affare. Per dare un’idea dell’ampiezza: nella logistica il fatturato nazionale è di 32 miliardi di euro, il 40% è concentrato in Lombardia. Mentre nella sola area di Milano, per quel che riguarda i debiti di tutte delle società fallite verso enti previdenziali, dipendenti, fornitori, banche, si è passati dai 25 miliardi del 2015 agli oltre 40 miliardi del 2018.La risposta dello Stato è inadeguata e inefficiente, perché arriva anni dopo con l’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate e poi con la procedura esecutiva. Ma a quel punto attivi da aggredire non ce ne sono più e diventa anche difficile individuare chi sono i veri responsabili. «Invece queste società bisogna farle fallire subito, per contenere i danni e perseguire efficacemente i colpevoli. Questo perché dei 105 miliardi che mancano, l’80% deriva proprio dai dissesti del secondo e terzo tipo», dichiara il Sostituto Procuratore Fontana. Mentre qualche settimana fa il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, ad un convegno a porte chiuse ha spiegato la folle evasione dell’Iva con un paradosso: «È come se ci fosse stato un patto tra imprese e Stato che diceva: anziché in banca, finanziatevi non versando l’Iva, che poi è una tassa europea. Sono 35 miliardi ogni anno, e una grossa fetta solo a Milano». Su questi numeri incidono anche le cartiere: società fantasma che nascono solo per fare fatture false e frodare l’Iva. Per contrastare il fenomeno in Procura si utilizza molto la norma che punisce il fallimento «come conseguenza di operazioni dolose (223 comma 2 della Legge Fallimentare)». Una norma che invece non è molto applicata nelle altre procure italiane. Anche qui insomma un modello Milano si impone.A livello nazionale invece è stato varato da poco il nuovo codice delle crisi d’impresa. Da gennaio tutte le società con almeno 4 milioni di fatturato devono dotarsi di un sindaco unico che deve sollecitare l’impresa a prendere tutte le iniziative necessarie a salvarsi, a cominciare da un accordo stragiudiziale con i creditori. Ma le norme più efficaci saranno in vigore solo dal 15 agosto 2020: sono quelle relative agli «strumenti di allerta». Prevedono un intervento degli organismi di controllo non appena l’azienda dia i primi segni di squilibrio finanziario, patrimoniale o di cassa. La segnalazione potrà avvenire anche dall’Inps e dalla stessa Agenzia delle Entrate, che però è notoriamente sottorganico. Ci vorrà qualche anno per capire se il nuovo sistema servirà a contenere le truffe a danno del Fisco. Nel frattempo l’Erario continuerà ad accumulare crediti inesigibili, e il debito pubblico aumenterà.
Tasse, siamo davvero il Paese più tartassato d’Europa? Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Luigi Offeddu. Le imposte a confronto: dove paghiamo di più e dove meno. Siamo primi per fisco più complicato, evasione e sommerso. In Irlanda si paga pochissimo, ma poi vengono a curarsi in Italia. Torna la vecchia domanda: è vero che l’Italia è il Paese più tartassato d’Europa? Ecco la classifica Ue, anno 2018, sulla pressione fiscale totale in rapporto al Pil, elaborata dall’ ufficio studi Cgia su dati Eurostat, e relativa alle imposte dirette, indirette, imposte su redditi da capitale, contributi sociali: l’Italia si piazza al settimo posto con il 41, 8%, contro una media Ue, del 40,2%. In testa la Francia con il 48,4%, segue il Belgio con il 46,6%, Svezia, 44,3%, Austria, 42,5%; Grecia, 41,4%; Germania, 41,2%. Molto più pesanti invece i carichi sulle imprese. Dai dati di Banca Mondiale e Cgia in testa c’è la Francia con il 60,7%, segue l’Italia con il 59, 1%, poi la Germania 48,8% e l’Irlanda con il 23%. Poi ci sono imposte che variano a seconda delle regioni, delle dimensioni dell’impresa, tipo di attività e dei componenti della famiglia: Imu, Tari, Tasi, ecc.Per quel che riguarda le accise, il peso fiscale su un litro di carburante in Italia è il più alto: 1,003 centesimi di euro per ogni litro, ed è previsto un aumento nel 2020. La media europea è di 89,3, scendendo nel dettaglio di paesi comparabili al nostro troviamo la Francia, che chiede 65, 9 centesimi e la Germania 65,5. Ci sono poi le micro-imposte. In Italia continuiamo a pagare la marca da bollo da 2 e 16 euro (esiste dal 1863), anche se ormai abolita in molti Paesi Ue. Il nostro passaporto è il più costoso: 116 euro, in Francia 86, in Grecia 84.40, in Austria 75,9, in Germania quasi te lo regalano: 37,5 euro. In compenso siamo il Paese che paga meno il canone Tv: 90 euro, contro i 335 della Danimarca, 215,7 della Germania e i 139 della Francia. Con il Portogallo e la Bulgaria, l’Italia è il Paese europeo dove è più complicato pagare le imposte. L’analisi di Banca Mondiale dice che ad una piccola impresa italiana, ogni anno, occorrono in media 29,7 giorni lavorativi solo per raccogliere le carte necessarie. La media Ue è di 18 giorni. In Francia ne bastano 17, in Spagna 18, in Germania 27. Secondo il «Financial Complexity Index» condotto in 94 Paesi dal gruppo finanziario Tfm, i primi tre Paesi al mondo con il fisco più tortuoso sono nell’ordine: Turchia, Brasile, Italia. Anche qui dunque siamo i primi in Europa. Secondo l’indice internazionale della competitività fiscale compilato dall’Ocse, su 36 Paesi l’Italia è al 34esimo posto. I motivi della lentezza italiana sono invece noti: eccessiva burocrazia, norme complicate che cambiano ogni anno, «ingorgo» delle controversie nelle commissioni tributarie. In 10 anni, i giudici sono calati del 40,2% e l’ anzianità media delle controversie pendenti è di 689 giorni, in leggero calo rispetto a 2 anni fa. Il cittadino paga le imposte e lo Stato in cambio offre i suoi servizi. Dai dati Ocse, l’Italia spende l’8,9% del Pil per la sanità pubblica, la media europea è al 9,6%. La classifica è guidata dalla Francia (11,5%) e dalla Germania (11,3%). Nella spesa sanitaria pro-capite l’Italia è all’undicesimo posto: 2.551 euro nel 2017 contro una media Ue di 2.773.Da noi, come ovunque, le tasse servono a coprire le spese di tutta la macchina pubblica: dagli ospedali alla scuola, dalle infrastrutture alla manutenzione delle strade, forze di polizia, tribunali, protezione civile, traporti, assistenza sociale, ricerca, e le costosissime cure contro il cancro, garantite gratuitamente ad ogni malato. Chi evade, scarica anche questo peso su tutti i concittadini. E i Paesi che impongono meno tasse lasciano poi «scoperti» i loro contribuenti: in Italia, la sanità pubblica assicura 47 protocolli di diagnosi prenatale estesa e obbligatoria per altrettante patologie rare, la sanità irlandese solo 8. E gli irlandesi vengono poi a curarsi qui. Siamo fra i paesi europei che evadono di più. La nota aggiuntiva al Documento 2019 sull’economia e la finanza certifica una differenza fra le entrate previste e quelle effettivamente pervenute di circa 109,7 miliardi di euro. L’imposta più evasa è l’Iva, dove secondo il «rapporto Murphy» presentato a luglio al Parlamento Europeo l’Italia è prima nella lista Ue: ben il 25,9% del dovuto, ovvero circa 35 miliardi ogni anno. Ai primissimi posti anche nell’economia sommersa. Il «nero» vale oggi 211 miliardi, ovvero il 13% del Pil. Incrociando varie statistiche, si arriva alla stima sull’evasione procapite: 3.182 euro in Italia, 3.070 nella florida Danimarca, Francia 1.760, Germania 1.522. Le percentuali di recupero dell’Agenzia delle Entrate: dai 20,1 miliardi nel 2017, siamo scesi a 19,2 nel 2018. Però lo Stato premia i comuni che contribuiscono alle attività di recupero: nel 2018 il più attivo è stato San Giovanni in Persiceto (Bologna) che ha ricevuto da Roma 1.519.052 euro. Fra gli strumenti anti-evasione, il primo è quello di contrastare l’uso del contante, la miniera che consente di produrre il sommerso. Dal primo luglio 2020 il tetto scenderà a 2.000 euro, per arrivare a 1.000 nel 2021. Dagli ultimi dati della Banca d’Italia, la media Ue dei pagamenti tracciabili procapite è stata di 261. In Italia siamo a quota 111, contro i 456 dei Paesi Bassi, 327 della Francia, 257 della Germania.
Da Le iene il 17 dicembre 2019. “Ci hanno di fatto sequestrato all’interno dell’ambasciata della Costa d’Avorio in Italia, hanno fatto sparire telecamera, microfoni e schede e non ci fanno uscire da lì”. A parlare è Fabrizio Airoli, operatore de Le Iene, che con Filippo Roma è in questo momento rinchiuso nell'ambasciata. Siamo riusciti a raggiungere Airoli al telefono. I due, da oltre due ore bloccato in ambasciata, stavano indagando sui morosi della Tari, la tassa sui rifiuti, per proseguire l'inchiesta sui rifiuti di Roma. Arioli ci racconta quello che sta succedendo in questi minuti, mentre in sottofondo si sentono le voci concitate del personale dell’ambasciata. “Dopo avere visitato una mezza dozzina di rappresentanze diplomatiche , tra cui quella del Camerun, del Sudan e della Turchia, questa mattina eravamo venuti all’ambasciata della Costa d’Avorio nella speranza di poter incontrare l’ambasciatore. Pare che l’ambasciata di questo paese avesse regolarizzato la sua posizione debitoria, ma non abbiamo fatto in tempo a chiedere spiegazioni. A un certo punto infatti sono arrivati 4 o 5 uomini della sicurezza e ci hanno tolto tutto, spiegando che non potevamo filmare all’interno". Nel frattempo dall'ambasciata hanno chiamato la polizia, che starebbe per arrivare. "Ma non avrebbero alcun potere, perché l’ambasciata è territorio ivoriano. E da qui, dopo averci sequestrato il materiale, non ci fanno uscire, ci stanno trattenendo”. Al momento fuori dall'ambasciata ci sono 4 volanti dei carabinieri e 2 auto della polizia. Pochi minuti fa abbiamo provare a ricontattare Fabrizio Arioli, visto che il cellulare di Filippo Roma è spento. Ma i due non rispondono più. Vi terremo aggiornati sugli sviluppi di questa vicenda minuto per minuto.
Morosi della Tari: a Roma i ministeri non pagano. Le Iene il 16 dicembre 2019. Mentre i romani pagano una tassa sui rifiuti tra le più alte d’Italia, la pubblica amministrazione ha debiti per oltre 60 milioni di euro. Filippo Roma ci racconta di questa classifica davvero poco invidiabile e tenta un recupero crediti con i ministri “morosi” A Roma c’è un mucchio di gente che non paga l’Ama. Parola del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, che lo conferma al nostro Filippo Roma. Ha ragione caro ministro, peccato però che i primi a non pagarla siano proprio i nostri ministeri…Lo racconta il Messaggero, che spiega come la pubblica amministrazione debba ancora pagare all’Ama 60,7 milioni di euro di Tari arretrata. Al quinto posto di questa speciale classifica di morosi c’è il ministero dello Sviluppo economico, lavoro e politiche sociali, che ha un debito da un milione e 250 mila euro e che è stato guidato nel governo gialloverde da Luigi Di Maio. Andiamo a sentirlo: “Ma perché quand’era ministro del Lavoro e dello sviluppo economico non ha pagato la tassa sui rifiuti? La Raggi le ha pure scritto per batter cassa ma lei non se l’è filata, ha fatto orecchie da mercante… Ci si comporta così con una compagna di movimento? Doveva dare un milione e 250 mila euro…”. Di Maio si infila nell’auto blu e non risponde. Parte di questo debito, 986mila euro, lo avrebbe dovuto pagare la nuova ministra del lavoro, Nunzia Catalfo: “È vero, sono un sacco di soldi, però per 340 mila ho già firmato il decreto per pagarli e poi, una parte di queste fatture, aspettiamo che ci arrivino per pagare tutto il resto…”, spiega la ministra. Che conferma: “I ministeri devono pagare, lo Stato non deve mai evadere le tasse”. E aggiunge che entro la fine anno pagherà tutti gli arretrati. Al quarto posto di questa poco invidiabile classifica c’è il Ministero dei Beni Culturali. All’epoca della lettera inviata dal Comune di Roma era diretto da Alberto Bonisoli, che ha lasciato un milione e mezzo da pagare al nuovo titolare Dario Franceschini. Che contesta però le cifre della morosità: “Nel 2019 il ministero ha pagato tutto, non corrisponde la cifra con quella che avete detto voi, quindi forse sono strutture periferiche del ministero, stiamo guardando…”. Quando ribadiamo che a noi risulta circa un milione e mezzo di Tari non pagata, dice: “Non si occupa di bollette normalmente il ministro no… però mi avete sollecitato voi a farlo e lo sto facendo…”. Saliamo sul podio: al terzo posto c’è il ministero della Difesa di Lorenzo Guerini, che ha ereditato un debito di un milione e 600 mila euro dalla collega Elisabetta Trenta. Filippo Roma va proprio dalla Trenta, che nega di sapere del debito. Le mostriamo la lettera di quest’estate, indirizzatale dall’assessore al bilancio del comune di Roma, ma continua a dire d non saperne nulla: “Io non l’ho ricevuta questa”. Filippo Roma le spiega che si tratta della lettera per ottenere il debito della tassa non pagata, ma l’ex ministra non ci sta e ci sentiamo anche dire, da alcune persone che sono con lei: “Questa è una festa privata… ma dai su, ma vergognatevi… ma vergognatevi veramente, ma andata a cercare, andate a cercare…”. Ma come, ministra Trenta, ci dobbiamo vergognare noi o i ministeri che non pagano la tassa sui rifiuti? La risposta dei presenti alla serata cui partecipa l’ex ministra Trenta ci lascia senza parole: “Ma prenditela con Berlusconi!” Saliamo di un gradino, al secondo posto c’è il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, dove Danilo Toninelli ha lasciato un milione e 800 mila euro di tasse arretrate alla muova titolare Paola De Micheli. La ministra ci conferma la volontà di pagare: “Certo certo, stiamo lavorando ci mancherebbe altro… stiamo provando a risolvere la questione trovando le risorse per pagare… tieni conto che è un problema che viene da lontano…”. Sul quando, nessuna risposta concreta. Non ci resta che dare la palma d’oro del debito della Tari al ministero dell’Interno di Luciana Lamorgese, che ha ereditato addirittura 4 milioni e 100 mila euro di tassa sui rifiuti non pagata dal suo predecessore, Matteo Salvini. Filippo Roma va da Salvini: “La Raggi ha scritto a lei, a fine luglio, perché da ministro non ha pagato la tassa?” La risposta dell’ex ministro non si fa attendere: “Secondo lei è il ministro che va a pagarla la bolletta dei rifiuti? Adesso perdoni tutto… Dirò all’attuale ministro di prendere in mano il dossier rifiuti”. Filippo Roma insiste: “È giusto che i cittadini sono chiamati a pagare le tasse e un ministero le evade?”. “No, non è giusto”. “E perché a suo tempo se n’è un po’ fregato?”, gli domanda ancora la Iena. “Ma secondo lei il ministro… allora siete bravissimi e simpaticissimi, su questo è un po’ tirata eh”. “ Ma non è che voleva fa’ un dispetto alla Raggi no?”. “No ma figurati… andremo a pagare le bollette dei rifiuti dai, invitiamo i ministri ad andare a pagare le bollette…”. Torniamo dal ministro Bonafede, al sesto posto di questa specialissima classifica. E il ministro, sulla lettera di “recupero crediti” di Virginia Raggi, spiega: “ Mi ricordo questa, questa lettera però mi risulta che… ho attivato immediatamente gli uffici per estinguere il debito con il comune di Roma è tutto estinto…”. E visto che il ministro insiste, gli chiediamo di mostrarci i bonifici avvenuti, ma lui aggiunge: “Ora mi fa venire il pensiero vado a controllare se è tutto a posto…”. Il ministro Bonafede è stato di parola e qualche giorno dopo ci ha fatto avere il documento che conferma che ha saldato tutto il debito con il Comune, per oltre un milione di euro. E allora gli chiediamo di fare un appello ai suoi colleghi morosi: “Estinguiamo tutti i debiti che abbiamo col comune di Roma, mi raccomando, è una cosa importante: pagate la tassa sui rifiuti”.
Federico Giuliani per ilgiornale.it l'11 dicembre 2019. Guai a scherzare con il Fisco: chi prova a ingannare l’amministrazione finanziaria adesso rischia pene durissime, fino a otto anni di carcere. Le regole in campo penale tributario sono infatti cambiate dopo l’approvazione alla Camera del dl 124/19. Come fa notare il quotidiano Italia Oggi, il minimo comun denominatore delle modifiche attuate al disegno di legge è rappresento dall’esigenza di separare gli illeciti fiscali caratterizzati da modalità fraudolente da quelli che, restando penalmente rilevanti, riguardano la semplice inosservanza delle obbligazioni tributarie. Per quanto riguarda i primi, viene confermato l’inasprimento del trattamento sanzionatorio delle persone fisiche, anche se si allargano i reati capaci di far scattare la responsabilità amministrativa deli enti ex dlgs 231/2001. Anche il quadro punitivo inerente alla seconda categoria è stato inasprito, anche se la sensazione è che si sia voluto dare una stretta un po’ meno forte. Gli emendamenti, infatti, rinunciano sia all’abbassamento delle soglia di punibilità per l’omesso versamento di Iva e le ritenute certificate, precedentemente collegato al dl. Cancellata, inoltre, l’infedele dichiarazione e l’omessa. La riforma colpisce in modo particolare i contribuenti che non presentino una dichiarazione comprendente “l’indicazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo”, ma anche quelli che si avvalgono di un “impianto contabile e documentabile mendace” oppure pongano in essere "altre attività idonee a ostacolare l’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria”.
Le novità del dl 124/19. La Commissione Finanze non ha apportato modifiche rispetto al testo del dl 124/2019 per la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (articolo 2), quella mediante altri artifici (articolo 3), per i delitti di emissione di fatture fittizie (articolo 8) e di distruzione o occultamento di scritture contabili (articolo 10). Confermato, dunque, l’aumento della pena: si va da 4 a 8 anni per il delitto contenuto nell’articolo 2 e 8 a una forbice compresa da 3 a 8 anni e da 3 a 7 anni rispettivamente per i delitti contenuti negli articoli 3 e 7. Nell’articolo 2, in seguito all’ingresso del comma 2-bis, è prevista poi una pena ridotta da 1 anno a 6 mesi a 6 anni se l’ammontare degli elementi passivi fittizi non supera i 100 mila euro. Il dl 124/2019 ha inoltre introdotto per la prima volta il concetto di responsabilità da reato delle persone giuridiche che beneficiano di condotte delittuose in materia tributaria, anche se in un primo momento si era preferito limitarne l’intervento all’uso di fatture false. Adesso, con il nuovo testo, la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche si estende anche a chi si avvale di dichiarazione di altri mezzi fraudolenti, emetta fatture per operazioni inesistenti, occulti o distrugga le scritture contabili per evadere le imposte.
Evasione fiscale nel mondo: dove e perché vengono pubblicati i nomi degli evasori. In Europa lo fanno 16 paesi su 28, non in Italia per combattere l'evasione fiscale, ma in Italia non funziona, ecco perché. Barbara Massaro il 10 dicembre 2019 su Panorama. In Europa sono 16 su 28 le nazioni nelle quali i nomi di coloro che evadono il Fisco sono resi pubblici, dati in pasto ai media, al web e quindi all'opinione pubblica senza la minima tutela della privacy.
Cos'è il name and shame. Si tratta di un modo piuttosto diffuso ed efficace di combattere l'evasione fiscale nel mondo (nel vecchio continente i Paesi sono 16, ma in giro per i 5 continenti dal Messico all'Uganda passando da buona parte degli Stati Uniti per arrivare alle Filippine l'habitus è lo stesso) basato sul principio anglosassone del name and shame dove la reputazione è legata al buon nome e rendere pubblico il nome di una persona connessa a qualche forma di crimine (in questo caso quello fiscale) determina la perdita della reputazione stessa. Ogni anno, come svela Il Sole 24Ore in un'inchiesta dal titolo "Fiume di denaro" "Decine, centinaia di migliaia di nomi galleggiano nel mare magnum di internet all’interno di liste pubblicate nei siti delle Agenzie delle Entrate e dei ministeri del Tesoro di almeno 26 Paesi nel mondo, di 23 Stati degli Usa, di decine di contee disseminate dalla costa atlantica a quella del Pacifico degli Stati Uniti. Messi insieme, uno dopo l’altro, questi nomi formano un elenco chilometrico a disposizione di tutti, curiosi e criminali inclusi".
Lo studio condotto in collaborazione con Led Taxand, uno studio internazionale di fiscalisti, ha scandagliato migliaia di dati effettuando una sorta di censimento degli evasori in giro per il mondo.
Dove vengono rese pubbliche le liste degli evasori. Lo stigma della pubblica disapprovazione pare essere un ottimo dissuasore in decine di Stati. L'Irlanda è tra le prime e più agguerrite nazioni in questo senso e dal 1997 rende pubblici i nomi di chi ha il vizietto di non pagare le tasse e anche in Inghilterra l'elenco è pubblico e disponibile online. Da questa parte della Manica e restando nell'Europa continentale seguono il modello anglosassone molti Paesi dell'est: Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Romania, Croazia e Slovenia oltre a Estonia, Lettonia e Lituania. Fino a 5 anni fa (in periodo pre crisi) faceva lo stesso anche la Grecia mentre a Malta a tutt'oggi la trasparenza fiscale ha la meglio sulla privacy. In Spagna a essere resi pubblici sono solo i nomi dei grandi evasori, ovvero quelli che frodano il Fisco per cifre superiori a 150.000 euro. In Portogallo la cifra oltre cui scatta la gogna fiscale è 7.500 euro, mentre in Francia il nome viene reso pubblico solo in caso di condanna giuridica. Gli elenchi restano online per 12 mesi e l'evasore viene semplicemente informato di quanto accadrà senza potersi appellare a nessun tipo di privacy. Diverso il caso del Canada dove il Governo mette online ogni singola sentenza lega ai processi per evasione fiscale.
Perché in Italia questo principio non funziona. Quando nel 2008 era stato fatto un tentativo simile in Italia era successo il finimondo. L'allora viceministro dell’Economia Vincenzo Visco e ildirettore dell’Agenzia delle Entrate, Massimo Romano, avevano pubblicato in rete l'elenco degli evasori fiscali italiani, ma la lista resistette online solo poche ore prima di venir censurata dal tempestivo intervento del Garante della privacy. E dire che, ad esempio, in Lettonia basta avere un debito con lo Stato di 150 euro per finire nella lista della vergogna e in Estonia 1.000 euro.
Cosa accade fuori dall'Europa. Negli Stati Uniti esistono addirittura carceri dove sono detenuti esclusivamente gli evasori fiscali. In 23 Stati su 50 degli USA la lista è pubblica e costantemente in aggiornamento e il principio del name and shame è tatuato nel dna dei cittadini. Un americano che evade il Fisco è culturalmente considerato un delinquente a differenza di quanto accade alle nostre latitudini dove la (non) cultura del furbetto delle tasse ha causato nel triennio 2014-16 (sono questi i dati più recenti) un buco da 109,7 miliardi di euro di mancate entrate per via dell’evasione tributaria e contributiva con Iva e Irpef che portano la medaglia nera delle imposte più evase. Il name and shame nel mondo, però, non si ferma agli Usa. La lista della vergogna esiste in Messico così come Canada mentre in Asia ci sono il Pakistan, la Cina e la Corea del Sud. Anche l'Australia non protegge l'anonimato degli evasori e persino nella africane Nigeria e Uganda vige la legge del name and shame. Il giro del mondo finisce nelle Filippine dove, dal 2007, il Governo mette alla pubblica gogna i profili di chi froda il Fisco. Privati cittadini sì, ma anche società, aziende, ristoranti, negozi e centri commerciali. Ogni cittadino ha il diritto di sapere se il proprio vicino di casa non paga le tasse o se i soldi con cui si comprano frutta e verdura finiscano direttamente nelle tasche del commerciante senza passare dallo Stato.
Fiorenza Sarzanini per il Corriere della Sera l'11 dicembre 2019. Ci sono i cittadini totalmente sconosciuti al Fisco e quelli che frodano il Servizio sanitario nazionale con falsi requisiti. Ci sono gli evasori dell’Iva e quelli che percepiscono contributi dall’Inps pur non avendo titolo. Eccola l’Italia «indecente» contro la quale ha puntato il dito il capo dello Stato Sergio Mattarella quando ha evidenziato che «se io mi sottraggo al mio dovere di contribuire sto sfruttando quello che gli altri pagano, con le tasse che pagano». La fotografia è nell’ultimo rapporto della Guardia di Finanza che dà conto dei risultati fino al giugno scorso, ma confermando come nel 2019 sia stata superata la soglia dei sei miliardi di euro di richieste di sequestro per reati fiscali. È stato lo stesso presidente della Repubblica a sottolineare «la possibilità di aumentare pensioni e stipendi e di abbassare le tasse per chi le paga» se non ci fossero «i 119 miliardi di evasione così com’era stata calcolata nell’ultimo documento ufficiale dell’anno passato». E i dettagli delle operazioni delle Fiamme Gialle individuano i settori di maggiore gravità.
Le false fatture. Le ultime verifiche svolte dai finanzieri confermano il trend già evidenziato nel giugno scorso, quando fu dato conto dell’attività svolta tra il 1° gennaio 2018 e il 31 maggio 2019. In 18 mesi «sono stati riscontrati 15.976 reati fiscali (emissione e utilizzo di fatture false, dichiarazioni fraudolente e occultamento delle scritture contabili) e denunciati 18.148 soggetti». I fascicoli aperti nelle Procure di tutta Italia sono stati 16.807 per un totale di «proposte di sequestro avanzate pari a 9,3 miliardi di euro». Ebbene la stima che riguarda gli ultimi dodici mesi calcola proposte di sequestro per oltre 6 miliardi di euro con un aumento percentuale che allarma. La linea imposta a tutti i reparti prevede infatti «il potenziamento dell’analisi di rischio mediante banche dati sempre più interoperabili tra loro sviluppata, a livello centrale, con le moderne tecnologie informatiche» e questo ha fatto scattare misure patrimoniali per 1,5 miliardi di euro con un aumento che appare costante anche rispetto agli anni precedenti. A questo si aggiungono i «13.285 soggetti sconosciuti al Fisco (evasori totali), che hanno evaso 3,4 miliardi di Iva» ma anche gli «8.032 datori di lavoro denunciati per aver impiegato 42.048 lavoratori in nero.
Sanità e pensioni. Il rapporto aggiornato ai primi sei mesi del 2019 ha dimostrato un aumento vertiginoso delle denunce pari all’88% per «indebita esenzione dal pagamento dei ticket sanitari» e del 34% per chi usufruiva senza averne i requisiti delle «prestazioni sociali agevolate». Un anno fa un’inchiesta della Procura di Termini Imerese aveva portato alla denuncia di otto persone che erano riuscite a sottrarre alle casse pubbliche quattro milioni e mezzo di euro. Le truffe su spesa previdenziale e sanitaria sono state di ben 108 milioni, ma si è riusciti a recuperare soltanto 15 milioni e anche questo serve a dare la misura di quanto sia complicata la lotta all’evasione. Non a caso la Finanza ha evidenziato come «le frodi più ingenti hanno interessato le indebite percezioni di rimborsi e pagamenti da parte del Servizio sanitario nazionale (29 milioni di euro) e la fraudolenta gestione di ricoveri e prestazioni da parte di strutture accreditate al Servizio sanitario nazionale per 15,9 milioni. Nota dolente rimane quella della previdenza. Il rapporto sulla spesa evidenzia come «le condotte fraudolente nel settore previdenziale e assistenziale, che si annidano soprattutto nelle frodi in danno dell’Inps, hanno consentito di captare indebite erogazioni per oltre 27,3 milioni, pari a circa il 59% delle condotte illecite accertate nel presente segmento operativo». Per questo si rimarca la «rilevanza strategica degli interventi per l’inclusione e la sostenibilità sociale e il rilancio degli investimenti pubblici, a livello nazionale e locale. Nel settore della spesa «ogni inefficienza o spreco incide in maniera diretta e immediata sulla vita dei singoli cittadini».
Fe. Us. per “il Messaggero” il 27 novembre 2019. Record negativo per le imprese italiane: sono le più tartassate in Europa e più in generale nel resto del mondo. È quanto emerge dal rapporto «Paying Taxes 2020» di Banca Mondiale e PwC. Il carico fiscale sulle imprese (il Total Tax & Contribution Rate) è pari al 59,1% dei profitti commerciali (53,1 nella classifica precedente) a fronte di un peso globale del 40,5% ed europeo del 38,9%. Per l'Italia si tratta di un «dato essenzialmente riconducibile al venir meno degli sgravi contributivi introdotti quale misura temporanea non successivamente stabilizzata». Il Total Tax and Contribution Rate - viene spiegato nel rapporto - misura il carico fiscale e contributivo per le imprese, non la sola pressione fiscale. Tra gli altri dati nel rapporto si segnala come siano 238 le ore impiegate dalle imprese italiane per adempimenti fiscali (in linea con la media mondiale, ma superiore alla media europea) mentre 14 è il numero di pagamenti annuali. L'Italia si distingue comunque per sviluppo digitale con una stretta integrazione tra soluzioni tecnologiche adottate dal contribuente e dall'Amministrazione finanziaria, a seguito dell'introduzione della fatturazione elettronica e del sistema di interscambio (SDI). L'Italia, tenendo conto dei tre indicatori, scende quindi al 128/o posto nella classifica generale. Per quanto riguarda il peso complessivo il rapporto spiega che il dato registra un incremento di 6 punti percentuali essenzialmente riconducibile al venir meno degli sgravi contributivi introdotti quale misura temporanea non successivamente stabilizzata, in conseguenza del mutamento della politica economica del paese. La sensibile riduzione dell'aliquota Ires intervenuta nel 2017 e la previsione del «super ammortamento» per l'acquisizione di nuovi beni strumentali non hanno consentito di assorbire l'impatto negativo del venir meno della decontribuzione. Tuttavia, l'indice non riflette altri significativi incentivi previsti a favore delle imprese, quali gli incentivi Industria 4.0, a causa delle limitazioni del caso base. Per quanto riguarda le 238 ore impiegate per gli adempimenti fiscali (invariate rispetto al 2017), vanno rapportate a un dato medio globale pari a 234 e di un dato medio europeo pari a 161 ore. Costante il numero dei pagamenti: resta pari a 14 rispetto a un dato globale di 23 pagamenti e un dato europeo di 10,9 pagamenti. Il risultato dell'Italia - si precisa - va letto alla luce di alcune peculiarità che influenzano tradizionalmente il calcolo dell'indicatore Ttcr (nel modello il Trattamento di fine rapporto Tfr è incluso nel calcolo in quanto assimilato ad un contributo previdenziale obbligatorio) e di altre che impattano quest'anno sul caso base.
Versa due centesimi in meno di Imu e il comune lo multa di 60 euro. Accade ad Altofonte in provincia di Palermo. Un contribuente si è visto recapitare a casa una multa per differenza di Imu da 60 euro: ma non aveva versato due centesimi. Giorgio Vaiana, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Due centesimi in meno versati di Imu, tra acconto e saldo e il comune invia una maxi-multa da 60 euro. Accade ad Altofonte in provincia di Palermo. Un signore si è visto recapitare dal postino una busta che conteneva un accertamento per "omessa denuncia e omesso versamento" relativo all'imposta Imu del 2014. Ma occorrono alcune precisazioni. La prima è che non è più obbligatoria la denuncia da parte di chi possiede un immobile per quanto riguarda l'Imu. La seconda è che in realtà, sia in acconto che a saldo, il residente di Altofonte aveva versato la quota di 37,98 euro suddivisa in due rate da 18,99 euro. Secondo alcuni accertamenti fatti dal comune, però, la quota corretta era di 19 euro per l'acconto e 19 euro per il saldo. Quindi mancano due centesimi. Da qui la contestazione al contribuente che si è visto recapitare a casa una dettagliata multa: due centesimi di differenza d'imposta da pagare, 25,50 euro di sanzioni amministrative (una per l'acconto, una per il saldo, per un totale di 51 euro), 8,75 euro di spese di notifica ed emissione atto, 0,23 euro di arrotondamento, per un totale di euro 60. Che se pagata entro 60 giorni dal ricevimento, verrà ridotta a 26 euro. Sembra un chiaro errore del sistema di controllo del comune, a quanto ci hanno detto alcuni esperti sentiti. In primis perché si parla di omessa denuncia. E la denuncia non è più obbligatoria da una decina di anni, visto l'archivio informatico di cui dispongono i comuni. L'Imu, poi, viene fatta in autoliquidazione, ossia il comune non invia nessun bollettino da pagare. Deve essere il contribuente, magari seguito da un professionista, a compilare tutto e versare la quota, suddivisa in due rate: acconto, appunto, e saldo. Le sanzioni per differenza di imposta versata, possono essere fatte dai comuni dopo un accertamento. Ma la normativa, di solito, prevede il 30 per cento in più della differenza di imposta non versata. Per comprendere meglio, in questo caso il comune di Altofonte avrebbe dovuto chiedere al contribuente, il 30 per cento in più di due centesimi. Impossibile anche da calcolare. E rimane comunque il fatto che, sempre a sentire gli esperti, le multe sugli arrotondamenti di importo, come sembra in questo caso, non si fanno in nessun caso. Stupore, dunque, per il contribuente che si è visto arrivare questo accertamento. Multa che è arrivata anche a dei suoi parenti con cui ha diviso l'immobile e che si sono visti appioppare la stessa sanzione. Abbiamo contattato il sindaco di Altofonte, Angela De Luca, che ci ha chiesto del tempo per fare delle verifiche. Lunedì dovrebbe arrivare la risposta dell'ufficio tributi.
Da ilmessaggero.it il 3 dicembre 2019. Non ha pagato ben 4 centesimi all'Inps su un versamento da quasi 2mila euro, e per questo Paolo Ferigo, elettricista friulano, è stato multato. La follia burocratica - o normale sanzione? - ammonta a 14 euro e 83 centesimi su un versamento pari a 1.974 euro. È successo a Paularo, un piccolissimo comune italiano di 2 522 abitanti del Friuli-Venezia Giulia. L'uomo ha raccontato al Messaggero Veneto la surreale situazione. Ferigo spiega ora di essersi rivolto alle istituzioni ma di non aver ricevuto rassicurazioni su alcun tipo di tutela. Inoltre, Ferigo si è dichiarato infastidito dalla rapidità con cui è stata recapitata la multa, infatti la cifra sarebbe potuta essere agevolmente richiesta nel versamento successivo. Per lui il sapore è quello della beffa. L'elettricista infatti lavora anche per enti pubblici e ogni anno è in credito di circa 25-30 mila euro da parte dello Stato.
Fisco inferno. Domenico Ferrara su Il Giornale l'8 dicembre 2019. La burocrazia è un volto gelido e immobile. Algidi robot che si trincerano dietro la formula dell'”atto dovuto”. Cinici guardoni che non guardano il caso particolare. Casi inumani. Che non smettono di accadere e che non smettono di essere raccontati. L’Inps che chiede un risarcimento a due orfane di femminicidio e il Fisco che contesta e chiede conto a una contribuente della spesa per una parrucca da 300 euro acquistata dopo la chemioterapia sono due casi emblematici dell’insensibilità di uno Stato che pugnala alle spalle. Ogni nuovo direttore che arriva ripete sempre la stessa solfa: bisogna recuperare il dialogo coi cittadini, dobbiamo semplificare e rendere più “buono” il Fisco, eppure la spietata malaburocrazia colpisce sempre. Nel 2016 una madre a cui avevano ucciso il figlio si vide recapitare una cartella per l’imposta di registro relativa proprio alla sentenza di condanna nei confronti del killer del figlio. Nello stesso anno, per una cartella non pagata, Equitalia pignorò l’auto di una signora, solo che quell’auto veniva usata per la figlia disabile. Il Fisco amico dove sta? Nell’ottobre 2014 il neo capo dell’ente di riscossione, Vincenzo Busa, dichiarava: “Prima ancora di riscuotere è necessario assistere il contribuente, stare al suo fianco nel momento in cui si rivolge ai nostri uffici e guadagnare così la sua fiducia. Il servizio che il nostro personale svolge quotidianamente dovrà continuare ad essere efficiente ma allo stesso tempo umano: ogni accorgimento, lecito e possibile, dovrà essere usato per potenziare spirito di ascolto e capacità di relazione. Faremo questo continuando a tutelare gli interessi pubblici ma abbandonando logiche e metodi tipici del vecchio sistema delle esattorie”. La stessa solfa: si annunciano rivoluzioni umane che poi si scontrano con la realtà. Con cartelle esattoriale che arrivano perché un contribuente non ha pagato alcuni centesimi, ripeto centesimi. Nel febbraio 2018 l’allora direttore generale dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini disse: “Dobbiamo fare pace con gran parte dei cittadini che percepiscono il sistema come troppo oppressivo”. La percezione oggi credo non sia cambiata per niente. E casi come quello di oggi non fanno altro che aumentare questa percezione. Con buona pace delle dichiarazioni roboanti e delle promesse rivoluzionarie.
Uccise l’ex e si suicidò. «Le figlie risarciscano l’uomo ferito dal papà». Pubblicato sabato, 07 dicembre 2019 su Corriere.it da Marco Gasperetti. Colpito per sbaglio quel giorno, l’Inps vuole i danni. Le due orfane hanno 12 e 14 anni, vivono con il nonno: «La richiesta di 124 mila euro è una pugnalata». Sono orfane da sei anni. Da quando, il 28 luglio del 2013, il babbo uccise la loro mamma e poi si suicidò. Vivono con i nonni e cercano di dimenticare quella tragedia. Ma pochi giorni fa le due ragazzine di 14 e 12 anni sono state raggiunte da un’ingiunzione di pagamento di 124 mila euro. Marco Loiola, operaio di 40 anni, prima di assassinare l’ex moglie Cristina Biagi di 38, aveva sparato anche a una persona che credeva erroneamente essere l’amante della moglie. L’uomo rimase gravemente ferito e con un’invalidità permanente e adesso, come prevede la legge, l’Inps ha chiesto d’essere rimborsata per le spese sanitarie sostenute e l’assegno devoluto alla vittima, dagli eredi che sono le due ragazzine. «Dunque le figlie di Cristina — spiega Francesca Gallone, avvocato della famiglia Biagi — dovranno pagare 124 mila euro. Hanno già ricevuto dall’Inps, tramite il nonno Bruno, un’intimazione con tanto di Iban per il versamento da eseguire rigorosamente entro dieci giorni. In caso contrario ci sarà un processo e la cifra raddoppierà». Quando è arrivata la richiesta dell’Inps nonno Bruno quasi non ci credeva. «Ancora piango la morte di mia figlia e non riesco a dormire ed ecco un’altra pugnalata alle spalle», ha detto commosso all’avvocato. Che gli ha promesso una battaglia per avere giustizia. «L’azione che l’Inps minaccia di portare avanti è ineccepibile da un punto di vista giuridico — spiega Gallone — ma è eticamente disumana. Paradossalmente per la legge italiana i responsabili civili di ciò che è accaduto sono le figlie in quanto eredi». L’Inps, dal canto suo, fa sapere di seguire «da tempo» il caso e ha preso «l’impegno a non attivare per il momento alcuna azione legale per il recupero coattivo». Il fratello di Cristina, lo scrittore Alessio Biagi, si appella al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Chiedono alle mie nipoti di pagare per colpe non loro — dice — e moralmente e giuridicamente è una cosa orribile. Spero che il presidente possa fare qualcosa di importante per noi». Da anni Alessio si batte contro il femminicidio. «Spesso, ricordando l’orrore delle vittime di femminicidio, chiediamo impegno affinché le istituzioni tutelino e prevengano gli atti d’una violenza oramai incontrollata — spiega —, ma allo stesso tempo dimentichiamo figli, in molti casi minorenni, affidati alle cure dei nonni, degli zii, che hanno il difficile compito di crescere, educare, arginare con tutto l’amore possibile un vuoto e un dolore comunque impossibile da colmare». A Massa il nome di Cristina Biagi è tornato a far parlare le cronache anche per gli episodi di teppismo contro la statua che la ricorda nella piazza principale della città. Per sei volte il monumento, diventato il simbolo delle vittime di femminicidio, è stato divelto senza che siano stati individuati i responsabili.
Da lanazione.it l8 dicembre 2019. Al dolore in alcune storie sembra non esserci mai fine e ad episodi atroci si possono aggiungere risvolti che alla lettera sono giuridicamente ineccepibili, ma sotto il profilo umano affondano il coltello nei cuori, senza alcuna pietà, delle vittime di vicende drammatiche, vicende che rischiano di diventarlo ancora di più. Ammesso che il più sia quantificabile. Per le due figlie di Cristina Biagi e quindi per i familiari di questa giovane donna uccisa dal marito Marco Loiola il 28 luglio del 2013, che dopo aver ferito un uomo napoletano e ammazzato la moglie si è tolto la vita, potrebbe aprirsi, formalmente è successo, un capitolo sotto il profilo civile. L’Inps batte cassa: vuole la restituzione di una somma superiore ai centomila euro. «Agli eredi di Marco Loiola, alle due figlie, sono arrivate due lettere da parte dell’Inps che chiede oltre centomila euro» spiega l’avvocato Francesca Galloni, l’avvocato di fiducia della famiglia Biagi. Ma come da cosa nasce questa richiesta? «Il giorno della tragedia - spiega il legale - prima di uccidere Cristina Biagi e di togliersi la vita Marco Loiola ha ferito un uomo e il nuovo “capitolo” nasce da questo. L’Inps chiede agli eredi oltre 100mila euro (124mila per la precisione, richiesti con due lettere dell’avvocato dell’Inps datate ottobre 2019) che comprendono le spese di indennità di malattia per questo signore e l’assegno di invalidità erogato altrimenti passerà al recupero coattivo. Le figlie hanno ereditato l’appartamento dei genitori, in cui non vivono. La casa, in comunione dei beni, ha un valore inferiore alla cifra richiesta dall’Inps. Inoltre hanno ereditato una pensione che il nonno, che è giuridicamente il tutore perché sono state affidate a lui, mette da parte per il loro futuro. La richiesta dell’Inps è una richiesta legale anche se umanamente resta difficile comprenderla». In questi giorni l’avvocato Galloni sta studiando la strategia difensiva: «In prima istanza spero che l’Inps valutando la situazione receda dalla richiesta, ripeto legale, che ha avanzato. In seconda ipotesi che si possa arrivare a transare una cifra ben diversa da quella che è stata richiesta, una cifra che si basi sulla situazione di questa famiglia». «Questa vicenda - sottolinea con amarezza Francesca Galloni - mette il dito su un aspetto dei femminicidi che ancora non emerge con la rilevanza necessaria. Vittime di violenza non sono solo le donne che vengono uccise ma anche i familiari che restano e in questo caso due figlie». La cifra che l’Inps chiede alle due figlie di Cristina Biagi inviando due lettere indirizzate «agli eredi» è una cifra che metterebbe in pericolo, anzi travolgerebbe il futuro di queste due ragazzine. Futuro che nonno Bruno, tutore, e la nonna Fiorella, stanno proteggendo. «La cifra che l’inps contesta - ribadisce Francesca Galloni - è molto superiore al valore dell’immobile che hanno ereditato». L’Inps ha dato dieci di giorni di tempo altrimenti dalla parole si passerà ai fatti concreti. L’avvocato Galloni con la famiglia Biagi è al lavoro perché la dura logica giuridica non travolga il domani di queste due ragazzine. E visto che siamo in clima natalizio c’è da sperare che questa vicenda atroce abbia almeno in questo caso un epilogo diverso. Nessuno vuole sottrarsi ad un risvolto che legalmente non è contestabile, ma sarebbe bello che una volta i sogni diventassero realtà, una realtà sempre dolorosa ma che ha comunque la speranza di un futuro.
Il presidente dell’Inps Tridico: «Le due orfane non devono nulla, anche mia sorella è stata uccisa da suo marito». Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 su Corriere.it da Alessandra Arachi. Tridico: «Non avremmo mai dato esecuzione a quell’atto».
Pasquale Tridico, questa storia delle ragazzine Loiola...
«Questa storia è paradossale. Non dite mai più che l’Inps è una sanguisuga, non avremmo mai dato esecuzione all’atto».
Però quell’atto è stato emesso proprio dall’Inps — l’istituto che lei presiede — come mai? «Era un atto dovuto, necessario per evitare la prescrizione». Non si poteva evitare di emetterlo?
«Se non fosse stato emesso prima della prescrizione il responsabile sarebbe stato chiamato a rispondere di danni erariali. Ma noi di questo caso ce ne stavamo occupando da tempo».
In che modo?
«Era all’attenzione di più uffici della direzione generale con l’Avvocatura della Toscana, in collaborazione con la nostra sede di Massa Carrara».
Ma l’atto delle ragazze aveva anche una data di scadenza per pagare...
«Non so più come dirlo, era un atto dovuto. E non so più come ripeterlo: quelle ragazze non avrebbero mai pagato quella cifra. Io lo so bene che cosa si prova nella loro situazione. Avevano la nostra massima comprensione».
Cosa vuole dire presidente Tridico? Di quale situazione sta parlando?
«Mia sorella è stata uccisa da suo marito».
Quando è successo?
«Quando io ero ancora ragazzo, e quando omicidi così orribili non si chiamavano ancora femminicidi, non esisteva il termine».
Era molto legato a sua sorella?
«Per me mia sorella era ben più di una sorella».
In che senso?
«Io sono l’ultimo di sette fratelli, lei era la primogenita. Per me alla fine era una seconda mamma».
Deve essere stato parecchio dura, presidente...
«Per mia mamma è stato atroce. Io cerco di fare quello che posso».
Cosa vuole dire? Che cosa fa?
«Cerco di combattere il fenomeno e proteggere di conseguenza le vittime».
Qualche esempio?
«Il 25 novembre abbiamo stretto un accordo con Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, la presidente nazionale del Telefono Rosa. Il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, lo sappiamo».
E che accordo avete fatto?
«Un accordo che prevede che l’Istituto crei dei percorsi privilegiati per gli orfani di violenza femminicida. Ma non solo». Che cos’altro avete organizzato?
«L’evento del 25 novembre è stato in realtà il primo di quattro giorni di impegno dell’Inps che si sono conclusi il 28 novembre con un evento dal titolo “Come eri vestita?».Come mai proprio questa scelta? «Gli abiti raccontano meglio di altre cose come sono ancora troppi e troppo radicati i pregiudizi sulle donne».
Un impegno importante il suo. Adesso come pensa di risolvere il caso di queste due ragazze?
«Ci incontreremo con il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, ci siamo già sentiti più volte».
Quindi cosa pensate di fare?
«Sono certo che tutto questo clamore aiuterà la politica a trovare presto una soluzione. Ma la soluzione normativa non è certo l’unica strada praticabile».
Quale altra strada ha in mente?
«Ci si può rivolgere all’Avvocatura e chiedere un parere interpretativo, che venga incontro al caso delle ragazze Loiola. Questo è un caso paradossale, l’ho già detto».
Qual è il paradosso? Che cosa intende dire?
«Mi sembra evidente che in questo caso le vittime sono le figlie. Eppure la burocrazia ha finito con il far ricadere su di loro — in quanto eredi — la responsabilità di un padre omicida».
Il parere interpretativo dell’Avvocatura potrebbe essere una base per venire esteso ad altri casi paradossali?
«Certamente. Ma noi qui all’Inps abbiamo pensato anche ad altro».
Cioè?
«La costruzione di un cordone protettivo privilegiato per le vittime, non è un percorso normativo, e nemmeno un parere legale». E che cosa è?
«Un fondo, lo abbiamo appena attivato per tutelare le donne vittime di violenza. La chiamo così, violenza contro le donne, non mi piace usare la parola femminicidio».
Un fondo? E quanti soldi sono stati stanziati?
«Dodici milioni».
Siete già in grado di utilizzarli?
«No, non sono ancora stati stabiliti i criteri di accesso a questo fondo». Sono tanti dodici milioni. Per il vostro Istituto...
«Per me non sono mai abbastanza. Ma ce l’abbiamo presente le cifre di queste violenze? Sono numeri che fanno girare la testa».
Il presidente dell’Inps e la sorella uccisa dal marito: il femminicidio nelle nostre case. Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 da Corriere.it. Li chiamavamo delitti passionali o raptus di gelosia, contribuendo per anni ad alimentare, tra le vittime di violenza, il dubbio che di mezzo ci fosse l’amore. Delitti così, all’epoca, non finivano neanche sui giornali. E anzi, erano considerati delitti d’onore, aboliti dal codice penale solo nel 1981. Se ne parlava in paese, erano storie famigliari tenute nascoste, ferite che non si chiudevano più. Oggi è tutto cambiato e insieme alle leggi, è cambiata la percezione che abbiamo della violenza sulle donne. Un fenomeno trasversale, dove a contare non è né la provenienza, né il ceto sociale. Lo abbiamo letto centinaia di volte, sui report a proposito della violenza sulle donne. Eppure ogni volta che ci troviamo di fronte all’ennesimo caso di un uomo che ammazza l’ex, restiamo sorpresi da quest’evidenza. Che si tratta di persone comuni, che succede spesso in famiglie insospettabili ma in cui il tarlo della violenza ha scavato tagli profondi. La sorella di Pasquale Tridico, presidente Inps dal marzo di quest’anno, è stata una vittima di «femminicidio». Ed è stato lui stesso a parlarne, in un’intervista al Corriere, a proposito del caso dell’ingiunzione di pagamento alle due ragazze rimaste orfane sei anni fa, dopo che il padre uccise la loro madre da cui si era separato. Si tratta di Marco Loiola, operaio di 40 anni, che prima di assassinare l’ex moglie Cristina Biagi, sparò anche a una persona che credeva erroneamente essere l’amante della moglie. L’uomo rimase gravemente ferito con un’invalidità permanente e adesso, per quegli strani e assurdi intrecci burocratici, l’Inps ha chiesto il rimborso delle spese sanitarie sostenute proprio agli eredi di Loiola, cioè le due ragazze. Ma succede che oggi, a capo dell’Inps, c’è un uomo che da bambino ha vissuto lo stesso lutto di quelle due ragazze. «Non daremo mai esecuzione all’atto — ha spiegato Tridico —. So bene che cosa si prova nella loro situazione». E Tridico ha iniziato a parlare così della sorella, cresciuta insieme agli altri a Scala Coeli, provincia di Cosenza, e uccisa da suo marito nel 1983 quando Pasquale era ancora un ragazzo «e quando omicidi così orribili — ha raccontato — non si chiamavano ancora femminicidi». Erano i tempi del delitto d’onore, del matrimonio riparatore, abolito appena un anno prima, quando per legge il reato di violenza carnale si estingueva se lo stupratore sposava la sua vittima, «salvando così l’onore della famiglia». «Io sono l’ultimo di sette fratelli — ha raccontato Tridico — lei era la primogenita. Per me alla fine era una seconda mamma. Per mia mamma è stato atroce, io cerco di fare quello che posso, cerco di combattere il fenomeno e proteggere di conseguenza le vittime». Solo negli anni ‘90 è stato coniato il termine «femminicidio», adottato ed entrato nel linguaggio comune poi negli anni duemila: dal 2012 a oggi sono 871 le donne uccise in Italia da mariti, fidanzati, spasimanti o uomini violenti. Non ci sono più il delitto d’onore e il matrimonio riparatore ma il 23,9% degli italiani pensa ancora che siano le donne a provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire.
"Dopo la chemio il Fisco mi ha chiesto di motivare l’acquisto della parrucca". Dopo che una giornalista ha affrontato e sconfitto un tumore al seno, l'agenzia delle Entrare ha chiesto di dimostrare il motivo dell'acquisto di una parrucca. Carlo Lanna, Domenica 08/12/2019 su Il Giornale. Per Sara Recordati, giornalista e scrittrice di 47 anni, il 2016 non è stato un anno da ricordare. Dopo alcune visite mediche, ha dovuto fronteggiare a testa alta una forma di tumore al seno molto aggressivo. Così senza pensarci due volte, la giornalista ha deciso di investire i suoi risparmi e farsi operare in una struttura privata. La chemio è stata dolorosa ma per fortuna la donna ha potuto tirare un sospiro di sollievo, dato che è riuscita a sconfiggere la malattia. Ovviamente la chemio ha portato con sé diverse problematiche, ma tutto è bene quel che finisce bene. Ma la vicenda ha un colpo di scena. Come è stato riportato da Il Corriere, Sara Recordati si è vista recapitare un accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate. La lettera chiede di dimostrare di aver versato quei 12mila e 500 euro all’ospedale in cui è stata operata e, cosa sconcertante, dimostrare l’acquisto di una parrucca di 300 euro. "Mi hanno chiesto il certificato CEE della parrucca e una richiesta medica che giustifichi il fatto che ne avesse bisogno come supporto in una condizione di grave disagio psicologico –racconta la giornalista -. Sono rimasta senza parole, non avevo mai pensato di dover affrontare di nuovo quel periodo della mia vita. Lo stato si è insospettito delle alte spese mediche,e ora vuole andare a fondo. Mi sono ammalata, mi sono curata e per di più ho dovuto farlo in una struttura privata – e aggiunge –. Quando nella dichiarazione dei redditi avevo allegato la richiesta medica della mia oncologa, l’avevo fotocopiata male e si legge in parte. Anche se chiaramente si vede che avevo dovuto usare la parrucca per l’alopecia". La giornalista è molto indignata e non riesce a capire il perché ha ricevuto una richiesta del genere da parte dell’Agenzia. "Ho pagato la parrucca 300 euro, anche se la mia assicurazione ne aveva coperto in parte il costo di appena 100 euro. Ci sono rimasta male è come se avessi ricevuto un’aggressione da parte del mio stato. Ora cerco di andare avanti, ma devo difendermi da quest’altro problema. Scoprire che l’Agenzia delle entrate si attiva per il controllo della dichiarazione delle spese sanitarie per una parrucca mi fa restare senza parole. Perché tutto questo astio?" Durante l’intervista la giornalista si pone anche diverse domande in merito a quanto accaduto. "Sono curiosa di capire come si ragiona quando si mettono in moto accertamenti di questo tipo –rivela -. È come se avessi la sensazione di essere presa in giro, avverto la cattiva fede nel sospettare che una donna voglia truffare il fisco per qualche decina di euro e soprattutto per una semplice parrucca. Non si possono colpire le persone senza considerare che sono, appunto, persone".
DAGO-INTERVISTA a Elisabetta D'Angelo, avvocato esperto di diritto tributario il 21 novembre 2019. La Legge di Bilancio 2020, in base al testo approvato lo scorso 2 novembre ed in corso di approvazione in Parlamento, prevede novità significative per l’attività di riscossione degli enti locali con ricadute importanti per tutti i cittadini. A partire dal prossimo anno Comuni, Province, comunità montane ecc. potranno infatti emettere accertamenti suscettibili di diventare titolo esecutivo per la riscossione forzata. La novità riguarda la riscossione di tutti i tributi e le entrate patrimoniali locali oggetto di accertamento (IMU, TASI, TARI ecc.), non ancora prescritti, mentre non dovrebbe estendersi alle sanzioni per violazioni alle disposizioni del Codice della Strada la cui escussione segue un iter amministrativo diverso.
Avvocato D'Angelo, cosa cambierà se le norme inserite nella manovra verranno approvate?
«La riforma della riscossione degli enti locali avrà effetti dirompenti. Finora gli atti impositivi emessi dagli enti locali non avevano alcuna efficacia esecutiva: la riscossione dei tributi, infatti, poteva avere inizio solo dopo la preventiva notifica (anche dopo parecchi mesi) della cartella di pagamento. Si aveva quindi tutto il tempo a disposizione per valutare la fondatezza della pretesa impositiva e per promuovere eventualmente un contenzioso presso la Commissione Tributaria Provinciale competente».
Si eliminano molti passaggi e si accorciano i tempi.
«Nell’ottica di potenziare l’attività di riscossione delle entrate locali il Governo ha proposto il ricorso allo strumento dell’accertamento esecutivo già in uso da qualche anno presso l’Agenzia delle Entrate per la riscossione dei tributi nazionali. In particolare, la Legge di Bilancio 2020 prevede che, per la riscossione di importi superiori a 10mila euro, i nuovi accertamenti dovranno contenere l’intimazione ad adempiere entro il termine di 60 giorni, decorso il quale, l’atto diventerà immediatamente esecutivo con la conseguenza che l’ente creditore potrà attivare tutte le procedure esecutive e cautelari senza bisogno di attendere la notifica della cartella di pagamento».
Ma la soglia di 10mila euro si riferisce ai singoli tributi?
«No, secondo la formulazione della norma, all’intero debito dovuto (comprensivo quindi di imposte, sanzioni ed interessi maturati) e potrà essere oggetto di recupero mediante successivi atti che superano cumulativamente il predetto importo. Ciò significa che si tratta di una soglia di “salvaguardia” decisamente bassa che potrebbe essere “sforata” molto facilmente».
Se invece si tratta di importi inferiori?
«L’accertamento non costituirà titolo esecutivo ma occorrerà la preventiva notifica di un sollecito di pagamento con l’invito a saldare il debito nel termine dei successivi 30 giorni, decorso il quale l’ente creditore potrà attivare la procedura esecutiva».
Mettiamo che io non intenda pagare perché non ritengo giusta la pretesa, perché ho già pagato e l'ente non ha aggiornato le sue banche dati, oppure l'importo dovuto non è corretto. Cosa dovrei fare?
«Se si è già pagato (o, ad esempio, se il credito è già prescritto) si può chiedere all’ente creditore in via di autotutela lo sgravio delle somme iscritte a ruolo con tempi però imprevedibili. Negli altri casi o, comunque, se l’ente creditore non risponde nell’immediato all’istanza di sgravio occorrerà impugnare subito l’atto e chiedere alla Commissione Tributaria Provinciale la sospensione dell’efficacia esecutiva».
Posso presentarmi in prima persona agli organi della giustizia tributaria o mi serve un avvocato?
«È possibile instaurare il giudizio tributario da soli (senza bisogno di avvocato, commercialista ecc.) per controversie di importo inferiore a 2.582,28 euro. Per tutte le altre, serve un difensore tecnico».
Presentato il ricorso, posso stare tranquillo.
«No, perché si apre quindi una corsa contro il tempo per ottenere la sospensione giudiziale entro il termine dei 60 giorni dalla notifica dell’atto. La concessione della sospensione, peraltro, è tutt’altro che scontata perché occorrerà dimostrare l’infondatezza della pretesa (il c.d. “fumus boni iuris”) ed il “periculum in mora” (provare che l’attività di riscossione produca per il contribuente un danno grave ed irreparabile)».
Non proprio una passeggiata.
«L'onere della prova è in capo al ricorrente: bisognerà presentare gli estratti conto, gli immobili di proprietà, i pagamenti, i bilanci se si tratta di una società, e ogni documento che possa dimostrare come il prelievo forzoso sottrarrebbe somme già destinate a pagamenti improrogabili ed essenziali per la vita dell'individuo o della società. Ad esempio, nell’ultimo periodo alcune imprese hanno dimostrato come certe somme erano state accantonate in ottemperanza agli accordi sindacali sui prepensionamenti ex art 4 Legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero)».
Ok, ho chiamato l'avvocato, raccolto i documenti, presentato il ricorso. A questo punto posso dirmi ottimista sulla sospensione dell'esecutività?
«L’art. 48 del D.Lgs. 546/1992 (che disciplina il processo tributario) prevede che l’istanza di sospensione debba essere esaminata entro il termine di 180 giorni (sei mesi) dalla presentazione, e spesso non viene rispettato: l’unica strada è andare in commissione e pregare per farsi emettere il decreto d’urgenza da parte del Presidente della Sezione presso la quale pende il fascicolo».
E se quindi, come quasi sempre accade, non ce la faccio a ottenere la sospensione entro il termine stringente dei 60 giorni?
«L’ente creditore potrà attivare tutte le procedure esecutive previste dalla legge, tra le quali, l’iscrizione del fermo sull’autoveicolo del debitore e il pignoramento del conto corrente. Con riferimento a questo ultimo aspetto, gli enti locali saranno creditori privilegiati (al pari del Fisco) in quanto potranno procedere senza alcun controllo da parte di un giudice».
Mi spieghi meglio questo pignoramento: è simile a quello che dispone il giudice civile per il creditore inadempiente?
«C’è una grossa differenza tra il pignoramento presso terzi disciplinato dal codice di procedura civile e quello speciale dell’espropriazione esattoriale. Il pignoramento del conto corrente da parte del Fisco (e dal 2020 da parte anche degli enti locali) è più insidioso. Non solo perché il blocco avviene senza preavviso, ma anche perché la procedura è più veloce di quella ordinaria. Gli enti locali, peraltro, saranno in grado di sapere con largo anticipo la banca ove il contribuente deposita i soldi potendo accedere all’Anagrafe dei rapporti finanziari dell’Agenzia delle Entrate».
Una volta che scatta il pignoramento, cosa succede? Non sono più libero di disporre del mio conto in banca? E lo stipendio, il mutuo da pagare…
«Il pignoramento dovrebbe avvenire secondo le regole ordinarie previste dalla legge in tema di riscossione dei tributi: stipendio, salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro possono essere pignorati in misura pari ad un decimo per importi dovuti fino a 2.500 euro, ed in misura pari ad un settimo per importi tra i 2.500 e i 5.000 euro. Se un soggetto deve più di 5.000 euro all'ente creditore, la quota massima pignorabile è un quinto dello stipendio».
Questo per le entrate da lavoro. E le somme già presenti sul conto?
«Il primo pignoramento potrà avvenire fino su una somma fino a tre volte l’assegno sociale (pari a 460 euro). Se il pignoramento viene fatto per somme superiori rispetto a quelle presenti sul conto corrente, il conto resta “vincolato” nel senso che i successivi accrediti verranno “trattenuti” dalla banca e una parte sarà direttamente all’esattore fino ad estinzione del debito. Unico modo per ottenere lo sblocco del conto corrente è quindi la presentazione di una richiesta di rateazione (anche in pendenza di un eventuale giudizio), ma solo con il pagamento della prima rata il conto corrente verrà liberato».
Ma solo comuni ed enti pubblici (tipo l'Agenzia delle Entrate) potranno attivare questa procedura?
«La nuova procedura riguarderà tutti gli enti locali. L’Agenzia delle Entrate già utilizza lo strumento dell’accertamento esecutivo da diversi anni. Per quanto riguarda gli enti locali, potranno usare questa procedura anche quelli che si avvalgono per l’attività di riscossione di soggetti privati abilitati».
Evasione fiscale. Quei consulenti che aiutano a frodare lo Stato per centinaia di milioni. Fatture false per 2 miliardi nel 2018. Tremila società fantasma. E “servizi” a domicilio come quello di Ivan, nullatenente che preleva fino a 35 mila euro al giorno e si trattiene l’1 per cento per il lavoro ordinato via WhatsApp. Floriana Bulfon il 14 novembre 2019 su L'Espresso. Ordini di prelievo spediti ogni giorno via WhatsApp, teste di legno stipendiate a mille euro al mese e piazzate a capo di società che esistono solo sulla carta, un vortice di fatture false per non pagare le tasse e la garanzia di recuperare i soldi del nero. È il servizio chiavi in mano per l’imprenditore che vuole evadere. Le prestazioni sono assicurate da strutture che tolgono ogni pensiero: offrono consulenti, commercialisti e persino camminatori come Ivan. Incensurato e nullatenente gira con il motorino e preleva tra i 15 e i 35 mila euro al giorno. Glieli caricano sul suo conto e per le “giornate di lavoro” prende l’1 per cento. Un’ondata di denaro a domicilio e un sistema micidiale a cui, solo a Roma, si sono rivolte più di 500 aziende. Imprese di facchinaggio, edili, anche una onlus che doveva tutelare i clienti di partita Iva. Solo l’anno scorso nel Belpaese ci sono stati 2 miliardi di euro di fatture false. Tremila le società fantasma scovate dalla Guardia di Finanza tra gennaio 2018 e maggio 2019, più di 13 mila gli evasori totali. E così mentre il governo Conte bis annuncia, tra nottate a litigare e continui distinguo, la lotta dura con tanto di carcere per i grandi evasori, il numero dei crediti non riscossi è in costante crescita. 756 miliardi di euro nel 2015, un anno dopo 817, peccato che quelli recuperabili secondo l’allora presidente e amministratore di Equitalia si fermino a 52. Una metastasi criminale che sottrae risorse allo sviluppo del Paese, intossica il mercato, ostacola la concorrenza leale tra imprese e finisce per accrescere il carico fiscale dei cittadini onesti mettendo a rischio le regole della democrazia. I criminali fiscali del resto si muovono senza sosta. Pochi mesi fa a Chieti una settantina di professionisti con una trentina di società e falsi dipendenti sono riusciti a far sparire 190 milioni. A Napoli un sessantenne friulano, senza nemmeno un cellulare intestato, ha messo in piedi una filiera dell’evasione nel settore siderurgico. Un vero affare: nessuna tassa da pagare e in più il guadagno nel vendere la merce sottocosto. Quanto a chi comprava era talmente consapevole da chiedere prezzi ancora più bassi. Ci sono i senzatetto come Bruno che vive in una baracca, per campare raccoglie rottami e d’un tratto s’è trovato amministratore di un impero e i colletti bianchi che si propongono come consulenti in grado di salvarti dalla crisi. A Reggio Emilia un gruppo di “benefattori” ha studiato e catalogato centinaia di aziende. Poi è entrato in azione con il servizio di crediti di imposta fittizi per compensare altri debiti, beni acquistati senza pagare l’Iva e 900 milioni di false fatture emesse da società intestate a prestanome e lasciate piene di debiti. A farlo sono persino consorzi d’imprese che vincono appalti pubblici da centinaia di milioni. Postemotori doveva gestire e rendicontare i bollettini per la revisione delle auto, invece ogni settimana trasferiva fondi occulti. Il risultato? 20 milioni di debito verso l’Erario e oltre 45 di false fatture. «È un sistema diffuso, un fenomeno patologico. Molte aziende vengono portate al fallimento e come concausa ci sono i crediti erariali da evasione. I soldi invece spesso finiscono all’estero. In paradisi societari prima ancora che fiscali», sottolinea il generale Giovanni Padula a capo del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza. Il meccanismo preferito è aprire una società in Paesi a fiscalità privilegiata. Si fa in giornata e sono sufficienti pochi euro per non avere alcuna responsabilità. «Esistono piazze finanziarie diverse e centri di affari, come ad esempio Malta, che attirano capitali di dubbia provenienza. Una volta create le società a cui ricondurre le fatture false il cerchio dell’illegalità si chiude e i milioni sono pronti a prendere la via di Emirati Arabi Uniti, Isole Marshall, Vanuatu», constata Padula. Il denaro si inabissa dopo aver rimbalzato tra fatture di comodo e costi gonfiati. Inghiottito in un pozzo nero. Il sistema per prevenire ci sarebbe, ma molti di questi Paesi forniscono un numero di segnalazioni di operazioni sospette inferiore a quello che ci si potrebbe aspettare. E così il nero diventa bianco e si rigenera nei canali dell’economia legale, alimenta fondi destinati a tangenti per accaparrarsi appalti pubblici, arricchisce le mafie. Perché professionisti senza scrupoli intrecciano affari con la più ricca realtà imprenditoriale del Paese: la criminalità organizzata. I boss gestiscono mediazioni, tessono reti e diventano protagonisti del mercato. Del resto sul totale dei soggetti denunciati o arrestati per mafia negli ultimi dieci anni la professione più rappresentata è proprio quella degli imprenditori. Le false fatture sono diventate lo schema ricorrente per la criminalità organizzata come evidenzia il recente studio More di Transcrime-Università Cattolica. «È un’attività che sta crescendo con rapidità sia in Italia sia all’estero perché può servire per più scopi illeciti: abbattere l’imponibile fiscale, accumulare contante fuori bilancio e riciclare soldi sporchi. Si specializzano in fatture false e offrono servizi anche a imprenditori compiacenti non legati alla criminalità organizzata. In questo modo creano una rete di collaborazione e di scambio», nota il ricercatore Michele Riccardi. Una nuova generazione mafiosa che permette alle imprese di evadere il fisco per decine di milioni di euro cedendo crediti fiscali inesistenti. È accaduto a Brescia e con i proventi i feroci stiddari hanno finanziato il traffico di droga. Pur mutando il business e indossando giacca e cravatta sono però rimasti fedeli alle intimidazioni: in aggiunta ai crediti fittizi offrivano anche protezione. E naturalmente mazzette e favori per i pubblici funzionari così da ammorbidire le verifiche fiscali. Gli investigatori hanno scoperto un giro di fatture false per 230 milioni di euro. Ad allertarli sono stati quattro commercianti. Di Gela, che a Brescia sono stati tutti zitti. Perché i confini tra lecito e illecito sono sempre più confusi e porosi e il patto con i clan non crea più disvalore sociale. «I colletti bianchi al fine di garantirsi l’impunità, si mobilitano per cambiare la definizione della realtà o oscurarla, mettendo in atto strategie di negazione, di normalizzazione, o ancora di vera e propria decriminalizzazione», evidenziano in “Le mafie nell’economia legale” (Mulino, 2019) i sociologi Rocco Sciarrone e Luca Storti. Il sistema repressivo non sembra funzionare perché non tutela la sopravvivenza delle imprese, quasi sempre uccise dagli interventi dello Stato, con la perdita di lavoro e di risorse. «Allo stato attuale non ricorrere ai servizi della mafia costa fatica; è quasi espressione di eroismo. Questa è una condizione insostenibile», constatano con amarezza. Nel lontano 1980 Leonardo Sciascia riteneva che far pagare le tasse agli italiani fosse la più grande utopia che si potesse dare questo Paese. Il sottrarsi a un dovere per molti è un orgoglio, anziché una vergogna. Viviamo un’evasione fiscale ormai capillare con pseudo-professionisti che si prestano a offrire “servizi” per frodare come se fossero società di consulenza in piena regola. «La verità è che non bastano le galere per tutti quelli che evadono e si fa leva sulla statistica, sulla probabilità di essere scoperti. E anche se dovesse accadere nel frattempo quelle persone hanno evaso per anni. Il fatto è che contribuzione fiscale si basa sulla fiducia e in Italia non c’è. Chi non paga le tasse non si fida dello Stato e lo Stato non si fida delle persone», ragiona il tributarista Sebastiano Stufano, ex ufficiale delle Fiamme Gialle che ha condotto alcune delle indagini di Mani Pulite. Perché come sostiene nel film “Panama Papers” la vedova vittima di una frode assicurativa interpretata da Meryl Streep: «l’evasione fiscale non può finire laddove pubblici funzionari chiedono soldi alle stesse élite che hanno i più forti incentivi a evadere le tasse e il fatto che serva una gola profonda per suonare l’allarme è il segnale che i controlli e i contrappesi della democrazia hanno fallito».
E la Difesa non paga le tasse sugli immobili. Inchiesta di Report: gli alloggi dei militari devono versare l’Imu e Ici. Lo ha riconosciuto la Cassazione dopo l’istanza del Comune di Fontana Liri. Ma i soldi non ci sono. E il problema riguarda tutte le città italiane. La Repubblica il 15 novembre 2019. Ci sono 16 mila immobili del demanio usati dal ministero della Difesa come abitazioni del personale militare. Per la Cassazione hanno solo una funzione abitativa, senza svolgere attività istituzionale. E quindi la Difesa dovrebbe pagare ai comuni Ici e Imu, come tutti gli altri proprietari di case. Ma non lo fa. Questa "evasione d Stato" viene rivelata da Report nella puntata in onda lunedì. Il punto di partenza sono le sentenze della Corte Suprema che ha accolto le denunce del comune di Fontana Liri (Frosinone); su quelle case con le stellette bisogna pagare le tasse. Nonostante i verdetti, però, neppure un euro è stato versato al municipio. E ora il pronunciamento dei giudici potrebbe provocare un effetto domino in tutta Italia. Le abitazioni dei militari o gli edifici senza più compiti istituzionali sono moltissimi. A Sesto Fiorentino se ne contano 270 e dovrebbero pagare 150 mila euro l'anno di Imu; a Milano 86 per un'imposta globale di 240 mila euro. A Napoli si registrano 6 complessi immobiliari per un totale di 297 mila euro. A Verona sono 235 per 355 mila euro. Il record a Roma, dove se ne censiscono ben 1981 con tre milioni l'anno di tasse da pagare. "Siamo stati ricevuti dal capo di gabinetto della ministra Trenta - racconta a Report Gianpio Saracco, sindaco di Fontana Liri -: ha ammesso che i crediti del Comune erano legittimi. Ma non erano stati stanziati in bilancio non ci avrebbero pagato perché non sapevano come pagarci". Insomma, neppure i giudici riescono a farsi rispettare dai generali. Il problema che non è chiaro neppure come siano registrati nel catasto questi alloggi. Molti edifici militari infatti esistono da un secolo, con posizioni mai aggiornate. E quindi i municipi devono letteralmente andare alla caccia delle abitazioni in mano alla Difesa. "Dal momento in cui il demanio non comunica, noi la nostra ricerca la dobbiamo fare utilizzando i mezzi più strani, ivi compreso le conversazioni Facebook dei militari", spiega il vicesindaco di Napoli Enrico Panini: "Abbiamo individuato oltre sei immobili, con cubature per oltre 300mila metri quadri. Significa che il Comune di Napoli può vantare una richiesta per Tari e Imu, superiore ai 300 mila euro l'anno". Dopo l'iniziativa di Fontana Liri anche l'Anci, l'Associazione nazionale dei comuni, si è mobilitata. Alla domande di Report, il ministero della Difesa ha risposto che "la complessità di classificazione degli alloggi è legata ad una difficoltà di ricognizione, in quanto gli stessi sono soggetti a un notevole e continuo mutamento dell'impiego di personale sul territorio. Si consideri che, mediamente, 3.000 militari l'anno sono trasferiti di sede, con un impatto continuo e diretto sulla situazione alloggiativa". Ma il ministro Lorenzo Guerini, insediato da due mesi, ha proposto all'Anci di creare un tavolo tecnico per affrontare la situazione. Che potrebbe dare sollievo ai conti dei sindaci e infliggere un colpo al bilancio delle forze armate.
Franco Grilli per il Giornale l'11 novembre 2019. Il Fisco ha deciso di approfondire i controlli sui professionisti. Sta per partire una vera e propria offensiva fiscale che metterà nel mirino miglia di studi o attività sul tutto il territorio nazionale. Infatti i professionisti riceveranno nelle prossime settimane una serie di comunicazioni e di lettere per alcuni accertamenti del Fisco. Sotto controllo finiranno, come ricorda ilSole 24 Ore, i compensi certificati da sostituti di imposta ma anche tutte le informazioni reperibili dal Fisco con lo spesometro. Viene dunque messa sul campo una delle armi del Fisco che "declina" la nuova stagione fiscale basata su un pressing di controlli senza precedenti per recuperare risorse dalla lotta all'invasione. E così insieme al risparmiometro anche lo spesometro sarà fondamentale in fase di verifica. E il metodo di controllo si fa sempre più preciso col passare degli anni. Infatti nelle fasi di verifica, il Fisco ha studiato procedure tarate per ogni tipologia di professionista. Una mossa che però deriva dai controlli generici che sono comunque in prima battuta piuttosto approfonditi. Infatti nella prima fase di accertamento vengono messi "sotto torchio" tutti i professionisti che dichiarano una cifra elevata di compensi per poi però avere un'enorme fetta di deduzione con cui abbassano la quota del reddito imponibile. Il primo passo che viene fatto comunque è quello che prevede una consultazione della anagrafe tributaria. Qui sono presenti i dati che permettono una prima fotografia del professionista sul fronte tributario. Poi si passa all'uso del web per raccogliere tutte quelle informazioni che riguardano la categoria del professionista finito nella morsa dei controlli. In alcuni casi possono anche venire usati gli appostamenti della Gdf per monitorare meglio il professionista. La fase successiva per l'accertamento prevede anche una ispezione nei locali dove viene svolta l'attività per prendere nota del numero di dipendenti e delle dimensioni della struttura. Nel caso in cui la stessa attività venga svolta su più locali, allora prima del controllo è necessaria la presenza del professionista in ogni struttura. Per ogni verifica vine e redatto un verbale e viene presa nota anche delle risposte del contribuente. Poi il tutto viene spedito alle Entrate che entro due mesi danno il via alla vera e propria contestazione fiscale. Toccherà poi al contribuente presentare una propria difesa per evitare il salasso della sanzione. Insomma con la nuova manovra tutti questi meccanismi verranno inaspriti. Il governo non ha mai nascosto di voler far cassa con il recupero dell'evasione. Ma a quanto pare l'offensiva rischia di cerare un accanimento fiscale con lunghi accertamenti anche sui contribuenti che pagano regolarmente.
Tasse, ecco come un algoritmo difettoso ti fa pagare più di quanto devi. Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Andrea Marinelli. Sono arrivate le pagelle: sotto al 6 rischi i controlli, sopra l’8 hai benefici. Quasi il 50% dei calcoli sono anomali. I coefficienti predeterminati dall’Agenzia delle Entrate sono immodificabili, come pure alcuni dati, anche se sono sbagliati, e gli esiti non sono sempre coerenti con l’attività esercitata. Può capitare, infatti, che l’indice di «insufficienza» aumenti nei casi in cui non dovrebbe o che al contrario affidi un punteggio alto a soggetti borderline. Esempi: una libera professionista che ogni anno ha dichiarato 50 mila euro e nel 2018 ne ha dichiarati 30 mila perché è andata in maternità diventa anomala, così come la società che ha fatturato meno perché ha un immobile sfitto, oppure l’azienda che ha dovuto pagare 100 mila euro di spese legali straordinarie. Anche un professionista con un contratto part-time risulta anomalo, perché non raggiunge il reddito previsto dall’Agenzia delle Entrate calcolato sull’andamento degli otto anni precedenti. E pazienza se un contribuente nel 2018 ha cambiato datore di lavoro e incassa la metà rispetto al 2017.Al contrario, professionisti che non sono mai stati congrui, o imprese commerciali sempre in perdita (ma che magari fanno il nero), si ritrovano un 9. Ad esempio la società X, che negli anni precedenti ha dichiarato anche perdite fiscali ed era sempre al limite della congruità, nel 2018 si ritrova un punteggio Isa di 9,02. Dataroom ha interpellato molti commercialisti e in diverse regioni italiane: è emerso che fra il 40 e il 50 per cento dei contribuenti è passato dall’essere «congruo e coerente» nella dichiarazione dei redditi del 2018 a «insufficiente» in quella del 2019, o viceversa. Per rimediare al voto negativo, nella dichiarazione dei redditi è prevista una voce che invita a pagare di più e fornisce le cifre su cui fare il calcolo, a seconda del punteggio che vuoi raggiungere. Sulla somma aggiuntiva occorre ovviamente pagare tasse e Iva. Un sistema che da una parte rischia di vessare il contribuente onesto, dall’altra non «vede» l’incoerenza di quei contribuenti che decidono di pagare qualcosa in più per prendersi i benefici premiali, e non li concede a chi invece li meriterebbe; infine dà una scappatoia a coloro che utilizzano i crediti d’imposta con fatture false, e sono migliaia. Certo, quando ci sono di mezzo fatti penalmente rilevanti, la certezza dell’impunità non c’è. Gli Isa sono stati introdotti con decreto nel 2017 dal governo Gentiloni e l’algoritmo che sta alla base lo ha realizzato Soluzioni per il Sistema Economico (Sose), una società partecipata dal ministero dell’Economia e delle Finanze e dalla Banca d’Italia che ha effettuato gli indici per 175 attività. A novembre 2018 il governo gialloverde ha sostituito l’amministratore delegato Ceriani con Vincenzo Atella. Le operazioni si sono un po’ ritardate e a giugno, mentre Sose faceva partire in tutta fretta i nuovi Isa, il vice ministro dell’Economia Massimo Garavaglia dichiarava che «sono uno strumento inutile e verrà abrogato perché superato dalla fatturazione elettronica». Invece hanno prorogato di due mesi le dichiarazioni dei redditi poiché la macchina non era pronta. Quando è diventata operativa si è scoperto che l’algoritmo era programmato male, ma intanto ha generato un incasso, secondo il Ministero dell’Economia, superiore ai 2,1 miliardi attesi. La Sose interpellata sui criteri adottati per l’Isa dice solo «di aver lavorato al progetto per conto dell’Agenzia delle Entrate e del Mef, e che quindi sono loro i soggetti preposti a rispondere». Dopo la levata di scudi dei commercialisti che non ci capivano più niente, la commissione di esperti si è riunita e il Direttore dell’Agenzia delle Entrate Antonino Maggiore il 6 novembre ha dichiarato: «Ci sarà una revisione degli Isa e si interverrà sulla modifica degli indici». A questo punto dovrebbe però inviare una circolare a tutti gli uffici dell’Agenzia, con la quale invita a non considerare le pagelle dei punti fermi per le analisi. Anche perché è complicato dare il via alla rumba dei controlli: richiede personale e l’Agenzia delle Entrate è sotto organico. In Italia c’è già stato un caso di algoritmo «difettoso» nella pubblica amministrazione ed è finito in tribunale. Per l’anno scolastico 2016/2017 il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca si era affidato a un algoritmo secretato – realizzato da Finmeccanica e Hp Italia e costato 444 mila euro – per decidere le assegnazioni di 10 mila docenti che avevano vinto il concorso. Avrebbe dovuto dare la precedenza alla valutazione dei candidati e poi incrociarla con le destinazioni richieste, invece molti insegnanti sono stati spediti anche a 1.000 chilometri di distanza da casa. Il ministero conciliò circa 3.000 casi e diversi tribunali annullarono le assegnazioni. Su quell’algoritmo si sono espressi quest’anno sia il Tar del Lazio che il Consiglio di Stato. Entrambi concordi: un algoritmo può far parte del processo amministrativo, ma a patto che sia soggetto all’intervento umano. Nel caso dell’Isa, dunque, il contribuente, il suo commercialista o un giudice che si trova a esprimersi su un ricorso devono sapere cosa c’è dentro l’algoritmo, come funziona. In conclusione: la lotta all’evasione fiscale si fa solo con gli uomini, e con criteri che gli uomini danno alle macchine. Dopo averle collaudate, però, non sulla pelle dei contribuenti.
Tasse, quali sono gli sconti personalizzati che valgono 86 miliardi di euro all’anno. Pubblicato martedì, 05 novembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Domenico Affinito. Sono passati 4 governi e la riforma delle agevolazioni fiscali è al punto di partenza: 727 voci che agevolano solo alcuni. Nelle intenzioni dell’esecutivo è prevista anche una prima sforbiciata alla Babele delle «spese fiscali», quelle sempre da rivedere, ma poi mai toccate. Sono detrazioni e deduzioni, ovvero sconti e sconticini rispetto alla fiscalità generale. In alcuni casi previsti dalla norma, in altri introdotti dalle «manine svelte» durante le maratone notturne a ridosso dell’approvazione. Casi «particolari»: agevolazioni pensate ad hoc a favore di questa o quella categoria. La differenza è stata messa nero su bianco dalla Commissione italiana per la redazione del rapporto annuale sulle spese fiscali che ha ritenuto catalogare come tax expenditure «quelle misure che riducono o postpongono il gettito per uno specifico gruppo di contribuenti o un’attività economica rispetto a una regola di riferimento che rappresenta il benchmark» (riprendendo la definizione dalla dall’Ocse). Centinaia di norme e codicilli che si sono accumulati via via negli ultimi 50 anni fino a raggiungere un livello monstre di 727 voci, tra fisco nazionale e locale. Di queste, 120 voci, che valgono circa 150 miliardi di sconti, non sono da considerare tax expenditure, tutto il resto sì: 530 voci di imposte dirette (Ires, Irpef, imposte sostitutive) e indirette (Iva, bolli, accise) che valgono 60 miliardi di euro all’anno, più altre 197 voci di entrate tributare territoriali (Irap, Imu, Tasi, Tosap) che valgono altri 26 miliardi. Un totale di 86 miliardi di euro all’anno di tasse «non dovute». Come minimo: perché tra queste ci sono 152 voci a livello nazionale e 130 voci a livello locale che la stessa Relazione governativa definisce «non quantificabili». Se calcoliamo che il totale delle imposte dirette, indirette, territoriali che entrano nelle casse dello stato ammonta a 522 miliardi, lo sconto pesa non poco.La regola prima sarebbe quella di concedere le agevolazioni quando generano una buona ricaduta su ampi settori dell’economia e nel sociale. Vi sono invece agevolazioni per alcune categorie di persone fisiche e per alcuni territori. Hanno ragioni evidenti quelle sul reddito in Agricoltura in caso di perdita di almeno il 30% del prodotto a causa di eventi naturali o l’esenzione dall’accisa sui carburanti per bonificare i terreni. Come pure gli aiuti per il riscaldamento agli abitanti di aree climaticamente rigide: lo stesso vale per la detraibilità degli abbonamenti ai servizi di trasporto pubblico locale, regionale e interregionale fino a 250 euro. Più difficile comprendere il non assoggettamento Iva delle cessioni di diritti d’autore e sul gioco d’azzardo, l’esenzione Iva per le imprese di pompe funebri (che vale 28,7 milioni di euro all’anno), e alle quali non manca mai la clientela. O ancora come il rimborso sull’accisa del gasolio per trasporto merci e passeggeri (1,296 miliardi l’anno) e sui carburanti in generale per i tassisti (che usufruiscono anche dell’esenzione dall’Iva), l’agevolazione per i carburanti per lavori agricoli (830 milioni), l’esenzione accisa carburanti per la navigazione aerea (1,551 miliardi). Queste ultime sono considerante dal ministero per l’Ambiente agevolazioni dannose e valgono 19,3 miliardi di euro, contro i 15,2 miliardi dei sussidi favorevoli alla tutela ambientale. Su questo il Governo ha promesso una svolta. Vedremo.Vi sono poi alcune voci poco giustificabili. Come il credito d’imposta per il recupero del contributo versato al Ssn dagli autotrasportatori (altri 20 milioni); la detrazione delle spese veterinarie (26,7 milioni), l’esclusione dal reddito delle mance dei croupier fino al 25% o la tassa fissa per 15 anni di 100 mila euro per i ricchi che trasferiscono la residenza in Italia (golden visa). I marina resort, cioè i servizi prestati dalle strutture organizzate per la sosta e il pernottamento di turisti all’interno delle proprie barche ormeggiate nei porti turistici, godono di un’Iva ridotta al 10%. La stessa dei campeggi, ma la tipologia di turismo e la capacità di spesa è ben diversa. Un altro problema è il fatto che molte di queste voci non abbiano un tetto. Prendiamo la detrazione sull’abbonamento del trasporto pubblico: vale per chi ha un reddito di 20 mila euro all’anno come per chi ne ha 200 mila. Ma l’aspetto più grave – scrive la Commissione – è il fatto che gran parte di queste misure «non presentano analogia» o «non mostrano affinità evidenti rispetto ai programmi di spesa di bilancio dello Stato». In altre parole: sono agevolazioni, parzialmente inutili per lo Stato, ma utili solo per il settore a cui sono dirette. Sarebbe utile una riscrittura completa delle norme, abrogando quelle che non hanno più senso, mettendo dei tetti e verificando, settore per settore, l’impatto di una riforma. Rivedere le agevolazioni nell’agricoltura o trasporti è sostenibile? In che misura? Quali sconti prevedere per ridurre l’inquinamento ambientale? Del resto è quello che ha chiesto l’Europa ancora quest’anno. La Commissione europea nel report sul nostro Paese consiglia di «ridurre la complessità del sistema fiscale». «Nonostante la revisione annuale – conclude la Commissione – non vi sono ancora piani per ridurne il numero e la portata». E punta il dito, soprattutto, sull’Iva agevolata: «Le entrate generate dall’Iva sono relativamente basse, pari al 14,9 % del gettito fiscale complessivo nel 2017, rispetto al 18,1 % per l’UE». Colpa dell’«ampio ricorso alle aliquote ridotte dell’Iva».Fin dal 2015 il Governo aveva messo per iscritto di voler riformare questa Babele, ed aveva creato una Commissione dedicata. Bene, sono passati quattro Governi, nulla è successo, e ora siamo al quarto rapporto, che sarà noto nei prossimi giorni. Il governo Conte ha previsto i primi tagli. Come quelli per i contribuenti che guadagnano da 120 mila euro in su: 302 mila persone, che versano il 18% dell’Irpef netta. Per loro, dalla dichiarazione dei redditi 2021, tutte le detrazioni fiscali al 19%, tranne quelle relative alle spese sanitarie e ai mutui sulla prima casa, saranno progressivamente ridotte fino a scomparire oltre i 240 mila euro. Poca cosa. Certo, modificare un sistema incrostato non è facile. Per le tasse locali bisogna sedersi al tavolo con Regioni e Comuni, mentre muovere qualcosa a livello nazionale significa indispettire tante categorie, con quel che ne consegue. E così non si liberano mai risorse a favore di investimenti strutturali necessari ad innescare la crescita economica di cui abbiamo tanto bisogno. Alla fine la ragion di Stato cede il passo alla ragion di consenso.
Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia il 4 novembre 2019. Caro Dago, ma è possibile che le Ferrovie dello Stato prevedano una sala vip dove i viaggiatori i più fedeli possono entrare, sedersi, arraffare una bottiglietta d’acqua minerale, eventualmente scambiare qualche chiacchiere con le gentili hostess del posto e che niente del genere lo preveda l’Agenzia delle Entrate a favore di noi contribuenti vip che paghiamo la grandissima parte del carico fiscale complessivo? Pagare le tasse è un dovere repubblicano, ci mancherebbe altro, epperò è anche un supplizio burocratico che andrebbe alleviato al possibile. Io pago un commercialista, e ci mancherebbe altro. Solo che quello è il meno, il maximum è il mese del mio tempo all’anno che mi costa il trattamento infinito delle varie scartoffie fiscali. Un mese intero della mia vita. Quanto vale un mese di lavoro di una escort o di un ingegnere aeronautico, scegliete voi. Sapete tutti che tra novembre e dicembre per il contribuente fiscale onesto è una via crucis peggio che sul Golgota. Cinque o sei scadenze fiscali, scartoffie a mucchi, F24 da pagare talmente complessi che può accadere – a me è successo – che il collegamento via internet con la mia banca cada perché c’ero stato troppo tempo. Peggio ancora stamane. Ho da prenotare il pagamento del rateo Iva del 18 novembre, un F24 che mi ha predisposto il mio commercialista. Mi collego via internet con la mia banca, mi chiede i vari codici di accesso uno dopo l’altro, supero i vari passaggi finché non mi chiede un ultimo e suggellante codice. Lo trascrivo da una macchinetta che mi ha dato la mia banca. Codice sbagliato. Lo trascrivo una seconda, una terza, una quarta, una quinta volta. Tutti sbagliati. A questo punto il mio conto corrente è bloccato. Faccio il numero telefonico speciale a chiedere assistenza tecnica alla mia banca. Sbaglio una prima volta un codice, poi finalmente dall’altro capo del telefono ho una voce amica. Mi fa fare un certo numero di passaggi, poi arriva il momento del codice da estrarre dalla diabolica macchinetta. Niente, non viene riconosciuto. La voce amica mi dice che si rivolgerà al direttore della mia banca che risolverà di certo il problema. Nel frattempo ho buttato via due ore della mia vita. Quanto valgono due ore di una escort o di un ingegnere aeronautico? E se invece ci fosse un ufficio vip all’Agenzia delle Entrate dove tu possa andare e in tutta calma riempire tutto l’anno gli F24 e pur di ridurre al minimo le scartoffie e gli ingorghi burocratici? Non che io voglia anche una bottiglietta di acqua minerale, no. Voglio solo che non mi vengano rapinate ore e ore della mia vita di contribuente onesto.
Ps. Ho riprovato ancora. La macchinetta questa volta non mi ha fatto scherzi. Ho prenotato il pagamento. Due ore della mia vita buttate. Giampiero Mughini
Daniele Autieri per “la Repubblica - Roma” il 3 novembre 2019. Il "nero" ha i giorni contati. Promessa del governo che cade su Roma come il peggiore degli anatemi. L'arma del Pos obbligatorio brandita come strumento per azzerare l' evasione nel commercio si infrange sulla trincea della capitale, porto franco degli scontrini fiscali, dove " er cash" non è solo un modello di pagamento, ma uno stile di vita tanto da valere per molti addirittura il privilegio di un soprannome. La nostra prova inizia di mattina presto in edicola. Chiediamo un quotidiano mostrando il bancomat. « Si può pagare anche così, giusto?». L' esercente sbuffa e se la prende con il giornale che stiamo comprando. «L' hai letta qua sopra, ' sta cretinata?». In effetti l' impianto previsto dalla legge prevede il pagamento con il pos per qualunque cifra, accompagnato da un premio per i più virtuosi. Quando lo ricordiamo, il tizio sorride e sottolinea: «Sai quanti governi cadranno prima che approvino quella legge?». Meglio non rispondere e riparare altrove. Uno dei grandi magazzini che punteggiano il grande raccordo anulare. I grandi marchi, forse per politiche internazionali, non possono fare altrimenti, e le cassiere accettano il bancomat anche solo per pochi euro. Una di loro, addirittura, chiede un documento di identità. Forse troppo. Torniamo in città e passiamo in rassegna gli avamposti del "cash": empori gestiti da stranieri, piccoli bar, bancarelle. A tutti chiediamo lo stesso: un pacchetto di gomme da masticare, un caffè, al massimo una lampadina, incassando un arcobaleno di riposte colorite, che vanno da « pagamento Pos solo oltre dieci euro» al « chi te ce manna? ». «Pagare tutti, pagare meno » , proviamo a spiegare, ma la favoletta della buonanotte non funziona quasi mai. A Cavalleggeri, in uno dei ristoranti fronte Cupola dotati di butta- dentro, il gestore molla la cassa e si lascia andare. « Se vuoi scrivilo - dice sfidando - ma se io faccio gli scontrini a tutti, 'sto locale chiude dopo due mesi». Calcolatrice alla mano, ripassa uno per uno i costi del ristorante e alla fine i numeri non tornano perché le tasse pesano come un macigno. « E poi - aggiunge - non è sempre detto che i cittadini vogliano pagare con la carta » . La prova delle sue parole arriva dagli uffici del XV municipio, in piazza Saxa Rubra, dove nelle scorse settimane sono state registrate lamentele dei cittadini obbligati a pagare con il bancomat per ottenere lo stato di famiglia. « Ci vuole più tempo - hanno protestato in molti - oltre al sovra- costo rappresentato dalle commissioni». Proprio le commissioni sembrano essere il nemico numero uno del bancomat. Lo ripetono quasi tutti i tassisti che incontriamo, da piazza Venezia alla stazione Termini. La maggior parte dice di avere il Pos rotto, qualcuno ammette di non averlo, in tanti scrollano il capo senza dare spiegazioni e passano la patata bollente al taxi successivo. Il bancomat diventa utile solo agli Atm, per prendere denaro contante che nella capitale ormai scorre a fiumi. E non stupisce che una parte di quei soldi vada ad alimentare l' economia irregolare, in particolare l' evasione fiscale. Un dubbio che porta dritto al 12 ottobre scorso quando all' aeroporto di Fiumicino sono stati fermati tre quarantenni cinesi che avevano imbarcato 2,8 milioni di euro in contante avvolti in carta di giornale. Dal gennaio al settembre del 2019 a Fiumicino sono stati fermati 500 corrieri, la maggior parte dei quali sorpresi con somme che variano dai 50 ai 100mila euro. La cronaca, purtroppo, dice spesso la verità. E nel caso " der cash" non sarà forse vero che dietro lo spauracchio della commissione da pagare si celi la paura di dover celebrare una volta per tutte il funerale del "nero"? Che riposi in pace.
Estratto dell’articolo di Daniele Capezzone per “la Verità”, pubblicato da startmag.it l'1 novembre 2019. Con sprezzo del ridicolo, due giorni fa il Corriere della Sera ha titolato: “Meno tasse nella manovra”. Ecco invece, nei suoi capitoli più gravi e rilevanti, il diluvio fiscale contenuto nell’ultima versione della legge di bilancio. Autentica mazzata contro le auto aziendali in fringe benefit: lo sconto al 30% del valore di automobili e moto concesse in uso cosiddetto “promiscuo”, che ora vale per tutti i dipendenti, con la nuova legge di bilancio resterà limitato ai soli agenti e rappresentanti di commercio. Per tutti gli altri, i mezzi in fringe benefit saranno calcolati a valore integrale. Come nella vituperata Prima Repubblica, non manca il solito aumento sulle sigarette. L’aumento è di 5 euro al chilo dell’accisa minima sui tabacchi lavorati. Salve solo (per ora) le sigarette elettroniche. Si aggiunge pure una novità: una tassa su cartine e filtri per le sigarette da arrotolare (0,005 euro su ogni pezzo contenuto nelle confezioni). Tanto tuonò, che piovve. Dopo il dibattito innescato dal ministro Lorenzo Fioramonti, arriva l’imposta sul consumo di bevande con zuccheri aggiunti. Entità? Dice la bozza della manovra: “Euro 10,00 per ettolitro, per i prodotti finiti; di euro 0,25 per chilogrammo, per i prodotti predisposti ad essere utilizzati previa diluizione”. Una specie di Iva aggiuntiva, in altre parole, inevitabilmente destinata a scaricarsi sui prezzi finali al consumo. Chi si salva? La tassa “non si applica alle bevande edulcorate cedute direttamente dal fabbricante nazionale per il consumo in altri paesi dell’Ue ovvero destinate, dallo stesso soggetto, ad essere esportate”. Esenti anche le bevande a bassissimo contenuto edulcorante. Destinata a “cubare” più di un miliardo, e a sua volta a riverberarsi pesantemente sul consumatore, arriva la plastic tax, che colpirà i cosiddetti “manufatti a impiego singolo con funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di merci o di prodotti alimentari”. Entità? 1 euro per chilogrammo di materia plastica. Da segnalare il tentativo in extremis, capofila il ministro Sergio Costa, di esentare le plastiche compostabili. Paradossi green: tasseranno pure ciò che è riciclabile? Come si temeva, e come aveva denunciato il presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa, scatta l’unificazione delle due imposte, ma senza riduzione. Anzi: c’è il rischio di un aumento silenzioso, nel momento in cui si fissa un’aliquota dell’8,6 per mille. Finora, infatti, c’era un 7,6 di Imu e un 1 di Tasi, ma alcuni Comuni non applicavano la Tasi. Il rischio di un peggioramento di trattamento per alcuni è dunque concreto. Confedilizia continua inoltre a sottolineare il fatto che, mentre tutti si riempiono la bocca parlando di service tax, è paradossalmente sparito qualunque riferimento ai servizi, inchiodando l’Imu-Tasi a una natura di piena patrimoniale. Resta infine l’ultima osservazione critica di Giorgio Spaziani Testa: per una complicata questione tecnica, che si trascina da anni, gli immobili di Roma, Milano e altre città si ritrovano con una imposizione maggiore. Nella relazione tecnica, si legge testualmente un incredibile passaggio improntato al pregiudizio di classe contro i commercianti e i lavoratori autonomi: “L’aumento di pena funge da monito e deterrente ad un comportamento illecito, diffuso in alcune categorie del settore del commercio”. Il governo sembra incredibilmente considerare alcuni alla stregua di evasori “a prescindere”.
Pd e 5 Stelle danno spiccioli a pensionati e disabili, ma ecco quanti euro ricevono gli immigrati. Giuliano Zulin su Libero Quotidiano il 2 Novembre 2019. Nella bozza della legge di bilancio c'è un articolo che recita più o meno così: è istituito un "Fondo per la disabilità e la non autosufficienza". Dotazione: 50 milioni di euro per l' anno 2020, 200 milioni per il 2021, 300 milioni annui a decorrere dall' anno 2022. Un po' poco, no? Non si capisce se questa somma sarà aggiunta al Fondo nazionale per l' autosufficienza, in carico al ministero del Lavoro, che ormai vale sui 550 milioni annui. Tanti? Mica tanto... Dobbiamo sapere che in Italia le persone disabili, che faticano a muoversi, sono milioni. C' è chi, come Istat, sostiene che siano oltre 10 milioni, tuttavia i dati sono vecchi. Il problema è che manca un' anagrafe dei disabili. Follia. I dati più verosimili comunque sostengono che i disabili siano 3,2 milioni. Dei quali circa 2 milioni godono, si fa per dire, di assegni di invalidità o pensione di accompagnamento. Neanche mille euro al mese, insufficienti per campare come Dio comanda. C' è però un milione di malati gravi, gran parte al Sud, sprovvisti anche di un sostegno pubblico. Poveri e disperati, insomma. Com' è possibile che nel 2019, con un avanzamento costante della qualità della vita in Italia, i politici abbiano lasciato indietro i più bisognosi?
Se sommiamo i fondi, futuri e attuali, in favore della non autosufficienza, otteniamo circa 600 milioni l' anno.
Dividiamo ora questa cifra per 3 milioni di non deambulanti. Scopriamo che per ogni disabile lo Stato destina appena 54 centesimi al giorno. Cosa compri con mezzo euro in una giornata? Forse una bottiglietta d' acqua al supermercato? E mangiare? Spostarsi, vestirsi, divertirsi (già, perché essere impossibilitato a camminare non deve significare vivere una vita triste)? Per tutto questo ci pensano i familiari dei diversamente abili. Ci sono 6-7 milioni di persone costrette a rinunciare al lavoro pur di accudire il proprio caro.
Danno fondo ai risparmi di una vita per garantire un' esistenza degna di questo nome.
Che nervoso... C' è da incazzarsi se pensiamo invece a quanto spende lo Stato per altre categorie, senz' altro bisognose, ma mai quanto una persona in carrozzina. Pensiamo al reddito di cittadinanza. Pochi giorni fa l' Inps, che dovrebbe occuparsi di pensioni, invece gira le città a caccia di senza tetto cui offrire il sussidio tanto caro a M5S, ha comunicato che i percettori dell' obolo voluto a tutti i costi da Gigino Di Maio sono quasi un milione. In media ogni famiglia di presunti indigenti incassa 482,3 euro al mese. In pratica 16 euro al giorno.
Capite? Ai disabili arrivano poco più di 50 centesimi al giorno per campare, mentre ai redditisti di cittadinanza ben 16 euro al dì. Un' ingiustizia per due motivi:
1) parecchi non autosufficienti nella vita avranno magari lavorato e ora lo Stato fa loro l' elemosina, senza riconoscere il loro valore socio-economico all' interno della comunità.
2) I quattrini - altro debito pubblico - che servono per sostenere il reddito di cittadinanza non producono consumi. Sono letteralmente buttati. Nessuna famiglia con un disabile a carico, tra l' altro, ha potuto ottenere il sussidio perché l'accompagnatoria o l'invalidità fanno reddito. Per cui gli invalidi sono considerati ricchi - pazzesco - mentre spacciatori, usurai, contrabbandieri, lavoratori in nero hanno finora incassato alla faccia dei contribuenti che versano l' Irpef fino all' ultimo centesimo.
Al peggio però non c' è fine. Se infatti paragoniamo i fondi destinati ai disabili con quelli riferiti all' accoglienza è difficile non perdere la pazienza. Ovvio che un profugo, che scappa dalla guerra o dalle segregazioni, ha diritto a qualsiasi aiuto possibile.
Però nei centri italiani è pieno di cosiddetti richiedenti asilo. Gente che è sbarcata, non fuggiva da conflitti, però supplica di rimanere qui, poiché nel nostro Paese si sta da principe. La sinistra destinava i famosi 35 euro al giorno per migrante. Cifra che, grazie a Salvini, è scesa poco sopra i 20 facendo infuriare le cooperative dell' accoglienza, vescovi e sinistra. Ma parliamo pur sempre di 21-22 euro al dì, contro i 16 che portano a casa i percettori di reddito di cittadinanza e ai miseri 50 centesimi destinati ai disabili. Che Paese è questo? Prima gli abusivi, poi gli italiani? Poveri noi...di Giuliano Zulin
Boschi ora attacca il Pd: "È il partito delle tasse". I dem: "Scivolata infelice". Il partito "delle tasse e delle tessere": dalla Leopolda parte il cannoneggiamento contro il Partito democratico. Luisa De Montis, Sabato 19/10/2019, su Il Giornale. Il partito "delle tasse e delle tessere": dalla Leopolda parte il cannoneggiamento contro il Partito democratico, la casa madre che Matteo Renzi ha ripudiato e che oggi è dipinta come il partito dei vizi da Prima Repubblica. Ma dal Pd la risposta è secca, dura e materializza lo spettro del voto: se Renzi e il suo partito deve "distruggere per esistere, il viaggio del Titanic è appena cominciato". Ad aprire il fuoco, politicamente parlando, è l'ex premier dal palco, infilando in mezzo al programma dei lavori ella seconda giornata di lavori, quella dedicata alla presentazione del simbolo e all'apertura delle iscrizioni, un affondo: "Le iscrizioni a Italia Viva saranno solo online, mai più signori delle tessere, ciao ciao correnti". Il Partito democratico non è citato, naturalmente, ma è a chiaro a tutti che il messaggio è diretto ai dem e la platea si scalda, contagiata dal fervore iconoclasta del fondatore. "Italia Viva sarà il primo partito de-correntizzato", tuona Renzi con un riferimento che sembra diretto a chi, prima della scissione, parlava della necessità di un Pd "de-renzizzato". Ma l'attacco più duro arriva dalla capogruppo di Italia Viva alla Camera, Maria Elena Boschi, di casa alla Leopolda come e forse più di Matteo Renzi. "Il Partito democratico sta diventando sempre di più il partito delle tasse. Noi non lo siamo", dice. Il riferimento è al braccio di ferro avviato dai renziani su Quota 100 e, da oggi, anche su altri punti della manovra come la sugar tax sulla quale Renzi e compagni annunciano emendamenti in Parlamento. Un braccio di ferro che coinvolge direttamente il premier Giuseppe Conte, impegnato su due diversi tavoli: quello di Quota 100 contro Renzi e quello del regime forfettario sulle partite Iva, in cui Conte se la vede direttamente con Luigi Di Maio. "Maria Elena Boschi dice che il Pd è il partito delle tasse? È una caratteristica di Maria Elena Boschi e mi dispiace. Le consiglio di essere alternativa alla piazza di oggi a San Giovanni, che io rispetto e che inevitabilmente porrà dei temi. Vorrei che Maria Elena Boschi e tutti i colleghi che sono nel governo fossero alternativi a Salvini e a CasaPound: se iniziamo a darci le patenti su chi è il partito di cosa non andiamo da nessuna parte. Mi auguro che quella della Boschi sia stata solo una scivolata infelice", ha tuonato il ministro degli Affari regionali e le Autonomie Francesco Boccia a Rainews24. Il vicesegretario del Partito Democratico Andrea Orlando a “L’Intervista” di Maria Latella su Sky TG24 ha invece dichiarato: "A proposito degli attacchi di Matteo Renzi e Luigi Di Maio alla manovra questo atteggiamento rischia di non raccontare una manovra che è tutt’altro che scontata. Poteva essere una stangata per gli italiani, mentre è stato neutralizzato l’aumento dell’Iva e ci sono diverse misure di carattere sociale. Misure che vengono coperte da polemiche di cui non si comprende la ragione. Dobbiamo dire con molta franchezza ai nostri alleati che ci devono dire se è cambiato l’avviso, se in qualche modo rispetto a quaranta giorni fa si ritiene che non ci siano più le ragioni per tentare questa scommessa. Noi pensiamo che ci siano, ci fidiamo di Conte e della nostra delegazione al Governo come degli altri ministri. Se qualche elemento di fiducia è venuto meno è meglio che lo si dica”.
Teresa Bellanova "più pericolosa dei brigatisti". Travaglio, tasse e manette: "Perché deve dimettersi subito". Libero Quotidiano il 20 Ottobre 2019. Teresa Bellanova "più pericolosa dei brigatisti". Per questo, secondo Marco Travaglio, la ministra veneziana dell'Agricoltura "deve dimettersi seduta stante". L'editoriale del direttore del Fatto quotidiano tocca nuove, forse ineguagliabili vette manettare. La colpa della Bellanova, ex Pd oggi capodelegazione di Italia Viva nel governo, è quella di aver coniato alla Leopolda uno slogan ingenuotto e arruffone fin che si vuole ("Siamo il partito del No Tasse") ma in apparenza innocuo. Non per Travaglio, che lo giudica addirittura anti-costituzionale, rispolvera la massima dell'ex ministro prodiano all'Economia Padoa Schioppa ("Le tasse sono una cosa bellissima"), ricorda alla Bellanova che è con le tasse che le paghiamo "l'auto blu e la scuola per il figlio) e ripete il refrain abusato dei condoni. Per poi finire in gloria: "I No Tasse, se stanno al governo, sono più pericolosi dei brigatisti" e la ministra renziana deve lasciare "non per come veste o quanto pesa, ma per quello che pensa e quello che dice". Reato di opinione fiscale.
Evasione fiscale in Italia: dove, come e quanto: numeri. I dati riportati da Istat parlano chiaro: l'evasione fiscale nel nostro Paese vale il 12% del PIL, più di 100 miliardi di euro. Panorama il 18 ottobre 2019. Commercio all'ingrosso e al dettaglio, ristorazione, servizi alla persona, lavoro in nero o clandestino. Sono queste le categorie azioniste di maggioranza di quei 211 miliardi di euro di evasione fiscale in Italia: il 12% del PIL nazionale.
Il rapport Istat. I dati arrivano dall'Istat e sono contenuti nel rapporto sull'economia non osservata e sull'evasione fiscale e contributiva, che accompagna la Nadef (Nota di aggiornamento al Def). L'economia italiana non osservata - vale a dire l'indotto derivato da attività clandestine, illegali o informali - è in crescita dell'1,5%.
Chi evade e quanto. I lavoratori autonomi (e le imprese autonome) sono i maggiori evasori: solo nel 2017 sono riusciti a non versare il 69,6% dell'Irpef, pari a 32,1 miliardi di euro, raggiungendo il record degli ultimi sei anni. Su 46,1 miliardi di euro d'imposta, spiega Adnkronos, nelle casse dello Stato ne sono entrati soltanto 14. Del resto, come emerso dalla relazione della Commissione UE sui pagamenti dell'imposta sul valore aggiunto, l'Italia è il paese dove si paga di meno l'IVA e, da solo in nostro Paese, copre il 25% dell'intero evaso comunitario con un buco di 33,5 miliardi di euro.
I settori con il maggior tasso di evasione. Secondo quanto riposta l'Istituto nazionale di statistica, inoltre, il 41,7% del sommerso economico si concentra nel settore del commercio all'ingrosso e al dettaglio, trasporti e magazzinaggio, attività di alloggio e ristorazione, dove si genera il 21,4% del valore aggiunto totale. Il vero problema in Italia, però, resta il lavoro in nero. Nel 2017 - riporta Istat - 3,7 milioni di persone hanno lavorato senza avere un contratto regolare con una crescita dello 0,7% rispetto all'anno precedente. Secondo il presidente Istat Gian Carlo Blangiardo in audizione nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato: "La persistenza di elevati livelli di evasione fiscale e contributiva rappresenta un problema per il rafforzamento della capacità competitiva e di crescita del nostro Paese".
Il nodo donne e meridione. Le maggiori criticità evidenziate da Istat riguardano le donne e il mezzogiorno. "In dieci anni - commenta Istat - la quota di donne tra gli occupati è passata dal 40,1 al 42,1%. Le donne occupate sono aumentate di circa mezzo milione (+5,4%), valore che sintetizza una dinamica stagnante negli anni della crisi (6 mila; +0,1% tra il 2008 e il 2013) e un deciso aumento tra il 2013 e il 2018 (492 mila; +5,3%). Ciononostante, nel nostro Paese, ancora solo il 56,2% delle donne partecipa al mercato del lavoro e il tasso di occupazione non supera il 50%. Si tratta dei valori tra i più bassi, insieme a quelli della Grecia, tra i paesi dell’Unione europea dove il tasso di attività è pari al 68,3% e quello di occupazione al 63,4%". Non solo, dalla relazione emerge anche che: "Il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 49 senza figli e quello delle donne nella stessa fascia di età con figli non supera il 74%, valore tra l’altro in discesa negli ultimi 3 anni dopo il picco di quasi il 78% raggiunto nel 2015. Inoltre, tra il 2013 e il 2018 per le donne con figli tra 0 e 2 anni si è stimato un sostanziale arretramento nel tasso di occupazione (-5,1 punti per le donne in un nucleo monogenitore e -1,3 per le madri in coppia)". Il Governo Conte bis ha giurato lotta senza quartiere all'evasione fiscale tramite la lotteria degli scontrini e gli incentivi a chi usa il bancomat. Euro su euro l'esecutivo scommette di riuscire, con le sue trovate, a rientrare nei 211 miliardi di euro di sommerso.
Luigi Grassia per “la Stampa” il 17 ottobre 2019. I numeri sulla diffusione dei Pos in Italia non tornano. O almeno così sembra. In teoria i dispositivi di pagamento dovrebbero già ricoprire tutta la platea di commercianti, artigiani e liberi professionisti, e invece si nota una discrepanza fra il conteggio effettivo e i potenziali fruitori. Attenzione: non è detto che il divario segnali necessariamente che qualcosa non va, e infatti le associazioni di categoria affermano che parecchie esenzioni sono giustificate, e che le cifre possono ingannare. Comunque è il caso di ragionarci sopra. In via preliminare va osservato che saranno sanzionati i lavoratori autonomi che non offrono ai clienti la possibilità di pagare col Pos (un po' più di 30 euro per ogni violazione) ma queste multe scatteranno solo nel 2021. In contemporanea verrà realizzata l' operazione di «cashback», cioè la restituzione di una parte dei soldi spesi, per premiare i consumatori che avranno usato i pagamenti elettronici invece del contante. Insomma il 2020 sarà un anno di transizione. A essere cinici, il governo giallorosso entro il 2021 farà in tempo a cadere, e tutto il discorso potrebbe essere azzerato. Ma guardiamo come stanno le cose ora. La fotografia più aggiornata dei Pos è del 22 maggio scorso, l' ha scattata la Banca d' Italia ed è il rapporto «Sistema dei pagamenti». Vi si legge che i Pos attivi nel 2018 erano 3 milioni e 100 mila collegati ai circuiti bancari, più 80 mila collegati alle Poste. Bisognerebbe anche sommare i circuiti indipendenti, ad esempio SumUp, che comunque non cambiano di molto (per adesso) il totale. I 3,2 milioni di Pos complessivi censiti da Bankitalia sono una bella cifra, però non altissima considerando il numero dei lavoratori autonomi. E qui nasce un possibile problema.
Esenzioni giustificate. Nello stesso anno 2018, secondo l' Osservatorio sui lavoratori autonomi, risultavano iscritti all' Inps 1.657.591 artigiani e 2.199.462 commercianti, cioè nel complesso, arrotondando, 3 milioni e 800 mila. Invece i Pos non arrivano a 3 milioni e 200 mila. La discrepanza aumenta se al totale dei lavoratori autonomi si aggiungono i liberi professionisti, come medici, avvocati eccetera; il numero di costoro non è altissimo (è nell' ordine delle migliaia e non dei milioni), ma siccome nel calderone dei liberi professionisti rientra anche il cosiddetto popolo delle partite Iva, compresi molti lavoratori dipendenti mascherati da autonomi, si sale alla bella cifra di un milione e 100 mila persone, e le proporzioni fra Pos effettivi e potenziali si alterano: a fronte di 3,2 milioni di Pos attivi in Italia abbiamo 4,9 milioni di autonomi che dovrebbero metterli a disposizione. Quindi, a prima vista mancherebbero all' appello addirittura 1,7 milioni di dispositivi elettronici di pagamento. Invece le associazioni di categoria dicono che la corsa a installare nuovi Pos non ci sarà, perché i loro iscritti (grosso modo) si sono già adeguati. In particolare, la Cgia di Mestre rileva che a ogni posizione presso l' Inps non corrisponde affatto un lavoratore che deve dotarsi di Pos; l' obbligo è commisurato al numero di aziende o siti di lavoro, e non al numero dei lavoratori autonomi che vi operano. L' obiezione è corretta, ma potrebbe anche essere ribaltata: ci saranno parecchie aziende in cui un solo lavoratore autonomo, il titolare, dovrà dotare di tanti Pos i suoi numerosi dipendenti, per esempio gli elettricisti o i tecnici delle caldaie che vanno in giro ognuno per conto suo. Comunque tenendo conto dell' obiezione della Cgia gli artigiani scenderebbero a 1,3 milioni e i commercianti allo stesso numero; facendo la somma coi liberi professionisti si arriva a 3,7 milioni. La differenza con i 3,2 milioni di Pos si riduce così a 500 mila, da cui però, sempre secondo la Cgia di Mestre, andrebbero tolti gli artigiani che non hanno rapporti coi clienti finali o non devono essere pagati «brevi manu», come gli autotrasportatori e chi opera nell' edilizia; alla luce di queste considerazioni il divario fra Pos attivi e potenziali potrebbe quasi annullarsi.
Marco Gervasoni per “il Giornale” il 18 ottobre 2019. Non sappiamo se sia uno scherzo (Halloween si avvicina). Ma certo, a proposito di Halloween, ci pare mostruosa la proposta del governo di multare gli esercenti restii a dotarsi di bancomat o carta di credito. Premetto che in genere circolo con poco contante e che mi irrita quando accade di non potere utilizzare carte in un negozio. Ma è anche vero, come sanno i lettori, che si tratta ormai di casi sporadici. E poi, dopo avere sentito le lamentele dei negozianti per gli esosi canoni applicati dai circuiti bancari alle transizioni, sono diventato più tollerante. Anche perché negli ultimi tempi mi è capitato più spesso all' estero che in Italia di non potere pagare con carta. E allora, perché da parte del governo prendersela con una quantità marginale di commercianti? La motivazione ufficiale è quella, ancora una volta, di colpire l' evasione. Ma qui si colpisce solo il buon senso. In realtà prendere di mira una ridotta porzione di commercio serve al governo (colpirne uno, educarne cento) per mostrare la propria concezione del fisco. Una concezione etica, o per meglio dire, da Stato etico, che considera l' evasione non solo un reato ma un colpa infamante, roba da utilizzare la gogna, ma che dico la gogna, la garrota. Sembra infatti che per il governo tassare non sia concepito come uno scambio tra imposte e servizi ma come un gesto educativo, un atto pedagogico, un modo per migliorare il carattere ricurvo degli italiani. Da qui anche l' insistenza sul carcere agli evasori, che non ha alcun effetto reale sulla prevenzione dei reati. Con la multa ai negozianti fissati sul contante si arriva però al sublime della multa etica. In genere una multa è una sanzione per un atto che può danneggiare il prossimo (ad esempio l' eccesso di velocità). Ora quali danni può commettere un negoziante privo di bancomat? Al limite saranno i clienti a punirlo, servendosi da altri. E invece no, qui da noi non dev' essere il mercato a regolare ma lo Stato a imporre. E poi quale concezione della libertà, e non solo di quella economica, tradisce una decisione come questa? Non sarà libero un commerciante di farsi pagare come vuole, una volta rispettate le norme fiscali? Per il governo evidentemente ogni commerciante è potenzialmente un evasore. E se finirà sul lastrico anche per colpa di misure come queste, poco male, c' è sempre il reddito di cittadinanza: elargito, ovvio, dallo Stato etico.
Da liberoquotidiano.it il 17 ottobre 2019. Show di Vittorio Sgarbi da Myrta Merlino a L'aria che tira su La7: "L'evasore è un patriota, che difende la sua attività e il suo Paese, arrestiamo Luigi Di Maio e Giuseppe Conte che non lavorano e distruggono l'Italia", sbotta il critico d'arte: "Se tu arresti gli evasori questi non lavoreranno più quindi non pagheranno più neanche quel poco che pagavano". "Per cui è bene non arrestarli ma farli lavorare di più", sottolinea Sgarbi. Che quindi attacca il capo politico dei Cinque Stelle: "Soltanto un cretino dà dei soldi ben guadagnati a uno Stato in mano a disperati e incapaci che li buttano per gente che non ha mai lavorato come Di Maio". Un discorso che lascia sconcertata la Merlino che poi però capisce il senso delle parole di Sgarbi. Secondo il quale è meglio nella logica di un imprenditore e nel bene della collettività che una persona che ha una attività piuttosto che dare i soldi a uno Stato che non li sa gestire assuma tre persone.
C’è un solo modo per punire l’evasore fiscale: non la galera ma assicurando un guadagno. Pietro Di Muccio il 18 ottobre 2019 su Il Dubbio. Rappresentano dei disincentivi: il basso pericolo d’essere scoperti, la sanzione non troppo dura da sopportare e l’aspettativa che I tributi verranno diluiti o condonati. Come scrisse crudamente Lord Acton, “la corruzione è molto meglio che la ruota per la tortura, lo schiacciapollici o lo stringicaviglie, ma tende ad un esito simile. Mina la libertà”. Le leggi, infatti, per quanto ne vengano emanate di improvvide, sono pur sempre basate sui presupposti del diritto, espressi in modo insuperato dal giureconsulto Ulpiano: “Honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere’. Tra le singolari stranezze della società italiana annoveriamo la diffusa convinzione che l’evasore fiscale non sia altro che un furbo connaturato od occasionale, renitente a versare i tributi allo Stato. E poiché siamo un popolo che apprezza non poco la scaltrezza, l’evasore è circondato, sotto sotto, da una certa qual ammirazione dei concittadini, larvata e no, per non dire dell’invidia e della simpatia. Ne è prova il fatto, sottolineato con arguzia da Ernesto Galli della Loggia, secondo cui “la società italiana non sanziona né i corrotti né i corruttori con alcun discredito pubblico, con alcuna messa al bando sociale”. Ecco il punto, troppo trascurato: l’evasore appartiene di pieno diritto alla categoria dei corruttori. Non è soltanto un semplice contribuente inadempiente all’obbligo fiscale e un ladro che ruba ai concittadini per contro paganti in sua vece i servizi pubblici da lui goduti: bensì pure, e di più, un pernicioso e subdolo corruttore della società. E’ molto facile, nonché politicamente correttissimo, gridare “Dagli all’evasore!” Difficile è passare ai fatti. Il primo basilare incentivo all’onestà fiscale sta nelle aliquote ragionevoli. Se la percentuale da versare all’erario è così alta da rendere conveniente l’evasione, la battaglia è persa in partenza. Se il pericolo d’essere scoperti è tanto basso che ad evadere si rischia quasi nulla, è meglio lasciar perdere. Se la sanzione non è poi nemmeno troppo dura da sopportare, la causa è senza speranza. Se infine sussiste la ben fondata aspettativa che i tributi verranno diluiti o condonati, la rassegnazione è d’obbligo. Lo Stato carica il somaro del contribuente di un pesante basto meravigliandosi che scalci per scrollarselo di dosso. L’evasione trattata soltanto come una violazione dei doveri tributari svuota l’eguaglianza dei cittadini, perché l’evasore parziale o totale gode di un vero e proprio privilegio. Per lui, è come se la legge fosse più favorevole. Infatti lo discrimina a svantaggio degli altri contribuenti pur nelle medesime condizioni. Alla lunga, uno Stato in cui l’evasione è consistente e generalizzata perde autorità, legittimità, credibilità. Istituisce un sistema viziato di democrazia parlamentare perché ammette di fatto una rappresentanza senza tassazione ( representation without taxation!), una disuguaglianza senza giustificazione, una frode senza punizione, un arricchimento per demerito, lo sfruttamento del reato. A misura che l’evasione diviene di dominio pubblico perché cade sotto gli occhi di tutti e i contribuenti infedeli se ne fanno testimoni sfacciati anziché vergognarsene con ritegno, essa fomenta ed accresce il rancore degli onesti contro lo Stato che spreme severamente i rispettosi delle leggi sulla tassazione mentre chi se ne fa beffe non può proprio dirsi, né in effetti è, un perseguitato. E di norma neppure perseguito. L’evasore fiscale, al dunque, costituisce la perfetta antitesi dei principi di Ulpiano: egli è un disonesto che danneggia la collettività negandole il dovuto. Pertanto, poiché gli effetti indiretti ( etici e giuridici) dell’evasione superano di gran lunga i veri e propri effetti fiscali, non è sufficiente che lo Stato si adoperi per recuperare i tributi evasi ma, nel riscuoterli, consegua pure il superiore obiettivo di sviluppare la morale comunitaria e l’adesione civile allo Stato di diritto rettamente inteso. Assodato e concesso tutto questo, è indubitabile che la democrazia rappresentativa, essendo nata sulle tasse, non può appagarsi di spremerle con la minaccia della galera, agitando le manette agli evasori che, ovviamente, sono più sensibili al tornaconto economico personale che timorosi di improbabili, seppur gravi, sanzioni carcerarie. La carota degli incentivi davanti all’asino del contribuente serve a condurlo all’onestà fiscale molto più delle bastonate solo comminate da punizioni spaventose sulla carta, non irrogate nella realtà. Il criterio deve essere questo: “A non evadere si guadagna” anziché “Ad evadere si va in prigione”. La democrazia rappresentativa non ha un “diritto assoluto” di pretendere tributi comunque, senza limiti e condizioni. Neppure ha il potere di incamerarli terrorizzando i contribuenti o sottoponendoli a costrizioni, oppressioni, vessazioni. La democrazia non consiste soltanto nell’esercitare il potere di tassare e spendere, avendo purtroppo fallito lo scopo di limitarlo, ma anche, appunto e soprattutto, nell’educare ad esercitarlo, specialmente se è vero, com’è vero, che i tributi sono ciò che paghiamo per civilizzare la società, in ogni senso. Lo Stato, esibendo la faccia feroce, si beffa dell’inappellabile sentenza di Adam Smith: “Un’imposta sconsiderata è una grande tentazione all’evasione. La legge, contrariamente a tutti i comuni principi di giustizia, crea prima la tentazione e poi punisce coloro che cedono ad essa.”
Los Angeles, lavori forzati per chi evade le multe, l’alternativa è la prigione. Alessandro Fioroni il 18 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Los Angeles polemiche sulla schiavitù imposta a chi non paga multe o tasse. Sono oltre 100mila le persone assegnate ai “servizi per la comunità”, in gran parte neri e poveri. Una ricerca Ucla: «è puro schiavismo». Otto milioni di ore di lavoro non retribuito in un anno, l’equivalente di 4.900 posti di lavoro salariato. Agenzie governative che possono contare su circa tre milioni di ore di servizi di vario genere gratuiti, sostituendo 1.800 posti di lavoro. Sono le cifre da capogiro che riguardano la municipalità di Los Angeles dove i tribunali, in maniera sempre più ampia, ricorrono al lavoro coatto al posto della carcerazione. L’università californiana Ucla ha pubblicato mercoledì scorso i risultati di un’indagine che ha messo in luce aspetti inquietanti. Attualmente sono almeno 100mila le persone condannate a svolgere i cosiddetti “servizi per la comunità”, a questo vero e proprio sistema sono interessati molti dipartimenti governativi e organizzazioni no profit. Lo studio, ripreso anche dal quotidiano britannico Guardian, parla espressamente di sfruttamento e «furto di salario» al quale sono sottoposti principalmente persone con problemi di debiti ( multe automobilistiche, tasse e contenziosi economici con lo Stato, assegni di mantenimento non pagati) e in larga parte ( 89%) appartenenti alla comunità nera, tanto da far parlare di «profilazione razziale». Succede poi che in molti non riescono a completare il lavoro entro le scadenze imposte dai tribunali e un condannato su cinque alla fine incorre nel reato di violazione della libertà vigilata finendo comunque in cella in una sorta di “doppia pena”. Quella che doveva essere un’alternativa alla prigione diventa praticamente una condanna a vita in cui il debito non si estingue mai.
Inoltre, rileva la ricerca dell’Ucla, aumentano le diseguaglianze e si crea «una forza lavoro non regolamentata in cui i lavoratori sono vulnerabili agli abusi». Per il professore di Diritto Noah Zatz che ha coordinato l’inchiesta: «Normalmente, è incostituzionale minacciare le persone con la prigione se non lavorano… Questo è un sistema di estrazione gestito dal governo che si rivolge a comunità di colore e comunità a basso reddito». Così nonostante esista negli Stati Uniti una corposa statistica sui sistemi di punizione ingiusti, i “servizi alla comunità” non rientrano fra questi anche perchè mancano controlli adeguati. I condannati a questo tipo di lavoro sono considerati infatti volontari ma spesso sono assegnati a posizioni accanto a lavoratori retribuiti, per lo più si tratta si tratta di occupazioni manuali come rimozione di graffiti, raccolta dei rifiuti e lavoro di pulizia in genere. Non è raro trovare queste persone in luoghi come Cal-Trans, l’agenzia di transito statale, i parchi di quartiere e i dipartimenti municipali oppure l’Esercito della Salvezza e i centri servizi della comunità locale. E talvolta, come nel caso della 24enne Silvia Lopez condannata per possesso di stupefacenti, capita anche di subire violenze mentre si stanno svolgendo i propri compiti senza nessuna forma di protezione giuridica. Secondo i dati raccolti dai ricercatori, di fronte a molestie o abusi sessuali e altre forme di maltrattamenti i lavoratori possono fare ben poco, l’alternativa tra andare in prigione o lavorare è talmente stringente da frenare le possibili denunce. Per la responsabile della ricerca legale e politica presso il Centro di lavoro Ucla, Tia Koonse, tutto ciò «ha un effetto agghiacciante se si vuol chiedere alloggio, chiedere un pasto o una pausa bagno, reclamare i propri diritti». Per adesso i portavoce dei tribunali della contea di Los Angeles hanno rifiutato di commentare quello che sta succedendo.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 19 ottobre 2019. La bozza che prevede la prigione per chi evada più di 50mila euro - legge ventilata dal ministro Bonafede e strombazzata dai soliti manettari - è un' emerita cazzata: questa la nostra libera traduzione del pensiero di Piercamillo Davigo, che giovedì sera - intervistato a Piazza Pulita, su La7 - appariva compiaciuto e muoveva gli occhietti come alla ricerca di complicità e di applausi, ma appariva più posato del solito, come a posto con se stesso. Il conduttore aveva preparato un cartello di sintesi: «Manette a chi evade più di 50mila euro». Che ne pensava, Davigo, della legge o del suo annuncio? «Intanto sono annunci sbagliati, perché, se uno ha evaso più o meno di 50mila euro, lo si sa alla fine del processo, non all'inizio; per cui, che si fa?», si è chiesto Davigo, «si cominciano i processi per quelli che sono accusati di aver evaso più di 50mila euro? O si cominciano le indagini per vedere se abbiano evaso più di 50mila?».
DUE PESI. La domanda è chiarissima, ma la risposta no: e non c'è ragione di credere che sia chiara a uno come Augusto Bonafede, che già definimmo il più ridicolo guardasigilli della storia della Repubblica. Senza contare un dettaglio: se in Italia ci sono davvero 12 milioni di evasori fiscali, ebbene, quanti milioni di processi dovremmo fare? «Qualcuno ha idea di che cosa significa come impatto sull' amministrazione giudiziaria?», ha chiesto Davigo. Insomma, queste manette si devono usare o no? La risposta è indiretta: «Non si possono usare due pesi e due misure per problemi identici. Per esempio, l' Iva è un' imposta che non appartiene e chi la incassa: la incassa per conto dello Stato chi se ne appropria, oggi, in Italia è punibile solo se lo fa per più di 250mila euro; ma se io do a lei 5 euro perché vada a comprarsi un gelato, e lei i 5 euro se li tiene, lei è punibile subito: e allora che senso ha una roba di questo genere? Le soglie lasciano già perplessi». Poi il conduttore, Corrado Formigli, ha citato un certo giustificazionismo degli italiani e la loro tendenza, non pagando o pagando solo in parte le tasse, come ad autorisarcirsi per i servizi che lo Stato non fornisce o fornisce pessimamente. E Davigo: quando visitò un penitenziario del North Carolina in cui erano rinchiusi moltissimi «colletti bianchi» - ha raccontato - la maggior parte risultava condannata a 10 o 15 anni per reati di evasione fiscale; «hanno mentito al popolo americano» gli disse il direttore del penitenziario. Ecco: chi direbbe altrettanto, in Italia? Chi direbbe che gli evasori «hanno mentito al popolo italiano?». L'evasore, da noi, è visto come un furbo, come uno che non si fa fregare o che si difende dallo Stato arraffone: non viene in mente che lo Stato siamo noi. Ma «lo Stato è l'organizzazione di un popolo sul territorio», ha precisato Davigo prima di spiegare come, da noi, la lotta all' evasione si faccia per finta. Che cosa fa, infatti, un nuovo governo? Anzitutto fa un condono - ha spiegato il magistrato - e poi fa iniziative inutili come andare a Cortina a controllare gli scontrini: tutto per erogare magari una multa di 100 euro per un caffè spendendo per l' accertamento molto più di quanto incassato. Ma «se vuoi controllare davvero», ha detto Davigo, «guardi quanto caffè il commerciante ha comprato e quanto ne ha in magazzino: il resto significa che l' ha venduto». E veniamo allo psicodramma dei contanti e all'uso del pos. Occorre punire chi non ne faccia uso? Ha senso, cioè, prevedere l' uso del pos ma non delle sanzioni per chi non lo usi? E qui la risposta di Davigo è semplicemente realista: «I vincoli o i limiti valgono poco: bisogna rendere conveniente il fare una cosa piuttosto che non farla. Se io faccio uno sconto a chi usa il pos, per esempio facendo una riduzione d' imposta a chi ce l' ha, tutti andrebbero in negozi dove c' è il pos, perché si pagherebbe di meno». Che fare, dunque? «Penso che debbano essere concentrati i controlli là dove c' è maggiore evasione, mentre in Italia si fa il contrario». Non si fa, cioè, quello che in tutto il mondo si fa nei confronti delle categorie che pagano più imposte degli altri: «L' 87% delle società di capitali, che negli altri paesi sono quelle che pagano di più, da noi dichiarano un reddito negativo o poco superiore ai 10mila euro: se fossero persone fisiche sarebbero sotto la soglia di povertà». Chi ci crede?
Carcere per gli evasori: una legge c'è già, ma non si applica. L'attuale ordinamento prevede già il carcere per i grandi evasori, peccato che i fascicoli restino in tribunale troppo a lungo. Barbara Massaro il 18 ottobre 2019 su Panorama. La legge c'è, ma non si applica. Le seppur "lodevoli" intenzioni dell'esecutivo giallo-rosso di condurre una lotta senza quartire all'evasione fiscale in Italia rischiano di finire in un nulla di fatto se a modificarsi non sono i tempi della giustizia. Risulta inutile, infatti, abbassare la soglia di punibilità penale per chi evade il Fisco facendo tremare la gambe a piccoli commercianti, autonomi e ditte a gestione famigliare se prima non mi applica una legge che c'è già e che promette di mandare in prigione i grandi evasori, il vero male di cui il nostro Paese soffre.
Cosa dice la legge. La norma è la D.lgs. 74 del 2000, modificata dal D.l. 138 del 2011 e ulteriormente ritoccata dal D.lgs. n. 158/2015 atta a reprimere i reati tributari. Il sistema vigente prevede la reclusione fino a sei anni con confisca di beni pagati con denaro la cui provenienza non è nota e provabile. Il tetto per passare da reato amministrativo a penale dipende dall'entità dell'evasione e viene valutata caso per caso in relazione al danno causato all'erario. Uno dei casi tipo che fa giurisprudenza è quello dichiarazione infedele (non fraudolenta, ma con dolo). Se l'imposta evasa supera i 150.000 euro e se i redditi non dichiarati superano il 10% del totale o in ogni caso la soglia dei 3 milioni di euro scatta il carcere da uno a tre anni. Previsto il carcere anche per omessa dichiarazione, omesso versamento Iva, emissione di fatture false, distruzione di documenti fiscali con pene che vanno dai 18 mesi ai sei anni. Si va nel penale. quindi, per le omissioni di pagamento o le violazioni relative alle imposte sui redditi (Irpef, Ires) e Iva.
Dove s'inceppa il sistema. Il sistema, però, s'inceppa perché per arrivare alla sentenza tributaria definitiva ci vogliono circa 4 anni, un tempo sufficiente per far sì che la stragrande maggioranza dei reati di questo tipo cada in prescrizione. Dati alla mano Istat ha reso noto che ogni anno più o meno 3.000 italiani ricevono condanne penali per reati fiscali, ma solo pochissimi finiscono in carcere. Al momento nelle nostre prigioni sono detenute circa 70.000 persone delle quali solo 200 condannate a causa dei guai col Fisco. Eppure, riporta Istat, solo nel 2017 su 207.000 casi passati a sentenza definitiva 3.222 riguardavano reati tributati. Ma se in prigione ci sono solo 200 persone, gli altri dove sono? Liberi. Perché la stragrande maggioranza degli evasori era stata condannata a periodi detentivi che oscillavano tra i 4 e i 6 mesi di reclusione e quindi ora che la sentenza è arrivata il periodo è già stato assolto. Nel 2014 quasi 15mila casi di evasione fiscale sono stati archiviati e nello stesso anno ne sono stati aperti quasi 23mila mentre a sentenza definitiva sono arrivati solo 3.000 casi.
Di Maio: "No alla guerra tra poveri". E sta tutto lì il gap da risolvere per poter iniziare a condurre una lotta logica contro l'evasione fiscale. La mancata applicazione della legge, infatti, non fa che favorire i furbetti consapevoli di poter evitare le meritate pene confidando nella lentezza della legge. Il proclama social del Ministro Luigi Di Maio che ha detto: "Una cosa non posso accettare: che lo Stato faccia il debole con i forti e il forte con i deboli" è sacrosanto, ma il Governo invece che aumentare le pene (fino a 8 anni di carcere) e abbassare il tetto sopra il quale si entra nel penale penalizzando i piccoli contribuenti che fanno carte false per sopravvivere dovrebbe verificare che la legge che già esiste venga applicata in tempi rapidi e in maniera efficace. Sempre il leader pentastellato ha aggiunto: "Non possiamo pensare che il simbolo dell'evasione sia, come si sta dicendo in questi giorni da alcuni media, l'elettricista, l'idraulico o il tassista. Io non ci sto a scatenare la guerra tra poveri. L'Italia ha decine di miliardi di euro di evasione perchè ci sono stati soggetti che hanno portato anche milioni di euro fuori dai nostri confini e li hanno fatti rientrare con scudi fiscali al 5%. Dobbiamo introdurre strumenti che blocchino la grande evasione".
Cosa succede nel mondo. Negli Stati Uniti, per esempio, esistono carceri riservate a chi evade in fisco e ogni anno circa 3.000 persone finiscono in penitenziario dopo un processo che al massimo dura 12 mesi. La condanna varia tra i 2 e i 3 anni, ma viene eseguita all'istante. In Spagna, al contrario, non è previsto il carcere per chi non paga le tasse se ha la fedina penale pulita ed è la prima volta che viene pizzicato, ma il contribuente beccato a frodare l'agenzia tributaria dovrà pagare ammende molto pesanti fino all'ultimo centesimo. In Germania, all'estremo opposto, l'evasione fiscale è considerato un reato penale anche se si sottrae un solo euro al fisco. L’ordinamento teutonico prevede sanzioni pecuniarie per gli evasori e il carcere da 1 a 5 anni, che può arrivare ai 10 anni nei casi più gravi. Infine in Francia l'erario non può perseguire un contribuente se il maggiore reddito accertato non eccede il 10% del reddito tassabile dichiarato o una somma minima di 153 euro. L'ordinamento transalpino prevede poi fino a 5 anni di carcere per i reati più gravi e multe fino a 500 mila euro.
Fisco, il Grande Fratello è figlio di nessuno e non è manco in Bonafede. Francesco Storace giovedì 24 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. Rocco Casalino stava al Grande Fratello e lì deve aver conosciuto Bonafede. Poi, la loro conoscenza si è fatta incandescente e devono aver deciso di lottare per uno Stato guardone al servizio del fisco. Voyeur di tutta Italia, unitevi, perché da Palazzo Chigi la vista migliora e ci si intrufola alla grande nelle nostre vite. Altra spiegazione non può esserci alle castronerie del ministro della giustizia, che deve aver preso alla lettera la funzione di Guardasigilli, compresi i sigilli nostri, quelli di casa.
Intercetteranno tutti. E quando meno te l’aspetti arriva il carcere per gli evasori, che al Corriere della Sera definisce “svolta epocale”. Non fa giustizia lui, costruisce galere evidentemente. Ma non sa che la prigione per gli evasori in Italia esiste già ed è un reato – se non si pagano le tasse – variamente sanzionato a seconda delle fattispecie. Ma il Don Chisciotte di via Arenula va oltre e nemmeno studia i dati sulla popolazione carceraria reclusa in materia. Si accorgerebbe che i detenuti sono pochissimi e quindi non si capisce a che serva inasprire le pene. Anzi no, lo si capisce benissimo e qui c’entra il Grande Fratello. Quando prevedi una sanzione massima di otto anni, ecco che scatta la possibilità di intercettare chi indaghi per questa roba. La norma vigente dal 2000 prevede una pena fino a 3 anni. Con un’evasione oltre i 150.000 euro. Bonafede porta la pena da 4 a 8 anni se evadi 100.000 euro. L’intercettazione è possibile se la pena nel massimo supera i 5 anni. Il gioco è fatto, chiaro. E siccome gli evasori sono quelli che hanno più soldi da nascondere, col sistema delle intercettazioni a strascico puoi ascoltare anche tutti quelli che evasori non sono. E magari li pizzichi a fare qualcos’altro e ingolfi i tribunali intrufolandoti nella vita altrui. Bonafede e Casalino, con Conte in mezzo, hanno avuto una splendida trovata per occuparsi dei fatti nostri.
Il fisco di Bonafede. È qualcosa che davvero fa a pugni col rispetto che si deve alla vita di ciascuno. Sospetti in materia di fisco del mio avvocato o del mio commercialista – tutti nel mirino – e se io ci parlo al telefono rischio di finire nella rete degli intercettati anche io. Ma in che mondo dobbiamo vivere, a quale regime ci dobbiamo assuefare? E’ la mentalità manettara di questi Cinquestelle che pretende di condizionare la nostra esistenza. Chissà che cosa pensa Bonafede di quei giudici della Cassazione – ad esempio – che gli hanno mandato all’aria il teorema di Mafia Capitale. Ma come in una frase ci vogliono soggetto, complemento oggetto e predicato verbale, nel diritto ci vogliono le prove e non la mentalità inquisitoria di un signore che ha scoperto il ministero della giustizia grazie a Beppe Grillo. Gia’ che c’è Bonafede – con le sue norme figlie di nessuno perché ci vuole coraggio ad intestarsele – ne ha detta un’altra, stavolta in materia di prescrizione. Con la riforma – cioè con l’abolizione sostanziale – non succederà il finimondo perché avrà influenza nei processi del 2024…. E, dunque, vorremmo chiedere a tanto statista, perché questa fretta di farla entrare in vigore il primo gennaio 2020? Giuristi o parafangari, è il dubbio che viene a chi osserva le mosse di costoro. A chi pensa che il diritto debba tornare ad essere una cosa seria in cui le parti si confrontano e un giudice decide. Fra poco ci affideremo alla ruota della fortuna.
Fisco, ultima frontiera: evasori come i mafiosi. Errico Novi il 22 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Pd verso il sì all’ipotesi 5s sui sequestri preventivi. Provvedimento estremo, discusso fino alla tarda serata di ieri, prima ancora che in Consiglio dei ministri, già nel lungo vertice di maggioranza. Trattativa difficile, ma agevolata da una paradossale convergenza. Il Pd è a un passo dal via libera sulla norma più dura, proposta dal M5S, dell’intero piano di governo per il fisco: i sequestri e le confische preventive ai presunti evasori. Provvedimento estremo, discusso fino alla tarda serata di ieri, prima ancora che in Consiglio dei ministri, già nel lungo vertice di maggioranza che il premier Giuseppe Conte conduce in due tempi: prima con la delegazione 5 Stelle guidata da Luigi Di Maio, quindi con le altre, quella del Pd innanzitutto, capitanata da Dario Franceschini. Nell’accordo vacillano diversi passaggi. Eppure sembra reggere, almeno al momento di mandare in stampa questa edizione del giornale, l’intesa sulla proposta più restrittiva in campo fiscale. Che non è l’abbassamento da 150mila a 100mila euro dell’importo per il quale chi froda l’erario può essere condannato a una pena detentiva, né l’innalzamento di quest’ultima, nel massimo, da 6 a 8 anni, ma la clamorosa estensione ai reati fiscali delle misure di prevenzione antimafia. Ebbene sì. Con una certa agilità assai superiore rispetto agli ostacoli trovati da altre richieste del Movimento, sembra destinata a entrare nel decreto fiscale collegato alla Manovra l’ulteriore ampliamento del cosiddetto doppio binario. Introdotti nel 1992, divenuti da allora un pilastro del Codice antimafia, sequestri e confische preventivi sono ormai sempre applicabili, da fine 2017, anche per la gran parte dei reati contro la pubblica amministrazione. Una scelta del legislatore che ha suscitato perplessità nella stragrande maggioranza dei giuristi italiani. Il provvedimento che ha equiparato boss e tangentisti è la legge 161 del 17 ottobre 2017. Entrata in vigore durante il governo Gentiloni. E fortemente voluta dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi vicesegretario dem. Non sono servite neppure le osservazioni con cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel promulgare le nuove, pesantissime norme, ne ha suggerito un «attento monitoraggio». Sono stati i dem dunque a far cadere per primi l’argine che teneva sequestri e confische preventivi nel operimetro della lotta alla mafia. L’antefatto spiega la relativa fluidità con cui una svolta così severa pare ormai incamminata verso il Parlamento. Di fatto, diventerebbe possibile anche per gli illeciti fiscali più gravi il sequestro in prima battuta e, in via definitiva, la confisca dei beni per chi è semplicemente «indiziato» del reto. In particolare per ipotesi come reati come la “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”. Ai “soggetti indiziati” di simili delitti verrebbero loro sottratti i beni “dei quali possono disporre, quando il loro valore risulti sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si abbia motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.
BASTA UN INDIZIO E PERDI TUTTO. Indizi. Non accuse provate. Non ci sarà bisogno di condanne definitive. Anzi, qualora l’assimilazione dei sequestri ai presunti evasori avvenisse davvero secondo lo schema già previsto per mafiosi ( e corrotti, da fine 2017), non sarebbe necessario neppure il rinvio a giudizio. Nel giudizio di prevenzione, parallelo a quello penale, non vigono i principi del giusto processo sanciti dalla Costituzione. Nei confronti dei presunti criminali tributari scatterebbero dunque violentissime limitazioni delle garanzie costituzionali.
EVASORI IN CELLA, I DUBBI DI ARDITA. Proprio l’eccentricità delle misure di prevenzione rispetto ai principi cardine del diritto penale appare, almeno al Movimento 5 Stelle, un valido motivo per applicarle anche in campo tributaristico. Un’anomalia che si traduce nell’impossibilità tecnica di includere tali provvedimenti all’interno di eventuali condoni, o di amnistie e indulti. Si tratterebbe di una svolta di una tale severità che persino un magistrato noto per la sua fermezza e intransigenza come Sebastiano Ardita fa notare come andrà comunque mantenuto un «criterio di proporzionalità nel rispetto dei valori della Carta». Certo, il togato eletto al Csm per Autonomia e Indipendenza, il gruppo guidato da Davigo, riferisce le sue perplessità soprattutto al carcere per gli evasori. Ma colpisce che persino un pm con il suo approccio culturale sia poco convinto dell’impostazione che la maggioranza sembra aver scelto. Ardita comunque, in una intervista all’Adn- kronos, individua un profilo critico della linea panpenalistica in campo fiscale anche nel rischio paralisi per il sistema penale: «Verrebbe ingolfato da un fiume di processi che», dice, «produrrebbero pene detentive teoriche: cioè sanzioni che rimangono sospese o devono essere convertite in misure alternative». Ma poi proprio un simile risvolto che si nasconderebbe dietro lo slancio “general- preventivo” della maggioranza fa dire al consigliere del Csm che «la misura più adatta in questi casi, e anche la più proficua per l’erario, potrebbe essere la confisca», che prevede, appunto, «un procedimento agile e accelerato» e che renderebbe «veloce l’apprensione delle somme sottratte al fisco».
ALTRO CHE DEPENALIZZAZIONE. Al momento le misure di prevenzione sono parte di un tutto. L’idea è che una loro introduzione non debba escludere la maggiore facilità nell’applicare anche pene detentive alle più gravi fattispecie di frode fiscale. Il che genera un ulteriore paradosso. Se come segnalato da Ardita, includere nell’ombrello del processo penale una più vasta gamma di casi «ingolferebbe il sistema penale», va ricordato che proprio per scongiurare tale spauracchio era stata ipotizzata una linea uguale e contraria: un intervento di depenalizzazione, che avrebbe dovuto innanzitutto riguardare proprio i reati fiscali. L’ipotesi era stata discussa da Anm e avvocatura, che l’avevano proposta a Bonafede come soluzione condivisa per ridurre i tempi dei processo. Ipotesi accantonata. E ora sostituita con il suo esatto contrario.
Autorizzate le intercettazioni per chi non farà la dichiarazione dei redditi. Il Corriere del Giorno. La possibilità di fare intercettazioni è conseguenza dell’inasprimento delle pene previsto dal nuovo Decreto contro l’evasione fiscale, vera “piaga” del nostro Paese. Diventa applicabile anche la custodia cautelare. A fronte di questo inasprimento delle pene e del conseguente potenziamento degli strumenti investigativi e coercitivi, che è indubbiamente giusto quando si intende colpire la grande e più pericolosa evasione, vi però il serio pericolo sparando nel mucchio di rischiare di colpire anche l’evasione fiscale per necessità e di arrivare ad applicare il carcere ai piccoli evasori. ROMA – Non è previsto soltanto il carcere nella lotta agli evasori fiscali, infatti adesso, arriva anche il rischio sicuramente più insidioso, quello delle intercettazioni. Arrivano subito e silenziose, senza che l’intercettato lo sappia. È la misura adotta dal Governo a seguito dell’innalzamento delle pene previste dal Decreto fiscale per i reati tributari , dopo il ritorno della pena detentiva in carcere per chi non paga le tasse così come è previsto arriva il carcere anche per chi non paga le cartelle esattoriali, ma spulciando bene i provvedimenti governativi sono previste nuove gravi implicazioni e più immediate per i contribuenti che non pagano le tasse, che adesso quindi rischiano molto di più di un processo penale ed eventuale condanna. Le intercettazioni diventano possibili perché le pene sono state innalzate, superando la soglia di legge che ne consente l’applicazione: in tal modo arriveranno a colpire una vasta area di contribuenti che sinora era immune da questo insidioso strumento investigativo, sinora previsto ed applicato solo per una serie di reati particolarmente gravi e di maggior pericolo sociale, mentre era applicato molto raramente per i reati tributari per i quali era consentito solo in ipotesi di reato molto chiare. Il reato più diffuso è quello di omessa dichiarazione dei redditi che rientra in questo campo non appena la legge sarà in vigore, cioè 15 giorni dopo l’approvazione definitiva prevista entro la fine dell’anno. Aumentata anche la pena detentiva che sale dagli attuali 1 anno e 6 mesi di reclusione minima e 4 anni massimi, a 2 di minimo e 6 nel massimo. Anche nel caso il reato di infedele dichiarazione , cioè quella effettuata da chi la presenta occultando redditi o ricavi oppure gonfiando costi, per evadere così facendo le imposte, viene aumentata la pena prevista, che arriva da un minimo di 2 ad un massimo di 5 anni crescendo rispetto ai precedenti valori edittali da 1 a 3 anni. Quando la dichiarazione è fraudolenta , cioè effettuata mediante uso di fatture o documenti per operazioni inesistenti, la pena prevista sarà dai 6 agli 8 anni. Giovanni ha una piccola società di cui è amministratore unico e nell’anno 2020, non presenta la prevista dichiarazione Iva. L’Agenzia delle Entrate rileva immediatamente l’omissione dopo la scadenza del termine e trasmette in automatico la comunicazione di reato alla Procura della Repubblica, dove il pm valuta e decide che la società sia pericolosa perché dai dati disponibili emerge che ha rapporti anche con l’estero, e compie diverse operazioni con un volume d’affari notevole. Quindi chiede al Gip l’autorizzazione a compiere le intercettazioni telefoniche e ambientali. Limiti e presupposti ci sono e dalle captazioni delle conversazioni si attendono risultati utili, indispensabili alla prosecuzione delle indagini, che infatti proprio grazie alle intercettazioni compiute – prorogate di 15 giorni in 15 giorni per un lungo periodo – vengono ottenuti. Diventano fondamentali i discorsi con il proprio ragioniere o commercialista, ai quali spesso l’amministratore si rivolgeva per sapere e capire “come fare”. A quel punto gli elementi di prova raccolti diventano schiaccianti e, pertanto, grazie alle intercettazioni effettuate, si apprendono altri reati analoghi e più gravi, alcuni dei quali commessi anche dai soggetti coinvolti nei dialoghi ascoltati. La legge consentirà le intercettazioni telefoniche, ambientali o telematiche quando la pena massima prevista per il reato per cui si procede è superiore a 5 anni di reclusione, e quindi anche nei confronti di chi non farà la prossima dichiarazione dei redditi, ed i responsabili reati che abbiamo appena elencato che rientrano in questo ambito. Se adesso la Legge offre la possibilità di effettuarle, non è difficile prevedere che ci saranno molti casi concreti in cui verranno svolte. Andiamo a capire meglio cosa potrà accadere quando si commette un reato tributario “potenziato” dal Decreto fiscale ormai pronto ad essere varato e ad entrare in vigore da gennaio prossimo. Cosa succederà quindi d’ora in avanti ? Il reato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi è formale: basta non presentare la dichiarazione annuale, dei redditi o dell’Iva, pur in presenza dell’ obbligo a farli, non solo i contribuenti, ma anche i loro sostituti d’imposta. Prevista una soglia di punibilità, pari a 50mila euro per ciascuna imposta e per ogni annualità, che il Decreto fiscale in arrivo lascia inalterata , mentre viene abbassata a 100mila ( da 150mila) euro la soglia prevista per configurare il reato di dichiarazione infedele. Non sarà quindi difficile per il Fisco accertare che l’adempimento non è stato effettuato: basterà controllare il calendario dei termini scaduti incrociandolo con l’archivio informatizzato dell’Anagrafe tributaria per verificare che la dichiarazione prevista non risulta. Accertata l’evasione partirà automaticamente la segnalazione di notizia di reato per la Procura della Repubblica competente territorialmente ed i magistrati, se lo riterranno opportuno e necessario per le indagini, potrà chiedere e ottenere in pochi giorni dal Gip l’autorizzazione a disporre le intercettazioni nei confronti del contribuente inadempiente, sia se è il legale rappresentante della ditta individuale, l’amministratore della società, i soggetti coinvolti nella titolarità o nella gestione aziendale. Se questo accadrà, da quel momento, le comunicazioni telefoniche, ambientali e informatiche verranno messe sotto controllo ed i risultati potranno essere utilizzati come prove nel procedimento penale instaurato, consentendo anche di aprire eventuali altre inchieste, se le conversazioni dovessero portare alla luce indizi e prove della commissione di ulteriori reati. Le conversazioni ascoltate saranno moltissime e quelle rilevanti proprio per l’oggetto dell’indagine saranno trascritte ed inserite nel fascicolo processuale: per esempio, quando il soggetto intercettato, come il titolare di un’azienda, parla al telefono con il proprio commercialista per chiedergli consigli su adempimenti fiscali, oppure con il notaio per la redazione di un atto di trasferimento immobili o quote sociali o con un consulente direzionale sulle strategie da adottare per espandere gli affari, con un socio o un cliente per compiere un’operazione di vendita, in tal caso il raggio di azione dell’indagine potrà estendersi in base a tutti questi elementi acquisiti e si potranno acquisire facilmente una miriade di informazioni, sintomatiche di evasione fiscale e della commissione di altri reati tributari. Dalle intercettazioni si arriva facilmente al carcere “anticipato” della custodia cautelare : infatti con i nuovi limiti di pena, che superano i 5 anni, questa diventa possibile anche per i reati di omessa o infedele dichiarazione dei redditi o Iva. Non saranno rari i casi in cui, proprio attraverso le intercettazioni disposte, si otterranno elementi di gravità e significanza indiziaria che renderanno possibile applicare queste misure cautelari agli evasori fiscali. A fronte di questo inasprimento delle pene e del conseguente potenziamento degli strumenti investigativi e coercitivi, che è indubbiamente giusto quando si intende colpire la grande e più pericolosa evasione, vi però il serio pericolo sparando nel mucchio di rischiare di colpire anche l’evasione fiscale per necessità e di arrivare ad applicare il carcere ai piccoli evasori. La Guardia di Finanza l’anno scorso ha individuato 13.957 evasori, ne ha arrestati 400, nessuno di loro è finito in carcere. Negli anni precedenti è stato ancora peggio: 11.303 denunce nel 2016 con 99 arresti, 12.375 nel 2017 con 226 arresti. Andrà meglio con meno contante in circolazione? I tedeschi usano più cash degli italiani, eppure evadono di meno. Il gioco a guardie e ladri è inefficace in assenza non delle manette facili, ma di una sanzione morale o valoriale contro chi non paga il dovuto. “Dobbiamo diventare certamente più severi con gli evasori fiscali, ma non coi disperati. A volte qualcuno ha avuto accertamenti, problemi, verifiche per errori minimali o formali, per dimenticanze, per il modulo sbagliato. Sento parlare di cifre ridicole. Pensare alle manette per alcune decine di migliaia di euro mi sembra veramente da fuori di testa, quando ci sono multinazionali che evadono miliardi di euro di imposte”. Sono le parole pronunciate ai microfoni de “L’Italia s’è desta”, su Radio Cusano Campus, dal leader della Lega, Matteo Salvini, che aggiunge: “Sicuramente chi sbaglia paga e pagare le tasse è un dovere, ma lo Stato deve mettere in condizione la gente di pagare le tasse. Quindi, si metta una soglia oltre la quale c’è la galera. Ma se chiedi il 60-65% di tasse a un cittadino e lui non ce la fa, non è che puoi crocifiggerlo“. Persino il magistrato Pier Camillo Davigo, consigliere del Csm, a modo suo si pone il problema: “Ci sono 12 milioni di evasori, e dove li mettiamo tutti quanti?”. La realtà è che nella legge di bilancio la priorità data alla lotta all’evasione fiscale è un tentativo per costringere gli italiani a pagare le tasse. Probabilmente una risposta più efficace sarebbe potuta arrivare piuttosto da una riduzione delle aliquote marginali e reali per i ceti medio-alti.
Dove evadere non è un reato: Svizzera, Germania e tanti altri. In Italia si è stabilito un inasprimento dei controlli per chi ha “una spiccata tendenza all’evasione”. Damiano Aliprandi il 29 Settembre 2019 su Il Dubbio. Nel 2016, dal carcere svizzero, ci fu la famosa evasione con fuga d’amore tra un detenuto e l’agente di polizia penitenziaria innamorata che lo ha aiutato fuggire. Ma si concluse a Romano di Lombardia, provincia di Bergamo. Lui, 27enne siriano, lei 32enne svizzera. Furono stati arrestati dai carabinieri con l’aiuto dei militari del Ros di Milano, rispettivamente per evasione e favoreggiamento dell’evasione. Entrambi ricercati, il 27enne evase dal carcere di Limmattal, vicino a Zurigo in Svizzera, e dove la donna lavorava: secondo l’accusa, quest’ultima avrebbe favorito l’evasione del suo amante la notte tra l’ 8 e il 9 febbraio del 2016. L’uomo rientrò quindi in carcere, ma per l’evasione non ottenne nessuna condanna. Perché? Presto, detto. In Svizzera, secondo l’articolo 310 del codice penale, è punibile chiunque libera detenuti o li aiuta nell’evasione. Non è tuttavia punibile con una pena aggiuntiva chi evade autonomamente da un istituto penitenziario. Una volta ricatturato, infatti, non deve temere alcuna sanzione penale. L’unico rischio che corre è. Questo perché viene rispettato il principio della loro Costituzione che sancisce l’irrinunciabile anelito umano alla libertà. Il carcere, infatti, rappresenta in ogni caso una violenza sull’individuo che, se ne ha la facoltà, è naturale tenti di sottrarsi ad una coercizione della sua libertà. Ma non è solo la Svizzera a sancire questo principio. Anche secondo la Germania l’essere umano, per natura, tenderà sempre alla libertà, proprio per questa ragione perfino in una situazione di costrizione prevista dalla legge sentirà sempre l’impulso della fuga. E, in qualche caso, cercherà di metterla in atto. L’autorità ha il dovere di riacciuffare gli evasi dal carcere, ma non di punirlo con una ulteriore pena. Così come l’Islanda e Danimarca, ma anche Paesi non europei come il Messico. In Italia invece, l’evasione è un reato contemplato dall’articolo 385 del codice penale con tanto di pena aggiuntiva da uno a tre anni. Lo stato di arresto o detenzione è presupposto del reato, si integra ogni volta che il soggetto evade da una struttura carceraria, dalla sua abitazione, o da qualsiasi altro luogo indicato nel provvedimento di restrizione. L’autore può essere la persona arrestata in flagranza di reato, chi è stato condannato in via definitiva all’arresto, alla reclusione o all’ergastolo, chi sconta una misura di custodia cautelare, agli arresti domiciliari o custodia in carcere o in casa di cura, i semiliberi che si assentino senza giustificato motivo per oltre dodici ore rispetto al momento del dovuto reingresso nel penitenziario e i detenuti che non rientrino da un permesso, che possono avere ottenuto per prendere parte a un’udienza, le persone fermate dalla polizia. Nelle carceri italiane, sempre più chiuse – mentre in realtà, secondo la Costituzione, devono avere anche il compito di proiettare verso la libertà chi ha commesso i reati -, il gesto suicidario compiuto dal detenuto può essere considerato come l’estremo atto di libertà, l’ultima forma di evasione di fronte una potenza coercitiva e limitativa, l’ideale di una vita liberata da una sofferenza rivelatasi ingestibile e insostenibile per colui che la patisce, ma al contempo un atto che dichiara – senza ambiguità, senza alternative – che la sofferenza è stata più forte dell’istinto di conservazione. Ora, in nome del pericolo di evasione, come riportato dal Il Dubbio, è stata ordinata una stretta, un ulteriore inasprimento del controllo con tanto di nuova categoria di detenuti, ovvero coloro che “hanno una spiccata tendenza all’evasione”. Ma in realtà, come viene riconosciuto dalla Costituzione di diversi Paesi europei e non, la voglia di libertà è insita naturalmente in ogni uomo. Nel passato, quando il Diritto era un’opinione, in nome del controllo vennero realizzate carceri stile Panopticon. Un tipo di sistema in cui un unico guardiano poteva osservare ( optikon) tutti ( pan) i prigionieri in ogni momento, i quali non avendo la percezione di essere sorvegliati o meno, in virtù di questa “invisibile onniscienza”, avrebbero mantenuto una condotta retta e volta alla disciplina, nel rispetto delle regole previste dall’Amministrazione penitenziaria, proprio come se si trovassero sempre sotto osservazione, in ottemperanza al principio che “il potere doveva essere visibile e inverificabile”. Un ritorno a quei tempi, è sempre dietro l’angolo.
Tutte le tasse invisibili che uccidono il Paese. Dal 1965 al 2016 il prelievo è salito del 18% all'anno. Il risultato? Il debito è esploso e la crescita si è fermata. Nicola Porro, Domenica 20/10/2019, su Il Giornale. «Le tasse invisibili» è un pamphlet che ha la pretesa di affermare che forse è meglio buttare nel cestino i manuali di scienze delle finanze. Non perché essi siano inutili (...) ma perché le tasse e le imposte sono un virus che è mutato negli anni. La loro forma si è adattata al portatore sano, e cioè la Bestia statale, e il suo contagio avviene in forme completamente diverse da quelle un tempo conosciute e studiate. L'imposizione fiscale si è adeguata ai tempi e alle sue mode: oggi la tassa è buona, politicamente corretta, biologica e verde. Come alcuni superbatteri, le imposte sono così diventate immuni agli antibiotici conosciuti. (...) Nel Novecento, e nella nostra Costituzione che ne è figlia, il prelievo fiscale non poteva che essere una prestazione che passava dalle tasche del cittadino alle casse dello Stato. Oggi è più complicato. Lo Stato continua la sua imperterrita corsa a farsi sfamare. Ma ha intrapreso un'ulteriore attività: la regolamentazione ossessiva, dal forte contenuto patrimoniale che spesso determina prelievi autoritari e autorizzati, che se non assumono la forma tecnica del tributo, ne hanno tutte le caratteristiche e i difetti. Poco importa se il mio reddito di cento euro viene colpito da un'imposta tributaria di 50 o se il medesimo reddito viene percosso contemporaneamente da una regola che mi obbliga a rinunciare a 20 e da un'imposta che fa il resto con un peso di trenta. Il reddito disponibile alla fine viene ridotto sempre a 50. L'imposta e la «regola imposta» hanno in comune il fatto di essere il grimaldello con il quale un piccolo gruppo di persone si organizza per governarci. In altri tempi e con Francesco Ferrara lo avremmo definita la formula magica con la quale si organizza la tirannia. Ogni imposta d'altronde, pensateci bene, è arbitraria: non solo riguardo ciò che colpisce (il reddito, il consumo o il patrimonio) e nella sua entità (aliquote, accise e prelievi vari), ma soprattutto nell'effetto che genera in chi la subisce. (...) La politica, organizzata in democrazia, è riuscita negli ultimi secoli a vincere una battaglia straordinaria. Ciò che conta è il metodo seguito (democratico, appunto) per approvare l'obbligo, il prelievo, la norma e non già l'essenza di ciò che essa prevede. Siamo ciechi: riteniamo giusto ciò che è democratico, tendiamo a ritenere legittimo un prelievo solo perché la procedura è stata rispettata e non già per la sostanza di quanto deciso. C'è stata inoltre un'ulteriore mutazione. Per lungo tempo abbiamo ritenuto gli esattori i nostri nemici, giudici arbitrari del nostro tempo libero da obblighi (...). Oggi le cose sono diverse: noi stessi siamo diventati esattori. L'imposta è diventata la linfa, mica tanto vitale, della nostra società. Siamo diventati, paradossalmente, vittime e carnefici al tempo stesso: amiamo l'imposta e la costrizione, supponendo che essa riguarderà sempre e comunque gli altri. Genuinamente ci siamo convinti che l'evasione è sempre quella del vicino, che l'ingiustizia è sempre quella applicata alla nostra disponibilità economica. (...) L'imposizione si è inoltre liberata dal suo contenuto monetario, dalle aliquote, dalle percentuali; è diventata semplicemente una porzione del nostro tempo di cui non disponiamo. Se vogliamo, in ciò siamo tornati indietro: l'economia più finanziaria di tutti i tempi, in cui la moneta circola non più grazie alla fisicità dell'atomo, ma solo in virtù dei Bit, ebbene in questa economia l'imposta si è dematerializzata, come la moneta appunto, ed è diventata più genericamente una costrizione a fare, e sempre di più rappresenta una limitazione alla nostra libertà. (...) L'esattore, anche, ha dovuto cambiare forma. E si è talmente mimetizzato che non lo consideriamo più tale. Godono di vita propria. Il vigile urbano non è un nostro stipendiato come non lo è il magistrato. Come la legge tributaria non è al servizio del contribuente, così i nostri funzionari non sono più al nostro servizio. Viviamo in un complesso intreccio di soggezione verso uno stato che è nato al nostro servizio, e per il quale siamo finiti al suo servizio. In questo impasto, essendo tutti potenzialmente esattori, riconosciamo un ruolo divino a coloro che lo sono per davvero. (...) Ci siamo fatti convincere che negli ultimi decenni siano aumentate le disuguaglianze, e per questo abbiamo giustificato l'intervento sempre più massiccio dei mandarini pubblici per poterle appiattire. E mentre affrontiamo l'oppio delle disuguaglianze cedendo sovranità alle autorità pubbliche, non ci rendiamo conto, imbambolati dal miraggio della giustizia sociale, la grande ingiustizia politica che si sta consumando con il trasferimento coatto di risorse dai singoli allo Stato. I numeri pubblici parlano chiaro. E prendiamo solo quelli relativi all'ultimo mezzo secolo. Il livello delle tasse nei Paesi sviluppati nel 1965 era pari al 24,9 per cento. Nel 2016 la frazione della ricchezza dei privati che è finita in mano pubblica è salita al 34 per cento. Il che vuole dire che le tasse sono cresciute del 40 per cento: ogni anno il prelievo pubblico è aumentato dell'8 per cento. (...) L'Italia in questo processo di progressivo aumento fiscale (e ora stiamo parlando solo di prelievi monetari, che come detto sono solo una parte del nostro ragionamento) ha praticamente il record mondiali degli orrori. (...) È corsa a una velocità doppia: gli altri aumentavano l'imposizione del 8 per cento, noi di quasi il 18. Nei medesimi anni è esploso il nostro debito pubblico e la nostra crescita è tra i fanalini di coda del mondo occidentale. Qualcuno potrebbe mettere i puntini insieme e trarre una conclusione: in mezzo secolo più tasse, più debito, meno crescita. Prima che i bambini si rendano conto che il re è nudo, tocca convincerli che si sia cambiato di abito. Ecco che le tasse non sono più bellissime, ciò che splende sono quei prelievi che hanno un fine etico. Ci stiamo inventando le tasse buone, le tasse di valore, i prelievi per l'ambiente, le imposte nascoste, le regole a favore di alcuni: un complicato reticolo di iniziative che hanno come unico fine quello di continuare ad alimentare la bestia statale che ha sempre più fame, poiché la sua dimensione è cresciuta e più cresce ed è potente e più ci affidiamo a lei per risolvere i nostri problemi. Una follia. La bestia non riusciremo più ad affamarla, come negli anni '80 speravamo, essa morirà d'infarto per le sue dimensioni, e perché la linfa con la quale campa sta diventando sempre più rara.
Da Dagospia il 20 ottobre 2019. Comunicato stampa. Vittorio Sgarbi chiama in causa la compagna del premier Conte e il padre di lei, Cesare Paladino, proprietario dell’hotel Plaza, condannato per essersi appropriato di 2 milioni di euro della tassa di soggiorno incassata e mai versata. “Tra gli evasori da arrestare, come vuole il presidente Conte, va riservata una cella di prima classe, al padre di Olivia Paladino, sua attuale compagna. Cesare Paladino è il proprietario del Plaza hotel di Roma di via del Corso. Ora, il padre di Olivia Paladino è stato condannato e ha patteggiato un anno e sei mesi di condanna perché faceva pagare la tassa di soggiorno ai clienti e poi se la intascava: l’importo accertato dell’evasione, che è un vero e proprio furto all’erario dello Stato, è di oltre 2 milioni di euro. Si aggiunga che la figlia, essendo amministratore del Plaza ,non poteva non sapere. Una buona occasione per il Presidente del Consiglio di dare l’esempio, accompagnandoli in carcere”. l’Ufficio Stampa
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 22 ottobre 2019. Il premier traccia la strada, Vittorio Sgarbi gliela rende familiare come uno specchio: «Accompagni in carcere il suocero e la figlia Olivia che non poteva non sapere». Le norme sull' evasione fiscale sono un grande cantiere, il presidente del Consiglio dichiara guerra a chi sottrae risorse allo Stato, il celebre critico d' arte punta il dito: il burrone il capo del Governo ce l'ha quasi sotto i piedi. Due in realtà le vicende che in qualche modo incrociano i destini di «Giuseppi» con le mille facce dell'erario. Capitoli non proprio esaltanti che mostrano, fra l'altro, con quanta attenzione si dovrebbero maneggiare temi cosi complessi e scivolosi in cui l'errore spesso confina con l'illecito, nodi che ora l'esecutivo vorrebbe sciogliere, criminalizzando comportamenti che finora erano lontani dai radar del codice. La prima storia, per nulla edificante, riguarda dunque Cesare Paladino, padre dell'attuale compagna del premier, Olivia. L'imprenditore, titolare del Grand Hotel Plaza di Roma si sarebbe intascato per anni la tassa di soggiorno versata dai turisti ospitati nella sua sontuosa struttura. Risultato: un ammanco di 2 milioni per il Comune e una contestazione, pesantissima, per peculato, dunque non un nero in senso stretto ma molto peggio, chiusa con il patteggiamento di 1 anno e 2 mesi. Per la cronaca va detto che Olivia non è mai stata indagata, in ogni caso il padre ha concordato la condanna. Certo, Conte non è in alcun modo responsabile di quel che ha fatto Paladino, oltretutto i rapporti affettivi non sono mai stati formalizzati. Ma il caso, che pure esula dal perimetro del penale fiscale, aiuta a capire la diffusione, purtroppo, di atteggiamenti che devono trovare naturalmente una sanzione, ma non sempre e non solo con l'inasprimento delle pene, con anni e anni di carcere, con il tintinnare delle manette. Non basta, perché nel passato di Conte, non nelle sue frequentazioni, c' è un altro episodio, raccontato a suo tempo dall' Espresso e da Libero, non proprio in linea con la predicazione del premier: due cartelle, una del 2009 e l' altra del 2011, per imposte e multe non versate. Il totale? Oltre 50mila euro. Il premier, che all' epoca era un professore sconosciuto all' opinione pubblica, si era dimenticato di saldare una serie di versamenti ed Equitalia aveva messo un' ipoteca sulla sua casa romana. L'anno scorso, quando ormai Conte era a un passo da Palazzo Chigi, il commercialista aveva cercato di ridimensionare il fatto alla voce contrattempo: «Il professore nel 2009 ha avuto una richiesta di documentazione inerente la sua dichiarazione dei redditi. L'agenzia ha mandato le comunicazioni via posta, ma il portiere non c'è. La cartolina è stata smarrita. Quando il contribuente non si presenta e non porta i giustificativi della dichiarazione, si iscrive al ruolo tutta l' Irpef sulla dichiarazione non presentata». Insomma, la solita maledetta combinazione di sfortuna e burocrazia. Il solito cocktail che avvelena i pozzi del benessere e spinge verso il declino buona parte del ceto medio, un tempo ancorato a un solido benessere. Capita. I giornali hanno dato poi altre letture, più maliziose, di quei debiti trascurati. Alla fine, Conte ha pagato e ha chiuso il contenzioso. E però, nel momento in cui il premier spinge per rivedere le leggi in chiave giustizialista, abbassando l'asticella che fa scattare l' illecito penale e premendo il pedale del carcere, è bene riflettere: certe politiche possono avere effetti disastrosi. Moltiplicano i processi, intasano i tribunali e non tolgono le piaghe. Il catalogo delle possibili sanzioni è molto ampio e basta saper scegliere quella giusta. Senza il faticoso corredo di proclami e grida manzoniane che rimbombano nel vuoto. E che dovrebbero lasciare il posto ad un abbassamento del carico fiscale e a incentivi e premi per sfavorire l' evasione. Discorsi vecchi per manovre sempre più aggressive e muscolari. Sempre, salvo intese. E allora Sgarbi sferra il suo paradosso: Conte metta in carcere il quasi suocero. E cominci a controllare se stesso.
Gianni Barbacetto per "il Fatto Quotidiano” il 22 ottobre 2019. La corruzione, l' evasione fiscale. Sono due dei campi d'azione della Procura di Milano a cui il procuratore della Repubblica, Francesco Greco, ha dedicato più attenzione nel presentare il "bilancio sociale" 2018. Ci sono, naturalmente, anche gli altri reati ("Il 99,9 per cento dei ladri di appartamento sono bianchi", ha detto Greco, "a volte si ha un' idea un po' strana del colore della pelle in relazione alla criminalità"). Ma ai reati dei colletti bianchi, il procuratore ha dedicato parole decise: "A Milano siamo pieni di procedimenti per corruzione internazionale e vediamo gli effetti negativi, sia nei confronti degli Stati vittime, sia nei confronti delle nostre imprese, che invece di investire in innovazione, investono in tangenti" (sono corso a Milano, a carico di Eni, un processo per corruzione in Nigeria e un' inchiesta per corruzione in Congo). Sui reati di natura tributaria, Greco ha chiamato "Modello Milano" quell' integrazione tra Procura, Guardia di finanza, Agenzia delle entrate e Agenzia delle dogane che ha permesso di recuperare negli ultimi anni 5,6 miliardi di euro da società i grandi dimensioni: sono circa 4,4 miliardi a cui vanno aggiunti altri 1,25 miliardi che Kering-Gucci si è impegnata a versare al termine di un' attività ispettiva. Dal settore della moda proviene il 35 per cento delle cifre evase e recuperate (da aziende come Prada, Armani, Gucci, Loro Piana); il 26 per cento dal settore siderurgico (Riva, Ilva); il 16 per cento da imprese dell' economia digitale (Google, Facebook, Apple, Amazon, Paypal); il 10 per cento dal settore finanziario (Ubs, Credito Svizzero). Le violazioni più frequenti sono la "stabile organizzazione occulta" (43 per cento del totale, per circa 2,4 miliardi di euro), i reati economico-tributari (27 per cento) e la esterovestizione, cioè la fittizia localizzazione all' estero, per godere di un regime fiscale più vantaggioso, di aziende o persone che operano in Italia (18 per cento). Il "Modello Milano", secondo Greco, ha permesso di intervenire in maniera efficace sulle mega-evasioni dei grandi gruppi italiani e stranieri. Ma anche di accelerare i processi penali derivanti da verifiche fiscali nei confronti di aziende o soggetti di piccole e medie dimensioni. La collaborazione con Guardia di finanza e Agenzia delle entrate ha premesso alla Procura di Milano, anche grazie a una rinnovata organizzazione del lavoro, di portare a giudizio migliaia di procedimenti. Greco sottolinea che i risultati nella lotta all' evasione derivano non solo dalla repressione, ma anche dalla diffusione "di una cultura che indirizzi i soggetti verso una maggiore fedeltà fiscale". Utile, secondo il procuratore, è stata la voluntary disclosure che dal 2015 ha incentivato la collaborazione volontaria di chi deteneva capitali all' estero e ha potuto regolarizzarli, dichiarandoli al fisco. Questo ha permesso di fare emergere quasi 60 miliardi di euro a livello nazionale, di cui il 45 per cento a Milano e in Lombardia, con un gettito fiscale di 3,8 miliardi, di cui 1,8 in Lombardia. Ma l' operazione voluntary disclosure (che non era anonima) ha anche permesso "di raccogliere una mole imponente di dati su attività finanziarie che in precedenza rimanevano occulte". Secondo il procuratore, "la Lombardia è storicamente un territorio caratterizzato da alti livelli di evasione fiscale, sia per ragioni di reddito, sia per la natura del tessuto imprenditoriale locale, con tante piccole imprese e professionisti". Il "Modello Milano" è collaborazione tra Procura, Fiamme gialle, fisco e dogane, ma è anche "un grande sforzo di sensibilizzazione, attraverso il dialogo costante con il mondo dell' impresa e con la serietà e la coerenza con cui sono state gestite alcune fasi dei procedimenti, per esempio i patteggiamenti", concessi alle aziende che accettavano di collaborare con la Procura e di trattare con il fisco.
Grandi evasori, ecco la lista. Dalle tangenti per il Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con soldi nascosti al fisco da imprenditori e politici. Paolo Biondani e Leo Sisti il 24 aprile 2019 su L'Espresso. René Caovilla, designer e proprietario dell'omonimo marchio di scarpeSoldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti ai caselli autostradali, in grandi alberghi, ristoranti o studi professionali. Un traffico di contanti che parte dal Veneto e arriva in Svizzera, nelle banche di fiducia di due altolocati tesorieri di denaro nero, con parentele in famiglie reali. Professionisti del pianeta offshore, al servizio di alcuni dei più rinomati commercialisti veneti. Tutti accusati di aver gestito per più di vent’anni una centrale internazionale dell’evasione fiscale. E del riciclaggio di tangenti intascate da politici poi condannati. Ma collegati da legami societari e familiari con parlamentari ancora al vertice delle istituzioni. Eccoli qua, i Padova Papers. Sono le carte riservate della maxi-indagine fiscale della Procura di Venezia, che pochi giorni fa ha portato al primo sequestro di oltre 12 milioni di euro. Soldi bloccati setacciando un fiume di denaro molto più ampio, «oltre 250 milioni», scrivono i magistrati, dove si mescolano le mazzette dei politici e i fondi neri degli evasori. Tutto parte dalle indagini sul Mose di Venezia, il più grande scandalo di corruzione in Italia dopo Tangentopoli. Tra il 2013 e il 2014, mentre scattano decine di arresti e condanne, la Guardia di Finanza scopre che imprenditori e politici usano gli stessi canali per nascondere soldi all’estero. In società offshore e conti bancari spesso intestati, sulla carta, a tre commercialisti di un affermato studio di Padova. Si chiamano Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. E lavorano per molti ricchi imprenditori veneti, proprietari di grandi alberghi, fabbriche di scarpe, industrie di valigie, aziende di costruzioni, immobiliari, centrali del gioco d’azzardo e altre ditte che non c’entrano con il Mose. Nel maggio 2015 le autorità svizzere accolgono la richiesta del procuratore aggiunto Stefano Ancillotto di perquisire gli uffici dei due presunti tesorieri del denaro nero: un nobile italo-elvetico, Filippo San Germano di San Martino d’Agliè, nipote della regina del Belgio, e il suo braccio destro, Bruno De Boccard. Nel computer di quest’ultimo salta fuori una lista di clienti, aggiornata dal 2002 fino al 2014, finora inedita. I giudici veneti la ribattezzano «lista De Boccard». In quel computer il professionista svizzero ha trascritto i dati di centinaia di società offshore, con gli azionisti, gli amministratori e l’attività, che si riduce alla gestione di conti esteri o di partecipazioni (riservate) in aziende italiane. In qualche caso compare il vero titolare, in molti altri c’è solo il fiduciario: un altro professionista, in rappresentanza di un cliente che vuole restare anonimo. La Guardia di Finanza concentra le indagini su 48 offshore, controllate da 46 cittadini italiani e da 9 società di capitali, che sembrano ancora attive. I dati però riguardano molti altri evasori. Solo nel 2014 risultano annotate 161 offshore. Nel 2011 se ne contavano 190, nel 2007 erano 232. Già nel 2002, il primo anno inserito nella lista, le offshore erano 228. Questo significa che c’è un esercito di grandi evasori non ancora smascherati. Visto che la lista è aggiornata a cinque anni fa, molti casi di evasione sono ormai cancellati dalla prescrizione. Mentre gli imprenditori più importanti, interrogati in caserma, spiegano in coro di aver approfittato dello studio fiscale: il super-condono varato nel 2009-2010 dal governo di Berlusconi e Tremonti (sostenuto dalla Lega). Un esempio è la deposizione del “re delle valigie” Giovanni Roncato: «Sono lo storico titolare della Valigeria Roncato spa, attualmente mi occupo di coltivazioni di riso in Romania. Conosco Filippo San Martino da 15 anni, in quanto è anch’egli produttore di riso. Siamo diventati amici (...). L’ho contattato alcuni anni fa, in quanto avevo dei capitali all’estero, da rimpatriare con lo scudo. Avevo iniziato a tenere soldi all’estero parecchi anni prima, a seguito di gravi minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa che immaginavo essere la Mala del Brenta: si trattava di minacce di morte per i miei figli fatte nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona. Queste minacce mi indussero all’epoca a consegnare cospicue somme di denaro a malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova ovest. Si tratta di fatti che non ho mai denunciato in quanto temevo per la morte dei miei figli allora piccoli». Chiudendo il verbale, Roncato sottolinea di aver regolarizzato tutto con lo scudo fiscale, da cui risulta che ha rimpatriato 13 milioni e mezzo. Nella lista De Boccard, il suo nome è collegato a una offshore chiamata Alba Asset Incorporation, attiva proprio fino al 2009. Per lui, quindi, nessuna contestazione. Il suo interrogatorio apre però uno squarcio sui rapporti tra imprenditori veneti e criminalità di stampo mafioso: perfino il re delle valigie pagava il pizzo per evitare rapimenti. Proprio come Silvio Berlusconi ad Arcore (tramite Marcello Dell’Utri e lo stalliere mafioso Vittorio Mangano). E come gli imprenditori lombardi che negli anni dell’Anonima sequestri affidavano collette di soldi al generale Delfino per placare la ‘ndrangheta. Anche Renè Caovilla, titolare di un famoso marchio di calzature, conferma a verbale di avere avuto soldi in Svizzera e di aver «aderito allo scudo fiscale del 2009». L’industriale, che controllava la offshore Serena Investors, aggiunge che «le somme non regolarizzate venivano affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera», tra cui ricorda proprio Filippo San Germano, che gli fu presentato da «un commercialista di Venezia, G.B., poi defunto». Caovilla ha rimpatriato con lo scudo 2 milioni e 287 mila euro. Tra albergatori di Abano Terme, costruttori e imprenditori del gioco d’azzardo, l’oscar dell’evasione va a Damiano Pipinato, un altro big delle calzature, che è anche il più eloquente nella confessione: «Verso il 1997 o 1998 chiesi al mio commercialista, Guido Penso, come poter gestire i proventi dell’evasione, in quanto i controlli erano sempre più stringenti. Il commercialista mi propose di consegnarglieli, affermando che avrebbe messo lui a disposizione gli strumenti per aprire un conto svizzero, senza necessità che io apparissi. Quindi iniziai a consegnare somme consistenti a Penso. La cosa funzionava così: lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo, essendo preconcordato, che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori. Spesso lui aveva bisogno di liquidità per compensare partite di giro con altri clienti dello sudio. Infatti più volte ho visto che i miei accrediti, anche di un milione, venivano spezzettati e mi arrivavano da conti diversi. Fatto sta che io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova. Qui Penso non apriva la scatola, non contava il denaro, in ragione della decennale fiducia: io gli indicavo la cifra esatta, lui la riponeva nell’armadio e mi rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato». L’imprenditore è il primo a chiamare in causa anche i partner di Penso: «Alla metà degli anni Duemila, Guido, suo figlio Christian e il loro socio Paolo Venuti mi proposero di investire nell’immobiliare a Dubai, con altri imprenditori, spiegandomi che stavano organizzando una gestione di fondi all’estero per i clienti dello studio. Iniziai con un piccolo investimento che in un paio di mesi si rivalutò del 40 per cento. Quindi decisi di investire di più, attingendo alle precedenti disponibilità della mia famiglia nella banca svizzera Zarattini. Allora Guido Penso mi spiegò che a gestire il denaro in Svizzera era Filippo San Germano, che era la persona di sua fiducia che copriva anche me. Infatti tutte le mie società e conti esteri erano amministrati da San Germano». In totale, Damiano Pipinato ammette di aver portato all’estero, tramite il commercialista padovano e il suo nobile fiduciario, almeno 33 milioni: 25 in Svizzera, 8 a Dubai. Dove però, dopo la crisi immobiliare, «nel 2013 ho visto che l’investimento continuava a perdere valore». Scoppiato lo scandalo del Mose, l’imprenditore cerca di sanare tutto con la voluntary disclosure, che però non è uno scudo anonimo, ma una vera autodenuncia: l’interessato deve farsi identificare e rivelare come ha fatto a creare il nero. Quindi l’Agenzia delle entrate gli boccia l’istanza. E lui alla fine vuota il sacco. I due fiduciari svizzeri sono accusati di aver occultato e riciclato fondi neri per molti altri imprenditori veneti. Il tesoro già scoperto dall’accusa sale così di altri 29 milioni, mandati all’estero (attraverso apposite offshore) da imprenditori come Flavio Campagnaro (5 milioni, divisi in 50 consegne), Luca e Roberto Frasson (1,5 milioni), Sergio Marangon (1,2 milioni), Primo Faccia (250 mila dollari), Ignazio Baldan (250 mila euro), Mauro Mastrella (800 mila), Odino Polo (un milione), Maria Rosa e Stefano Bernardi (3 milioni) e Giovanni Gottardo (mezzo milione). In caserma, pur con qualche imbarazzo, tutti finiscono per ammettere i fatti, sottolineando però di essersi messi in regola grazie allo scudo. Alcuni rimarcano di aver soltanto ereditato conti esteri creati dal padre fin dagli anni Sessanta, «quando fare il nero era la regola». Altri, come Pipinato, si vedono contestare società offshore ancora attive, ma rispondono di averle dimenticate «perché furono usate per investimenti in Nicaragua, ma sono andati male e quei soldi li abbiamo perduti». In almeno vent’anni di traffici di denaro nero, ai tre commercialisti padovani dello studio Pvp (dalle loro iniziali) non sono mai mancate le coperture politiche. Paolo Venuti è stato già arrestato e condannato (a due anni) per le tangenti del Mose, come tesoriere-prestanome di Giancarlo Galan, governatore veneto dal 1995 al 2010 e poi ministro del governo Berlusconi. Quel troncone d’indagine ha svelato un nuovo sistema di corruzione: società private svendute a politici, che incassano le tangenti sotto forma di profitti aziendali. In particolare la Mantovani spa, azienda leader del Mose, ha intestato proprio a Venuti, come paravento di Galan, il 5 per cento di Adria Infrastrutture, la società del gruppo che vinceva appalti stradali con la Regione Veneto. E con lo stesso sistema la Mantovani ha arricchito anche il super-assessore Renato Chisso, altro condannato per il Mose. La nuova ordinanza ora accusa il commercialista di aver nascosto anche contanti incassati da Galan: almeno un milione e mezzo di euro. Soldi finiti in Croazia su un conto intestato alla moglie di Venuti, sempre come prestanome dell’ex doge, come conferma un’intercettazione della coppia in auto, al ritorno da una cena nella villa di Galan (ristrutturata con altre tangenti e quindi sequestrata). La pista dei soldi è emersa grazie ai Panama Papers, le carte segrete delle offshore. Dove L’Espresso nel 2016 ha scoperto un’anonima società panamense, Devon Consultant Assets, intestata a Venuti e mai dichiarata. Questi, i fattacci del passato, dalla corruzione per il Mose al riciclaggio. Dallo studio Pvp parte però un filo segreto di rapporti professionali e familiari che arriva al presente e porta fino alla seconda carica dello Stato. Lo studio Pvp ha legami molto stretti con una società di Padova, Delta Erre, che è una specie di club dei più affermati fiscalisti veneti. Tra gli azionisti compare Paolo Venuti, che si è visto sequestare la sua quota in questi giorni. La stessa società ha accolto tra i suoi azionisti anche Giambattista Casellati, un grande avvocato di Padova. Che è il marito di Maria Elisabetta Alberti Casellati, l’attuale presidente del Senato. Che ai tempi dello scudo fiscale era sottosegretario alla Giustizia, oltre che parlamentare di Forza Italia. Marito e moglie sono anche soci d’affari in una piccola azienda italiana chiamata Esa, creata nel 1983, che nell’ultimo bilancio (2017) dichiara 55 mila euro di ricavi. La Delta Erre, costituita nel lontano 1971, è un club esclusivo, con partner selezionati. Fino al 2017 era una fiduciaria, poi si è concentrata sulle consulenze fiscali. Da anni è un punto di riferimento per le aziende di area ciellina. E da sempre ha forti legami con alcuni protagonisti dello scandalo Mose. Tra i soci fondatori spicca infatti Guido Penso, che è stato presidente del consiglio d’amministrazione fino al 1996. Già allora il commercialista manovrava fondi neri degli evasori, come spiega l’ordinanza che oggi accusa lui e suo figlio di aver orchestrato, con il collega Venuti, anche il riciclaggio del tesoro di Galan. I Panama Papers confermano che proprio Penso, attraverso un suo studio di Londra, gestiva già nel 2000 alcune offshore, come la Sorenson Holding delle Bahamas, ora accusate di nascondere i milioni degli evasori. La Delta Erre non è coinvolta direttamente in questi scandali. Però compare più volte negli atti delle indagini. Ad esempio l’imprenditore Damiano Pipinato, oltre ai 33 milioni dell’evasione, ha parlato anche di una serie di offshore utilizzate per mascherare le sue proprietà a Padova e spostare all’estero i soldi degli affitti. Tra quegli immobili così schermati (con una società italiana controllata da anonime panamensi) c’è una palazzina in via Corciglia 14. Dove ha sede lo studio Cortellazzo e Soatto. Che paga da anni un affitto notevole: 240 mila euro più Iva, poi ribassato a 185 mila. Soldi che, attraverso le offshore, finivano nei conti svizzeri di Pipinato. Sia Soatto che Cortellazzo ricompaiono anche tra i soci della Delta Erre, al fianco di Venuti (il prestanome di Galan) e dell’avvocato Casellati (il marito della presidente del Senato). Allo studio Soatto e Cortellazzo è dedicato perfino un capitolo spinoso della sentenza sul Mose: sono loro ad aver firmato una perizia che, secondo i giudici, ha consentito alla Mantovani spa, l’azienda simbolo delle tangenti venete, di sopravvalutare le sue attività. Il loro studio è registrato con la sigla “Servizi professionali organizzati” e ha come socio di maggioranza il commercialista Lucio Antonello, che è anche l’attuale numero uno della Delta Erre. Come presidente del Senato, la signora Casellati è sicuramente dalla parte della legalità e della lotta all’evasione fiscale. Il problema è che i soci di suo marito giocano nella squadra avversaria.
Gianni Zonin al processo BPVi, Vittorio Malagutti: non interessa più a nessuno l’uomo del crac costato all’Italia 5 miliardi di euro. Nessuna protesta, pochissimo pubblico: il primo dei procedimenti contro l’ex re di Vicenza è andato in scena nella generale indifferenza. Perché l’economia locale si è ripresa. E tutti vogliono rimuovere il volto oscuro del “Veneto operoso”. Di Vittorio Malagutti, da l’Espresso dell'11 Ottobre 2019. Seduto al tavolino di un bar, Gianni Zonin consuma svelto un panino triste in compagnia del suo avvocato. Siamo a Vicenza, sono quasi le tre del pomeriggio e la folla degli impiegati in pausa pranzo è rientrata di corsa in ufficio, alla ricerca di un riparo dal caldo appiccicoso di una giornata afosa di fine settembre. I pochi passanti degnano appena di uno sguardo quell’uomo anziano in gessato grigio. Lo riconoscono. Non può essere altrimenti. Zonin era il padrone della città. Per vent’anni e più, il suo ufficio di presidente della Popolare di Vicenza è stato il crocevia di ogni sorta di affare, lecito e anche illecito. Questa è l’accusa dei magistrati che hanno messo sotto processo il banchiere simbolo di un’epoca finita all’improvviso quattro anni fa, quando il gran capo della Popolare fu costretto a scendere dal trono, inseguito dai sospetti e dalle indagini. Poi venne il crac. Un buco da oltre 3 miliardi. Prestiti irregolari per centinaia di milioni, bilanci addomesticati per nascondere le perdite. E decine di migliaia di risparmiatori che hanno perso per intero il proprio investimento nelle azioni di una banca che si illudevano fosse indistruttibile. Dopo molte false partenze, la macchina della giustizia infine si è mossa. È tempo di processi, ora. Zonin deve rispondere di aggiotaggio, ostacolo all’attività di vigilanza e falso in prospetto. Il dibattimento ha preso il via a dicembre dell’anno scorso a Vicenza in un tribunale assediato da centinaia di cittadini che chiedevano giustizia armati di megafoni, cartelli e slogan minacciosi. Adesso di tanto clamore resta ben poco. Le udienze vanno in scena una dopo l’altra nell’indifferenza generale. Una manciata di secondi nei notiziari regionali in tv (al collega sfugge il servizio pubblico di VicenzaPiu.com con tutti i video e i commenti sulle udienze e non solo, ndr) Qualche riga in cronaca sui giornali locali. In Rete, anche i blog più agguerriti hanno abbassato il volume delle proteste, forse perché nel frattempo si è finalmente materializzato il fondo di indennizzo ai risparmiatori a suo tempo promesso dal governo Lega-Cinque stelle. I soldi spariti nella voragine del crac verranno in parte rimborsati ad azionisti e obbligazionisti che per reddito e patrimonio personale potranno dimostrare di non essere speculatori incalliti. Un risarcimento parziale che arriverà chissà quando, ma è comunque meglio di niente. I conti che ancora non tornano, a questo punto, sono quelli della giustizia. Il processo iniziato a Vicenza corre sul filo della prescrizione e riguarda, oltre all’ex presidente, anche un altro consigliere di amministrazione, l’imprenditore Giuseppe Zigliotto, insieme a un pugno di manager dell’istituto, quelli che occupavano i posti di comando. Tra loro non c’è Samuele Sorato, l’ex direttore generale la cui posizione è stata stralciata per motivi di salute. Rimane invece in sospeso l’accusa più grave di tutte, la bancarotta. Zonin si è opposto fino in Cassazione alla dichiarazione di insolvenza della banca. E in attesa della sentenza della Suprema Corte, il crac resta senza colpevoli. Sono innocenti, per il momento e fino a prova contraria, gli amministratori che si sono succeduti nel board dell’istituto. Così come i responsabili dei controlli, cioè sindaci e revisori. E poi gli alti dirigenti che hanno personalmente ideato e gestito le operazioni che si sono trasformate in una bomba a orologeria nei conti dell’istituto. Tocca ai pubblici ministeri Gianni Pipeschi e Luigi Salvadori tirare le fila dei sospetti, ricostruire gli episodi che hanno materialmente causato il fallimento, illuminare i fatti salienti di una vicenda complicatissima raccontata in milioni di pagine di un’istruttoria immensa per dimensioni. Una storia triste con un cast a dir poco affollato: decine e decine di attori, comprese comparse e comprimari. Tutti partecipi, in un modo o nell’altro, di un sistema di potere che ha dissanguato quella che per decenni è stata descritta come la banca simbolo dell’opulento e operoso Nordest. Serviranno mesi, nella migliore delle ipotesi, per portare alla sbarra i presunti responsabili del fallimento. Nel frattempo va in scena un altro processo, minore se si vuole, ma che serve comunque ad aprire squarci di luce in una vicenda di malafinanza per molti aspetti ancora oscura. A quanto sembra però, Vicenza ha fretta di voltare pagina. E allora succede che giovedì 26 settembre, l’aula di tribunale appare quasi vuota di pubblico. All’ingresso del palazzo di giustizia un cartello giallo indica le scale che portano al sotterraneo dove si svolgerà l’udienza. L’informazione si rivela inutile, perché solo una pattuglia di addetti ai lavori, avvocati e giornalisti, si presenta di buon mattino per assistere ai lavori e questi habitué sanno orientarsi senza problemi tra stanze e corridoi. È un incontro tra pochi intimi, quindi. Eppure all’ordine del giorno c’è una deposizione di grande importanza, quella di Emanuele Gatti, l’ispettore della Vigilanza di Bankitalia che su mandato della Bce di Francoforte nella primavera del 2015 ha scoperchiato il pentolone dello scandalo. È lui il teste chiave che può spiegare le irregolarità nella gestione della banca messe a verbale nella sua relazione di quattro anni fa, quella che poi portò al ribaltone al vertice dell’istituto, con l’uscita della prima linea dei manager. Le parole di Gatti, interrogato dal pm Salvadori, cadono nel silenzio di una platea semideserta. Ad ascoltarlo, seduto in prima fila, c’è l’imputato Zonin. Dal dicembre scorso, l’ex presidente, 81 anni, non perde un’udienza. Nei primi mesi dopo il crollo, circolavano racconti più o meno fantasiosi che lo descrivevano come un uomo in fuga dalla furia dei risparmiatori, forse barricato in qualcuna delle sue residenze sparse per l’Italia, dal Friuli alla Sicilia, oppure addirittura sull’altra sponda dell’Atlantico, negli Stati Uniti. Gran parte dell’immenso patrimonio del banchiere risulta da tempo intestato a società controllate da moglie e figli ed è quindi al riparo dai sequestri giudiziari, che hanno fin qui colpito beni per un valore di alcuni milioni. Briciole, se davvero Zonin verrà chiamato a rispondere dei danni causati a decine di migliaia di azionisti. Nel frattempo però, l’ex patron della Popolare ha deciso di sfoderare davanti ai giudici l’orgoglio dei giorni migliori. Si è sempre dichiarato innocente. Sostiene di non essere stato messo a conoscenza dei particolari, e delle possibili conseguenze, delle manovre finanziarie vietate dalla legge che per anni sono servite a coprire i buchi in bilancio. Nel racconto dell’imputato eccellente sarebbero stati i manager a gestire in autonomia quegli affari dai contorni opachi. Un lungo elenco che comprende, per esempio, i cosiddetti “prestiti baciati”, cioè i finanziamenti elargiti a clienti che si impegnavano a comprare titoli della banca. Oppure le lettere di garanzia con cui l’istituto di credito veneto assicurava un rendimento fisso e predeterminato delle proprie azioni a beneficio di una ristretta cerchia di soci privilegiati. Tra le operazioni taciute fino all’ultimo alla Vigilanza compaiono anche i giochi di sponda con alcuni fondi lussemburghesi che oltre a sostenere gli aumenti di capitale della Popolare, avevano dirottato decine di milioni verso imprenditori amici. Tutti soldi usciti dalle casse della banca vicentina. Rispondendo per oltre cinque ore alle domande del pm, Gatti ha squadernato il libro nero della Popolare. Zonin, impassibile, lo sguardo fisso verso il testimone, ha seguito per intero la fluviale deposizione dell’ispettore di Bankitalia. Il quale non ha mancato di rievocare anche la svolta decisiva dell’intera vicenda: l’incontro, il 7 maggio del 2015, tra lo stesso Gatti e l’allora presidente dell’istituto veneto, ancora ben saldo in sella nonostante si accumulassero le voci sulle crescenti difficoltà della banca vicentina. In quell’occasione, per la prima volta, il banchiere fu messo di fronte alle sue responsabilità. Per anni, infatti, le autorità di controllo avevano dato via libera ai bilanci della Popolare e i finanziamenti irregolari: quelli “baciati”, ben nascosti nelle pieghe dei conti, si erano accumulati fino a superare di slancio i 500 milioni. Adesso, al processo, Consob e Banca d’Italia figurano tra le parti offese, al pari dei risparmiatori a cui fu raccontata una realtà ben diversa da quella effettiva. Le istituzioni sono salve, quindi. E per tutti gli altri coinvolti nel caso, la strada verso la verità, almeno quella giudiziaria, appare ancora molto lunga e complicata. Il processo per la bancarotta miliardaria, se mai ci sarà, prenderà il via non prima del 2020 e forse anche dopo, a sei anni di distanza dall’inizio delle indagini. Il procedimento di primo grado cominciato a Vicenza durerà ancora mesi e si concentra più che altro sull’operato dei manager di comando come l’ex direttore finanza Andrea Piazzetta o Emanuele Giustini, già responsabile delle politiche commerciali e quindi dei rapporti con i clienti. Sono loro, nella ricostruzione della Vigilanza bancaria e poi dei pubblici ministeri, ad aver firmato i documenti più compromettenti. Tra i componenti del consiglio di amministrazione l’accusa, come detto, ha invece circoscritto le imputazioni ai soli Zonin e Zigliotto, archiviando la posizione di altri 21 indagati, tra cui anche i membri del collegio sindacale. Niente maxi processo, quindi. Tutto rimandato a data da destinarsi. Quello che ci vuole per far scomparire la memoria del crac dalla coscienza collettiva di una città ansiosa di dimenticare la pagina più nera della sua storia. Il presente incombe e Vicenza festeggia perché ha ripreso a correre. La grande paura della crisi finanziaria, quella innescata dall’esplosione della bolla del debito tra il 2008 e il 2011, ormai è un ricordo lontano. Le statistiche più aggiornate raccontano di un’economia che cresce. Il valore delle esportazioni non è mai stato così alto, segnala la Camera di commercio locale commentando i dati del primo semestre del 2019. Un record difficile da battere, almeno nell’immediato, visto che mercati di sbocco importanti come Cina e Germania segnano il passo. Intanto però la provincia berica si conferma al terzo posto nella graduatoria nazionale dell’export, davanti a Brescia e sempre più vicina a Torino, che viaggia in seconda posizione molto distante dalla capolista Milano. Buone notizie anche sul fronte del lavoro, con la disoccupazione che l’anno scorso è scesa dal 6,8 al 5,3 per cento, quasi la metà del dato nazionale, che a fine 2018 era attorno al 10 per cento. E allora è vero, Vicenza ha perso la sua banca, ma si fa presto a esorcizzare il fantasma di Zonin se la cronaca abbonda di buone notizie. Anche la politica locale adesso può permettersi di festeggiare, dopo che per mesi le istituzioni e i partiti si sono affannati a prendere le distanze dal banchiere caduto in disgrazia. Achille Variati, sindaco della città tra il 2008 e il 2018, ha conquistato addirittura una poltrona di governo: sottosegretario agli Interni nel Conte bis. Un successone per il navigatissimo ex democristiano, poi Margherita e quindi Pd, lo stesso che dopo il naufragio della banca fu costretto a derubricare a semplice “obbligo istituzionale” la sua frequentazione, da primo cittadino, con Zonin. Storie vecchie, quelle. La Popolare non c’è più. Scomparsa. Intesa ne ha cancellato l’insegna, dopo che nel giugno del 2017 ha assorbito al prezzo simbolico di un euro la parte migliore dell’attivo di bilancio dell’istituto fallito. In quei giorni si è chiusa allo stesso modo anche la storia di Veneto Banca, sede a Montebelluna, naufragata, come la rivale di Vicenza, in un mare di prestiti incagliati. A pagare il conto dell’ operazione è stato il bilancio pubblico, con un assegno a fondo perduto di 3,5 miliardi a favore di Intesa e a carico dei contribuenti (per la verità a carico della BPVi in Lca, e quindi dei soci/risparmiatori, con gli introiti del recupero dei suoi nel in quanto lo Stato né è creditore in pre deduzione e pagherebbe in proprio solo in caso di insufficienza nei “rientri”, ndr). A questa somma vanno aggiunti altri 1.285 milioni che sono serviti a finanziare, sempre a spese dell’Erario, l’uscita di quasi 4 mila dipendenti dalle fila del gruppo nato con la doppia acquisizione. A carico della liquidazione restano i crediti ad alto rischio e poi gran parte del patrimonio immobiliare, che è stato messo in vendita. Tra l’altro è finito all’asta anche Palazzo Thiene, capolavoro del Palladio in pieno centro città. Le indiscrezioni più recenti raccontano che l’offerta migliore sarebbe arrivata dal fondo statunitense Bain, che sembra in vantaggio su Cerberus, un altro marchio della finanza Usa. Questione di giorni e poi con questo affare si chiuderà davvero il cerchio. L’ultima eredità della banca di Zonin finirà agli americani e la città potrà illudersi di aver fatto i conti con il suo passato. Di Vittorio Malagutti, da l’Espresso.
Popolare Vicenza, il capo della vigilanza di Bankitalia tifava per Zonin: lo provano gli sms. Ecco i messaggi tra il direttore generale dell'istituto veneto e il numero uno dei controllori. I vertici della banca hanno goduto per anni di un filo diretto con via Nazionale. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 18 dicembre 2017. Ottobre 2014: allarme rosso alla Popolare di Vicenza. In quei giorni la banca guidata da Gianni Zonin rischiava seriamente la bocciatura ai test di bilancio della Bce di Francoforte. Sarebbe stato un colpo pesante alla credibilità di un istituto che già allora, come si scoprirà soltanto molti mesi dopo, aveva serie difficoltà a far quadrare i conti. Nella città del Palladio devono correre ai ripari, metterci una pezza in qualche modo prima che la bocciatura diventi di dominio pubblico, con tutte le conseguenze del caso. Ed ecco che, come L'Espresso è in grado di rivelare sulla base di documenti inediti, dal telefono di Samuele Sorato, il direttore generale della banca veneta, di fatto il braccio destro di Zonin, parte una richiesta d'aiuto: «Gentile dottore, avrei necessità di sentirla, come saprà la nostra richiesta è stata rigettata dalla Bce». Questo il testo dell'sms inviato da Sorato alle 12 e 22 minuti del 7 ottobre 2014. La sorpresa è il destinatario di quella richiesta. Il messaggio parte verso un numero di cellulare intestato a Carmelo Barbagallo, capo della Vigilanza della Banca d'Italia. Il quale, a giudicare dagli scambi successivi di sms, si mette subito in moto per dare una mano al manager. E infatti alle sette di sera Sorato scrive ancora all'alto dirigente di Banca d'Italia: «Vorrei ringraziarla per i suggerimenti ricevuti. (…) Gradirei sentirla per i prossimi passi da intraprendere». A questo punto Barbagallo non riesce proprio a fare a meno di sbilanciarsi e scrive: “Ok. In bocca al lupo!”, con tanto di punto esclamativo che vorrebbe rinforzare la personale solidarietà dell'alto dirigente di Bankitalia nei confronti del direttore generale della Popolare vicentina. Quei messaggi, e molto altro ancora, sono agli atti dell'inchiesta giudiziaria della procura di Vicenza sulla fallimentare gestione della Popolare per vent'anni presieduta da Zonin. Un'inchiesta che proprio in questi giorni è arrivata all'udienza preliminare che dovrà decidere quali degli indagati, tra cui lo stesso Sorato, finiranno a processo. Per la cronaca, alla fine Vicenza riuscì a superare per il rotto della cuffia i test della Bce, grazie alla conversione di un prestito obbligazionario. Potremmo chiederci se è normale che il massimo dirigente della Vigilanza bancaria dia una mano a un suo vigilato per superare gli esami dei controllori europei. E se è opportuno che lo faccia attraverso scambi di sms, a testimonianza di una consuetudine di rapporti che appare ormai consolidata nel tempo. Da mesi al centro delle polemiche, la Banca d'Italia si è sempre difesa sostenendo che la Vigilanza ha sempre fatto tutto quanto in suo potere, così come previsto dalle leggi vigenti, per marcare stretto Zonin e gli altri. È un fatto però che i vertici della Popolare di Vicenza potessero godere di una corsia preferenziale per accedere alla Vigilanza di Bankitalia. A volte, come dimostrano i documenti esaminati da L'Espresso, a fare da tramite verso Roma erano ex dirigenti della stessa Banca d'Italia assunti da Vicenza. Per esempio Mario Lio, ex funzionario della Vigilanza passato alla Banca Nuova di Palermo, controllata dalla Popolare di Zonin. “Ho parlato adesso con Barbagallo, è stato affettuoso. Speriamo bene...”, scrive Lio a Sorato il 18 febbraio del 2012. Il 4 settembre del 2013 tocca invece a Gianandrea Falchi, ingaggiato da Zonin dopo essere stato in staff dell'ex governatore Mario Draghi. “Lunedì vedo Barbagallo – scrive Falchi a Sorato – vi sono altre cose di cui parlare oltre a quelle che ci siamo dette lunedì?”. A gennaio del 2014, invece, lo stesso Falchi ci tiene a far sapere a Sorato di aver informato Barbagallo “di quanto ci eravamo detti”. E aggiunge un particolare curioso: “Ho scoperto che Visco e Consoli sono nati lo stesso giorno e anno”. Consoli era il numero uno di Veneto banca, l'altra Popolare in difficoltà che nei progetti della Vigilanza avrebbe dovuto fondersi con Vicenza. Solo che nel gennaio del 2014, Consoli era sotto pressing costante dei controllori di Bankitalia, mentre Zonin, che aveva bilanci ancora più disastrati, tesseva la trama di nuove acquisizioni. La creazione della grande Popolare del Nordest resta sulla carta e da Vicenza si mettono alla ricerca di alternative. Banca Etruria è la prima della lista. E infatti in primavera l'interesse del possibile acquirente viene formalizzato con un'offerta nero su bianco. In quei giorni Sorato torna a contattare via sms Barbagallo. “Buonasera dottore posso disturbarla?”. Questo il testo dell'sms datato 11 giugno 2014. La risposta arriva nel giro di pochi minuti: “Sono a Francoforte, se mi lascia un recapito la chiamo tra mezz'ora”. Giorni delicati, quelli, perché il consiglio di amministrazione di Banca Etruria deve riunirsi per decidere se accettare l'offerta di Vicenza. E l'arbitro della partita era proprio Banca d'Italia. Alla fine Arezzo dice no e l'affare salta. Entrambe le banche vanno incontro al proprio destino: dissesto e liquidazione. A maggio del 2015 anche Sorato arriva a fine corsa. Il manager viene messo alla porta da Zonin, che tentava di salvare la poltrona scaricando sui manager la colpa del disastro. Ma prima di farsi da parte, il direttore generale della Popolare di Vicenza scrive ancora a Barbagallo via sms. “Mi scusi se la disturbo di domenica. Ci terrei a comunicarle alcune decisioni che stiamo prendendo”. Era il 10 maggio 2015. Due giorni dopo Sorato ha perso il posto di lavoro.
Popolare Vicenza, gli sms tra i renziani e l'uomo di Zonin. E quell'incontro con la Boschi. Negli atti della procura sul dissesto della banca veneta spuntano i messaggi tra l'ex direttore generale Sorato e Francesco Bonifazi, renziano di ferro e tesoriere del Pd. Che ha messo in contatto il manager con la futura ministra. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 18 dicembre 2017. Era un renziano convinto, l'ex direttore generale della Popolare di Vicenza, Samuele Sorato. O almeno così cercava di apparire agli occhi di uno dei dirigenti del Pd più vicini all'ex segretario del Pd, Matteo Renzi. Difficile spiegare altrimenti l'sms inviato l'8 dicembre del 2013 da Sorato a Francesco Bonifazi, tesoriere del Partito Democratico nonché stretto collaboratore di Renzi. «Complimenti a Matteo e a tutti voi per il grande lavoro che avete fatto», scriveva il manager a Bonifazi. Il messaggio è agli atti dell'inchiesta della procura di Vicenza sul dissesto della Popolare di Zonin, un'inchiesta che vede Sorato tra gli indagati. Quel giorno, l'8 dicembre 2013, i risultati delle primarie proiettavano l'ex sindaco di Firenze verso l'incarico di segretario del partito e, di lì a qualche mese, anche di presidente del Consiglio. E il giorno prima, rispondendo a un messaggio dello stesso Bonifazi che lo invitava a scegliere Renzi alle primarie, Sorato aveva risposto con un eloquente: «Sarà fatto». Come noto, il direttore generale della Popolare di Vicenza, cresciuto all'ombra del presidente Gianni Zonin di cui era il principale collaboratore, perse il posto a maggio del 2015, quando cominciarono a emergere con chiarezza le dimensioni del buco in bilancio dell'istituto veneto. Fino ad allora però Sorato aveva coltivato con assiduità rapporti con la cerchia renziana. All'occorrenza era proprio Bonifazi a fare da tramite con altri esponenti del cosiddetto “Giglio magico” renziano. Si scopre per esempio che, in base a quanto appuntato sulla sua agenda, il 30 ottobre 2013 Sorato era stato ricevuto da Maria Elena Boschi e all'incontro aveva partecipato anche Bonifazi. All'epoca, Boschi, deputata da qualche mese, era coordinatrice della Leopolda e nel febbraio successivo sarebbe entrata nel governo Renzi come ministro delle Riforme. L'agenda non riporta altre informazioni se non la data della visita alla giovane deputata. Certo è che la famiglia Boschi poteva dare una mano a Vicenza, e al manager, anche sul fronte del business. Infatti la Popolare di Zonin era a caccia di banche da acquistare e la lista di obiettivi comprendeva anche Banca Etruria, di cui Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena, era amministratore e poi, da aprile 2014 vicepresidente. Nell'agenda di Sorato vengono menzionati, senza ulteriori dettagli, “incontri riservati” con Boschi senior. Nel marzo del 2015, due mesi prima del ribaltone che mise fuori gioco Sorato, la memoria del telefono del manager restituisce l'evidenza di un sms inviato da Bonifazi. «Mi sono mosso. Vorrei fare approfondimenti con te e alcuni miei parlamentari veneti. Dammi una data». Questo il testo del messaggio inviato dal tesoriere Pd. Secondo quanto emerge dai documenti giudiziari, a facilitare i contatti del manager di Vicenza con il giro renziano sarebbe stato anche Marco Bassilichi, imprenditore toscano, anche lui targato Giglio magico. L'azienda di Bassilichi vende servizi digitali destinati tra l'altro agli istituti di credito e da qui nascono i rapporti con Sorato, con cui sono decine i contatti registrati dal telefono del banchiere. L'uomo d'affari renziano torna utile, però, anche per aprirsi un varco verso i vertici del Pd. Il 3 marzo del 2015 Bassilichi scrive all'amico Sorato: «Buongiorno Samuele, ieri sera ho cenato con Gabriele (Beni) che ti sta cercando per Luca L. Chiamalo perché Luca ti incontra...». Gabriele Beni è un imprenditore calzaturiero toscano, amico del segretario del Pd. Il "Luca L." citato nel messaggio corrisponde invece con ogni probabilità a Luca Lotti, anche lui esponente del Giglio Magico e sottosegretario alla presidenza del Consiglio durante il governo Renzi. Ci fu quell'incontro promosso da Bassilichi? L'agenda non lo dice. Due mesi dopo Sorato lascia la Popolare di Vicenza e i messaggi dei renziani diminuiscono fino a scomparire.
Zonin torna in banca. Accolto con tutti gli onori e riaccompagnato con l'auto aziendale. L'ex presidente della Popolare di Vicenza, indagato dalla magistratura, ha fatto visita alla controllata siciliana dell'istituto. Ha avuto un lungo colloquio con il direttore generale, che ha messo a disposizione un autista. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 05 luglio 2016. Dove sta Zonin? L'ex gran capo della Popolare di Vicenza è da mesi al centro di un frenetico “Chi l'ha visto?”. Con la banca travolta dalle perdite e un esercito di azionisti grandi e piccoli che hanno perso per intero il loro investimento, Gianni Zonin è sparito dalla circolazione. Nessuna apparizione pubblica. Nessun incontro. Niente di niente, almeno dall'autunno scorso. Scelta comprensibile, dal suo punto di vista. Se non fosse che l'anziano banchiere, classe 1938, indagato per aggiotaggio e ostacolo alla Vigilanza, di recente ha pensato bene di farsi vedere a Palermo, nella sede di Banca Nuova, controllata dalla Popolare di Vicenza. Circondato dagli sguardi sbalorditi di alcuni dipendenti, Zonin è stato ricevuto da Adriano Cauduro, direttore generale dell'istituto palermitano. Dopo un lungo colloquio, durato almeno un paio di ore, l'inatteso ospite, raccontano alcuni testimoni, è stato prelevato da un'auto blu con autista. «Una vettura aziendale», sostengono fonti interne alla banca. Un pacchetto tutto compreso, quindi: incontro al vertice e passaggio in macchina per l'ex padre padrone della banca travolta da 6 miliardi di perdite. La visita a Palermo risale al primo giugno e da allora in Banca Nuova non si parla d'altro. Su un totale di circa 116 mila azionisti, sono circa 7 mila i risparmiatori siciliani che hanno visto andare in fumo il loro investimento in azioni Popolare Vicenza e di questi almeno 300 lavorano a Banca Nuova. Come dire che quasi la metà dei 700 dipendenti hanno perso denaro, a volte tutti i risparmi, nel gran falò dell'istituto vicentino. Logico allora che l'improvvisa apparizione a Palermo dell'ex presidente sia stata accolta con una certa sorpresa. Così come il lungo colloquio con il direttore generale. Va detto che Zonin è di casa in Sicilia, dove possiede una grande tenuta (Principi di Butera) non lontano da Caltanissetta. Cauduro conosce bene il banchiere vicentino. L'attuale numero uno di Banca Nuova, di origini venete, è approdato a Banca Nuova nel gennaio dell'anno scorso dopo una carriera di 15 anni interna alla Popolare di Vicenza fino all'incarico di vicedirettore generale raggiunto nel 2011. Quattro anni dopo, quando l'istituto veneto cominciò a franare, Cauduro fu l'unico dei quattro top manager di vertice a conservare la poltrona. Perse invece il posto il consigliere delegato Samuele Sorato insieme agli altri due vice direttori generali Emanuele Giustini e Andrea Piazzetta, tutti indagati insieme a Zonin nell'inchiesta della procura di Vicenza sulla catastrofica gestione della banca. Giovedì prossimo è in programma l'assemblea che dovrà nominare il nuovo consiglio di amministrazione di Popolare Vicenza, un board designato per intero dal fondo Atlante, socio rimasto in campo col 99 per cento delle azioni dopo l'aumento di capitale di fine aprile. Come amministratore delegato è prevista la riconferma di Francesco Iorio, il manager che ha guidato la la banca nella fase dell'emergenza, a partire dall'estate 2015. La causa per risarcimento danni verso Zonin difficilmente potrà invece partire prima dell'autunno. Intanto, a giugno, l'ex presidente ha girato ai tre figli le sue azioni della casa vinicola di famiglia.
Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 22 ottobre 2019. A decidere sarà, domani, il plenum del Csm. Ma al momento il futuro del procuratore capo di Arezzo, Roberto Rossi, sembra che sarà lontano dalla città del crac di Banca Etruria. La V Commissione del Csm, con 5 voti contro 1, si è pronunciata per la «non conferma» del pm che ha seguito in prima persona tutte le indagini sull' istituto aretino. Le ragioni elencate da Piercamillo Davigo, relatore della proposta di «non conferma», sono essenzialmente tre: la mancata segnalazione del potenziale conflitto d'interessi per la consulenza al Dipartimento affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi mentre stava indagando su Banca Etruria; l'assegnazione dei fascicoli su Etruria a sé stesso; non aver richiesto l'insolvenza dell' istituto dopo aver ricevuto la relazione degli ispettori di Bankitalia su Etruria, alla fine di febbraio del 2015. Unico voto a favore della conferma, quello del consigliere Marco Mancinetti (di Unicost, stessa corrente di Rossi). Che nella sua relazione sottolinea come tali accuse appaiano, anche alla luce delle date, come un travisamento dell' intera vicenda. Ad opporsi al rinnovo è anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha negato il suo «concerto» - non vincolante - alla nomina. Il magistrato, nominato procuratore capo di Arezzo nel 2014, è arrivato al termine del suo mandato quadriennale lo scorso anno ed è in attesa del rinnovo, che ha già avuto il via libera del Consiglio giudiziario di Firenze nel luglio del 2018. Dopo le notizie sul suo ruolo di consulente del governo e al tempo stesso titolare di indagini che, almeno potenzialmente, avrebbero potuto riguardare il padre di un membro del governo stesso (ovvero Maria Elena Boschi, allora ministro del governo Renzi e figlia di Pier Luigi, vicepresidente dell' istituto), il Csm aveva aperto un' istruttoria per valutare la possibile incompatibilità. Istruttoria archiviata e poi sospesa, prima di essere definitivamente archiviata, dopo che erano emerse una serie di richieste di archiviazione da parte dello stesso Rossi per procedimenti a carico di Boschi.
Da secoloditalia.it il 18 ottobre 2019. C’è anche l’autore e produttore tv Casimiro Lieto, in passato tra i papabili alla guida di Raiuno, tra gli arrestati questa mattina dalla Guardia di Finanza di Salerno. L’accusa è di corruzione in atti giudiziari. Sono in tutto sette i destinatari della misura di custodia cautelare in carcere. Si tratta di giudici tributari, funzionari, commercialisti e imprenditori. Lo scorso 15 maggio l’operazione della Guardia di Finanza di Salerno, coordinata dalla Procura della Repubblica, aveva portato all’arresto di 14 persone. Al centro delle nuove indagini, ulteriori 10 sentenze di secondo grado pronunciate dalla commissione tributaria regionale – sezione distaccata di Salerno, il cui iter procedimentale risulterebbe essere “pilotato” a favore dei ricorrenti in cambio di somme di denaro corrisposte a titolo corruttivo. Tra gli arrestati eccellenti, come riporta il sito locale Orticalab, c’è anche Antonio Mauriello. Quest’ultimo dopo aver ricoperto l’incarico di Giudice Tributario a Salerno, fa parte, da circa un anno, del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria. I fatti contestatigli riguardano il presunto concorso in 5 episodi di corruzione in atti giudiziari condotta, secondo la Procura, in qualità di intermediario. Tra gli arrestati, inoltre, ci sono imprenditori e commercialisti. Tra gli episodi contestati ci sono la cancellazione di un debito con l’Erario di oltre 35 milioni di euro ottenuto da una società di Sarno (Salerno); per un’altra società di Angri (Salerno), l’indebito vantaggio ottenuto supererebbe i cinque milioni di euro; per una terza società di Avellino, invece, la somma annullata raggiungerebbe il milione di euro. Nelle intercettazioni uno dei beneficiari di una sentenza pilotata parlando con un giudice tributario, si complimenta così per il risultato ottenuto: “Grandissimo Presidente, presidente un gol, un gol da campionato del mondo, ma io lo sapevo che lo poteva fare solo un presidente sto gol”. Stando a quanto emerge dall’inchiesta, inoltre, una mazzetta da 10 mila euro sarebbe stata elargita per aggiustare una sentenza su un ricorso da 35 milioni di euro presentato da un imprenditore dell’Agro nocerino sarnese. Ma non è tutto. Ci sono infatti anche promesse di posti di lavoro a figli e parenti di giudici tributari da parte di imprenditori per aggiustare sentenze tributarie. E’ il caso di un rappresentante di una azienda conserviera dell’Agro nocerino sarnese. Ha offerto a un giudice un posto di lavoro al figlio e alla nuora, oltre ad un regalo economico di 7 mila euro.
Antonio Di Costanzo per repubblica.it il 18 ottobre 2019. C’è anche Casimiro Lieto tra i sette arrestati nell’ambito delle indagini sulla Commissione Tributaria di Salerno che vede indagati giudici tributari e imprenditori per corruzione in atti giudiziari. Imprenditore televisivo di Avellino, Casimiro Lieto per anni ha curato i programmi di Elisa Isoardi ed è stato autore tra l’altro della "Prova del Cuoco". Vicino alla Lega è stato in ballo per diventare direttore di Rai 2, in quota Matteo Salvini. Lieto è accusato di essersi messo d’accordo con Antonio Mauriello, membro del consiglio nazionale della giustizia tributaria, per dare un posto di lavoro al figlio di Fernando Spanò, presidente della IV sezione della commissione tributaria regionale di Salerno, per condizionare favorevolmente un procedimento tributario nei confronti dell’imprenditore di 230 mila euro. "Dopo l'arresto di Lieto, la Rai dica cosa intende fare", dice il deputato del Pd Michele Anzaldi.
Gianluca Roselli per il “Fatto quotidiano” il 19 ottobre 2019. "Pensate se fosse riuscito a diventare direttore di Raiuno. Oggi ci troveremmo con il direttore della prima rete in galera!". Queste, tra le tante voci registrate ieri in Rai, sono le parole che più si ripetono davanti alla notizia dell' arresto di Casimiro Lieto per corruzione in atti giudiziari. Davvero dalle stelle alle stalle la storia di questo autore televisivo che un anno e mezzo fa sembrava essere il vero padrone della tv pubblica. Quando, da capo autore de "La prova del cuoco" e molto amico di Elisa Isoardi allora in coppia con Matteo Salvini, sembrava che le leve del comando di Viale Mazzini stessero nelle sue mani. Quando addirittura, dopo l' insediamento del nuovo vertice con Fabrizio Salini amministratore delegato e Marcello Foa presidente, il suo nome circola insistentemente come possibile direttore di Raiuno. "Casimiro chi?", ci si chiede tra gli addetti ai lavori. "Lieto! Ma come non lo conosci? È l' uomo più vicino a Salvini dentro mamma Rai". Casimiro Lieto, secondo diverse fonti, è stato per diverso tempo l'uomo di fiducia del leader leghista a Viale Mazzini, il suo orecchio, colui che tutto sa e tutto riferisce al grande capo. Ci si stupisce molto, però, in azienda, che un autore esterno sia addirittura in ballo per diventare direttore di rete. E poi addirittura di Raiuno, il canale più importante, quello da cui dipende il grosso degli introiti pubblicitari. Salvini però sembra non sentirci: vuole Lieto alla guida della rete ammiraglia. Poi però qualcosa s'incrina. Innanzitutto il gran colpo di Raiuno fallisce, grazie all'opposizione di Salini, che s'impunta. "O me o lui", dirà l'ad in un aut aut che sbarra definitivamente la strada all' autore della Isoardi. Così a dirigere Raiuno andrà, un anno fa, Teresa De Santis, sempre in quota Lega, ma almeno è un'interna Rai con un curriculum più sostanzioso. Poi la storia Salvini-Isoardi finisce e qualche tempo dopo pure Lieto abbandona Elisa, colei che gli confidava tutto, pene d'amore comprese, lasciandola da sola a spadellare. Che non sia più nelle grazie del potere lo s'intuisce dal nuovo palinsesto, dove lo ritroviamo defilato, autore di "Domenica Ventura", nuovo programma di Simona Ventura la domenica su Raidue. E ora, dopo l'arresto, la Rai fa sapere "è stato avviato l' iter per la risoluzione del contratto che - si tiene a precisare - era solo di collaborazione". Inutile dire che l'arresto di Casimiro Lieto viene vissuto con profondo imbarazzo a Viale Mazzini. Anche perché Lieto lavora in Rai da molti anni, ha partecipato a tante trasmissioni, tra cui anche il Festival di Sanremo. E in Rai era anche stimato. Qui ha costruito carriera e rapporti ed è considerato vicino a molte persone, tra cui pure Teresa De Santis, che in questo periodo ha già abbastanza guai con gli ascolti di Raiuno. Ma Lieto, dicevamo, parlava e chattava con tutti. E magari qualcuno ora teme possa uscire qualcosa di compromettente dal suo telefono sotto sequestro. La parabola di Casimiro Lieto, però, sembra segnare la fine del salvinismo spinto a Viale Mazzini, un anno e mezzo vissuto pericolosamente in cui il leader leghista sembrava il dominus assoluto. Soprattutto perché moltissimi erano saltati sul carro del vincitore. Molti, come sempre in Rai, sono stati pure veloci a scendere.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della sera” il 19 ottobre 2019. Il giorno dopo la sentenza non riesce a frenare l'entusiasmo e telefona al giudice per ringraziarlo: «Grandissimo presidente, è un gol da campionato del mondo!». Non immagina che il magistrato Antonio Mauriello sia intercettato e così quel colloquio è diventato uno degli elementi di accusa contro Casimiro Lieto, autore Rai de La prova del cuoco con Elisa Isoardi e del nuovo programma di Simona Ventura, arrestato ieri per corruzione in atti giudiziari. L'accusa è pesantissima: «Aver messo a disposizione del giudice tributario Antonio Spanò un posto di lavoro per il figlio per condizionare l' esito di un procedimento a suo carico per 229 mila euro». Ed è stato proprio Spanò a collaborare con i magistrati di Salerno ammettendo di essersi «venduto». L'inchiesta sulle sentenze «aggiustate» della commissione tributaria di Napoli va avanti da mesi e nel maggio scorso fa finire in carcere alcuni giudici. Tra loro il presidente Mauriello che - questo dicono i colleghi - orientava le decisioni e lo stesso Spanò. È proprio lui, il 17 giugno 2019, a collaborare con l'accusa. Scrive il giudice nell' ordinanza emessa ieri: «Spanò ha dichiarato che Casimiro Lieto gli fu presentato da Mauriello e ci aveva parlato per la prima volta agli inizi del 2017. Ha fatto presente che Mauriello, in virtù della funzione ricoperta presso il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria a Roma e dei suoi più volte ostentati rapporti e contatti con esponenti apicali della Lega Nord, esercitava su di lui e sui vari giudici un sentimento di riverenza. I giudici avevano un sentimento oltre che di amicizia anche di convenienza in quanto lo ritenevano legittimante in grado di farsi promotore presso il Consiglio di presidenza delle loro esigenze professionali, potendo il Mauriello perorare, a livello centrale, l'adozione di provvedimenti legislativi vantaggiosi per tutti i giudici tributari, in particolare per quelli non togati». Ma Spanò ha un problema ulteriore. E lo racconta durante l'interrogatorio: «All'epoca avevo sempre il problema legato alla ricerca di un' occupazione stabile e remunerativa per mio figlio Franco, le cui precarie condizioni economiche oltre che familiari sono state la causa principale per la quale mi sono trovato coinvolto in tale vicenda illecita. Pertanto, proprio attraverso le interessenze e i legami di Antonio Mauriello a livello politico, contavo di trovare una sistemazione e una situazione di stabilità economica per mio figlio». Spanò incontra dunque Lieto su indicazione di Mauriello. la sentenza di primo grado è stata sfavorevole all' autore Rai, il rischio di dover versare i 229 mila euro è elevato. Scrive il giudice: «Spanò ha dichiarato che fin dal primo incontro aveva riferito a Lieto di essersi determinato per un esito del procedimento a lui favorevole. Di aver sostenuto le sue ragioni in camera di consiglio basandole su motivazioni giuridiche, ma di aver poi chiesto a Lieto di interessarsi per trovare un posto di lavoro al figlio, cosa che Lieto fece, proponendolo come guardiano notturno. Posto che però il figlio rifiutò». La sentenza è comunque stata emessa il 26 settembre 2018 e quale sia stato l' esito appare evidente ascoltando la conversazione tra Mauriello e Lieto del giorno successivo.
Lieto : «Grandissimo presidente, un gol da campionato del mondo, ma io lo sapevo che lo poteva fare solo un presidente 'sto gol».
Mauriello : «E qual è sto gol, fammi sentire».
Lieto : «No, nel senso, è arrivato il dispositivo».
Mauriello : «Eh lo so».
Lieto : «E quindi un gollone, un gollone!».
Ieri per Lieto e gli altri sono scattate le manette e il trasferimento in carcere.
Antonella Baccaro per il “Corriere della sera” il 19 ottobre 2019. Sarebbe dovuto restare sotto contratto con la Rai fino al 24 maggio prossimo, in forze alla trasmissione di Simona Ventura su Rai2 La Domenica Ventura , Casimiro Lieto, l' autore della Rai finito ieri in custodia cautelare in carcere per corruzione in atti giudiziari. Invece la Rai, incalzata dal pressing di Michele Anzaldi, segretario della commissione di Vigilanza, ci ha messo meno di un giorno per avviare le pratiche di risoluzione del suo ultimo contratto. L'ultimo di una lunga serie, perché Casimiro Lieto, avellinese di Monteforte Irpino, classe 1963,in Rai ci lavorava da più di 30 anni. Ma non è per la carriera che il suo nome era balzato agli onori delle cronache televisive un anno fa, quando si favoleggiava di un suo approdo alla direzione di Rai1 mentre al governo c'erano Lega e M5S. Il suo cono di luce Lieto lo ha conquistato per essere diventato l' autore preferito di Elisa Isoardi, conduttrice della Prova del cuoco che, all'epoca della sua candidatura alla direzione di Rai1, era ancora la compagna dell' allora vicepremier leghista Matteo Salvini. In quei giorni concitati, durante i quali il suo nome rimbalzava tra pagine di giornali e siti, Lieto fingeva di schermirsi ma in realtà alimentava abilmente la propria candidatura. Intervistato dal Corriere circa il suo approdo alla direzione della «rete ammiraglia» , ad esempio, non si tirava indietro e confessava: «Ho dato disponibilità senza porre condizioni». Ma anche: «Potrà sembrare strano ma non è che stessi lavorando a questo obiettivo». In un sapiente tira e molla che poi, a causa di un gioco di equilibri più grandi di lui, non produsse l' effetto sperato. Lieto non solo non fu nominato direttore di Rai1, ma non riuscì ad acchiappare nemmeno un' altra poltrona. Al Messaggero sintetizzò così la sua Caporetto: «Mi hanno fatto la guerra per farla a Matteo (Salvini, ndr )». Quel Matteo con cui, raccontava senza remore, «andavamo a prendere il caffè al bar, perché non gli piace quello della macchinetta. Ma ci frequentiamo anche a cena, per una pizza, con i figli. Stima reciproca». Squarci ostentati di contiguità con il potere che emergono ora anche, come modus operandi , tra le righe dell'inchiesta che lo ha portato in carcere. Intanto a febbraio si era improvvisamente rotto il sodalizio con la Isoardi ma senza spiegazioni ufficiali. Quindi il suo tormentato passaggio alla Vita in diretta e l' ennesima partecipazione come autore all'ultima Miss Italia. Fino a ieri Lieto stava lavorando al programma della Ventura. In mezzoperò c'è stato il passaggio dal governo giallo-verde a quello giallo-rosso che all'autore avellinese, così esposto nelle sue simpatie leghiste, non deve aver portato bene. Nella sua terra, l'Irpinia, e più in generale in Campania, Lieto tornava di frequente, anche solo per realizzare qualche evento. Sei anni fa, ad esempio, aveva organizzato uno spettacolo natalizio per il Comune di Caserta. Nel curriculum, presentato a corredo della documentazione, scriveva tra l' altro di aver fornito consulenze televisive per oltre 1.780 programmi con più quattromila ore di copertura e 450 eventi. E forse non erano numeri lontani dalla realtà visto che, prima di diventare capoprogetto in forza al daytime di Rai1, aveva iniziato giovanissimo come reporter nelle tv avellinesi e poi a Mediaset come freelance. A 24 anni l' approdo nella Rai dell' allora direttore generale Biagio Agnes, avellinese pure lui. Qui tra Sanremo, Pavarotti and friends, Domenica in e Miss Italia aveva realizzato il suo sogno di autore bruscamente interrottosi ieri.
Brescia, arrestato il direttore dell'Agenzia delle Entrate: "Ha favorito un clan mafioso". Giuliano Zulin su Libero Quotidiano il 28 Settembre 2019. Fanno girare le scatole certe notizie: il direttore dell' Agenzia delle Entrate di Brescia è stato arrestato. Corruzione. Secondo l' accusa avrebbe chiuso un occhio nei confronti di presunti mafiosi, i quali avevano messo in piedi un sistema per raggirare il fisco nella produttiva città lombarda. Caspita, al governo promettono lotta dura all' evasione, demonizzando chi usa il contante, poi scopri che coloro i quali dovrebbero dare la caccia ai furbetti del fisco in realtà sono in affari con la "Stidda", una branchia di Cosa Nostra. L' altro ieri la procura bresciana ha emesso una settantina di provvedimenti cautelari nei confronti di persone ritenute colpevoli di aver commercializzato crediti d' imposta falsi per decine di milioni di euro. E questi presunti mafiosi l' avevano sempre fatta franca poiché - denunciano i pm - erano pieni di complici negli uffici che contano. Fra questi ci sarebbe Generoso Biondi, il grande capo delle Entrate a Brescia. Secondo gli inquirenti il direttore avrebbe in qualche modo agevolato, o comunque «ammorbidito» una serie di verifiche fiscali e patrimoniali nei confronti di alcuni imprenditori in cambio di favori, e non solo. Biondi però non sarebbe stato l' unico a commettere illeciti. In manette pure il funzionario Alessandro De Domenico. Nel registro degli indagati sarebbero stati iscritti anche altri collaboratori, funzionari e dipendenti dell' Agenzia. Ma pare che fra gli arrestati ci sarebbero addirittura alcuni militari della Guardia di Finanza, collusi o che non avrebbero lanciato un allarme di fronte a un reato. Generoso Biondi - che attende dal carcere di Canton Mombello la data dell' interrogatorio di garanzia - non è ahinoi il primo né l' ultimo a mettere in discussione il buon nome dell' Agenzia delle Entrate. A fine giugno, sempre in Lombardia, erano finiti in manette per corruzione e rivelazione di segreti d' ufficio Roberto Leoni, direttore delle Entrate di Varese ed ex capo degli sceriffi del fisco di Como. Insieme a lui fu preso anche un altro ex funzionario della Agenzia comasca, attualmente capo area dell' ufficio legale delle Entrate di Pavia. A febbraio invece, per aver praticato un extra sconto non dovuto a un imprenditore in cambio di oggetti preziosi, finì ai domiciliari il direttore dei signori delle tasse di Salerno, Emilio Vastarella. In totale, rivelarono dalla stessa Agenzia, dal 2000 al 2017 sono finiti sotto inchiesta 455 dipendenti, mentre in 107 sono stati condannati. In pratica 6 condanne all' anno. Numeri spaventosi se pensiamo a come le Entrate trattano invece i contribuenti da evasori. «Si continua a prevedere che nel 94% dei controlli deve essere trovato qualcosa; i cittadini - attacca l' ex viceministro Enrico Zanetti - spesso si interrogano su come sia possibile che ogni volta che c' è un controllo gli trovino sempre qualcosa. Ecco, bisogna dire ai cittadini che è scritto nero su bianco, gli uffici dell' Agenzia devono fare questo. Follia». Le Entrate poi chiedono l' Iva retroattiva alle autoscuole e inventano sistemi per prevenire l' evasione sulle piccole imprese (i famosi Isa) «sbagliati», come ha ammesso il neo viceministro all' Economia, Misiani. Di Maio poi agita le manette per gli evasori. Ma il Fisco perde la metà dei processi...Tira una brutta aria. Giuliano Zulin
I Paesi dell’UE in ordine di evasione fiscale pro capite. Il vincitore è facile (purtroppo), ma il secondo è una sorpresa. Adrián Francisco Varela il 28 luglio 2019 su it.businessinsider.com. Una relazione del gruppo socialista al Parlamento europeo rivela quanta parte del denaro delle tasse viene evasa pro capite in ciascun paese dell’UE e quale percentuale di IVA viene defraudata ai danni dei ministeri del tesoro nazionali. Insieme, i 28 paesi dell’UE perdono circa 825.000 milioni di euro di entrate fiscali annuali a causa dell’evasione fiscale. Il 1 ° gennaio è entrata in vigore la direttiva anti-evasione fiscale dell’Unione europea, che rappresenta un altro passo avanti fatto a Bruxelles nella lotta contro questo tipo di frode. Questo processo, avviato nel 2012, ha innalzato gli standard comunitari contro l’evasione fiscale e con quest’ultima direttiva ci si concentra sulle pratiche “aggressive” di alcune multinazionali per evitare di pagare le tasse, secondo l’UE. Questo è un altro passo nell’iniziativa contro l’evasione fiscale guidata dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e a cui i 28 partecipano. Tenendo presente che ogni anno nei paesi membri dell’UE non vengono pagati più 825.000 milioni di euro per questo motivo, questa potrebbe non essere l’ultima iniziativa di Bruxelles in questa direzione. La cifra viene data in una relazione sottoposta al Parlamento dal gruppo parlamentare dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici, precedentemente noto come Partito Socialista europeo. Oltre a una cifra globale di quanto è stato perso nell’UE nel suo insieme per via dell’evasione fiscale, il documento offre dati disaggregati sui singoli paesi che potrebbero essere sorprendenti. Pertanto, lo studio, che comprende gli ultimi dati resi disponibili da Eurostat e dalle autorità fiscali dell’UE, corrispondenti al 2015 e al 2016, conclude che nei paesi con il carico fiscale più elevato, che rappresenta la percentuale che le imposte rappresentano rispetto al reddito, si verifica più evasione fiscale. Tuttavia, questa stessa proporzione non si verifica nel caso dell’IVA. Inoltre, il testo rivela che nella maggior parte dei paesi dell’Europa meridionale e orientale che hanno una più alta percezione della corruzione secondo Transparency International, l’evasione fiscale pro capite è più bassa rispetto ad alcuni paesi scandinavi e dell’Europa centrale. Nel frattempo, la situazione è invertita per quanto riguarda l’evasione dell’IVA, con Romania, Grecia, Italia, Slovacchia e Lituania in testa. L’autore del rapporto, il Professore presso l’Università di Londra Richard Murphy, precisa che lo studio prende in considerazione solo l’evasione fiscale, non l’elusione fiscale, con la quale le grandi aziende approfittano di sotterfugi legali per pagare meno tasse e risparmiare tra 50.000 e 190.000 milioni di euro. Questi sono i paesi dell’UE in cui i cittadini evadono più tasse pro capite, ordinati dai meno ai più evasori e includendo la percentuale di onere fiscale, il tipo di IVA applicata in ciascun paese e la percentuale di questa che viene sottratta.
28- Bulgaria: 531 euro per abitante. Pressione fiscale: 29,1% Aliquota IVA: 20% Percentuale IVA evasa: 13,6%
27- Romania: 820 euro Pressione fiscale: 28% Tipo IVA: 20% IVA evasa: 35,9%
26- Repubblica Ceca: 834 euro Onere fiscale: 34% Aliquota IVA: 21% Percentuale IVA evasa: 14,2%
25 – Croazia: 835 euro Onere fiscale: 37,1% Aliquota IVA: 25% Percentuale IVA evasa: 1,2%
24- Lettonia: 863 euro Onere fiscale: 30,1% tasso di IVA: 21% la percentuale dell’IVA evasa 11,3%
23- Polonia: 911 euro Pressione fiscale: 32,4% IVA: 23% percentuale di IVA evasa: 20,8%
22- Ungheria: 926 euro Pressione fiscale: 38,8% Aliquota IVA: 21% Percentuale IVA evasa: 13, 3%
21- Slovacchia: 995 euro Pressione fiscale: 32,1% Aliquota IVA: 20% Percentuale IVA evasa: 25,7%
19- Portogallo 1,064 euro Pressione fiscale:34,4% Aliquota IVA del: 23% Percentuale dell’IVA evasa: 10,2%
19 – Estonia: 1.064 euro Pressione fiscale: 33,7% Aliquota IVA: 20% Percentuale IVA evasa: 6,8%
18- Lituania: 1,073 euro Pressione fiscale: 28,9% Aliquota IVA: 21% Percentuale IVA evasa: 13.3%
17- Slovenia: 1.260 euro Imposte fiscali: 36.6% Aliquota IVA: 22% Percentuale IVA evasa: 8%
16- Spagna: 1.292 euro Pressione fiscale: 33,7% Aliquota IVA: 21% Percentuale IVA evasa: 2,7%
15- Paesi Bassi: 1.307 euro Onere fiscale: 37,4% Aliquota IVA: 21% Percentuale IVA evasa: 4%
14 – Regno Unito: 1.338 euro Imposte fiscali di: 33,1% Aliquota IVA: 20% Percentuale IVA evasa: 11,7%
13- Irlanda : 1.460 euro Pressione fiscale: 23,4% Aliquota IVA: 23% Percentuale IVA evasa: 11,2%
12- Austria: 1.483 euro Pressione fiscale: 43,2% Aliquota IVA: 20 % Percentuale di IVA evasa: 7,3%
11- Germania: 1.522 euro Onere fiscale: 38,4% Aliquota IVA: 19% Percentuale IVA evasa: 9,4%
10- Svezia: 1.716 euro Pressione fiscale: 43,1% aliquota IVA: 25% Percentuale dell’IVA evasa: 1%
9- Francia: 1.769 euro pressione fiscale: 45,6% aliquota IVA: 19 , 6% Percentuale di IVA evasa: 11,9%
8- Grecia: 1.845 euro Pressione fiscale: 36,6% IVA: 24% percentuale di I VA evasa: 29,2%
7- Cipro: 1.886 euro Pressione fiscale: 33,2% Aliquota IVA: 19% Percentuale IVA evasa: 4,7%
6- Finlandia: 1.950 euro Pressione fiscale: 43,9% Aliquota IVA: 24% Percentuale IVA evasa: 8%
5- Malta: 1.999 euro Onere fiscale: 32,1% Aliquota IVA: 18% Percentuale IVA che viene elusa: 2,7%
4- Belgio: 2.668 euro Pressione fiscale: 45,2% Aliquota IVA: 21% Percentuale IVA evasa: 9,7%
3- Lussemburgo: 2.777 euro pressione fiscale: 37,2% aliquota IVA: 17% Percentuale dell’IVA evasa 0,9%
2 Danimarca: 3.066 euro onere fiscale: 46,5% Aliquota IVA del: 25% Percentuale IVA elusa: 8,5%
1 Italia: 3,147 euro Onere fiscale: 43% aliquota IVA del: 22% Percentuale IVA evasa: 25,9%
Fisco, in Lombardia si pagano più tasse. Ultima la Calabria. Pubblicato sabato, 10 agosto 2019 da Corriere.it. È quanto emerge da uno studio della Cigia di Mestre che mette in evidenza una classifica che pone al secondo posto, dopo i lombardi, i valdostani con 11.480, poi gli abitanti del Trentino con 11.297 e gli emiliano-romagnoli con 11.252 euro. L’ultima, con un “peso” del fisco più contenuto, è la Calabria, dove ogni residente ha pagato in media 5.516 euro. Su un totale nazionale di 9.168 euro, l’83,7 % del totale, e cioè 7.672 euro, finisce nelle casse dello Stato centrale , il 16,3% pari a 1.495 euro pro capite alle Regioni e agli Enti locali (Comuni, Province e Comunità montane). «Questo risultato — ha fatto presente l’Ufficio studi della CGIA che ha realizzato la ricerca — non ci deve sorprendere. Come recita l’articolo 53 della Costituzione, il nostro sistema tributario è basato sul criterio della progressività. Pertanto, nei territori dove i livelli di reddito sono maggiori, grazie a condizioni economiche e sociali migliori, anche il gettito tributario presenta dimensioni più elevate che altrove».Per la Cgia, i dati fanno riflettere sull’autonomia differenziata che «potrebbe fare bene a tutta l’Italia e non solo alle regioni che hanno chiesto maggiore autonomia», dice il coordinatore dell’ufficio studi Paolo Zabeo. — Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono le regioni che stanno vivendo la fase più avanzata di questa partita, ma altre 9, in forme diverse, hanno manifestato l’interesse ad avviare una trattativa con l’Esecutivo», ha affermato il segretario della Cgia Renato Mason, secondo il quale «più autonomia equivale a più responsabilità ed è evidente che i risparmi e l’extra gettito prodotto devono rimanere nei territori che li generano».
TARTASSATI FOREVER. Stefano Cingolani per “il Foglio” il 26 luglio 2019. "Per questo, allora, dovete pagare le tasse, perché coloro che compiono questa funzione sono ministri di Dio" San Paolo, Lettera ai Romani, 13,6 La prossima settimana gli italiani dovranno presentare la dichiarazione dei redditi e pagare, senza sapere esattamente che cosa. Molti per la verità non sanno nemmeno quanto, tra anticipi, conguagli e via dicendo; quindi viene spontaneo chiedersi anche il perché. Il leghista Armando Siri ha illustrato al consiglio generale delle corporazioni presieduto da Matteo Salvini e riunito al Viminale (tornato così la sede del governo come fino al 1929), una nuova imposta sul reddito che a quanto pare s' aggiunge a quelle esistenti, ma ha promesso che 20 milioni di famiglie avranno un beneficio di 3.500 euro l' anno, il che costerà alle casse dello stato 20 miliardi di euro. Siccome l'aritmetica non è ancora un'opinione, la moltiplicazione dovrebbe dare 70 miliardi, a meno che il beneficio non sia di fatto inferiore e/o meno esteso. E così sarà. Il Movimento 5 stelle, l' alleato di governo che può contare alla Camera e al Senato quasi il doppio dei parlamentari della Lega, ha già gettato sabbia sull' intero meccanismo, quindi bisogna aspettare per capire se sotto tanto fumo c' è anche dell' arrosto. Siri parla di "fa miglia fiscale" anziché di singolo contribuente, di tetti a 30 mila euro per un single, 55 mila per famiglia monoreddito e 65 mila per chi percepisce più redditi. Secondo alcune indiscrezioni, la percentuale del 15 per cento potrebbe essere facoltativa, esattamente come avviene per le partite Iva sotto i 65 mila euro annui. Ma c' è anche la possibilità che il 15 per cento diventi 10 per cento con le deduzioni che riducono la base imponibile. Insomma, la proposta leghista rende sempre più fitta, confusa e inestricabile la giungla delle tasse.
IMPOSTE, ACCISE E TASSE. I contribuenti tra gennaio e dicembre 2018 hanno pagato 463 miliardi e 296 milioni di euro. Accanto a quelle dirette sul reddito (Irpef sulle persone fisiche, Ires sulle società, Irap sulle attività produttive, Isos sostitutiva sui capitali, Imu municipale) pari a 247,6 miliardi dei quali 187,4 miliardi dall' Irpef, ci sono le imposte indirette (215,6 miliardi), la più importante è l'Iva che colpisce il valore aggiunto (aliquota media 22 per cento) e genera un gettito di 133 miliardi l' anno scorso. Esistono le imposte che gravano sui consumi (per esempio il tabacco), le accise (imposte di fabbricazione e vendita come sulla benzina attraverso la quale si pagano ancora i trasferimenti per i terremoti le catastrofi naturali di mezzo secolo fa), c' è anche la tassa sui televisori per finanziare la Rai, sono 2,1 miliardi di euro che si pagano insieme alle bollette elettriche, una vera offesa al principio base della trasparenza. Vengono colpiti i risparmi, i depositi bancari, i capitali, gli aeroporti, i porti, gli alberghi (pagati dai clienti). Le patrimoniali che colpiscono la proprietà portano al fisco circa 45 miliardi: l' im posta di bollo (6,8 miliardi), l' imposta di registro e sostitutiva (5,2 miliardi), l' im posta ipotecaria (1,6 miliardi), i diritti catastali (659 milioni appena), poi il bollo auto (6,6 milioni), l' imposta su transazioni finanziarie (solo 400 milioni), l' imposta sulle successioni e donazioni (736 milioni, tra le più basse in Europa), imposte minori come quelle sul patrimonio netto delle imprese e sulle imbarcazioni e aeromobili. Il grosso del gettito, quasi 22 miliardi di euro l' anno, proviene dalle abitazioni con l' Ici/Imu/Tasi. Sono tutte "tasse piatte" (non progressive), con un effetto svantaggioso per le famiglie italiane nelle quali i beni colpiti possono costituire una parte importante della ricchezza.
CONTRIBUTI. Sfioriamo soltanto, per non perderci, il bosco dei contributi sociali che gravano per 229,5 miliardi (dei quali 211,4 all'Inps) sui lavoratori e sugli imprenditori, anch'essi numerosi, opachi, oggetto continuo di trattativa sindacale e scambio politico (per esempio la fiscalizzazione degli oneri sociali negoziata in modo triangolare tra governo, confindustria e confederazioni sindacali).
L'intrico si fa ancor più fitto quando arriviamo alle imposte sui redditi. Intanto, è persino difficile capirle. Il Senato ha pubblicato un "documento di valutazione" intitolato "La giungla delle aliquote effettive" che chiarisce la differenza tra la percentuale applicata per ogni scaglione di reddito (aliquota marginale o legale) e quel che si paga in pratica una volta calcolate deduzioni e detrazioni (aliquote medie effettive). "L' estrema articolazione e complessità delle norme determina un'alta variabilità: accanto alle aliquote legali (o esplicite) esistono molte aliquote implicite che derivano dalla variazione dei benefici o delle detrazioni che abbassano l'Irpef lorda", scrive lo studio redatto da due funzionari del ministero dell' Economia e uno del Senato. Alcune aliquote medie sono infatti diventate, in determinati intervalli, decrescenti al crescere del reddito. Altre salgono e scendono moltissimo in brevi intervalli di reddito, determinando effetti indesiderati, tra i quali quello della cosiddetta trappola della povertà, con ali quote marginali effettive superiori al 100 per cento. Paradosso dei paradossi, "l'aliquota marginale effettiva risulta sostanzialmente invariata, anziché crescente, da 28 mila euro annui fino a svariati milioni". La Corte dei Conti sostiene che il 52,5 per cento dei contribuenti (cioè quelli fino a un imponibile di 28 mila euro l' anno) paga di fatto il 14,4 per cento meno di quel che promette la Lega. Come mai? Ecco i conti rielaborati dall' Adnkronos: lo scaglione che dichiara fino a 15.000 euro l' anno, pari a 17,6 milioni di contribuenti, paga un'Irpef media del 5,2 per cento, mentre lo scaglione successivo, tra 15.000 e 28.000 euro, versa il 14,4 per cento. Tutto merito degli sconti fiscali i quali, per queste due fasce, ammontano a 67,2 miliardi di euro, su un totale di 107,4 miliardi tra detrazioni e deduzioni. Le aliquote marginali, per i primi due scaglioni, sarebbero rispettivamente del 23 e del 27 per cento. Tra 28.000 e 55.000 euro, cioè 6,2 milioni di contribuenti, l'aliquota media effettiva è pari al 21,4 per cento (38 per cento quella marginale); mentre per quello successivo (tra 55.000 e 75.000 euro) l'imposta sale al 27,4 per cento (41 per cento quella marginale). Infine per l' ultimo scaglione, quello che supera i 75.000 euro, il prelievo arriva al 33,2 per cento (43 per cento l' ali quota marginale). Le ultime due fasce comprendono 1,8 milioni di contribuenti, equamente divisi. Ma quanto versano al fisco i contribuenti italiani che hanno dichiarato un reddito complessivo di 844,6 miliardi di euro sui quali si applicano agevolazioni fiscali per 107,4 miliardi di euro? Il primo scaglione, pari a 127,6 miliardi, ha potuto godere di deduzioni per 7,3 miliardi e detrazioni di 20,1 miliardi, per un totale di 27,4 miliardi di euro. Nel secondo scaglione c' è un imponibile dichiarato di 311 miliardi, con sconti in deduzioni pari a 12,7 miliardi più altri 27,1 miliardi di detrazioni, per un totale di 39,8 miliardi che ammonta al 37,1 per cento di agevolazioni fiscali. La terza fascia (fino ai 55.000 euro fissati come tetto dalla Lega) ha dichiarato un reddito di 229,6 miliardi di euro e ha ottenuto deduzioni e detrazioni per un totale di 23,9 miliardi. Ci sono poi 900.000 contribuenti che appartengono al quarto scaglione, hanno dichiarato 55 miliardi e hanno ottenuto 4,4 miliardi in deduzioni e 1,1 miliardi in detrazioni, per 5,5 miliardi, pari al 5,1 per cento del totale. L' ultimo gruppo, composto anch' esso da 900.000 contribuenti che hanno dichiarato 121,5 miliardi e hanno ottenuto agevolazioni per 10,9 miliardi di euro. Può darsi che Armando Siri non abbia consultato i dati, oppure il meccanismo studiato dagli esperti della Lega sia così misterioso e sofisticato da essere sfuggito ai magistrati della Corte dei Conti. Ma prendiamo sul serio obiettivi e strumenti della cosiddetta Flat tax. In tal caso, le tre obiezioni mosse dall' Isti tuto Bruno Leoni sono davvero consistenti. Primo: "Se l' aliquota del 15 per cento fosse calata nell' attuale sistema sulla scorta di quanto fatto per le partite Iva, i contribuenti avrebbero un enorme incentivo a mantenersi al di sotto della soglia dei 55 mila euro, perché - superandola - il carico fiscale si moltiplicherebbe di colpo, col passaggio repentino a un' aliquota marginale del 41 per cento". La seconda questione riguarda l' irrazionalità di un sistema in cui "persone con pari reddito possono essere assoggettate ad aliquote totalmente diverse, e persone con redditi più alti possono pagare aliquote più basse di altre con redditi inferiori".
Infine, chi paga? "Una riduzione di tasse non deve solo sembrare una riduzione delle tasse. Deve anche esserlo. Fermi restando i vincoli di finanza pubblica, questo implica un taglio della spesa di cui, al momento, non abbiamo né indizi né segnali". Il parametro fondamentale si chiama pressione fiscale, cioè il peso complessivo delle imposte di qualsiasi natura esse siano sul reddito prodotto dagli italiani. E questo resta non solo troppo alto al 43 per cento, eccessivo per la natura e qualità dei servizi erogati, e anche rispetto al pil italiano. Nelle sue considerazioni finali lette il 31 maggio di quest'anno, il governatore della Banca d' Italia, Ignazio Visco ha chiesto esplicitamente di rivedere il sistema fiscale nel suo insieme. Rileggiamo le sue parole già dimenticate stando al dibattito politico di questi giorni: "Il Paese ha bisogno di un' ampia riforma fiscale. Dai primi anni Settanta del secolo scorso sono state introdotte nuove forme di tassazione ed è stato progressivamente definito un complesso insieme di agevolazioni e di esenzioni, nell' assenza di un disegno organico e con indirizzi non sempre coerenti. Rivedendo solo alcune agevolazioni o modificando la struttura di una singola imposta si proseguirebbe in questo processo di stratificazione. Bisogna invece interromperlo, per disegnare una struttura stabile che dia certezze a chi produce e consuma, investe e risparmia, con un intervento volto a premiare il lavoro e favorire l' attività di impresa". Il governo gialloverde, allo stato attuale, non ha dato retta al governatore.
Tutti hanno molto da farsi perdonare sulle tasse. A destra pesano le promesse non mantenute, a sinistra quelle non fatte. Silvio Berlusconi nell' ormai lontanissimo 2001 firmò in tv davanti a Bruno Vespa il suo contratto con gli italiani impegnandosi a ridurre le imposte, sia il numero degli scaglioni sia le aliquote. E c' era anche la Lega allora guidata da Umberto Bossi, ma fieramente anti tasse. Hai voglia a evocare Margaret Thatcher: la spesa pubblica sul prodotto lordo è aumentata. Hai vo glia a idolatrare Ronald Reagan: tutte le imposte, comprese quelle sui redditi, sono lievitate, anche se non abbastanza per coprire la spesa corrente. Poi è arrivata la crisi e con essa la patrimoniale Monti sulle case che ha colpito la ricchezza degli italiani e ha generato una vera rivolta. Nel frattempo, Romano Prodi che aveva battuto di nuovo Berlusconi nel 2006, evocava San Paolo per convincere gli italiani che "pagare le tasse è bello", come disse il suo ministro dell' economia, Tommaso Padoa Schioppa. Quel governo in realtà intervenne nel ridurre del 5 per cento il cuneo fiscale, cioè la differenza tra il costo del lavoro comprensivo di imposte e contributi e la busta paga effettiva, che s' aggirava allora sul 45 per cento. Vennero fiscalizzati gli oneri sociali, spalmandoli indirettamente sull' intera platea dei contribuenti. Non funzionò granché e quando il Pd è tornato al governo nel 2013, il cuneo fiscale, ancora troppo ampio, è diventato una pistola scarica, lasciando la sinistra nuda davanti al tabù delle tasse.
Karl Marx non aiuta, ambiguo come spesso gli capitava, nel Manifesto del 1848 aveva evocato una imposta progressiva; più tardi, attaccando il programma del partito socialdemocratico tedesco, aveva liquidato come un' illusione sia tassare i redditi sia colpire l'eredità, per lui ormai contava soltanto la presa del potere da parte del proletariato. Tutto il movimento operaio, laburista e socialista, ha affidato alle imposte il ruolo di assicurare la giustizia e finanziare lo stato sociale. Un' impostazione che non è cambiata nemmeno quando la globalizzazione ha reso i redditi, e non solo quelli da capitale, sempre più mobili, mondiali, inafferrabili, così che il peso di un apparato statale sempre più grande e burocratico ha finito per gravare soltanto sui redditi da lavoro, per lo più da lavoro dipendente. Così, la sinistra si è trovata nella paradossale situazione di dover tartassare proprio i ceti sociali di riferimento e i suoi elettori hanno finito per punirla. In Italia, in Europa e persino negli Stati Uniti. Un errore strategico dal quale non ci si riuscirà a riprendere facilmente. Intanto la nuova destra s' appropria di uno strumento, la flat tax, senza sapere davvero come farlo funzionare.
Sventola una bandiera, grida uno slogan e alla fine della fiera il peso del fisco aumenta insieme a quello dello stato. Il vero tabù si chiama spesa pubblica. I Cinque stelle che mietono voti soprattutto al sud sanno bene che la spesa assistenziale è il pane e il companatico del candidato. La Lega che ormai amministra quasi tutto il nord non ha intenzione di ridurre i trasferimenti pubblici agli enti locali, nei quali s' annida il marcio della spesa corrente. La battaglia sull' autonomia serve anche a coprire l' eccesso di spesa riappropriandosi ex ante di parte della quota versata al fisco. Lo stesso vale per il continuo ricorso ai condoni (adesso si parla di una pace fiscale bis) che ha l' obiettivo di aumentare le entrate per evitare di ridurre le spese. Il governo del cambiamento ha ottenuto il consenso degli elettori attaccando la politica e gli sprechi del denaro pubblico, ora passerà alle cronache come quello che ha più dilapidato (la spesa supererà i 900 miliardi di euro nei prossimi due anni) senza nemmeno ottenere una maggiore crescita economica e una migliore distribuzione dei redditi. Chissà che cosa direbbe Paolo di Tarso se oggi scrivesse ai romani.
L’EFFETTO DELL’EVASIONE FISCALE: IL PATRIMONIO DELLE FAMIGLIE ITALIANE E’ SUPERIORE A QUELLO DI TEDESCHI, INGLESI E CANADESI. Rosaria Amato per “la Repubblica” il 14 maggio 2019. Le famiglie italiane più ricche di quelle tedesche, le imprese italiane meno indebitate di quelle francesi. A pochi giorni dal severo giudizio della Ue sui conti pubblici, arrivano i dati molto più confortanti di Istat e Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie e delle società non finanziarie. A fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane (la differenza tra la ricchezza lorda e i debiti) è stata pari a 9.743 miliardi di euro, 8,4 volte il reddito disponibile. Una situazione frutto più delle scelte e dei vantaggi dei decenni passati, anche se, dopo un periodo di ripiegamento tra fine 2016 e fine 2017 la ricchezza netta è tornata ad aumentare, 98 miliardi di euro, l' 1% in più. Anche adesso le famiglie italiane risultano più ricche di quelle francesi, inglesi e canadesi. Ma negli ultimi anni, osservano Istat e Bankitalia, «il divario si è notevolmente ridotto» , a causa del « ristagno ventennale dei redditi delle famiglie italiane». Il super-risparmio delle famiglie non controbilancia direttamente il debito pubblico abnorme, ma è sicuramente una risorsa importante, anche se le scelte degli italiani sono molto prudenti, quasi conservative: le abitazioni costituiscono circa la metà della ricchezza lorda delle famiglie, e tra le attività finanziarie emerge la preponderanza dei depositi, il cui peso è cresciuto dal 10 al 13%, a scapito di azioni e altre partecipazioni (passate dal 12 al 10%) e soprattutto dei titoli, più che dimezzati (dall' 8 al 3%). La fiducia degli italiani nel mattone è storica: nel 1950 le attività reali, certificava Bankitalia in uno studio pubblicato a novembre, avevano un valore 6 volte superiore al reddito disponibile, adesso siamo un po' oltre il 5, con le abitazioni che contano per 4,6 volte: tutto sommato in quasi 70 anni le cose non sono cambiate moltissimo. E questo non è detto che sia un male: la diffusione della proprietà dell' abitazione in Italia ha permesso il mantenimento di un certo livello di uguaglianza, rispetto a Paesi come la Germania. Del resto non è che gli italiani siano contrari per principio agli investimenti mobiliari. I depositi, certo, sono sempre stati molto importanti, costituiscono circa il 30% della ricchezza finanziaria. A partire dagli anni Novanta sono aumentati gradualmente gli acquisti di titoli: quelli del debito pubblico però oggi sono poco convenienti, per via dei tassi d' interesse bassi, mentre quelli bancari fanno paura, dopo l' entrata in vigore delle norme sul bail- in, che impongono la condivisione del rischio ad azionisti e obbligazionisti in caso di fallimento della banca. A crescere con una certa energia negli ultimissimi anni ci sono solo i fondi pensione, mentre si stanno riprendendo gli acquisti di azioni, partecipazioni e fondi comuni. Le società finanziarie, oltre che un basso indebitamento, mostrano un certo dinamismo: a fine 2017 la ricchezza netta era di 1.053 miliardi di euro, con il totale delle attività del settore, 4.943 miliardi, costituito per il 63% da attività non finanziarie. L' aumento della ricchezza lorda del 3,7% dipende proprio dall' incremento della componente finanziaria ( più 11,9%), rispetto alla contrazione delle attività reali. In particolare cresce il valore di impianti e macchinari e soprattutto dei prodotti di proprietà intellettuale (più 6,1%).
Italia prima in Europa per evasione fiscale. Uno studio di The Tax Research LLP conferma il nostro (triste) primato da 190 miliardi di euro l'anno, scrive il 30 marzo 2019 Panorama. Italia prima in Europa per evasione fiscale con ben 190,9 miliardi di euro. Lo dice l'ultima statistica di "The Tax Research LLP" che ha analizzato una per una ogni nazione della Ue. E quello che ne esce non è certo piacevole per i conti della nostra economia. 190 miliardi sono di fatto una cifra che rappresenta 4 volte, se non 5, l'ultima manovra finanziaria. Oppure si può dire che sia il doppio di quanto lo Stato spende ogni anno per la spesa sanitaria nazionale. Una cifra in crescita rispetto allo stesso studio di una anno prima e che segna come ogni manovra messa in campo dai governi che si sono succeduti in questi anni non hanno alcun peso e non riescono a porre un freno a quella che è una vera e propria piaga per il nostro paese. Ci si può consolare guardando però il resto della classifica che mostra come non siamo proprio gli unici in Europa "furbetti" della dichiarazione dei redditi. Al secondo posto infatti troviamo la Germania, con ben 125 miliardi di mancati introiti, e terza la Francia con 119 miliardi. Paesi che sono i primi a darci insegnamenti e a farci i conti in tasca (con relative morali) ma che alla fine non sono per niente immuni dal peccato. Un secondo studio, questo di "The European Tax Gap" ci fornisce un altro dato legato all'evasione fiscale dei paesi europei. Il Tax Gap è un indicatore che riflette il peso dell'evasione fiscale per le casse dello Stato. Si misura come il rapporto tra tasse evase e gettito fiscale. In Italia il tax gap vale il 23,29% delle entrate fiscali dello Stato, il quarto valore più alto in Europa dopo Romania, Grecia e Lituania.
Stiamo diventando un Paese di assistiti, scrive Nicola Porro, Sabato 30/03/2019 su Il Giornale. Sono davvero molto interessanti le statistiche pubblicate dal Tesoro sulle tasse sul reddito pagate dagli italiani relative al 2017. È la foto esatta del nostro contribuente. E dei rischi che corre. 41 milioni di italiani devono in qualche modo avere a che fare con commercialisti o consulenti fiscali per rendicontare ciò che si sono portati a casa: tra di loro lavoratori dipendenti, partite Iva e pensionati. Questi ultimi pagano le imposte, anche se si finge di ignorarlo. Ebbene, su questa vasta platea ci sono 13 milioni a zero Irpef, per due ordini di motivi. Il primo è che il loro reddito annuale non arriva agli 8.000 euro, il secondo è che grazie alle detrazioni riescono a non pagare nulla. Primo piccolo insegnamento: ogni sistema fiscale ha delle soglie. Ai critici della soglia imposta per la flat tax a quota 65mila, segnalo dunque che una soglia del tipo o la va o la spacca esiste già. È bassa e, teoricamente, incentiva il piccolo nero. Siamo tutti disonesti o contabili? Può darsi, ma non è un buon motivo per applicare un'imposta su chi ha redditi così ridotti. I restanti trenta milioni di contribuenti pagano un'Irpef cumulata di 157,5 miliardi. Seconda considerazione generale: un terzo della popolazione è assistito dai due terzi. L'imposta sul reddito è il tributo dei tributi: quella che secondo la teoria dell'imposta beneficio si giustifica per il pagamento dei servizi generali che ci fornisce lo Stato, dalla difesa alla giustizia, dalla scuola alla sicurezza. Ebbene un italiano su tre, almeno per quanto riguarda questo grande tributo, è sulle spalle degli altri due. Da un punto di vista più microeconomico, non è un buon segnale quello generato da un Paese in cui una parte così vasta dei suoi cittadini è in qualche modo assistita: ad un terzo di contribuenti a Irpef zero (13 milioni) si devono infatti sommare 25 milioni di non contribuenti (compresi i bambini, ovviamente): tutto ciò comporta statisticamente che ogni italiano assiste almeno un suo vicino. La terza considerazione riguarda i ricchi, che, come tutti dicono fino alla sfinimento, sono pochi, troppo pochi in relazione alla popolazione. La retorica della disuguaglianza galoppante fa il resto. Guardando alle dichiarazioni dei redditi, viene voglia di dire che siamo fortunati che essi ci siano. E che il problema non è tanto la disuguaglianza dei redditi, ma il fatto che ci siano in Italia così pochi Paperoni. Solo l'1,4 per cento delle dichiarazioni è fatta da contribuenti il cui reddito va dai centomila ai duecentomila euro, eppure costoro contribuiscono al 13 per cento del gettito Irpef. Solo 38mila persone, cioè lo 0,1 per cento dei contribuenti, hanno un reddito superiore ai 300mila euro, ma il loro contributo vale il 6 per cento dell'intero gettito. Quarta considerazione riguarda la più vecchia flat tax introdotta in Italia, quella sugli affitti. Essa genera un'imposta di 2,4 miliardi. Ebbene è ancora in crescita: più 8 per cento il suo imponibile. L'ennesima dimostrazione di come una tassa piatta e semplice e con un'aliquota contenuta, faccia emergere il sommerso e sia desiderabile. Come da anni ci spiega la Confedilizia. Ultima questione, che alcuni media hanno sottolineato, è il cosiddetto paradosso sulla «ricchezza degli italiani» che è pari a 11mila miliardi. Il non detto è che sarebbe inspiegabile tanta ricchezza in relazione a così pochi redditi. Quasi un invito a comportarsi di conseguenza: tassare il patrimonio. Si tratta di una sciocchezza, non c'è alcun paradosso, si tratta del risparmio degli italiani accumulato in decenni. Una gran parte inoltre è incastrato in valori immobiliari, non facilmente realizzabili.
La foto dell'Irpef è sempre molto utile per capire come molti luoghi comuni possano essere smentiti con facilità.
Stangata dell’Agenzia delle Entrate ai “cervelli di ritorno”, è polemica. Tredici scienziati italiani, rientrati dall’estero, ricevono cartelle esattoriali da migliaia di euro. E scrivono al Miur, scrive Elena Dusi il 6 marzo 2019 su La Repubblica. Michele De Gennaro ha aperto la lettera dell'Agenzia delle Entrate e si è trovato un conto da 20.998,21 euro. "Da quel giorno di ottobre del 2018 sono entrato in un labirinto". L'ingegnere esperto in auto con ridotte emissioni di anidride carbonica è un "evasore totale" perché ha usufruito della legge sul rientro dei cervelli. Oggi è tornato in Austria, da dove veniva. "Lavoro all'Istituto di tecnologia di Vienna. Mi sento umiliato e mortificato. Mi dispiace per la mia Italia". Il decreto legge 78 del 2010 per il rientro dei cervelli permette agli scienziati italiani all'estero di tornare pagando l'Irpef solo sul 10% dello stipendio. De Gennaro nel 2012 decide di cogliere l'occasione. "Il contratto italiano al Jrc della Commissione Europea a Ispra, Varese, non reggeva il confronto con lo standard austriaco. Ma gli incentivi mi avevano convinto". Alcune migliaia di scienziati, nel corso degli ultimi anni, hanno usufruito dell'opportunità. Ma nel 2017 l'Agenzia delle Entrate ha stabilito con una circolare interna e in modo retroattivo che all'agevolazione fiscale avevano diritto solo i ricercatori che si erano iscritti all'Aire, l'Anagrafe degli italiani residenti all'estero. "Quando sono rientrata io, nel 2012, questa registrazione non era richiesta", racconta Annalisa Fico, che si occupa di cellule staminali e malattie neurodegenerative al Cnr di Napoli e deve al fisco 9mila euro. "Sono andata all'Agenzia delle Entrate presentando contratti di lavoro in Francia, ricevute degli affitti e bollette pagate. Hanno controllato che ero stata effettivamente un cervello in fuga, ma hanno mandato lo stesso l'ingiunzione. Ho appena pagato le spese per l'avvocato e il deposito del ricorso: 4.500 euro". Quanti cervelli rientrati siano diventati evasori totali per l'Agenzia delle Entrate non è chiaro. Ma tredici giovani scienziati, fra quelli fulminati dalle lettere di ingiunzione, hanno scritto una lettera al viceministro dell'università e della ricerca Lorenzo Fioramonti. "Per alcuni di noi le richieste di rimborso e sanzioni potrebbero superare i 100mila euro, distruggendo i progetti di casa e famiglia costruiti con sacrificio negli anni" scrivono. I vari uffici delle Agenzie delle Entrate, tra l'altro, hanno agito in ordine sparso. "Alcune hanno applicato la norma sul rientro dei lavoratori anziché quella sul rientro dei cervelli" si legge nella lettera. Si tratta di un'interpretazione tecnica che comporta un rimborso piccolo da parte dei ricercatori. "Altre hanno richiesto di pagare la somma completa seppur riconoscendo la non punibilità e quindi annullando le sanzioni". Con conseguenze, dal punto di vista pratico, piuttosto oscure. "Alcune Agenzie infine richiedono Irpef, interessi e sanzioni piene". "Io arrivo a quasi 45mila euro" allarga le braccia Andrea Listorti, esperto di nuovi materiali per i pannelli solari all'università del Salento. "Eppure nel 2012, quando tornai dalla Gran Bretagna, ricevetti la lettera di accettazione dell'Agenzia delle Entrate". La legge sul rientro dei cervelli sta dunque ottenendo l'effetto opposto: chi può riscappa all'estero. E non è un grave problema solo per i ricercatori vessati. Daniele Sanvitto dell'istituto per le nanotecnologie del Cnr, un passato in Gran Bretagna, Francia e Spagna, deve al fisco circa 30mila euro. "Ma ho vinto due grandi bandi europei per lo studio dei transistor fatti di luce e dei computer quantistici. Al mio laboratorio ho portato 2,5 milioni di euro".
5 considerazioni sugli italiani e l’Irpef. Nicola Porro, Il Giornale 30 marzo 2019. Sono davvero molto interessanti le statistiche pubblicate dal Tesoro sulle tasse sul reddito pagate dagli italiani relative al 2017. È la foto esatta del nostro contribuente. E dei rischi che corre. 41 milioni di italiani devono in qualche modo avere a che fare con commercialisti o consulenti fiscali per rendicontare ciò che si sono portati a casa: tra di loro lavoratori dipendenti, partite iva e pensionati. Questi ultimi pagano le imposte, anche se si finge di ignorarlo. Ebbene su questa vasta platea ci sono 13 milioni a zero Irpef, per due ordini di motivi.
Il primo è che il loro reddito annuale non arriva agli 8000 euro, il secondo è che grazie alle detrazioni riescono a non pagare nulla. Primo piccolo insegnamento: ogni sistema fiscale ha delle soglie. Ai critici della soglia imposta per la flat tax a quota 65mila, segnalo dunque che una soglia del tipo o la va o la spacca esiste già. È bassa e, teoricamente, incentiva il piccolo nero. Siamo tutti disonesti o contabili? Può darsi, ma non è un buon motivo per applicare un’imposta su chi ha redditi così ridotti. I restanti trenta milioni di contribuenti pagano un’irpef cumulata di 157,5 miliardi.
Seconda considerazione generale: un terzo della popolazione è assistito dai due terzi. L’imposta sul reddito è il tributo dei tributi: quella che secondo la teoria dell’imposta beneficio si giustifica per il pagamento dei servizi generali che ci fornisce lo Stato, dalla difesa alla giustizia, dalla scuola alla sicurezza. Ebbene un italiano su tre, almeno per quanto riguarda questo grande tributo, è sulle spalle degli altri due. Da un punto di vista piú micoroeconomico, non è un buon segnalequello generato da un paese in cui una parte cosí vasta dei suoi cittadini è in qualche modo assistita: ad un terzo di contribuenti a Irepf zero (13 milioni) si devono infatti sommare 25 milioni di non contribuenti (compresi i bambini, ovviamente): tutto ciò comporta statisticamente che ogni italiano assiste almeno un suo vicino.
La terza considerazione riguarda i ricchi, che, come tutti dicono fino allo sfinimento, sono pochi, troppo pochi in relazione alla popolazione. La retorica della disuguaglianza galoppante fa il resto. Guardando alle dichiarazioni dei redditi, viene voglia di dire che siamo fortunati che essi ci siano. E che il problema non è tanto la disuguaglianza dei redditi, ma il fatto che ci siano in Italia così pochi Paperoni. Solo l’1,4 per cento delle dichiarazioni è fatta da contribuenti il cui reddito va dai centomila ai duecentomila euro, eppure costoro contribuiscono al 13 per cento del gettito irpef. Solo 38mila persone, cioè lo 0,1 per cento dei contribuenti, hanno un reddito superiore ai 300mila euro, ma il loro contributo vale il 6 per cento dell’intero gettito.
Quarta considerazione riguarda la più vecchia flat tax introdotta in Italia, quella sugli affitti. Essa genera un’imposta di 2,4 miliardi. Ebbene è ancora in crescita: più 8 per cento il suo imponibile. L’ennesima dimostrazione di come una tassa piatta e semplice e con un’aliquota contenuta, faccia emergere il sommerso e sia desiderabile. Come da anni ci spiega la Confedilizia.
Ultima questione, che alcuni media hanno sottolineato, è il cosiddetto paradosso sulla “ricchezza degli italiani” che è pari a 11mila miliardi. Il non detto è che sarebbe inspiegabile tanta ricchezza in relazione a così pochi redditi. Quasi un invito a comportarsi di conseguenza: tassare il patrimonio. Si tratta di una sciocchezza, non c’è alcun paradosso, si tratta del risparmio degli italiani accumulato in decenni. Una gran parte inoltre è incastrato in valori immobiliari, non facilmente realizzabili. La foto dell’Irpef è sempre molto utile per capire come molti luoghi comuni possano essere smentiti con facilità. Nicola Porro, Il Giornale 30 marzo 2019
Affitti brevi, storia di una fake news, scrive Giorgio Spaziani Testa, Presidente Confedilizia, su Nicola Porro l'1 aprile 2019. Sui quotidiani sono rimbalzati titoli e articoli (come si può vedere nel breve video sopra) secondo cui la cedolare secca sarebbe un flop. Balle! Fake news, come spiega il Presidente di Confedilizia nel testo che segue. La sensazione è che la flat tax non piaccia proprio ai giornaloni…Ieri un’agenzia di stampa, riferendo i dati sulle dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche relativi al 2017, ha preso un abbaglio, ma di quelli forti. Ha scritto che nell’anno in questione la cedolare secca del 21% sulle locazioni brevi sarebbe stata un “flop” perché utilizzata solo da 7.200 contribuenti, per un gettito di 44 milioni. Si tratta – come si dice – di una notizia priva di qualsiasi fondamento. Confediliziase ne è accorta immediatamente e ha prima contattato quell’agenzia di stampa, per spiegare l’equivoco e invitarla a correggersi (può capitare a tutti di sbagliare), e poi diramato una nota scritta, anche perché nel frattempo la (falsa) notizia aveva cominciato a diffondersi in modo esteso. Ebbene, i quotidiani di oggi che cosa fanno? Alcuni riferiscono della nota di Confedilizia, ma come se si trattasse di un’opinione, e non di una vera e propria smentita, altri addirittura la ignorano. Quasi tutti, poi, riprendono la definizione (infondata) di flop, con tutte le conseguenze su chi legge i soli titoli (la maggioranza delle persone). Il danno ormai è fatto, ma proviamo a spiegare di nuovo. I dati del Dipartimento delle finanze non mostrano alcun insuccesso della cedolare secca sugli affitti brevi. I 44 milioni di euro relativi al 2017, infatti, sono relativi all’imponibile (e non al gettito, tra l’altro, come ha scritto l’agenzia e come hanno ripetuto i giornali) dei soli contratti stipulati da comodatari e sublocatori, una nuova e residuale categoria di soggetti ammessa alla cedolare con il decreto-legge 50 del 2017 (peraltro, i numeri si riferiscono al 2017 e il decreto si applicava ai soli contratti stipulati dal primo giugno di quell’anno). Con riferimento ai proprietari, e cioè la stragrande maggioranza di chi fa affitti brevi, il Dipartimento delle finanze riporta i dati della cedolare nel suo complesso (senza distinguere le locazioni brevi dalle altre) e conferma il grande successo di questo strumento, che registra nel 2017 un aumento dell’imponibile dell’8,1 per cento per l’aliquota ordinaria e del 21,4 per cento per l’aliquota ridotta. Ma l’informazione va così. E, per tutti, la cedolare sugli affitti brevi sarà un “flop”. Giorgio Spaziani Testa, Presidente Confedilizia
Vietato smascherare le bufale sulla povertà e sul lavoro nero, scrive Paolo Guzzanti, Sabato 22/12/2018, su Il Giornale. Nei soffitti alti del ruminare televisivo intelligente si fa finta che esista davvero una cosa che si chiama «popolo». E che al suo interno contenga cinque milioni di poveri censiti pensate un po' attraverso le dichiarazioni dei redditi. È ovviamente un falso. Non ci sono. Ci sono alcuni poveri, per lo più stranieri, ma il resto, specie al Sud, è soltanto evasione fiscale, doppio lavoro ed economia sommersa. Una parte di quell'economia è puro reddito di criminalità, altro che di cittadinanza. Lo accennava coraggiosamente ieri il giornalista Federico Geremicca sulla Sette, senza trovare sponda in studio perché è obbligatorio, santo e politicamente corretto avallare in coro la stessa falsità che va in onda da oltre dieci anni. Quella secondo cui una cupola di ricchi (ricchi per malvagità) deruba il grande popolo dei poveri buoni ma infelici, che nessuno ha mai avuto il fegato di andare a contare perché la fake news dei milioni di poveri è coperta da brevetto. Questa è la finzione che alimenta un governo di autocertificati castigamatti alla perenne ricerca di strumenti con cui confiscare ricchezza a chi l'ha prodotta per assegnarla a chi cerca elemosine svendendo dignità. Tutto lì il trucco. E quel trucco è sempre efficace grazie alla macchina propagandistica che campa sui fasti del pauperismo e del rancore sociale. Quello è il vero made in Italy. E il suo prodotto - effettivamente lordo - soddisfa sia i milioni di poveri mai visti che gli analfabeti di lotta e di governo.
CRISI, TIÉ. DIECI MILIONI DI ITALIANI ORGANIZZANO LE VACANZE TRA PASQUA E IL PRIMO MAGGIO. Estratto dell’articolo di Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 14 aprile 2019. Più che negli anni passati, stavolta c' è un qualcosa di eroico nella decisione di mettere mano al conto in banca e andare in vacanza. Eppure è una scelta che hanno fatto dieci milioni di italiani, il 22% degli adulti, spinti dalla voglia di vedere musei, monumenti e spiagge, pronti a partire nelle prossime settimane per viaggi che in media dureranno quattro giorni. Ne guadagneranno albergatori e ristoratori delle città d' arte, a partire da quelli di Roma, Firenze e Venezia, ma anche i loro colleghi di Madrid, Barcellona, Parigi. Ci saranno molti italiani pure sulle coste del Mar Rosso e nei Caraibi, dove Cuba resta meta privilegiata. Sono dati raccolti dall' istituto Piepoli e diffusi ieri da Confturismo, che si sposano con quelli dell' osservatorio Findomestic, secondo cui viaggerà un italiano su tre, con una spesa media di 419 euro a testa. Notizie che lasciano ben sperare in vista dell' estate, quando il centro studi delle Coop prevede che partirà l' 89% dei nostri connazionali, un po' di più rispetto allo scorso anno. Nella mestizia dei dati dell' economia italiana, chi cerca numeri con il segno positivo e motivi di speranza li trova qui. La sequenza di feste e di ponti che da domenica 21 aprile arriva sino al primo maggio spiega parte del piccolo miracolo pasquale, ma non tutto. Di sicuro c' è una contabilità familiare che resiste e sostiene la voglia di normalità, nonostante la brutta congiuntura e un potere di spesa che resta inferiore del 7% a confronto di quello del 2007, quando eravamo benestanti e non lo sapevamo. […] così facendo l' Italia in vacanza mette in giro denaro, dà una mano all' occupazione, aiuta migliaia di piccole imprese a saldare i debiti e a investire. In un momento in cui la lancetta della crescita è inchiodata sullo zero e gli investimenti di Stato sono sacrificati sull' altare del reddito di cittadinanza, quel poco di ottimismo che c' è arriva dalle famiglie, che riescono nel duplice sforzo di aumentare i consumi, sebbene a fatica (+1,6%), e risparmiare una quota pari all' 8,1% del loro reddito. […]
Quanto risparmiano gli italiani? Bankitalia rivela che su 100 euro guadagnati circa 8 vengono non vengono spesi e restano in banca, scrive Barbara Massaro il 12 aprile 2019 su Panorama. Non li mettono più sotto il materasso, ma li lasciano parcheggiati sui conti correnti a interessi quasi nulli e con le spese di gestione bancaria da sostenere. Il rapporto degli italiani con i propri risparmi, specie nei momenti di crisi, è piuttosto morboso e, secondo quanto fotografa Bankitalia nei suoi report periodici, determina un aumento dei capitali depositati sui conti privati cui, però, non corrisponde la capacità di reinvestire il denaro per far circolare l'economia.
Quanto hanno risparmiato gli italiani nel 2018. Detto in altri termini nel 2018 dei 4.287 miliardi di ricchezza finanziaria posseduta dalle famiglie italiane, 1.371 miliardi si sono trasformati in risparmi e sono rimasti fermi sui CC con una crescita del 32% rispetto all'anno precedente. Si tratta di una propensione al risparmio che cresce in maniera costante da almeno un decennio cioè da quando, intorno al 2008, sono iniziati i primi accenni della crisi economica che stiamo ancora attraversando. Secondo quanto riporta Abi nel biennio 2005-2006 i risparmi degli italiani ammontavano al 26% della ricchezza totale; già nel 2009 questo tesoretto copriva il 29% e oggi è arrivato al 32%.
Si risparmia, ma non si investe. Italiani, dunque, grandi risparmiatori, ma pessimi investitori. Il denaro che resta sui conti correnti, infatti, sostanzialmente non rende nulla, ha interessi scarsissimi (in media della 0,3%) e ha costi di gestione che si aggirano, per un conto tradizionale (più economico l'on-line), intorno ai 142 euro l'anno per famiglia. Anche i conti di deposito vincolati (dove si trovano circa 500 miliardi di euro) hanno interessi medi al di sotto del tasso dell'inflazione annua e quindi, spesso, non generano ricchezza. La gente ha paura e la paura crea stasi. Si teme di perdere il lavoro, si temono spese impreviste, aumento delle tasse o arrivo della recessione e per questo, nel dubbio, si preferisce tenere il proprio denaro a portata di mano per quanto questo non generi aumento di capitale.
Cresce la propensione al risparmio. In Italia c'è una scarsa propensione alla cultura finanziaria e poca fiducia negli investimenti. Nessuno compra più azioni (con il rischio del bail-in in agguato), fondi o altri prodotti finanziari per paura di perdere tutto. Si preferisce, quindi, adottare l'antica tecnica della formichina e, infatti, da quanto riporta il periodico bollettino economico di Bankitalia, la propensione al risparmio è salita all'8,1% del reddito disponibile che significa che su cento euro guadagnati più di 8 vengono risparmiati e quasi un italiano su due alla domanda "Cosa faresti con 100.000 euro" risponde: "li metterei da parte" (Secondo l'analisi dell'Osservatorio Anima Gfk riportata da Corriere della Sera). Se da una parte, dunque, è positivo sapere che in Italia esiste un tesoretto fatto dai risparmi della famiglie, dall'altro un Paese dove il denaro non circola è un Paese che resta in una situazione di stallo e non cresce.
In fuga dal nostro fisco. Imprese e talenti vanno via dall’Italia per colpa di un sistema fiscale troppo complesso, scrive Francesco Grillo il 16 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Il motivo per il quale l’Italia si sta, da anni, impoverendo non ha nulla a che fare con motivazioni ideologiche o di politica monetaria come pure alcuni apprendisti stregoni – di sinistra così come di destra – vanno dicendo trovano consensi intermittenti. Il problema – tecnico, da affrontare con pragmatismo – è che semplicemente non riusciamo più, da tempo, ad attrarre o a trattenere le imprese e le persone di talento che maggiormente possono aumentare la produttività di cui un Paese ha assoluto bisogno per mantenere il proprio tenore di vita. Tra le cause – tante – per le quali abbiamo perso tanto capitale umano, al primo posto c’è la complessità di un sistema fiscale che comporta un investimento di tempo ed un costo di incertezza che per molti imprenditori e professionisti è assolutamente incompatibile con l’esigenza di rimanere concentrati sulle proprie competenze. Ciò senza peraltro evitare che nel nostro Paese sia massima l’evasione che, non solo, sottrae risorse allo Stato, ma costituisce una forma di concorrenza sleale che penalizza, ancora di più, le imprese migliori. La conseguenza di un sistema fiscale non efficiente è, peraltro, non solo di tipo economico: il momento dell’imposizione è, infatti, lo strumento che qualifica il rapporto stesso tra Stato e cittadini e se esso non funziona si logora lo stesso Patto sociale che tiene insieme una società. Dovrebbe partire da queste evidenze un ragionamento serio di un governo che volesse, sul serio, invertire un declino italiano che dura, ormai, come dicono i numeri e non solo quelli del Pil, da almeno un quarto di secolo. L’ultimo governo ha, indubbiamente, avuto una buona intuizione – con la Flat Tax – ma in realtà ciò che è necessaria è una profonda ristrutturazione del sistema. Che ridisegni l’intero impianto normativo, rendendolo, però, stabile; ripensi la distribuzione dell’imposizione tra diverse tipologie di reddito (andrebbero tassati di meno chi lavora e fa impresa e di più gli immobili e i consumi, anche perché misurarne il valore è meno complicato in un contesto nel quale i processi produttivi diventano virtuali); riorganizzi le agenzie premiandone i risultati. Non è, del resto, la quantità assoluta di tasse (in rapporto alla ricchezza nazionale) pagate dalle imprese italiane, il nostro svantaggio più grave: Paesi dove l’imposizione fiscale è più alta – quelli nordici, la stessa Francia – riescono a crescere e ad innovare di più. Ciò che davvero ci mette fuori mercato – dicono le evidenze della Banca Mondiale e di alte organizzazioni internazionali è il confronto, in termini, di numeri di giorni spesi per calcolare quanto pagare o per rispondere a cartelle; per numero di pagamenti da effettuare; per mesi che passano prima di ottenere un rimborso; per numero di volte che la legge fiscale viene cambiata e, dunque, per la gravità dei dubbi interpretativi che lasciano – per anni – i contribuenti esposti a richieste tardive. Peraltro, un processo così costoso non impedisce – e queste sono, invece, statistiche della Commissione Europea – al nostro Paese di far registrare un’evasione (ad esempio Iva) che è due volte maggiore a quella stimata per economie più grandi come la Francia o la Germania che, pure, sono economie più grandi. Di fronte a questa situazione va bene aumentare la platea dei piccoli imprenditori che pagano in maniera forfettaria e che si liberano, appunto, del costo – di tempo e incertezza – di tenere la contabilità: non è una Flat Tax ma è, comunque, una semplificazione di cui hanno assoluto bisogno imprenditori e la stessa Agenzia delle Entrate per concentrarsi sulle partite più importanti. Meno bene vanno i condoni che sono un’abitudine praticata quasi da tutti gli ultimi governi perché, comunque, introducono un elemento di incertezza e legalizzano un’ingiustizia. È, però, necessaria è una riforma molto più complessiva; un utilizzo delle tecnologie che non rendano ancora più rigidi processi non efficienti; la responsabilizzazione delle agenzie nel caso di richieste di pagamento sbagliate che sottraggono tempo e fiducia e che premino chi consegua risultati significativi; il coinvolgimento dei professionisti – commercialisti, avvocati, notai – che avessero capito che il futuro passa attraverso una modernizzazione coraggiosa. In realtà per i sistemi fiscali dovrebbe valere ciò che vale per i sistemi di sicurezza negli aeroporti: quelli che funzionano massimizzano la sicurezza dei passeggeri (rendendo massimo il disincentivo per chi volesse compiere un attentato) e minimizzano il fastidio ed il tempo perso in code. La qualità del sistema di controllo è diventato, peraltro, una leva di competizione tra aeroporti di grande importanza, perché se quel rapporto tra massima sicurezza e minimo fastidio salta, i passeggeri sceglieranno, la prossima volta, un altro scalo ed un’altra città. In Italia siamo – da molto tempo – in una situazione nella quale riusciamo a minimizzare la legalità (e ad avere i massimi livelli di evasione) e a massimizzare gli inconvenienti ai quali sono sottoposti cittadini normali (tra i quali anche chi – ed è umano – salta un pagamento dopo aver dichiarato di doverlo fare). In questa maniera i passeggeri di maggior pregio della nave Italia, cambiano – circa centomila nostri cugini e figli all’anno – nave impoverendoci tutti. Vanno bene alcune misure della parte fiscale della Finanziaria, ma mi aspetterei, di più, una vera e propria riorganizzazione – fatta di strategia e di dettagli, di obiettivi e di tempi – ad un governo del cambiamento che voglia sottrarsi alla maledizione che vede, in Italia, chi governa perdere, sempre, le elezioni successive. A mio avviso, su questa maledizione pesa molto un sistema fiscale che, nel tempo, è diventato luogo di scontro strisciante e permanente tra uno Stato e i cittadini che pagano per il suo funzionamento.
Tasse, cavilli e ritardi: così muore un artigiano ucciso dallo Stato esoso. La spina dorsale della nostra economia piegata da mancato credito e fisco vorace, scrive Antonio Signorini, Domenica 03/02/2019, su Il Giornale. Fisco, burocrazia, credito e leggi che impediscono di investire, rapporti con la pubblica amministrazione complicati. Ostacoli che complicano la vita alle imprese che rappresentano il meglio del made in Italy. Spesso costrette a chiudere i battenti, poco importa che facciano bene il loro mestiere. Gli artigiani italiani pagano anni di politiche ostili alle imprese e il boom di chiusure stimato dalla Cgia di Mestre è solo l'ultimo capitolo di una storia antica. Nella ultima manovra ci sono segnali di attenzione, in particolare la cedolare secca e la «flat tax». Ma il conto pagato dalle piccole e medie imprese italiane resta salatissimo. Gli artigiani chiudono innanzitutto per la difficoltà nell'ottenere credito dalle banche. Dal 2010 al 2017 le somme che gli istituti di credito hanno messo a disposizione degli artigiani sono calate del 35%, passando da 57 miliardi a 37 miliardi. Per le micro imprese fino a 10 dipendenti il credito è un tabù, ha recentemente denunciato Confartigianato. Per ottenere credito conta la dimensione. Svantaggio competitivo che si replica sul costo dell'energia. Colpa della tassazione sull'elettricità per usi industriali che pesa sulle bollette per il 40,7%. La logica un po' perversa è che meno un'azienda consuma, più paga. Le imprese piccole consumano poco più del 34 per cento dell'energia, ma pagano il 46,3% degli oneri generali di sistema. Le grandi imprese consumano il 19,2% dell'energia ma pagano soltanto il 9,3% degli oneri. Il rapporto con la pubblica amministrazione non è buono e il nuovo codice degli appalti varato nel 2016 ha peggiorato la situazione. Secondo Confartigianato sta frenando l'avvio di nuovi cantieri, provoca il sovraffollamento delle gare e di fatto impedisce la partecipazione alle piccole imprese. La paralisi degli appalti pubblici non fa bene agli artigiani. I tempi di pagamento della Pa restano altissimi. In compenso lo Stato è un esattore velocissimo. Come se non bastasse lo Stato sottrae liquidità anche con lo split payment, che obbliga la pubblica amministrazione a trattenere e versare direttamente all'erario l'Iva sulle fatture emesse dai propri fornitori. Il conto è salato per le imprese: più di 10 miliardi di euro sottratti ai bilanci aziendali. Il numero di adempimenti fiscali è cresciuto. La Cgia di Mestre ne ha contati quasi 100. Soprattutto per le realtà produttive di piccola dimensione che intrattengono scambi commerciali con l'estero. Quelle, insomma, che andrebbero incoraggiate. Nel 2019 il numero di adempimenti fiscali crescerà. Le leggi sul lavoro pesano meno, ma il decreto dignità ha reso più difficile il ricorso ai contratti a termine. Preziosi per le piccole imprese. Poi gli immobili. La patrimoniale del governo Monti ha colpito duramente anche gli artigiani. Il governo in carica ha alleggerito il conto con la cedolare secca per negozi e capannoni, ma tra il 2011 e il 2016 le imposte sugli immobili degli artigiani sono cresciute del 119,2%. Difficile non chiudere in un ambiente così ostile.
I numeri truccati del contenzioso tributario. L'Agenzia delle Entrate nei suoi report parla sempre di numeri e risultati record. Ma non è così, scrive Luciano Quarta il 22 marzo 2019 su Panorama. In questi giorni l’Agenzia delle Entrate ha anticipato alcuni dei dati sui risultati della sua gestione per il 2018, come ogni anno, enfatizzando traguardi raggiunti, record infranti, e così via. Avviene ogni anno e questi dati riguardano anche il contenzioso tributario. Il fisco snocciola dati cercando di trasmettere un messaggio: fare causa all’erario sarebbe veramente un pessimo affare. Le cose però non stanno proprio così. L’Agenzia enfatizza il dato della riduzione del numero delle cause (il 4% in meno rispetto al 2017), e i dati dei giudizi di primo e secondo grado, che vedono un tasso di vittorie piene del fisco nel 45% delle controversie, contro il 31% e il 36% completamente a favore contribuente. In mezzo c’è un 24% in primo grado e un 19% in appello di casi in cui i giudici hanno dato ragione in parte al contribuente e in parte al fisco, e non si sa se più ai primi o più ai secondi. Non è stato ancora diffuso il dato delle percentuali complessive di vittorie (o presunte tali) che include anche i giudizi in Cassazione e che per il 2017 veniva trionfalisticamente riportato al 73% di tutti i giudizi promossi. Fonti dell’Agenzia ci anticipano che per il 2018 dato si attesterebbe al 72%. Restiamo in attesa di leggere il dato ufficiale, ma quello che viene trasmesso è chiaramente un messaggio fortemente dissuasivo, perché lascia intendere che il contribuente ha meno di una probabilità su tre di spuntarla in un giudizio contro il fisco. Dietro la retorica dei proclami, però, la realtà è ben diversa e i numeri vanno analizzati correttamente. Intanto il fatto che nel 2018 il numero di contenziosi possa essere calato è certamente riconducibile alle varie forme di definizione agevolata adottate alla fine dell’anno (la cosiddetta pace fiscale), grazie alle quali molti contribuenti hanno potuto chiudere le loro pendenze con il fisco senza dover affrontare contenziosi e in alcuni casi, abbandonandoli. Quindi è da escludere che la riduzione del contenzioso sia dovuta ad una percezione di un maggior grado di correttezza e di legittimità dei provvedimenti adottati dall’Agenzia. I numeri, però ingannano anche quando si tratta di capire quante chance ha il contribuente di uscire vittorioso da un eventuale contenzioso con il fisco. Facciamo un esempio per chiarire meglio: se impugno un atto di accertamento, perdo in primo e in secondo grado e infine vinco in Cassazione, avrò proposto in totale tre cause e ne avrò perse due su tre. Quindi, avrò perso nel 66% dei contenziosi. Alla fine però dei tre gradi di giudizio avrò vinto definitivamente: quell’atto illegittimo verrà cancellato dal mondo giuridico. Eppure l’Agenzia delle Entrate potrà dire di aver vinto nel 66% dei contenziosi proposti e io solo per il 33%. Il dato relativo al tasso di vittorie in primo e in secondo grado dunque, non dimostra molto. Anche il dato di vittorie complessive è fuorviante: in quel 73% totale (o nel 72% che si prospetta essere il dato relativo al 2018) vengono inclusi anche i giudizi in cui l’Agenzia è solo parzialmente vittoriosa, e quindi, al tempo stesso parzialmente soccombente. Per chiarire, supponiamo che io impugni un avviso di accertamento in cui mi si contestano, diciamo, 100 mila euro tra imposte dovute, sanzioni, eccetera, e che il giudice accolga solo in parte la mia domanda, riducendo le pretese del fisco da 100 mila a soli 20 mila euro. Il ricorso è parzialmente accolto e parzialmente rigettato, ma a ben vedere nella sostanza il vero vincitore sarei io che vedo ridurre dell’80% il mio debito con il fisco. Eppure l’Agenzia delle Entrate conteggia in quel 73% o 72% anche contenziosi che hanno questo tipo di esito, cioè, di vittoria solo parziale, e magari anche per una parte solo minima. Non è finita, perché nel conteggio delle vittorie il fisco si attribuisce anche quei casi in cui ottiene un annullamento con rinvio della sentenza che ha impugnato, perché evidentemente ha perso nel grado precedente. Cosa vuol dire? Soprattutto quando si arriva in Cassazione, i possibili esiti non sono solo l’annullamento dell’atto tributario o la conferma della sua legittimità. C’è una terza opzione: se sono stati riscontrati alcuni particolari errori procedurali nei precedenti gradi di giudizio può essere decisa la cassazione con rinvio della sentenza. Significa che il giudizio torna indietro al grado precedente e deve essere ripetuto. Chi ha vinto in questo caso? Nella sostanza non ha vinto nessuno. Zero a zero e palla al centro. Anche in questo caso, però, l’Agenzia delle entrate considera questo tipo di risultato come una vittoria. Capito come funzionano i numeri? Se proprio vogliamo giocare con i numeri, in realtà, la prospettiva va ribaltata. La vera domanda non è “quanti round del match sono riuscito a vincere?”, ma “quanti atti dell’Agenzia sopravvivono veramente all’esito definitivo di un’impugnativa giudiziale?” E cioè di quanti atti tributari viene definitivamente confermata la totale legittimità? Anche volendo basarci sui numeri diffusi in questi giorni i dati vanno letti nel senso che sia in primo grado che in secondo grado il 55% degli atti tributari viene dichiarato, in tutto o in parte illegittimo. Non è proprio un risultato di cui vantarsi: se aveste un collaboratore che sbaglia più della metà delle cose che gli sono affidate, quanto tempo ci mettereste a licenziarlo? Purtroppo questo tipo di comunicazione enfatica e fuorviante, è figlia di un vizio strutturale che affligge le agenzie fiscali in Italia: l’Agenzia delle Entrate è un soggetto indipendente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e ogni anno deve in qualche modo rendere conto della bontà del suo operato e degli obiettivi raggiunti. È un po’ come un fornitore di servizi che deve annualmente sforzarsi di convincere il cliente della qualità del suo prodotto e della competitività dei suoi servizi. Questo genera la tendenza a enfatizzare i successi e a minimizzare insuccessi e diseconomie. Diseconomie che, in particolare nel caso dell’Agenzia delle Entrate, a dispetto della sua comunicazione, sono rilevanti, perché allo Stato (e quindi ai contribuenti) costa moltissimo e rende poco, molto meno di quanto sia disposta ad ammettere. Ma di questo ci si occuperà in altra sede. Qui invece è importante sottolineare che se questi numeri sono in qualche misura ingannevoli, occorre non cadere in un errore di valutazione di segno opposto: anche dando per assodato che il 55% degli atti tributari è in tutto o in parte viziato, questo non vuol dire che in generale facendo causa al fisco si hanno più della metà delle probabilità di portare a casa un risultato pieno o almeno parziale. Ogni possibile controversia ha una storia a sé. Le chance di vittoria dipendono primariamente dai contenuti dell’atto che si pensa di impugnare e solo un’analisi da parte di un professionista esperto di contenzioso tributario (quindi, non un avvocato qualsiasi o un commercialista qualsiasi) può dare una valutazione vicina alla realtà. Non in tutte le controversie si hanno 55% di probabilità di vincere. Ce ne sono alcune che hanno virtualmente lo 0% di chances ed altre che hanno il 90%, al netto di altre variabili non sempre controllabili, come l’errore umano e il livello di preparazione di professionisti e giudici coinvolti.
Benzina, quando 500 lire al litro erano come i 2 euro oggi. Pubblicato giovedì, 25 aprile 2019 da Stefano Agnoli su Corriere.it. Ma quell’aumento del 1977 era stato realmente uno choc. Gli italiani erano abituati a ben altri valori: nel 1960 la benzina veniva 110 lire al litro, e nei primi anni Settanta ci si era fermati comunque a quota 315 lire. In pochi erano consapevoli e ancora meno erano interessati al fatto che in quell’esborso fossero già compresi il finanziamento della Guerra d’Etiopia (1,9 lire al litro), della Crisi di Suez del 1956 (14 lire) e le 130 lire complessive della ricostruzioni dopo il disastro del Vajont, l’inondazione dell’Arno, il terremoto del Belice e quello del Friuli. Con i prelievi, peraltro, non ci si sarebbe fermati lì, e soprattutto non sarebbero mai stati cancellati: dal Friuli in poi si sarebbero contati almeno altri 14 eventi «straordinari», qualcuno doveroso altri difficili da mandare giù, come ad esempio quello del rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2003. Insomma, partito come un espediente, il malcostume politico di utilizzare benzina e gasolio (e poi la bolletta elettrica, vedi canone Rai) come un bancomat è diventato tradizione consolidata. Così come il solito rullo di aumenti prefestivi, sempre addebitato a motivi di mercato e/o congiunzioni astrali geopolitiche, di cui Libia e Iran sono solo gli ultimi spunti. Che resti sempre qualcosa di «inspiegabile» è un dubbio difficile da eliminare per la maggioranza degli italiani. Le prospettive, però, a volte possono anche ingannare. E se si limita lo sguardo proprio al prezzo della benzina, quel 1977 non sembra neppure molto lontano dal 2019 e dai giorni nostri. Grazie ai coefficienti di rivalutazione monetaria dell’Istat si scopre che le 500 lire di allora sono pari a 1,974 euro di oggi. Non troppo lontani, cioè, dalla soglia dei 2 euro che crea tanta irritazione agli automobilisti (e tanto timore a chi pensa che i «gilet gialli» possano diventare di moda anche in Italia).
I problemi del Fisco, gli stessi del 1898. Due articoli usciti più di 100 anni fa raccontano di problemi identici, paure analoghe sul debito. Serve una rivoluzione. Adesso, scrive Mario Giordano il 12 marzo 2019 su Panorama. L’altro giorno presentavo il mio libro L’Italia non è più italiana in Veneto. Al termine dell’intervento si avvicina una signora e mi consegna il suo tesoro. Accade spesso, ed è una dei fatti meravigliosi di incontrare le persone non nelle grandi città, ma nelle province della Penisola: ricevo di frequente plichi, lettere, biglietti, testimonianze, ricordi, memorie, piccoli frammenti di vite altrui che inevitabilmente finiscono per arricchire la vita mia. Vi confesso, però, che il tesoro della signora Giulia di Conegliano mi ha lasciato a bocca aperta. Quando ho aperto la busta che mi ha messo in mano, infatti, ci ho trovato dentro due giornali, Gazzetta di Venezia, pezzi autentici, uno del 14 giugno 1860 e l’altro del 17 gennaio 1898. Non so perché la signora Giulia me li abbia regalati, non so da quale lascito familiare arrivino. Ma so l’emozione che ho provato a sfogliare quelle pagine profumate dal tempo, e leggere una dopo l’altra le notizie di cronaca (un morto in un rogo, un diciottenne ucciso a Montagnana...) scoprendo che avevano meno rilevanza, nell’impaginazione di allora, delle estrazioni del Comitato per la tombola. Così ho compulsato tutto, fino all’ultima riga, anche i piccoli annunci, le quotazioni della borsa merci, la pubblicità del purgante Jànos («effetto sicuro e blando») e delle cure del dottor Tenca contro «impotenza e sterilità». E ho avuto l’impressione di immergermi in un mondo ormai sparito. Leggendo la prima pagina, però, ho avuto un sussulto. Altro che mondo sparito: l’editoriale intitolato Il contribuente italiano e dedicato «al programma finanziario del governo», infatti, sembra scritto ieri. È anch’esso del 1898 come il purgante Janos e le cure del dottor Tenca, ma non si direbbe. «Che in Italia ci siano troppe tasse è ormai un detto comune», scrive infatti l’editorialista. E poi lamenta che «si paga inegualmente», che ci sono troppi che fanno i furbi e questo genera una «dolorosa ineguaglianza contributiva», cui si aggiungono «innumerevoli incongruità». La conclusione è sconsolata: «Non vi è nazione al mondo che paghi quanto paga il contribuente italiano. Eppure a ogni bilancio vengono addosso tasse e imposte nuove...». Non è impressionante? Ho letto e riletto l’articolo, stroppiciandomi gli occhi: davvero è stato scritto nel 1898? Potrebbe essere l’editoriale di un quotidiano di domani. «Il popolo italiano» dice infatti, «è dotato di una pazienza meravigliosa» ma «meriterebbe miglior fortuna e protezione». Ancora: «Se fosse meno angariato potrebbe presto dar luogo a un aumento della ricchezza e del consumo al pari di quello che si verifica presso altri popoli, come il tedesco». Vi rendete conto? Il 1898, tanto per avere un’idea, è l’anno in cui Guglielmo Marconi deposita il brevetto della radio, Bava Beccaris spara sulla folla di Milano. Non è stata finita la Tour Eiffel e non esiste neppure la lynotipe. Ebbene: già allora si diceva che se avessimo avuto meno tasse avremmo potuto competere meglio con la Germania. Ma già allora c’era un problema. Il solito. «L’ossessione tante volte lamentata del pareggio». Proprio così: «L’ossessione del pareggio turba quella serenità e ampiezza di visione che dovrebbero costituire la caratteristica del ministro del Tesoro», accusa l’editorialista di 120 anni fa. «Ogni tentativo di riforma» aggiunge, viene «paralizzato» dalla «paura dello spettro del disavanzo». Lo spettro del disavanzo. Ecco il problema. Ecco la paura che blocca ogni vera riforma fiscale. Tanto nel 1898 quanto oggi con la flat tax. Sempre la stessa musica, come un «fisco» rotto. È impressionante come in 120 anni possa cambiare tutto, dal comitato per la tombola al modo di trattare la cronaca, ma non la tosatura del contribuente. Quella resta sempre uguale. E attuale. E dire che l’editorialista dell’Ottocento era speranzoso: «È venuto il tempo di prendere qualche efficace e benefico provvedimento anziché illudersi con fantasiose utopie», sentenziava. Invece è passato più di un secolo e sembra che quel tempo non sia proprio venuto. Di efficaci e benefici provvedimenti se ne vedono pochi, di fantasiose utopie sempre troppe. Che dobbiamo fare per vedere qualche vero cambiamento? Aspettare altri 120 anni? Fino al 2139? E va beh che «il popolo italiano è dotato di una pazienza meravigliosa», siamo d’accordo. Ma non è il caso di abusarne troppo.
· Il business delle lezioni private: vale quasi un miliardo ed è quasi tutto in nero.
Il business delle lezioni private: vale quasi un miliardo ed è quasi tutto in nero. Da Milano a Napoli, i costi per le ripetizioni a domicilio. Marco Cimminella su it.businessinsider.com il 31 agosto 2019. L’estate non è sempre sinonimo di vacanza. Lo sanno bene tutti quei ragazzi e ragazze che hanno dovuto approfittare di giugno, luglio e agosto per recuperare i debiti scolastici contratti in una o più materie. Facendo la fortuna di insegnanti e studenti universitari, che con i soldi delle lezioni private arrotondano lo stipendio o, più spesso, ci vivono. Senza però quasi mai emettere fattura. Il business delle ripetizioni vale circa un miliardo di euro all’anno e continua a essere in gran parte sommerso, visto che oltre il 90 per cento delle attività avviene in nero. In genere, questo mercato si concentra proprio nei mesi estivi: molti giovani mettono la testa sui libri nel tentativo di recuperare quello che non si è fatto nel corso dell’anno appena concluso. Ma ci sono anche studenti di medie e superiori che ricorrono alle lezioni a domicilio da settembre a maggio, per non rimanere indietro e rischiare la bocciatura. Un aiuto che pesa in modo diverso sul bilancio familiare, a seconda delle materie, degli insegnanti e della regione geografica. I prezzi infatti non sono tutti uguali. Milano è la città più cara: qui un’ora di lezione di greco o latino con un professore universitario può costare anche 50 euro, rispetto alla media nazionale di 30 euro. Secondo le stime del Codacons, il giro d’affari per il 2018/2019 è stato di 950 milioni di euro, in linea con quello dell’anno precedente e in gran parte sommerso. Per contrastare il nero, all’inizio di quest’anno il governo ha introdotto una flat tax al 15 per cento per i compensi derivanti dalle lezioni a domicilio. La misura inserita nella legge n. 145/2018 (manovra di bilancio 2019) e disciplinata nei commi da 13 a 16, prevede un’imposta sostitutiva che si applica ai redditi generati dall’attività di ripetizioni private, svolta dai docenti titolari di cattedre nelle scuole di ogni ordine e grado. Ma il provvedimento non ha dato gli effetti sperati: “La misura pensata dall’esecutivo non è stata in grado di risolvere il problema. Quando un mercato è sommerso, rimane sommerso”, dice a Business Insider Italia Carlo Rienzi, presidente del Codacons (Coordinamento delle associazioni per la tutela dell’ambiente e dei diritti dei consumatori). Che spiega: “Esiste solo una possibilità per far emergere questi introiti. Bisogna consentire alle famiglie di detrarre le spese per le lezioni private quando bisogna pagare le tasse: solo così avranno interesse a richiedere le fatture”. Secondo l’associazione, questo tipo di agevolazione fiscale potrebbe aiutare a portare il business delle ripetizioni alla luce del sole, considerati anche i limiti della norma giallo verde, che si rivolge solo ai docenti titolari di cattedra: in questo modo, esclude insegnanti precari e studenti universitari che impartiscono lezioni a domicilio, che non hanno interesse a denunciare al fisco la loro attività.
La mappa dei costi delle ripetizioni in Italia. Già qualche anno fa un altro studio della Fondazione Luigi Einaudi, a cura di Lorenzo Castellani e Giacomo Bandini, stimava a oltre 800 milioni di euro all’anno l’entità di questo mercato, presente dal Nord al Sud della Penisola. Come rilevato dal Codacons, in media il prezzo di un’ora di lezione a domicilio per uno studente delle superiori si aggira attorno ai 24-30 euro: la tariffa cresce fino a 40-50 euro se a impartirla è un docente universitario. Più economiche le spese da affrontare per un alunno delle medie: il costo per ogni ora di insegnamento è di 10-15 euro. Se il capoluogo lombardo è la città caratterizzata dai prezzi più alti, le tariffe più economicamente vantaggiose si trovano nel Meridione: le ripetizioni a studenti delle scuole medie o superiori costano a Cagliari 20 euro, a Palermo 19 euro, a Bari 18 euro, a Napoli 12 euro. A Roma, si paga circa 25 euro, mentre procedendo verso Nord bisogna sborsare 23 euro in media a Firenze e Bologna. I prezzi cambiano anche a seconda delle materie di studio. Le lingue antiche, greco e latino, comportano più sacrifici finanziari dell’inglese: le prime richiedono rispettivamente 30 e 28 euro per ogni lezione di 60 minuti; l’altra invece 15 euro. E se ogni ora di studio con il prof di matematica costa 26 euro, per le discipline umanistiche basta meno: 18 euro per filosofiae 17 per italiano.
La Tassa sulla Fortuna.
LA TASSA SULLA FORTUNA. Superenalotto, a Lodi anche il Fisco vince 25 milioni. L’Erario incasserà il 12% della vincita da 209 milioni . Il vincitore dunque vedrà il suo premio ridursi, si fa per dire, a 184 milioni. Marco Mobili su Il Sole 24 ore il 14 agosto 2019. Ferragosto milionario, vinti 209 mln al Superenalotto. Il banco vince sempre. Il Fisco infatti è già pronto a brindare anche con il fortunato possessore della sestina vincente del Superenalotto da 209.160.441 milioni di euro. Con la “tassa sulla fortuna” l'Erario incasserà il 12% della vincita: a conti fatti, tolti i primi 500 euro di franchigia oltre la quale si applica il prelievo sulle vincite, si tratta di poco più 25 milioni di euro che ridurranno il premio a 184 milioni. Un prelievo alla fonte che, almeno in questo caso, non obbliga il vincitore nelle vesti di contribuente ad alcun adempimento tributario. L'assegno o il bonifico che sarà liquidato dal concessionario autorizzato sarà al netto della tassa sulla fortuna.
Tasse solo su frutti futuri. Prelevati questi 25 milioni al momento dell'incasso il Fisco non vanterà più alcun diritto di prelievo sulla vincita. Il vincitore portata a casa la maxiposta non sarà più soggetto a obblighi tributari e sul capitale non dovrà pagare ulteriori imposte. Saranno infatti tassati eventuali frutti futuri della vincita (rendite, capital gain o beni patrimoniali come seconde, terze o quarte case).
Come passare all'incasso. Per riscuotere la vincita il giocatore avrà 90 giorni di tempo per recarsi in uno dei due Uffici Premi di Sisal (dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13), in via Tocqueville 13 a Milano o in viale Sacco e Vanzetti 89 a Roma. Con se dovrà portare la ricevuta vincente, unico titolo valido per vedersi liquidare i 184 milioni, un documento di identità, un iban e il codice fiscale. Ci sarà subito una veloce verifica da parte della Sisal sulla schedina e sull'identità del giocatore. Per l'ufficializzazione della vincita occorrerà attendere, dopo i riconoscimenti di rito, del responsabile dell'Ufficio Premi che firmerà tutti gli incartamenti e di lì ai successivi 31 giorni darà disposizione per il pagamento del premio e quasi certamente con bonifico o assegno. Attenzione se il vincitore si farà accompagnare da un notaio, da un avvocato o ancora da un intermediario di fiducia per l'incasso, al di là della parcella che dovrà versare e che nei casi simili di maxi vincite hanno visto applicare somme dall'1 al 3%, la Sisal il bonifico lo indirizzerà sul conto corrente bancario del soggetto che deposita la giocata vincente. In questo caso e vista la somma di 184 milioni la fiducia dovrà essere davvero tanta!!
Si riparte da 45 milioni. Chi non ha vinto in questa tornata potrà riprovarci con la prossima sestina vincente che riparte con un jackpot da ben 45 milioni e anche in questo caso, se centrato subito, il Fisco si garantirà una “vincita” di 5,4 milioni. In una settimana la tassa sulla fortuna avrebbe reso allo Stato la bellezza di oltre 30 milioni.
C’è solo una persona in Italia a cui interessa questo articolo. IlPpost mercoledì 14 agosto 2019. Quella che ieri ha vinto 209 milioni al SuperEnalotto e ora deve capire cosa fare: ma per fortuna ci siamo qui noi. Martedì 13 agosto qualcuno a Lodi ha vinto 209 milioni di euro al SuperEnalotto. Anzi: 209 milioni, 160mila e 441 euro. Non si diventa ricchi approssimando per difetto. Era più di un anno che nessuno vinceva il premio più alto del concorso e in palio c’era il montepremi più alto della storia del gioco, che consiste nell’azzeccare i sei numeri di un’estrazione. Ieri quei sei numeri sono stati 7 – 32 – 41 – 59 – 75 – 76. Ad azzeccarli, se può farvi sentire meglio, è stata una macchina: chi ha vinto ha giocato due euro su una schedina con una combinazione generata a caso. Abbiamo già detto 209 milioni? Duecentonovemilioni. Ad ogni modo, il punto è questo: hai vinto 209 milioni di euro al SuperEnalotto, e ora? Che si fa con quel foglietto stropicciato infilato in qualche remota tasca dei pantaloni o del portafogli?
Prima cosa: METTERE AL SICURO LA DANNATA RICEVUTA. Accertati che a quel foglietto di carta – la ricevuta della giocata – non succeda niente di niente di niente. Non farla strappare, non farla bagnare, non farle niente. Conservala intatta, perché altrimenti rischi di perdere il premio. Qui le cose diventano già complesse, se uno conta cosa c’è in ballo. La mettiamo in cassaforte, col rischio che in caso di furto domestico sia la prima cosa a essere svaligiata dai ladri? La mettiamo in un posto banale e insospettabile, col rischio che qualcuno a casa faccia qualche guaio? La vita di chi vince 209 milioni può diventare difficile in modi imprevisti.
Seconda cosa: NON ASPETTARE TROPPO TEMPO. Hai 90 giorni per chiedere il premio: 90 giorni dal giorno successivo all’estrazione, quindi da oggi, mercoledì 14 agosto. Non 90 giorni lavorativi, 90 giorni e basta. Novanta. Non aspettare l’ottantanovesimo.
Terza cosa: PRESENTARE LA RICEVUTA. Andiamo per gradi. Una vincita così grossa non può essere riscossa dal tabaccaio dove è stata giocata la schedina. Anzi, forse ti conviene stare alla larga da quel tabaccaio (con tutto il rispetto per il tabaccaio: vuoi far sapere al mondo di essere diventato/a milionario/a?). Vincite così grosse possono essere riscosse solo in due posti: l’ufficio SISAL di Roma e quello di Milano. Il primo è in viale Sacco e Vanzetti 89, il secondo in via Tocqueville 13. Entrambi gli uffici, per non renderti la vita facile, sono aperti solo al mattino dalle 9 alle 13: ma se va tutto bene potrebbe essere l’ultima cosa che farai nella tua vita in un ufficio, quindi porta pazienza. Puoi andarci tu, oppure puoi rivolgerti a un notaio: magari un notaio di fiducia, ecco. E magari dopo aver fatto qualche decina di fotocopie della ricevuta. Intanto comincia a pensare su quale conto corrente vorrai farti versare la vincita.
Quarta cosa: PRENDI I SOLDI. SISAL deve versare i premi entro 31 giorni dalla presentazione della ricevuta vincente. Potrebbero arrivare anche prima, ma chissà, si sa come vanno queste cose. I tempi potrebbero allungarsi in caso di reclami di qualche tipo.
Quinta cosa: CONTA I SOLDI. Sfortunatamente, non saranno proprio 209 milioni di euro. Alle vincite superiori ai 500 euro, infatti, si applica una commissione del 12 per cento: 25 milioni di euro sono già andati, quindi. Poco male, ne restano 184, dovrai farteli bastare. Non ci sono altre tasse da pagare: lo Stato si è già preso la sua parte con quel 12 per cento. E poi? E poi decidi tu. SISAL garantisce il tuo anonimato, bisogna solo decidere come e quando spendere quei soldi. I consigli in questo caso sono i soliti, specialmente per chi non vuole dare nell’occhio: evitare di cambiare radicalmente stile di vita dall’oggi al domani, pensare agli investimenti migliori perché questi soldi portino benefici a lungo termine. Un abbonamento al Post, per dire, può essere un buon inizio.
Superenalotto e lotterie: se i milionari sono più infelici di prima (o dilapidano i soldi). Pubblicato giovedì, 15 agosto 2019 da Annalisa Grandi su Corriere.it. Vincere una cifra da record alla lotteria? Sembra paradossale ma a volte peggiora la vita. C’è del vero nel detto «i soldi non fanno la felicità»? Pare di sì, almeno stando a una serie di studi che rivelano come coloro che improvvisamente si ritrovano ad avere a che fare con cifre milionarie, non sempre si sentano «baciati dalla fortuna». Secondo i dati raccolti dalla Società italiana di psicologia e pubblicati nei mesi scorsi su «Vanity Fair» per più di un neomilionario su tre, esattamente il 35% di coloro che vincono cifre sopra il milione a lotterie e giochi vari, la qualità della vita peggiorerà. E nello specifico si rischia di sprofondare in una «depressione post -vincita» ribattezzata anche «sindrome da ricchezza improvvisa». Che, sembra incredibile ma è così, ha gli stessi sintomi dei malesseri causati da perdita del lavoro, la perdita di una persona cara o il pensionamento. In buona sostanza, spiegano gli esperti, in pochissimo tempo ci si ritrova con una vera e propria ondata di stimoli positivi, che conducono alla sensazione di poter fare tutto ciò che si vuole e che portano in poco tempo all’assuefazione. In buona sostanza, chi si ritrova ad aver a che fare con una vincita milionaria potrebbe aver bisogno di aumentare «la dose» di soddisfazioni per sentirsi bene, oppure cercare altri tipi di appagamento in una tensione senza fine. E ancora, la conseguenza potrebbe essere appunto quella di cadere in depressione perché , spiega Antonio Cerasa, dell’Istituto di bioimmagini e fisiologia nucleare del Cnr, «Il nostro cervello, che non è programmato per una stimolazione di tale intensità, va in autodistruzione». Ma non finisce qui: per chi si ritrova a essere improvvisamente milionario, il rischio è anche quello di dilapidare la propria fortuna. Lo spiega il Premio Nobel per l’Economia Richard Thaler: lo choc della vincita modifica la propensione al rischio delle persone e quindi c’è chi si ritrova a sperperare, a mettere in atto comportamenti azzardati. E ancora, secondo Lorenzo Dornetti, esperto di neuroscienze, chi vince può sviluppare un vero e proprio senso di colpa. Un meccanismo che, spiega su «Il Sole 24 ore», riguarda in particolare coloro che si ritrovano con una cospicua somma di denaro e che sono cresciuti in ambienti economicamente complicati. Insomma: i soldi vinti generano a volte un conflitto interno, e così si sviluppano «comportamenti inconsapevoli: per lenire il senso di colpa dell’essere diventati ricchi compiono gesti plateali nei confronti di amici, parenti e non solo». Risultato: scrive Jordan J. Ballor - l’87% dei vincitori della lotteria dopo due anni torna povero.
Gratta e Vinci, tutti i segreti nascosti dentro un biglietto. Le tecnologie per stamparli, gli ossessivi test d'integrità e gli altri accorgimenti che rendono sicura la più grande lotteria al mondo. Panorama il 5 dicembre 2019. Gli hacker del Gratta e Vinci non sono criminali, ma un incrocio tra un piccolo chimico e un torturatore seriale. Hanno l’aspetto ingannevole di due ragazze sorridenti, che nel tempo di un attimo, smaltiti i convenevoli, si rivelano spietatamente agguerrite. Bersagliano i biglietti di luci possenti, tradizionali e ultraviolette, per accertarsi che sia impossibile leggere in trasparenza tra i 22 strati d’inchiostro che li compongono; li bombardano con scariche elettriche violente e composti di reagenti per controllare che la parte da grattare non si alteri, non si sciolga né si dissolva. Nemmeno se sottoposta a esperimenti di manomissione geniali oppure brutali. Queste tenaci ispettrici in maglietta lavorano in turni da quattro nelle stanze dell’«integrity lab», etichetta traducibile in maniera parecchio evocativa: il laboratorio dell’integrità. È operativo 24 ore su 24, sette giorni su sette, Natale e Ferragosto inclusi. Culla un’ossessione scolpita nel numero più tondo che esista: lo zero. È la quota di difetti concessi ai pacchetti dei tagliandi appena stampati, che ricevono (anzi subiscono) 54 test per validarne l’inviolabilità, la resistenza a qualunque tentativo di contraffazione, assieme alla giocabilità e alla durabilità. Per esempio, vengono irrigati di birra o vanno a fare un giretto in lavatrice. Perché no, non c’è limite alla nostra distrazione. Ma sì, dopo tutto questo strapazzo, sono ancora incassabili. Se volete provare, però meglio credere.
La fabbrica del Gratta e Vinci. Siamo a Lakeland, in Florida, ai margini di una pianura d’asfalto spessa otto corsie che collega Tampa con Orlando, lungo un paesaggio tropicale interrotto dai capannoni ultramoderni di Amazon o di Pepsi. Ci troviamo in un luogo in cui il solito patriottismo americano è costretto a indietreggiare: accanto all’immancabile bandiera statunitense, ecco sventolare quella tricolore. Lo stabilimento appartiene a IGT, colosso di proprietà italiana: «È il più grande gruppo mondiale nel campo dei giochi e delle lotterie, forte di un know-how che abbiamo portato anche all’estero» riassume Marzia Mastrogiacomo, senior vice president Lotteries. Non si tratta del vecchio furbo stratagemma di delocalizzare parte della produzione, bensì della logica d’affidarla a un centro d’eccellenza globale. Aperto dal 2009, rinnovato e ampliato nel 2018, reclama il suo angolo di gloria nel Guinness dei Primati: contiene la più grande macchina da stampa per tale tipologia di prodotti. Un bestione che non riposa mai ed è in grado di sfornare 15 miliardi di tagliandi l’anno, ruminando rotoli di carta dalla stazza impressionante e la lunghezza esagerata: ognuno, da disteso, misura circa 11 chilometri. Lo stabilimento ha 55 clienti sparsi in mezzo pianeta e, di recente, ha vinto l’Oscar del settore, quello conferito dalla Flexographic Technical Association di New York. Non per la migliore interpretazione nel partorire biglietti, ma per il suo elevato tasso di sostenibilità. A Lakeland hanno smesso di usare inchiostro a base di solventi, puzzolente quanto inquinante, virando verso un sistema ad acqua. Inodore, che rispetta l’ambiente senza compromettere la sicurezza delle lotterie, come i test ai confini della realtà certificano giorno e notte. A proposito di numeri altisonanti, il Gratta e Vinci fa concorrenza allo strumento gigante da cui proviene: «È la più grande lotteria al mondo in termini di raccolta. Parliamo di 9,1 miliardi di euro nel 2017 e 9,2 miliardi nel 2018. Di questi, oltre il 73 per cento torna ai giocatori» sottolinea Mastrogiacomo. Che ricorda anche il contributo di cui beneficia lo Stato, dunque tutti noi in termini di servizi pubblici finanziati da tale flusso di denaro: «Le entrate erariali sono passate da meno di 100 milioni di euro nel 2003, a 1,3 miliardi nel 2018. Se consideriamo il periodo 2004-2018, parliamo di circa 20 miliardi». È l’esito di uno sviluppo graduale, portato avanti con criterio, tenendo conto di vari fattori, incluso l’elemento più delicato: il gioco è rigorosamente vietato ai minori e in alcuni soggetti può creare dipendenza. «Le politiche di prodotto e commerciali sono state sempre valutate con sensibilità per garantire una crescita socialmente sostenibile» risponde sul punto Mastrogiacomo. «A conferma di ciò va evidenziato come il Gratta e Vinci si sia allineato immediatamente alle nuove normative che nel corso degli anni hanno reso più preciso l’ambito del gioco responsabile. E Lottomatica, con il codice etico di condotta di cui si è voluta autonomamente dotare, in alcuni casi ha persino anticipato specifiche modifiche normative». Quello del Gratta e Vinci rimane dunque un fenomeno peculiare, dalla portata innegabile. Panorama ha avuto l’opportunità di sbirciare dietro le sue quinte e guardarci letteralmente dentro. Con qualche fatica e difficoltà, visto che gli addetti alla sicurezza qui hanno la stazza di Rambo e il puntiglio di Robocop; il minimo cantuccio della fabbrica è sorvegliato da 95 telecamere, a loro volta ansiosamente piantonate da un ufficio parallelo in Texas e alimentate da generatori che continuano a funzionare in caso di blackout, tsunami, terremoti o altri disastri. Il gabbiotto dei vigilanti è blindato da uno strato di metallo sul soffitto, così nessun aspirante Tom Cruise può tentare la mission impossible d’infiltrarsi dall’alto, mentre un intricato sistema d’autorizzazioni determina chi può essere dove e fa suonare l’allarme se qualcosa non torna. «In dieci anni, non abbiamo registrato nessuna violazione ai nostri protocolli» ripetono i responsabili con la stessa fierezza sentita poco prima nel laboratorio. D’altronde, ogni tagliando equivale a un contenitore di fortuna, perciò è prezioso quanto un assegno circolare o del denaro contante. Ecco perché nasconde una ragnatela di filigrane al suo interno simili a quelle delle banconote, che impediscono ai malintenzionati di ritagliarne pezzi da uno e dall’altro per comporre un puzzle vincente. I falsi non verranno pagati, quindi ha senso comprare i Gratta e Vinci soltanto da rivenditori che si riforniscono direttamente da Lottomatica: ecco, mai accettare un biglietto da uno sconosciuto. E comunque, c’è una ragione per cui tabaccai e dintorni non devono mai improvvisarsi agenti della polizia scientifica e sezionare tentativi d’imitazione sospetti per mascherare le truffe: se un biglietto dà diritto a un premio, è scolpito nel codice a barre che l’accompagna. La sequenza equivale a una cassaforte di cui solo il cervellone informatico di Lakeland conosce la combinazione non indovinabile. Già, è milioni di volte più complessa di una lunga password alfanumerica per entrare nella posta o nel conto in banca. E poi il supercomputer non è connesso a internet, per rimanere immune agli attacchi degli hacker, quelli veri. È questo raffinato software, mai un essere umano, a decidere quali sono i biglietti fortunati e a spargerli nei pacchetti spediti in Italia e a loro volta inviati alle varie regioni. Passateci il termine pesante quanto un mattone, siamo di fronte a una randomizzazione controllata. Significa che il programma distribuisce le vincite a caso, spalmandone nel tempo. O meglio frazionandole in base ai cicli di stampa che, sommati, compongono un’intera lotteria. Così si evita che i premi compaiano tutti in una volta in pochi pacchetti, lasciando moltitudini di giocatori a bocca asciutta. È una delle tante garanzie di qualità fornite da Lottomatica, «che portano» ricorda Mastrogiacomo «enormi benefici in termini di sviluppo del mercato legale e della relativa emersione dall’illegalità di parti significative della raccolta di gioco». Girovagando per la fabbrica di Lakeland, oltre a prendere confidenza con gli ingranaggi del presente del Gratta e Vinci, se ne può intuire il futuro. Sbirciando per esempio tra i tagliandi stampati per gli altri Paesi, decisamente più eccentrici di noi: ci sono i biglietti che odorano di menta, pancetta, salse messicane e gomma da masticare; altri che stuzzicano le dita con rilievi glitterati e deliri policromatici. Un trionfo di fisicità che profuma, anche, di passato. Rappresenta una resistenza analogica, non grattabile via dall’unghia del tempo: «Dieci anni fa si pensava che questi prodotti sarebbero scomparsi o si sarebbero trasferiti nel mondo digitale. Invece sono ancora qui, il valore del loro mercato mondiale è raddoppiato e per i prossimi dieci anni mi aspetto un’ulteriore crescita» prevede il grande capo della struttura, il general manager Keith Cash (mai cognome fu più adatto al contesto). La ragione di tanto successo coincide con la loro materialità. «Si possono toccare, giocare subito o rimandare il momento» spiega Cash: «L’esito resta comunque predeterminato, però è celato. C’è sempre qualcosa di magico nascosto dentro un’incertezza».
· Slot, lotto, gratta e vinci: gli italiani giocano tanto.
Città in declino. Dopo il Casinò, niente: a Campione d'Italia sbancano solo i debiti. Il tempio di roulette e slot machines è fallito, il comune commissariato. E il primo gennaio l'ex capitale del gioco d'azzardo smette di essere area doganale svizzera e torna italiana in tutto, tranne che per le tasse. Gli abitanti temono che sia la batosta finale. Francesca Sironi il 17 dicembre 2019 su L'Espresso. In piazza Roma due tecnici stanno cambiando le luci dei lampioni. Alcuni abitanti seguono approvando: «Finalmente dei lavori, vorrà dire che il paese riparte?». Fra loro Enrico, cappotto grigio, basette bianche, croupier per una vita al Casinò che sovrasta la città in senso sia urbanistico che spirituale. «Mi ricordo quando mi chiesero di sedere accanto alla principessa Soraya perché parlavo inglese». La nostalgia non cede al naufragio. Campione d’Italia era l’exclave più ricca d’Europa; piccolo territorio italiano circondato dalla Svizzera e dal lago di Lugano, la collettività si è beata per decenni di un giacimento apparentemente inesauribile: il Casinò, appunto. Dal 2005 al 2018 le fiches lasciate ai suoi tavoli hanno versato 577 milioni di euro nelle casse pubbliche del Comune e dei suoi 1.900 residenti. Un record da far concorrenza ai sauditi. Ma di questa sovrabbondanza non restano altro che debiti. Nell’arco di un anno Campione ha perso tutto: il Casinò è stato chiuso dalla procura di Como per fallimento; il Municipio commissariato per dissesto finanziario. E adesso al declino economico si aggiunge «la batosta definitiva», grida la comunità: ovvero la chiusura dei confini intorno alla mini-exclave. Dal primo gennaio 2020 infatti la cittadina, che si estende per meno di tre chilometri quadrati e ha un’unica strada, non potrà più essere considerata area doganale svizzera, come avvenuto finora. All’inizio dell’anno, dopo mesi di trattative, Italia, Svizzera e Unione Europea hanno sancito infatti l’ingresso ufficiale nella Ue della piccola città, fino ad oggi dotata di uno statuto ibrido basato sulla consuetudine, con vita e servizi in franchi svizzeri e anagrafe italiana. Adesso invece la frontiera tornerà sovrana a tutti gli effetti. Nel parcheggio di fianco alla rotonda il commissario ha già prenotato tre posti auto per ospitare lo sbarramento di agenti. Erano l’unico spazio disponibile. Contro quella che chiamano «annessione» si mobilitano da mesi attivisti inconsueti: marketing manager, direttori di gioco e pensionati riuniti in un comitato civico che ha raccolto centinaia di firme. «La Gran Bretagna esce, e noi chiediamo all’Europa di entrare. È assurdo», scuote la testa un gioielliere. Chiedono che prima «dell’annessione» vengano risolti almeno i problemi pratici che dovranno affrontare i residenti - rifiuti, telefoni, immatricolazioni, ospedali, perfino la posta qui era a gestione elvetica: dal primo gennaio invece ogni raccomandata dovrà fare il giro internazionale. La scadenza per chiedere una proroga è scivolata però fuori dalle priorità dell’ex governo; ora non resta che adeguarsi al prossimo confine. «E chi lo spiega a mia madre che ha sempre pensato di essere svizzera», dice Ivan, anche lui ex croupier. Ha appena chiesto la concessione per diventare il primo rivenditore di tabacchi di Stato del comune. Il mese prossimo Campione tornerà d’Italia al cento per cento, fatta eccezione per le tasse: abitanti e attività potranno continuare a beneficiare di sconti su accise e imposte al consumo. Un privilegio prezioso, ma non sufficiente per alcuni imprenditori riuniti nella fronda “Ritornare Campione”. Per loro la dogana era un’occasione per rilanciare l’exclave portando «una fiscalità come alle Canarie, e un museo come a Bilbao». La loro mozione era sostenuta dall’eurodeputata Lara Comi. Dopo aver votato sì alla mozione europea sullo statuto della cittadina, la politica di Forza Italia (ora indagata per corruzione a Varese), dichiarò alle agenzie che il suo voto era «frutto di una lunga consultazione con gli operatori economici di Campione e con il presidente del consiglio regionale lombardo». I cittadini giurano di esser stati all’oscuro di ogni trattativa. Ma anche i maggiori sostenitori dell’isolamento doganale ammettono ora che l’idea di diventare un paradiso tax-free si è rivelata un boomerang. E non è l’unico. Campione sembra esser riuscita a trasformare la sua ricchezza in un modello sugli effetti distorti delle politiche clientelari. Il paese da 1900 abitanti (oltre a 2000 iscritti all’estero) aveva 103 dipendenti pubblici. Un milione di euro in cedolini, al mese. La giunta pagava 20 vigili urbani, elargiva stipendi record ai dirigenti, riconosceva indennità corpose ai lavoratori che arrivavano dall’Italia, «per adeguare le retribuzioni al costo della vita svizzero». Quando l’ex sindaco Roberto Salmoiraghi annuncia il dissesto finanziario del municipio, il 7 giugno del 2018, il municipio aveva accumulato debiti per 22 milioni e mezzo di euro. Non pagava funzionari e fornitori da mesi. Il commissario Giorgio Zanzi, ex prefetto di Varese, ha dovuto ridurre i dipendenti da 103 a 15, portandoli alla proporzione standard stabilita per legge. Tutto era in grande, a Campione. Roma ha stanziato 10 milioni di euro per la gestione dell’emergenza, l’anno scorso, visto che le casse del municipio sono vuote. Ma la maggior parte dei fondi deve essere girata immediatamente alle banche, per coprire il maxi-mutuo sottoscritto per il nuovo Casinò firmato dall’architetto Mario Botta. Il mastodonte, inaugurato nel 2007, è arrivato a costare il doppio del previsto. Fra costruzione e interessi la cifra è salita a quasi 190 milioni di euro. «Paghiamo rate da 500 mila euro al mese, ma solo per la nuda proprietà. Perché l’usufrutto è stato concesso alla società dei giochi fino al 2041», racconta il commissario: «In più c’erano gli anticipi di tesoreria. Un altro buco da 10 milioni da coprire». Solo da poco è riuscito a saldare alcuni fornitori, ad avviare manutenzioni (come i lampioni lungo il lago), a dare degli arretrati ai lavoratori. Salvatore, ufficio tasse e tributi, sbriga pratiche fra scrivanie vuote e polvere. Non riceve lo stipendio da 14 mesi. Marina, ex insegnante delle medie, non compra più il giornale perché 2 franchi e 90 al giorno sono una spesa che oggettivamente non si può permettere. Andrea con la Naspi non riesce nemmeno a pagare l’affitto. La signora Boni, casalinga, ha due figli disoccupati. La comunità è a pezzi. La capitolazione della città, iniziata dal Casinò, ha trascinato a domino la società. Le agenzie immobiliari hanno le insegne in cirillico, negli ultimi anni sono aumentati solo i cittadini russi, già 250.
Salvatore, impiegato del Comune, senza stipendio da 14 mesi. «L’ultimo panettiere ha chiuso a ottobre», racconta Sandra: «Non c’è un alimentari, un’attività. Solo bar». Non servivano altre aziende, prima, bastavano le fiches. Una fabbrica che non stava mai ferma. I tavoli da gioco vennero portati di notte dalla vecchia struttura alla nuova, prima dell’inaugurazione, per non perdere un’ora di puntate. Prima dell’indagine che ha svelato il crack, il Casinò era stato bloccato soltanto due volte. La prima durante la guerra, la seconda dopo l’operazione “San Martino”, l’11 novembre 1983, quando vennero arrestati i gestori di Sanremo e Campione. Gli all-in erano usati per riciclare denaro sporco. Il vertice del business, sul lago, era Ilario Legnaro. Un uomo vicino a Nitto Santapaola, boss di Cosa Nostra a Catania, 18 ergastoli. Il sanguinario pentito di mafia Giovanni Brusca racconta che Santapaola diede a Legnaro, condannato per associazione a delinquere, «una mano d’aiuto nell’aggiustamento dei problemi che erano sorti in questo Casinò». Dopo il processo, il management tornò pubblico e i soldi fluivano. Oltre 100 milioni di ricavi, gli spazi per l’azzardo più grandi d’Europa, 500 dipendenti con un «tasso di assenteismo molto alto», segnala l’ultimo bilancio, 50 milioni di euro di stipendi. Poi c’erano gli assegni da versare al Comune per sostenere le spese municipali e i fondi che venivano mandati, negli anni d’oro, alle province di Como, Lecco. E al ministero dell’Interno, dove erano messi a disposizione delle amministrazioni del Sud, ma non solo: «Tutte le case da gioco - come voi ben sapete - versano fondi sottobanco al ministro dell’Interno, che servono per i servizi segreti. È inutile nascondersi dietro ad un dito», notava l’ex deputato Cesare Rizzi durante un’interrogazione parlamentare su Campione. Nell’ultimo bilancio, la sala da gioco dichiarava 92,8 milioni di ricavi. La maggior parte dalle 780 slot machines in leasing su cui si riversavano 700 mila persone l’anno. Le macchinette tenevano, ma roulette e blackjack erano in crollo, la concorrenza dei video-lottery e del gioco online schiacciava il fatturato. E le spese non accennavano a diminuire. Il procuratore di Como Pasquale Addesso ha scoperchiato un buco da 176 milioni di euro, accumulato in silenzio per anni. Fra gli indagati per bancarotta preferenziale è stato iscritto anche l’ex sindaco Roberto Salmoiraghi. L’indagine partiva da un esposto che aveva presentato lui stesso mentre era consigliere comunale di minoranza. Da giugno dell’anno scorso l’ingresso insostenibile per le limousine è chiuso, le stanze vip sbarrate, i cinesi, speranza dell’exclave, vanno a giocare a Lugano. In piazza Roma c’è un presidio fisso con gli striscioni e le panche per le assemblee. Il comitato civico per tenere unita la comunità almeno contro lo shock della dogana e le sue conseguenze. Alcuni dei partecipanti alle manifestazioni sono stati segnalati per blocco stradale, sull’unica strada che fra poco sarà isolata da una barriera.
Serena Guatta, la mamma che vive di sconti e fa spesa e vacanze gratis. Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 su Corriere.it da Elvira Serra. Ha 37 anni e un figlio. Dedica parte della giornata a cercare voucher e buoni online. «Mi sono licenziata perché mi conveniva stare a casa». L’ultimo premio che ha vinto sono diecimila euro da donare a un comune a sua scelta per riqualificare o ampliare un parco giochi. «Ho destinato la somma a Muscoline, dove vivo. Ha un bel parco in cui porto mio figlio Daniel a giocare. Magari con quei soldi si possono aggiungere dei giochi o ingrandire l’area destinata ai picnic». Quella di Serena Guatta, ragioniera di 37 anni nata a Gavardo, nel Bresciano, non è fortuna, ma applicazione scientifica. Ogni giorno, dopo aver portato il bambino all’asilo, si dedica al «giro dei supermercati», operazione fondamentale perché «un coupon con cinquanta centesimi di sconto ti fa risparmiare di più se trovi lo stesso prodotto a meno». Il che richiede un certo impegno e trasferte nei comuni limitrofi. «Ma uso i buoni benzina». «Ho cominciato quando sono rimasta incinta di mio figlio, per un discorso di risparmio puro», racconta al Corriere per telefono. «Avevo tempo e mi sono accorta che il risultato era significativo. Quando poi sono tornata al lavoro ho fatto due conti. Il mio stipendio part time da ragioniera nello studio di un commercialista era pagato 950 euro al mese, contando gli assegni familiari, tredicesima e quattordicesima. Netti erano circa 650, pari al risparmio che avevo imparato ad accumulare ogni mese dedicandomi alla ricerca di offerte, coupon, voucher. Così ho deciso di licenziarmi». All’inizio il suo compagno Davide, che di mestiere fa il tassista del noleggio con conducente, la prendeva per matta. «Più che altro si spazientiva di vedermi sempre attaccata al cellulare o al computer alla ricerca dell’offerta migliore. Poi si è dovuto arrendere quando sono arrivati i risultati». Risultati che si possono contabilizzare nella sua pagina Facebook o nel profilo Instagram: scorrendo solo gli ultimi, troviamo una planetaria vinta con un concorso della Conad, una spesa di prodotti alimentari fatta da Bennet del valore di 26,98 euro e pagata 1,98 grazie alla gift card da 25 vinta con Santa Rosa, un voucher di 100 euro da spendere sul sito Volaregratis vinto con lo yogurt Scaldasole. «Ah, ma il premio di cui sono più orgogliosa, perché tutti mi dicevano che era una truffa, è stata una bellissima Vespa bianca vinta con i Tampax. Quando è arrivata a casa ero felicissima, poi usandola mi sono accorta che avevo paura e l’ho dovuta rivendere», prosegue elencando il suo catalogo di premi. Con lo stesso metodo, è andata in vacanza a Ibiza e ha trascorso quattro notti in un hotel cinque stelle di Firenze con Spa. «Domenica, invece, partiremo per Napoli, dove unendo i premi di tre smartbox resteremo 8 giorni spendendo solo per i pasti». A breve, per fare un altro esempio, comprerà un giocattolo a suo figlio, per Santa Lucia. «Ho un buono regalo da 50 euro e al supermercato Bennet se acquisti un dono per i bambini ti restituiscono la metà in buoni spesa. In questo modo mi torneranno indietro venticinque euro senza sborsare nulla». Serena sorride se le si fa notare di essere praticamente diabolica. «Ma no, nei super mi sembrano tutti carini e gentili», assicura. Tutti questi premi, poi, non li tiene solo per sé. «Adesso non vedo l’ora che arrivi Natale così riesco a smaltire tutti i pacchi che mi stanno riempiendo casa. Tempo fa, per dire, avevo vinto un tavolo da biliardino che ho tenuto usandolo come tavolo da cucina. Poi ne ho vinto un altro, e quello l’ho regalato a un mio amico che mi cede sempre i suoi buoni». Perché in questo gioco funziona che l’unione fa la forza. «Con le altre ragazze ci segnaliamo le offerte più interessanti sui gruppi Facebook “Risparmiando” e “Scontomaggio”. Poi c’è da dire che partecipo più volte allo stesso concorso con i nomi di tutti i parenti, che ormai lo sanno, anzi, è come se facessi il lavoro anche per loro». L’ultimo grosso acquisto sono stati 60 detersivi Bio Presto. «Li tengo in garage. Comprandoli un certo giorno ti restituivano il corrispettivo in buoni spesa». Ormai con il suo bancomat spende per gli alimentari tra i 100 e i 150 euro al mese. E adesso sta tenendo d’occhio le Xbox che sono in palio con le Pringles. «Ma ho già vinto una Nintendo Switch con il detersivo Ace e la Playstation con dei buoni Amazon». Serena e il suo compagno Davide non sono sposati. «Non è all’ordine del giorno. Ma se trovo un concorso con matrimonio tutto pagato, è la volta buona che mi decido!».
Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 29 novembre 2019. Ludopatia: la prendiamo alla lontana, se non vi dispiace. L' esempio più noto è quello dello Stato che ha il monopolio dei tabacchi e poi fa le campagne contro il fumo: un esempio di perfetta incoerenza, anche se ora, ufficialmente, il Monopolio non esisterebbe più. I famosi bolli, sulle sigarette, sono scomparsi: però ci sono le immaginette terrorizzanti obbligatorie per legge (infartuati, bambini morti ecc.) e soprattutto ci sono un sacco di tasse residue. Per ogni pacchetto di sigarette, poniamo da 5 euro, il tabaccaio prende 0,50 centesimi (il 10 per cento), il fornitore ne prende 70 e poi ecco, arriva lo Stato: 2,90 euro di accisa più altri 0,90 di Iva. Dovrebbero fare circa 8 miliardi all' anno, e, nonostante le campagne che lo stesso Stato conduce, è la classica battaglia che lo Stato non vorrebbe mai vincere. Parentesi: non stiamo contando la spesa sanitaria per i danni da fumo, terreno ambiguo e buono per sparare cifre a caso. Però, ecco, resta il concetto: è ormai condiviso che il fumo generi malattie, ma nessuno giudica malattia la dipendenza da tabacco, e questo nonostante la dipendenza sia legata a precise sostanze. Nel caso della ludopatia, invece, sì. Hanno stabilito che sia una malattia (ludopatia, appunto) nonostante riguardi un' abitudine e un comportamento portato all' eccesso, questo secondo ciò che lo stesso Stato definisce come eccesso. Che cosa, esattamente, lo Stato giudica un eccesso? Sicuramente non i propri guadagni: la «malattia» gli frutta 15 miliardi di tasse all' anno, e, in circa 20 anni, i giochi pubblici hanno registrato circa 275 miliardi spesi (dai cittadini, intesi come i malati) e, di questi, circa 158 miliardi hanno rappresentato entrate pubbliche, mentre 117 miliardi sono convogliati nei ricavi dell' intero comparto. Media annua: fanno 13,7 miliardi spesi dai malati, di cui circa 8 miliardi corrispondono a entrate pubbliche e di circa 5,8 miliardi servono per pagare il comparto, cioè pagare gli spacciatori (di malattie) che lo Stato stipendia. Se l' esempio fosse calzante, potremmo dire che lo Stato si comporta come le multinazionali di «Big Pharma», quelle che ogni anno inventano nuove malattie per piazzare i relativi farmaci. Ma l' esempio non è calzante per niente, perché la ludopatia non è una malattia: è comunque un' abitudine, un comportamento, in altre parole uno stile di vita tra i tanti che la sanità mondiale e gli stati (ipocriti) hanno deciso di combattere, a costo di restringere progressivamente le nostre libertà. Che cos' è, infatti, la ludopatia? È un irrefrenabile bisogno di giocare, un' attitudine che comporta continui cambiamenti di umore e rende preda di repentini passaggi da euforia a depressione. In un' altra parola, è una banale ossessione: e tutti noi conosciamo o abbiamo conosciuto persone ossessionate da qualcosa, da un hobby, uno sport, una passione, un luogo, un cibo, un lavoro, una persona o altre ossessioni, appunto: ma sarebbe impossibile catalogarle in toto come malattie, dunque si procede discrezionalmente, prestabilendo a tavolino ciò che si decide sia patologico ed emergenza sociale. Ora: chi abbia un' anima libertaria si spingerebbe a dire che la vita appartiene a ciascuno, dunque che ciascuno dovrebbe esser libero di sperperare tutta la propria pensione in una slot-machine o in un video-poker, se crede: ciò farà di lui non un malato, ma un cretino, qualcuno che nessuna «campagna» potrà dissuadere. Solo gli stati totalitari possono arrogarsi il diritto di porre divieti agli stili di vita: ma conosciamo gli esiti disastrosi e controproducenti di tutti i proibizionismi, ergo che fa lo Stato italiano? Per dirlo in maniera raffinata: chiagne 'e fotte. Uno stato serio vieterebbe in toto le pubblicità con giochi e vincite di denaro: non si limiterebbe, come fa, a porre dei limiti parziali. Uno stato serio - invece di passare ai raggi X solo i contribuenti - renderebbe obbligatoria un' anagrafe patrimoniale di qualsiasi giocatore o scommettitore, che altrimenti non potrà giocare né entrare in luoghi o siti dove si gioca. Ma noi non siamo legislatori, non è questo il punto. Il punto è che non si può medicalizzare la società a seconda delle emergenze sociali. Un' ossessione, a meno di casi clamorosi, non può essere definita malattia, e una dipendenza psicologica neppure. Eppure l' Organizzazione Mondiale della Sanità (organismo che più politico non si può) ha recentemente classificato la ludopatia come «malattia mentale»; nel caso di giovani si parla di «gaming disorder», nel caso degli anziani si àddita gente che punta cifre esagerate al Superenalotto e investe somme importanti nei gratta&vinci. E siccome nessuno può essere proibito di essere cretino o rincoglionito, allora gli spiegano che è drogato dopo avergli allungato la dose. Anzi non drogato: malato. Lo Stato continuerà a orientare gli stili di vita guadagnandoci anche dei soldi, e propinandoci, intanto, ipocrite campagne come «Mettiamoci in gioco», «Punta in alto», «Batti il gioco», «Quando la vita è un gioco è in gioco la vita», «Vinci solo quando smetti», «Non giocarti gli affetti», «Non azzardatevi!», «La macchinetta frega anche la vecchietta». Nella speranza che al famoso cittadino - noi - resti banalmente la forza di essere quello che vuole essere.
LA CUPOLA DEI COUPONISTI. Andrea Cuomo per ''il Giornale'' il 30 agosto 2019. C'è un'Italia che la crisi economica la affronta a colpi di forbici e stampante. Un' Italia che cerca fortuna nei concorsi. Non quelli che mettono in palio un posto da bidello o da usciere, ma quelli che ti fanno conquistare un phon o uno shampoo o una macchina per fare il pane. Quando va bene un viaggio. L' Italia di cui parliamo in realtà sono due: quella dei «concorsisti» e quella dei «couponisti». I primi sono quelli che partecipano ai concorsi a premi indetti da un' azienda di solito a fronte dell' acquisto di un prodotto. I secondi sono quelli che approfittano dei buoni sconto trovati su giornali e volantini o scaricati da internet per riempirsi la dispensa con poca spesa. Una delle più alacri concorsiste italiane, Valeria, che vive a Finale Emilia e che incontriamo in Olanda in un viaggio omaggio messo in palio da un birrificio, ci mostra una fotografia di una stanza con scaffali ricolmi di ogni bendidio. Un supermercato quasi gratuito direttamente in casa. Di solito i due popoli coincidono. Anzi, il coupon è considerato la malattia infantile del concorso. Concorsisti e couponisti «professionisti» sono qualche migliaio in Italia, secondo un calcolo spannometrico fatto da Francesco Rosi, inventore e curatore di «Scontofferta», uno dei tanti tra siti e pagine facebook attraverso i quali si scambiano informazioni e consigli. Lui è un teorico dei concorsi e classifica gli appassionati in estemporanei, professionisti e malati, quelli che sono ai confini con la «ludopatia» (parola sua). E ha una convinzione: «Tutti coloro che partecipano e vincono con costanza poi rivendono la merce». Però anche lui ha trovato modo di guadagnare dalla coupomania: il suo sito infatti - grazie anche al fatto che ha lungamente studiato il «seo», l' ottimizzazione della collocazione nei motori di ricerca - è molto visitato e questo gli consente di monetizzare. Al punto che otto anni fa ha lasciato il suo lavoro da ingegnere elettronico per dedicarsi a tempo pieno al risparmio. Nella pagina facebook si succedono avvisi come «In palio subito i buoni da 70 (anche sbagliando la risposta)» e foto di scontrini in cui un ammontare di 233,38 euro si liquefà in appena 6,97 grazie alla voce «pagamento buoni forniti» pari a 226,41. Un' altra guru della community di Scontopoli è tale Anna Nicosia, blogger di risparmiareconicouponsipuo (ma con i caratteri evidentemente no). Altri siti di riferimento salvarisparmio.com, omaggiomania.com e tanti altri. Quello che abbiamo capito parlando con i concorsisti e ascoltando i racconti di Rosi è che essi si considerano a metà tra i punk e i terroristi del commercio: sfruttano i «bachi» del sistema per riempirsi il frigorifero ma alla fine sono vittime essi stessi del meccanismo infernale del consumismo, che ti porta ad accumulare cose di cui non hai bisogno solo per il gusto del gratis a tutti i costi. Come che sia, per essere dei buoni «concorsisti» ci vogliono alcuni skill: pazienza, costanza, precisione, furbizia (ma chi ha tutte queste cose non potrebbe metterle a frutto in altro modo?). I comandamenti del concorsista (e del couponista) sono: frequenta tutti i siti che segnalano concorsi e cerca di capire quali sono quelli a cui vale la pena partecipare; sii disposto a investire una piccola cifra per partecipare a un concorso ma non comprare mai nulla che non ti serva; crea una mail apposita per i concorsi se non vuoi vedere la tua casella principale invasa dallo spam; controlla molte volte al giorno la casella dedicata; non ti distrarre mai, soprattutto al supermercato; leggi sempre bene qualsiasi regolamento; studia sempre il numero dei premi erogati ogni giorno e cerca di capire se c' è un orario favorevole; nel dubbio partecipa di mattina o addirittura all' alba (narrano di una giovane donna che partecipava ai concorsi online di notte, allattando il figlio); sii sempre tempestivo; sii costante; e presta attenzione alle truffe. Perché anche gli hacker dello sconto ogni tanto sono hackerizzati.
Slot, lotto, gratta e vinci: gli italiani giocano tanto. E perdono sempre. Pubblicato mercoledì, 24 aprile 2019 da Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Corriere.it. Agli italiani piace scommettere. Nel 2017 ci siamo giocati 101,8 miliardi, ma se contiamo che, secondo il Cnr, i giocatori in Italia sono 17 milioni, ognuno di loro ha speso 5988 euro. Il gioco d’azzardo non ha risentito della crisi: oggi si gioca il 20% in più rispetto agli 84,3 miliardi del 2014. Se si torna indietro di dieci anni la crescita è del 241,5%, e si torna al 1993, quando si giocò in un anno l’equivalente di 8,79 miliardi di euro, la crescita è del 1.158%!Fino agli inizi degli anni ‘90 c’erano solo Totocalcio, Lotto, Totip e lotterie nazionali. Per chi voleva quale emozione in più c’erano i casinò: quattro in tutta Italia (Campione d’Italia, Sanremo, Saint-Vincent e Venezia) e bisognava andarci pure in giacca e cravatta. Tutto cambia fra il 1993 e il 1994. I governi, Amato prima e Ciampi dopo, sono alla ricerca di nuove entrate per garantire la spesa pubblica. Viene modificato il modello di regolamentazione del gioco pubblico d’azzardo, che diventa uno strumento per incrementare le entrate erariali dello Stato. Nascono le lotterie istantanee: la prima è del 21 febbraio 1994. Da lì in poi nessun esecutivo tornerà indietro: l’estrazione del Lotto diventa bisettimanale (governo Prodi 1997) e poi trisettimanale (Berlusconi 2005). Il primo governo Prodi autorizza l’apertura delle sale scommesse, il secondo l’azzardo on line. Berlusconi introduce le slot machine nei bar, il gratta e vinci, le videolottery, 1000 sale poker, 7000 punti scommesse ippiche, nuovi giochi numerici, tutti accompagnati da pesanti campagne pubblicitarie. Nel 2011 era pronto il decreto anche sui «giochi di sorte», reclamizzati così: «Quando vai a fare la spesa al supermarket, non ritirare il resto, giocatelo». Non entrò in vigore perché Monti lo bloccò. Sta di fatto che i luoghi dove giocare e vincere si moltiplicano e internet ce li porta dentro casa con i casinò on line e i siti di scommesse. Dei 101,8 miliardi del 2017 circa l’80%, va in vincite (82,9 miliardi), il resto allo Stato e ai concessionari: rispettivamente 10,3 e 8,6 miliardi di euro. I concessionari sono soggetti privati che hanno vinto un bando di gara. Le tipologie di gioco sono di due categorie. Lotto, Enalotto e lotterie sono affidati a un unico concessionario, gli altri giochi a più concessionari: 225 per le scommesse sportive e ippiche, 89 per i giochi on line, 11 per i gratta e vinci, 202 per slot e bingo. Il sistema funziona solo se riesce a garantire un continuo rinforzo della dipendenza da gioco con la ripetitività: tanti gratta e vinci acquistati uno via l’altro, centinaia di monete reimmesse nella slot-machine, molte ore da trascorrere davanti a un terminale, getto continuo di microscommesse sugli eventi sportivi. Se il ritmo diminuisse, infatti, si giocherebbero meno somme con un effetto domino sulle entrate dell’Erario e sui volumi introitati dalla filiera. Per questo negli anni si è deciso di aumentare il numero delle microvincite e contemporaneamente, per garantire un flusso costante a Erario e a concessionari, si è continuato a espandere il mercato con nuovi giochi. Tutto questo comporta un gioco al rialzo della stessa filiera: più debiti (per anticipazioni, fidejussioni, strumentazione e sedi) e, di conseguenza, maggiore esposizione con le banche e utilizzo di prodotti finanziari come bond o derivati. Negli ultimi anni lo Stato ha incassato dagli 8 ai 10 miliardi di euro in tasse dai giochi. Ma quanto spende per i danni da gioco patologico? L’azzardopatia, secondo il Coordinamento nazionale gruppo per giocatori d’azzardo Conagga, costa dai 5,5 ai 6,6 miliardi di euro. Le cifre derivano da un calcolo dei costi sanitari diretti, stimati in 85 milioni di euro, e di quelli «indiretti (perdita di performance lavorativa del 28% rispetto ai non giocatori, perdita di reddito)», che variano «dai 4, 2 ai 4, 6 miliardi di euro». Poi ci sono i «costi per la qualità della vita» (tra cui problemi che ricadono sui familiari e rischio di aumento di depressione), stimati «tra i 1,4 e 1,8 miliardi di euro». A questi si aggiungono i costi non facilmente stimabili legati al peggioramento delle condizioni delle persone più fragili e povere e all’incremento delle separazioni e dei divorzi. Pesano poi i costi legati alla criminalità, alle truffe allo Stato, alla crescita del ricorso all’usura. La stima arriva a 14 miliardi di euro all’anno, secondo il consulente della Consulta Nazionale Antiusura Maurizio Fiasco. Alla fine, il saldo per lo Stato è negativo. Al fianco di jackpot milionari, i giochi garantiscono piccole e frequenti vincite a una maggioranza di giocatori. Vincite illusorie perché a conti fatti il saldo è passivo, ma che hanno l’effetto di garantire il ritorno della persona al consumo di gioco, con quantità crescenti di tempo e denaro versato. Gran parte delle attuali concessioni arriveranno a scadenza nel 2022. E allora si faranno nuove gare. Con che regole? La prima novità è stata introdotta dal cosiddetto Decreto Dignità che ha vietato la pubblicità di giochi o scommesse con vincite di denaro su qualunque mezzo, di diffusione di massa, internet compreso. Dal 1 gennaio 2019 il divieto vale anche per le sponsorizzazioni di eventi, prodotti e tutte le altre forme di comunicazione di contenuto promozionale. Poi è arrivata la Legge di Bilancio che ha diminuito gli introiti per i concessionari. Bene, ma la piaga sociale legata al gioco patologico, richiede prima di tutto un ruolo più attivo da parte delle istituzioni. Ci hanno provato alcuni governatori e alcuni sindaci. In Abruzzo, Liguria, Alto Adige, Piemonte e Calabria la distanza minima dai «luoghi sensibili» (scuole, strutture sociosanitarie, centri di aggregazione giovanile, centri anziani) è di 300 metri, che diventano 500 in Piemonte, Lombardia, Marche, Umbria, Lazio, Emilia Romagna e Friuli. In Trentino, Friuli, Marche e Piemonte la legge regionale autorizza i Comuni a vietare l’installazione di slot machine in alcune aree circoscritte per motivi di sicurezza urbana, viabilità e inquinamento acustico. La legge regionale in Valle d’Aosta e Marche attribuisce ai Comuni anche il potere di dettare limitazioni all’orario di apertura. A Genova, Ravenna, Roma, Spresiano sono intervenuti i sindaci: quello di Bergamo, Giorgio Gori, è stato il primo a chiudere le sale slot in città. Alcuni Comuni si sono consorziati fra loro per adottare la stessa normativa: è successo nel Miranese, in provincia di Venezia (Scorzè, Martellago e Spinea), in provincia di Biella (Mosso, Soprana, Trivero e Valle Mosso) e nell’area metropolitana occidentale di Torino (Pianezza, Collegno, Grugliasco, Venaria Reale, Druento, Sangano, Alpignano, Rosta). Manca ancora, invece, una vera strategia nazionale di prevenzione che riduca il fenomeno, e di contrasto della criminalità organizzata. «Il proibizionismo nel gioco, così come in altri settori – ha dichiarato il presidente di Lottomatica Fabio Cairoli – ha come unico effetto diretto il rifiorire del settore in terreni occulti e spesso illegali». Un rapporto del 2014 prodotto dal sociologo Maurizio Fiasco, esperto della Consulta Nazionale Antiusura, dimostra come i due mercati (legale e illegale) non si separano e non entrano in concorrenza, ma si potenziano reciprocamente. In sostanza quando si espande l’uno, si espande pure l’altro. Certo è che proibire non risolve, ma autorizzare il proliferare di sale gioco nei quartieri più poveri e nelle periferie più disgraziate, non aiuta a governare il fenomeno.